Il Rito

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Il rito (Ingmar Bergman) 14 Novembre 2011 – h. 21:00 Cineforum Novembre 2011 Il teatro a cinema, il cinema a teatro Il Rito Censura e moralità nell’arte Titolo originale Riten Paese Svezia Anno 1969 Durata 72 min Genere Drammatico Regia, Soggetto, Sceneggiatura Ingmar Bergman Interpreti e personaggi Ingrid Thulin: Thea Anders Ek: Sebastian Fischer G. Bjornstrand: Hans Winkelmann Erik Hell: giudice Ingmar Bergman: sacerdote Il film (Dizionario del cinema Morandini) Tre attori d'avanguardia – un uomo, la moglie, il suo amante – finiscono davanti a un giudice-censore per uno spettacolo accusato di oscenità. Il giudice fa replicare la scena incriminata, si eccita, muore d'infarto. In un linguaggio estremamente coinvolgente, da psicodramma, è una tesa e angosciosa interrogazione sull'arte e sulla morale comune con qualche passaggio enigmatico. È un esempio estremo di cinema a porte chiuse, un esercizio per cinepresa e 4 attori. Straordinari. Realizzato per la TV svedese fu messo in onda nel 1969. Ingmar Bergman (Fernaldo di Giammatteo – Dizionario del cinema. Cento grandi registi) Figlio di un pastore luterano, vive un'infanzia di tensioni familiari. Si laurea in lettere con una tesi su Strindberg, si dedica al teatro, è cacciato di casa dal padre per la relazione con un'attrice. Le esperienze teatrali s'intensificano, mentre anche il cinema gli apre le porte, dapprima come sceneggiatore e poi come regista. Di modesto peso gli inizi, frutto della consolidata tradizione psicologistica del cinema svedese. Qualche interesse destano Un'estate d'amore (1951), melanconica storia giovanile, e Donne in attesa (1952), quattro singolari ritratti femminili, ma è soltanto con il drammatico Una vampata d'amore (1953) e con la garbata meditazione sulla fragilità dell'amore contenuta nella commedia Sorrisi di una notte d'estate (1955) che Bergman mette a fuoco il suo mondo poetico. Dopo, sarà tutto più semplice e chiaro. L'asprezza di Una vampata d'amore, dove si descrivono le meschine debolezze di artisti del circo, troverà riscontro in Il settimo sigillo (1956), lugubre apologo medievale, in Il posto delle fragole (1957), ricapitolazione affannata d'una vita inutile condotta con intenti talvolta sperimentali (una agghiacciante sequenza onirica) e talaltra delicatamente descrittivi (il paesaggio è il centro della visione, come sempre nel regista), in Il volto (1958), premio speciale alla Mostra veneziana, variazione grottesca e angosciosa sui problemi della identità, dell'amore e dell'illusione, in La fontana della vergine (1959), terribile racconto di misticismo e di fanatica crudeltà in un Medioevo senza luce (è uno dei suoi film più sinceri), in Come in uno specchio (1961), introduzione tormentata, a tratti convulsa, di una sistematica riflessione sui temi religiosi, che si svilupperà con agio maggiore e una lucidità più ferma in Luci d'inverno (1962) e in Il silenzio (1963). Regista ormai consacrato (La fontana della vergine e Come in uno specchio ricevono in due anni consecutivi l'Oscar per il miglior film straniero), Bergman può approfondire i propri temi in piena libertà, come raramente accade a un regista. Mentre prosegue anche una intensa attività teatrale, e non si nega alle frivolezze polemiche in chiave comica (A proposito di tutte queste... signore, 1964), riprende il suo fondamentale discorso sulla identità e sul conflitto fra l'essere e l'apparire, fra la sincerità e la menzogna, in situazioni differenti ma sempre drammatiche: Persona (1965), L'ora del lupo (1966), La vergogna (1967), Passione (1968). Questa fase della ricerca culmina nello splendido e sconvolgente Sussurri e grida (1972), storia di quattro donne (tre sorelle, una delle quali sta morendo di cancro, e una governante) in un fastoso interno che i colori morbidi di Sven Nykvist assimilano abilmente allo strazio della vicenda. Il rito (Ingmar Bergman) 14 Novembre 2011 – h. 21:00 Cineforum Novembre 2011 Il teatro a cinema, il cinema a teatro Queste sono le pietre miliari dell'arte bergmaniana. Altre volte il regista ritroverà il gusto sperimentale e il furore narrativo dei momenti migliori, in Scene da un matrimonio (1972), Sinfonia d'autunno (1977), Fanny e Alexander (1981), ma nulla di decisivo aggiungerà al corpus dell'opera. Dal 1976 al '78 si esilierà volontariamente dal suo paese perché accusato di frode fiscale. Analisi del film (Wikipedia) Il film è diviso in nove scene girate in bianco e nero e solamente in interni. I. Una stanza per gli interrogatori : Il fascicolo che il giudice Abrahmsson sta esaminando riguarda un'accusa di oscenità fatta nei confronti di tre attori comici chiamati "Les riens" ( "I niente") e porta la data del 13 marzo 1968, informando così gli spettatori che la vicenda è contemporanea al film che si sta girando. Il giudice fa chiamare il capocomico Hans Winkelmann, la moglie Thea von Ritt e l'amante Sebastian Fischer che accoglie con cordialità. Prima di iniziare le domande offre loro da bere mentre in lontananza si odono rumori di tuoni che annunciano l'arrivo di un temporale. II. Una camera d'albergo : Thea e Sebastian hanno dormito insieme e al risveglio iniziano a discutere e Thea fa scene di gelosia, ma poi si baciano e si accarezzano. Si sente bussare alla porta, ma loro non vanno ad aprire e rimangono a raccontarsi i loro sogni. Thea dice a Sebastian che non riesce a soddisfarla sessualmente e lui fantastica di dar fuoco al letto con i fiammiferi. III. Una stanza per gli interrogatori : Sebastian viene interrogato dal giudice che gli pone davanti i suoi cattivi precedenti ma Sebastian lo insulta accusandolo di essere sporco, di emanare cattivo odore e soprattutto di essere falso. Alla fine si vanta di essere ateo e di non aver timore di nessuno. IV. Un confessionale : Si vede il giudice che entra in un confessionale e dice al prete che non vuole confessarsi ma che ha bisogno di parlare con qualcuno perché il suo cuore è pieno di angoscia anche se c'è ancora un po' di speranza. Si ode intanto venire da lontano il suono di una campana e il giudice è assalito da paurosi ricordi dell'infanzia. V. Una stanza per gli interrogatori : Hans, interrogato dal giudice, esterna la sua amarezza per lo squallido rapporto a tre e gli chiede, cercando di corromperlo, di dispensare la donna dall'interrogatorio vista la sua labilità psichica. Viene rimproverato aspramente dal giudice. VI. Camerino di un teatro di varietà : Appare Thea, vestita da clown, che beve terrorizzata per l'interrogatorio che deve subire mentre Hans la consola. VII. Una stanza per gli interrogatori : Thea viene interrogata dal giudice che all'inizio è cortese e le offre anche del brandy, ma in seguito la tratta rudemente accusandola di non essere sincera e alla fine, dopo averla baciata, la possiede, mentre la donna si lascia andare ad una crisi isterica. VIII. Un bar : Hans e Sebastian conversano tranquillamente. La loro tournée è stata sospesa a causa della guerra scoppiata in Medio Oriente e rimane solo la possibilità di fare alcuni spettacoli in Italia. Poi Hans dice a Sebastian che non gli presterà più denaro e gli dà consigli su come appagare sessualmente Thea. IX. Una stanza per gli interrogatori : Davanti al giudice i tre attori rappresentano la pantominia intitolata "Il rito" e Thea lo ringrazia per i fiori che le ha inviato. Terminata la rappresentazione gli attori si tolgono i mantelli e indossano le maschere mentre Thea rimane a seno nudo. Il giudice ha una crisi di sconforto e viene schiaffeggiato da Sebastian, poi, dopo aver confessato che nella sua professione "c'è smania di crudeltà", muore colpito da un infarto. Si sente una voce fuori campo che dice che gli attori vennero condannati a pagare una multa e, dopo aver lasciato numerose interviste, lasciarono il Paese per andare in vacanza e non vi ritornarono mai più. Il film riprende temi kafkiani e dà la possibilità a Bergman di rappresentare in forma grottesca coloro che censurarono le sue opere oltre ad approfondire il suo pensiero sul mestiere di attore, sull'arte, sul concetto di libertà. I personaggi sono, come spesso in altri film del regista, quattro senza considerare il quinto, il prete, che non parla. La prima delle nove scene e l'ultima, la nona, sono interpretare da tutti e quattro, mentre nelle altre sei i personaggi si ritrovano a due a due. Sono tutti personaggi negativi ma il peggiore è il giudice che malgrado la sua professione non è privo di peccati e reati e su di lui cade l'ironia di Bergman. L'opera, assai stimolante dal punto di vista della forma, richiama i simboli dei precedenti film e si snoda attraverso una narrazione agile condotta tra due personaggi.

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Il rito (Ingmar Bergman)

14 Novembre 2011 – h. 21:00

Cineforum Novembre 2011

Il teatro a cinema, il cinema a teatro

Il Rito

Censura e moralità nell’arte

Titolo originale Riten Paese Svezia Anno 1969 Durata 72 min Genere Drammatico Regia, Soggetto, Sceneggiatura

Ingmar Bergman

Interpreti e personaggi

§ Ingrid Thulin: Thea § Anders Ek: Sebastian Fischer § G. Bjornstrand: Hans Winkelmann § Erik Hell: giudice § Ingmar Bergman: sacerdote

Il film (Dizionario del cinema Morandini) Tre attori d'avanguardia – un uomo, la moglie, il suo amante – finiscono davanti a un giudice-censore per uno spettacolo accusato di oscenità. Il giudice fa replicare la scena incriminata, si eccita, muore d'infarto. In un linguaggio estremamente coinvolgente, da psicodramma, è una tesa e angosciosa interrogazione sull'arte e sulla morale comune con qualche passaggio enigmatico. È un esempio estremo di cinema a porte chiuse, un esercizio per cinepresa e 4 attori. Straordinari. Realizzato per la TV svedese fu messo in onda nel 1969. Ingmar Bergman (Fernaldo di Giammatteo – Dizionario del cinema. Cento grandi registi) Figlio di un pastore luterano, vive un'infanzia di tensioni familiari. Si laurea in lettere con una tesi su Strindberg, si dedica al teatro, è cacciato di casa dal padre per la relazione con un'attrice. Le esperienze teatrali s'intensificano, mentre anche il cinema gli apre le porte, dapprima come sceneggiatore e poi come regista. Di modesto peso gli inizi, frutto della consolidata tradizione psicologistica del cinema svedese. Qualche interesse destano Un'estate d'amore (1951), melanconica storia giovanile, e Donne in attesa (1952), quattro singolari ritratti femminili, ma è soltanto con il drammatico Una vampata d'amore (1953) e con la garbata meditazione sulla fragilità dell'amore contenuta nella commedia Sorrisi di una notte d'estate (1955) che Bergman mette a fuoco il suo mondo poetico. Dopo, sarà tutto più semplice e chiaro. L'asprezza di Una vampata d'amore, dove si descrivono le meschine debolezze di artisti del circo, troverà riscontro in Il settimo sigillo (1956), lugubre apologo medievale, in Il posto delle fragole (1957), ricapitolazione affannata d'una vita inutile condotta con intenti talvolta sperimentali (una agghiacciante sequenza onirica) e talaltra delicatamente descrittivi (il paesaggio è il centro della visione, come sempre nel regista), in Il volto (1958), premio speciale alla Mostra veneziana, variazione grottesca e angosciosa sui problemi della identità, dell'amore e dell'illusione, in La fontana della vergine (1959), terribile racconto di misticismo e di fanatica crudeltà in un Medioevo senza luce (è uno dei suoi film più sinceri), in Come in uno specchio (1961), introduzione tormentata, a tratti convulsa, di una sistematica riflessione sui temi religiosi, che si svilupperà con agio maggiore e una lucidità più ferma in Luci d'inverno

(1962) e in Il silenzio (1963). Regista ormai consacrato (La fontana della vergine e Come in uno specchio ricevono in due anni consecutivi l'Oscar per il miglior film straniero), Bergman può approfondire i propri temi in piena libertà, come raramente accade a un regista. Mentre prosegue anche una intensa attività teatrale, e non si nega alle frivolezze polemiche in chiave comica (A proposito di tutte queste... signore, 1964), riprende il suo fondamentale discorso sulla identità e sul conflitto fra l'essere e l'apparire, fra la sincerità e la menzogna, in situazioni differenti ma sempre drammatiche: Persona (1965), L'ora del lupo (1966), La vergogna (1967), Passione (1968). Questa fase della ricerca culmina nello splendido e sconvolgente Sussurri e grida (1972), storia di quattro donne (tre sorelle, una delle quali sta morendo di cancro, e una governante) in un fastoso interno che i colori morbidi di Sven Nykvist assimilano abilmente allo

strazio della vicenda.

Il rito (Ingmar Bergman)

14 Novembre 2011 – h. 21:00

Cineforum Novembre 2011

Il teatro a cinema, il cinema a teatro

Queste sono le pietre miliari dell'arte bergmaniana. Altre volte il regista ritroverà il gusto sperimentale e il furore narrativo dei momenti migliori, in Scene da un matrimonio (1972), Sinfonia d'autunno (1977), Fanny e Alexander (1981), ma nulla di decisivo aggiungerà al corpus dell'opera. Dal 1976 al '78 si esilierà volontariamente dal suo paese perché accusato di frode fiscale. Analisi del film (Wikipedia) Il film è diviso in nove scene girate in bianco e nero e solamente in interni.

I. Una stanza per gli interrogatori: Il fascicolo che il giudice Abrahmsson sta esaminando riguarda un'accusa di oscenità fatta nei confronti di tre attori comici chiamati "Les riens" ( "I niente") e porta la data del 13 marzo 1968, informando così gli spettatori che la vicenda è contemporanea al film che si sta girando. Il giudice fa chiamare il capocomico Hans Winkelmann, la moglie Thea von Ritt e l'amante Sebastian Fischer che accoglie con cordialità. Prima di iniziare le domande offre loro da bere mentre in lontananza si odono rumori di tuoni che annunciano l'arrivo di un temporale.

II. Una camera d'albergo: Thea e Sebastian hanno dormito insieme e al risveglio iniziano a discutere e Thea fa scene di gelosia, ma poi si baciano e si accarezzano. Si sente bussare alla porta, ma loro non vanno ad aprire e rimangono a raccontarsi i loro sogni. Thea dice a Sebastian che non riesce a soddisfarla sessualmente e lui fantastica di dar fuoco al letto con i fiammiferi.

III. Una stanza per gli interrogatori: Sebastian viene interrogato dal giudice che gli pone davanti i suoi cattivi precedenti ma Sebastian lo insulta accusandolo di essere sporco, di emanare cattivo odore e soprattutto di essere falso. Alla fine si vanta di essere ateo e di non aver timore di nessuno.

IV. Un confessionale: Si vede il giudice che entra in un confessionale e dice al prete che non vuole confessarsi ma che ha bisogno di parlare con qualcuno perché il suo cuore è pieno di angoscia anche se c'è ancora un po' di speranza. Si ode intanto venire da lontano il suono di una campana e il giudice è assalito da paurosi ricordi dell'infanzia.

V. Una stanza per gli interrogatori: Hans, interrogato dal giudice, esterna la sua amarezza per lo squallido rapporto a tre e gli chiede, cercando di corromperlo, di dispensare la donna dall'interrogatorio vista la sua labilità psichica. Viene rimproverato aspramente dal giudice.

VI. Camerino di un teatro di varietà: Appare Thea, vestita da clown, che beve terrorizzata per l'interrogatorio che deve subire mentre Hans la consola.

VII. Una stanza per gli interrogatori: Thea viene interrogata dal giudice che all'inizio è cortese e le offre anche del brandy, ma in seguito la tratta rudemente accusandola di non essere sincera e alla fine, dopo averla baciata, la possiede, mentre la donna si lascia andare ad una crisi isterica.

VIII. Un bar: Hans e Sebastian conversano tranquillamente. La loro tournée è stata sospesa a causa della guerra scoppiata in Medio Oriente e rimane solo la possibilità di fare alcuni spettacoli in Italia. Poi Hans dice a Sebastian che non gli presterà più denaro e gli dà consigli su come appagare sessualmente Thea.

IX. Una stanza per gli interrogatori: Davanti al giudice i tre attori rappresentano la pantominia intitolata "Il rito" e Thea lo ringrazia per i fiori che le ha inviato. Terminata la rappresentazione gli attori si tolgono i mantelli e indossano le maschere mentre Thea rimane a seno nudo. Il giudice ha una crisi di sconforto e viene schiaffeggiato da Sebastian, poi, dopo aver confessato che nella sua professione "c'è smania di crudeltà", muore colpito da un infarto. Si sente una voce fuori campo che dice che gli attori vennero condannati a pagare una multa e, dopo aver lasciato numerose interviste, lasciarono il Paese per andare in vacanza e non vi ritornarono mai più.

Il film riprende temi kafkiani e dà la possibilità a Bergman di rappresentare in forma grottesca coloro che censurarono le sue opere oltre ad approfondire il suo pensiero sul mestiere di attore, sull'arte, sul concetto di libertà. I personaggi sono, come spesso in altri film del regista, quattro senza considerare il quinto, il prete, che non parla. La prima delle nove scene e l'ultima, la nona, sono interpretare da tutti e quattro, mentre nelle altre sei i personaggi si ritrovano a due a due. Sono tutti personaggi negativi ma il peggiore è il giudice che malgrado la sua professione non è privo di peccati e reati e su di lui cade l'ironia di Bergman. L'opera, assai stimolante dal punto di vista della forma, richiama i simboli dei precedenti film e si snoda attraverso una narrazione agile condotta tra due personaggi.

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Il rito (Ingmar Bergman)

14 Novembre 2011 – h. 21:00

Cineforum Novembre 2011

Il teatro a cinema, il cinema a teatro

Recensione e Critica Andrea Peresano [...]La linearità della vicenda è messa da Bergman sotto una lente d’ingrandimento per analizzarla causando però così un duplice effetto: da un lato una frammentazione della storia in vari punti focalizzati; dall’altro, quasi effetto collaterale, una deformazione a tratti grottesca di situazioni e comportamenti. La lente inizialmente impugnata dal giudice rappresenta anche l’indagine, l’investigazione del potere costituito su coloro che hanno infranto la legge, una legge etica, ma anche umana. È loro colpa l’essersi spinti oltre tutti i limiti e aver presentato la loro esagerazione ai comuni esseri umani, inconsapevoli nella loro mediocrità e al sicuro dietro le loro fragili credenze come lo stesso giudice che, ansioso e insicuro, crolla e cade sfinito nelle più basse pulsioni. Paura di capire? Paura delle verità che l’arte ci mostra e spesso ci terrorizzano? Arte e morale comune sono sviscerate da Bergman attraverso l’ambiguo triangolo formato dallo stanco capo carismatico Hans Winkelmann, figura paterna per l’instabile moglie Thea, donna fra due uomini, e Sebastian, violento e impulsivo artista maledetto. Lo spettacolo finale sarà una rielaborazione delle antiche celebrazioni dionisiache, rituali pagani progenitori del teatro, la prima forma d’arte amata dal poliedrico regista. Da sottolineare poi l’apparizione dello stesso come prete nella breve sequenza della confessione-non confessione del giudice. Il film è suddiviso in scene che si susseguono come atti teatrali e la maggior parte delle sequenze sono piani frontali dei protagonisti, ribadendo il carattere di interrogatorio-confessione dell’opera o di spettacolo a cui noi assistiamo, con i personaggi sempre faccia a noi, rinchiusi fra quattro, o meglio tre, mura. Evocativo, simbolista, forse in certi punti contorto e introspettivo, Bergman cerca di fissare in quest’opera i confini fra realtà e finzione scenica, ritrovando gli opposti più vicini di ciò che crediamo, nella mente umana dove arte, oscenità e religione arrivano a convivere. Interessante pensare che questo film fu inizialmente realizzato per la TV svedese. Alessandro Poggiali Il cinema di I. Bergman ha spesso tratto energia dal teatro: titoli quali Il volto, Sussurri e grida, L’occhio del diavolo ed appunto Il rito, ne forniscono un’ inattaccabile testimonianza. Parecchi sono i punti di contatto tra le due differenti espressioni artistiche nel film in questione. L’uso frequente del primo piano e di inquadrature ravvicinate, contribuisce a creare un effetto palco che cresce al crescere dell’angoscia dei personaggi. A rafforzare l’idea di pellicola-teatrale c’è altresi il numero ridotto dei protagonisti (soltanto quattro). Anche il modo di snodarsi della trama attraverso la suddivisione in capitoli (veri e propri “atti” ), separati e consequenziali, è da riferirsi al teatro. [...] Il finale bunueliano grottesco e surreale, decreta la sconfitta della giustizia in seno alle azioni umane, solleva da responsabilità oggettive l’animale-uomo in relazione alle sue nefandezze figlie dell’istinto. Istinto ingovernabile per chi, non proprio del tutto civilizzato, commette il reato più imperdonabile : assecondare l’impulso che spinge ad uccidere chiunque minacci quell’equilibrio precario che si crea tra uomo e bestia. E’ un film sull’impossibilità di trovare giustizia nella vita, poichè la giustizia è Regina della Morte.

Vincenzo Totaro L’arte e il suo contrario, in questo film arrabbiatissimo di Bergman. Con PERSONA l’autore scandinavo aveva alzato il tiro, nascondendosi dietro un generico quanto fuorviante intimismo; qui lo scontro è frontale. L’arte e la morale si scontrano senza esclusione di colpi; l’arte ha dalla sua l’utilizzo forsennato e abbacinante della sessualità, sovraesposta e pronunciata; la morale comune ha potenza carsica e sgretola l’arte dall’interno, svuotandone contenuti e contenitori. Gli attori sono simbolo di pienezza rituale ma

insidiati dalla morale comune diventano poveri depressi capricciosi e un po’ maniaci, dei vuoti a perdere, patetici e grotteschi.Il giudice, dal canto suo, vacilla di fronte alla mutaforme Thulin e scopre il peggio ( o forse il meglio nel senso di vero ) di sè. Allora c’è il bisogno di una confessione e il caso vuole che il confessore sia lo stesso Bergman. Molti hanno speculato sulla distanza presunta tra Bergman e il suo personaggio, ma hanno tralasciato un piccolo, fondamentale, particolare:

Il rito (Ingmar Bergman)

14 Novembre 2011 – h. 21:00

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Il teatro a cinema, il cinema a teatro

non si tratta di una confessione ma di un colloquio e il frate che ascolta tutto in silenzio non giudica, ma si volta dall’altra parte. Il frate non impersona la morale comune e l’oppressione come si può facilmente dedurre, ma è un guardiano della soglia stanco e forse un po’ annoiato. Accompagna il giudice dall’altra parte, e dall’altra parte c’è l’arte che scandalizza perchè al suo opposto c’è sempre qualcuno che non vede l’ora di scandalizzarsi. Cinematografo Girato in 16 mm., in bianco e nero, per la televisione svedese, questo film è uno dei più metafisici e antispettacolari di Bergman. Autentico 'gioco di massacro', esso consiste nel confronto dialettico tra il Giudice e i tre componenti della compagnia teatrale 'Les Riens' (denominazione di facile simbolismo, solo una delle cento molto meno decifrabili del resto dell'opera). Solo nella prima e ultima delle nove sequenze il confronto è corale poiché in ciascuna delle altre il dialogo si svolge tra due personaggi che la cinepresa inquadra spietatamente, su sfondi anonimi, in modo che allo spettatore vengano proposti solo degli 'esseri umani' nella loro desolante nudità e terrificante complessità. La ricerca di Dio, il significato della vita, la possibilità dei sentimenti affettivi, l'incomunicabilità, il ruolo dell'arte nella società, i compiti della Legge, il quotidiano e l'assoluto sono i principali temi sui quali il famoso regista invita a riflettere. Come sempre, Ingmar Bergman appare maestro nella guida degli interpreti e affascinante nel suo lavoro di indagine sui misteri dell'esistenza. Ma, come nei film maggiormente tormentati, la sua ricerca qui appare carica di ansia e di pessimismo, lontana dalle aperture luminose di certe pellicole posteriori. Il lavoro, comunque, non può essere certo ignorato dagli studiosi e merita di fare parte delle antologie di un Bergman anche qui maestro di tecnica ed esempio di preoccupazioni sui valori spirituali dell'uomo

Lo sforzo disperato che compie l'uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro

(Eduardo De Filippo)

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