IL SEICENTO · 2019. 9. 10. · IL SEICENTO Il secolo XVII viene spesso presentato come un'epoca di...

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IL SEICENTO Il secolo XVII viene spesso presentato come un'epoca di profonda crisi, tale da ricordare, per certi versi, il Trecento, che rappresenta uno dei momenti più drammatici dell'intera storia europea. In effetti, ad uno sguardo superficiale, il Seicento sembra replicare le dinamiche di tre secoli prima: forte raffreddamento climatico, calo della popolazione, peste e lunghe guerre. Stando tali premesse, dunque, dipingere il Seicento come un secolo di crisi non rappresenterebbe affatto un errore. E tuttavia, ad uno sguardo più profondo, si nota come il progresso iniziato cento-centocinquanta anni prima non si arresta per nulla, anzi prosegue e si accentua. L'unico fattore di crisi (che interessa l'intera Europa) è sicuramente il trend demografico, ma è bene anche ricordare come il calo segua una crescita più che secolare. E comunque non si tratta di un crollo demografico, come invece è accaduto nel Trecento. Anche la diminuzione dei prezzi che ne consegue, non arresta certo la crescita economica avviatasi nel Cinquecento, anzi, pone le condizioni per un nuovo decollo, che di lì a pochi decenni sfocerà nella rivoluzione industriale. È poi non del tutto corretto considerare il progresso come fattore esclusivamente positivo, altrimenti il XX secolo sarebbe da considerarsi a tutti gli effetti come un'epoca negativa, con tutto il suo carico di morti, stragi, genocidi e via dicendo. Per offrire un quadro esaustivo di questo periodo, dunque, occorre un'analisi dettagliata dei più disparati aspetti della vita sociale dell'epoca, a partire proprio dall'economia. L'ECONOMIA Nel Trecento si era manifestato un brusco mutamento climatico, che gli storici hanno definito in termini di “piccola era glaciale”, la quale in pochi anni mette fine al cosiddetto “optimum medievale”. Fu quella piccola glaciazione ha determinare un forte calo della popolazione, accentuata poi dalle pestilenze e dalle guerre. Nel corso del Quattrocento ed almeno fino alla metà del secolo successivo, però, le condizioni climatiche migliorano. E tuttavia, questo non significa un ritorno all'optimum medievale: sebbene le temperature tenadano ad aumentare, non si tornerà mai più alle condizioni dell'epoca precedente. Inoltre, già a partire dalla metà del secolo il clima torna a farsi particolarmente freddo, toccando minime negative mai registrate ne settecento anni precedenti. Dunque, il clima del Seicento è decisamente peggiore di quello del Trecento, ma gli effetti sono decisamente meno drammatici e più articolati per area geografica. Naturalmente, il mutare delle condizioni climatiche si abbatte (come accade ancora oggi) sul settore agricolo. Sebbene quest'ultimo sia nettamente migliorato rispetto a due secoli prima, rimane ancorato a tecniche di coltivazioni ancora arcaiche. La rotazione triennale, che consente a turno di fare riposare un terzo del terreno (il cosiddetto maggese, che viene adibito a pascolo) può poco o nulla di fronte agli agenti atmosferici avversi, in primo luogo alle brinate fuori stagione, ai lunghi periodi di siccità, alle grandinate. Insomma, nel Seicento l'uomo è ancora in balia della natura: la perdita di un raccolto può essere, almeno in parte, compensata dalle scorte dei precedenti raccolti, ma quando le annate cattive si susseguono (come avviene a partire dalla seconda decade del secolo) non c'è verso di arrestare il peggiore dei mali di allora, la carestia. E a partire da questo momento che il trend demografico rallenta e non tanto per l'aumento della mortalità, che si accentuerà in un secondo momento, quanto per la diminuzione della natalità. Quell'ottimismo che aveva portato i giovani del secolo precedente a sposarsi e fare figli molto presto, lascia il posto ad un pessimismo sempre più radicale, che li porta a ritardare di continuo il matrimonio e la messa al mondo dei figli. Ma le condizioni climatiche peggiorano e presto alla

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  • IL SEICENTO

    Il secolo XVII viene spesso presentato come un'epoca di profonda crisi, tale da ricordare, per certi versi, il Trecento, che rappresenta uno dei momenti più drammatici dell'intera storia europea. In effetti, ad uno sguardo superficiale, il Seicento sembra replicare le dinamiche di tre secoli prima: forte raffreddamento climatico, calo della popolazione, peste e lunghe guerre. Stando tali premesse, dunque, dipingere il Seicento come un secolo di crisi non rappresenterebbe affatto un errore. E tuttavia, ad uno sguardo più profondo, si nota come il progresso iniziato cento-centocinquanta anni prima non si arresta per nulla, anzi prosegue e si accentua. L'unico fattore di crisi (che interessa l'intera Europa) è sicuramente il trend demografico, ma è bene anche ricordare come il calo segua una crescita più che secolare. E comunque non si tratta di un crollo demografico, come invece è accaduto nel Trecento. Anche la diminuzione dei prezzi che ne consegue, non arresta certo la crescita economica avviatasi nel Cinquecento, anzi, pone le condizioni per un nuovo decollo, che di lì a pochi decenni sfocerà nella rivoluzione industriale. È poi non del tutto corretto considerare il progresso come fattore esclusivamente positivo, altrimenti il XX secolo sarebbe da considerarsi a tutti gli effetti come un'epoca negativa, con tutto il suo carico di morti, stragi, genocidi e via dicendo. Per offrire un quadro esaustivo di questo periodo, dunque, occorre un'analisi dettagliata dei più disparati aspetti della vita sociale dell'epoca, a partire proprio dall'economia.

    L'ECONOMIANel Trecento si era manifestato un brusco mutamento climatico, che gli storici hanno definito in termini di “piccola era glaciale”, la quale in pochi anni mette fine al cosiddetto “optimum medievale”. Fu quella piccola glaciazione ha determinare un forte calo della popolazione, accentuata poi dalle pestilenze e dalle guerre. Nel corso del Quattrocento ed almeno fino alla metà del secolo successivo, però, le condizioni climatiche migliorano. E tuttavia, questo non significa un ritorno all'optimum medievale: sebbene le temperature tenadano ad aumentare, non si tornerà mai più alle condizioni dell'epoca precedente. Inoltre, già a partire dalla metà del secolo il clima torna a farsi particolarmente freddo, toccando minime negative mai registrate ne settecento anni precedenti.

    Dunque, il clima del Seicento è decisamente peggiore di quello del Trecento, ma gli effetti sono decisamente meno drammatici e più articolati per area geografica. Naturalmente, il mutare delle condizioni climatiche si abbatte (come accade ancora oggi) sul settore agricolo. Sebbene quest'ultimo sia nettamente migliorato rispetto a due secoli prima, rimane ancorato a tecniche di coltivazioni ancora arcaiche. La rotazione triennale, che consente a turno di fare riposare un terzo del terreno (il cosiddetto maggese, che viene adibito a pascolo) può poco o nulla di fronte agli agenti atmosferici avversi, in primo luogo alle brinate fuori stagione, ai lunghi periodi di siccità, alle grandinate. Insomma, nel Seicento l'uomo è ancora in balia della natura: la perdita di un raccolto può essere, almeno in parte, compensata dalle scorte dei precedenti raccolti, ma quando le annate cattive si susseguono (come avviene a partire dalla seconda decade del secolo) non c'è verso di arrestare il peggiore dei mali di allora, la carestia. E a partire da questo momento che il trend demografico rallenta e non tanto per l'aumento della mortalità, che si accentuerà in un secondo momento, quanto per la diminuzione della natalità. Quell'ottimismo che aveva portato i giovani del secolo precedente a sposarsi e fare figli molto presto, lascia il posto ad un pessimismo sempre più radicale, che li porta a ritardare di continuo il matrimonio e la messa al mondo dei figli. Ma le condizioni climatiche peggiorano e presto alla

  • carestia si aggiungerà la peste, per non parlare delle guerre, con la conseguenza che molti giovani decidono di non sposarsi e di non mettere al mondo dei figli. E il trend demografico si arresta, determinando un brusco calo dei prezzi, venendo a mancare all'offerta il sostegno della domanda. Ma i cattivi raccolti e le carestie hanno effetti nefasti anche sulla salute della popolazione europea, che si trova dunque, in quanto malnutrita, maggiormente esposta al rischio di contrarre malattie, in particolare la peste. Non che questa fosse completamente scomparsa nei centocinquantanni precedenti, tutt'altro, ma lo aveva fatto in maniera episodica. Ora, complice un clima sempre più freddo e un'agricoltura incapace di sfamare la popolazione, lo fa in grande stile. Significativo in tal senso il dato della città di Londra, nella quale si contano quasi settanta epidemie di peste nel corso del Cinquecento, cinquantotto delle quali solamente nella seconda metà del secolo. La situazione peggiora decisamente nel Seicento, soprattutto a partire dagli anni Venti. In questo caso il clima c'entra solamente in parte: l'impennata delle epidemie (con annessa impennata delle morti) di peste risponde ad un'altra dinamica, molto meno naturale della precedente, la guerra. Nel Seicento scoppia infatti uno dei più spaventosi conflitti della storia europea, la Guerra dei Trent'Anni, che alcuni storici hanno definito come la “prima vera guerra mondiale europea”, che devasta molti territori del Vecchio Continente, in particolare quelli della Mittel Europa. Ebbene, questa guerra scoppia nel 1618 e terminerà solamente nel 1648. Ed è proprio in questo lungo lasso di tempo che la peste miete il maggior numero di vittime. È significativo che dalla conclusione del conflitto fino alla fine del secolo si conteranno solamente tre significative pestilenze: nel 1665, nel 1667 e nel 1668. D'altro canto, a dimostrazione dello stretto rapporto tra il dilagare della peste e la guerra che sconvolge parte dell'Europa, ci sono i dati disgregati per area geografica: man mano che ci si avvicina all'epicentro del conflitto, vale a dire ll'area germanica e l'area carpatico-danubiana, il numero dei morti di peste aumenta in modo significativo. Prendiamo il caso dell'Italia: la nostra penisola viene letteralmente divisa in due dal conflitto. A sud non si registrano significativi combattimenti tra gli eserciti, mentre a nord del Po la guerra dilaga, in particolare in Lombardia e in Veneto. Questi i dati relativi ai decessi per la peste durante la guerra:

    CITTA' POPOLAZIONEprima della guerra

    POPOLAZIONEdopo la guerra

    VARIAZIONE %

    VENEZIA 143000 98000 -31

    PADOVA 40000 21000 -47

    VERONA 56000 21000 -63

    MILANO 130000 64000 -50

    MANTOVA 39000 9000 -77

    BOLOGNA 62000 47000 -24

    FIRENZE 70000 63000 -10

    Il Nord, dunque, viene enormemente penalizzato dal conflitto e letteralmente falcidiato da numerose epidemie di peste, una delle quali raccontate da Alessandro Manzoni ne I Promessi Sposi.Gli effetti del drammatico mix di raffreddamento climatico, calo della popolazione, peste e guerra non sono dunque eguali in tutto il continente. E tuttavia è bene noin giungere ad affrettate conclusioni: non è che laddove non vi siano state guerre e l'incidenza della peste sia stata minore vi sia stato un maggiore progresso rispetto alle zone falcidiate da questi due fattori. Al contrario, il Seicento è decisamente un secolo di crisi per le zone più orientali del continente, che proseguono, dunque, nella loro decadenza, già avviata durante il Cinquecento, quando scontarono la lontananza dai principali traffici commerciali atlantici, nonché un sistema economico decisamente arretrato. E, a ben guardare, anche in Italia accade che siano proprio le zone settentrionali, quelle cioè più colpite da guerra e pestilenze, a progredire più di quelle meridionali e per ragioni simili a quelle descritte per l'Est Europa. E la stessa cosa accade – in maniera decisamente più accentuata – per le aree del Nord Europa, sebbene direttamente interessate dal conflitto. Nazioni come l'Inghilterra, l'Olanda o la Francia, affrontano la crisi determinata dal mutamento climatico, in particolare il crollo dei prezzi, ben prima dello scoppio della Guerra dei Trent'Anni, rafforzando notevolmente le pratiche coloniali, occupando e sfruttando di continuo nuove terre. Una vera e propria corsa alla conquista del mondo, anche per soddisfare il fabbisogno alimentare delle rispettive popolazioni. Ma ancora una volta è l'Inghilterra a rispondere al meglio alla sfida della storia.La crisi colpisce anche l'Inghilterra, forse in misura maggiore che nel resto del continente, in quanto il paese è ormai avviato verso un'economia di mercato, dove la dinamica dei prezzi è determinante. E se questi crollano, crollano anche i profitti. E per rientrare nelle perdite, ai padroni delle terre non rimane che ridurre i costi, vale a dire o diminuire i salari oppure licenziare gli operai. La crisi del Seicento è potenzialmente devastante, dunque, anche in Inghilterra, dove, per quanto possa sembrare paradossale, la lunga serie di cattivi raccolti finisce per deprimere anche l'offerta. Insomma, si deprime la domanda (a causa del calo demografico) e si deprime l'offerta (a causa del clima), un mix spaventoso che gli economisti moderni chiamerebbero in un solo modo: recessione. Una recessione che rischia in un solo colpo di annullare tutte le conquiste del secolo precedente, riportando indietro le lancette della storia e non solo di quella inglese.

  • Rischia di essere troncata praticamente sul nascere la moderna economia di mercato, la lenta trasformazione del sistema economico dal feudalesimo al capitalismo. La prima reazione è quella delle autoprità inglesi, che è poi la medesima di quelle olandesi e francesi: si cerca di correre ai ripari importando le derrate alimentari dalle colonie, soddisfacendo così il fabbisogno alimentare. Ma in questo modo si finisce anche per deprimere ulteriormente l'agricoltura nazionale, in quanto i prodotti delle colonie, costando di meno (causa schiavismo o comunque contratti di lavoro molto meno costosi che in Europa), finiscono per fare concorrenza ai prodotti locali. Insomma, la spirale recessiva si accentua, invece di diminuire. Sembra non esserci alcuna via d'uscita. Le autorità hanno fatto il loro dovere, garantendo il fabbisogno alimentare alla popolazione, ma ora tocca ai proprietari terrieri. Spetta a loro decidere che cosa fare di queste terre sempre meno convenienti: o si accetta la sfida oppure conviene disfarsi quanto prima delle terre recintate ovvero di riconvertirle in rendita. E i ceti proprietari accettano la sfida. Il problema, tuttavia, è in che modo rispondere alla crisi. Abbassare ulteriormente i costi del lavoro non sembra la via giusta, non solo perché finirebbe per comprimere ulteriormente la domanda (i lavoratori sono anche consumatori) ma anche perché non risolverebbe il problema dei cattivi raccolti. E allora? Non resta che trasformare la produzione, da agricola in industriale, facendo cioè dei campi arativi terre per il pascolo delle pecore. Non sembra, in effetti, un granché come soluzione: in fondo, anche gli Spagnoli pascolano pecore da tre secoli. Già, ma gli inglesi non lo fanno per produrre derrate alimentari, come il latte o la carne di pecora, per altro a basso contenuto proteico, bensì per fornire agli operai, ora non più agricoli, dunque non più braccianti, una materia prima da lavorare: la lana. Ecco allora che il circolo vizioso in cui era piombata l'economia inglese mostra finalmente il suo volto virtuoso: quegli operai che la crisi aveva lasciato senza lavoro, si trasformano così in “esercito proletario di riserva”, momentaneamente disoccupati, in attesa di entrare in un nuovo ciclo produttivo, quello industriale. Spetta a loro, infatti, lavorare la lana, trasformandola in “manufatti” da vendere sul mercato. Le enclousores, dunque, non spariscono, ma si trasformano in enormi pascoli per migliaia e migliaia di pecore, che in Inghilterra (e soprattutto in Irlanda) abbondano. Un'ecomia a bassissimo costo, in quanto per pascolare le greggi non occorrono masse di lavoratori: bastano pochi pastori e qualche cane. Ma è il passaggio successivo quello più importante, decisivo al fine di quella rivoluzione industriale che cambierà il mondo. La lana, infatti, deve essere lavorata e quindi entrano in gioco gli operai. In un primo tempo il lavoro viene svolto a domicilio, ma in seguito, dato l'aumento della domanda, si renderà necessaria la costruzione di vere e proprie aziende: le fabbriche tessili. Ma perché aumenta la domanda? Perché il Seicento è un secolo freddo e c'è grande richiesta di abbigliamento e coperte in grado di garantire il caldo, di tessuti però a basso costo. E così, il mercato dei prodotti tessili, fino ad allora dominato dai tessuti pregiati italiani, francesi o asiatici, lana e lino in particolare, viene inondato da prodotti laniferi a basso costo. Poi – sempre dall'Inghilterra, ma con materia prima derivante dalle colonie americane – giungerà anche il cotone e l'economia inglese compierà un altro balzo in avanti. A questo punto parlare di crisi per l'Inghilterra è decisamente fuorviante. Il paese proprio nel corso del Seicento si lancia verso il futuro, lasciandosi dietro tutti i principali concorrenti europei, alle prese con guerre e pestilenze e incapaci di simili trasformazioni. Ed è bene precisare – come si vedrà in seguito – che tutto ciò avviene in un paese che sarà sconvolto dalla violenza, da ben due rivoluzioni che lacereranno profondamente la società inglese. Naturalmente, per completare il quadro, per trasformare cioè l'Inghilterra in una vera e propria superpotenza planetaria occorre che il potere politico faccia la sua parte, rafforzando la flotta, alla quale spetta il compito di scortare le navi della Compagnie commerciali private verso i mercati internazionali. E così, mentre si esauriscono le miniere di oro e di argento in America Latina, accentuando la decadenza della Spagna (e in parte anche quella del Portogallo), l'Inghilterra si avvia a dominare l'Atlantico Settentrionale, occupando i porti strategici, talvolta strappandola ai diretti concorrenti, in primo luogo olandesi e francesi. Quindi inizia la penetrazione all'interno del territorio nordamericano, dove i coloni inglersi scoprono terre estremamente fertili: le praterie. Ma qui vengono a contatto con le popolazioni locale, i cosiddetti pellerossa o indiani. Si tratta di tribù nomadi, che sono soliti seguire le grandi migrazioni di animali mai visti n Europa: i bisonti. Gli inglesi non hanno certo un atteggiamento diverso da quello degli spagnoli o dei portoghesi nei confronti di queste popolazioni e tuttavia, oltre a combatterli, sono in grado anche di fiutarte l'affare e in molti casi decidono di entrare in rapporti commerciali con loro. Ha inizio così un nuovo business: gli inglesi vendono ogni cosa agli indiani, in particolare alcolici, ma anche armi e cavalli, in cambio di pellicce, oggetti preziosi e pure qualche prateria. Il Nord America si trasforma in tal modo in una vera e propria calamita per migliaia di cittadini inglesi in cerca di fortuna. Ma non sono certo sufficienti per lavorare quelle enormi distese di verde: le praterie. E qui avviene l'ennesima rivoluzione di questo secolo, una rivoluzione disumana: lo schiavismo. L'intento degli inglesi è quello di deportare nelle terre del Nuovo Mondo milioni di schiavi dall'Africa equatoriale o sub equatoriale. Nasce così il cosiddetto “sistema triangolare inglese”: dall'Inghilterra le navi salpano non alla volta dell'America, bensì delle coste dell'Africa equatoriale e sub equatoriale, per acquistare da alcune tribù nomadi locali uan merce molto particolare: gli schiavi appunto; quindi le navi riprendono il viaggio alla volta dell'America, dove gli schiavi vengono impiegati nelle praterie; alla fine le navi salpano alla volta della madrepatria con i prodotti dell'agricoltura americana, naturalmente a basso costo, ma questo non è un problema dato che, di fatto, l'Inghilterra ha rinunciato all'agricoltura per la produzione industriale. Ma che cosa produce l'America? Oltre ai tradizionali prodotti dell'agricoltura (come le patate o il mais) anche, e soprattutto, il tabacco e la canna da zucchero, prodotti molto ricercati in Europa. Ma questi prodotti devono essere lavorati prima di poter essere venduti, non sono cioè prodotti finiti. Ebbene, la lavorazione non avviene in America, bensì proprio in Inghilterra, che dunque si arricchisce di altre due industrie, oltre a quella tessile: l'industria del tabacco e l'indistrua dello

  • zucchero, con il quale si producono i superalcolici, in particolare whisky. E sono proprio questi prodotti, tabacco e alcolici (ma anche tessuti di lana, che proteggono dal freddo come dal caldo), ad essere venduti alle tribù dell'Africa equatoriale in cambio degli schiavi. Si tratta di un vero e proprio miracolo, il miracolo inglese, in grado in pochi decenni di uscire da quel circolo vizioso che invece attanaglia numerosi altri Stati europei e di gettare le basi per la più grande rivoluzione di tutti i tempi, quella industriale.

    LA SCIENZA

    Il Seicento è il “secolo della scienza”, ancor più del Cinquecento. Quest'ultimo, infatti, si era aperto con quella Rivoluzione Copernicana che il Seicento porta finalmente a compimento, sebbene a caro prezzo, Lo dimostra, significativamente, il dramma del filosofo italiano Giordano Bruno, che, proprio nel 1600, viene arso vivo a Roma dopo essere stato condannato a morte dalla Santa Inquisizione cattolica per la sua adesione al copernicanesimo. Spirito libero e ribelle, Bruno sin da giovanissimo mostra di non sopportare le anguste celle del convento domenicano dove studia né, più in generale, le regole e le consuetudini del tempo. Ed è quello stesso spirito a portarlo ben presto a scagliarsi contro la teoria geocentrica di Aristotele che ben si adatta alla visione delle Sacre Scritture. La brama di infinito lo convince dell'esistenza di un dio infinito che è ovunque e che non può, dunque, abitare in uno spazio finito. Un panteismo carico di magia, che tuttavia si sposa propria con la rivoluzione copernicana, anzi la completa, in quanto Copernico non aveva mai parlato di un universo infinito. Catturato con l'inganno e quindi processato e torturato ripetutamente, Bruno non abiurerà mai, cosa che gli avrebbe salvato la vita. Il rogo del filosofo italiano è un monito a tutti gli spiriti liberi e ai liberi pensatori del tempo. Le religioni costituite (la chiesa cattolica manda Bruno al rogo, ma anche il protestantesimo lo aveva condannato) pensano in tal modo di avere chiuso la partita con la scienza. Ma le cose andranno diversamente.

    Passano pochi anni e un altro italiano – questa volta un vero scienziato – conferma l'esattezza delle teorie eliocentriche, dando ragione anche a Bruno, che era andato ben oltre l'universo finito di Copernico. È Galileo Galilei, personalità quasi alle antipodi rispetto al suo predecessore. Fervente cattolico, amico del futuro papa Urbano, Galilei è convinto che non debba esistere alcun conflitto tra la scienza e la fede: “la scienza insegna come vanno i cieli, la fede come andare in cielo”, scrive. Con il suo cannocchiale, scopre un mondo molto diverso da quello descritto a suo tempo da Aristotele e successivamente confermato da Tolomeo: i crateri lunari smentiscono la teoria dualistica dell'universo, vale a dire la convinzione che al di là della nostra Terra tutto sia perfetto ed eterno; le fasi di Venere che esiste almeno un pianeta che gira intorno al Sole e non si vede perché non ne debbano esistere altri; i satelliti di Giove che esiste almeno un altro centro intorno al quale ruotano dei pianeti: la Via Lattea che l'universo è molto più ampio di quello fino ad ora creduto e le macchie solari che anche il Sole è soggetto al divenire. Insomma, Galilei celebra “i funerali della scienza aristotelico-tolemaica”. Ma lo scienziato italiano non si ferma qui. È con Galilei che la matematica viene elevata a strumento supremo di indagine scientifica, in quanto la natura stessa è scritta in termini matematici. È solo matematicamente, vale a dire sul piano della logica, che lo scienziato italiano può affermare, infatti, che una piuma e una pietra, lanciati dall’alto, raggiungono il suolo nel medesimo istante, poiché nella realtà questo non accade affatto. Non avendo a disposizione strumenti che possano dimostrare sul piano concreto la validità della sua teoria, Galilei ricorre ai cosiddetti “esperimenti mentali”, “immaginando”, cioè, un contesto assolutamente privo di elementi che possano perturbare il fenomeno che vuole studiare, a cominciare dall’attrito dell’aria. E in effetti, in assenza di tali elementi perturbanti, vale a dire nel vuoto, accade proprio quanto sostenuto da Galilei. A dimostrarlo sarà un suo allievo, il Torricelli, scopritore della pompa per creare il vuoto. Con Galilei si avvia dunque una radicale scissione tra il piano matematico e quello del senso comune, della doxa, come emerge molto chiaramente dalle pagine del suo capolavoro letterario: il Dialogo sopra i due massimi sistemi: quello tolemaico e quello copernicano. L'autore immagina un lungo e serrato dialogo tra un sostenitore della teoria copernicana, Salviati, e un sostenitore del geocentrismo, Simplicio. A fare da moderatore un nobile di nome Sagredo. La scelta dei personaggi è già di per sé indicativa della posizione dello scienziato italiano: Salviati (per altro realmente esistito) è infatti un uomo brillante ed estremamente colto, mentre Simplicio – come suggerisce il suo nome – personaggio piuttosto goffo e, appunto, sempliciotto, incapace di andare al di là dei propri sensi. Infine, l'uomo a cui spetta il compito di moderare la discussione, Sagredo (anch'egli realmente esistito), non nasconde certo le sue preferenze per Salviati. E così Simplicio ha la peggio, finendo quasi per essere ridicolizzato dal Salviati. Un finale che irrita non poco papa Urbano VIII, che pure è amico di Galilei e che forse si riconosce in Simplicio. E così Galilei viene condotto davanti al Tribunale della Santa Inquisizione. Ma sono così assurde le obiezioni di Simplicio? E davvero così stupido il suo tentativo di salvare la teoria geocentrica? Ancora oggi, vale a dire a parecchi secoli di distanza dalla pubblicazione del libro, quando l'uomo ha ormai varcato i confini della Terra e dimostrata la correttezza delle teorie galileiana, il povero Simplicio potrà anche apparire ridicolo, ma forse molti di noi lo comprendono, sebbene in segreto. Come dimostrare, senza fare ricorso né alle teorie di Galilei né alle immagini dello spazio, che la Terra è rotonda e che ruota intorno al Sole? E se il movimento esiste, allora perché se lancio una penna dall'alto questa cade perpendicolarmente invece che obliquamente, cioè seguendo il corso della Terra? E se questo grandissimo pianeta si muove, per farlo genera una velocità molto alta e allora perché spesso non c'è vento? Se ancora oggi è difficile rispondere a queste domande, figuriamoci

  • allora. Simplicio sarà anche brillante, ma parla un linguaggio ai più sconosciuto: il linguaggio della matematica. Si capisce allora perché una teoria palesemente falsa come quella geocentrica abbia potuto resistere così a lungo. Non solo perché si adegua al racconto biblico, ma anche perché dà ragione al senso comune, il quale vede la Terra ferma e il Sole che gira. Galilei non è Bruno. Egli rispetta la Chiesa cattolica alla quale è affiliato. E forse non è nemmeno un eroe. E così si salva la vita abiurando. Ma nemmeno questo drammatico processo ferma la scienza.

    La linea tracciata dallo scienziato italiano viene seguita pochi anni dopo dal filosofo e matematico francese René Descartes. Egli ritiene che il guaio della scienza derivi in buona parte dal fatto di non poggiare su solide fondamenta. La ricerca di solide fondamenta costituisce dunque l'obiettivo primario di tutta la filosofia cartesiana. Possono essere i sensi a fondare la scienza? Ovviamente no, dato che questi ingannano (come dimostra la stessa teoria geocentrica d'altro canto). E la matematica? Descartes esclude anche questa. Perché? Perché l'edificio della scienza deve poggiare su solide fondamenta, le quali, per risultarte tali, devono essere in grado di presentarsi sempre nella loro assoluta certezza, respingendo cioè ogni sorta di dubbio. E la matematica non riesce in questa impresa? Sembra davvero impossibile credere che Descartes, vale a dire colui che ha fondato la matematica moderna, possa credere ad una simile teoria. Ma le cose stanno veramente così: la matematica non garantisce assoluta certezza, dunque, di per sé, non può essere il fondamento della scienza. Certo, per smentire la matematica occorre una certa fantasia, come, per esempio, immaginare di essere stati creati da un “dio maligno” con il fine di essere di continuo ingannati. Siamo così sicuri che “due più due sarà uguale a quattro” o che “la più breve tra i due punti sarà la linea”? Ovviamente no. Certo, l'ipotesi appare alquanto bizzarra, per non dire assurda, un dubbio iperbolico. E tuttavia, per quanto iperbolico, non del tutto fuori luogo. Ma se si esclude la matematica, quale sarà il fondamento della scienza? A ben guardare non rimane più nulla. Ma se riflettiamo attentamente su quanto fino ad ora abbiamo fatto, la risposta c'è ed è sotto il naso, anzi sopra. Cosa abbiamo fatto fino ad ora? Abbiamo dubitato e al dubbio non hanno resistito né i sensi né la matematica. Ma che significa dubitare? Significa pensare. E se anche dovessimo dubitare dello stesso nostro dubitare, staremmo comunque dubitando, cioè pensando. Di qui la nota affermazione di Descartes: “cogito ergo sum”, penso dunque esisto. Le fondamenta dell'edificio del sapere, cioè della scienza, sono rappresentate dal nostro stesso pensiero, dalla nostra ragione. Le conseguenze di tale affermazione, per certi aspetti banale (ma non priva di contraddizioni, come mostreranno altri filosofi dell'epoca, tra cui Hobbes) sono straordinarie. Il pensiero umano non ha altra giustificazione se non quella derivante da se medesima: il pensiero esiste di per sé, per il solo fatto di pensare. E dio? Fino ad ora l'unico dio esistente, sebbene solamente come ipotesi, è quello beffardo e maligno che ha sconfitto la matematica. Il pensiero non ha bisogno né di lui né di altro per esistere. E così, l'uomo, che la rivoluzione copernicana ha scalzato dal centro dell'universo, si pone al centro della scienza, come fondamento della scienza moderna e dunque del progresso: un primato che non cederà più. Di fatto, l'uomo si sostituisce a dio: tutto parte e ha termine nella ragione dell'uomo. La ragione è l'unica cosa di cui non è possibile dubitare, l'unica che ha una esistenza che si giustifica di per sé. Di conseguenza, anche Dio, quello tradizionalmente inteso, necessita della ragione dell'uomo per potere esistere. Siamo noi, infatti, a dimostrarne l'esistenza, semplicemente pensandolo. Il momento è delicato e Descartes lo sa: per molto meno altri filosofi sono finiti davanti all'Inquisizione. Per Descartes Dio si manifesta nella mente umana come una idea innata, l'idea dell'infinito. E siccome non possiamo essere stati noi a pensare qualcosa che non è nelle nostre facoltà di esseri finiti, l'infinito appunto, allora questo significa che è stato Dio a imprimerci quella idea nella mente e questo dimostra che Dio esiste. Già, ma è stato sempre lui a metterci al mondo? Certo, in quando se l'uomo avesse la possibilità di crearsi da sé, allora si sarebbe dotato della perfezione assoluta, compresa quella dell'infinità, cosa che invece non è accaduto. Dunque Dio esiste e ci ha creato e con noi ha creato anche il mondo. In tal modo possiamo anche scartare l'ipotesi del dio maligno e beffardo (una ipotesi di lavoro, come accade nei problemi matematici) e affermare l'esistenza di un Dio buono, infinito e assoluto, creatore del nostro pensiero e di tutto ciò che non è il nostro pensiero, compreso il nostro corpo. Dio è dunque la garanzia dell'esistenza di qualcosa che è fuori dal nostro pensiero, ma non la garanzia del nostro pensiero. Quello si giustifica da sé. Esistono dunque solamente due “sostanze” per Descartes: la res cogitans, vale a dire il nostro pensiero pensante, e la res extensa, tutto ciò che non è pensiero e che per l'autore è solamente materia. Un dualismo radicale, che tuttavia gli permette di costruire una nuova matematica, quella che ancora oggi noi utilizziamo: la Geometria Analitica. La matematica cartesitana, sintetizzando il momento algebrico con quello geometrico, ci permette di tradurre qualsiasi espressione algebrica in una corrispondete figura geometrica (e viceversa). Il dualismo filosofico si traduce così in un dualismo matematico, attraverso un piano delimitato da assi (detti appunto “cartesiani”): un asse delle ascisse e un asse delle ordinate. Ed è in tale piano l'uomo può individuare dei punti o delle figure attraverso una funzione: f (x,y). Si tratta di “coordinate” che consentono all'uomo di orientarsi con estrema precisione nel mondo in cui vive: un gigantesco intreccio di rette e perpendicolari copre in questo modo il suo universo. Sono lontani i tempi in cui i navigatori si orientavano solo con le stelle o con la bussola. Ora ad assistere il comandante della nave c’è sempre un “cartografo”, con il compito di seguire passo dopo passo il viaggio dell’imbarcazione su una mappa che è poi la traduzione geografica del piano cartesiano. Nei secoli a venire, grazie al telegrafo e poi ai moderni sistemi di controllo satellitari, la posizione di navi, aerei, autovetture e persino di semplici individui appiedati verrà continuamente monitorata, come puntini che si muovono entro un’area ben definita, il piano cartesiano. La res extensa, vale a dire il mondo che ci circonda, è per Descartes assolutamente determinato, risponde a ben precise leggi, quelle della meccanica. Questo significa che, conoscendo tali leggi, l’uomo può

  • riprodurre le cose del mondo. In linea teorica, secondo Descartes, è possibile persino riprodurre un automa animale, poiché anche gli animali, in quanto privi di ragione, rispondono solamente alle leggi della materia di cui sono fatti. Sulla scorta delle teorie cartesiane, studiosi e scienziati, ma anche semplici artisti del Seicento faranno letteralmente a gara per costruire ogni genere di automa, anticipando di quattro secoli la rivoluzione della robotica. Manca ovviamente una fonte di energia che consenta a tali opere di funzionare a lungo, se non l'acqua. E infatti, più che nella scienza, è nell'arte che si mostra l'interese per la meccanica di questo secolo, con la creazione di giochi d'acqua molto suggestivi, vere e proprie attrazione per i gusti più sofisticati dell'epoca. Descartes porta alle estreme conseguenze il discorso iniziato da Galilei: se per lo scienziato italiano la matematica è il linguaggio della natura che l'uomo è in grado di leggere poiché è il medesimo del nostro cervello, per Descartes è uno strumento di dominio sul mondo.

    Il discorso cartesiano viene ripreso e ulteriormente ampliato dal filosofo olandese Baruch de Spinoza, figlio di una famiglia fuggita dalle persecuzioni antiebraiche spagnole. Egli elimina del tutto il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, affermando l’esistenza di un’unica sostanza, l’Assoluto. Spinoza riprende il pensiero panteista di Bruno (e infatti viene condannato da tutte le chiese del tempo), sebbene privato di quella particolare atmosfera magica che fu propria del filosofo italiano: dio e la natura coincidono (“deus sive natura”: dio ovvero la natura, afferma Spinoza). Ma se non esiste alcun dualismo, se – come afferma l'autore – res cogitans e res extensa non sono altro che “attributi” di quell’unica sostanza che è l’Assoluto e se tale sostanza risponde a leggi meccaniche, allora questo implica che lo stesso uomo sia in qualche modo determinato. L'opera intitolata L’Etica dimostrata geometricamente non lascia alcun dubbio in tal senso: Spinoza è convinto che l'uomo risponde alle stesse leggi della natura. Leggi meccaniche, che la geometria è in grado di riprodurre. Di conseguenza, se Descartes poteva ipotizzare la creazione di automi animali, conseguentemente per Spinoza sarebbe possibile la riproduzione dell'uomo.

    Il Seicento è il secolo della scienza, in particolare della scienza matematica. A confermarlo è un altro grande filosofo del tempo, il tedesco Gottfried Leibniz. In realtà egli parte da un punto di vista differente rispetto a quello di Descartes e, soprattutto, di Spinoza: Leibniz, infatti, è convinto che non esista alcun ordine necessario nel mondo. E questo perché chi lo ha creato, vale a dire Dio, è a sua volta un essere libero. Dio, al momento della creazione, ha effettuato una scelta tra tanti possibili mondi, optando alla fine per “il migliore dei mondi possibili”. Non poteva essere altrimenti, in quanto Dio è un essere perfetto. Di conseguenza, il mondo sarà a sua volta libero, popolato da infinite individualità, chiamate Monadi, ognuna con un proprio punto di vista sulla realtà. Ma così non si rischia di sconfinare nel caos? Niente affatto: libertà e caos sono due cose differenti. La libertà, infatti, è a suo modo un ordine, sebbene mai necessario, piuttosto “contingente”. Una volta scelto il migliore dei mondi possibili, dio ha infuso in esso un certo ordine, quello che Leibniz chiama “armonia prestabilita”. Dio è una sorta di orologiaio, che ad un certo punto decide di caricare le sue creature, vale a dire gli orologi, tutti alla medesima ora. Ecco allora spiegato l’ordine contingente. Va da sé che, se vuole, un uomo può anche decidere di segnare un’ora diversa, di non segnare più alcuna ora o di non segnare proprio nulla. Il male presente nel mondo non è dunque causato da qualche malfunzionamento del creatore, ma solamente dal libero arbitrio dell’uomo. Anche in Leibniz la visione filosofica influenza quella matematica, sebbene il discorso sia in questo caso molto più complicato. In questa sede si può ricordare che il filosofo tedesco è il fondatore del Calcolo infinitesimale (insieme a Newton) e del Calcolo integrale, che risolvono alcuni importanti e decisivi problemi della matematica cartesiana. Sebbene partigiano della libertà del mondo – cosa che lo porta a scontrarsi con l'amico Spinoza – Leibniz è tuttavia costretto ad ammettere che tale libertà non esiste nella logica e nella matematica. In questa dimensione tutto avviene di necessità: due più due sarà sempre quattro. Leibinz è anche uno dei pochi in Occidente a proporre un diverso sistema di conteggio, non più su base decimale bensì binaria. Attraverso approfonditi studi sulla scienza e la cultura cinese, Leibniz si convince che il sistema binario è quello che più si adegua al modo di pensare dell’uomo, lo strumento più semplice dunque per conoscere la natura che si esprime, secondo quanto affermato da Galilei, in linguaggio matematico. Leibniz è tuttavia conscio delle difficoltà di convertire l’Europa ad una simile misurazione: il sistema decimale risponde infatti perfettamente anche alla natura dell’uomo, che ha iniziato a contare con le dita, che sono dieci. E tuttavia ritiene che in futuro tale sistema si imporrà, consentendo alla scienza di fare passi da gigante. Ed è quello che è successo. Nella seconda metà del secolo appena passato, gli scienziati che stavano mettendo a punto le prime forme di intelligenza artificiale, quelli che noi oggi chiamiamo Personal Computer, si trovarono di fronte al problema relativo al linguaggio: quale è il meglio per una siffatta intelligenza. Alla fine optarono proprio per il sistema binario.

  • Dunque, tutti i caratteri presenti nella tastiera del nostro Pc, che rappresentano l’alfabeto con il quale noi interagiamo con esso e con altri Pc, a loro volta collegati ad altre intelligenze naturali, sono solamente una interfaccia: dietro di essa e c'è il linguaggio della macchina, della intelligenza artificiale, il linguaggio binario.

    Altro grande scienziato del Seicento (sebbene in attività anche nel secolo successivo) è Isaac Newton, considerato da Voltaire come uno dei padri dell'Illuminismo. Lo scienziato inglese porta alle estreme conseguenze il discorso iniziato da Galilei: tutto l'universo risponde alle medesime leggi, quelle della gravitazione. Newton afferma, cioè, che nell'universo ogni punto materiale attrae ogni altro punto materiale con una forza direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversametne proporzionale al quadrato della loro distanza. Con questa scoperta giunge a compimento – quanto meno a livello matematico – la grande rivoluzione iniziata nel Cinquecento. Ora tutti i movimenti astrali vengono spiegati con la medesima legge. Ma Newton si spinge oltre, studiando a fondo anche gli effetti ottici e dimostrando come, per esempio, il colore bianco è il frutto della riflessione di tutti e sette i colori dello spettro solare, come il nero è il risultato del loro totale assorbimento. Secondo lo scienziato inglese, la luce ha una natura corpuscolare, una posizione che viene fortemente criticata da altri scienziati, come l'olandese Christiaan Huygens, sostenitori della teoria ondulatoria, ma che troverà conferme nella teoria dei “quanti” di Maxwell ed Hertz nel corso dell'Ottocento.

  • IL PENSIERO POLITICO

    Hobbes e LockeL'Inghilterra rimane al riparo dal conflitto che per Trent'Anni sconvolge il continente, pur prendendovi parte. Ma questo non significa che il Seicento rappresenti un secolo di pace per il paese. Al contrario, il secolo XVII è forse uno dei periodi più drammatici nella storia inglese, attraversata da ben due rivoluzioni. Per meglio comprendere la natura di tali rivoluzioni è bene fare riferimento al pensiero politico dell'epoca, a cominciare da quello di due autori inglesi, Thomas Hobbes e John Locke, per altro testimoni e protagonisti l'uno della prima e il secondo della seconda rivoluzione.

    Hobbes e� testimone della Prima rivoluzione inglese, quella piu � cruenta e sanguinosa. Sconvolto dalla dura contrapposizione politica e sociale del tempo, egli riflette su quale sia la reale natura dell'uomo, giungendo alla conclusione che questo sia un essere assolutamente egoista: “l'uomo e� lupo per l'altro uomo”. Ma se questo e� vero, se, cioe �, l'uomo e� un essere egoista, disposto a sbranare il proprio simile pur di accaparrarsi le risorse, perche � allora vive insieme ad altri uomini, perché vive in una societa �? La risposta è tutta nella ragione dell'uomo. Egli, infatti, possiede una razionalità sconosciuta agli altri animali (che pure ne possiedono una), la quale calcola continuamente costi e benefici di ogni singola azione. Una ragione economica, dunque, ed e� proprio lo spirito economico a frenare gli istinti animali, a determinare cioe� il passaggio dallo stato naturale a quello civile. Di fronte alla prospettiva di una “guerra di tutti contro tutti”, che finirebbe per mettere a rischio l'intero genere umano, contravvenendo in tal modo allo stesso istinto naturale che impone all'uomo di conservare insieme a se stesso la propria specie, la ragione umana consiglia l'uomo di mettersi d'accordo con i suoi simili. L'uomo non si trasforma certo un “animale sociale”, come voleva Aristotele, in quanto il suo egoismo è innato e perciò ineliminabile, ma conscio che tale egoismo rischia di ritorcersi contro se stesso, decide di scendere a patti con gli altri uomini. Ecco allora spiegata la nascita dello Stato. Si tratta di una straordinaria rivoluzione nel pensiero politico occidentale, in quanto mai in passato lo Stato era stato definito in termini “contrattualistici”. Lo Stato e� infatti frutto di un contratto tra gli uomini: si tratta di un prodotto artificiale e non naturale e men che meno divino. Lo Stato, insomma, e� una necessita �. Gli uomini decidono di delegare ad esso il diritto di esercitare la violenza ogni qualvolta si rende necessario. Nello stato di natura, tale violenza veniva esercitata proprio dagli uomini e su altri uomini: ad un torto si rispondeva con un altro torto, mettendo capo ad una lunga catena di vendette e di faide. Ora e� lo Stato ad avere il monopolio della violenza e ad esercitarla all'occorrenza. Lo Stato, dunque, vigila su un mondo che continua ad essere dominato dagli egoismi individuali. Ma ora gli individui non possono piu � farsi giustizia da soli: ogni torto deve essere denunciato allo Stato, che provvedera � a commutare una sanzione a chi ha violato il patto. La natura egoistica degli individui continuerà a manifestarsi soprattutto in campo economico. Da questo punto di vista Hobbes coglie pienamente il senso del contesto storico inglese del Seicento, dove l'iniziativa privata e l'economia capitalistica hanno ormai scalzato gli antichi sistemi e le antiche protezioni corporative. Gli uomini non hanno mutato la propria natura: hanno solamente delegato ad un terzo il mantenimento della pace sociale. Questo Stato artificiale, frutto di un contratto assolutamente necessario per evitare la fine del genere umano, Hobbes lo chiama significativamente Leviathan (che è poi anche il titolo della sua opera più nota): il mostro biblico dell'Apocalisse. Significativamente perche �, data la sua natura, non puo � che rappresentare un monito per chiunque cerchi di violare i patti. Ma si tratta pur sempre di una creatura artificiale, creata appositamente dagli uomini per evitare la guerra di tutti contro tutti. Questo significa che, se lo Stato dovesse venire meno a tale scopo, gli uomini sarebbero autorizzati a rovesciarlo. Il ricorso alla rivoluzione non viene mai esplicitamente dichiarato da Hobbes, il quale tuttavia sottolinea come lo Stato non debba mai essere tirannico. Semmai, lo Stato è assoluto, vale a dire che il suo potere è assolutamente sovrano. Sovranità assoluta significa che tutti i poteri sono concentrati nelle mani di una sola persona giuridica, sia questa un uomo o un partito o una collettivita �. Vedremo in seguito quali e quanti poteri esistono in uno Stato. Quello che Hobbes vuole sottolineare e� che non ha senso una sovranita � che non possa esercitarsi in maniera assoluta. La sovranita � per Hobbes o e� unica e oppure non ha alcun senso parlare di sovranità. Nel corso dei travagliati anni della Prima rivoluzione inglese, Hobbes e� stato tirato per la giacca non solo dalla dinastia Stuart, che ha in tutti i modi tentato di instaurare in Inghilterra una monarchia assoluta, ma anche dal leader della rivoluzione che quell'assolutismo ha rovesciato, Oliver Cromwell, per instaurare una Repubblica che tuttavia diventerà a sua volta assoluta. Insomma, il Leviatano appare proprio come un modello di Stato assoluto (sebbene la definizione la si debba al filosofo francese Jean Bodin).

    Locke vive invece il periodo che segue il fallimento dell'esperimento repubblicano di Cromwell e la successiva rivoluzione che, nel 1688, metterà capo ad un nuovo assetto istituzionale: la monarchia costituzionale liberale. La Seconda rivoluzione inglese viene definita Glorious Revolution non solo perche � gli effetti sono evidenti ancora oggi, ma anche perché è assai meno cruenta della precedente ed è forse anche per questo motivo che il pensiero di Locke è diverso da quello di Hobbes. Locke crede che l'uomo sia un essere sociale, che sia cioe� portato in maniera naturale ad aggregarsi con altri uomini. In natura, dunque, l'uomo non era affatto un lupo, come pensava Hobbes, ma una sorta – per così dire – di agnellino. Ma allora perché se gli uomini vivevano felici e in pace, hanno deciso ad un certo punto di costituire uno Stato? La risposta di Locke è lapidaria: per stare meglio! In fondo, anche il più mansueto degli agnellini necessita di un pastore, altrimenti rischia di perdersi. Fuor di metafora, la natura sociale dell'uomo non è tale da evitare contrasti, soprattutto quelli relativi ai confini che delimitano le rispettive libertà. A stabilire tali limiti non può che essere una autorità esterna, lo Stato appunto. Anche in questo caso, dunque, siamo di fronte ad un patto,

  • ad un contratto, che tuttavia – data la natura degli uomini – non potrà mettere capo ad uno Stato come quello descritto da Hobbes, non ad un Leviatano dunque, dove gli uomini sono solamente dei sudditi, bensì ad una istituzione liberale, nella quale gli uomini sono cittadini, forniti cioè di precisi diritti come anche di precisi doveri. Quello che gli uomini cercano è una sorta di giudice che metta fine alle piccole controversie, che sorvegli la società senza tuttavia essere troppo invadente. Il patto con il quale gli uomini hanno dato vita allo Stato non determina dunque la perdità di alcuna libertà fondamentale. Lo Stato di Locke non sarà dunque assoluto, in quanto la sovranità appartiene al popolo e chi governa non è che un delegato del popolo, che ha il compito di fare gli interessi del popolo. A differenza di Hobbes – che lo lascia trapelare dalle righe – Locke giustifica apertamente la rivoluzione nel caso in cui lo Stato venga meno ai patti. Ma la vera novità del pensiero lockiano sta nella divisione dei poteri, unico efficace antidoto contro ogni forma di assolutismo. Solamente dividendo i poteri è possibile che questi si limitino reciprocamente, evitando derive assolutistiche. Che cosa accade in uno Stato dove il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario sono tutti nelle stesse mani? Che colui che li detiene varerà solo leggi di suo gradimento, che le farà eseguire a suo piacimento e che non sarà mai giudicato da nessuno in quanto avrà in mano anche la giustizia. La divisione dei poteri è uno dei cardini del pensiero liberale e verrà successivamente ripresa e sistemata dal filosofo francese Montesquieu.

    I SISTEMI POLITICI

    Sebbene e� solo con la Rivoluzione Francese che emergono idee e progetti politici destinati a caratterizzare i secoli successivi, di fatto fino ai giorni nostri, e� proprio nel Seicento che questi cominciano ad emergere. E ancora una volta tutto questo accade in Inghilterra.

    Liberalismo, Democrazia, Socialismo

    Il Liberalismo

    Liberalismo rimanda al termine “libertà”: è fuor di dubbio che un sistema non possa definirsi liberale se privo di libertà. Ma di quale libertà si sta parlando? Non certo della libertà di fare qualsiasi cosa, poiché sarebbe il caos. Un sistema liberale garantisce le libertà fondamentali dell'individuo, come la libertà di espressione, di movimento, di stampa e via dicendo, vale a dire quelle libertà che non nuociono ad altri individui o alla collettività, negando tutte quelle libertà che, al contrario, nuocciono agli altri individui o alla collettività, come per esempio la libertà di importunare il prossimo o di farsi giustizia da sé. In un sistema liberale solitamente vige anche la liberta � di commercio, ma attenzione a non confondere il liberalismo con il liberismo. Quest'ultimo e� un sistema di tipo economico, basato su una radicale liberta � economica, che può nuocere ad altri individui o alla collettività, in quanto basato sulla concorrenza assoluta, senza alcun intervento da parte di autorità esterne come quella dello Stato medesimo. Insomma, il liberismo è pratica di politica economica che non necessariamente coincide con la pratica politica del liberalismo, che può preferirgli, ad esempio, un sistema in cui lo Stato interviene in economia per correggere le distorsioni determinate proprio dal sistema economico liberista. Ma quello che sicuramente un sistema liberale deve presentare e� la divisione dei poteri: non si hanno esempi nella storia di Stati liberali dove esistano palesi concentrazioni di poteri. Ma quanti e quali sono i poteri? La scienza politica classica ne individua almeno tre: legislativo, esecutivo e giudiziario. Il potere legislativo appartiene solitamente ad una assemblea di eletti, vale a dire ad un Parlamento; il potere esecutivo è proprio del Governo, il quale deve fare applicare le leggi varate dal Parlamento; il potere giudiziario è solitamente proprio della Magistratura, la quale deve fare rispettare le leggi e perseguire coloro che le violano, si trattasse anche di parlamentari o governanti o anche degli stessi giudici. Più di recente è stato individuato anche un quarto potere, l'informazione, dato il suo potere condizionante sull'opinione pubblica che è poi quella che si reca alle urne. Se chi ha in mano il potere legislativo o esecutivo o giudiziario ha in mano anche il potere dell'informazione, tale concentrazione rischia di minare le basi del liberalismo. Il liberalismo è dunque un antidoto a qualsiasi forma di assolutismo. In linea teorica, è possibile che non solo un sistema socialista ma persino una democrazia possa presentarsi con caratteristiche assolute, cosa che non accadrebbe mai ad un sistema liberale, che tuttavia può sposarsi tranquillamente con i due sistemi precedenti.

    La Democrazia

    Se il liberalismo rimanda al termine “libertà”, democrazia rimanda al termina greco “demos”, che significa “popolo”. La democrazia è, dunque, il “governo del popolo”. Questo naturalmente non significa necessariamente che la democrazia rifiuti le libertà dei sistemi liberali e la divisione dei poteri. Non necessariamente, ma potrebbe anche farlo senza per questo cessare di essere una democrazia. Un popolo che esercita la propria sovranità potrebbe anche decidere, per esempio, di vietare la liberta � di movimento o di espressione. Per comprendere il discorso relativo alla democrazia è bene ricordare che ciò che noi consideriamo oggi come democrazia è in realtà un sistema di tipo liberal-democratico di recente formazione. Ci si dimentica, tuttavia, che sono esistite democrazie lontanissime dal liberalismo, come quelle plebiscitarie o di stampo comunista (non a caso la Germania comunista si chiamava “Repubblica Democratica Tedesca”). La democrazia, in quanto tale, esalta la partecipazione politica del popolo. In una democrazia propriamente

  • detta, vi è solitamente un suffragio molto vasto, meglio se universale (sebbene per secoli riservato solamente agli uomini). In un sistema liberale, invece, è possibile che il suffragio sia ristretto, senza per questo intaccare la natura liberale del sistema. Ma mentre in un sistema liberale gli elettori (pochi o tanti che siano) votano per dei rappresentanti, in un sistema democratico e� anche possibile che il popolo voti direttamente un presidente o delle leggi (come nei referendum) senza alcun organo intermedio (come il Parlamento): si chiama democrazia diretta. Un sistema liberale può dunque avere un limite, quello di essere troppo democratico, e un sistema democratico quello di non essere abbastanza liberale. Ma entrambi i sistemi, quello democratico e quello liberale, possono presentare un altro limite, quello di non essere socialisti.

    Il Socialismo

    Il termine Socialismo rimanda a “sociale”. Se i liberali guardano in maniera particolare agli aspetti giuridici, propugnando l'eguaglianza davanti alla legge, e i democratici agli aspetti politci, propugnando l'eguaglianza politica, i socialisti sostengono l'eguaglianza sociale. Dunque, come già nel caso della libertà, anche – e soprattutto – nel caso dell'eguaglianza è possibile edificare sistemi molto diversi a seconda del significato che si dà a questo termine. Sotto questo punto di vista, quello dell'eguaglianza appunto, il socialismo si presenta come il naturale compimento sia del liberalismo sia della democrazia. Per meglio comprendere questo discorso si può ricorrere ad un esempio banale: un processo, come quelli che si vedono nei telefilm. In un sistema liberale si è tutti uguali davanti alla legge, come recitano le scritte nelle aule dei tribunali. Ma siamo sicuri che tale eguaglianza sia reale e non solamente formale? Immaginiamo di vedere sul banco degli imputati due uomini che devono rispondere del medesimo reato: il primo è un ricco imprenditore, il secondo un povero disoccupato. Verranno giudicati alla stessa maniera? Avranno la stessa pena? In un sistema liberale gli imputati hanno il diritto/dovere di difendersi, ma non tutti possono farlo in maniera eccellente. Nel nostro caso, il ricco imprenditore potrà ricorrere ad un team di avvocati molto preparati, mentre al povero disoccupato verrà affidata una difesa d'ufficio. Il team viene profumatamente pagato dal primo imputato, mentre l'avvocatura d'ufficio viene pagata dallo Stato, una paga misera al confronto di quanto ricevono gli avvocati del primo imputato. Siamo sicuri che entrambe le avvocature faranno fino in fondo il loro dovere? E se anche così fosse, siamo così sicuri che entrambe siano in grado di difendere in maniera eccellente i propri assistiti? Il rischio del liberalismo – sostengono sia i democratici sia i socialisti – è dunque quello di fermarsi alla dichiarazione solamente formale dell'eguaglianza giuridica tra gli uomini, non preoccupandosi degli aspetti politici e sociali che minano tale eguaglianza. Se un sistema liberale non è democratico, significa che chi fa le leggi è solamente una parte della società, quella che gode dei diritti politici. Di conseguenza, la parte esclusa da tali diritti avrà più possibilità di finire davanti ad un tribunale per rispondere della violazione delle leggi. I democratici, dunque, pensano che l'estensione dei diritti politici, vale a dire l'eguaglianza politica, colmi i limiti del liberalismo. Ma questa eguaglianza politica consentirà al nostro disoccupato di essere giudicato alla stessa maniera dell'imprenditore? E se anche questo dovesse accadere, quante possibilità ha il disoccupato di ricadere nel medesimo reato o in altri reati data la sua condizione sociale, che rimane formalmente inalterata? Il godere di piena cittadinanza politica non mette il giovane disoccpato al riparo dal rischio di essere costretto a violare la legge nuovamente, magari solamente per mangiare. La eguaglianza politica di per sé non cancella la diseguaglianza sociale, sebbene attraverso il voto i ceti più poveri possono concorrere ad un sistema di leggi più giusto. Ma anche in questo caso vi sono delle contraddizioni che il socialismo non manca di mettere in evidenza: chi non ha i soldi né il tempo per studiare, per chi voterà? Saprà difendersi dagli imbonitori, dai demagoghi, dalle promesse di qualche scaltro politico? Sarà cioè una persona preparata e dunque pronta ad esercitare quel diritto che la democrazia gli garantisce o invece non si trasformerà in uno strumento di dominio magari degli stessi nemici della democrazia? Senza una eguaglianza sociale, sostengono i socialisti, non sono possibili né una eguaglianza politica né una eguaglianza giuridica. È come in una gara d'atletica dove, invece di partire tutti dalla medesima linea, qualcuno è avvantaggiato di dieci metri, qualcun altro di venti, qualcun altro di cinquanta e qualcun altro persino di novamta metri. Una gara falsata in partenza. Solamente con una reale eguaglianza (dunque non solamente formale) è possibile ovviare agli inconvenienti del liberalismo e della democrazia e la reale eguaglianza si ha solamente se gli uomini sono anche socialmente uguali. Sugli strumenti attraverso i quali giungere ad una eguaglianza sociale il movimento socialista si divide ancora oggi.

  • IL PANORAMA POLITICO EUROPEO

    Il panorama politico europeo del Seicento è piuttosto variegato e complesso. L'Inghilterra, con due rivoluzioni che sanciscono il passaggio, dopo l’esperimento repubblicano di Cromwell, da una monarchia assoluta ad una monarchia costituzionale, è un caso a sé. L’Europa continentale continua nella sua strada, quella di un lungo e travagliato processo in cui elementi di progresso si alternano a momenti di decadenza. Va ricordato ancora una volta come l'Europa venga sconvolta per ben trent'anni da un conflitto sanguinosissimo, che ancora una volta esplode per ragioni religiose. E tuttavia, questa guerra dimostra anche la volontà da parte delle grandi potenze di ridisegnare gli assetti futuri del continente. Tra le protagoniste di questa guerra c'è sicuramente la Francia. Ed è proprio dopo la vittoria nella Guerra dei Trent'Anni che il paese si avvia a diventare una delle potenze planetarie: sono gli anni del governo di Luigi XIV.

    La Francia di Luigi XIV

    Luigi XIV nasce nel 1638. Suo padre è re Luigi XIII, la madre Anna d’Austria. Una nascita per certi aspetti miracolosa, in quanto avvenuta dopo ventitre anni di matrimonio senza figli. Due anni dopo, però, la regina mette al mondo un altro erede, Filippo duca d’Orleans, un altro miracolo. All’età di quattro anni Luigi eredita la corona del padre, scomparso prematuramente. Data la sua giovanissima età, la madre viene nominata reggente, ma a guidare il paese è il suo Primo Ministro, il cardinale Mazarino. Gli anni del governo Mazarino sono piuttosto travagliati e caratterizzati soprattutto dalla partecipazione alla Guerra dei Trent’Anni. Una guerra molto costosa, che costringe il cardinale ad attuare una rigida politica fiscale, che scatena le proteste non solo dei ceti più poveri e dei borghesi, ma anche quelle dell’aristocrazia: sono le cosiddette “fronde”. La prima fronda scoppia negli anni finali della Guerra dei Trent'Anni e vede protagonista l’antica aristocrazia, quella di sangue, che si scaglia in particolar modo contro l’aristocrazia più recente, quella di toga (la Noblesse de Robe), molto legata alla corona. Un pericoloso campanello d’allarme, che tuttavia non viene recepito da Mazarino, che nel 1648 decide di tassare i membri del Parlamento di Parigi, un organo istituzionale composto in larga parte proprio da nobili e alto clero, scatenando una durissima reazione, che coinvolge anche larghi strati di popolazione cittadina. I rivoltosi attaccano il palazzo reale, mettendo in fuga sia Mazarino sia Anna, con il piccolo Luigi al seguito. La Pace di Vestfalia, con la quale si conclude la Guerra dei Trent’Anni, riporta rapidamente la calma nel paese anche perché si rivela un successo per Mazarino. Ma dopo appena due anni, il cardinale è costretto ad affrontare una nuova fronda, ben più ampia ed organizzata della precedente, guidata da importanti famiglie nobili, tra cui alcuni parenti dello stesso re. Non si tratta di una rivoluzione: nessuno ha intenzione di spodestare Luigi XIV né tanto meno di costituire un governo repubblicano, come accaduto nel 1648 in Inghilterra. I nobili, molto semplicemente, non sopportano più Mazarino, le sue pratiche di governo centraliste, la sua politica fiscale, il suo autoritarismo. Una rivolta dura e a tratti anche sanguinosa, che rientra solamente nel 1653.

    Nel 1661 il cardinale Mazarino muore e così Luigi XIV può assumere la guida del regno. Il nuovo sovrano si trova davanti ad una situazione finanziaria drammatica. Il paese sembra ad un passo dalla bancarotta. Viene decisa la rimozione di Nicolas Fouqet, il Ministro delle Finanze di Mazarino, sostituito con Jean Baptiste Colbert. Con quest’ultimo inizia una nuova fase nella politica economica francese, attraverso una innovativa filosofia economica: il mercantilismo. Secondo Colbert, la ricchezza di un paese si basa sulla quantità di moneta posseduta. Di conseguenza, è necessario che tale quantità venga sempre accresciuta e questo è possibile solamente aumentando le esportazioni e diminuendo le importazioni. Dunque, l’obiettivo principale di Colbert è quello di creare una economia nazionale efficace, tale da contendere agli altri paesi, e agli inglesi in particolare, il commercio mondiale dei prodotti e in particolare dei manufatti. Ma per fare questo sono necessari enormi investimenti soprattutto nel settore industriale, una quantità di denaro che il governo non possiede ancora. Ecco allora una stretta fiscale che fa impallidire quella del suo predecessore: aumentano notevolmente sia la tassazione diretta sia quella indiretta e, soprattutto, aumentano i dazi doganali. Una sorta di primordiale protezionismo, con l’obiettivo dichiarato di colpire le importazioni. Se un prodotto proveniente dall’estero, potenzialmente conveniente (si pensi ai prodotti inglesi, in particolare la lana), viene tassato alla dogana, questo cessa di essere conveniente, orientando i consumatori verso i prodotti nazionali, che pure costerebbero di più. Il protezionismo è dunque il punto di partenza di una vera e propria strategia economica che dovrebbe portare il paese – quanto meno nelle intenzioni di Colbert – ai livelli raggiunti dall’Inghilterra. Ma l’Inghilterra è ormai avviata verso l’industrializzazione, mentre la Francia è un paese ancora prevalentemente agricolo. Ecco allora che l’enorme mole di denaro proveniente dalle tasse si orienta – ovvero viene investito – nelle fabbriche di Lione, i cui manufatti tessili (seta in particolare) sono molto ricercati dai ceti più ricchi del continente nonché dalla stessa corona francese, che in tal modo si pone al centro non solo della politica ma anche dell’economia della nazione. La Francia, dunque, sfida l’Inghilterra sul piano della qualità dei prodotti, non potendo ancora competere su quello della quantità. Ma nulla avrebbe potuto Colbert se alle spalle non avesse avuto il pieno appoggio del sovrano.

    Luigi appoggia infatti la politica mercantilista di Colbert e interviene per mettere ordine nel caotico sistema giuridico francese. Nel 1667 pubblica un nuovo Codice di Procedura Civile, conosciuto ancora oggi come Code Louis, il primo della storia francese e base sulla quale Napoleone edificherà il successivo codice. Con il

  • nuovo Codice la Francia viene finalmente unificata dal punto di vista amministrativo. Fino ad allora, infatti, vigevano numerose leggi locali, alcune delle quali consuetudinarie, altre risalenti addirittura al diritto romano. Nel 1670 arriva la riforma del Codice Penale, che limita enormemente le prerogative dei vari parlamenti provinciali. Infine, nel 1671 viene emanato il nuovo Codice del Commercio. Di notevole importanza anche la Grande Ordinanza sulle Colonie, emanata nel 1685, che regolarizza la schiavitù, limitandone gli abusi, proibendo la separazione delle famiglie di schiavi e limitando fortemente la schiavitù dei bianchi.

    Luigi XIV è sovrano molto raffinato e attento alla cultura, come già suo padre, che aveva creato nel 1635 l’Accademia Francese. Egli fa ampliare il palazzo del Louvre ed altri edifici storici della capitale, costruisce il gigantesco complesso militare dell’Hotel des Invalides, fonda l’Istituto Saint Louis per le “povere figlie della nobiltà”. Ma, senza dubbio, la sua opera più nota e grandiosa è la Reggia di Versailles. Luigi ha appena 13 anni quando visita un il castello della città di Versailles che suo padre aveva fatto costruire anni addietro e ne rimane letteralmente folgorato. Nel 1660, subito dopo essere convenuto a nozze con Maria Teresa di Spagna, torna a Versailles con in testa un grandioso progetto. Dopo la morte di Mazzarino, ordina un primo piano di ampliamento del castello. Ma quello che Luigi ha in mente non è solamente un progetto di ristrutturazione. Il re di Francia vuole che Versailles si trasformi in una gigantesca reggia, che diventi il domicilio della famiglia reale, la capitale della Francia. È del maggio 1664 la prima festa ufficiale nella reggia reale, un susseguirsi di spettacoli teatrali di altissima qualità. Nei due anni successivi, i lavori di ampliamento della reggia proseguono. Ormai Versailles è un vero e proprio parco giochi per gusti raffinatissimi, una vera e propria attrazione planetaria. Il 6 maggio 1682 il re decide di trasferire la corte a Versailles, nonostante i lavori siano ancora in corso. Una scelta densa di significati, una provocazione per il popolo parigino, che non dimenticherà mai questo affronto. Il trasferimento della corte a Versailles è anche una chiara scelta politica. Luigi non si fida di Parigi, memore delle fronde dei decenni precedenti, né si fida di un popolo che a quelle fronde ha dato supporto. Ecco allora che Versailles appare come una vera e propria strategia politica: trattandosi di una costruzione maestosa, vuole mostrare alla nazione intera (e non solo) che il potere in Francia è tutto nelle mani del re. Di più: trattandosi anche di un vero e proprio parco divertimenti, vuole essere una attrazione per tutte le principali famiglie nobiliari del tempo, che infatti fanno a gara per accattivarsi i favori del re e coronare il sogno di risiedere in quella splendida reggia. Insomma, il paradiso di Versailles finisce per depotenziare le minacce aristocratiche, rappresentando quasi una sorta di droga per chi fino a pochi decenni prima tramava contro il governo. Versailles rappresenta il centro di un nuovo esperimento di governo: l'assolutismo, nella sua forma più radicale. D’altro canto, come si fa a rinunciare alla bellezza di Versailles, ai suoi monumenti, ai suoi giochi, ai suoi labirinti, ai suoi spettacoli, alle sue feste? “Lo stato sono io!”, sembra che amasse ripetere il re e se questo è vero allora Versailles ne rappresenta il simbolo, anzi ne costituisce l'essenza. La Francia è una grande nazione, ma il centro è rappresentato da una piccola città che ospita tuttavia una delle costruzioni più imponenti della storia. Ma – come si vedrà in seguito – il sogno di Luigi XIV, per divenire finalmente realtà, ha contribuito a svuotare quelle casse dello Stato che Colbert aveva faticosamente rimpinguato con una dura politica fiscale. Al resto pensano le guerre.

    La prima guerra combattuta da Luigi XIV è quella contro l’Olanda, il giovane e potente vicino che ha ottenuto il riconoscimento ufficiale al termine della Guerra dei Trent’Anni. Conscia di rappresentare un problema per la Francia, l’Olanda decide di stringere un'alleanza con l'Inghilterra e la Svezia, altre due rivali di Parigi, anzi di Versailles. È il 1668. Ma due anni più tardi il re d'Inghilterra, Carlo II, che sogna di diventare un monarca assoluto e che perciò è in lotta contro il Parlamento (anche per questioni religiose), decide di allerasi proprio con Luigi XIV. D'altro canto, l'Olanda rappresenta una avversario più temibile della Francia, soprattutto per il dominio dei traffici commerciali nell'Oceano Atlantico. La guerra tra la Francia e l'Olanda scoppia nel 1672. Forte dell'appoggio della flotta inglese, che tiene impegnata quella olandese, l'esercito di Luigi XIV può sferrare un decisivo attacco via terra, occupando gran parte del paese. La sconfitta spinge la popolazione olandese ad insorgere contro il Primo Ministro De Witt (liberale, laico ed amico di Spinoza), rafforzando enormemente le posizioni del suo grande rivale, Guglielmo III d'Orange. La Francia conquista così la Franca Contea e la città di Gand. Ma la guerra termina solamente nel 1678 con la Pace di Nimega. Il successo tuttavia non appaga Luigi e i suoi sogni imperialo. La Francia si allea con l'Impero Ottomano, conquista alcuni importanti territori dell'Africa equatoriale, penetra a fondo nel continente Nordamericano, dove i coloni francesi danno vita alla cLouisiana, così chiamata proprio in onore del re, e raggiunge anche alcuni avamposti nel lontano oriente. Una politica di ampio respiro, che fa della Francia una potenza planetaria. Ma questo suscita naturalmente forti preoccupazioni tra le altre potenze, in primo luogo gli inglesi, ormai avviati verso la loro seconda rivoluzione.

    Per quanto concerne la politica interna, il sistema di potere di Luigi rappresenta – copme si è detto – la forma di assolutismo più radicale dell'epoca. Luigi trasforma la Francia in un moderno Stato burocratico, nel quale tutti i principali poteri sono nelle mani di una sola persona: Luigi XIV. L’assolutismo si impone a scapito dei poteri intermedi, quelli del Parlamento di Parigi, della nobiltà e dell’alto clero, vale a dire contro tutti i potenziali centri di potere alternativi a quello centrale. Come diceva Hobbes, la sovranità o è concentrata nelle mani di una sola persona (giuridica) oppure non vi è alcuna sovranità, e Luigi sembra averlo preso alla lettera. Fedele altresì ad una prassi politica sostanzialmente laica, Luigi, che pure è fervente cattolico, non esita un attimo a scontrarsi con il papa, per riaffermare di continuo la propria sovranità. La corona sostiene apertamente il sistema gallicano, portandolo alle estreme conseguenze, come quando viene fatto divieto a

  • tutti i vescovi francesi di lasciare il paese senza il consenso del re. Ed è lo stesso re ad emanare un decreto con il quale si fa divieto al papa di scomunicare gli ufficiali di governo per gli etti connessi al loro incarico. Ben diversa la lotta che Luigi conduce nei confronti dell'aristocrazia. Questa, infatti, si fa letteralmente abbagliare da Versailles. In quella atmosfera ovattata, gli aristocratici vengono continuamente tenuti sotto controllo dalla corte. Nel 1681 Luigi revoca dell'Editto di Nantes. I motivi che portano ad una tale decisione non sono molto chiari. L'Editto, pur tra non poche contraddizioni, ha garantito al paese un secolo di pace religiosa. Non è che, poi, la minoranza ugonotta abbia manifestato particolare opposizione nei confronti del monarca. Semmai, i principali problemi in questo ambito li avevano dati i Giansenisti, una setta di radicali cattolici guidati dal predicatore Giansenio (e di cui fa parte anche il filosofo Blaise Pascal) che si battono per una chiesa meno mondana, ma che fanno sentire la loro voce anche contro il sistema di potere assoluto. Gli effetti della revoca dell'Editto di Nantes e del varo di un nuovo Editto, quello di Fontainebleau, che impone la rapida conversione di tutti i protestanti pena l'espulsione dal paese, ha effetti disastrosi in primo luogo sull'economia nazionale. Gli Ugonotti (e in generale i protestanti di tutte le confessioni), sono, infatti, in Francia come nel resto d'Europa, in maggioranza borghesi: piccoli e grandi commercianti, piccoli e grandi artigiani e persino banchieri. Coloro che abbandoneranno il paese saranno non meno di duecentomila. Un numero forse non molto grande, che tuttavia priva la Francia di un ceto ricco e dinamico. Di più: gli espulsi andranno ad arricchire proprio le nazioni concorrenti, in primo luogo Inghilterra ed Olanda. Un grave errore, dunque, analogo a quello commesso dai regnanti spagnoli durante il Cinquecento. Ma la revoca dell’Editto di Nantes scatena proteste anche all'estero, in particolare da parte delle nazioni protestanti. E tuttavia nessuno ha, almeno per il momento, il coraggio di scatenare una guerra di religione contro la Francia: troppo fresco il ricordo della Guerra dei Trent'Anni e troppo forte la Francia. L'unico paese che potrebbe punire Luigi XIV per il suo comportamento intollerante nei confronti dei protestanti è l'Inghilterra. Ma l'attuale regnante, Giacomo II, anch'egli in lotta contro il Parlamento come il suo predecessore, si è accordato proprio con Luigi per restaurare il cattolicesimo nel paese, cosa che gli costerà carissimo. Ma i tempi sono ormai maturi per una nuova guerra, la quale scoppia poco dopo la morte di Carlo II del Palatinato, avvenuta nel 1685. Egli è fratello di Elisabetta Carlotta di Baviera, cognata di Luigi XIV. La legge salica, ancora in vigore in molti Stati dell'Europa, vieta una successione per via femminile e dunque la corona dovrebbe passare alla linea minore della famiglia reale del Palatinato, escludendo dunque Elisabetta. Ma Luigi XIV si oppone, inviando le sue truppe nel Palatinato. Il Palatinato è uno dei più importanti Stati protestanti dell'Impero e il gesto di Luigi XIV viene interpretato come una guerra di religione antiprotestante. Si forma così una vasta coalizione antifrancese, guidata dalla protestante Lega di Augusta. Luigi può contare tuttavia sull'appoggio di re Giacomo II d'Inghilterra. Ma ormai la situazione politica e sociale in Inghilterra peggiora di giorno in giorno e così l'alleanza non può scattare. Anzi, nel 1688 Giacomo viene detronizzato. Al suo posto sale la figlia di primo letto, Maria II, protestante e moglie del re d'Olanda, Guglielmo d'Orange. A questo punto la Francia è isolata. La guerra in Germania dura ben nove anni, ma nonostante Luigi combatta praticamente da solo, riesce ad imporsi nelle più importanti battaglie di terra. Ma poi i protestanti contrattaccano e la guerra entra in una fase di stallo, concludendosi solo nel 1697 con il Trattato di Ryswick, con il quale Luigi è costretto a cedere gran parte dei territori conquistati, ottenendo tuttavia l’importante città di Strasburgo.

    Terminata la guerra nel Centro Europa, si accende un altro focolaio di tensioni internazionali in Spagna, dove il re, Carlo II, è molto malato. Non avendo eredi, si scatena la lotta per la sua successione. La Spagna non è sicuramente la stessa dei secoli precedenti: la scellerata politica estera ed economica di Filippo II l’ha letteralmente tramortita. E tuttavia, chi dovesse assicurarsi la corona spagnola si porterebbe in dote anche il Regno di Napoli, il Regno di Sicilia, il Ducato di Milano, i Paesi Bassi per non parlare delle colonie del Sud America. Insomma, un vero e proprio impero, per quanto in decadenza. Il primo a scendere in campo è ancora una volta Luigi XIV, che propone come successore il Duca d'Angio, pronipote della figlia maggiore di Filippo III di Spagna, Anna d’Austria, e nipote della figli maggiore di Filippo IV di Spagna, Maria Teresa, vale a dire sua moglie. L’Impero d’Austria risponde con l'Arciduca d’Austria, figlio minore dell’Imperatore Leopoldo I del Sacro Romano Impero e nipote di Maria Anna di Spagna. In entrambi i casi si tratta di un grave colpo agli equilibri europei e questo le altre potenze non possono permetterselo. Ecco perché gli olandesi e gli inglesi propongono a loro volta un loro candidato, il principe di Baviera Giuseppe Ferdinando Leopoldo, anch’egli imparentato con la corona spagnola. Ma quest’ultimo muore sei mesi dopo la sua candidatura. Nel 1700 l’ormai morente Carlo II di Spagna finalmente si decide a designare il suo erede, optando proprio per il candidato di Luigi XIV: il Duca d'Angiò. Si apre una difficile controversia internazionale, volta a scongiurare una più che probabile guerra. E così quando Carlo muore, il 1 novembre 1700, il duca d’Angiò viene proclamato re di Spagna con il nome di Filippo V senza particolari problemi. Grazie a trattative più o meno segrete, con tanto di contropartite agli altri candidati, la sua incoronazione viene sostanzialmente accettata da tutti. Ma nel 1701 il nuovo sovrano spagnolo promulga l’Asiento, un decreto che permette la vendita degli schiavi delle colonie spagnole alla Francia, in modo da colpire duramente l'economia inglese. Il provvedimento viene colto dagli inglesi per quello che è, una provocazione, e reagisce duramente. L'occasione viene colta anche da altri Stati, in pratica da quasi tutta l'Europa, ormai stanca della politica di potenza di Luigi XIV. Si forma così una grande alleanza antifrancese, composta, oltre che dall’Inghilterra, dall’Olanda, dal Sacro Romano Impero e da numerosi Stati tedeschi. Con la Francia si schierano invece la Baviera, il Portogallo e la Savoia, oltre alla Spagna naturalmente. È la Guerra di Successione Spagnola, un conflitto che, apertosi nel 1701, si concluderà solamente tredici anni dopo. Dunque, una guerra lunga, molto costosa, per tutti i contendenti, in particolare per Luigi XIV. A cedere non è

  • tuttavia la Francia, quanto i suoi alleati. La prima ad uscire dalla guerra è la Baviera, che viene spartita tra il Palatinato e l'Austria, seguita dal Portogallo e infine dalla Savoia. Queste ultime decidono però di passare al nemico e la guerra questo punto si mette molto male per Luigi XIV. Forte solamente dell'appoggio spagnolo, la Francia perder ripetutamente in Belgio e in Italia, non riuscendo a conseguire nemmeno una vittoria significativa sui mari, dove troppo forte è la flotta anglo-olandese. La pace giunge finalmente con i Trattati di Rastatt e Baden del 1714. Filippo V riesce a mantenere la corona di Spagna, ma in cambio deve cedere i Paesi Bassi e l’Italia all’Austria nonché Gibilterra e Maiorca all’Inghilterra. La Francia perde alcune colonie americane, ma conserva l’integrità territoriale. E tuttavia, per Luigi XIV si tratta di un colpo durissimo. Il sogno di una superpotenza in grado di contendere all’Inghilterra il controllo planetario è svanito. L’Inghilterra esce dal conflitto sempre più forte, praticamente senza avversari. Il “re Sole” – così viene chiamato dai contemporanei – si spegne nella sua Versailles il 1 settembre 1715. Il suo regno è durato più di 72 anni, un record per quei tempi. Gli succede il pronipote Luigi XIV, duca d’Angiò, ma poiché ha solo cinque anni, viene posto sotto la reggenza del duca Filippo II d’Orleans, nipote e genero del defunto sovrano.

  • LE RIVOLUZIONI INGLESI

    La Prima Rivoluzione inglese

    Elisabetta I muore nel 1603 senza lasciare eredi. Con la sua scomparsa si estingue anche la dinastia Tudor, una delle più longeve della storia inglese. Il parente più prossimo della defunta regina è il re di Scozia, Giacomo VI Stuart, che prende il nome di Giacomo I. Per la prima volta nella storia, le corone di Scozia e di Inghilterra si trovano unite. Giacomo eredita un paese molto ricco, che domina i mari e che sta per avviarsi verso la rivoluzione industriale. Merito soprattutto degli anni di governo di Elisabetta, capace sempre di anteporre a qualsiasi altro l'interesse nazionale. La sua morte rappresenta sicuramente un duro colpo per l'Inghilterra, poiché riporta a galla divisioni che sembravano tramontate, in particolare quelle religiose. Divisioni che si accentuano con l'elezione di Giacomo I, che porta all'unificazione delle corone di Scozia e Inghilterra. In Scozia, infatti, oltre ad esserci una forte presenza cattolica, la chiesa ufficiale è di confessione presbiteriana, vale a dire calvinista moderata e dunque non certo vicina alla chiesa anglicana, oramai praticamente luterana. Vi è poi il problema irlandese, un paese dove la stragrande maggioranza della popolazione è cattolica e dove, a causa della povertà di larghi strati di popolazione, le tensioni e gli scontri sono all'ordine del giorno. E tuttavia anche molti protestanti inglesi non vedono di buon occhio il rigido sistema anglicano, che ruota tutto attorno al suo capo, vale a dire alla corona, che ha il potere di nominare i vescovi. Insomma, la chiesa anglicana è un sistema decisamente verticistico, che non permette alcuna azione dal basso, cosa che invece accade nella chiesa presbiteriana scozzese o in altre confessioni protestanti minori. Insomma, nonostante la sua adesione al luteranesimo sin dai tempi dell'adozione del Book of the common prayer, la chiesa anglicana è molto più simile alla chiesa cattolica di quanto non lo sia rispetto ad altre chiese luterani europee. Nei gruppi più radicali del variegato mondo calvinista inglese, i cosiddetti puritani, la protesta religiosa si intreccia spesso con quella politica, caricandosi anche di rivendicazioni sociali. Una contestazione globale, contro il sistema inglese e dunque anche contro la corona. I Puritani considerano la chiesa anglicana e la monarchia inglese come le due facce di una stessa medaglia, quella di un potere autoritario e dispotico. Insomma, l'opposizione alla corona è piuttosto vasto, ma anche molto eterogeneo. Generalizzando, è possibile individuarne due anime. La prima è quella moderata, che si limita ad una critica piuttosto formale alla chiesa anglicana, formata dai settori più moderati del luteranesimo e del calvinismo presbiteriano, che vorrebbero un maggiore decentramento amministrativo. La seconda è quella più radicale, che contesta apertamente sia la chiesa ufficiale sia la corona e propende per una azione dal basso per una rifonda radicale e globale della società inglese. I moderati sono in maggioranza appartenenti ai ceti più ricchi e dinamici della borghesia, della Gentry e degli Yeowmen, mentre i radicali appartengono in maggioranza ai ceti artigiani ed operai. In entrambi i casi, si tratta di ceti urbani, della parte più ricca e dinamica dell'Inghilterra, vale a dire quella sudorientale. Dalla parte del re ci sono invece i vecchi proprietari terrieri feudali, non pochi contadini, la chiesa anglicana e in generale la parte settentrionale e più povera della nazione. Il Seicento inglese rappresenta dunque la prima vera lotta di classe dell'era moderna, in anticipo di quasi due secoli sul resto del continente.

    Giacomo I Stuart muore nel 1625. La corona passa al figlio, Carlo I. Nei vent'anni di governo di Giacomo, le tensioni sono andate aumentando in tutto il paese, complice anche lo scoppio della Guerra dei Trent'Anni, alla quale l'Inghilterra partecipa appoggiando le forze protestanti. Il successore non nutre particolari simpatie per il mondo protestante ma continua ad appoggiare le forze riformate, soprattutto con l'intento di infliggere pesanti perdite agli spagnoli. Ma le guerre costano caro e in Inghilterra è prassi che ogni manovra economica straordinaria debba passare attraverso il voto del Parlamento. Il Parlamento inglese è una istituzione antica, composta da due camere: la House of Lords, di nomina regia, e composta dai soli nobili, e la House of Commons, eletta dalle amministrazioni locali, composta anche dai ceti borghesi. Ed è proprio quest'ultima ad opporsi ai continui prelievi richiesti dalla corona. Si apre uno scontro destinato a protrarsi a lungo, aperto dalla grave decisione di Carlo di varare un “prestito forzoso” (vale a dire senza il consenso parlamentare) che scatena le proteste dell'intera nazione e alle quali il re reagisce chiudendo per due volte, tra il 1627 e il 1628, il Parlamento. Ma molti settori sociali si oppongono, rifiutandosi di pagare le tasse e incorrendo in tal modo in pesanti conseguenze legali: il carcere. Ma chi va in carcere non può pagare, anzi costituisce di per sé una spesa per lo Stato. Carlo si trova dunque costretto a riaprire il Parlamento nella primavera del 1628, per chiedere i finanziamenti necessari a proseguire la guerra. Il Parlamento risponde il 7 giugno dello stesso anno con la Petition of Right, un documento in cui i parlamentari fanno “molto umilmente osservare” al sovrano le sue ripetute violazioni, supplicandolo di non richiedere più prestiti forzosi e di non procedere ad arresti arbitrari. Ma i parlamentari hanno fatto male i loro calcoli: convinti di avere messo Carlo con le spalle al muro, erano sicuri di ottenere il riconoscimento del ruolo del Parlamento. Ma Carlo reagisce immediatamente, facendo chiudere per l'ennesima volta il Parlamento. È il gennaio 1629. Da questo momento e per ben undici anni il sovrano governerà da solo. È la nascita del cosiddetto “assolutismo regio”, vale a dire la concentrazione di tutti i poteri nelle mani di una sola persona, il re appunto. E così Carlo può varare tutti i provvedimenti economici, politici e finanziari che vuole, come la odiatissima Ship-Money, una tassa che tutte le città devono pagare per mantenere la flotta. Sono anni di palesi violazioni della legge, di carcerazioni arbitrarie, di dura repressione. Una vera dittatura, che tuttavia non risolve i problemi della corona, che continua ad avere gravi problemi economici. Poi ci si mette Carlo I, che compie il passo da tempo atteso e temuto: imporre alla chiesa scozzese il modello anglicano. Immediata – e scontata – scatta la

  • reazione scozzese, che in poco tempo si trasforma in guerra aperta. E così, dopo due anni di sanguinose battaglie, Carlo è costretto a riconvocare il Parlamento. Decisamente, l'Inghilterra non è un paese facile per l'assolutismo, come invece la Francia. Il Parlamento riapre i battenti il13 aprile 1640 e subito i deputati presentano un'altra petizione, questa volta dai toni molto duri, senza alcuna supplica: se il re vuole che il Parlamento accetti di finanziare le sue guerre nel continente e in Scozia, deve porre fine una volta per tutte agli arresti arbitrari, accettare il ruolo del Parlamento stesso come potere legislativo, in una parola metterte la parola fine all'assolutismo. Ma Carlo rifiuta un'altra volta, facendo chiudere il Parlamento dopo sole tre settimane: è il 6 maggio 1640. Termina quello che passerà alla storia come “Breve Parlamento”. Ma il re sbaglia ancora i suoi calcoli. La guerra contro la Scozia non necessita infatti solo di finanziamenti, ma anche dell'appoggio della popolazione inglese. Non è un caso che, poche settimane dopo la chiusura del Parlamento, gli scozzesi penetrino in territorio inglese. Contemporaneamente, scoppia anche la rabbia della popolazione irlandese, a stragrande maggioranza cattolica. Ma anche in Inghilterra la situazione è incandescente: l'opposizione rimane divisa al proprio interno, ma ormai sembra determinata a scontrarsi apertamente con la corona. Ed è proprio l'odio contro l'assolutismo regio e la chiesa anglicana a fare da collante tra le diverse posizioni: tra i luterani e i calvinisti modearti e i settori più radicali, come quelli guidati da George Fox, che si battono contro ogni forma di istituzione autoritaria, o come i Quaccheri, fautori di un ritorno al comunismo della chiesa delle origini.

    Di fronte alle difficoltà economiche e alle sconfitte contro gli scozzesi, Carlo si trova costretto a riconvocare per l'ennesima volta il Parlamento: è il 3 novembre 1640. Questo Parlamento passerà alla storia come “Lungo Parlamento”, come si vedrà in seguito. Subito vengono abolite la Ship-Money e altre numerose tasse . Nel novembre 1641 il Parlamento vota la Grande Rimostranza, contenente una lunghissima lista degli errori commessi dal sovrano sin dall'inizio del suo regno. Un documento molto dura, a tratti estremista, contestata dall'ala più moderata del Parlamento. Ma ormai il Parlamento non controlla più la piazza: Londra è nelle mani delle fazioni più radicali dell'opposizione. Lo comprende molto bene anche il re, che fugge dalla capitale per evitare il peggio. Ma a rischiare ora è la moglie, la regina Enrichetta, che viene accusata di tramare per la restaurazione del cattolicesimo nel paese, come mostrerebbe una corrispondenza con alcuni re cattolici europei. Torna, dopo quasi un secolo, la paura del “complotto cattolico”, in grado di unire ulteriormente il variegato fronte delle opposizioni, che votano per l'arresto della regina. La reazione di Carlo è immediata, ma parziale: la moglie riesce a fuggire a Parigi, ma Londra rimane nelle mani dei rivoltosi.

    Ormai la guerra civile è scoppiata. Carlo ha già il suo esercito, per altro già im