Il richiamo di Morfeo

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Yvonne è una ragazza normale, o almeno in apparenza. Molto presto scoprirà che qualcosa in lei non va, che i suoi sogni non sono i normali sogni di una ragazza normale. La sua vita in poco tempo verrà radicalmente cambiata [...] Continua a leggerne la descrizione su Miss Maggie Paper's Portal [http://papermaggie.wix.com/maggie-paper#!scrittura/c1pwa]

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Comincio col ringraziare Laura Adina Manolache per la bellissima copertina che ha fatto per il libro. Essa dona un tocco di colore a questa edizione e la rende ancora più professionale di quanto non sia in realtà.

Vi anticipo che questo libro è un lavoro puramente sperimentale, elaborato con attenzione, ma non trop-pa, come vi spiegherò poi nella Dissertazione [pag. 314].

Vi auguro una buona lettura, spero che abbiate la pa-zienza di arrivare fino alla fine.

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È consigliato leggere questi capitoli di sera,prima di andare a dormire.

State attenti però a non farvi rapireda Morfeo, nel frattempo.

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Oh, dolce Sonno, che le mie fatiche ristori,Oh, grande dio, che dai sollievo ai miei languori.Tu che vegli su tutti i Sogni, perciò Notte ti creò,

Abbi pietà di me, che i sogni mai li avrò.

Oh Morfeo, tu che con un tocco m’assopisci,Oh, ti prego, infondimi la speranza.

Tu che del vuoto dentro di me t’intristisci,Abbi pietà di me, o mai fermerò questa mattanza.

Oh, vita mia, così confusa e temuta.Oh, infelicità, che ricopre il mio pallido viso.

Tu che mi hai creata, tu che mi hai cresciuta,Abbi pietà, fammi tornare l’agognato sorriso.

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astidio. Quella terribile sensazione che pro-vavo ogni volta che sentivo mio padre sbrai-tare contro mia madre. Una sensazione di

fastidio, che nemmeno David Johnson, che alle elementari mi ripeteva “naso di maiale” ogni volta che gli capitavo davanti, mi aveva procurato. Ave-vo bisogno di estraniarmi e, come al solito, mi ero messa le cuffie. Musica ad alto volume. La miglio-re medicina. Dal mio occhio scivolò una lacrima, mentre scorrevo le canzoni dei Muse. Mi avrebbe-ro salvato anche quella volta? Probabilmente no. La mia testa stava per esplodere. Il mio petto sem-brava volersi attorcigliare e stringere il mio cuore fino a soffocarlo. Le loro canzoni non mi aiutavano più, anzi, ad ogni acuto era come se la mia testa comandasse alle mie mani di scaraventare qual-cosa contro il muro. Intuendo la pericolosità della situazione, lasciai cadere le cuffie sulle spalle e staccai il jack dal cellulare, permettendo al caos che c’era in cucina di invadermi nuovamente i tim-

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Perché mi succede questo? Sto impazzendo forse?Questo pressante sentimento, che mi infastidisce,

che mi fa piangere. Perché devo soffrire?Eppure, non molto tempo fa, io ero felice e spensierata.Perché sento questo nodo che mi stringe lo stomaco?

Perché sento di essere diversa dagli altri,anche se m’appaio così noiosamente normale?

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pani. Tremavo dal nervosismo. Mi alzai e comin-ciai a scaraventare alcune magliette e un paio di jeans nel mio zaino. Portatile, vestiti, libri, c’era più o meno tutto il necessario. Lo indossai e mi dires-si spedita verso la porta d’ingresso. I miei genitori non mi notarono proprio. Era come se fossi stata invisibile. Lo ero? Scesi le scale del condominio e in men che non si dica mi ritrovai sulla strada. Una leggera pioggerella, quasi impercettibile, scendeva dal cielo. Sapevo dove ero diretta e non avrei cam-biato direzione. Si era già ripetuta più volte quella situazione. Ero intenzionata ad andare avanti e a non ritirarmi più. Indossai nuovamente le cuffie. La calma che mi circondava mi aveva ridato la voglia di ascoltare Sunburn. “Come waste your millions here, secretly she says; Another corporate show, a guilty conscience grows”. Un’altra lacrima mi rigò la guancia. “And I’ll feel a guilty conscience grow; And I’ll feel a guilty conscience grow”. Svoltai a si-nistra e seguii il marciapiede fino in fondo alla via. Mancava ancora poco. Sentivo il momento avvici-narsi e, nonostante guardassi sempre a terra per evitare le occhiate della gente, potevo percepire la distanza che mi mancava. “She burns like the sun, and I can’t look away; She’ll burn our horizons, make no mistake”.

«È il momento di un abbraccio!», affermò mia nonna buttandosi in un abbraccio caloroso e don-

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dolante, che mi fece quasi venire il mal di testa. «Adesso facciamo una cosa buona buona per addolcire questa giornata amara, indovina cosa», sembrò aspettarsi una risposta da me.Io la guardai interrogativa, «Emh… non lo so. Cosa?» «Ma come? Qualche mese fa l’avresti sicuramen-te saputo… Pancakes!», evidenziò l’ultima parola alzando le braccia, con una faccia esuberante.Io la fissai rigida come un baccalà, «Con la mar-mellata alle more?» «Ovviamente», mia nonna mostrò un sorriso a trentadue denti e si voltò verso la dispensa per prendere la farina. «Nonna…»Mia nonna rispose con un “Mmh?”. «Posso restare qui da te per qualche giorno?»Lei si voltò verso di me nel mentre stava aprendo il frigo alla ricerca degli altri ingredienti. «Le cose non vanno là, vero?», mi osservò con occhi compassionevoli, «Puoi rimanere qui quanto vuoi. Basta che vai a scuola…» «Ho tutti i libri necessari», affermai io impaziente. «Permesso accordato», rispose con un sorriso un po’ forzato, «Dai, adesso aiutami a trovare il burro… non ricordo più dove l’ho messo».

Colin: “Ehi Yv. Come va?”Yvonne: “Il solito… tu?”

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Colin: “Il solito”Yvonne: “Bene”

In quel periodo non riuscivo a parlare con gli altri. Nemmeno con il mio migliore amico. L’unico vero amico che avessi mai avuto. Colin e io avevamo dei gusti molto simili. Forse era per questo che andavamo così d’accordo. Lui ascoltava lo stes-so genere musicale che ascoltavo io, a entrambi piacevano i videogiochi, i gialli e la fantascienza. Lui aveva una fissa incredibile per la cultura ota-ku giapponese. Solo a pensare alla parola “otaku” era come se sentissi la sua voce ripetermi: “Stai attenta! Guarda che la parola otaku non è ben vi-sta”. Aveva una passione smisurata per i manga e anche per gli anime, inoltre aveva anche un’ottima cultura cinematografica. Si era costruito una specie di tempio dedicato a Death Note su di uno scaffale, con libri, manga, edizioni speciali, dvd dell’anime e action figure correlate. Entrambi eravamo dei nerd a modo nostro. “Dling”. “Oh, un suo messaggio?”.

Colin: “Mi parlerai mai di quello che ti sta succe-dendo?”

Riappoggiai sul tavolo il cellulare, evitando di guar-darlo ulteriormente e abbassando il volume fino a metterlo in modalità “silenziosa”. Era come se

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qualcosa mi stesse dicendo, “Non rispondere, ti farà solo più male”. Le persone che mi chiedevano di cose riguardanti la mia vita mi facevano sempre venire i tremori alle mani. Ero stanca di dover fin-gere di star bene, pur di non dover scrivere sms lunghi come romanzi, che mi avrebbero solo ricor-dato la mia inutilità. Il mio dolore. Aprii la finestra per far entrare un po’ d’aria nella stanza. Fu allora che decisi di dormire. Così, mi stesi sul letto e mi assopii, tra una lacrima e l’altra. Volevo dimentica-re chi ero. Il cinguettio dei cardellini, che svolazza-vano da un ramo all’altro dell’albero appena fuori da quella finestra, mi rilassò, così tanto che desi-derai di restare per sempre lì, ferma in quell’attimo. Protetta da quella casa accogliente, cullata dal fru-scio delle foglie sotto la leggera pioggia autunnale e dal dolce canto dei passerotti.“Voglio essere un uccellino”.“Voglio rimanere per sempre qui”.“Voglio vivere per sempre questo momento”.“Voglio… dimenticare…”.

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i trovavo in un luogo ombroso. Un corri-doio forse. Dalle ampie finestre entrava una luce intensa. Al di fuori non riuscivo a

scorgere nulla.“Dove sono?”, pensai con tale forza a quella do-manda che mi scappò di dirla ad alta voce.Un’ampia porta, ben illuminata dalle finestre, cigolò e si aprì accanto a me, cogliendomi di sorpresa. La stanza che si stava aprendo era molto più buia del corridoio precedente e fu letteralmente invasa dalla luce quando le porte si bloccarono, come per accogliermi. Nonostante l’inquietante cambiamen-to di illuminazione, ebbi subito l’istinto di spingermi oltre quella soglia.Una volta al suo interno, la porta si richiuse dietro di me. Per un attimo ci fu il buio totale. Poi mi sve-gliai.

Ero seduta al banco del laboratorio di biologia. Ac-canto a me Carol mi stava fissando, ridacchiando. La classe era avvolta nel silenzio. Fu lì che notai il professore che mi stava fissando, abbassatosi al livello del mio banco. «Ben tornata fra noi signorina Campbell», affer-mò piegando leggermente la testa.Io sobbalzai. Il mio cuore stava battendo all’im-

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pazzata. Com’era possibile? L’ultima cosa che mi ricordavo era di essermi addormentata a casa di mia nonna, nella vecchia camera di mia madre. Non ricordavo di essere andata a scuola. Cosa mi era successo? Soffrivo di sonnambulismo per caso? «Bene, bene», continuò l’insegnante di biologia quasi compiaciuto, «Immagino dormisse perché la mia lezione è troppo noiosa per lei», si alzò in piedi e tornò a passo lento dietro alla cattedra, «Quin-di, immagino che lei conosca ogni cosa riguardo all’apparato riproduttore maschile. Non è così?».La classe scoppiò in una fragorosa risata. Io ab-bassai lo sguardo e arrossii come un peperone.

«Yvi. Ma che ti è preso oggi? Non ti ho mai visto così stanca», Carol aveva iniziato il suo interroga-torio. Non che le interessasse veramente di me, ma di solito faceva così per far sembrare il contra-rio e, in genere dopo, mi chiedeva di farle copiare qualche compito. «Non è nulla» «Guarda che a me puoi dirlo»“No. A te non posso dirlo”, pensai, rimanendo in silenzio. «Senti… tu hai fatto i compiti di aritmetica?».

Salii sull’autobus, infilandomi agli ultimi posti da due, nell’angolo accanto al finestrino. Indossai le

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mie cuffie e misi la musica ad alto volume. Mi pia-ceva osservare il paesaggio scorrere accanto a me. Mi rilassava e non mi faceva pensare ad altro. Ero così concentrata nel fissare i bambini che gio-cavano nel giardino della scuola elementare lì ac-canto, che non mi resi conto che un ragazzo si era appena seduto accanto a me, era qualcuno che conoscevo. «Ciao Yv», Colin mi stava punzecchiando con il dito sul braccio. «Ciao», risposi io, senza troppe cerimonie e a malincuore mi tolsi le cuffie.Colin si riaggiustò per bene sul suo sedile, mentre l’autobus stava partendo. «Non credi che dovremmo parlare?», i suoi occhi azzurri mi stavano squadrando, come se fossi ap-pena diventata luccicante come un vampiro di Twi-light. In un modo un po’ sorpreso, come per dire: “Quanto sei cambiata!”. Colin aveva la capacità di farsi capire anche senza proferir parola. «Perché?», sbottai io, appoggiando la testa sul finestrino. «Andiamo… Non mi parli più da quasi un mese, ormai», sbuffò, «Cosa diamine ti sta succeden-do?» «Nulla di importante», cambiai leggermente posi-zione alla schiena. Cominciavo già a sentirmi sotto pressione. Detestavo quei momenti. «Non posso nemmeno sapere perché non mi

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guardi?»Io arrossii leggermente e, a scatti, voltai lo sguardo verso di lui, «Scusa» «Ecco… è questo che intendo. Perché mi stai ignorando? Ti conosco troppo bene e sento che c’è qualcosa che non va. Perché non vuoi parlar-mene? Siamo migliori amici, no?», era diventato molto serio. Strano, non lo avevo mai visto con quell’espressione.Io mi rigirai un attimo a guardare fuori dal finestri-no. «Allora?», continuò ad insistere lui. «Va bene...», incrociai nuovamente il suo sguar-do, «… Andiamo all’MJ però».

MJ era l’abbreviativo che usavamo io e Colin per definire il bar Mary Jane & CO. Era sempre stato il nostro punto di ritrovo preferito. Quando poteva-mo, andavamo a sederci al nostro tavolo all’ango-lo e ordinavamo un gelato. Ricordo che la barista, una signora anziana, mi aveva sempre offerto an-che qualche fragola, ripetendomi che dovevo met-tere su un po’ di ciccia perché ero troppo magra. Non è mai riuscita a farmi ingrassare però. Fu mia nonna a portarmi per la prima volta in questo bar. La barista era una sua vecchia amica, perciò mi conosceva da quando ero piccola. «Ciao ragazzi», ci salutò lei festante, «Da quanto tempo che non vi vedevo. Come va?»

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Mentre le rispondevamo, notai una ragazza più o meno della mia età, forse un po’ più grande, che stava servendo a dei tavoli. Forse sua nipote? «Sono felice di rivedervi», Colin aveva appena terminato di parlarle del più e del meno, «Volete che vi porti qualcosa? Offre la casa»Io ebbi un attimo di imbarazzo. Non mi era ancora capitato che un barista mi offrisse qualcosa. «Sì, grazie. Due gelati: uno alla fragola e uno al cioccolato», rispose prontamente Colin.Era sempre un gran burlone, ma, in compenso, aveva sempre avuto la risposta pronta per ogni cosa. Scostai i miei capelli corvini dietro l’orecchio, lasciando che la treccina, che avevo l’abitudine di farmi la mattina con una delle ciocche davanti, ri-manesse in bella vista. «Allora. Di cosa stavamo parlando?», per una qualche ragione il tono della sua voce mi parve più figo del solito. «Emh…» «Ah, sì. Mi stavi per dire perché mi hai ignorato per un mese intero senza rispondere ai miei mes-saggi e lasciandomi da solo con la scimmia pupaz-zo che mi hai regalato l’anno scorso che non face-va che fissarmi con la sua aria assassina», disse la frase tutta d’un fiato.Io mi lasciai scappare un sorriso, «Ecco… Non ce l’ho con te. Sul serio»Lui mi rispose guardandomi storto.

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«Scusa… Non avrei dovuto ignorarti. Il problema è un altro» «C’entrano i tuoi?», chiese lui, arrivando diretta-mente al punto.Io rimasi un attimo in silenzio, guardandolo e fa-cendogli capire che era così. «Cosa succede?», insistette lui. «Credo che i miei abbiano intenzione di divorzia-re», sparai subito il rospo, pregando che la tortura fosse veloce e indolore. Avevo paura che Colin mi chiedesse “Perché?”, oppure “Davvero?”, o rispondesse con qualsiasi altra domanda, che mi obbligasse a parlare ancora di ciò che mi stava facendo soffrire. «Capisco», fu la sua risposta.“Capisco? Capisco? Non puoi capire!”, pensai.Rimanemmo in silenzio fino all’arrivo del gelato. «Ecco a voi!», disse la ragazza che ce l’aveva portato.Colin cominciò subito a mangiare il suo, mentre io feci una grande fatica anche solo a toccarlo con il cucchiaino. Non capivo bene quale fosse il mio problema. Soprattutto, non capivo perché mi des-se così fastidio il silenzio di Colin, quando effetti-vamente avevo pregato che non mi facesse una domanda. Avrei dovuto essere contenta. Invece mi sentivo ancora peggio. Lo osservavo mangiare e provavo un’enorme fastidio. Ancora quella sensa-zione. Non la sopportavo più. “Non posso arrab-

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biarmi con lui per una cosa così stupida. Avanti”. Lui alzò la testa e mi guardò. «Non mangi?»I suoi capelli biondi e lisci gli avevano oscurato la visuale mentre mangiava e se li spostò indietro scuotendo la testa. Come aveva sempre fatto. «S-sì», risposi io nervosamente. In realtà la pres-sione era come se mi avesse otturato lo stomaco. «Se non lo vuoi lo mangio io», disse lui con estre-ma noncuranza del mio stato d’animo.Allora scoppiai. «Perché ti comporti così? Io ti ho appena confes-sato una cosa che mi sta facendo soffrire e tu mi rispondi solo “capisco”, ma “capisco” cosa? Non puoi capire niente di quello che sto passando! Del-le notti che non ho dormito perché i miei urlavano così forte da svegliare tutto l’isolato. Non puoi ca-pire nulla della gente che mi chiede sempre “Come va?” costringendomi a rispondere “Bene” perché altrimenti dovrei scrivere chilometri di testo o reci-tare opere intere per spiegare come mi sto senten-do adesso. Vuoi sapere come mi sento? Mi sento una merda! I miei genitori sono così impegnati a litigare che non mi vedono neanche. Si vogliono separare. Si vogliono separare! Eppure credevo che si amassero. Insomma, sono i miei genitori!», non feci in tempo a finire quello che volevo dire che scoppiai a piangere.Tutti i clienti dell’MJ si erano voltati ad osservare lo

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spettacolo. «Non ce la faccio più», singhiozzai io, «Ti prego, parlami. Non mi lasciare da sola anche te»Colin era rimasto in silenzio per tutto il tempo, fis-sandomi. Dopodiché mi avvicinò la coppa di gelato alla fragola e tirò fuori dallo zaino un pacchetto di fazzoletti. «Ci voleva tanto?», rispose.

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ui immersa nel buio e mi risvegliai.Ero in palestra, sdraiata a terra. La schiena rigida. I miei compagni di classe mi stavano

fissando dall’alto. “No… Ti prego… Non ancora”. L’insegnante di educazione fisica si avvicinò scan-sando gli altri, chiedendo loro cosa fosse succes-so. Era successo che ero svenuta di nuovo, o al-meno che mi ero risvegliata dal mio sogno con il solito svenimento. Un sogno che da giorni mi stava assillando. Finiva sempre con me che entravo in quella stanza buia. Poi mi svegliavo sempre in un posto diverso. «Yvonne. Tutto a posto? Mi senti?», la mia inse-gnante mi ripeté la stessa frase almeno tre volte. Alla fine mi scocciai e risposi, «Sì, la sento. Per favore, la smetta di parlare per un attimo»Le orecchie mi stavano fischiando. Avevo il mal di testa. «George, vai a chiamare l’infermiera».Il mio compagno a quell’ordine corse via dalla pale-stra. Quella cosa non mi fece sentire meglio. Anzi, la mia pressione salì a livelli altissimi. Mi sentii sull’orlo di un altro svenimento, quando, all’improv-viso, tutto migliorò e alle parole “Riesci ad alzarti?” della professoressa risposi alzandomi in piedi. «Tutto a posto», dissi ancora tremolante, pur non

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essendo realmente convita che si trattasse della verità.Suonò la campanella proprio in quell’istante. «Ragazzi, potete andare. Yvonne, tu resti qui finché non arriva l’infermiera».

Fu così che mi dovetti sorbire mille domande dell’infermiera, senza ottenere nessun risultato. Né lei, né io riuscimmo a capire cosa non stava andando in me. La sua unica risposta era stata di stare tranquilla, che magari era colpa dello stress. Eppure io non ero mai stata così stressata da sve-nire durante le lezioni, o da dimenticare completa-mente tutto ciò che mi succedeva mentre dormivo.L’infermiera mi consigliò di chiamare i miei genitori per farmi venire a prendere e mi chiese il loro nu-mero. Io esitai un attimo. Loro non avrebbero ca-pito. Avrebbero preso questo mio comportamento come una sorta di ribellione da sedare e probabil-mente mi avrebbero vietato di tornare a casa della nonna senza il loro permesso. «Posso chiamare mia nonna?», risposi io. «Devi chiamare i tuoi tutori. Senza il loro permes-so non potremo farti uscire»Io guardai a terra rassegnata, «Okay».Lei chiamò e mia madre rispose al telefono. Mia madre aveva già provato a contattarmi o a venire a cercarmi a casa di mia nonna, ma l’avevo sempre evitata. La sua voce mi era diventata insopporta-

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bile.L‘infermiera me la passò, «Pronto», dissi con voce abbattuta. «Pronto. Allora? Dov’eri finita? Vuoi che ti venga a prendere a scuola?»Fui molto tentata di dire di no, ma risentendo la voce di mia madre mi era come parsa diversa. For-se meno pressante del solito. Meno stridula. «Sì… Non credo di stare bene» «Vuoi che passiamo a prendere le tue cose dalla nonna?», doveva aver chiamato la nonna. «N-no. Voglio dormire lì» «Va bene tesoro… a mamma basta che le parli, ogni tanto»In quel momento mia madre sembrava totalmente cambiata. Non sembrava più in collera. Non sem-brava più volermi ignorare. Sembrava pacata e dolce. Come era stata fino all’anno prima. «Okay».

Una ventina di minuti dopo la chiamata, mia madre era già sotto la scuola con la macchina. Mi riac-compagnò a casa della nonna, mi diede un bacio sulla guancia e mi sorrise. Era da così tanto tempo che non lo faceva più che il mio corpo fu invaso da un dolce calore. Fui quasi tentata di tornare a casa con lei, ma ricordai con tristezza il motivo per cui me n’ero andata. «Cosa è successo?», la calma voce della nonna

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mi rincuorò quando entrai in casa. «Sono svenuta in classe»Mia nonna strabuzzò gli occhi, «Cosa?»Io mi sedetti sul divano, mantenendo lo sguardo su di lei. «Adesso stai bene?»Io feci cenno di sì con la testa. La sua espressione diventò scura. «Effettivamente questa mattina non sembravi proprio al pieno delle tue forze. Non hai neanche mangiato i pancakes» «Questa mattina? Cosa ho fatto questa matti-na?»Mia nonna rimase come imbambolata davanti a me. «Non ricordi…?», la sua voce era diventata fle-bile. Si era appoggiata allo schienale del divano e vi si era seduta sopra come se le fosse mancato il respiro. «No», sbuffai a malapena, «Nonna, che succe-de? Stai bene? Sei diventata pallida»Mia nonna mi rivolse uno sguardo gentile e disse, «Oh. Sì, tranquilla cara. Tutto a posto. Probabil-mente si tratta di uno dei miei acciacchi».

Quella sera chiamai Colin e gli raccontai dell’acca-duto. «Mi prendi in giro vero? Vorresti dirmi che non ti ricordi di avermi regalato la tua insulina e di essere

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scappata urlando “Gallina! Gallina!” questa matti-na?» «Smettila di prendermi in giro!», per assicurarmi che non fosse vero controllai che nel mio zaino ci fosse ancora l’iniettore. «Sei odioso», mi scappò una risatina.Io ero diabetica, perciò mi portavo sempre dietro la mia scorta di insulina salva vita. Avevo provato a pensare che potesse trattarsi di un problema lega-to al mio diabete, ma se fosse stato così allora non mi sarei ripresa così facilmente e, soprattutto, mi sarei ricordata di quella mezza giornata che avevo cancellato completamente dalla mia memoria. «Non capisco davvero Colin. Cosa mi sta succe-dendo?», chiesi, in attesa dei soliti consigli di vita di Colin, che mi facevano sempre bene nonostante fossero molto ripetitivi. «Hai ricevuto una chiamata per caso in questi giorni?» «Emh… Sì… perché?» «Allora stai attenta, perché Samara concede solo sette giorni, di solito. Non fa eccezioni»Scoppiammo a ridere, «Sei proprio un idiota» «Comunque, parlando seriamente, penso che tu sia troppo stressata» «Sì, è anche quello che mi ha detto l‘infermiera. Non è che sono diventata sonnambula?» «E credi che riusciresti a fare le cose di ogni gior-no, per ore intere, senza mai svegliarti? Pensa alle

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lezioni, oltretutto»Io sospirai, «Accidenti… hai ragione. Non riesco proprio a capire cosa mi stia succedendo» «Perché non provi a mettere una videocamera sullo scaffale e a riprenderti mentre dormi? Sai… tipo Paranormal Activity»Ridacchiai per l’ennesima volta, «Sì, certo. Se solo l’avessi una videocamera ad infrarossi!» «Se vuoi mio padre ne ha una. Penso ne sia provvista. Magari, vengo a casa di tua nonna a portartela. Che dici?»Lui abitava abbastanza vicino, solo a pochi isolati di distanza, così acconsentii.

Quando arrivò fu mia nonna ad avvisarmi, dopo averlo riconosciuto dalla finestra. Entrò salutando cordialmente, trasportava in braccio una videoca-mera professionale che sembrava pesare un bel po’. Mi ero quasi dimenticata che suo padre lavo-rava come cameraman ed era un grande appas-sionato di cinema. «Che piacere averti qui Colin! Era da molto tem-po che non ti rivedevo. Vuoi qualcosa da bere?», disse mia nonna facendo l’amicona. «No nulla, grazie signora. È un piacere anche per me», rispose lui con garbo invidiabile.Raggiungemmo la stanza in cui dormivo e gli feci appoggiare quell’aggeggio. «Come hai fatto a scarrozzarlo fin qui? Questo

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coso è un macigno!»Lui schioccò la lingua, «Con le mani?» «Ah-ah… divertente», gli tirai un leggero pugnet-to sulla spalla e lui rispose con un “Ahia! Vacci pia-no”. «Come sta la scimmia?», gli chiesi, divertita al solo pensiero di quale sarebbe potuta essere la sua risposta. «Bene grazie», rispose sedendosi sul letto, «L’ho nutrita con il mio sangue qualche ora fa. Sai… ho scoperto che è un parente di Edward Cullen. Si è innamorato di me e adesso vuole solo il mio san-gue. Quale onore!»Colin era proprio irrefrenabile quando si trattava di fare battute o citazioni a film famosi. Questo era uno dei tanti motivi per cui io lo adoravo. «Okay. Ciancio alle scimmie e piazziamo questa telecamera»

Quella sera decisi che avevo bisogno della sua compagnia, altrimenti non sarei riuscita a dormire. Così insieme tirammo fuori il materasso gonfiabile e lui rimase a dormire da me. «Mi mancherà il mio scimmiotto vampiro», affer-mò lui prima di mettersi sotto le coperte.La videocamera emetteva una lucina verdastra leggermente fastidiosa. Perciò mi girai a pancia in giù, poi in posizione fetale e poi mi rimisi nella stessa posizione di prima. Non riuscii a chiudere

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occhio per almeno un’ora. Nel frattempo rompevo le scatole a Colin toccandogli la schiena con il dito. Nulla da fare. A lui bastava qualche minuto per ad-dormentarsi, dopodiché non si svegliava più fino alla mattina. Tentai di chiudere gli occhi più volte, ma era come se qualcosa mi dicesse che non do-vevo farlo. Perciò non lo facevo. Sentii qualcosa sfiorarmi gli occhi e un improvviso senso di sonno-lenza invase i miei arti. Chiusi gli occhi, assopen-domi.

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a luce accecante che penetrava le finestre mi bruciava gli occhi. Ero immobile davan-ti a quella stanza buia. Sapevo che vi sarei

entrata, mossa da quella strana sensazione, che ogni volta sembrava farsi più forte, come se desi-derasse impossessarsi del mio corpo. “No. Ti pre-go. Non ancora. Non voglio entrare. È così buio. Non voglio dimenticare”. Ebbi la sensazione di sta-re piangendo. Provai a ritrarmi, ma era impossibi-le. Solo in quel momento mi accorsi che era come se qualcosa mi trattenesse. Non ero io. Non riusci-vo a spostarmi, come in quegli sgradevoli sogni in cui vorresti urlare, o correre, ma dalla bocca non ti escono le parole e le gambe si fanno così pesanti da costringerti a gattonare.Sentii la necessità di spingermi in avanti. Era dav-vero una mia necessità? In un attimo mi ritrovai nuovamente al buio. Le porte si chiusero nuova-mente, lasciandomi sola in quell’orribile stato di angoscia. “Per favore. Non voglio dimenticare an-cora”. Mi buttai a terra, sempre che sotto di me ci fosse stato un vero pavimento, abbracciai le mie gambe sconsolata. Dentro di me pregavo di non perdermi anche quella giornata. Era troppo. Avevo fatto troppe cose senza nemmeno accorgermene. Avevo bisogno di uno psicologo forse? Ero impaz-

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zita? Avevo forse sviluppato una doppia persona-lità?“Perché mi succede questo? Non voglio dimenti-care. Ti prego”“V-gl-”, percepii una voce. Una voce nella mia testa, che stava sibilando qualcosa di non molto chiaro, “Vo-io”, rabbrividii. Il suono si faceva sempre più vi-cino. Strinsi forte le mie gambe sul mio petto, “Vo-glio”. Improvvisamente altre mille voci mi invasero le orecchie, come se più persone avessero cercato di sussurrarmi qualcosa giocando al telefono sen-za fili. “Ucc-l-no”, “Voglio rim-re”, “mom-o”, “-care”. La mia testa sembrava essere in procinto di scop-piare da un momento all’altro, quando una figura non ben definita comparve davanti a me, uscendo lentamente dall’ombra. Cacciai un grido.

Sentii il mio corpo scuotersi. Mi ero appena sve-gliata. Ero sobbalzata dallo spavento e mi ero ri-trovata seduta al tavolo del salotto di mia nonna. «Proprio sicura di non volere niente? Guarda che non ti fa bene non mangiare. Non posso accettare che mia nipote diventi magra come un grissino». «Ad un certo punto dovremo infilarti i pancake in gola con un imbuto».Erano mia nonna e Colin. Mi stavano parlando? Perché, non stavo dormendo fino a un attimo fa? Doveva essere successo di nuovo. «C-che?»

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«Ehilà», Colin mi sventolò la mano davanti agli occhi, «Terra chiama Yvonne» «Houston abbiamo un problema», risposi alla sua battuta, ripresami velocemente dallo shock del risveglio. «Ah», disse lui seccamente, «Sai… ho come l’impressione che ti sia svegliata solo adesso»Io lo fissai, «Colin. Cosa è successo? Cosa ho det-to, o fatto, prima?»Mia nonna, che era in cucina, nel frattempo era ritornata in salotto e mi stava osservando truce. «Allora… i pancake alla marmellata di more li do a Cotton?» «Non credo che i gatti mangino pancake», rispo-se Colin, «Però i bimbi sperduti sì», la sua faccia divenne compiaciuta. Faceva la battuta dei bimbi sperduti dalla recita delle elementari su Peter Pan. La ricordavo bene, perché io avevo interpretato niente popò di meno che Wendy. Era stata una delle poche recite alle quali i miei genitori avevano assistito insieme. «D’accordo. Darò qualche pancake al povero bimbo affamato. Anche se te ne sei già mangiato un piatto intero», mia nonna ridacchiò.Perché tutti ignoravano le mie domande? Era come se nessuno fosse stato in grado di sentirle. «Perché nessuno mi risponde!?», alzai la voce.Entrambi si girarono verso di me, colti di sorpresa. «Calmati», rispose Colin tranquillamente.

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«Scusa cara. Sai che la vecchiaia mi ha fatta diventare anche un po’ sorda. Cosa avevi detto?», mia nonna aveva finalmente rivolto l’attenzione su di me. «Io… ricordo che fino a qualche minuto fa stavo dormendo. Non ricordo di essermi alzata, o di aver fatto colazione…» «Infatti non l’hai fatta colazione. Vuoi qualche pancake?» «NO», scoppiai improvvisamente in lacrime. Mi alzai dalla sedia e corsi in camera, sedendomi sul letto. Nessuno mi capiva. Nessuno appoggiava la mia angoscia, nessuno sembrava nemmeno essere in-teressato ad aiutarmi.Colin sgattaiolò dalla porta, «Hai voglia di guarda-re qualche video?».

«Ehi dormigliona. Guarda che è ora della cola-zione!»Colin, nel video, stava cercando di svegliarmi. Ad un tratto io mi alzai e lo seguii fuori dalla stanza. I miei movimenti sembravano quasi meccanici. Sembravo proprio incosciente. «Oddio», mi sentii male. Il mio cuore batteva all’impazzata. Il solo fatto di non ricordare nulla di tutto ciò stava per farmi svenire dall’ansia, «No… no. Non è possibile. Non ricordo nulla», la mia voce si era fatta roca.

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Colin mi guardò con stupore, «Eppure eri sveglia. O almeno lo sembravi. Ti ho detto “Buongiorno” e tu mi hai risposto» «C-cosa ho risposto?» «“Buongiorno”», ripeté lui sorridendo.Io sbuffai. E mi sdraiai sul letto, sentendomi man-care le forze. «I tuoi occhi color Nutella mi dicono che oggi è meglio che tu non vada a scuola», abbassò lo schermo del portatile, «Purtroppo io devo andarci. Altrimenti i miei ammazzeranno prima me e poi il mio scimmiotto» «Ho paura, Colin» «Non dire così. Se sei sonnambula probabilmen-te è per ragioni psicologiche. Fatti curare!» «Non mi trattare come se fossi pazza», il mio sguardo era perso nel vuoto del soffitto, «Tu non puoi capire» «Bè, per quale ragione non mi aiuti a capire?»Le mie mani tremarono, erano incredibilmente fredde. «Tu non ti senti bene, Yv. Secondo me sei troppo stressata. Hai bisogno di una piccola pausa dalla scuola. Se vuoi lo dico io a tua nonna che stai male e non ti va di andarci oggi» «Non dire fesserie» «Parlami. Lo sai che se lo farai ti sentirai meglio. Allora, perché non lo fai?»Tornai a piangere. Mi sentivo così stanca. Eppure

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avevo già dormito. «I-io non capisco. Faccio lo stesso sogno da mol-ti giorni. Ogni volta mi risveglio in un posto diverso dal mio letto. Tipo quella volta a scuola, quella in giardino, in auto, poi quella in palestra, adesso a tavola… sono stanca», dai miei occhi scese un fiu-me di salate lacrime.Colin mi osservava con attenzione, studiando i miei occhi mentre parlavo. «Vuoi che ti porti un po’ di melissa, o di vale-riana… per lo stress? Sai che mia madre ne ha a cumuli», sorrise e mi prese il naso tra due dita, «naso-naso»Io non resistetti e risi singhiozzante. Era l’unico an-cora capace di farmi ridere. «Vedrai che si sistemerà tutto. Facciamo così: tu oggi non vai a scuola, oggi pomeriggio usciamo e ci rilassiamo. Andiamo da MJ, facciamo una pas-seggiatina al parco, tra gli scoiattoli, gli uccellini e-» «Uccellini… sì. Adoro il canto dei cardellini», io mi ero sollevata e messa seduta per poterlo guar-dare direttamente in faccia.Mi sentii molto meglio nel sapere che Colin mi avrebbe aiutata. Speravo con tutta me stessa che quella cosa non mi succedesse più. Spostai lo sguardo alla finestra per vedere il tempo che face-va e notai che nel vaso sul davanzale, solitamente vuoto, c’era un bellissimo papavero rosso.

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olete qualcos’altro?», chiese la proprie-taria del bar MJ con una voce particolar-mente mielosa. Non sapevo perché, ma

mi infastidì un po’. «No grazie», rispondemmo io e Colin all’unisono.Dopo il solito gelato, ci dirigemmo, accompagnati dal canto degli uccellini, verso il parco comunale. La mia mente si era quasi completamente liberata dal fastidio, dalle paure, dal pensiero delle com-plicazioni. Mi sentivo proprio cullata da quell’am-biente. Mi era sempre piaciuto stare immersa nella natura. Tanto che, quando in famiglia ci si stava più volentieri, accettavo ogni tipo di gita, o scam-pagnata. Adoravo soprattutto quando a mio padre veniva in mente di portarci in campeggio. Cosa che mia madre non ha mai apprezzato, siccome lei era l’anti-campeggio: passava il tempo a lamentarsi del buio, del freddo, del cibo in scatola, o qualsiasi altra cosa.Ci sedemmo su una panchina molto ammaccata, ma comunque usufruibile. «Mi sento bene»Colin mi lanciò un’occhiata veloce e rispose, «Fan-tastico…», la sua espressione si incupì al termine di quella parola. «Ehi. Che succede?», gli chiesi, intuendo qualco-

5.

«V

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sa che non andava, «Nessuna battuta sulle scim-mie oggi?» «Ti devo dire una cosa»Rimasi attonita. Non mi era ancora successo di as-sistere a una sua reazione di quel tipo, ma avevo già visto quell’espressione sul volto di qualcun al-tro, perciò capii di cosa si sarebbe potuto trattare, anche se scartai subito quell’ipotesi, essendomi abituata al solito Colin. «I-io… ecco… no… volevo dire», cominciò a far-fugliare una serie di parole, alcune completamen-te scollegate tra di loro, «Okay. Devo riprendermi. Devo farlo con stile, almeno» «Emh… Colin, che stai dicendo?»Colin nel frattempo si era inginocchiato davanti a me. «Yvonne Theresa Campbell», stava pronuncian-do il mio nome completo, c’era sicuramente qual-cosa che non quadrava, «Da molti anni ormai devo dirti questa cosa. Ti prego di non ridere», aveva risposto al mio accenno ad una risatina dovuto alla sua buffa posizione, «È una cosa seria. Noi ci co-nosciamo dalle elementari. Bè questo lo sai. Abbia-mo passato così tanti anni insieme, che nemmeno se fossimo stati fratelli saremmo stati così uniti…»Lo fermai con il palmo della mano a cinque centi-metri dalla sua faccia, «Non dirmi che vuoi vendi-carti per quello scherzo del gavettone. Giuro ch-» «Lasciami finire!», alzò la voce. Non l’avevo mai

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sentito alzare la voce con me in quel modo, «Vo-levo dire che, dalle scuole superiori in poi, mi sono reso conto, che… ti amo. Amo i tuoi occhi color Nutella, amo la tua treccina, amo la tua pelle sem-pre fredda, amo le tue mani, amo tutto di te! Mi fai mancare il respiro, ogni volta, per questo quando sono con te faccio sempre un sacco di battute, è l’unico modo che ho per smorzare la tensione. Ho sempre voluto dirtelo, ma non ne ho mai trovato il coraggio. Poi, quando hai smesso di parlarmi… allora ho capito cosa contava veramente per me. Ho capito che era venuto il momento» «Fermati!», gridai io.Mentre ascoltavo le sue parole, qualche lacrima mi aveva rigato il viso. Non potevo farcela a soppor-tare quella situazione. Non era proprio il momento giusto per una confessione. Mi alzai dalla panchina e fuggii, diretta a casa. Lon-tana da tutto quello. Lontana da altri shock. “Yv! Aspetta!”, lui mi stava chiamando, ma io fingevo di non sentirlo e correvo ancora più veloce.

Ero seduta sul letto che un tempo era stato quello di mia madre. Non ci pensavo spesso, ma era così. Era il letto dove mia madre aveva dormito quando aveva la mia età. Cercando di distogliere i pensieri da ciò che era successo un’ora prima, presi e ac-comodai sulle mie gambe il mio portatile. Sopra avevo scaricato la registrazione della scorsa notte.

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Accesi, sbloccai il mio profilo utente ed eccola lì, la schermata del player ancora attiva, esattamente nel punto che mi aveva mostrato Colin quella mat-tina. Non avevo più avuto il coraggio di toccarlo. Avevo paura di sapere cosa mi succedeva mentre dormivo. Ero impossibilitata a difendermi quando dormivo. Se mi fosse successo davvero qualcosa in stile Paranormal Activity?. Esaminai attentamen-te ogni singola parte del video. Quando raggiunsi la quarta ora di registrazione: erano le cinque di mattina, le indicava l’orologio inquadrato. La mia pelle d’oca salì alle stelle, assieme ai miei battiti cardiaci. Nel video era comparsa un’altra figura. Era mia nonna, probabilmente. Si era avvicinata a me, mi aveva accarezzato la guancia e si era messa a parlare nel vuoto, senza proferire alcun suono. «Okay… questo è veramente inquietante»Non ce la feci a continuare il video e socchiusi lo schermo del portatile. Proprio in quel momento, sentendomi osservata, mi girai verso la porta e vidi mia nonna proprio lì davanti. Sobbalzai terrorizza-ta. «Tutto a posto Yvonne?»Io feci finta di niente e risposi, «Accidenti, nonna. Mi hai spaventata» «Stavi guardando uno di quei tuoi film con tan-to ketchup, vero?», mi lanciò un’occhiataccia. Mia nonna utilizzava la parola “ketchup” per definire i

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film dell’orrore, in particolare quelli splatter. «N-no. Ma che dici… Ma va» «Va bene Cocca mia. Adesso però fai il letto, che è così da questa mattina» «S-sì, certo»Quando se ne fu andata tirai un sospiro di sollievo. Perché mia nonna la notte prima mi aveva fatto visita mentre dormivo? Probabilmente quella cosa non mi avrebbe impaurita allo stesso modo se non l’avessi vista con i miei occhi. Poi, per quale ra-gione parlava senza proferire suoni? Eppure ero sicura che il registratore vocale della videocamera funzionasse, come anche le casse del computer, che erano al massimo livello d’audio.

Fu così che decisi che era meglio tornare a casa dei miei. Avevo troppa paura che quella visita della nonna non fosse stata l’unica in quei giorni. Dove-vo assolutamente allontanarmi da lei per un po’.

Entrai in quella dannata porta. Non ce la facevo più. Volevo che smettesse e avevo deciso che do-vevo farcela da sola. Solo io potevo combattere con i miei sogni, dopotutto.Quella stanza buia però mi risultava ancora to-talmente estranea, nonostante l’avessi rivista più volte. Così terrorizzante, da farmi accapponare la pelle. “No. Questa volta non cederò”, ero deci-sa ad andare avanti in quel sogno, a non cedere

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alla paura. Volevo battere il mio incubo. “Tu non avrai la meglio su di me. Io sono più forte. Non sei tu a controllarmi. Io controllo te”, continuai a fare pensieri di questo tipo, costruendo nella mia men-te quei piccoli castelli di sicurezza che mi erano mancati fino a quel momento. Piano, piano, la mia paura sparì, accompagnata dalle voci e le figure inquietanti che colmavano l’incubo. Davanti a me si aprì uno spiraglio. Una sorta di corridoio dai tratti non ben definiti, estranei al mio occhio. Avevo qua-si la sensazione di aver perso qualche diottria non riuscendo a scorgerlo bene. In ogni caso, lo seguii, cercando di pensare che forse si trattava di qual-cosa di positivo. Perciò nulla di cui preoccuparsi. Il corridoio biancastro terminò in una stanza, che lentamente riuscii a riconoscere. Era la stanza di mia nonna, la sua camera. Non quella a casa sua, ma la sua vecchia cameretta. Di quando ancora era una bambina. L’avevo riconosciuta da una fo-tografia scattata a mia nonna quando era giovane, appesa sul muro di quella stanza. “Strano. Non ri-cordavo questa stanza. E allora perché…?”. “Perché questo non è il tuo sogno”, una voce fami-gliare mi sfiorò le orecchie.“N-nonna?”La figura di mia nonna era comparsa accanto a me. Sembrava molto più giovane, quasi trentenne.“Sì. Sono io”, rispose lei prendendo in mano una delle cornici che stavo osservando e guardandola

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intensamente, “Piccola mia. Adesso ho bisogno di tutta la tua attenzione”.Io spalancai le orecchie pur di evitare di perdermi una singola parola. “Non intendo spaventarti, ma tu sei nei guai”, affer-mò con volto preoccupato.“Nei guai? In che senso?”.“Siediti”.Mi fece sedere sul suo letto. Era particolarmente soffice.“Avrei dovuto rivelartelo prima. Non ho molto tem-po adesso”, mi prese le mani tra le sue e continuò, “Tu sei speciale. Tu puoi entrare nei sogni delle altre persone”.Io strabuzzai gli occhi meravigliata e incapace di parlare.“Nella nostra famiglia, ormai da secoli, si tramanda questo dono, da madre in figlia. La leggenda narra che sia stato il dio del sonno Hypnos a donarcelo. Tu adesso sei entrata nel tuo periodo di prova. Si dice che in questo periodo il figlio di Hypnos, Mor-feo, testi le nostre menti. Esso cerca di persuaderci che il mo-”, la voce della nonna divenne via via più sfocata. Riuscii a percepire la sua frase strozzata, “Non c’è più tempo. Ricordati di non aver paura”, dopodiché il silenzio invase la mia mente. Il sogno di mia nonna stava man mano svanendo e io mi sentii incredibilmente sola.

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erché non potevo essere un uccellino? Uno di quei bellissimi cardellini che cinguettavano simpaticamente là fuori, fuori da quella fine-

stra. Quel freddo lettino d’ospedale era riuscito a nausearmi. Tutta la mia situazione era incredibil-mente nauseabonda. Come poteva essere suc-cesso tutto così in fretta? Ero sempre stata con-vinta che ogni cosa richiedesse il suo tempo. Era tutto troppo innaturale, troppo sovrumano. «C’è qualcosa che devo chiederti Yvonne», era mia madre a parlarmi. In quel momento si trovava seduta accanto al corpo immobile di mia nonna, «Siediti qui, per favore», la sua voce era sconso-lata.Io esitai un attimo. Ammetto che l’atteggiamento di mia madre mi atterrì sul momento, ma cedetti e raggiunsi la sedia accanto alla sua. «Puoi dirmi… quali sono state le ultime cose che ti ha detto la nonna?», parlò molto lentamente, con la bocca irrigiditasi per la stanchezza. Dopo tutte quelle ore di sonno perse c’era d’aspettarselo.Io aprii la bocca come per dire qualcosa, ma la richiusi immediatamente. Tutto ciò era successo troppo in fretta. Non avevo ancora avuto il tempo di metabolizzare il tutto. In realtà, le uniche cose che mia nonna mi aveva detto, che non riguardas-

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sero i pancake, o la scuola, o le solite cose, erano quelle strane cose riguardanti i miei sogni. Di solito non ricordavo molto bene ciò che sognavo, anzi spesso me ne dimenticavo completamente. Solo in quegli ultimi tempi la mia mente aveva comincia-to a caricarsi del ricordo di quelle figure terrifican-ti, di quegli inquietanti sussurri, della figura di mia nonna che svaniva all’interno del sogno, come se vi fosse rimasta imprigionata per sempre. La nonna era in coma. Un coma profondo. Lo era già da quasi due giorni.Il mio silenzio fece scoppiare in lacrime mia ma-dre. Non l’avevo mai vista in quello stato. «C-credo che l’ultima volta che ci siamo parlate mi avesse sgridata perché stavo guardando… un horror»Mia madre tirò fuori dalla tasca del giacchino un fazzoletto di carta, «E come ti sembrava?»Io la guardai interrogativa. «Come ti sembrava che stesse in quel momen-to?»Ebbi un sussulto. Mi ero ricordata solo in quel mo-mento degli “acciacchi” della nonna. «Ecco… Sembrava che stesse bene», mentii.Lei annuì, con una smorfia di dolore stampata in faccia. Era probabile che stesse male per il fatto di non aver potuto salutare la nonna per un’ultima volta. «Sai… Io… l’ho sognata»

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Riuscii ad attirare la sua attenzione. «Ah sì?», l’accenno di un sorriso accarezzò il suo volto, «Ti ha detto qualcosa?» «Bè sì…»Titubai al pensiero di raccontare a mia madre una cosa così intima dopo tutto il tempo che avevo passato credendo di odiarla, ma non potevo ve-derla soffrire così e sapevo che l’avrebbe fatta sta-re meglio. «Ho sognato che ero nella sua camera… di quan-do lei era più giovane… e mi ha parlato di qualco-sa di importante… riguardo a me»Lì mi fermai, temendo che il resto della storia po-tesse essere troppo egocentrico per quella situa-zione. «Di cosa ti ha parlato?», con mia sorpresa lo sguardo di mia madre sembrava quasi bisognoso di conoscere quello che avevo visto. «Emh… Mah, mi ha raccontato di qualcosa ri-guardante Morfeo… me lo sarò immaginato io», le mie ultime parole furono soffocate dalla mia insi-curezza.Mia madre alla parola “Morfeo” aveva sgranato gli occhi. «M-mamma? Che succede?» «Mi stai dicendo… che tua nonna ti è comparsa in sogno e… Ti ha parlato del rituale?»Io incrociai il suo sguardo e capii immediatamente che anche lei sapeva qualcosa.

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«Qua-le rituale?» «Credo che dovresti saperlo… ormai», si alzò in piedi e cominciò a spostarsi nella stanza, avan-ti e indietro, «Non volevo parlartene. Speravo ve-ramente che non riguardasse anche te. Credevo veramente che il fatto di non parlartene potesse tenerti… al sicuro. Lontana dai pericoli di questa storia»Io deglutii pesantemente e cominciai ad avere i brividi. Era veramente di dominio pubblico questa cosa? Mi guardai intorno, accertandomi che non ci fosse nessun’altro nella stanza. «Cosa vuoi dire?» «Cosa ti ha detto precisamente la nonna quan-do l’hai sognata?», i suoi occhi indagavano i miei come se avesse voluto capire se stavo mentendo o no. «Mi ha parlato… di un dono»Mia madre alzò gli occhi al cielo e borbottò, «Ma quale dono, è una maledizione», lo disse così pia-no che feci fatica a distinguere le parole, ma com-presi benissimo “maledizione”. «Ti ha parlato del periodo di prova?»Io annuii, desiderosa di saperne di più, e in fretta.«Bene. Non penso di riuscire a spiegartelo come avrebbe fatto lei… ma proverò», osservò il corpo disteso della nonna, «Quasi tutte le donne della nostra famiglia si tramandano da secoli questo… chiamiamolo “dono”. Tu sei ancora giovane e sei

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solo agli inizi. Questo è il periodo più pericoloso…» «Tu ce l’hai?», questa domanda mi venne istin-tiva. «Sì», mia madre sospirò e continuò, «Noi lo chia-miamo il “Dono di Hypnos”, il dio greco del sonno, perché la leggenda del nostro culto narra che sia stato lui a regalare questo potere alla nostra pro-genitrice» «Aspetta, aspetta, mamma. Frena un attimo. Hai detto “culto”?»Mia madre tirò furi dalla scollatura il suo ciondolo. Mi era familiare, avevo molti ricordi di mia madre con quel ciondolo, fin da quando ero piccola. «Questo è il ciondolo che mi regalò mia madre, tua nonna… che le regalò sua madre… che lo ave-va ricevuto da sua madre… e così via», si avvicinò a me per mostrarmelo meglio. Sembrò una mossa stupida, dopotutto erano anni che lo avevo sempre avuto sott’occhio, eppure non mi ero mai resa conto realmente della sua presen-za. Era un ciondolo d’argento a forma di fiore, dalla forma pareva un papavero. «Lo sai perché ha questa forma? Ci hai gioca-to così tante volte quando eri piccola», lo strinse nella sua mano, «Il dono di Hypnos è quello che ci permette di entrare nei sogni delle altre persone. In questa stanza», indicò tutta la stanza con le mani, «possediamo tutte una capacità sensoriale oltre la norma. Questa sensibilità, in un qualche modo, ci

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permette di avere più controllo nel momento del sogno, ma allo stesso tempo ce lo fa soffrire di più. Hai cominciato a ricordare i tuoi sogni di recente… vero? Hai già avuto episodi di sonnambulismo?»Io rabbrividii nuovamente, «Emh… sì. Mi è capi-tato addirittura di svegliarmi in classe. Ma… non è anche troppo… per il sonnambulismo? Insom-ma… non penso che le persone sonnambule se ne vadano in giro parlando con chiun-» «Sì tesoro… Adesso sto per dirti qualcosa che ti farà paura. Ti prego di non urlare»Mi assalì il terrore udendo quelle parole. «Quegli episodi di sonnambulismo sono dati dal-la fase che stai passando. Adesso hai sedici anni, che è più meno l’età in cui cominciano a mostrarsi i primi sintomi. Questa fase è chiamata “il richiamo di Morfeo”. È un fenomeno che la leggenda cerca di spiegare con la figura di Morfeo, uno dei figli di Hypnos. Il mito dice che, qualche millennio fa, la nostra progenitrice fece innamorare Morfeo. Que-sto amore non fu ricambiato e per questo Morfeo, in collera, la condannò a incubi molto violenti, in questi momenti il dio si impossessava di lei e le faceva fare quello che voleva. Hypnos, che ebbe pena di lei, le diede il potere di sfuggire ai suoi incubi. Fuggendo nei sogni degli altri Morfeo non avrebbe potuto infastidirla ulteriormente. Non so cosa sia realmente legato a questo fenomeno oni-rico… so solo quello che dice la leggenda. Quando

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hai questi episodi di sonnambulismo, si pensa che il dio Morfeo si impossessi del tuo corpo. È una specie di maledizione, che abbiamo ereditato da questa famiglia»Ero rimasta muta per tutto il tempo. Non avevo idea di come rispondere a tutte quelle informazio-ni. Le parole di mia madre era come se mi stesse-ro schiacciando sempre di più lo stomaco. «Il papavero è il fiore che si dice che Morfeo passi sugli occhi, il viso, delle persone, per farle addormentare. Questo ornamento», indicò la col-lana, «rappresenta la nostra famiglia» «Mamma… finirà tutto questo?» «Il suo richiamo? Non voglio darti false speran-ze. No. Si attenuerà forse, ma non finirà. Arriverai ad un punto in cui la tua mente vedrà quasi come automatico il fatto di trasferirsi nei sogni degli altri. Vedrai, sarà così. Ma devi superare questa fase prima» «Perché…? Potrei non superarla?»Mia madre mi guardò. I suoi occhi erano langui-di e rossi. Scosse leggermente la testa, «Ci vuole molta forza mentale per riuscire a reggere questo peso. È una cosa che richiede molte energie» «E… cosa mi succederà se non la passerò?»Mi madre spostò lo sguardo su mia nonna. Tremò e cominciò a singhiozzare. «No…», io mi alzai e urlai più forte che potevo, «NO!».

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u così che fuggii dall’ospedale. Presi le chia-vi della casa della nonna dalla borsa di mia madre e scappai via. Dentro di me sentivo di

non voler vedere nessuno almeno per un mese. Mi sentivo male come non mi ero mai sentita in vita mia. Volevo più che mai isolarmi da quel mondo, che tutto un tratto aveva cominciato a sembrarmi così estraneo. Così alienante. Un mondo che mi aveva tenuto nascosto quello che ero veramente. Cos’ero? Ero un mostro? Come avrei potuto entra-re nei sogni degli altri? Entrai nella casa di mia nonna, mi chiusi a chia-ve all’interno e piansi per l’ennesima volta. Mi ab-bandonai a una depressione fortissima. I miei sin-ghiozzi sembravano eterni. Non riuscivo proprio a smettere. Avevo un peso sul cuore che sembrava volermi portare giù, sempre più giù, fino allo spro-fondamento totale nella mia autocommiserazione. Non volevo essere quello, non volevo avere quel-la maledizione. Non ero mai stata religiosa, ma in quel momento pregai qualche dio di salvarmi, pur consapevole della mia ipocrisia. Non volevo finire in coma anche io, non volevo più soffrire. Dopo svariate ore di pianti isterici, nelle quali giun-si addirittura a pensare al suicidio, mi bloccai. Era come se tutte le lacrime che avessi in corpo si fos-

7.

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sero prosciugate. In quel momento non sentii più niente: il groppo che avevo in gola, lo stomaco che sembrava attorcigliarsi fino alla nausea. Nulla. Fu in quel momento che decisi che non volevo più piangere. Io volevo resistere. Dovevo resistere. Sentii per la prima volta che potevo farcela. Ero riuscita a battere il mio incubo, probabilmente en-trando nel sogno di mia nonna. Non ero così debo-le, dopotutto. Avrei battuto Morfeo? Sarei riuscita a sconfiggere le mie paure più profonde? In quel momento non mi importò più di nulla. Sentii il mio cellulare vibrare e comparve sullo schermo un messaggio di Colin.

Colin: “Ciao Yv… come va?”

Inizialmente non pensai di rispondere, ma dopo qualche minuto, in cui pensai su come avrei po-tuto spiegargli tutto quello che stava accadendo, presi in mano il cellulare e cominciai a digitare let-tere, parole, per poi cancellarle e ricominciare a scrivere. Non sapevo proprio come cominciare il discorso. Lui mi aveva fatto una dichiarazione d’a-more e io non l’avevo proprio calcolato, però era il mio migliore amico e non potevo lasciarlo così, in sospeso. Proprio quando sentii che non sarei riuscita a scri-vere nulla di buono. Il cellulare vibrò nuovamente.

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Colin: “Senti, so che sei lì e non ti va di parlarmi. Dove sei?”

Non pensai un secondo di più e risposi.

Yvonne: “Sono a casa di mia nonna…”

Attesi con ansia una sua ulteriore risposta, speran-do quasi che fosse qualcosa del tipo “vengo da te”, o che fosse simile almeno.Colin: “Okay, resta lì”.

Mi aveva detto “resta lì”? Questo poteva solo voler dire che stava venendo da me. Andai in brodo di giuggiole. Non capii come mai, ma la mia voglia di rimanere da sola era totalmente svanita. Non vedevo l’ora di rivedere Colin, sperando che non tirasse subito fuori il discorso della dichiarazione. Lo attesi con il muso appiccicato alla finestra. Si era messo a piovere, oltretutto. Avevo una terribile voglia di raccontargli ogni cosa e non sapevo ne-anche se mi avrebbe creduto o no. Intravidi la sua felpa blu svoltare l’angolo e mi preparai immedia-tamente ad accoglierlo in casa. Suonò il campanello.«Arrivo!», ero così contenta in quel momento, che ebbi il timore che Colin potesse pensare che in re-altà non ero stata veramente male.«Ehi», mi salutò lui, esitando a entrare.

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«Ciao», il mio flebile sorriso sembrò fare qualche effetto sul suo volto serio, quasi distaccato, «En-tra», continuai io, un po’ inquietata dalla sua inde-cisione, «Vuoi che ti prepari qualcosa? Un tè, un bicchiere d’aranciata…»«Nulla grazie», lui si tolse la felpa bagnata e si se-dette al tavolo della cucina, «Ho sentito di quello che è successo», probabilmente si riferiva a mia nonna, «Mia madre ha incontrato la tua all’ospe-dale»Sua madre era infermiera. Anche per quello era appassionata di metodi medicinali ed erboristici.«Capisco», abbassai lo sguardo.Lui si alzò in piedi e mi si avvicinò frettolosamente. Alzai lo sguardo e lo vidi proprio davanti a me. Mi abbracciò. Il suo petto era così caldo, mi tranquil-lizzò subito. Mi mancavano i suoi abbracci, era da quando eravamo piccoli che si era un po’ distacca-to da quel punto di vista.«Peter è qui»Feci fatica a intuire il riferimento.«Ma tu non eri mica un bimbo sperduto?»Lui si staccò leggermente dall’abbraccio, «Certo… Ma sono anche il tuo Peter»Io sorrisi. Il mio viso s’illuminò. Ricordai la recita delle elementari. Da piccola, effettivamente, avrei voluto tanto che fosse stato lui a interpretare Peter Pan.Lui mi diede un bacio a stampo, «Questo lo volevo

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fare dalle elementari», ridacchiò giocoso.«Ehi, m-», non feci in tempo a protestare che si gettò nuovamente sulle mie labbra e non si staccò più. Quello fu il mio primo bacio. Mi parve strano, me lo ero immaginato diversamente, come qualcosa che ti fa venire i brividi e raddrizzare tutti i peli delle braccia, o che ti fa addirittura alzare una gamba. Ciò che sentii fu il calore e la pressione delle sue labbra sulle mie. Nonostante fossi stata colta di sorpresa, non mi scostai, né rifiutai le sue labbra. Mi piacevano, erano dolci, sottili, protettive. Quan-do quell’intenso momento terminò, non potei che esclamare, «Wow».Lui si era appoggiato al muro dietro di me con una mano, mi accarezzò le guance e mi abbracciò nuo-vamente. Mi sentii tremendamente in imbarazzo in quel momento. «C-Colin», cercai di smuovere un po’ la situazione.«Dimmi, dolce Wendy», non sapevo il motivo, ma i suoi occhi mi apparvero più sensuali mentre lo diceva. Arrossii.«Ecco… nulla», stavo pensando di parlargli di quello che mi aveva detto mia madre, ma cambiai immediatamente idea.«I tuoi occhi nutellosi mi stanno parlando», affermò lui.«E cosa ti dicono?», chiesi imbarazzata.«Mi dicono che dobbiamo parlare e che hai parec-

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chie cose da raccontarmi»Incredibile quanto le parole di una persona potes-sero cambiarti la giornata. Mi piaceva Colin? Mi avevano sempre affascinata la sua simpatia e la sua gentilezza e ammetto che quel bacio mi fece crescere una bella cotta per lui.

Quella sera gli raccontai tutto quello di cui aveva-mo parlato io e la mamma e quello che era succes-so alla nonna. Di come l’avevo vista in sogno. Dei miei “poteri”. Lui mi ascoltò attentamente, fino alla fine. Quando terminai di spiegargli tutto mi aspet-tai una sua risposta scioccata, o qualcosa del tipo “Siete tutte pazze!”. Lui nel frattempo aveva acqui-sito un’espressione preoccupata.«Fantastico… la ragazza che amo ha anche dei poteri… È il sogno di ogni uomo», ridacchiò ner-vosamente, «A parte gli scherzi, ti starò sempre accanto, vedrai che non ti succederà niente finché ci sarò io. Non lascerò che Morfeo faccia quello che vuole con la mia ragazza!»«Tua ragazza?», io risi, «Non sapevo che dopo un bacio stessimo già insieme»Lui mi guardò malamente, «Ma se siamo insieme da anni!»Ridemmo di gusto. Quell’atmosfera di calore e si-curezza mi aiutò molto. Credo che fu quello a dar-mi la forza di andare avanti. La positività che mi trasmetteva quel ragazzo era incredibile. Sentivo

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di poter battere qualunque nemico, qualunque for-za oscura.

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i ero addormentata. Questa volta tra le braccia di Colin. Le sue braccia tiepide, le sue coccole, mi facevano sentire al si-

curo.

Mi ritrovai nuovamente in quel corridoio. Mi vol-tai cercando la porta che avevo oltrepassato più volte. Eccola lì. Avanzai un poco e mi accorsi che davanti a me era comparsa una nuova porta. Pro-prio in fondo al corridoio. Quest’ultima era nera, leggermente sfocata. Mi sembrò che stesse cam-biando addirittura aspetto. Come mai non riusci-vo a inquadrarla bene? Percepivo una strana for-za provenire da quella visione. La sentivo come estranea, quasi spaventosa. Le mie ginocchia tre-marono. La mia mente aveva ricominciato a spin-germi verso la stanza buia, non capivo come mai, ma sentivo che non avrei dovuto varcarla questa volta. Dovevo essere coraggiosa. Dovevo deviare il mio percorso mentale. Dovevo tentare, almeno. Mi spinsi a fatica verso l’altra porta, riuscivo a ma-lapena a trascinarmi. Qualche forte pressione mi costrinse a gattoni. Dovevo raggiungerla, anche se avvertivo il mio inconscio ribellarsi. Appoggiai una mano su quell’immagine poco chiara e, sen-za nemmeno spingere, mi trovai in un campo. Un

8.

M

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campo esteso, sembrava infinito. L’erba brillava di un verde che io ero stata capace di vedere, sino a quel momento, solo nella mia fantasia. I rari alberi non si muovevano, le foglie non erano scosse dal vento. Tutto era incredibilmente pacifico. Terroriz-zante. Voltandomi a sinistra notai un lago. Sulla sua riva vi erano due figure, che per un attimo mi fecero palpitare il cuore: una donna e un uomo. Non erano ben definiti e le loro forme erano mute-voli. Rivolti verso il lago, immobili. Mi avvicinai. Tutto sembrava essersi fermato in quel luogo. Non feci in tempo a raggiungere la don-na, che successe qualcosa di inquietante. L’uomo scomparve, lei si girò nella direzione dove era sta-to lui e si mosse lentamente verso il lago, che si stava espandendo e cominciò a sembrarmi più un mare. Io tentai di avvicinarmi, ma sembrava qua-si che il sogno stesso volesse trattenermi in quel preciso punto. La donna cominciò ad affondare le sue magre gambe nell’acqua, che in quel momen-to sembrò diventare più torbida. Quando l’acqua aveva ormai raggiunto il suo busto, lei si voltò ver-so di me. Il suo sguardo vuoto, il suo volto incre-dibilmente familiare si poteva benissimo vedere anche in lontananza. «N-nonna?»La donna si spinse ancora più a fondo, fino a scomparire sotto quella superfice blu. Ero quasi certa che quella figura fosse mia nonna, non tan-

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to per il suo aspetto, ma proprio a ragione di una mia sensazione. Improvvisamente si alzò un forte vento. Per un attimo ebbi il timore che stesse per scatenarsi un tornado. Cosa succedeva? Perché mi sentivo così agitata? Era come se fossi stata cosciente all’interno di un mio sogno e questo ren-deva qualsiasi cosa molto più terrificante di quanto quel sogno potesse essere normalmente. Trema-vo per lo shock. “Yvonne”, mi chiamò una voce dietro di me. Mi gi-rai di scatto. “C-c-“, Colin era proprio davanti a me e mi fissava con sguardo spento, come se fosse stato un fan-tasma, “-olin”.La sua presenza, stranamente, invece che tran-quillizzarmi mi fece delirare. Tentai di fuggire, ma qualcosa continuava a trattenermi lì.“Yvonne”

«Yvonne» «Yvonne!»Mi svegliai improvvisamente. Ero seduta sul letto. Le mani erano gelate e tremavo ancora dall’ansia. «Wow… credevo che avessi deciso di trasferirti a casa di Morfeo. Non riuscivo a svegliarti»Aveva un’aria preoccupata e la fronte un po’ suda-ta. Quando si agitava troppo tendeva a sudare di più. «C-olin», io cercai di rilassare i muscoli, ma non

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ci riuscivo. Ero tutta in tensione, a causa dell’ansia. «Scema, mi hai spaventato. Ha chiamato tua madre, comunque. Sta venendo qui»Io lo guardai negli occhi e solo in quel momento percepii tutta la sua paura. Semplicemente guar-dandolo negli occhi. Aveva gli occhi lucidi e la fron-te corrugata. «S-sono sveglia», mi toccai il viso. Sentivo quella cosa come se fosse stato un miracolo, «Sono riu-scita a svegliarmi».Lui mosse la bocca in una micro-espressione qua-si impercettibile. Probabilmente un misto di gioia e paura.Suonò il campanello. «È lei», affermò Colin, correndo alla porta di in-gresso.Io tentai di alzarmi dal letto, ma non ci riuscii. L’an-sia mi teneva incollata alle coperte. «Yv, vieni qua!», mi chiamò lui.A quel punto feci uno sforzo e gettai il mio peso sulle gambe. Mi sentivo come se, da un momento all’altro, esse volessero cedere per farmi cadere a terra, perciò mi aggrappavo a qualunque cosa mi si parasse davanti.Raggiunsi il salotto. Mia madre era entrata ed era faccia a faccia con Colin. Lui si girò verso di me. «Bè, vi faccio un tè», sorrise lui e si rifugiò in cucina.Mia madre si voltò verso di me, «Lui sa qualcosa?»

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Io annuii e raggiunsi il divano per gettarmici sopra. «Perché non mi hai richiamata? Avevo paura che ti avessero rapita», mi rimproverò con una voce quasi tremante. «Scusa mamma», risposi con un filo di voce. «Come stai? Sei molto pallida», mi chiese dopo avermi raggiunta sul divano, «Hai dormito?» «Sì»Eccola. Ecco che la paura aveva fatto capolino an-che sul suo viso. «Tutto a posto. Come vedi mi sono risvegliata»Lei continuò a fissarmi fastidiosamente. Raccolse la sua borsa da terra e rovistò al suo interno fino a estrarne un libro. «Questo è un regalo per te»Io allungai la mano e lo presi. Era un libro intitolato “Culto di Hypnos”. Mi scivolò e lo lasciai cadere sul divano. «N-no» «Tesoro… devi averlo tu. Anche questo», si tolse il ciondolo e me lo porse, «Questi oggetti fanno parte della nostra stirpe, come anche altri che non sono in nostro possesso»Io sgranai gli occhi, «Vuoi dire che noi non siamo le uniche?»Lei scosse la testa e insistette nel volermi dare il ciondolo. Io, un po’ riluttante, lo accettai. «A cosa dovrebbe servirmi?», chiesi nervosa-mente.

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«Ti porterà fortuna».Colin ci raggiunse con il tè e i biscotti con le gocce di cioccolato. Poi ci abbandonò con la scusa che doveva fare una commissione per sua madre. Pro-babilmente, invece avrà preferito lasciarci da sole per discutere in pace del nostro problema. «Cosa hai sognato?», mia madre aveva uno sguardo inquisitore.Io le raccontai del corridoio che da un po’ di tempo stavo sognando, di come fossi entrata in quel cam-po verde, delle due figure, della nonna. «Quindi è stato così per te. Ognuna di noi lo sogna diversamente», aveva preso in mano la taz-za di tè e ne aveva sorseggiato un po’, mentre le raccontavo del forte vento e della comparizione di Colin. «Yvonne», deglutì con delicatezza, «sei entrata nel sogno di qualcuno»La fissai, aspettandomi una spiegazione di quello che mi aveva appena detto. «Il sogno, nella tua fase, tende a diventare più… come posso dire… nitido. Quando tu hai sognato quel bivio, probabilmente si trattava di una stra-da costruita dalla tua mente. Da una parte restavi all’interno del tuo sogno e lì venivi torturata dagli incubi, mentre dall’altra parte sei riuscita, finalmen-te, a trovare una scorciatoia onirica per raggiunge-re il sogno di qualcun’altro»Mi guardai intorno, indecisa su cosa dire, «Mi vuoi

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dire che quello che ho visto all’interno di quel so-gno era in realtà il sogno di qualcun altro?», la mia bocca tremò mentre lo chiedevo. «Esattamente», mia madre si alzò a cercare qual-cosa. Tornò indietro con un foglio di carta intestata della nonna, «Osserva», mi illustrò con una penna ciò che mi aveva specificato a parole. «Quindi… io sono entrata nel sogno della non-na?»Lei annuì lentamente, «Ed è un miracolo che tu sia ancora qui», la sua voce era così flebile che mi risultò quasi grottesca.Il mio cuore, a quelle parole, aveva fatto un salto fino alla gola. Cosa intendeva con “è un miracolo”? Avevo rischiato davvero così tanto? «P-erché?» «Non è semplice da spiegare. Quando si entra nel sogno di qualcun altro, è più semplice entra-re nel sogno di qualcuno che conosciamo e a cui vogliamo bene, soprattutto se desideriamo tanto rivederlo o se pensiamo spesso a lui. Tu sei riu-scita a entrare nel sogno di una persona in coma. Pochissime ci sono riuscite e ancora meno sono quelle che sono riuscite a risvegliarsi»Io sentii nuovamente il bisogno di interromperla, «A te è capitato? Nel senso… di entrare nel sogno della nonna quando è andata in coma?» «Non mi è possibile. Nonostante desiderassi tan-to di riaverla con noi… non è possibile per un’a-

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depta entrare nel sogno di un’altra adepta. È molto rischioso», aveva riacquisito la sua normale se-rietà. Stavo cominciando a comprendere il motivo del suo carattere spesso distaccato ed eccessiva-mente serio, «Tu sei riuscita ad uscire dal sogno di una persona in coma… Sei riuscita a vederlo… a vedere quello che vede tua nonna» «È stato molto inquietante», rabbrividii al solo pensiero. «Sarà sempre così. Purtroppo ci è concesso di vedere i sogni altrui, ma siamo comunque costretti a rimanere coscienti. È diverso rispetto ai propri sogni, perché essi sono direttamente derivati dal nostro inconscio, perciò il meccanismo della tua mente ti difende automaticamente da ciò che po-trebbe traumatizzarti. Quando si tocca quel portale che divide il tuo sogno con quello di qualcun altro, ti ritrovi improvvisamente cosciente all’interno di un mondo a te estraneo, perciò terribilmente in-quietante. Pericoloso all’inizio, soprattutto perché rischia di farti impazzire» «E Colin? Allora cosa ci faceva Colin nel sogno di mia nonna? Perché sembrava così distaccato da quel sogno?»Lei attorcigliò le labbra, «La leggenda narra che Morfeo prendesse la forma delle persone che compaiono nei tuoi sogni. Quando leggerai il libro capirai», mi indicò il volume che mi aveva messo tra le mani, «È possibile anche che il tuo stesso

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inconscio cercasse di richiamarti all’interno del tuo sogno. Ricordati che tu sarai sempre un’estranea nei sogni degli altri. Se all’inizio compariranno figu-re apparentemente appartenenti a un tuo sogno… è probabile che Morfeo cerchi di attirarti nella sua trappola. Lui vuole rendere allettante la propria fi-gura, cercando di farti ricadere nel tuo sogno. Di intrappolarti»Mi alzai in piedi. Ero stufa di rimanere seduta. Sen-tivo il bisogno di far lavorare un po’ i miei muscoli. Anche mia madre imitò il mio gesto. «Yvonne», il mio sguardo fu attratto da quel ri-chiamo, «Non voglio che tu pensi che io non ti voglia bene. Lo so, io e papà abbiamo avuto dei problemi, ma si sistemerà tutto. Sono sicura che tu ce la farai, che passerai questa prova. Sei una ragazza forte. Molto più forte di me» «Avete litigato per questa ragione tu e papà?»Lei abbassò lo sguardo, «Ammetto che in parte è stato per quello. Lui non riusciva ad accettare che tu potessi ereditare questa cosa. Gliel’ho confes-sato solo qualche mese fa. Non è in grado di ac-cettare che sua figlia debba attraversare una fase così rischiosa e mi incolpa di questo. Credimi, non è colpa tua. Non è colpa di nessuno. È il duro desti-no che ci lega a causare sempre questo putiferio».Io rimasi senza parole. Mia madre mi aveva appe-na spiegato la ragione dei litigi che avevano reso scuro e triste quell’anno della mia vita e io mi senti-

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vo solo peggio di prima. Ero arrabbiata. Ero arrab-biata anche io con lei. Arrabbiata come mio padre? Lei non aveva colpe dopotutto, eppure non potevo fare a meno di odiarla dentro di me. Era per colpa sua se esistevo ed ero costretta a convivere con quella pena. Nonostante ciò però le volevo bene. Nessuno poteva sapere quanto realmente le vo-lessi bene.L’appetito mi era passato e avevo appoggiato sul vassoio un biscotto che avevo appena morso. «Quindi… Colin sa già tutto? È proprio un bravo ragazzo», affermò mia madre a bassa voce.Io le concessi un sorriso e annuii. Era proprio vero.

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ra una giornata piovosa, lo scroscio della pioggia mi aveva incantata per qualche minu-to, facendomi navigare nei miei pensieri.

Ero stata costretta a tornare a casa purtroppo, a causa delle preoccupazioni di mia madre. Avevo in mano il libro che mi aveva dato. Ero ancora in-decisa se leggerlo oppure no. Cominciai a sfogliar-ne le pagine, osservandone il formato. Era un libro apparentemente vecchio. Le pagine erano ingial-lite. Nonostante ciò non si poteva affermare che fosse un libro antico, anzi sembrava una ristampa abbastanza recente, considerando il carattere con il quale era stata scritta. Probabilmente era stata ristampata digitalmente. Quando raccolsi un po’ di coraggio, mi gettai nella lettura della dedica.

“Dedico questo volume a mia figlia. Possa la sua anima trovare pace.”.

“Un’ottimo inizio, direi”, pensai io ironica. Cosa conteneva quel libro? Perché mi sembrava così disgustoso il semplice fatto di guardarlo? So-prattutto: era un libro diffuso in tutto il mondo, op-pure quello che reggevo in mano era uno dei suoi pochi esemplari esistenti?

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Giunsi al primo capitolo: “Premessa”. Notai che si trattava di un capitolo abbastanza corto, perciò co-minciai a leggerlo.

“Molti miti e leggende hanno influenzato il passato e il presente dell’umanità. Personaggi mitologici, eroi leggendari che a colpi di spada, o semplice-mente, grazie alla loro forza hanno superato pro-ve ritenute insuperabili, hanno affrontato creature fantastiche e dei capricciosi. Non sono molti, però, i miti riguardanti il dio greco Hypnos. Possiamo trovare le radici del suo mito nella Grecia antica, fino a giungere all’epoca roma-na, quando la sua figura fu paragonata a quella di Morfeo. Hypnos e Morfeo erano la stessa divinità? Secondo la mitologia greca, Morfeo sarebbe uno dei figli di Hypnos, probabilmente il prediletto. In questo saggio farò molti riferimenti all’Hypnos e al Morfeo greci, essendo essi le figure protagoniste del mito che leghiamo al nostro culto ormai da oltre un millennio. Si tratta di miti, ovviamente, semplici o complessi che siano, ma come possiamo non fare riferimento a questi episodi mitologici quando abbiamo l’evidenza di un fenomeno come quello che oggi definiamo “il richiamo di Morfeo”. Come possiamo non ricollegarci ad un piano metafisico, non avendo studi scientifici che siano ancora riu-sciti ad accorrere in nostro aiuto per spiegare que-sto mistero?

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È probabile che questo libro non sarà mai pubbli-cato ufficialmente, come è anche probabile che il mio filosofeggiare sarà ascoltato solo da chi ne avrà veramente bisogno. Ad ogni modo, tengo a specificare che il contenuto di questo volume, per quanto dalle mie parole possa apparire incredibil-mente reale e concreto, si limita ad alcune mie ri-cerche e alla mia speculazione riguardo a questo fenomeno. Fenomeno che ha colpito la mia fami-glia e al quale penso siano legate anche molte al-tre persone.Prego che questo saggio possa esservi di aiuto, se non materialmente, almeno che vi possa dare una spinta per superare le vostre paure”.

Al termine di quel testo erano state scritte due let-tere “GP”, seguite dalla data “1882”.Io mi bloccai e detti un’occhiata alla data di stampa alla fine del libro. Quella copia era stata stampa-ta nel 1986 e c’era un rimando a un manoscritto ottocentesco. L’editore non era stato segnato e neanche il luogo di pubblicazione. Sembrava che quel libro fosse stato stampato segretamente. Era molto strano.Interruppi nuovamente la lettura guardando fuori dalla finestra. Il suono della pioggia aveva comin-ciato a infastidirmi, perciò chiusi la finestra e tirai le tende. Sopra il mio letto era appoggiato il maia-lino di stoffa che mi aveva regalato Colin il giorno

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prima. Lo presi e mi gettai a pancia in giù sul letto, stringendolo forte sul mio petto. Aprii nuovamente il libro e cominciai il secondo capitolo: “La storia di Morfeo e Oneira”.

“Hypnos, anche detto Sonno, figlio di Erebo e di Notte, a detta di Ovidio dimorava in una «spelonca isolata e sprofondata nella cavità di un monte […] dove mai il Sole può penetrare con i suoi raggi né quando sorge né a mezzogiorno né al tramonto; dal suolo emana nebbia mista a foschia e vi do-mina una luce incerta, da crepuscolo. Là il volatile dal capo crestato non vigila e non evoca l’Aurora con il suo canto né i cani attenti rompono il silenzio con i loro latrati né le oche più attente dei cani; là né fiere né animali domestici emettono suoni, né stormiscono i rami mossi dal vento né gridio di voci umane; vi regna una muta calma […] né una porta stride girando sui cardini: infatti, non ce n’è alcuna in tutta la casa, né sul limitare c’è un custode; poi, nel mezzo dell’antro c’è un alto letto di ebano im-bottito di piume, di un solo colore, coperto da una coltre oscura, dove sta steso il dio in persona, con le membra languidamente rilassate. Intorno a lui […] giacciono i sogni vacui che imitano le forme più varie, tante quante spighe contiene un campo di grano […]». Aveva molti figli tra i quali Morfeo, «abile nel simulare le figure. Nessun altro come lui sa imitare l’incedere, il volto e la maniera di parla-

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re; aggiunge anche gli abiti, le parole che ciascuno usa di più; però questo imita soltanto gli uomini»”.

Io rabbrividii dopo aver ripensato al Colin che mi era comparso in sogno. Poteva davvero essere Morfeo? Era così inquietante, ma allo stesso tem-po affascinante.

“Icelo (o Fobetore), che «prende l’aspetto di fiera», e Fantaso, «egli con perfetto inganno si trasforma in terra, sasso, onda, trave, in tutto quanto in so-stanza sia inanimato.Grazie alla fonte di Ovidio, sappiamo che Morfeo fu scelto dal padre, tra i suoi mille figli, per comuni-care ad Alcione la morte del marito Ceice, naufra-gato, e che quest’ultimo «se ne vola attraverso le tenebre, senza che le ali facessero un fruscio».”.

Quindi Morfeo non era l’unico a mettere mano nei suoi sogni secondo la leggenda, ma anche i fratel-li. Incredibile quale immenso casino doveva esse-re la teologia greca.

“Da questo possiamo già avere un’idea di come la figura di Morfeo fosse considerata più importante, probabilmente per via del suo contatto diretto con l’essere umano attraverso la trasformazione. Così fondamentale da essere spesso rappresentato ab-bracciato al padre.

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Adesso abbiamo un quadro generale delle carat-teristiche legate a questi dei. Sappiamo inoltre che Morfeo era solito addormentare gli uomini, come anche gli dei, passando sulle loro palpebre dei pa-paveri.”.

“Papaveri?”, ebbi un dejà vu, ma non riuscii a ca-pire perché.

“Sappiamo molte cose grazie a fonti antiche diffe-renti, come Ovidio, o Omero [etc.], ma alcuno di questi autori ci potrà portare nella direzione che ci serve.Com’è possibile che io vi narri questo mito quindi? Grazie unicamente a dei frammenti ritrovati molti secoli fa [e andati dispersi] ai quali fa riferimen-to un anonimo “Scrittore di Morfeo e Oneira” [pro-babilmente di epoca romana]. Egli riporta nel suo manoscritto una leggenda mai letta in precedenza. La leggenda narra di una giovane principessa, chiamata Oneira, bellissima, così bella da potere intenerire qualsiasi creatura vivente. Come affer-ma lo Scrittore: «La sua bellezza fece invaghire pure Morfeo, che non poté resistere dal farle visi-ta ogni volta che chiudeva gli occhi. Le apparì più volte in sogno, prendendo la forma di un bellissimo giovane per poterla possedere». Sappiamo che la ragazza, dopo lo stupro, tentò di suicidarsi gettan-dosi da una scogliera e «Thanatos, dio della mor-

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te, fu ben felice di poter portare via con sé quella meravigliosa creatura; ma Hypnos, suo fratello, padre di ogni sogno, aprì gli occhi e gli disse di lasciarla al suo cospetto, perché fosse giudicata. Morfeo, offeso dal gesto di quella donna mortale, dal suo tentativo di sfuggire al suo amore, le in-flisse la peggiore delle sentenze: trattenuta in un sonno eterno, fu perseguitata nei sogni da Morfeo, come da Fobetore e Fantaso, che al fratello erano fortemente legati». Dopodiché, Hypnos, come spe-cificato dallo Scrittore, impietosito dal triste destino che era stato riservato alla giovine, che con le sue virtù e le sue grazie era stata capace di farsi ama-re dagli dei, le concesse una scappatoia da quella maledizione. Le permise di entrare nel sogno di suo padre. Fu così che poté vedere la tristezza di suo padre, mentre la pira attorno a lei stava bru-ciando, ancora vive, le sue carni addormentate.”.

Raggiunta la fine del capitolo feci un profondo re-spiro e strinsi forte il peluche tra le braccia. Era una storia tristissima, proprio come una tragedia greca. Chissà se era vera. Mi rigirai, mettendomi supina sul mio letto e allargando le braccia. Quella fanciulla aveva fatto una brutta fine, eppure, se-condo quello che mi era stato detto da mia madre, c’erano altre persone che avevano questo “dono”, oltre a noi. Sarei riuscita a comprendere appieno la mia condizione leggendo quel libro? Speravo di

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sì con tutta me stessa. Non volevo fare la fine di Oneira. Volevo andare avanti e, mano a mano che prendevo coscienza di ciò che ero, mi rassicuravo sempre più e infondevo coraggio nelle mie fredde vene, che sembravano stare già dormendo.

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o… per favore» «Eddai, non farti pregare!» «No. Non posso rivedere nuovamente

l’episodio della morte di L. Tu vuoi uccidermi. Lo sai che poi piango».Mi trovavo a casa di Colin, dopo tanto tempo che non gli facevo più visita. Era diventato il mio con-sulente ormai. Gli raccontavo ogni mio sogno per filo e per segno. Nonostante ogni volta che chiu-dessi gli occhi per me fosse una tortura, non vede-vo l’ora di risvegliarmi per raccontargli quello che avevo sognato. Oltretutto, Colin mi aveva dato il permesso di entrare nei suoi sogni. Mia madre mi aveva ripetuto più volte che sarebbe stato meglio se fossi entrata nei sogni di qualcuno che cono-scevo bene, bastava che non avesse il mio stesso problema, altrimenti mi sarei solo cacciata in guai più seri. Così come lei aveva scelto mio padre, io avevo scelto lui. “Papà”. Mio padre mi mancava così tanto. Si era trasferito in un appartamento in città. A detta sua per ragioni di lavoro, ma io avevo pensato imme-diatamente che fosse colpa dei continui litigi con mia madre. “Chissà se tornerai mai da noi”.

Mio padre, Frank, era originario di Baltimora e ave-

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va conosciuto mia madre, Rebecca, quando era andato in Italia per gli studi. Lei aveva origini italia-ne e una grande passione per le lingue e le culture straniere. Anni prima, mio padre mi aveva raccon-tato di come si erano conosciuti: si erano incontrati per la prima volta sotto il Duomo di Milano. Erano lì con gruppi di studio differenti e mio padre le ave-va offerto un cappuccino. Era stata la prima volta che mio padre assaggiava un cappuccino italiano. Così si conobbero, non sapevo null’altro al riguar-do. Poi so che, una volta sposati, si trasferirono entrambi qui in America assieme alla nonna, che ai suoi tempi era una linguista e conosceva bene anche lei le lingue. Mia nonna però non aveva mai perso il suo accento italiano. Avevano deciso di chiamarmi Yvonne perché mio padre era molto le-gato ai nomi stranieri e a quelli storici, ma soprat-tutto perché il suo primo bacio con mia madre era stato proprio sotto un tasso, pianta alla quale fa riferimento il mio nome.

Colin schiacciò play e partì il più triste degli episodi di Death Note. «Dai! Non possiamo saltarlo?»Lui scosse la testa, «Te lo scordi! Come possiamo rovinare una perla del genere?»Io incrociai le braccia fingendo di essere arrabbia-ta. Mi guardai in giro. La stanza era al buio, sicco-me Colin aveva la fissazione di guardare i dvd a

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luce spenta. Lui diceva che quell’atmosfera creava più pathos, ma io pensavo che creasse solo un gran mal di testa. Adocchiai un dvd aperto giacen-te sul comodino accanto a me. «Che cos’è?», gli chiesi a bassa voce, toccando-gli la spalla.Lui mi fulminò con lo sguardo. Capii allora che sa-rebbe stato meglio non fare ulteriori domande. Di-ventava molto suscettibile quando qualcuno osava parlare durante la visione di un film o di una serie, soprattutto se ciò che diceva non c’entrava nulla con questi ultimi.Allungai la mano e portai vicino agli occhi la co-pertina di quel dvd, sperando di riuscire a leggere qualcosa in quell’ambiente così buio. Era un’anto-logia dei film dei fratelli Lumière. Doveva essere di suo padre. “Deve essere interessante”. «Non dirmi che ti stai perdendo questa scena per guardare la copertina di quel dvd», Colin mi rubò dalle mani il dvd e lo appoggiò sull’altro comodino, lontano da me.L’episodio aveva raggiunto il momento in cui L ave-va deciso di utilizzare il Death Note. Si stava avvi-cinando il momento che più odiavo di tutta la serie.All’improvviso, dal mio cellulare squillò la voce di Matthew Bellamy. «Rispondo» «Fuggi, fuggi», rispose lui, «Arriverà il giorno in cui vendicherò questo affronto».

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Io lo ignorai e andai in bagno per rispondere. «Pronto» «Ciao Yvonne. Sono la mamma»Io chiusi la porta del bagno per limitare il casino proveniente dalla stanza di Colin, «Ciao» «Senti, domani hai qualche impegno con lo stu-dio o il resto?» «Erh… credo di no» «Domani pomeriggio abbiamo un appuntamento con la comunità di cui ti ho parlato ieri»Mia madre si stava riferendo ad un raduno del-la Comunità del Culto di Hypnos, che si sarebbe svolto in città. Ogni anno un gruppo di persone chiamato ACCH (American Community of the Cult of Hypnos), ossia Comunità Americana del Culto di Hypnos, faceva un tour di tutta l’America (ce n’e-ra anche uno europeo), annunciandone l’inizio e le tappe sul proprio sito. Era una scusa come un’altra per attirare tutte le donne appartenenti al culto e condividere i propri problemi. Era una cosa simile ai raduni degli alcolisti anonimi, solo più segreto e un po’ più religioso. «Okay… Sei sicura che siano affidabili?», le chiesi io. «Sicura. Ho già frequentato quella gente più di una volta. Sono simpatici e c’è sempre qualche ra-gazzina che come te è appena entrata nella fase del Richiamo. Potresti conoscere qualcuno che ha i tuoi stessi problemi»

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Quell’affermazione mi infastidì un pochino. Non avevo voglia di conoscere gente in quel modo, mi sembrava una cosa da sfigati, da persone che non erano in grado di fare nuove conoscenze, come, guarda caso, effettivamente ero io. Dovetti ammet-tere però che si trattava di una grande opportunità per confrontarmi con altre ragazze tormentate a loro volta dai propri sogni. «Va bene» «Partiamo domani, allora. Faranno tappa qui in città» «D’accordo» «Ah, ricordati che dovrai partecipare a un rito di presentazione»Il mio cuore si fermò. «C-cosa?» «Te l’avevo già accennato. Si tratta di un rito di saluto e di buon auspicio. L’ho fatto anche io anni fa, quando li incontrai per la prima volta»Detestavo l’idea di dovere partecipare a una ce-rimonia di quel tipo, ma dopotutto, pensando alle nuove conoscenze che avrei potuto fare e agli scambi di idee e di opinioni che mi sarebbero stati possibili, avrebbe potuto valerne la pena. «Okay… è qualcosa di complicato?» «Non te ne preoccupare. Te ne parlerò ancora quando tornerai a casa» «Va bene. Buona notte» «Buona notte».

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Io terminai la chiamata e, dopo aver inspirato ed espirato profondamente più volte, ritornai da Colin, che era seduto con la schiena protesa verso la tv. «Era la mamma».Appena mi sedetti sul divano lui cominciò a fissar-mi. «Emh… che c’è?» «Lo sai vero che adesso dovrai pagare con la penitenza?» «Cosa?» «E sai qual è la penitenza?».Colin si gettò addosso a me e mi baciò. «Dovrai mostrarmi le tette», ridacchiò lui. «Ma… ma… idiota!», scoppiai a ridere, «Pensi veramente che lo farò?»Lui in tutta risposta mi sdraiò sul divano, facendo-mi il solletico. Io soffrivo tantissimo il solletico, ogni volta che me lo faceva sentivo che rischiavo di sof-focare da un momento all’altro. «B-b-basta!», tentai di spingerlo via, ma non ci riuscii.Lui mi solleticò i piedi e io cominciai a tirargli scap-pellotti a tutto spiano. Alla fine mi arresi, incapace di resistere ulteriormente alla sua tortura. In quel momento lui si fermò, avvicinò il suo viso al mio e, proprio quando iniziai a credere che volesse baciarmi di nuovo, mi mise sul naso uno dei miei calzini, che probabilmente mi aveva tolto mentre ridevo a crepapelle, e scattò in piedi.

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«Bleah! Che schifo!», glielo tirai dietro, mentre fuggiva fuori dalla stanza, «Vieni qui!».Lo inseguii fino in cucina. Era andato a cercare qualcosa. «Vuoi un po’ di aranciata fatta in casa?», mi mo-strò un bricco di aranciata, probabilmente prepara-to da sua madre.Io risi ancora e risposi, «Okay».Mentre bevevamo quel nettare d’arancia, gli rac-contai di ciò di cui avevamo parlato io e mia madre. «Cosa? Voglio venire anche io», rispose seccato, «Non vorrei mai che qualche bell’imbusto tentasse di farti la corte»Io lo fulminai, «È una cosa tra me e mia madre. Tu non hai il nostro problema. È un raduno che si incentra su questo» «Non mi importa. Ci saranno pure dei babbani a questo raduno! Non credo che possano parteci-parvi solo persone come voi» «Mia madre ha parlato di un rituale. Penso che sia un raduno dedicato solo a noi»Lui sbuffò scocciato, «Se il naso non va a Volde-mort, Voldemort va al naso», questa probabilmen-te se l’era inventata sul momento, «Perciò se tu non mi porterai con te, io ti seguirò di nascosto nel bagagliaio della tua auto» «Ti rendi conto che quello che hai appena detto non ha molto senso?», risi, facendomi andare di traverso l’aranciata.

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Lui mi dette qualche pacca sulla schiena. «Okay. Chiederò a mia madre se puoi venire con noi».Lui si mise a ondeggiare le braccia avanti e indietro facendo una strana danza. “Oh yeah. Oh yeah”.Come potevo non ridere con un buffone del genere davanti?

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alve signora Campbell», Colin salutò alle-gramente mia madre, che gli rispose con uno sguardo truce.

«Mamma… può venire anche Colin al raduno?», le chiesi, facendole gli occhioni dolci.Mia madre riuscì a mantenere la sua solita espres-sione seriosa pur avendo davanti quella faccia da burlone di Colin. Sistemò la sua borsa su uno dei sedili posteriori dell’auto e indicò con la mano l’al-tro posto, invitandolo ad entrare. «Grazie signora Campbell. Le prometto che Yvonne non correrà alcun rischio con me», lui fece la sua solita faccia da scemo.Io lo spinsi dentro la macchina, cercando di evitare ulteriori imbarazzi prima del viaggio.Noi abitavamo in un paesino in provincia di Wa-shington. Quel giorno dovevamo raggiungere la sede del raduno situata proprio a Washington e sa-pevamo che si sarebbe dimostrato un viaggio ab-bastanza lungo, considerando che erano le nove

Ho dimenticato ogni cosa. Quello che mi piaceva,i miei affetti, quello che mi legava a questo mondo.

È come se tutto mi fosse nascosto da una grande eclisse.Prego che questo sogno infinito mi risparmi,

che mi lasci vivere una vita normale, eppure percepisco che la colpa non è solo degli dei.

Che tremenda confusione.

«S

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del mattino e a quell’ora c’era sempre un traffico infernale.

Partimmo frettolosamente, sperando di essere for-tunati e non beccare la solita coda lunga chilome-tri. Le nostre aspettative, purtroppo, si dimostraro-no esatte, perché ci ritrovammo, in meno di dieci minuti, impantanati nel traffico, con mia madre che suonava il clacson a un uomo davanti a noi che si muoveva come una lumaca sull’asfalto. «Non ci sono più gli automobilisti di una volta», affermò Colin con la sua solita voce beffarda.Io non feci caso ai suoi vaneggiamenti e rimasi in-cantata a fissare le acque del Columbia scorrere in lontananza. «Se solo avessero speso un po’ di più per co-struire delle strade decenti, invece che pensare solamente alla metropolitana…», mia madre spin-se nuovamente la mano sul clacson, «… probabil-mente saremmo già arrivati in città a quest’ora».Si erano già fatte le undici e avevamo quasi rag-giunto i caselli.“Ci siamo quasi”, pensai ribollente di curiosità, “Oh no. Mi stavo dimenticando del rito”. «Mamma… ma… a proposito del rito di saluto?»Mia madre ci mise qualche secondo a recepire la mia domanda, abbassò il finestrino e cominciò a sbraitare contro il tizio davanti, che per vera e pro-pria sfortuna aveva fatto fino a quel momento la

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nostra stessa strada.Io la osservai impaziente di ottenere il mio respon-so. «Non è nulla di complesso, non hai di ché pre-occuparti» «Quindi non è tipo un… battesimo?», chiesi visi-bilmente preoccupata. «Nulla di tutto ciò»Spinse l’acceleratore per superare il solito ebete che sembrava volersi fermare proprio nel momen-to in cui il traffico aveva cominciato a sciogliersi e ringhiò, «Questo è veramente un idiota».

Finalmente riuscimmo ad entrare a Washington. Io l’avevo sempre vista come una città bella come poche. Forse perché si trattava di una delle poche città che avessi mai visto. Impiegammo allora un’altra ventina di minuti solo per cercare il posto designato, con l’aiuto del navi-gatore. “Dopo cento metri, girare a sinistra”, quella voce femminile e meccanica ci accompagnò per quei venti minuti, facendoci sbagliare strada un paio di volte. Io e mia madre non conoscevamo bene Washin-gton, ci eravamo state così poche volte, che si po-tevano contare sulle dita delle mani.Quando riuscimmo a raggiungere la sede del ra-duno, inizialmente io e Colin pensammo di aver sbagliato strada. In realtà eravamo proprio nel

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posto giusto e mia madre lo confermò. L’edificio era situato in una viottola secondaria, abbastanza stretta, la porta era in metallo e aveva appeso a sé un cartello con scritto “Vietato l’accesso al perso-nale non autorizzato”. «È questo. È specificato solo alle persone iscritte al loro sito questo dettaglio».Suonammo al citofono e, una volta aperta la porta, entrammo in un piccolo corridoio totalmente into-nacato di bianco. Il basso soffitto a botte era deco-rato da qualche faretto che illuminava l’ambiente. Il pavimento era in marmo grigio. Non vi era alcu-na finestra che facesse entrare la luce del sole. Sembrava quasi di essere sotto terra. Comparvero delle scale a chiocciola che scendevano giù. Mano a mano che scendevamo mi batteva sempre più forte il cuore. Non ero abituata a questo genere di evenienze e avevo la lingua cucita al palato. Al contrario, Colin non faceva altro che parlare e spa-rare cavolate. «Hai visto Yv? Ancora un po’ e raggiungiamo l’aula di pozioni».Raggiungemmo un altro corridoio che sfociava in una stanza a prima vista candida e pulita. Che avessero lavorato a quella stanza per farla appari-re il più rilassante possibile, o per conciliare il son-no? Che cosa diamine avrei dovuto fare una volta lì, davanti a tutti?Si era fatto mezzogiorno nel frattempo e noi era-

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vamo in ritardo di un’ora. Nella stanza c’erano tre gruppi di sedie separati, uno dei quali era compo-sto da una sola fila, in fondo, e rivolto nella direzio-ne opposta. C’erano poche persone: due donne adulte e tre ragazze. «Ma non eravamo in ritardo?», chiesi io.Una delle due donne, bionda e con due occhi azzurri spiritati, appena vide mia madre, aprì un grande sorriso, «Rebecca!», la salutò venendole incontro. «Ciao Hanna», rispose mia madre, lasciandosi baciare sulle guance. «Come stai? Da quanto non ci sentiamo… que-sta è tua figlia? Quanto è cresciuta», la donna mi porse la sua mano.Io allungai esitante la mia, facendomi ballare il braccio con la sua stretta decisa. Quella donna mi sembrava anche fin troppo esuberante per essere “una di noi”. Come la si poteva prendere sul serio? Poi il suo sorriso mi appariva fastidioso a dir poco. «E questo giovanotto chi è?», chiese riferendosi a Colin. «Mi chiamo Colin», rispose lui ricambiando il sor-riso. «È un amico di Yvonne», aggiunse mia madre, così seriamente da far apparire ancora più falso, di quanto sembrasse già prima, il sorriso della si-gnora Hanna. «Fantastico. Se vuole partecipare anche lui al

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raduno di oggi è il benvenuto», disse con una vo-cina così mielosa che mi sembrò di avere le mani appiccicose. «Siamo solo noi?», chiesi io. «Giusto! Devo presentarvi le altre. Venite, veni-te».La signora Hanna mi trascinò, seguitata da Colin, verso le ragazze, che in quel momento erano se-dute ognuna in un posto diverso, a fare cose di-verse. Una di loro, probabilmente la più grande, appena mi vide avvicinarmi, si alzò in piedi. Ave-va capelli castani e un taglio diagonale, più lungo sulle ciocche davanti, la contraddistingueva una ciocca colorata di lilla. La riconobbi subito. Era la ragazza del bar MJ. Lei mi salutò. Io ero rimasta così sorpresa, che non avevo ancora capito di do-ver ricambiare il saluto. «Lei è Abbie», me la presentò la signora Hanna, dopo aver notato la mia reazione. «Piacere», mi porse la mano la ragazza.Dopodiché mi voltai verso le altre ragazze, che si erano finalmente accorte della mia presenza.Una aveva all’incirca la mia età e se ne stava se-duta con un blocco note a disegnare. «Questa…», mi disse Hanna indicandola, «… è Sarah».La ragazza mi salutò con un cenno della mano e poi ritornò a disegnare, senza il minimo cambia-mento di espressione. Era una ragazza un po’ in

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carne, con i capelli rossi, lunghi e lisci. Aveva le lentiggini e le gote arrossate, che le mettevano in risalto gli occhi verdi.Poi Hanna mi indicò con la mano la più piccola, una ragazzina di circa tredici anni, capelli rossi e corti, mingherlina e con due occhi marroni e verdi da cerbiatto. Era molto simile a Sarah. Mi aveva adocchiata e mi sorrideva con aria giocosa. «Lei è Bridget».La bambina mi salutò con la manina, «Ciao, come ti chiami?» «Yvonne», le risposi io lasciandomi scappare un sorriso. «Yvonne? Che strano nome che hai», lei gonfiò le guance, «Tu quanti anni hai?» «Sedici… tu?» «Io dodici, ma questo mese ne compio tredici», ridacchiò lei.Ci avevo azzeccato sull’età. Sembrava quasi più piccola di così. Aveva tutta l’aria di una ragazzina senza peli sulla lingua. «Bene! Yvonne, vieni qua che ti presento Joann, la madre di Bridget e Sarah» «Piacere mio», l’altra donna mi strinse la mano sorridendo. Aveva una faccia molto stanca. Era bianca, quasi cadaverica. La sua stretta di mano oltretutto era molto rigida. «Tra qualche minuto cominceremo. Adesso biso-gna solo aspettare l’arrivo degli altri. Sempre che

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riescano ad arrivare», Hanna rise. Aveva una risa-ta gracchiante.Io approfittai dell’allontanamento di Hanna per se-dermi vicino a Sarah. Colin si sistemò vicino a me e mia madre fu invitata a sedersi in prima fila, infat-ti mi salutò dai primi posti.Osservai il disegno che stava facendo la ragazza rossa. Stava tratteggiando una figura ancora in-definita, forse un uomo intabarrato che si dirige-va nello spazio infinito del foglio bianco. Era molto brava. «Sei davvero brava».Lei mi lanciò un’occhiata con in suoi occhietti verdi e mi rispose con un sottile sorriso.Colin mi prese la spalla, cercando di attirare la mia attenzione. Mi fece notare che stavano arrivando altre persone, quasi tutte donne, a parte un uomo, probabilmente un marito.Quando tornò la signora Hanna, la saletta si era riempita con una ventina di persone. «Grazie per essere venuti. È qualcosa di fanta-stico essere qui in presenza di così tante persone, così tante donne che hanno lo stesso legame», cominciò il suo discorso, «Prima di continuare con la nostra chiacchierata, vorrei annunciare che oggi abbiamo due nuove adepte del Culto con noi: Yvonne e Bridget»Come? Bridget era già nella fase del Richiamo? Non era troppo giovane per quello?

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«Oggi, perciò, avremo ben due saluti!»Le persone lì intorno cominciarono ad applaudire, facendomi arrossire dalla vergogna. «Potete venire qui per favore?», ci richiamò un’al-tra donna accanto a Hanna.L’ansia crebbe così tanto dentro di me che mi sen-tivo quasi svenire. Quando raggiunsi la donna, lei tentò di rincuorarmi. «Stai tranquilla. Ti vedo un po’ agitata. Non ti mangio mica»Io ridacchiai per il nervosismo. Dal fondo della stanza potei vedere Colin che gesticolava verso di me, facendomi segni di OK o V di vittoria. Lui si che sapeva come calmarmi. «Comunque, piacere. Mi chiamo Matilde», si pre-sentò la donna.Notai solo in quel momento che davanti a me c’era un vaso dorato con all’interno due papaveri rossi. Matilde ne prese uno e Hanna prese l’altro. La pri-ma si avvicinò a me e mi disse di stare ferma. Mi passò delicatamente il papavero su un occhio e poi sull’altro, «Che i tuoi sogni possano non essere più irrequieti: per il Sonno…», poi mi bagnò la fron-te con dell’acqua, «… per Oneira…», staccò un petalo dal papavero e me lo appoggiò sulla fronte, lasciandolo lì appiccicato, «… per la tua Mente». «Per sempre, per sempre, per sempre», ripetero-no in coro molte delle persone lì presenti. «Adesso attendi che il petalo si stacchi da sé.

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Stai attenta, non devi toccarlo. Se lo stacchi tu por-ta sfortuna», la signora Matilde mi sorrise e mi ac-carezzo la guancia.Non ci volle molto perché il petalo cadesse, giusto qualche secondo. Allo stesso rito fu sottoposta Bridget, che sembra-va non vedere l’ora di togliersi il petalo di dosso. L’ironia della sorte volle che il petalo le rimanesse attaccato alla fronte per ben cinque minuti. «Non era mai successa questa cosa», ridacchiò Hanna, osservando la sfortunata situazione di Bri-dget.Colin nel frattempo stava esultando, attirando l’at-tenzione dell’intera sala. Tutto lo stress che ave-vo in corpo svanì appena appresi che il rituale era terminato e che il mio ragazzo stava sicuramente facendo una figura peggiore della mia.

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ia nonna stava ridendo come una matta, “Cosa facciamo?”, mi chiese. “I pancake!” risposi io tutta contenta di ri-

averla con me. Mia nonna saltellò verso la cucina. Mi lasciai tra-scinare dalla sua risata contagiosa. Inizialmente eravamo a casa sua, poi siamo arrivate in un qual-che modo in un giardino in stile settecentesco. Io ero sempre seduta ad un tavolo, un tavolo bianco da giardino, di ferro battuto e modellato da diverse forme a spirali. “Vado a lavoro”, era comparsa mia mamma, vestita con un abito in stile ottocentesco: un lungo vestito di mussolina giallastra, con qual-che ricamo sul fondo della gonna e sulla striscia che segnava la vita. Mia madre baciò mio padre, che era appena apparso davanti a me senza che riuscissi ad accorgermene. Lui indossava un sem-plice maglione sopra una camicia. Poi mia madre diede un bacio anche a me e scomparve all’oriz-zonte. Subito dopo mio padre la seguì. Improv-visamente, l’atmosfera calda e allegra divenne silenziosa. In cuor mio ero ancora rilassata. Non te-mevo nulla in presenza delle persone che amavo. Mi alzai dalla sedia e cominciai a camminare nel grande prato verde di quel giardino, osservando il meraviglioso campo di papaveri che si stendeva

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M

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davanti a me. Non facevo un sogno così bello da tanto tempo. Abbassai lo sguardo e mi accorsi di essere vestita con una veste bianca in stile Wendy. I miei capelli erano sciolti, lunghi e a boccoli, che svolazzavano nel vento. Potei vedere la mia faccia come in un film. Degli uccelli migratori volarono so-pra la mia testa. “Guarda”. Mi voltai. Una ragazza stava indicando qualcosa, forse gli uccelli. Guar-dandola bene mi sembrò Abbie, la ragazza del bar. Vestiva con un abito nero e dei guanti lunghi fino ai gomiti. Aveva i capelli lilla e lunghissimi. Sembrava una fata. “Wendy”. Mi girai dalla parte opposta e vidi una fontana molto alta, decorata da statue a forma di pesce. Al suo interno sguazzavano i pesciolini ros-si. Chi mi aveva chiamata sembrava essere Colin, che si trovava seduto proprio sul bordo della fonta-na. Era vestito da Peter Pan. Proprio come alla re-cita delle elementari. “Mia Wendy”. Io mi avvicinai sorridendo gioiosa. Non volevo che quel sogno fi-nisse. Volevo restare lì per sempre. Colin si alzò in piedi e improvvisamente il suo abito divenne uno smoking nero, che gli metteva di molto in risalto gli occhi verdi. Verdi? Colin aveva gli occhi verdi? Eravamo stati catapultati in una sala sfarzosissima. Sembrava quasi la sala ballo di un castello medie-vale. Con mille arazzi rossi splendenti e luci calde che illuminavano il nostro cammino. Io ero sempre vestita con quella veste bianca. Cominciammo a

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ballare al ritmo di una meravigliosa musica di arpa. I miei piedi parevano volare da quanto erano leg-geri. Era da tanto tempo che non mi sentivo così bene. Dovevo proprio svegliarmi? Perché non po-tevo vivere in quel sogno… in eterno?“dling, dling, dling”.Guardai in giro ricercando la fonte di quel rumore.“dling, dling, dling”.Davanti a me notai che al posto delle mura era comparso un muro d’acqua dall’altezza indefinibi-le. Una morsa di paura mi strinse il petto. Sentii quasi il bisogno di vomitare. Cercai l’aiuto di Colin, ma questo era sparito, lasciandomi sola in un’e-norme sala che era diventata improvvisamente buia e terrificante.“dling, dling, dling”.Il rumore di gocce non terminava più. All’interno del muro d’acqua vidi qualcosa muoversi. Delle ombre stavano facendo increspare la superfice, che sem-brava in procinto di rompersi e riversarsi su di me. “No… No… NO!”.

“dling, dling, dling”.Mi svegliai improvvisamente, coperta di sudore freddo e con la fronte che scottava.“dling, dling, dling”.Il mio cellulare stava facendo un casino infernale. Che fosse la sveglia?Mi alzai a fatica dal letto, con la schiena rigidissi-

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ma. Allungai il braccio per raggiungere la fonte di quel fastidioso rumore. Non era la sveglia.“dling, dling, dling”. «Ma…».La suoneria era quella della chat di Facebook. C’e-ra qualcuno che mi stava riempiendo di messaggi. Aprii l’applicazione e notai che si trattava di Sarah. Quella Sarah che avevo conosciuto al raduno. Aprii la chat e notai che non mi stava scrivendo nulla. Mi stava mandando solo delle faccine sorridenti. Me ne aveva mandate una trentina circa.“dling”.

Sarah: “Meno male. Sei sveglia”

Io rimasi basita per qualche minuto. Perché quella ragazza mi aveva bombardato di messaggi a quel modo? Non eravamo amiche.

Yvonne: “Ciao… Sì, direi di sì”Sarah: “Cerca di non lasciarti andare di nuovo come questa notte”

“Lasciarmi andare? Aspetta un attimo…”, mi ac-corsi con terrore che effettivamente quella notte non ero entrata nel sogno di qualcun altro. Stavo facendo un sogno bellissimo. Così bello che non mi sarei voluta più svegliare. “Oh no”. Avevo dimo-strato ancora una volta la mia debolezza. Tutta la

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mia sicurezza di me stessa si era improvvisamen-te sciolta, come un fiocco di neve nell’acqua. Non ero stata abbastanza forte da trovare la strada per entrare nel sogno di qualcun altro. “Aspetta… Lei lo sa. Com’è possibile?”.

Yvonne: “E tu come lo sai?”

Attesi qualche minuto prima di ricevere risposta.

Sarah: “Non posso spiegartelo così. Questo non è né il luogo, né il momento adatto”Yvonne: “Quando potresti?”Sarah: “Tu dove abiti?”Yvonne: “Un paesino in provincia di Washington: Little Florence”Sarah: “Io abito una decina di chilometri di distan-za da lì”Yvonne: “Se vuoi possiamo incontrarci a metà strada”Sarah: “Mi è già capitato di venire lì. Sono stata al Mary Jane l’anno scorso per trovare Abbie”Yvonne: “Quindi conosci la strada?”Sarah: “C’è un autobus. Sarò lì, al Mary Jane, do-mani verso le quindici”Yvonne: “Okay…”

La nostra conversazione si chiuse così. Ero rima-sta con il fiato sospeso, in attesa che rispondesse

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ancora. Non successe.Mi sdraiai sul letto, appoggiando il cellulare sul co-modino. Il buio. Il buio mi faceva paura. Non vole-vo più stare al buio. Accesi la lampada accanto al letto, ma mi accorsi che la luce era troppo tenue, perciò mi alzai e accesi la luce della stanza. C’era una senso di inquietudine che mi stava corroden-do la pelle. Avevo iniziato a tremare. Mi facevano male le ossa. Mi toccai la fronte. Probabilmente avevo la febbre. Corsi in bagno per procurarmi il termometro. Lo misi in bocca e attesi, osservando la mia immagine allo specchio, senza voltarmi per paura che mi comparisse l’immagine di qualche mostro all’improvviso. Come faceva mia madre a sopportare tutto questo? Come aveva potuto sop-portarlo fino a quel momento? Ormai ero terroriz-zata da qualsiasi cosa. Non riuscivo più a vivere in pace. Non volevo trascorrere la mia vita in quelle condizioni. Non potevo più dormire in pace senza la paura di diventare preda dei miei stessi sogni. Estrassi il termometro. Sì, avevo la febbre.Ripensai a Sarah. Lei sapeva che stavo sognan-do. Com’era possibile una cosa del genere? Se fosse entrata nel mio sogno infestato avrebbe ri-schiato di farsi del male da sola. Soprattutto, mi venne da riflettere sul fatto che se lei non mi aves-se mandato tutti quei messaggi e se io non avessi mantenuto il volume del cellulare abbastanza alto, probabilmente non mi sarei più svegliata.

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Non riuscii a ricordare molto bene il mio sogno. Mi erano rimasti solo dei frammenti delle immagini di Colin vestito da Peter Pan e del muro d’acqua che mi aveva così tanto scioccata.Erano le quattro del mattino. Decisi che non volevo più dormire, così raggiunsi il salotto e notai che an-che mia madre era sveglia. Tazza di tè alla mano. «Yvonne. Cosa è successo?», mi chiese corruc-ciando la fronte. «Nulla», non le dissi niente per non farla preoc-cupare. «Vuoi un po’ di tè?», lei mi indicò la sua tazza. «No grazie… credo che tornerò in camera mia».Feci dietrofront e ritornai in camera. Ero indecisa sul da farsi, quando la mia attenzione fu attirata dal libro del Culto, che avevo lasciato da un po’ di giorni abbandonato sul comodino, dopo aver letto riguardo alla fase del Richiamo. Secondo il libro, il Richiamo era una fase della co-siddetta “maledizione”. La fase più fragile, come già mi aveva spiegato mia madre, che in ognuno poteva avere inizio diverso e in un momento di-verso, in genere intorno all’età di quattordici-di-ciassette anni. Intorno a quell’età si incomincia ad essere perseguitati dagli incubi e si tende sempre più spesso ad avere episodi di sonnambulismo-at-tivo, che di solito peggiorano di giorno in giorno. In questa fase la giovane mente deve ancora abi-tuarsi al contatto con le menti degli altri, tramite un

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meccanismo di simbiosi che per adesso possiamo spiegare solo tramite la leggenda. Se questo colle-gamento riuscirà bene, la mente delle “adepte”, ul-teriore definizione data alle ragazze sottoposte alla dura prova del Richiamo, raggiungerà questa sim-biosi molto complessa con le menti che invaderà, per raggiungerla ovviamente dovranno queste ulti-me essere le menti di persone conosciute e per le quali si provano forti affetti. Se questa simbiosi non riuscirà, l’adepta si ritroverà incastrata in un circolo vizioso, che la porterà alla pazzia e, eventualmen-te, al coma. Oltretutto si narra che Morfeo tentasse di attirare le sue prede mostrando loro qualcosa di bellissimo, di inarrivabile, facendo loro desiderare di non risvegliarsi mai più. Perciò era molto sempli-ce cadere nella sua trappola, come probabilmente sarebbe successo a me, se non fosse stato per quella ragazza.Mi sarebbe proprio piaciuto sapere come aveva fatto a capire che ero in pericolo. Non vedevo l’ora che arrivasse l’alba. Mi sdraiai a osservare il soffit-to della mia camera. Questo era ricoperto di stelli-ne luminose. Da piccola ero molto paurosa e temevo il buio. Perciò mio padre mi appiccicò quegli sticker fosfo-rescenti e mi raccontò una favola, probabilmente che si era inventato sul momento, che ancora ri-uscivo a ricordare: trattava di un piccolo uccellino che aveva perso la via di casa. Questo avrebbe

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svolazzato e svolazzato, senza più riconoscere la strada. Era troppo buio. Perciò l’uccellino si rintanò in un tronco cavo, spaventato. Giunse una pecorella, che gli chiese “Beeeh. Cosa ci fai lì, così impaurito?”. L’uccellino le rispose, “Cip. Ho perso la via di casa”. La pecorella si impettì e gli disse, “Beeh. Povero piccolo. Vedrai che ti aiuterò io a ritrovarla”, lasciò salire il piccolino sulla sua morbida schiena e rico-minciarono a viaggiare. Dondola e ridondola, incontrarono una talpa, che era impegnata a cercare qualcosa. “Cip. Salve signora talpa”, disse l’uccellino, “Che cosa stai cercando?”. La talpa era triste, “Squit. Cerco i miei occhiali. Li ho persi”. “Non ti preoccupare, ti aiuteremo noi a ritrovarli”, disse la pecora, che cominciò a mangiare quell’er-betta, finché non spuntarono fuori gli occhiali della signora talpa. “Eccoli! Eccoli!”, esultò l’uccellino. La talpa fu così felice di aver ritrovato i suoi occhia-li che volle aiutare anche lei l’uccellino a ritrovare la strada di casa. Così si aggregò alla combriccola. Cammina e cammina, furono costretti a fermarsi davanti a un laghetto profondo. “E adesso?”, cinguettò l’uccellino. Dall’acqua spuntò un alligatore che non faceva altro che sba-digliare.

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“Aaah”, sbadigliò, “Che cosa ci fate qui in giro a quest’ora della notte?”. “Il signor uccellino ha perso la strada di casa. Lo stiamo aiutando a ritrovarla”. “Aaah”, disse l’alligatore sbadigliando nuovamen-te, “Avete bisogno di un passaggio? Ve lo darei volentieri, ma c’è un insetto che è tutto il giorno che mi sta infastidendo. Potreste aiutarmi a cac-ciarlo?”. L’uccellino si sollevò in volo e scacciò l’insetto. “Grazie mille. Verrò con voi”. Così i tre poterono attraversare il laghetto sulla schiena dell’alligatore. Avanti e ancora avanti, i quattro eroi si ritrovarono davanti ad un muro. “Potrei scavare un tunnel sotterraneo abbastanza grande da far passare tutti”, affermò la talpa. Così la combriccola poté raggiungere l’altra parte del muro. All’interno c’era la casa di una piccola bambina che non riusciva a dormire. La bambina vide dalla finestra quel bizzarro grup-po e disse “Cosa ci fate quaggiù?”. “Siamo qui per aiutare il piccolo uccellino a trovare casa sua”, dissero in coro la pecorella, la talpa e l’alligatore. La bambina, che aveva un cuore d’oro disse, “Ven-go anche io!”. Cammina e cammina, arrivò l’alba e i quattro non erano ancora riusciti a raggiungere la casa dell’uc-cellino. In compenso tutti e quattro erano affamati.

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La bambina, che aveva previsto quella situazione, si era portata dietro un sacchetto di caramelle e le condivise con i suoi nuovi amici. Giunto il giorno finalmente l’allegra combriccola raggiunse il nido dell’uccellino. “Vi ringrazio infinitamente”, disse lui, “Ma non pos-so stare qui. Voglio rimanere con voi”. Il piccolo uccellino aveva capito che non avrebbe più po-tuto vivere senza i suoi nuovi amici. Fu così che mangiarono caramelle insieme per sempre, felici e contenti.Sembrava una storiella stupida, ripensandoci in quel momento, eppure quando ero piccola ero ve-ramente convinta che gli uccellini, le pecore, le tal-pe e gli alligatori mangiassero le caramelle.

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iao Abbie», salutai la ragazza del Mary Jane alzando la mano.Lei rispose con un cenno di mano e ritornò

a lavare i piatti. L’atmosfera del locale era sem-pre così quieta e silenziosa. Di solito non avevano molti clienti e a volte mi sembrava che io e Colin fossimo gli unici a conoscerlo. Mi sedetti al mio so-lito posto. Mi faceva strano l’assenza di Colin quel giorno. Non riuscivo a smettere di cercarlo nella sala.Seguii con lo sguardo Abbie al lavoro. Lei dopo un po’ notò le mie attenzioni e arrossì, cambiando im-provvisamente direzione. Sembrava molto timida. Sentii qualcuno bussarmi sulla spalla, perciò mi voltai. Sarah era dietro di me e mi fece un saluto con la mano. «C-ciao», risposi io un po’ sorpresa di non averla vista entrare. Quella ragazza aveva un non so ché di strano. Con sé aveva portato una valigetta verde. «Dove dormiamo, quindi?».Cosa? Sul serio voleva dormire a casa mia? Non ci conoscevamo neanche!

«Sono tornata mamma».Mia madre era in cucina con il suo portatile sul ta-

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volo. Probabilmente si era portata il lavoro a casa e stava traducendo qualche libro.In quel periodo, fortunatamente, non c’era scuola, perciò ho evitato di stressarmi ulteriormente con le lezioni o i test.Quando mia madre alzò gli occhi dal computer mi vide, indossava i suoi occhiali dalla montatura spessa, «Lei chi è?»Io lanciai un’occhiata a Sarah, «Come… non la ri-conosci? È Sarah… la ragazza del raduno»Mia madre sgranò gli occhi e si tolse gli occhiali per assicurarsene. Quando si rese conto di essere stata maleducata si coprì la bocca con una mano. «Santo cielo. Scusa Sarah. Purtroppo quando sono concentrata su un lavoro tendo a non fare caso a niente. Vuoi qualcosa? Abbiamo dei succhi, del tè…» «Sono a posto, grazie», disse Sarah, mantenen-do sempre la stessa espressione da emarginata sociale. «Va bene», rispose mia madre secca, ritornando a sedersi, «Per quanto resti qui?»Sarah mi lanciò uno sguardo non poco spavento-so. «Lei dorme qui», risposi a mia madre. «Va bene. Ogni tanto ricordati che abbiamo un letto gonfiabile»Probabilmente si riferiva al fatto che con Colin dor-mivo sempre nello stesso letto.

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«O-okay», la faccenda era diventata imbaraz-zante.Io e Sarah raggiungemmo camera mia. “Dove dormiamo, quindi?”. Ancora mi chiedevo per quale ragione si fosse auto-invitata a casa mia. A parte che la nostra confidenza non era certo arri-vata a tal punto, ma poi lei non sembrava affatto il tipo di ragazza da auto-invitarsi a casa di estranei.Lei appoggiò la valigetta contro il muro e si sedette sul mio letto. Io rimasi basita dalla sua impudenza. «Allora. Noi due abbiamo due cosette di cui di-scutere»A me scappò una risatina, “Se è per questo do-vremmo discutere anche del perché tu sei qui”. «Cosa c’è da ridere?», lei mi guardò storto. «Oh, niente, niente»Lei assottigliò gli occhi come nel tentativo di leg-germi la mente, «Dobbiamo parlare di ieri notte»All’introduzione dell’argomento quell’espressione divertita svanì completamente dal mio volto. «Giusto. Voglio sapere come diamine hai fatto a capire che ero in pericolo»Lei piegò da un lato la bocca, in una sorta di ghi-gno. «Sai… tu sei nuova in questo campo. Io è da qualche anno che ci ho a che fare: ho cominciato il Richiamo a quattordici anni. Immagino che adesso siamo coetanee», mi squadrò ben bene in attesa che confermassi la sua versione.

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«Emh… credo di sì, se hai sedici anni»Lei non annuì, ma mi lasciò intuire che era così. «Io e Abbie ci conosciamo già da due anni ormai. Perciò possiamo dire di formare un duo… un po’ sfigato. Comunque, io e lei con il passare del tem-po e l’esperienza abbiamo scoperto cose che nel saggio di GP…», mi indicò con lo sguardo il libro del Culto di Hypnos che avevo messo sul comodi-no, «… non sono mai state scritte. Perciò io e lei abbiamo deciso di scrivere un saggio nostro, che riguardasse appunto questo argomento. Aspetta un attimo, sto divagando, vero?»Io sorrisi nervosamente non sapendo cosa rispon-dere. «Abbiamo notato, prima di tutto, che la fase del Richiamo può durare più o meno: due anni o più, come nel mio caso, oppure solo qualche mese. Poi possiamo aggiungere che questa fase aneste-tizza i problemi fisici delle persone, ma ne accen-tua quelli psicologici. Io ad esempio sono sempre stata celiaca, eppure da quando è cominciato il Richiamo non soffro più nulla, posso mangiare tut-to quello che voglio. Un altro dettaglio è che può causare molta fame nel soggetto, come può non farlo…» «Siete proprio delle brave osservatrici», aggiunsi io ammirata, pensando a tutto il gelato che avevo mangiato in quegli ultimi tempi senza alcun proble-ma.

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«… Ti prego di non interrompere il mio discor-so…», mi fulminò lei, «… Io e Abbie abbiamo anche notato che è molto facile che i propri problemi fisici riflettano sulla propria reazione. A volte ci facilitano anche. Lei è anemica, ha cominciato la sua fase più o meno alla tua età e, adesso che ha dicianno-ve anni, si è quasi abituata a questa situazione: nel suo caso le viene meno difficile addormentarsi e soffre meno il trasferimento dai suoi sogni a quelli degli altri», nel mentre parlava aveva cominciato a svuotare la sua valigia, «Concludendo… Non so come, ma la mia celiachia probabilmente mi aiuta a rimanere lucida davanti alle tentazioni dei sogni e perciò mi permette di entrare anche nei sogni delle altre adepte senza alcun problema. Almeno, que-sta è stata la spiegazione che abbiamo dato io e Abbie a queste particolari capacità. Perciò, io sono riuscita a salvarti proprio perché, per curiosità, ho desiderato di entrare nel tuo sogno, ho percepito che eri in pericolo e sono accorsa in tuo aiuto»Le sue parole mi fecero riflettere. Effettivamente, io ero diabetica, ma non avevo più avuto proble-mi legati al mio diabete in quelle ultime settimane. Non avevo più sentito neanche il bisogno di utiliz-zare l’iniettore. «Io sono diabetica… e in effetti non sento più niente»Lei fece un sorrisetto compiaciuto, «Vedi?» «Non so però in quale modo possa collegarsi la

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mia malattia con la mia fase»Lei stava tirando fuori il suo blocco schizzi e co-minciò a sfogliare i suoi disegni, fino a ché non arrivò al disegno di un campo di papaveri, sul fon-do c’era una piccolissima figura umana, sembrava una ragazza. «Ieri notte, quando mi sono svegliata, ho sentito il bisogno di disegnarla» «È il mio sogno?» «Beh, sì», girò la pagina, «Anche questo».Si trattava dello schizzo di una sala da ballo e di due figure che stavano danzando. «Wow… credo di stare avendo un dejà vu» «Per forza. È il tuo sogno» «Sei molto brava a disegnare, comunque», affer-mai, sentendomi un po’ ripetitiva. «G-grazie», per la prima volta riuscii a vedere le sue gote arrossire, «Voglio diventare una fumetti-sta» «Bè, penso che ci riuscirai», le sorrisi.Ormai mi ero abituata al suo strano comportamen-to. Sembrava un personaggio tsundere di qualche videogioco giapponese.Quella sera discutemmo ulteriormente riguardo ai nostri sogni, accompagnate da una cioccolata calda con panna che decisi di preparare io e che lei sembrò apprezzare, nonostante tenesse il suo solito broncio. Mi permise, oltretutto, di osservare i suoi altri disegni.

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Ero riuscita a trovare una persona in grado di capir-mi per davvero, di capire la mia difficile condizione e le mie paure, ma soprattutto con più esperienza di me. Sentivo di avere così tante cose da impara-re da lei, nonostante avessimo la stessa età.

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uongiorno!», disse Colin appena mi vide raggiungere la soglia di casa, seguita da Sarah, entrambe in pigiama. Mi diede un

bacio sulla fronte. «Bah. Siete troppo dolci. Mi vien da vomitare», affermò Sarah con aria schifata.Colin la guardò e poi tornò a guardare me, «Cos’è? Adesso mi tradisci con le altre streghe? Non c’è mai pace per un nato babbano»Io sorrisi. «Babbano, smettila di lagnarti. In questa stanza non sei quello con più problemi», Sarah si voltò in direzione della cucina e si sedette al tavolo. «Ma che problemi ha?», mi chiese lui un po’ pre-occupato. «Non è nulla… non ti preoccupare, è fatta così».Mia madre quella mattina sembrava piuttosto al-legra. Era entrata in cucina e con voce squillante aveva chiesto a Sarah che cosa mangiava di solito a colazione. Forse aveva terminato la traduzione? «Vuoi accomodarti anche tu Colin?», disse mia mamma con una voce diversa.Colin annuì e si gettò su di una sedia. Io lo seguii, osservando Sarah mangiare avidamente i cerea-li al cioccolato che mia mamma aveva tirato fuori dalla dispensa.

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«Oggi ti va di venire a Washington con me?», mi chiese Colin dopo aver rubato un biscotto dal tavolo. «A Washington? Per cosa?» «Ho delle piccole commissioni da sbrigare… e pensavo che avremmo potuto farci un giretto» «Io non sono disponibile per accompagnarvi, purtroppo», aggiunse mia madre, «Mi serve la macchina per andare a lavoro oggi» «Perciò dovremmo prendere il treno…?», riflettei tra me e me, senza rivolgere la domanda a nessu-no in particolare. «In realtà sarebbe più comodo, visto il caos che c’è di solito in autostrada»Colin riuscì a convincermi con qualche grattino sulla schiena. «Sarah… tu verresti con noi?»Sarah, senza guardarmi, mi rispose, «Non sono stupida. È ovvio che voi due piccioncini vorrete starvene da soli»Io guardai Colin, che aveva tutta l’aria di volerla la-sciare a casa mia e probabilmente non ci avrebbe pensato due volte. «Andiamo… non possiamo lasciarti da sola qui. Hai fatto tutta questa strada in autobus…» «Andrò da Abbie», rispose lei con un verso stroz-zato, forse da qualche cosa che le era andato di traverso. «No. Io voglio che tu venga con noi», affermai

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decisa.

Stavamo aspettando l’arrivo del treno. La stazione era ricoperta dalla nebbia. Il tempo non era dei mi-gliori: l’umidità era alle stelle e la pioggerella sottile e fredda mi aveva congelato le mani. «Perché sono venuta?», brontolò Sarah. Indos-sava un giubbottino color magenta con una super-fice di morbido e caldo tessuto all’interno. Aveva incrociato le braccia, un po’ per il freddo e un po’ in segno di protesta. «Sei stata molto carina a venire con noi», la rin-graziai io, pur consapevole di averla trascinata di peso fino alla stazione.Lei fece una finta risata e si immobilizzò a fissare i binari. «Guarda, sta arrivando», mi avvertì Colin, indi-cando con lo sguardo il treno in avvicinamento.Sarah si era messa a parlare al telefono con qual-cuno. La ignorammo.Occupammo tre posti vicini, io mi ero messa vicino al finestrino, Colin si era messo accanto a me e Sarah si era seduta dalla parte opposta occupan-do anche il sedile accanto a sé con la sua borsetta, dalla quale aveva tirato fuori il suo solito blocco note.A Colin Sarah non era simpatica. Aveva già avuto con lei un pessimo impatto durante il raduno. Ne-anche io di solito apprezzavo quel tipo di compor-

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tamenti, ma effettivamente si trattava di una delle pochissime coetanee che potevano comprendere davvero come mi sentivo.Il tragitto era lungo, perciò tra la comodità del pog-giatesta e il paesaggio mistico che mi scorreva da-vanti, le mie palpebre pian piano si chiusero. I suo-ni si facevano sempre meno distinti, le voci di Colin e Sarah, che ogni tanto battibeccavano, sempre meno presenti. Finché non mi addormentai.

Sentivo delle voci. Era come se cercassero di sus-surrarmi qualcosa esprimendosi in lenti fruscii. Mi trovavo nel parco vicino a casa della nonna. Sem-brava molto più grande del solito: era più esteso e aveva un perimetro tondeggiante, invece che quadrangolare. Dietro di me c’era un grosso albe-ro. Io ero là sotto e stavo parlando con una mia amica, o almeno ero convinta che lo fosse. Sta-vamo discutendo di qualcosa riguardante all’astro-logia e osservavamo il cielo stellato. Ad un tratto mi disse “Buona notte” e si sdraiò con la schiena sul prato. Io guardai ancora una volta le stelle e tutt’un tratto mi ritrovai sopra un ramo. Avevo delle piccole piume che mi solleticavano il collo e delle larghe ali, culminanti con le mie mani. Mi ero rim-picciolita ed ero diventata una specie di ibrido tra cardellino e umano. Si era fatto giorno e mi alzai sulle mie zampine, sbatacchiai qualche volta le ali e mi buttai a capofitto giù dall’albero, riuscendo a

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prendere volo solo dopo essere quasi stata raso-terra. Mi alzai di più, sempre di più nel cielo, nel quale riuscivo ad intravedere anche qualche stella che illuminava il cielo albeggiante. Il parco si era fatto non grande, ma infinito, siccome tentai di ol-trepassarlo ma non ci fu modo di raggiungerne la fine. All’orizzonte potei intravedere delle montagne innevate. Non so come mai ma pensai alla cioc-colata calda. Abbassai lentamente il volo e atter-rai rimbalzando su un muretto di mattoni rossi. Al di là c’era un locale illuminato da colori caldi, tra i quali il rosso dell’insegna e quello della struttura esterna. C’era una grande finestra che inquadrava l’interno del locale e potei intravedere mia madre e mio padre, seduti ad un tavolino tondo a bere del tè caldo con i biscotti e a chiacchierare. Mia madre stava sorridendo. Mia madre si girò a guar-dare fuori dalla finestra e mi vide, io nel frattempo ero tornata umana, lei mi invitò ad entrare con un sorriso e un gesto del braccio. “Non ti avevo detto di stare attenta?”. Inizialmente pensai che fosse la voce di mia madre, ma poi tutto si fece improv-visamente scuro. Davanti a me comparve Sarah. “Bene. Puoi vedermi. Seguimi”, lei si allontanò nel buio. Io la seguii inquietata, sentendomi i polmoni pesantissimi, come se avessi corso veloce per un chilometro di fila. “Sono qui”, ogni tanto Sarah fa-ceva in modo di distinguersi in quel buio trancia re-spiro. Raggiunsi una porta di mogano leggermente

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illuminata, la mia compagna era svanita nel nulla, allungai il braccio per prendere il pomello e, una volta assicuratami che la presa fosse ben salda, tirai la porta verso di me. Quest’ultima si apriva a fatica, cigolando, dovetti prendere il pomello con entrambe le mani per riuscire ad aprirla. La varcai.

«Yv! Yvonne!», Colin mi stava scuotendo nel ten-tativo di svegliarmi. «Grazie a Dio», disse buttando giù un lungo so-spiro Sarah, che sembrava essersi appena sve-gliata. «C-cosa è s-successo?», la mia voce era tre-mante. Mi ricordai di quella sensazione di nausea. Non eravamo più in treno, mi ero risvegliata su un diva-netto, nel corridoio di un centro commerciale. «Guarda tu stessa», rispose Sarah.Era successo di nuovo? Un altro episodio di son-nambulismo. Proprio quando mi era sembrato che andasse tutto bene. «No… Ancora?», io ero scioccata. Le mie gambe tremavano. Credevo di stare per avere un attacco di panico. «Ehi. Calmati», Colin mi abbracciò con un brac-cio sulle spalle e mi accarezzò i capelli con l’altra mano. «Adesso è tutto a posto», aggiunse Sarah, «For-tunatamente sono riuscita ad addormentarmi in

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tempo» «C-che?», non riuscivo più a ragionare. «Sono entrata nel tuo sogno, dopodiché sono riuscita a trasportarti nel mio sogno proprio nel mo-mento in cui mi sono svegliata. Questo è il van-taggio di rimanere lucida durante la fase onirica», Sarah decorò quella frase con un sorrisetto com-piaciuto. «M-a», un brivido mi corse lungo la schiena, «È successo di n-nuovo».

«Quindi era questo che intendevi con “rimane-re lucida”? Se è per questo sei peggio di Dom in Inception», affermò Colin evidenziando la parola “peggio”.Stavamo camminando per i corridoi, o labirinti, del centro commerciale. Colin stava elogiando le qua-lità oniriche di Sarah, mentre mi sosteneva con un braccio, aiutandomi a camminare ogni volta che mi sentivo andar via le forze.Ci fermammo davanti a uno stand dedicato agli oggetti e agli addobbi natalizi. Lui mi indicò una stella artigianale per l’albero di Natale fatta con fili di lana incollati tra loro. Io risposi con un verso un po’ nauseato, non tanto per via della stella, che comunque non era il mio genere preferito, ma più che altro perché il brusco risveglio da quel sonno incantatore mi faceva venire ancora i conati di vo-mito.

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«Non provare a dirmi che non vuoi quella stella, perché se lo fai ti diseredo e mi porto dietro il mio scimmiotto a scegliere gli addobbi la prossima vol-ta».In realtà non mi aveva nemmeno avvisata che sa-remmo andati in città solo per cercare degli addob-bi natalizi fighi. «Papà», ad un tratto cominciai a riversare lacri-me sul maglione blu di Colin. «Yv. Che succede? Yv» «Mi manca papà», dissi con voce disperata e singhiozzante.Colin e Sarah si scambiarono uno sguardo confu-so. «Vuoi chiamarlo? Guarda che puoi, hai il suo nu-mero per parlargli»Io piagnucolai che lui aveva abbandonato me e la mamma e non si era più fatto sentire. Poi presi il cellulare, cercai nervosamente il suo numero nella rubrica e rimasi per qualche secondo a fissare lo schermo con l’indice a pochi millimetri dal tasto di chiamata. Mi asciugai le lacrime, che continuavano a scendere, con le maniche e attivai la chiamata.“tuuh, tuuh, tuuh”, giusto tre squilli prima che la voce roca di mio padre facesse capolino dal cellu-lare, «Pronto» «Ciao papà», lo salutai tirando su col naso. «Ciao Stellina!», mi rispose calorosamente lui, facendomi ritornare bambina per un attimo, «Stai

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bene? Stavo giusto per chiamare a casa»Sentendo quelle parole mi si riempì il cuore di gio-ia, che però fu subito spenta dal pensiero che lui potesse mentire. «Mi manchi tanto», gli confessai lasciandomi sci-volare qualche altra lacrima sulle guance.Nel frattempo Sarah si era allontanata, mi sembrò inizialmente attirata da una vetrina. «Allora perché non vieni a trovarmi? Ti do l’indi-rizzo del mio appartamento e vieni a dormire qui per quanto vuoi, va bene?»Io mi sentii felice come un gattino che rincorre un filo di lana. «Sì! Dimmi l’indirizzo», indicai a Colin il suo cellu-lare, che in quel momento stava utilizzando per ri-spondere ad un messaggio, facendogli capire che volevo che prendesse appunti per me.Una volta dettato il luogo, praticamente dall’altra parte di Washington, aver accordato il giorno in cui ci saremmo visti, ma soprattutto dopo averlo trat-tenuto il più possibile al telefono, arrivò il momento di salutarsi, perché mio padre doveva tornare a la-vorare e, siccome era un architetto, probabilmente sarebbe rimasto tutta la notte sul suo progetto.Una volta chiusa la chiamata mi accorsi che Sarah era ritornata in buona compagnia. «Ciao», mi salutò timidamente Abbie. «Ciao», le risposi un po’ confusa, «Wow, che caso incontrarsi così»

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«Non è proprio un caso», mi rispose lei. «Sai quando ho chiamato, prima di partire?», continuò Sarah interrogando il mio sguardo.Mi ricordai di lei con in mano il cellulare, prima che salissimo sul treno. «Avevo chiamato lei per sapere se era in univer-sità» «Ero lì e Sarah mi ha invitata a venire qui, per-ciò… eccomi qui», Abbie sorrise arrossendo un poco. «Tu fai l’università?», non sapevo che fosse una ragazza così studiosa, «Che cosa fai?» «Frequento la facoltà di Scienze della formazio-ne all’Università di Washington» «Vuoi diventare un’insegnante?», le chiese Colin incuriosito.Lei annuì. Appariva sempre così timida e impac-ciata. Io non riuscivo proprio ad immaginarmela davanti a una classe di ragazzini spudorati, che l’avrebbero fatta impazzire, ma forse mi sbagliavo io e lei si sarebbe dimostrata diversa quando inse-gnava. «Bè… che stiamo aspettando? Non avevamo degli addobbi da comprare?», se ne uscì Colin cambiando argomento.Continuammo il nostro giro. Quella forse era stata una delle peggiori, ma allo stesso tempo migliori giornate della mia vita: nonostante le mie difficol-tà nei sogni, alla fine avevo ottenuto di poter rive-

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dere mio padre e una divertente passeggiata con quell’allegra combriccola. La paura fu subito sosti-tuita dalla felicità.

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iedi una leccata al mio succosissimo gelato alla crema e cocco. «Come ti è sembrato il film?», mio padre mi

stava guardando con occhi speranzosi: sperava di sentirmi dire che aveva scelto bene.«Molto carino».Ci eravamo incontrati alla fermata della metropoli-tana più vicina al suo monolocale, dopodiché era-vamo andati a vedere Frozen al cinema. Il film mi era piaciuto molto, in parte perché non mi dispia-cevano i film di animazione e in parte perché mi ero calata molto nella parte di Elsa.«Anche a me è piaciuto. Mi era simpatica la renna»«Sven?», io sogghignai, «Perciò, sei rimasto per tutto il tempo a guardare la renna?»Lui sorrise e aggiunse, «Anche il pupazzo di neve se è per questo».Stavamo percorrendo un grande parco della zona. Due file di alberi scorrevano a destra e a sinistra. Era tutto così verdeggiante che non mi sembra-va di essere in una città. Mio padre stava sorseg-giando un frappè alla nocciola, che mi aveva fatto assaggiare, come faceva sempre quando ero pic-cola. Continuavo a chiedermi perché non potesse più essere come allora. Perché mio padre non era ancora tornato a casa? Era davvero per ragioni di

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lavoro?«Papà», attirai la sua attenzione, con aria indecisa.Lui mi guardò, «Che c’è?»Mi sentivo così felice, ma allo stesso tempo così nervosa. Volevo chiedergli se sarebbe ritornato a casa, ma poi ripensai a mia madre. Se in realtà lei non avesse voluto farlo tornare a casa per un mo-tivo? O forse era lui che si era rifiutato di tornare? In ogni caso, sentivo il bisogno di parlargli di tutte queste cose, anche se non trovavo il coraggio di domandare.«N-iente», terminai, molto delusa dalla mia ca-renza di coraggio. Potevo affrontare gli incubi, ma non potevo affrontare mio padre. Forse era così perché, quando ero piccola, era sempre stato lui a scacciare i miei incubi. Forse perché lui era la figura che ero abituata a immaginarmi come il mio “salvatore”. Perciò non riuscivo a vederlo come un padre che avrebbe abbandonato volontariamente sua figlia.Lui rimase perplesso dalla risposta, «C’è qualcosa di cui mi vuoi parlare. Te lo leggo negli occhi»Raggiungemmo una panchina e ci sedemmo a ri-mirare il paesaggio.«Ecco… quando torni a casa?», chiesi velocissi-ma, quasi per paura che riuscisse a sentire le mie parole.Lui mi sorrise e si girò a fissare la strada ciottolosa davanti a noi. Dovetti aspettare un minuto prima

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che mi rispondesse.«Tornerò a casa. Ho molto da fare adesso… con il lavoro», si bloccò, «E io e la mamma non andiamo tanto d’accordo in questo periodo. A Natale dovrei riuscire a liberarmi»Udendo quelle parole il mio cuore saltellò nel petto d’eccitazione.«A me basta che tu torni»«Certo che tornerò Stellina».

«Cosa ha detto?», mi chiese curiosa Abbie al tele-fono.«Ha detto che tornerà. Spero sia vero», io ero nel bagno del monolocale di mio padre e parlavo sot-tovoce. Nonostante lui fosse appena uscito per fare la spesa, era come se avessi paura che mi sentisse parlare di lui.«Cosa ne pensi?», chiesi ad Abbie, che era rima-sta silenziosa.«Non saprei…», sospirò, «Forse, semplicemente, ha litigato con tua mamma e per adesso è arrab-biato. Magari poi gli passer໫Forse è così, ma non ne sono sicura… Ha detto che tornerà a Natale. Vorrei proprio festeggiare il Natale con lui a casa»Sarah, che in quel momento era a casa di Abbie, si intromise nel discorso, probabilmente stava dise-gnando lì vicino, origliando tutto.«Se in realtà pensi che non verrà, allora perché sei

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andata da lui?»«Adesso, quando torni a casa?», continuò Abbie ignorando la domanda di Sarah.«Penso domani… io e la mamma dobbiamo inizia-re a disporre gli addobbi natalizi, perciò si dovrà svuotare la soffitta di tutti quegli scatoloni accumu-lati negli anni e cominciare ad addobbare»«Sembra un lavoro faticoso», disse Sarah ridac-chiando, «I miei di solito non festeggiano il Natale»«Cosa?», si rivolse a lei Abbie sorpresa, «Davve-ro?»«Non l’abbiamo mai festeggiato»Ero sorpresa quanto Abbie di quella cosa, ma do-potutto avranno avuto le loro buone ragioni per non festeggiare il Natale.«Se vuoi puoi stare a casa nostra a Natale», pro-posi un po’ riluttante.«Se proprio mi costringete»Quando diceva così, avevo capito in quei giorni, intendeva dire una specie di “Sì grazie”. Diedi una sbirciatina fuori dal bagno. Mio padre non era an-cora tornato, perciò mi sedetti sul suo divanetto blu.«Sei ancora in linea?», mi chiese Abbie per via della pausa silenziosa.«Sì, sì, mi sono solo spostata sul divano», risi.«Quindi voi non pensate che i miei si vogliano…», non riuscii a completare la frase.«Non essere così pessimista, dai!», ribadì Abbie

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con aria incoraggiante.Io osservai con attenzione il monolocale. Sembra-va abbastanza disordinato: il piccolo tavolo era ap-parecchiato con piatti vuoti e sporchi, il frigo era strapieno di post-it e foglietti attaccati con semplici calamite, il divano letto sul quale ero seduta era un caos di coperte e calzini sporchi. Mio padre non era mai stato particolarmente ordinato.Sentii uno o due “clac” provenire dalla porta. «Okay, sta arrivando, ci sentiamo dopo», chiusi quasi immediatamente la chiamata senza lasciare alle due il tempo di salutarmi.Accolsi calorosamente mio padre. Sentivo che avevo bisogno di lui, senza di lui mi sarei sentita abbattuta. Quella notte rimasi a dor-mire con lui. Dormimmo nel divano letto, non molto comodo, il materasso era troppo sottile e troppo morbido, stare sdraiati là sopra era come essere sdraiati su un asciugamano spessissimo che era stato steso sopra dei sassi difformi. Da spaccarsi la schiena.Ciò che più mi sorprese però, era che non feci alcun sogno quella notte. Riuscii a dormire in una pace paradisiaca. Che fosse per via della sua pre-senza? Non lo sapevo, ma mi sentivo come se lui fosse diventato il mio angelo custode. Il mio pro-tettore.

«A me non è mai successa una cosa simile», affer-

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mò Sarah masticando una cicca.«Nemmeno a me, credo», la seguì Abbie. Entrambe erano sedute sul letto di Abbie, mentre io ero sulla sedia della sua scrivania. Avevo appe-na raccontato loro della magica notte senza sogni.«Mia madre prende antidepressivi e le pillole per dormire, ma non è mai riuscita a smettere di so-gnare. Se fosse possibile una cosa come quella che ci hai appena raccontato, vorrebbe dire che l’intera maledizione è una menzogna e non credo proprio che sia così», spiegò leggermente altera-ta Sarah, «Guarda», mi mostrò il suo blocco note. Aveva disegnato una spiaggia e la mia figura che guardava qualcosa al dì là del foglio.«È abbastanza inquietante», deglutii nervosamen-te, «Sembra che mi stia fissando. Ti prego non far-melo vedere»«Questa non è neanche la parte più inquietante», aggiunse lei, alzando un lato della bocca, «Vuoi sapere qual è?»«O-okay»«La cosa più inquietante è che ho disegnato que-sta cosa incoscientemente. Probabilmente stavo dormendo. Eppure mi ricordo di aver pensato a te in quel momento, non sapevo nemmeno di esser-mi addormentata, il ché è molto strano, siccome in genere riesco a controllare bene il mio trasferi-mento»Abbie si alzò dicendo, «Scusate, devo andare in

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bagno», e ci lasciò da sole nella sua stanza.«Perdonala. Le cose horror lei proprio non le sop-porta»Io deglutii nuovamente, cercando di guardare qual-siasi altra cosa che non fosse quel disegno.«Quindi… quella sono davvero io? Cosa pensi che voglia dire?»Lei pose un dito sul suo mento per apparire più riflessiva, «Non ne ho la più pallida idea».

«Ciao mamma. Sono a casa».Ero appena tornata a casa dalla visita fatta alle mie nuove amiche. Quest’ultima appariva molto silenziosa. Mia mamma non era in casa? Eppu-re era sera. Doveva essere già tornata da lavoro. Raggiunsi la camera da letto dei miei genitori e la trovai intenta a dormire come un ghiro. “Probabil-mente era troppo stanca”. Mi diressi anche io in camera mia. Appoggiai la tra-colla, mi cambiai con il pigiama e mi infilai diretta-mente nel letto. Ero desiderosa di addormentarmi e di capire se l’evento della notte precedente era isolato, oppure se era qualcosa che si sarebbe ri-petuto.

Ero ancora in quel corridoio bianco molto familiare. La porta era sempre lì, ma io ormai sapevo come cavarmela. Mi sarebbe bastata la sola intenzione di non varcare quella porta per riuscire a trasfe-

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rirmi. Ormai mi ci ero abituata. Presi la direzione opposta e mi ritrovai prima in una piazza, poi la pa-vimentazione svanì sotto i miei occhi per divenire il vuoto. Caddi, fino a toccare la superfice del mare. Sprofondai. Inizialmente trattenni il respiro, ma poi mi accorsi che potevo respirare anche sott’acqua. Arrivai sul fondo e mi ritrovai di fronte a una strut-tura senza finestre. Dove mi avrebbe portato quel sogno? Raggiunsi l’unica porta presente e la aprii. Un’improvvisa ondata di luce mi accecò. Ero nell’ufficio di mio padre. C’ero già stata quan-do ero piccola. Mi spostai in quell’ambiente. Non era un mio sogno, quello era certo. Riuscivo a per-cepire io stessa la mia invasione. Mi nascosi in un angolino. In genere era sempre meglio non farsi notare dal soggetto sognante, altrimenti quest’ulti-mo avrebbe potuto reagire male, vedendomi come un mostro, o un incubo. Ci voleva una grande for-za per apparirgli con la propria forma. Forza che io in genere non avevo.Qualcuno varcò la porta. Era mio padre, lo rico-nobbi nonostante l’immagine fosse sfocata e qual-che suo lineamento leggermente differente. Lui si sedette alla scrivania e cominciò a disegna-re. Completò il lavoro abbastanza velocemente e con la massima precisione. Entrò nella stanza una figura femminile, che cominciò a urlargli con-tro qualcosa che non riuscivo a sentire. Mio padre si sciolse come un ghiacciolo davanti a me. No-

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nostante avessi visto scene ben peggiori, in quel momento mi sentii una nausea terrificante risalire dal naso. Il liquido erose il pavimento e cadde nel buco creatosi. Io uscii dalla stanza, immaginando una strada che mi avrebbe permesso di seguire mio padre. Raggiunsi il piano inferiore. C’era un bambino che stava giocando a hockey su una pi-sta ghiacciata. Due figure di bambini stavano par-tecipando al suo gioco, mentre un altro bambino era seduto sul ghiaccio a fissare il vuoto. Riuscii a rendere più nitida la sua immagine. Doveva essere mio padre. Quest’ultimo superò la pista ghiacciata e raggiunse una scuola proprio lì accanto. Ci en-trai anche io, di nascosto. All’interno la scuola non era più una scuola, ma era diventata una sorta di grande casa. Mi sembrava quasi un orfanotrofio. “Frank”, udii una voce chiamare mio padre e mi gi-rai. Era una ragazzina dai capelli castani, non ben definita nei lineamenti del volto. Una figura eterea. Il bambino aveva acquisito una faccia d’uomo. La cosa era così brutta da costringermi a chiudere gli occhi dalla paura. Mio padre tornò uomo per inte-ro e abbracciò la ragazza, baciandola. Dopodiché, questa lo prese per mano e lo trascino su per delle scale a chiocciola. Salii anche io. Era incredibile come, nonostante la paura che causava tutto ciò dentro di me, in ogni trasferimento i sogni degli al-tri finissero sempre per incuriosirmi a tal punto da farmi superare ogni inquietudine. Raggiunsi l’apice

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delle scale, dopo un po’. In cima c’era uno spazio vuoto, nero, e mio padre stava piangendo, men-tre la sua figura continuava a cambiare tra adul-to, adolescente e bambino. Quando all’improvviso si arrestò e rimase adulto nelle gambe e bambino nel corpo. La sua testa era quella di un neonato, che piangeva istericamente. Il nero tramutò in una strada. Mio padre era fermo, immobile, piangeva e piangeva. All’improvviso arrivò un camion. Lui si voltò e sobbalzò dallo spavento quando questo camion lo investì. Di solito con degli spaventi simili i sogni terminavano, eppure quello di mio padre sembrava non essere ancora finito. Si ritrovò in una capanna indiana. Io anche. Questa capanna era grande quanto la tenda dei Weasley in Harry Potter e il Calice di fuoco. Qui mio padre stava par-lando con un uomo, vestito solo di vecchi pantaloni bucati e di collane fatte di grossi denti, di qualcosa riguardante la conoscenza. All’improvviso l’uomo si girò verso di me, facendo scattare nuovamente in me quel campanello d’allarme che è la paura, e uscì dalla tenda dopo aver detto qualcosa a mio padre. Mio padre, che era seduto a terra, si alzò in piedi. Aveva recuperato la sua normale forma. Dopo qualche secondo di silenzio assoluto si voltò verso di me, avvicinandosi con tale rapidità da farmi saltare indietro. “Tu”, i suoi occhi stavano fissando il muro dietro di me, “Tu non sei mia figlia”. Dopo aver detto questo prese a correre uscendo dalla

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tenda. Io lo seguii un po’ riluttante. Non sarei riu-scita a svegliarmi, probabilmente, fino alla fine del suo sogno. “Frank!”, “Frank!”, una voce femminile, abbastanza simile a quella di mia madre, urlava il suo nome. Mio padre divenne nuovamente un ibri-do di bambino e ricominciò quell’inquietante pianto isterico. “Basta”, disse poi a voce bassa. Come mai stava sognando tutto quello? C’erano veramente dei pensieri così torbidi e confusi nell’inconscio di mio padre? Perché sognava quelle voci di donne che lo chiamavano e che gli urlavano contro? Per-ché continuava a fuggire da qualcosa che non era ben chiaro? Sembrava proprio che mia madre gli avesse detto qualcosa che lo aveva scioccato mol-to. O almeno, questo era quello che ero riuscita a intuire. Poi per quale ragione mi aveva detto che non ero sua figlia? Era questo che gli aveva detto mia madre? Mi immaginai qualsiasi possibile riso-luzione a quel complesso enigma, quando la figura di mio padre cadde nel vuoto e con lui anche io.

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astidio. Quanto mi dava fastidio quella situa-zione. Era solo per colpa sua se odiavo an-dare a scuola. Era solo colpa di quell’orribile

individuo, quell’insopportabile bamboccio chiama-to David Johnson. Andava oltre ogni mia soppor-tazione. Appena entravo in classe, eccolo lì che mi salutava con il suo solito “Naso di maiale”, tirando-mi su la punta del naso con il dito indice. Quell’at-teggiamento ovviamente era seguito da un mio pu-gno nel suo stomaco. Per quanto fossi piccolina e gracile alle elementari, se c’era da tirare i pugni lo sapevo fare bene. Poi eccolo che mi tirava le trec-cine, quel piccolo bastardello. Finiva sempre col beccarsi il mio astuccio in faccia. Non erano poche poi le volte che i miei genitori erano stati convocati dal preside per via di questi miei comportamenti impulsivi. C’era solo una persona in grado di ca-pirmi, una persona che non mi sbeffeggiava, che non sparlava mai di me alle mie spalle e che non dava la colpa a me, come tutti sembravano voler sempre fare: Colin Price. Quel bambino era così dolce, così piccolo e indifeso. I ragazzi si faceva-no beffa di lui, gli facevano scherzi insopportabili, come passare la colla sulla sua sedia, o rubargli le penne e i materiali, oppure strappargli le copertine dei libri lanciandoseli a mo’ di palla. Erano crudeli

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con lui e io non riuscivo proprio ad assistere a que-sti soprusi senza reagire. Lo difesi tante volte, an-che a costo di rendermi antipatica a tutta la classe, non me ne fregava niente, dovevano smetterla di torturarlo. Grazie al mio intervento, persino David Johnson, il più rompi scatole della classe, verso la fine della scuola smise di divertirsi con i suoi soliti scherzetti. Fu così che io e Colin diventammo amici. Gioca-vamo spesso insieme al parchetto vicino a casa di mia nonna, quando quest’ultima veniva ancora a prendermi a scuola. Colin non era un tipo molto so-cievole da piccolo, anzi faceva molta fatica a parla-re con gli sconosciuti, mentre io ero una chiacchie-rona. Con me era particolarmente appiccicoso, probabilmente perché aveva paura che lo lasciassi nuovamente tra le grinfie dei bulletti. Ricordo an-cora l’odore di casa sua. Sua madre usava spesso l’incenso o delle candele con profumazioni erbori-stiche. Dopo qualche anno mi ero già affezionata a quel posto e amavo andare a giocare e a dormire a casa di Colin, soprattutto perché aveva una casa splendida. Ho assistito più volte ai montaggi video di suo padre ed è stato anche grazie a lui se ho imparato tante cose sull’arte del montaggio. Ricor-do che già da bambina mi divertivo a fare riprese e poi a editarle con dei programmi molto semplici sul pc fisso di casa mia. Mi piaceva tanto quel mon-do, ove tutto prendeva vita grazie ad una sempli-

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ce sequenza di inquadrature. Una passione che coltivò anche Colin con me. Da piccoli volevamo diventare dei grandi registi. Facemmo molti corti e mini-film durante i nostri giochi e, ancora adesso, Colin li conserva in un paio di dvd, che si ostina a nascondere per evitare che io li trovi e li bruci.La recita scolastica su Peter Pan fu il momento cardine della nostra amicizia. Ricordo che io riuscii ad ottenere la parte di Wendy anche grazie alla vo-tazione di Colin. Non c’erano molte bambine nella nostra classe, perciò effettivamente era stata poca la possibilità di scelta. Avevo passato giorni a pre-pararmi per quell’evento, a studiare la mia parte con mio padre che mi faceva da Peter di seconda mano. Colin era stato scelto per interpretare uno dei bimbi sperduti, ruolo che effettivamente gli cal-zava essendo lui abbastanza piccolino ai tempi. Io adoravo recitare, mi piaceva il semplice fatto di ca-larmi nella parte di un personaggio. Mi faceva sen-tire libera. Recitai la parte di Wendy come se fossi stata io stessa quel personaggio. La parte di Peter era stata assegnata proprio al mio acerrimo nemi-co, David, che si dimostrò però più pacato nella sua recitazione. Sembrava quasi un’altra persona. Lui sì che avrebbe potuto fare l’attore. Una volta iniziata la scuola secondaria ogni mio contatto con i componenti di quella classe si dis-solse nel nulla, lasciando nella mia testa una tabu-la rasa che mi sentivo pronta a riempire con nuove

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persone, sperando che fossero più simpatiche e più mature, e con nuove esperienze. Purtroppo, una volta giunta alle scuole secondarie, scoprii che non era possibile. C’erano così tante persone im-mature e tante persone che sentivano il bisogno di prendersi gioco di te. Il liceo, poi, fu una delle tante ragioni per cui persi la voglia di avere a che fare con gli altri ragazzi. Colin, invece, sembrò vivere molto meglio quel periodo. Lui era molto bravo a simpatizzare con gli altri ed era diventato bravo anche a scuola, prendeva spesso bei voti. Io, se alle elementari ricevevo diverse note di demerito, alle scuole superiori ero la più tranquilla della clas-se, ma ero sempre distratta e non riuscivo mai a concentrarmi sullo studio. Il rapporto tra me e Colin era rimasto sempre lo stesso, l’unica differenza era che cominciavo a percepire una distanza crescente tra di noi, lo sentivo come se si volesse allontanare da me. In quel periodo aveva cominciato a frequentare an-che altri ragazzi e a maturare la sua passione per i manga e gli anime giapponesi. Con i suoi nuo-vi amici aveva cominciato a lavorare a dei piccoli progetti filmografici che lui montava e pubblicava su YouTube. Insomma, aveva trovato una serie di passatempi, dei quali spesso parlava anche con me cercando di coinvolgermi. Eppure io mi sentivo strana. Sarebbe abbastanza difficile descrivere le mie sensazioni: probabilmente ero invidiosa della

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sua bravura e del suo talento. Probabilmente per il fatto che con la scuola non mi stesse andando tanto bene e anche per via del fatto che non ave-vo idea di cosa volessi fare in un prossimo futuro, mentre lui appariva certo di voler fare il montatore video, mi portavano a sentirmi oppressa dal suo nuovo carattere e, probabilmente, avevo comin-ciato a percepirlo come un Colin diverso da quello che conoscevo dalle elementari. Che cosa strana vero? Eppure era sempre stato lo stesso Colin.Il periodo più difficile cominciò quando i miei ge-nitori iniziarono a litigare. Litigavano ogni giorno, ogni volta che ne avevano l’occasione. Invece di stare insieme e parlare civilmente, puntualmente si mettevano a discutere. Avevo cominciato, lette-ralmente, a odiare me stessa. Davo a me stessa la colpa di quella situazione famigliare. Avevo paura, il terrore che la mia famiglia si stesse per infran-gere in mille pezzi. Io sarei stata la chiave di volta posta male che avrebbe fatto cadere tutto. Questo almeno era quello che ripetevo nella mia testa fino alla nausea. Avevo smesso del tutto di parlare con Colin. Non guardavo più i suoi messaggi, quando uscivo da scuola non lo aspettavo più. Desidera-vo solo di rimanere sola. Non volevo più parlare con nessuno. Dentro di me ripetevo che erano tutti marci, che non esisteva la vera amicizia, non era mai esistita, era tutto una presa per il fondo schie-na. In realtà non erano gli altri il mio vero proble-

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ma, ma ero io. Mi davo la colpa di qualunque cosa stesse succedendo e incolpavo gli altri solamente per dimenticare quanto fosse grande il mio dolore e quanto mi sentissi inutile, stupida e la causa di qualunque male. Ogni volta che tentavo di scol-larmi di dosso quelle sensazioni, eccole che mi riattaccavano a effetto boomerang. Caddi spesso in forti depressioni. A volte mi capitava di andare a bere qualcosa fuori, da sola, e, proprio nei mo-menti in cui me lo sarei meno aspettata, scoppiavo a piangere come se fossi stata in lutto.Che fosse sempre stato il Richiamo la causa di tut-ti i miei mali? In realtà non lo so. Per quanto ne so potrei essere stata una fottuta idiota io ad essermi addossata tutte le colpe del mondo, senza parla-re dei miei problemi con nessuno. Quindi, è stato davvero il Richiamo il mio problema, o sono stata io?

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ew”.Ero intenta a scrivere con il mio com-puter portatile. La mia scrivania era un

macello, c’era qualunque oggetto possibile e im-maginabile: penne, matite, alimentatori, una tazza, il mio cellulare, tre pupazzi, un gatto. «Cotton?»“Mew”. Cotton era appena balzato sopra il mio computer e mi stava facendo le fusa, mentre la ta-stiera inseriva in continuazione lettere a caso sotto il peso delle sue zampe. «Cotton!», lo presi in braccio e lo buttai a terra.Quel gatto mi aveva riempito le pagine di Word di lettere e mi aveva cancellato parte del discorso.Mi ero messa a scrivere, già. Era da tanto tem-po che non provavo più a farlo. Probabilmente mi ero arresa quelle due volte in cui mia madre ave-va bocciato la mia scrittura affermando che avevo molta strada da fare. Avevo deciso proprio in quel momento, di seguito a un attacco creativo, di scri-vere un testo. Non era un testo come una semplice narrazione, o un romanzo, ma un testo che avevo intenzione di recitare: un monologo. In quel periodo mi ero resa conto di aver dimenti-cato quello che mi piaceva veramente. Quello per cui andavo matta da piccola: la recitazione.

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“Mew”. Quella gatta non riusciva proprio a stare ferma. Era balzata nuovamente sulla scrivania, per poi gettarsi sulle mie gambe e strusciarsi con-tro il mio petto. Mi riempiva sempre di peli bianchi. Da quando la nonna non c’era più, quella gattona era entrata a far parte del nostro nucleo famigliare. «Ma che hai oggi?», cominciai ad accarezzarla e lei si sdraiò, intenta a godersi i grattini, «Sei pro-prio sicura di essere un gatto tu?».Mia madre entrò nella mia stanza senza bussare. Aveva in mano il telefono fisso. «Tesoro, è Colin».Mi consegnò il telefono e rimase in attesa di qual-cosa sulla porta. «Pronto» «Ehi Yv» «Ciao Colin», sorrisi e aggiustai qualche errore, che avevo notato durante la rilettura di quelle po-che parole che avevo scritto.“Mew”. «Cos’è?», chiese lui con voce scherzosa. «È Cotton che vuole i grattini», risposi, dando al gatto i suoi grattini. «Hai capito Cotton. Li voglio anche io i grattini»Io risi e diedi un accapo sul foglio di Word. «Facevi qualcosa di bello?» «Boh, scrivevo» «Davvero? Era da un po’ di tempo che non lo facevi. Non è giusto. Tu scrivi delle storie e poi non

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le finisci mai, lasciandomi col fiato sospeso e tri-ste. Perché la mia vita è incompleta senza sapere come finiscono»Mia madre mi fece intendere, muovendo la bocca silenziosamente, che le serviva il telefono. «Perché mi avevi chiamata?», chiesi a Colin. «Giusto. In realtà avevo intenzione di invitarti questa sera alla festa di Natale che hanno orga-nizzato i miei» «Natale? Ma se Natale è domani» «Certo, ma abbiamo fatto in modo che le perso-ne che sarebbero venute avrebbero potuto festeg-giare il Natale in famiglia e comunque festeggiare anche con noi, anche se il giorno prima» «Okay. Quindi, questa sera a che ora?»Dopo essermi scritta l’orario, lo salutai, chiusi la chiamata e restituii il telefono a mia madre, che cominciò a comporre un altro numero.Rimasi con gli occhi fissi sullo schermo per cinque minuti, senza saper più che scrivere. Avevo termi-nato tutte le idee. Il monologo sembrava non avere intenzione di finire.“Mew”. Feci i grattini alla gatta. Mancava poco a quella sera, erano quasi le diciotto.

«Che te ne pare?» «Avete addobbato proprio tutto», risposi alla do-manda di Colin. La sua casa non era solo stata addobbata, ma

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sembrava essere diventata essa stessa un grande addobbo natalizio. «Molto bello», mi complimentai, mentre guardavo il gioco di luci rosse, gialle e bianche creato dalla facciata della casa con il buio di quel freddo pome-riggio invernale. Un grande abete era stato messo in una delle aiuole della facciata. Questo era stato decorato con palle, palline, fiocchi di neve bianchi, animaletti di legno e tanti altri decori, riuscii a ricor-dare di averne già visti alcuni qualche anno prima. All’improvviso cominciò a nevicare, me ne accorsi perché un fiocco di gelida neve mi si posò proprio sul naso. «Brr, che freddo».Rientrammo in casa, dove si stava svolgendo la festa. Era stato invitato qualche parente e degli amici dei genitori di Colin. La maggior parte degli invitati si stavano servendo al tavolo, che era stato imbandito di stuzzichini e dolci. Due persone, un uomo e una donna, stavano chiacchierando alle-gramente con la signora e il signor Price.All’improvviso mi comparve davanti una donna an-ziana che stava danzando al ritmo di Jingle Bells Rock. «Oh, ma chi è questa bella ragazza?», la donna spalancò gli occhi. «È la mia… fidanzata. Yvonne, ti presento la mia nonna paterna» «Katherin. È un piacere conoscerti bellezza»,

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lei mi strinse la mano con ambe due le sue, «Fai la stessa scuola di Colin?», continuò muovendosi ancora a ritmo. «Beh, sì», risposi un po’ imbarazzata. In tutto quel tempo non avevo ancora conosciuto la nonna paterna di Colin. «Katherin, i brownies!», a chiamarla era stato un uomo anziano. Probabilmente il marito. «Ci vuole ancora un po’ tesoro, non si cuociono in un attimo», la donna era così presa dalla musica che riuscì a trascinare anche suo marito nella dan-za di All I Want For Christmas Is You. «Okay… credo che tu abbia conosciuto i miei nonni paterni in uno dei loro momenti migliori», ri-dacchiò Colin divertito. «Sono molto carini», affermai, avvertendo uno strano mal di testa, «Vado un attimo in bagno».Colin mi rispose con un “Certo”. Mi diressi verso il bagno, pressavo le tempie con le mani. Mi fa-cevano malissimo. Forse si trattava solo del raf-freddore. Mi appoggiai al bancone del lavandino e mi guardai allo specchio. Avevo delle occhiaie inguardabili, il correttore me le aveva nascoste un poco, ma erano ancora gonfie e opprimenti sotto i miei occhi. Mi ero vestita con il mio maglione pre-ferito, pantaloni attillati e stivali imbottiti. I miei ciuffi davanti erano stati legati in due treccine e porta-ti indietro con una molletta a forma di farfalla. Mi ero truccata leggermente, come di mio solito. Non

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amavo imbellettarmi troppo. Il mal di testa si fece più forte. Tornai in salotto, volevo chiedere a Co-lin se aveva un farmaco antidolorifico per il mal di testa, ma non feci in tempo a raggiungerlo che mi sentii svenire.

Ero in una bellissima e pacifica spiaggia. La sab-bia era sottilissima, il mare calmissimo, silenzioso, irreale. Non c’erano gabbiani o altri tipi di animali che facessero rumore. Ogni cosa taceva. Si sen-tiva solo un leggero scroscio d’acqua. Un suono rilassante, che conciliava il sonno.Mi girai, dando le spalle al mare, e vidi una figura non ben definita che si stava lentamente avvici-nando a me. Non riuscivo ad inquadrare il suo vol-to, come se non esistesse in realtà. Dopo qualche minuto di silenzio la figura parlò.“Yvonne”, aveva una voce troppo rilassante, “Per-ché mi fuggi?”.“Chi sei?”, pensai io, senza riuscire a deturpare quel silenzio.“Perché fuggi il tuo sangue?”.Non riuscivo a comprendere cosa stesse succe-dendo. Volevo solo dormire in pace in quel mo-mento.“C-chi sei? Cosa vuoi?”, questa volta parlai, anche se a bassa voce.Quel silenzio si stava facendo mano a mano più inquietante, esattamente come lo stava diventan-

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do anche il suono dell’acqua che scorreva in lon-tananza.“Io sono colui che dovresti adorare”.“No!”, improvvisamente tentai di ribellarmi a quel silenzio, che mi stava facendo sentire sempre più in ansia, alzando la voce.“Sono Morfeo, figlio di Hypnos e dio dei sogni”.Io tentai di scappare ma non ci fu modo. L’incanto di quel posto mi aveva trascinato nella trappola e adesso ero bloccata e decisamente nei guai.“Lasciami andare! Non voglio stare qua! Che cosa vuoi?”, cominciai a piangere.“Quello che importa è ciò che vuoi tu”, affermò, sempre con quella voce tremendamente rilassan-te.“Ti prego”, lo supplicai io, temendo di avere perso ogni speranza di risvegliarmi. Era come se stessi supplicando la morte di non portarmi via.“Non sono io ad incatenarti”.Fu l’ultima cosa che disse, poi le immagini diven-nero sfocate.

«Yvonne! Yvonne! Sei sveglia?» «È sveglia» «Ma cosa è accaduto?» «Colin, come sta?» «Si è svegliata?» «Come stai Yvonne?» «Cosa è successo?»

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«Lasciatela stare poverina! la state soffocando con le vostre attenzioni».Tutte le persone invitate alla festa si erano rag-gruppate intorno a me, a reggermi la testa c’era Colin, mentre la madre mi stava facendo annusare i sali. «Ehi. Tutto bene?», mi chiese il mio ragazzo, con il volto tutto sudato. «G-grazie», gli dissi piangendo per lo shock.Lui mi abbracciò. Mi prese in braccio e mi portò nel suo letto. «Prendi questa», mi consegnò una pillola. «Che cos’è?» «Dovrebbe aiutarti a dormire. Provala almeno. Forse ti faciliterà le cose»Forse Colin non aveva capito bene il mio reale pro-blema. «Il mio problema non è addormentarmi meglio, ma quello di dover essere più attenta nella traslo-cazione» «Lo so» «E allora perché mi proponi questa pillola?»Lui si imbarazzò un poco, «Pensavo che… aiutan-doti a dormire… ti potesse aiutare anche a rilas-sarti e quindi a non distrarti durante il sogno» «Che cavolata», risposi, «Sei proprio uno scemo, lo sai?».Lui mi fissò negli occhi. Aveva sudato dalla paura. Avrei voluto tanto che quella fase terminasse, in

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modo che lui non dovesse più spaventarsi in quel modo e che non dovesse più sentirsi impotente davanti a quel mio problema. «Scusa… sono troppo preoccupato per te. Non ci sto più con la testa», sembrava sul momento di crollare.Mi avvicinai a lui e lo strinsi forte a me.Quella notte dormii a casa sua. Non sognai nulla, nella mia mente c’era solo una candida pace.

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l giorno di Natale mi risvegliai nel letto di Co-lin. “Non sono io ad incatenarti”. Avevo an-cora in testa quella frase. Era vero? Non era

Morfeo ad incatenarmi ai miei sogni? Ma quindi chi, o cosa? “È solo un sogno”, ripetevo tra me e me, “Sì, cer-to, però un sogno che mi ha fatto rischiare di an-dare in coma”. Ero terrorizzata nuovamente dall’i-dea di non essere abbastanza forte, “Mi ha quasi preso”, pensai. Dopotutto non avevo idea di come succedesse. Di cosa dovesse avvenire perché una persona finisse in coma e non riuscisse più a risvegliarsi, come invece riuscivo a fare io grazie all’aiuto tempestivo degli altri, in genere. “E se mi succedesse quando non ci sarà nessuno disponibi-le ad aiutarmi?”. Ripensai alla notte prima. Perché non mi ricordavo il sogno che avevo fatto? Eppu-re mi ero risvegliata, perciò dovevo essere riuscita a traslocare. Era molto strano che non ricordassi nulla del sogno in cui ero entrata. “Se in realtà non avessi sognato?”. Era una cosa strana. Una cosa strana che mi succedeva già per la seconda volta. Cosa significava?Avvertii una superfice fredda e liscia sulla pelle del mio collo. Attorno avevo il ciondolo di mia ma-dre. “Da quand’è che ho questa cosa al collo?”.

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Non riuscivo proprio a ricordarmene. Che potes-si essermelo messo durante uno dei miei episodi di sonnambulismo? Davvero non mi ero mai resa conto di averlo indossato? Agguantai il cellulare, intenzionata a scrivere a Sarah.

Yvonne: “Ehi”, faccina sorridente.

Sarah ci impiegò qualche minuto a rispondere. Nel frattempo mi continuavo a chiedere dove fosse Colin.

Sarah: “Ciao”Yvonne: “Posso chiederti una cosa?”Sarah: “Non hai sognato nulla nemmeno questa volta, vero?”Yvonne: “… Dimenticavo che tu sai sempre tutto”Sarah: “Sai… stavo rileggendo per la quinta volta il saggio di GP. Mi chiedevo se l’autore (o l’autri-ce) avesse trovato una risposta a questa cosa, ma non è così”Yvonne: “Capisco… Posso chiamarti?”Sarah: “Chiama”.

Selezionai il tasto “chiama” dalla rubrica e lei mi rispose quasi istantaneamente. «Nel capitolo cinque, GP parla di come questo problema sia sogget-» «Chi è? La tua amica?»

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Una vocina squillante interruppe la frase di Sarah. «Sì Bridget. Adesso lasciaci in pace» «Posso salutarla?», la ragazzina strillò così tanto da farmi male ai timpani. «Va bene», acconsentì scocciata Sarah. «Ciao!» «Ciao», risposi io. «Come va?» «Tutto bene grazie. Te come stai?» «Io, insomma, benino si può dire. Oggi devo an-dare dal medico con la mamma» «Bridget! Hai detto salutare», esplose Sarah im-paziente. «Okay. Ciao, ciao!», mi salutò lasciando il cellu-lare all’altra. «Scusa… è una chiacchierona» «Non ti preoccupare», ridacchiai. «Stavo dicendo: GP ha scritto che il problema del Richiamo è soggettivo, ossia che ognuno lo soffre in modo diverso, ma non accenna mai niente ri-guardo alle malattie, o a cose simili» «Ma GP secondo te è il nome dell’autore del ma-noscritto, o dell’autore della ristampa?» «Non lo so. Per me è già strano che manchino così tante informazioni in questo libro. Prima di tut-to non siamo sicuri se l’autore sia un uomo o una donna, non siamo sicuri della reale datazione del saggio, siccome sono segnate due date, il 1882 e il 1986, poi sappiamo che l’autore ha un legame

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famigliare con la maledizione, ma non sappiamo se è, nel caso sia una donna, ella stessa male-detta. Potrebbe essere, vista la dedica alla figlia, che probabilmente aveva il dono. Secondo me po-trebbe anche essere una donna l’autrice, ma il suo nome potrebbe essere stato sostituito da quello del marito. Nell’Ottocento non si sa mai. Io e te, mi è parso di capire, ne abbiamo due copie identiche. Questo può voler dire che c’è stato in passato un tentativo di diffusione di questo libro, eppure non sono riuscita a trovarne un’altra copia da nessuna parte, nemmeno su Internet» «Magari queste stampe sono state diffuse priva-tamente durante dei raduni simili a quello dove ci siamo conosciute, non credi?», proposi io. «Forse. Anche se mi sembra strano che il nostro problema non sia mai diventato di dominio pub-blico, se effettivamente ci sono altre persone ad averlo, non solo noi. Sappiamo che è qualcosa di ereditario, ma non abbiamo prove scientifiche suf-ficienti per poter dire che si tratti di una malattia fisica o psicologica. Pensa solo al fatto che siamo costrette a traslocare nei sogni degli altri. Già que-sta cosa dovrebbe risultare fin troppo surreale per essere una malattia», continuò Sarah. «Già. Pensa poi al culto e alla conoscenza che si è costruita dietro a questo problema. Indica che questo problema potrebbe essere sempre esistito, nel caso si trattasse di una malattia psicologica.

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Io fino a qualche settimana fa non sapevo nulla al riguardo» «Davvero? Io l’ho sempre saputo» «Cosa?» «Sì… mia madre me l’ha detto tanti anni fa che un giorno avrei incontrato questo problema. Infat-ti mi ha preparata fin da subito ad affrontarlo. Lo stesso è avvenuto con mia sorella».Mia madre non mi aveva mai detto niente. Perché non l’aveva mai fatto? Anche se avesse avuto pau-ra di coinvolgermi in quella storia, nella quale ef-fettivamente ero già coinvolta, avrebbe dovuto dir-melo per il semplice fatto che ero sua figlia e che molto probabilmente avevo il suo stesso problema. Qual era il problema di mia madre? Aveva troppa paura che io fossi come lei? Se avesse avuto ve-ramente paura per me avrebbe dovuto avvertirmi e prepararmi. «Mia madre mi ha nascosto tutto», affermai scon-volta. «Mi sembra strano che abbia fatto una cosa del genere. Io ho cominciato fin da prima del Richiamo a frequentare i raduni e tante altre persone con lo stesso problema. Ho visto un sacco di nuove adepte fare il rito d’iniziazione»Mi tornò alla mente una cosa. «Ma tua sorella è già in quella fase?» «No… perché?»In realtà, il rituale si faceva ogni qual volta un’a-

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depta veniva per la prima volta a un raduno e non quando essa aveva iniziato la fase del Richiamo. «N-nulla» «Sarebbe troppo giovane. Anche se effettiva-mente mia madre teme che sia prematura. Oggi vanno dal medico per fare una visita di controllo» «Ma scusa, a cosa serve fare la visita dal medi-co?» «Serve a controllare che non abbia problemi fi-sici che possano complicare la situazione una vol-ta raggiunto il Richiamo. Mia sorella ha già avuto dei problemi al cuore. Perciò adesso vedono se è qualcosa di grave» «Poverina», un improvviso e immotivato senso di colpa mi assalì, «Non pensavo che potesse avere quel genere di problemi» «Mia sorella è più fragile di quanto sembri. Que-sto ammetto che mi preoccupa molto» «Buongiorno alla mia Wendy», entrò improvvisa-mente nella stanza Colin. Stava reggendo un vas-soio da letto con un piatto di pancake, una tazza di latte e un barattolo di marmellata d’arancia, «Mi spiace, non avevo quella alle more, purtroppo. Sa-rei andato a comprartela, ma i supermercati oggi sono chiusi» «Mi hai fatto i pancake?», io ero scioccata. Colin non aveva mai cucinato per me prima di allora. «Sì… posso dire che ci ho provato, almeno», lui sorrise strofinandosi una mano dietro la testa.

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«Li assaggio subito!» «Richiamo dopo?», chiese Sarah con la sua so-lita voce da “me ne frego”. «No dai, non chiudere. Assaggio i pancake e sono da te» «Golosa!», mi rimbeccò Colin.Afferrai la forchettina e li assaggiai, pezzo per pez-zo, fino a svuotare il piatto. «Wow. Non sapevo che sapessi farli» «Grazie mille per la fiducia», rispose lui, «Intanto te li sei mangiati tutti e non mi hai fatto neanche un complimento»Io risi di gusto, «Sono buonissimi» «Grazie», disse facendo un gesto simile a un inchino. «Possiamo tornare a parlare di cose serie ades-so?», continuò Sarah sempre più scocciata. «Certo», scattai sull’attenti. «Parliamo del fatto che io so che ieri notte sei riuscita a dormire» «Giusto… come lo sai?» «Mia sorella» «Tua sorella?» «Sì. Sai che mia sorella ha fatto il rituale insieme a te. Si dice che quel rituale in parte serva per buon auspicio, ma d’altra parte è un modo per legarci e renderci più unite davanti a questo problema. Ho ipotizzato, poi, che il rituale tendesse ad unire le singole menti»

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«In che senso?» «Nel senso che quando si fa il rituale con al-tre persone è come se la propria mente acquisis-se un nuovo equilibrio legandosi in questo modo alle menti delle altre adepte. No anzi, non tanto di equilibrio, ma proprio di compensazione. Tornando a ieri sera, mia sorella non è riuscita a dormire. Non era riuscita a dormire nemmeno la notte che hai dormito da tuo padre. Non le era mai successa una cosa del genere. Di solito lei non ha alcun pro-blema a dormire» «Davvero? Credi che possa essere perché io sono riuscita a dormire?» «Lo sto ipotizzando. Ovviamente potrebbe trat-tarsi di una semplice coincidenza. Ti basta solo sa-pere che è capitato anche a me con una ragazza che ho conosciuto tempo fa in un raduno. Ormai è da anni che non la sento più». «Capisco».Che cosa significava tutto ciò? Era forse dovuto al legame di sangue? Eppure non potevamo esse-re parenti. Avevamo solo una versione del mito di Oneira ed era quella in cui la giovane veniva fatta bruciare viva dal padre che la credeva morta. Non poteva avere discendenti in realtà, anche se quel GP aveva suggerito, sempre nello stesso capitolo, che la ragazza potesse essere già maritata e ave-re dei figli, ma si trattava solo di supposizioni. In ogni caso anche se fossimo state parenti sarebbe

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stato strano quel collegamento diretto delle nostre menti.Raccontai del sogno del giorno prima a Sarah. Co-lin non era in ascolto. Era tornato in cucina, proba-bilmente a lavare la padella. «Ammetto che è inusuale: sognare Morfeo stes-so che ti parla e che ti dice che non è lui ad incate-narti. Però penso che si tratti di un incubo come un altro. Ipotizziamo l’esistenza di quel dio: in tal caso potrebbe averti volontariamente distratta, permet-tendoti di dormire tranquillamente, in modo da ri-provare a tentarti dopo, quando eri meno attenta» «Frena un attimo. Io ieri sono letteralmente sve-nuta. Non credevo che il sonno potesse assalirci così… da un momento all’altro. Non mi era mai successo. Prima mi addormentavo normalmente»Un pausa riflessiva seguì il discorso. Nessuna del-le due ci stava effettivamente capendo qualcosa. Entrambe potevamo solo ipotizzare e non poteva-mo confermare mai niente. Ciononostante sentivo che mi faceva bene parlare con Sarah di quelle cose. Mi faceva sentire più vicina alla verità.Colin ritornò nella stanza e si sedette sul suo letto, appoggiando una mano sulla mia gamba, che era sotto le coperte. «Vuoi che ti riaccompagno a casa?»In realtà non me la sentivo proprio di tornare a casa, da mia madre. Però avevo bisogno di farle delle domande. Mi aveva nascosto fin troppe cose

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in quegli anni. Perciò, annuii.

Varcai la porta di casa mia. Colin mi aveva ac-compagnata a piedi, tenendomi stretta sotto il suo braccio, per scaldarmi dal gelo. Mi salutò con un bacio e si allontanò facendo un moonwalk sul via-letto. “Scemo”, pensai. Trovai mia madre intenta ad ascoltare canzoni natalizie e a lavorare qualco-sa all’uncinetto. Era uno dei suoi modi per rilassar-si di solito. «Ciao mamma», la salutai. «Ciao», mia madre appoggiò sul tavolo il suo lavoro e si alzò dalla sedia con sguardo preoccu-pato, «Come stai?» «Tutto bene» «Colin mi ha chiamata ieri. Mi ha detto che avevi anche la febbre» «Non lo so questo. Ero troppo stanca ieri» «Stai attenta. Ammalarsi è pericoloso nelle tue condizioni. Ti rende meno lucida», mentre pronun-ciava quelle parole, era come se si stesse trat-tenendo dal dimostrarmi preoccupazione. Tornò a sedersi e ricominciò a muovere nervosamente l’uncinetto. Perché si comportava così? Era sem-pre così, fredda nei miei confronti, soprattutto in quell’ultimo periodo. «Mamma»Lei non staccò gli occhi un attimo dallo strumento. «Mamma», ripetei una seconda volta, sperando

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di attirare la sua attenzione.A quel punto si accorse del mio richiamo e si girò a guardarmi, senza proferire parola. «Perché non mi hai mai detto niente?»Gli occhi di mia madre sembrarono accendersi in quel momento. Non mi rispose, ma sicuramente mi aveva sentita e la mia domanda doveva averle fatto un certo effetto. «Mamma. Rispondimi per favore»Mia madre cominciò a strizzare leggermente gli occhi. Sembrava che si stesse trattenendo dal piangere. Non parlò. «Va bene», terminai io infuriata. La mia prima intenzione fu quella di uscire di casa e tornare da Colin, ma, proprio quando aprii la por-ta, mi accorsi che davanti a me c’era mio padre. Lo shock fu così grande che indietreggiai. «P-papà» «Ciao Stellina».Quando compresi che quello era per davvero mio padre, gli corsi incontro e gli saltai addosso in un abbraccio caloroso. «Papà! Papà è tornato!»Mia madre, abbandonò il suo posto e si avvicinò all’ingresso per controllare. «Frank», questo fu il saluto di mia madre. Nella sua voce si leggeva un tremolio. «Rebecca», rispose lui.Ci fu uno scambio di sguardi, che continuò anche

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dopo che mi staccai dalle braccia di mio padre. «Vuoi entrare?», gli chiese mia madre con fare un po’ incerto.Mio padre varcò l’uscio. Aveva le mani nascoste dietro la schiena. «Un regalo per la mia bambina», mi porse un grande pacco regalo dalla forma un po’ strana.Io mi coprii la bocca con entrambe le mani, emo-zionata. Cominciai subito a scartarlo, lanciando ogni tanto qualche occhiata a mio padre, come per timore di stare sbagliando qualcosa. Dentro al pac-chetto c’era un morbido cuscino a forma di stella sorridente e un diario. Sulla copertina di quest’ulti-mo c’erano, avvolti dalle stelle, l’uccellino, la peco-ra, la talpa, il coccodrillo e la bambina della favola che mi raccontava sempre. «P-papà», una lacrima mi rigò il viso.In quel momento cominciai a percepire davvero l’atmosfera natalizia.

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mprovvisamente raggiusi una strada. Era tutto buio. Riuscivo a malapena a vedere l’asfalto. Avevo ancora in testa quelle voci.

Dovevo essere ancora all’interno di un mio so-gno. Perché non riuscivo più a trovare vie di fuga? Camminai, avanzando con la paura di non riuscire più a vedere dove mettevo i piedi. Quella strada terminò in un ampio prato, illuminato dalla luce lu-nare. Mi sentii più tranquilla e mi sedetti per terra, rimirando il cielo stellato e tirando fuori dalla borsa un blocco note, sul quale cominciai a scrivere e a disegnare. Davanti a quella luna mi uscì un capo-lavoro letterario, con tanto di illustrazioni. “Adesso devo mostrarlo ai miei”, pensai tutta contenta. In lontananza c’era una casetta. Doveva essere casa mia. Il giardino era decorato da una miriade di tu-lipani rossi. “Tulipani”, pensai, facendo coincidere la figura di uno di quei tulipani con il mio ciondo-lo. Quando entrai mi ritrovai in una stanza molto simile a un’aula scolastica. Nella classe entraro-no quattro ragazzi, tra i quali mia madre. “Guarda mamma. Ho fatto questo”. Mia madre lesse il mio capolavoro e mi rispose “Bello”, con atteggiamen-to menefreghista. Ad un certo punto mi alzai e mi accorsi di essere senza pantaloni. Inizialmente gli altri non sembravano essersene accorti, ma quan-

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do lo notai io tutti iniziarono a fissarmi. Mia madre, che era seduta al banco accanto a me, si alzò e uscì dall’aula. Io la seguii. Era andata in bagno. Il bagno era molto simile al bagno di Mirtilla Malcon-tenta a Hogwarts e sembrava quasi che mia ma-dre avesse aperto la Camera dei Segreti. “Non mi sfuggirai mamma. Cosa vuoi nascondermi?”, rag-giunsi l’apertura nel pavimento e mi gettai al suo interno. Quando giunsi alla fine, mi accorsi che ero tornata in quel prato. Solo che, quella volta, non era un bellissimo prato illuminato dalla luce della luna, perché la luna era sparita e quest’ultimo era illuminato fiocamente solo da un lampione. “Mam-ma!”, la chiamai, “Dove sei?”. Raggiunsi la grande stanza della Camera dei Segreti e trovai mia ma-dre proprio là in fondo. “Cosa ci fai lì?”, pensai. Mia madre nel frattempo aveva cominciato a parlare in serpentese con il muro. “Cosa stai facendo?”. In quel momento mia madre si voltò verso di me e capii che dovevo scappare. Era diventata una spe-cie di zombie. Cominciai a correre e correre, finché non trovai una spada. Proprio quando stavo per scontrarmi frontalmente con mia madre scivolai e caddi in una tubatura.

Mi risvegliai seduta alla mia scrivania, con ancora quella sgradevole sensazione di caduta addosso, con la penna ancora in mano. “Cosa?”. Ero terri-bilmente confusa. Avevo sognato ed ero riuscita a

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svegliarmi? “Meno male”, tirai un sospiro di sollie-vo. Nonostante fossi sollevata di essere riuscita a svegliarmi, dentro di me avevo ancora paura. Sa-pevo che se avessi continuato a dimostrarmi fragile davanti ai miei sogni, probabilmente, avrei ceduto. Stranamente quella volta riuscii a ricordarmi gran parte del sogno: dal momento in cui ero uscita dal-la classe, a quando ero stata inseguita da mia ma-dre formato zombie. Così tanti pensieri affollavano la mia mente. Continuavo a chiedermi il motivo del comportamento di mia madre, che continuava a persistere nonostante mio padre fosse tornato a casa. Era arrabbiata con me, forse? Cosa avevo che non andava? Volevo assolutamente scoprire il suo segreto.

«Cosa stai dicendo?» «Per favore, non puoi farlo almeno una volta?» «Non conosco così bene tua madre, o almeno non ho mai provato a conoscerla» «Dai, per favore, ho bisogno del tuo aiuto» «Te lo scordi. Non faccio scemate simili con il rischio di rimanere bloccata» «Almeno puoi spiegarmi come fai di solito?»Sarah fece una pausa abbastanza lunga, probabil-mente per riflettere se continuare la conversazione o chiudermi il telefono in faccia. «Va bene. Accidenti» «Grazie Sarah», io mi procurai un foglio di carta

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riciclata e mi approntai a scrivere qualsiasi cosa potesse risultarmi utile. «Di solito medito prima di dormire. Questo mi permette di sentirmi maggiormente rilassata e preparata ad entrare nel sogno. Dopodiché cerco sempre di mettermi supina, quindi appoggiata sul-la schiena e faccia in su, con le braccia distese. Questo in modo che tutti gli arti siano perfettamen-te rilassati e che non ci siano influenze fisiologiche di alcun tipo durante il sogno. Ovviamente per ave-re la migliore prestazione devi essere sana: niente influenza, niente febbre, niente raffreddore, niente di niente» «Okay capo», io scrissi un elenco di quelle cose semplificandole in poche parole. «Poi recito una piccola formula che mi insegnò mia madre quando ero più piccola. Tu puoi usare qualsiasi tecnica preferisci, che possa farti senti-re al sicuro e concentrata solo sul sogno. Dopo aver fatto questo, chiudo gli occhi e comincio ad immaginare di stare entrando, piano piano, in un sogno. Immagino di vedere un puntino bianco in lontananza, finché questo non compare davvero e allora mi sento perfettamente concentrata e riesco a prendere qualsiasi via senza perdermi mai» «O-kay… credo di aver afferrato» «Bene. Adesso scusa, ma devo andare. Mia so-rella da di matto. Ha cominciato ieri il Richiamo» «Cosa?», io sgranai gli occhi.

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«Sì. Purtroppo era davvero prematura» «Scusami se ti ho fatto perdere tempo con que-sta idiozia…», affermai sentendomi terribilmente in colpa, «… Come sta?» «In questo momento non tanto bene. Più che altro ha la febbre. Si spera che si abbassi» «Spero che si riprenda presto» «Anche io», rispose lei con una voce particolar-mente appesantita.

Passeggiavamo per la piazza del centro di Little Florence, una zona ampia, delimitata da colonne, che erano risalite da rampicanti, alternate a piccoli alberelli completamente spogli, alcuni ricoperti da un leggero filo di neve. «Penso che dobbiamo parlare», confessai im-provvisamente a Colin.Lui sobbalzò appena sentì quella frase. «C-cosa ho fatto?» «Nulla, nulla», ridacchiai io, vedendo che aveva capito male. «Non mi lasciare, ti prego. Ti giuro che non ti tra-dirò più con quello scimmiotto. Il mio sangue sarà solo tuo»Risi come una scema. «Non intendevo che dovevamo parlare di noi due» «Ah, okay», lui tirò un sospiro di sollievo.I suoi occhi azzurri risplendevano alla luce di quel

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lieve sole invernale. Erano così belli. Colin poteva essere stato gracilino da piccolo, ma in quegli ul-timi anni era diventato più alto di me e anche più forte. «Pensavo di parlare di un’altra cosa» «Cosa?» «Voglio entrare nel sogno di mia mamma»Lui si fermò improvvisamente, bloccando anche me. «Tu sei matta! Non ci provare neanche!» «Devo capire qual è il suo problema. Come fac-cio a sapere perché mi ignora quando le chiedo se mi nasconde qualcosa. Non mente nemmeno! Mi ignora semplicemente. Mia madre non era mai stata così fredda!»Lui mi afferrò il polso, «Te lo scordi! Non lascerò che tu faccia una stronzata del genere» «A sì? E cosa vorresti fare? Sentiamo. Vorresti vietarmi di addormentarmi?»Lui mollò con violenza la presa e indietreggiò. Avanzando per la strada e lasciandomi indietro. «Colin… Aspetta».Lo inseguii di corsa fino a raggiungerlo. Stava piangendo. «C-Colin, guardami!»Lui continuò a evitare il mio sguardo e continuò per la sua strada, dirigendosi verso casa sua. «Colin!»Lo fermai nuovamente. Questa volta lo presi per il

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braccio, cercando di trattenerlo il più possibile. «Colin, per favore. Cerca di capirmi. Mia madre non mi dice più nulla» «Quindi vorresti rischiare la tua vita per fare una stronzata simile? Perché non sei in grado di accet-tare i problemi di tua madre?», mi guardò con gli occhi arrossati, «Cresci».Strattonò il suo braccio, liberandosi dalla mia pre-sa e si allontanò, non voltandosi più.“Credimi Colin. Ne ho bisogno. Ti prego, perdona-mi”.

Dopo aver meditato, mi distesi sul mio letto, esat-tamente come mi aveva spiegato Sarah. “Devo pensare ad una frase, o qualcosa di simile”, pensai e ripensai ma non mi venne in mente nulla. Allora cominciai a fissare le stelle sul soffitto. Avevo la mente svuotata, in parte per via della meditazione, in parte per la stanchezza. Chiusi gli occhi. Dove-vo cercare un punto bianco. Dovevo avvicinarmi alla porta dei miei sogni. Lasciai lavorare la mia fantasia. Per più di una trentina di minuti rimasi in quelle condizioni, senza capire se quella cosa fa-cesse effetto o no.

Quando effettivamente notai un puntino bianco che si stava lentamente avvicinando a me. Piano, piano lo raggiunsi e comparve anche una soglia. Era diverso dal mio solito corridoio, forse dipende-

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va dalla tecnica utilizzata. Mi sentivo sveglissima, nonostante probabilmente fossi già in fase REM. Riuscivo a percepire ogni cosa come se fosse sta-ta reale, senza nemmeno essere entrata nel so-gno di qualcuno. Dentro di me ardeva il desiderio di trovare la via per i sogni di mia madre. Mi ero assicurata che stesse dormendo prima di andare in camera mia. Il piano era questo: cercarla all’in-terno del suo sogno, se non l’avessi trovata avrei cercato di risvegliarmi con uno spavento.Varcai quella porta. Ero in una spiaggia. Di nuo-vo quella spiaggia? Cosa stava succedendo? Mia madre era davanti a me, che si guardava intorno. Non sembrava disorientata, sembrava che stesse cercando qualcuno. Improvvisamente si girò verso di me e mi vide. “Accidenti, mi sono fatta vedere”. Purtroppo in quella zona era quasi impossibile tro-vare nascondigli efficaci. La figura di mia madre ini-zialmente non seppe cosa dire, poi pronunciò il mio nome. “Yvonne?”. Nella sua voce c’era una sorta di misto tra stupore e paura. Come mai sembrava stranamente cosciente? Ma soprattutto, come mai non era entrata nel sogno di qualcun altro? C’era per davvero qualcosa che mi stava nascondendo, oppure era nei guai per una qualche ragione?“Mamma”, le mie sensazioni mi fecero avvertire il bisogno pungente di parlarle.Mia madre rimase lì dov’era, non si mosse di un centimetro. I suoi occhi scuri parevano supplicarmi

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di andarmene. Improvvisamente una figura alata scese da quel cielo azzurro, la afferrò e la portò via.“Mamma!”, provai ad inseguire quella cosa, ma non ci fu modo. Era stata troppo veloce e troppo silenziosa. Però ero riuscita a capire la direzione in cui si era diretta. Mi affrettai salendo su per quella collinetta sabbiosa. Avvertivo la sabbia incastrar-si tra le dita dei miei piedi. Oltrepassata quella, c’era quel vasto campo di papaveri, a me tanto famigliare, e non lontano da lì c’era una dimora. Mi affannai per raggiungerla. Due semplici porte, entrambe abbastanza simili, comparvero davanti a me. Colori molto chiari, stessa forma. Una forse sembrava leggermente più trasparente dell’altra. Provai a vedere se si riusciva a sbirciare qualcosa grazie alla trasparenza, ma l’interno era ben na-scosto dalle venature bianco-giallastre della porta. Istintivamente spinsi quell’uscio, gettandomi all’in-terno di quella casa. Al suo interno non c’era mol-to: un tavolo rustico, degli sgabelli. In fondo c’era un’altra stanza aperta ove si intravedeva un gran-de letto, sopra il quale giaceva una figura non ben definita. “Mamma…?”. Provai ad avvicinarmi, ma davanti a me comparve un’altra figura umana: era un giovane uomo, con due ali al posto delle orec-chie. Senza avere il tempo di dire “Ma”, quell’uomo mi caricò di peso sulle sue spalle e spiccò il volo. “Che cosa sta succedendo?”, pensai io impaurita.

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Credevo di essere nel sogno di mia madre, eppu-re sembrava che ogni cosa volesse interagire con me. Ero cosciente, ma mi sembrava di essere in uno dei miei sogni. Mi lasciai trasportare, inerme, da quello sconosciuto. Era come se il suo tocco mi avesse spossata. Raccolsi poco a poco la forza di parlare e di chiedere chi fosse, ma non ottenni risposta. Era sordo per caso?Raggiungemmo una piccola isola. Quest’ultima era piena di persone che festeggiavano e brinda-vano con coppe piene di vino. “E questi chi sono?”, pensai io. “Lemnieni”, rispose il giovane. Non mi aveva senti-ta parlare, ma aveva udito i miei pensieri?“Lemn- che?”.“Il gioioso popolo di Lemno. Il popolo ideale di Lemno”.Mi aveva risposto ancora. Quindi poteva sentire quello che pensavo.“Perché mi stai portando lì?”“Non dovevi avvicinarti così a mio padre”.“A tuo padre? Ma tu chi sei?”Lui atterrò con una delicatezza ineguagliabile, ma non mi lasciò in quel momento. Mi trasportò fino ad una capanna di legno, sopra un promontorio. Poi allentò la presa e mi lasciò cadere a terra, come una pera cotta. Aveva un tocco soporifero, era come se avessi momentaneamente perso la capa-cità di camminare.

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“Qual è la forma che preferisci?”, tramutò il suo aspetto prima in mio padre, poi in mia madre, poi prese le sembianze di Colin.“Ma, ma”, io non sapevo che dire, “Tu… sei Mor-feo”, non lo chiesi, perché ne ero certa.Sul volto di quel Colin apparve un dolce sorriso.“Quale preferisci?”, ripeté lui.“Per favore, lasciami andare”.“Rispondi alla mia domanda”.Io rimasi in silenzio per un attimo. Mi tremavano le corde vocali. Continuavo a provare a parlare, ma non riuscivo a farlo.“C-credo… quella di prima”. Lui mi lesse nel pen-siero probabilmente e riacquisì la sua forma ori-ginaria. “Posso sapere cosa ci faccio qui?”, lui non rispose, ma si avvicinò, chinandosi davanti a me, “Per favore”, cominciai uno dei miei attacchi di pianto. Non riuscivo mai a trattenermi. Me l’ero cercata. Non potevo essere coraggiosa, almeno una volta, e smetterla di piangere? Era come se non riuscissi più a controllare le mie emozioni.“Tu sei qui perché l’hai deciso tu”.Io passai una mano sulla mia faccia bagnata.“Ma io stavo cercando mia madre”.“Tu stavi cercando te stessa. Tua madre non è mai stata qui”.Io strizzai gli occhi trattenendo a stento le lacrime, “No. Non può essere vero. Io l’ho vista!”.Lui sorrise. Non era un sorriso beffardo, o qualco-

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sa di simile. Aveva un ché di superiore all’umano. Possedeva una calma spirituale, che trasmise an-che a me prendendomi la mano. Di colpo le lacrime cessarono. La calma pervase il mio corpo. Sentivo che stavo per lasciarmi andare, ma dentro di me c’era qualcosa. Una forza che mi impediva di farlo, di abbandonarmi a quella pace. In quel momento notai che il suo sguardo era cambiato. Non aveva più un’espressione calorosa, ma profonda.“Allora è così”, sentenziò.Io non seppi rispondere a quella breve frase. Lo fissai negli occhi. Il suo aspetto era indescrivibile e, probabilmente, avrebbe dovuto cambiare di per-sona in persona. Io lo vedevo con un viso legger-mente spigoloso, labbra piccole e carnose, naso dritto, il suo corpo era un gioco di forme armonio-se, i capelli erano neri con riflessi argentei e gli occhi erano blu cobalto, con iridi segnate da raggi argentati. Era vestito con una tunica corta e con dei sandali che avevo già visto in qualche libro di storia.“Cosa?”, chiesi.Lui mi osservò gli occhi con un’intensità penetran-te, “Sei identica a tua madre”.Cos’era quella storia? Adesso come mai se n’era uscito con quella frase? “C-credo di sì”, risposi confusa.“Gli stessi occhi dipinti dal colore delle castagne”.“P-perché sono qui?”.

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“Tu non sei come le altre. Lo hai capito, Yvonne?”.No. Non l’avevo capito. Perché insisteva su quella questione?“Tu sei mia figlia”.Improvvisamente sentii il mio mondo crollarmi ad-dosso. Probabilmente se fossi stata in un mio so-gno non mi sarei spaventata così tanto, ma non ero in un mio sogno. Come potevano quelle quat-tro parole farmi sentire così piccola, così vuota, così estranea anche a me stessa? “No. Non è vero. Tu menti!”.“Hai attraversato la porta dei sogni veritieri. Non potrei mentire”.Ero sempre più confusa, così tanto che a quel pun-to non capii più niente, mi alzai in piedi, grazie ad una strana forza che era cresciuta dentro di me, e corsi fuori dalla capanna. Non potei andare molto lontano che il dio compar-ve nuovamente davanti a me.“È inutile che fuggi da me. Non sono io a tenerti qui. Hai tutte le capacità per svegliarti. Sei mia fi-glia dopotutto”“No!”, io scossi la testa e persi la calma. Corsi all’impazzata, in direzione di una scogliera. Non sapevo cosa stavo facendo, non guardavo neppure dove stavo mettendo i piedi. Quando ne raggiunsi l’orlo, mi fermai appena in tempo per evi-tare di cadere, ma sotto di me il terreno cedette.

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ncora, ancora!» «Piccola, papà deve andare a dor-mire adesso»

«Ti prego papà, voglio sentirla ancora una vol-ta» «E va bene», sospirò mio padre.Mi raccontò la favola dell’uccellino per la seconda volta e io mi addormentai, senza nemmeno arriva-re alla fine. La sua voce mi rilassava. Quando c’e-ra lui con me mi sentivo come se un’aura di calore mi avvolgesse integralmente. I mostri del buio non potevano farmi del male e non avevo nemmeno il bisogno di nascondermi sotto le coperte per pro-teggermi, perché sapevo che lui li avrebbe sconfitti tutti.

«Yvonne, tesoro, per favore smettila di giocare con i tuoi funghetti. Non si gioca con il cibo»Mia madre mi rimproverò, ma io continuai a gio-cherellare con la forchetta, fino a quando lanciai un fungo sulla tovaglia bianca. Lei divenne furibon-da, siccome aveva lavato da poco quella tovaglia. Mi si avvicinò e mi diede due forti colpi sulle mani. Io mi misi a piangere. «Mamma», urlai singhiozzando e facendo cade-re i miei lacrimoni sulla tavola.

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«Vai in camera tua».Mio padre reagì con un, “Non hai un po’ esagera-to?”, anche se nemmeno lui sembrava tanto con-vinto di quella domanda.Io mi rintanai in camera mia, mettendomi seduta in un angolino per terra e piangendo disperata. Non piangevo tanto per via degli schiaffi alle mani, ma per via dello spavento di vedere mia madre così contrariata. Aspettai lì per una quarantina di minu-ti, quando mia madre, che stava pulendo casa, en-trò nella mia stanza. «Cosa ci fai lì? Sciocchina»Mi raccolse dal pavimento e mi fece mettere sedu-ta sul mio letto. «Hai capito che non lo devi fare più?»Io annuii, ormai non uscivano nemmeno più la-crime per quanto avevo pianto. Mia madre mi ab-bracciò calorosamente. «Lo sai che ti voglio bene, vero?»Io annuii. Ero consapevole di aver fatto una cosa che non dovevo fare. Avevo cinque anni, ma non ero stupida. Sapevo che mia madre mi voleva bene. «M-mam-ma», singhiozzai, stringendola forte.

«Piano… Piano… Bravissima!».Mio padre mi stava assistendo mentre scivolavo per la prima volta in vita mia su quella pista ghiac-ciata. Era stato un giocatore di hockey, perciò era

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particolarmente affezionato a quella pista. Andavo a tentoni per non scivolare. Calcolavo un passo dopo l’altro per paura di sbagliare e farmi male. Quando raggiunsi le braccia di mio padre urlai “Ev-viva!”. Grazie al suo training imparai ad andare sul ghiac-cio e anche a smettere di avere paura di cadere. «Yvonne, vieni qui», mi disse mia madre con un sorriso a trentadue denti.Io accettai la sfida e mi gettai sul ghiaccio per rag-giungere la mamma, quando caddi rovinosamente su quella superfice scivolosa. Non mi feci male, però. Il mio giubbottino era abbastanza morbido da farmi da cuscinetto. «Ti sei fatta male?», mi chiese mia madre che stava tendendo le braccia verso di me. «No, no», risposi convinta, tentando di rialzarmi in piedi e non riuscendoci. «Aspetta Stellina. Ti tira su papà», mi avvisò mio padre che si stava avvicinando. «No, papà. Ce la faccio da sola».Nel frattempo un po’ di persone, che stavano tran-quillamente pattinando in circolo, si erano voltate a vedere se avevamo bisogno di aiuto.Mio padre si stava avvicinando a me, vedendo che non riuscivo ad alzarmi, ma proprio quando riuscii a mettere dritti i piedi sul ghiaccio e lui fu costretto a bloccarsi di colpo, scivolò. Quando mi girai e lo vidi seduto a terra gli dissi,

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«Aspetta papà. Ti aiuto io».

«Allora, piccolo dolcetto della nonna, che cosa facciamo oggi?» «I pancake!», urlai di gioia io. «E come li facciamo i pancake?» «Con la marmellata alle more», risposi io con aria da saputella. «Me la stai traviando», scherzò mia madre riden-do. «Figuriamoci, se non viziassi un po’ la mia nipo-tina che nonna sarei?» «Hai visto che bella signorina che è diventata?», chiese mio padre a mia madre. «Già. Sembra un piccolo angioletto. Se solo mia madre la viziasse di meno» «Guarda che ti sento», urlò la nonna dalla cucina.Nel frattempo io canticchiavo, “Pancake, pancake, pancake!”, senza sosta. «Questa bimba va matta per i miei pancake», affermò mia nonna, mentre preparava la ciotola e gli ingredienti sul bancone, «Pancake all’italiana. Sembra quasi una barzelletta»Mia madre rise, «D’accordo. Devo proprio andare a lavoro adesso. Mamma, sei sicura di poterla te-nere tu oggi? Almeno fino alle diciotto, poi dovrei essere a casa»La nonna annuì, «Non ti preoccupare. So bene come intrattenere la mia piccola. Non è vero Yvon-

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ne? Che cosa facciamo dopo?» «Andiamo a giocare al parco», dissi io emozio-nata. «Andate a giocare al parco?», ripeté mia madre con aria giocosa, «Furbette».Mi fece il solletico e io ridacchiai. «Anche io devo andare in ufficio. Ho un progetto da finire», affermò mio padre, scocciato solo all’i-dea. «Andrà tutto bene», rispose mia nonna, mentre io canticchiavo, “Ufficio, ufficio, ufficio”.Mia madre mi prese in braccio e mi sussurrò di fare la brava. Io cominciai a giocherellare con il suo ciondolo a forma di fiore e le promisi di fare la brava. Lei mi fece nuovamente il solletico. «Sicura, sicura?» «S-sicura», dissi io mentre mi sentivo mancare il respiro dalle risate.

«E Colin quando arriva?» «Non so quando arriverà piccolina. Non so nem-meno se oggi verrà a giocare con noi», disse mia nonna un po’ dispiaciuta.Quasi ogni sabato Colin veniva a giocare al parco, accompagnato da sua mamma, o dalla sua nonna materna, quando sua mamma era in ospedale.Io dissi, «No», prolungando la parola, dispiaciuta anche io. «Eccoli. Guarda chi sta arrivando»

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«Colin!», corsi incontro al mio amichetto.Lui sorrise, ma non mi si avvicinò, anzi indietreggiò un poco. «Colin, vieni a giocare?», gli chiesi, tendendogli la mano.Lui non rispose, ma lentamente mi prese la mano e si lasciò trascinare da me sullo scivolo del par-chetto. Io scivolai giù in un batter d’occhio, rag-giunta da lui, molto più indeciso. «Dai Colin! Guarda che stanno arrivando i pirati! Corri!».Colin scese subito dallo scivolo e mi seguì. Io corsi dietro ad un albero, «Ci hanno visti?»Colin diede un’occhiata dietro di sé e rispose, «N-no» «Meno male», sospirai io, «Hanno colpito la ban-diera! Forza, dobbiamo ripararla».Il nostro gioco continuò per circa due ore. Io ero così rapita, che riuscii a coinvolgere con facilità an-che Colin. Quando giocava con me riusciva a par-lare, stranamente. Probabilmente aveva bisogno di un po’ di aiuto per diventare più socievole. «Oh no! I pirati mi hanno colpita! Aiutami», dissi io, recitando la mia parte. «Aspetta. Vado a prendere la scatola del pronto soccorso», affermò lui, fingendo di rovistare all’in-terno di un albero. «Eccomi!», finse di bendarmi una ferita alla pan-cia.

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«Oh, mio eroe», affermai, lasciandogli un bacio sulla guancia.Quel gesto d’affetto lo scioccò, probabilmente, perché si bloccò. «Vieni con me! Dobbiamo allontanare i pirati, o distruggeranno la città».Da piccola ero in fissa con i pirati. Mi affascina-va molto l’idea dei combattimenti navali e di dover proteggere la città da un loro attacco. «Allora, vieni o no?», insistetti io. «A-arrivo».

Ero nel mio letto e attendevo l’arrivo di mio padre. Doveva raccontarmi quella favola, se no non sarei riuscita a dormire. Quando mi accorsi che non sta-va arrivando nessuno, scesi dal letto e mi diressi in camera dei miei. Stavano già dormendo. Mi infilai in mezzo a loro e nello spostare le coperte svegliai mio padre. «Non dormi?», mi chiese con aria assonnata. «Non mi hai raccontato la favola».Lui sorrise e mi concesse di restare lì con loro. «N-o. V-ai vi-a», mia madre stava parlando nel sonno. «Perché la mamma parla?», chiesi a papà. Non avevo ancora sentito qualcuno parlare nel sonno. «Non è nulla. Parla nel sonno ogni tanto» «Parla nel sonno?» «N-on è ve-ro».

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Improvvisamente mia madre sobbalzò, con il fiato-ne. Io non capii nulla di quello che stava succeden-do. Mio padre ne capiva ancora di meno probabil-mente, perché le chiese se stava bene. «S-sì. Cosa ci fai qui?», chiese a me, ancora un po’ in ansia. «Papà non mi ha raccontato la favola della buo-na notte», brontolai io.Lei guardò mio padre un po’ contrariata, «Lo sai che devi raccontargliela. Se sta qui rischia solo di spaventarsi di più».Io feci un po’ i capricci, perché volevo restare a dormire con loro, ma alla fine mia madre riuscì a convincermi a tornare a letto, promettendomi che il giorno dopo mi avrebbe comprato un gelato. Io amavo il gelato.

«Buongiorno Rebecca. Buongiorno Yvonne», ci salutò amichevolmente l’anziana signora che di-rigeva il locale Mary Jane, «Come stiamo? Tutto bene?».Noi rispondemmo “Sì, tutto bene” in coro. «Che cosa volete che vi porto? Volete sempre il gelato?»Mia madre rispose, «Sì, grazie» «Un gelato alla fragola!», dissi io. Il gelato alla fragola era il mio preferito, anche se in genere va-riavo molto i gusti, perché ero golosa.La signora annuì con un sorriso e si allontanò die-

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tro il bancone. Io ero così piccola da non riuscire a vedere cosa ci fosse là dietro. «Mamma, che cosa c’è dietro al bancone?»Mia madre guardò in quella direzione e mi sussurrò coprendosi la bocca con la mano, «C’è una mac-china magica che la signora Mary utilizza per fare i gelati. Non dirle che te l’ho detto, mi raccomando»Io annuii, ancora più incuriosita da quella frase. La mia mente stava già viaggiando con la fantasia. Mi immaginavo la signora Mary Jane vestita da stre-ga, che mescolava in una specie di macchina-cal-derone i gelati di ogni gusto.Quando la donna ci raggiunse con il mio gelato io le chiesi, «Mi scusi, posso vedere la macchina magica dei gelati?»Mia madre posò una mano sulla fronte. La signora fu così gentile da mostrarmi da dove venivano i gelati. Quando vidi che i gelati stavano in un espo-sitore, rimasi delusa.

«Bang».Mi trovavo a casa di Colin. Quella volta stavamo giocando ai cow boy, dopo aver visto Lucky Luke in televisione. «Bang, bang. Fsh, fsh»Ci stavamo divertendo come dei matti. Eravamo così concentrati sul nostro gioco che non ci erava-mo resi conto che il padre di Colin stava lavorando al computer.

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«Ragazzi. Potreste fare meno rumore, per favo-re?».Incuriositi, noi ci avvicinammo alla sua scrivania e cominciammo a sbirciare e a fare domande. «Che cos’è? Che cosa fai? Uh, si vede un film», ripetevamo in coro. «Sto facendo il montaggio video di un mediome-traggio. Come un film, solo più breve», spiegò lui in termini semplici.Quella spiegazione però non bloccò la nostra cu-riosità, perciò l’uomo ci prese in braccio, metten-doci uno su una gamba e l’altra sull’altra. Era un uomo abbastanza robusto e non faceva molta fati-ca a tenerci in braccio. «Si fa così, guardate».Ci mostrò per la prima volta come si utilizzava Final Cut, uno dei più utilizzati programmi di montaggio, ma, siccome ci capivamo ben poco, ci fece prova-re con un programmino di montaggio più semplice. Da quel giorno entrammo in fissa per quella cosa. Colin cominciò a rubare la videocamera più picco-la del padre per registrare. Io, ovviamente, stavo al suo gioco. Adoravo recitare nei suoi filmini. Fa-cevamo spettacoli con i pupazzi, oppure giochi di ruolo. A volte potevamo arrivare fino a tarda sera recitando piccole storielle che ci inventavamo sul momento.

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u ti sveglierai”. Quel pensiero rimbalzava nella mia mente.

Fu così. Aprii gli occhi. «Sono viva e continuerò a vivere», pronunziai con un filo di voce parole che non erano mie.Dentro di me sentivo un’oscura forza. Mi sentivo come se fossi invecchiata di cent’anni, ma solo nella mia mente. Ci misi un po’ per riprendermi. Rimasi distesa per un’ora a fissare il soffitto. Ero completamente rapita dalla miriade di pensieri che affollavano la mia testa. Il mio respiro era così len-to, che mi sembrava di poterlo fermare da un mo-mento all’altro. Fermarlo e porre fine a tutto.Quando finalmente ritornai in me, sollevai le mie membra intorpidite. Ero viva. Per miracolo divino ero ancora viva. Non ero in coma, non ero mor-ta. Le mie braccia si muovevano, le mie gambe anche, le mie palpebre sbattevano rapidamente, il mio naso percepiva così forti gli odori di quella

“T

21.Ho dimenticato ogni cosa. Quello che mi piaceva,i miei affetti, quello che mi legava a questo mondo.

È come se tutto mi fosse nascosto da una grande eclisse.Prego che questo sogno infinito mi risparmi,

che mi lasci vivere una vita normale, eppure percepisco che la colpa non è solo degli dei.

Che tremenda confusione.

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casa. Era tutto così famigliare. Così vero.Mi alzai in piedi. Potevo muovermi. La mia bocca poteva muoversi. Potevo parlare. Piano, piano ab-bandonai la mia stanza e raggiunsi il salotto. Mia madre era lì. Stava lavorando. «M-mam-ma», la chiamai con voce flebile e tre-molante.Lei si girò verso di me, «Come mai sei così palli-da?», nei suoi occhi sgorgò una sottile preoccu-pazione. «Per favore… non uccidermi» «Cosa stai dicendo? Cosa hai fatto?» «Sono entrata in un tuo sogno»L’espressione di sorpresa sul volto di mia madre fu ineguagliabile. «Cosa?!», urlò lei, «Stai scherzando vero?», sul suo volto apparve un sorriso nervoso. Stava scuo-tendo la testa, come per negare a sé stessa quello che aveva appena sentito, «Non può essere vero. Sei una bugiarda!».Mia madre stava sbroccando. «È vero! Guardami! Guarda la mia faccia»Mia madre si alzò in piedi, «Smettila di mentire!», si avvicinò a me e mi tirò un ceffone. «C-cosa?», dai miei occhi scivolarono calde la-crime amare.Lei, dopo aver fatto ciò, rimase a fissarmi. Il suo viso si stava piano, piano rilassando. La rabbia svanì lentamente, sostituendosi con uno sguardo

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spento. Dopodiché mia madre tornò a sedersi al tavolo del salotto. Immobile. Forse neanche lei, come me, stava riuscendo a dare una ragione al suo gesto. «I-io non sono una bugiarda», risposi, «La bu-giarda sei tu. Tu non mi hai detto che sono figlia di Morfeo!», cominciai ad urlare. Quello schiaffone aveva fatto uscire tutto l’odio che avevo provato in quelle ultime settimane, che, come un vaso di Pandora aperto, si stava impossessando di me. «Ti rendi conto di quello che dici? Tu, fin dall’i-nizio, fin da quando hai sentito che ero uguale a te, da quando hai sentito che ero sopravvissuta al sogno della nonna. Tu sei sempre stata lontana! Non dirmi che hai provato ad essermi vicina, per-ché non è così! Tu non mi hai mai aiutata per dav-vero! E vorresti dirmi che io sono la bugiarda? Che io ti sto mentendo? Che madre sei stata in queste settimane? Con me sei sempre stata fredda come il ghiaccio! Proprio nel momento in cui avevo più bisogno di te!», chiusi gli occhi, non riuscendo più a tenerli aperti a causa delle lacrime, «In queste ultime settimane, tu sei stata la peggiore madre che possa essere mai esistita!».Terminati i miei urli isterici, fuggii in camera mia. Preparai la mia borsa. Sapevo cosa fare. Era ve-nuto il momento. Non mi sarei tirata indietro. C’e-ra solo una persona che credevo avrebbe potu-to tirarmi su. Feci per attraversare nuovamente il

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salotto, aspettandomi di essere ignorata ancora, esattamente come il giorno in cui tutto è iniziato, quando mia madre si piazzò tra me e la porta. «Andiamoci insieme».Aveva già indossato la giacca. Io rimasi allibita. Non sapevo cosa dire. Non sapevo se protestare, o ignorarla.

Raggiungemmo l’ospedale. Era una giornata par-ticolarmente fredda. L’umidità mi aveva congelato le vene. Quel freddo così penetrante, però, mi fece sentire ancora più viva.Mia nonna era sempre lì. Distesa pacificamente nel suo lettino. La macchina che la teneva in vita faceva i suoi “bip, bip, bip”. Quel rumore era così fastidioso. Non avrebbe rovinato il suo sogno?Io e mia madre prendemmo posto in quella picco-la stanza. Io presi una delle sedie e la trasportai dall’altro lato del lettino. Volevo stare il più lonta-no possibile da quella donna che si definiva mia madre. La guardai negli occhi. Lei fece lo stesso. Sembrava volermi dire qualcosa, ma, ogni volta che abbassavo lo sguardo, si bloccava. «Yvonne», cominciò a parlare a voce bassa. Il mio nome mi suonò quasi come una supplica in quel momento, «Lo sai che ti voglio bene… Vero?».A quelle parole alzai lo sguardo. Mia madre stava singhiozzandole a fatica. «Lo so. Hai ragione. Non avrei dovuto nascon-

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derti tutto questo. Avevi il diritto di saperlo. Avevi il diritto di sapere tutto, ma mi sembravi ancora così piccola. Non sapevo se mi avresti creduta, non sa-pevo se avresti voluto ascoltarmi. Non volevo ro-vinarti la vita, anche se, alla fine, a quanto pare, è successo lo stesso. Sono stata una pessima ma-dre. Avrei dovuto starti più vicina in questi momen-ti bui. Avrei dovuto aiutarti a superare i dolori del Richiamo. Avrei dovuto», si bloccò scoppiando a piangere. «Questa è la stagione delle lacrime», affermai io gelida. In quel momento, dentro di me c’era solo odio. Non riuscivo più a controllarmi. Avevo forse perso me stessa? Neanche la visione di mia non-na riusciva a calmarmi.Mia madre si asciugò le lacrime con un fazzoletto, appena tirato fuori dalla borsa. «Voglio solo che tu sappia che ti voglio bene. Non ho mai smesso di volerti bene. Quando ho capito che eri sua figlia, ho perso me stessa. Am-metto che, prima che tu mi urlassi contro in quel modo, avevo cominciato a percepirti quasi come un’estranea. Sono stata una stupida. Un’insensi-bile. Tu sei sempre stata e continuerai ad essere la mia meravigliosa figlia, chiunque sia il tuo vero padre».A quelle parole mi venne un groppo in gola. In quel momento non sapevo se odiare ancora di più mia madre, o se perdonarla.

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«Come è successo?», le chiesi, riferendomi al mio concepimento.Lei inizialmente parve non capire, ma poi cominciò a spiegare, con un filo di voce, che era diventata roca. «È successo una notte di tanti anni fa», sembra-va molto riluttante all’idea di raccontarmelo, «Ero giovane. Avevo conosciuto da poco tuo padre. Lo sognai. Ero rimasta incatenata nel mio sogno. Ep-pure riuscii a svegliarmi. Quando rimasi incinta, pensai che il bambino fosse di tuo padre. Lui fu ben felice della cosa. Fu per questo che ci spo-sammo», le lacrime continuavano a rigarle il tondo volto. Si fermò. «Quindi, stai dicendo che sono stata concepita… in un sogno?», avevo acquisito un’espressione ci-nica.Lei non riuscì a rispondere a quella domanda. «Bene. Fantastico. Mamma», sottolineai l’ultima parola con un tono un sarcastico.Lei mi guardò con aria supplichevole. A me faceva una gran pena, ma non riuscivo a non disprezzar-la in quel momento. L’odio aveva corrotto la mia mente. «Sai, ho incontrato il tuo amichetto nel tuo so-gno», la mia voce era tagliente, «Mi ha detto che ho un potere particolare: che ho la capacità di resi-stere alla maledizione, che sono immune. Ho pen-sato, siccome di recente mi è capitato più di una

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volta di non sognare nulla, che forse ha ragione. Io posso cancellare la maledizione. Posso farlo con la mia mente».Mia madre mi stava fissando come un cagnolino impaurito. «Tu, madre, dovresti essere fiera di questa cosa. Io posso spazzare via questa tortura. Solo io pos-so e tu volevi nascondermi queste mie capacità», acquisii una tonalità superba nella mia voce. In quel momento mi sentii superiore ad ogni cosa e ad ogni essere umano.Senza nemmeno rendermene conto, mi ero al-zata in piedi e la stavo fulminando dall’alto con lo sguardo. Non avevo mai utilizzato in vita mia quel linguaggio altezzoso, eppure in quel momento lo percepivo come mio. «Yvonne».All’interno della stanza erano appena entrati Colin e sua madre. Colin doveva aver sentito le parole che avevo rivolto a mia madre, perché nei suoi oc-chi rividi quella paura che avevo già visto nel volto di lei. Sua madre era rimasta scioccata. «Scusate. Devo solo controllare che i valori siano a posto» «Cosa ci fai qui?», chiesi a Colin, sempre con quell’aria superba. «Io sono venuto qui per portare a mia madre una cosa», affermò, con la paura impressa negli occhi. Sembrava avesse visto un fantasma.

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Io lanciai un altro sguardo a mia madre. Presi la mia tracolla, la caricai sulla spalla e mi diressi all’u-scita. Nel passare accanto a Colin lui si scostò, evitandomi come un’appestata. La cosa più triste era che non me ne fregava niente in quel momen-to. Non me ne fregava più niente di nessuno.

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entivo un grande potere che dentro di me cresceva sempre più. Mi sentivo come se fossi stata onnipotente. Ero completamente

fuori di me. Ero fuori di me dalla rabbia. Dentro di me riuscivo a percepire solo un gran vuoto. Era come se chiunque avesse sempre cercato di re-mare contro ai miei desideri. Non c’erano pensieri, tra i più falsi, che io non avessi in quel momento. Ogni cosa nella mia mente era distorta. Che fosse stato a causa del mio sogno, o a causa di quel cef-fone, o a causa di tante altre cose messe tutte as-sieme, non lo sapevo. Volevo solo sentirmi in quel modo. In quel momento mi sentivo libera. Libera dalla paura. Non desideravo più nulla. Non sapevo come colmare quel vuoto crescente dentro di me.L’unica cosa che sapevo era che mi stavo allon-tanando dall’ospedale. I miei occhi erano spenti, come se dentro di me fossi già morta. Ero figlia di un dio. Figlia di un dio del sonno. Era così, quindi. Mi serviva la consapevolezza di es-serlo per poter fare quello che volevo. Adesso non avrei avuto più problemi e avrei, probabilmente, potuto modellare i miei sogni a mio piacimento. Eppure io non desideravo farlo. Io non desidera-vo più niente. Ogni mia certezza era svanita. Ogni mio desiderio di vivere stava svanendo sempre di

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più. Non riuscivo più a ricordare chi mi amava, o chi mi aveva amata. Nella mia testa non c’era più nulla. Il mio cellulare vibrò nella tasca dei miei pantalo-ni. Io lo ignorai. Continuai lungo il mio cammino. Andavo avanti, senza meta. Quando, inconsape-volmente, raggiunsi la vecchia casa di mia non-na. Avevo le chiavi, le tenevo nella tasca del mio giubbotto giusto per ricordo. Che casualità. Mi av-vicinai alla porta e l’aprii. Quel posto era sempre stato così pieno di ricordi. Perché non riuscivo più a vederli? Non riuscivo più a ricordare nulla e non volevo farlo.Entrai nel salotto e la prima cosa che mi apparve davanti era la foto gigante appesa al muro di mia nonna, mia madre, mio padre e io, tutti insieme. “Che famiglia felice”, pensai, più sarcasticamente che nostalgicamente.Ogni volta che la mia tristezza cercava di prende-re il sopravvento sulla rabbia, ecco che la secon-da cancellava nuovamente la prima. Avrei vissuto così? Avrei vissuto nella rabbia?Il mio cellulare vibrò nuovamente. Dovevo vera-mente controllare? Magari era qualcosa di impor-tante. “No. No. Nulla è importante per me in questo momento”. Il semplice fatto di sentire quei pensie-ri, mi fece rabbrividire. Come potevo essere diven-tata così fredda?Continuai a guardare quella foto. Forse il fatto di

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guardarla più intensamente mi avrebbe aiutata a ritrovare me stessa: Mia nonna era al centro, i suo capelli erano raccolti in uno chignon ed era vestita con una maglia azzurra e una gonna con motivi floreali, aveva le mani appoggiate sulle mie spalle; io avevo più o meno sei anni, ero vestita con un abitino blu e avevo i capelli legati in due treccine con dei fiocchetti del medesimo colore; mia madre stava alla mia sinistra e mi teneva la mano, vestita con i suoi soliti jeans scuri e una camicetta bianca molto graziosa; mio padre era a destra e mi teneva anche lui la mano, lui indossava dei jeans, anche se più chiari, e un maglione con sotto una camicia generica. I loro occhi, tra quelli castani di mia ma-dre e quelli azzurri di mio padre, risplendevano di felicità. Io stavo ridendo nella foto, infatti si vede-vano bene i miei dentini. «Perché?», appoggiai una mano su quella foto-grafia, «Perché non riesco a ricordare? Perché mi sento così vuota?».Sarei guarita da quella situazione? Potevo ancora guarire?Il mio cellulare vibrò nuovamente. Qualcuno suonò il citofono. Senza pensarci due volte e senza farmi domande, aprii. «Ciao», Colin era davanti a me. Aveva uno sguar-do impaurito. «Cosa vuoi?», gli chiesi io senza esprimere alcu-na emozione in particolare.

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«Rivoglio indietro la mia Yvonne», affermò spin-tonandomi ed entrando in casa.Io chiusi la porta, senza farci troppo caso. Lui si era piazzato in mezzo alla stanza. «Ridammi la mia Yvonne!», si mise ad urlare come un pazzo.Io rimasi in silenzio, senza mutare espressione. Lui mi si avvicinò bruscamente, fermandosi a po-chi centimetri dalla mia faccia. Mi prese da dietro la schiena, avvicinandomi a sé. «Lasciami in pace», dissi io, non riuscendo più, però, a controllare appieno la mia voce. Un velo di nervosismo mi assalì.Lui mi strinse ancora di più a sé. Stavo comincian-do a sentirmi soffocare. «P-per favore», le mie palpebre vacillavano, fati-cavo a parlare, «Lasci-ami».Lui allentò un poco la presa, ma non mi lasciò. «No. Non ti lascerò mai più. Non ti libererai di me così facilmente, lo sai? Pensi veramente di avere il potere di allontanarmi da te semplicemente di-cendomi di andarmene? Credi davvero che il mio amore sia così debole da cedere sotto questo tuo comportamento? Ridammi la mia Yvonne: quella dolce, quella espansiva, quella che mi ha insegna-to ad essere più socievole, quella che ha rubato il mio cuore con un singolo bacio. Ridammi la mia Yvonne e, forse, ti lascerò in pace».Quelle parole fecero scattare una scintilla dentro

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di me. Allentai un po’ la forza che stavo mettendo nelle braccia per allontanarlo da me. Ci guardam-mo negli occhi. Eravamo così vicini che sentivo già le sue labbra sulle mie. Sentii il mio cuore battere particolarmente forte, come se si fosse risvegliato proprio in quel momento. Lui però non mi baciò. Restammo immobili così, fino a ché lui non mi la-sciò andare. «Grazie», mi disse lui. Poi si diresse verso la porta d’ingresso.Inizialmente mi sentii come pietrificata. Era possi-bile che Colin fosse riuscito un’altra volta a farmi sentire meglio? A farmi provare qualche emozio-ne? Non volevo che e ne andasse.Con uno scatto lo raggiunsi poco prima che riu-scisse ad aprire la porta. Lo presi per il braccio e lo baciai. Lo baciai con passione, come se do-vesse essere l’ultima volta che l’avessi visto. Quel bacio si prolungò ed andammo oltre. Fu la prima volta che percepii un calore così intenso. Non vo-levo smettere, non volevo più che si allontanasse. Infine ci addormentammo, abbracciati. Finalmen-te riuscivo a sentire qualcosa, riuscivo a sentire il contatto tra la mia pelle e la sua. Sentivo che ero ancora viva e che avrei avuto delle ragioni per con-tinuare a vivere. Il mio sonno, quel freddo pomeriggio invernale, fu candido come il latte.

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Mi alzai dal letto, mentre Colin stava ancora dor-mendo e mi vestii. Quando raccolsi i miei pantalo-ni, qualcosa cadde a terra. Era il mio cellulare, che si era aperto a causa della caduta. Io lo raccolsi e lo rimontai. Quando lo schermo si accese compar-vero tre notifiche di Messenger. Aprii l’applicazio-ne. Erano dei messaggi di Sarah.

Sarah: “Ciao. Sono in ospedale in questo momen-to. Mia sorella non sta bene”Sarah: immagine in allegato: una fotografia della sala d’attesa di un ospedale a me sconosciuto.Sarah: “Mia sorella è in coma”.

Il mio cuore sussultò.

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oteva essere successo per davvero? Bridget era in coma e io nel frattempo avevo igno-rato il cellulare, ignorato la mia amica nel

momento in cui aveva più bisogno di sostegno. Ero diventata come mia madre: fredda e menefre-ghista? La forte rabbia, che avevo provato fino a poche ore prima, si stava trasformando in un sen-so di angoscia. Morfeo stava facendo tutte quel-le cose orribili. Io ero figlia di un dio che, per un suo capriccio, aveva causato tutto quel dolore. Mi immaginai Sarah piangente sul corpicino perenne-mente addormentato di sua sorella. Dentro di me era tornata la compassione, l’emotività che mi era venuta a mancare. Quella giornata era stata vera-mente un uragano di emozioni, forti e annebbianti. Non riuscii a piangere però. Non avevo nemmeno più voglia di chiamare Sarah, siccome il suo do-lore avrebbe coinvolto anche me e io non potevo permettermi di essere coinvolta nuovamente da un’emozione così trasportante. Sentivo che dove-vo prenderne le distanze. Dovevo risolvere tutto, ne avevo la possibilità e per farlo avevo bisogno di rimanere lucida. «Dove vai?», mi chiese Colin, che si era appena svegliato. «Vado da mia nonna».

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Lui cercò di trattenermi ancora un po’, ma non ci fu modo di farmi cambiare idea.

«Ciao, nonna».Fortunatamente era ancora possibile far visita al paziente a quell’ora, almeno per i parenti stretti. Continuavo a lanciare sguardi all’orologio per con-trollare l’orario. Avrei fatto in tempo? Dovevo pro-vare. Mi posizionai comodamente sulla morbida sedia d’ospedale. Dovevo inquadrare bene la figu-ra di mia nonna. Dovevo riuscirci perché, con tutta la rabbia che avevo dovuto affrontare quel giorno, mi era diventato difficile pensare a qualcuno con precisione. Mia nonna era il bersaglio più semplice per entrare in un sogno infestato da Morfeo e po-tenzialmente pericoloso. Mi lasciai trasportare dal suo ricordo: una nonna allegra e giocosa. Chiusi gli occhi lentamente. Mi bastarono pochi minuti per addormentarmi. Incredibile, non credevo che ba-stasse così poco per migliorare la mia sensibilità onirica.

La mia immaginazione mi portò davanti ad una fine-stra. Dietro a questa finestra c’era un cielo azzurro come non ne avevo mai visti prima. Delle piccole nuvolette bianche scivolavano in quello spazio uni-forme. Scavalcai quella finestra con gran facilità. La mia sicurezza era aumentata a vista d’occhio. Non avevo più paura di entrare nei sogni, nemme-

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no in quelli più pericolosi. Dovevo essere entrata nel sogno di mia nonna, se i miei calcoli erano esatti. Dovevo capire in quale modo avrei potuto salvarla, in quale modo avrei potuto sfruttare le mie capacità da semidea.Avanzai su una strada sterrata, passando in mez-zo a un corridoio di muretti di pietra. Il fondo non era visibile, ma sapevo che la mia volontà di rag-giungere mia nonna mi avrebbe aiutata. Il corridoio sbucò in una piccola piazzetta, circon-data da casette rustiche di pietra. Il mio istinto mi disse di andare avanti e io lo seguii. Raggiunsi un pineto e poi una radura. Lì trovai mia nonna, sedu-ta su un tronco caduto e intenta a leggere un libro. Aveva la forma di un’adolescente, ma sentivo den-tro di me che era lei.Un giovane uomo le si avvicinò e i due comincia-rono a chiacchierare. Dovevano conoscersi da pa-recchio tempo. Ad un tratto quel giovane distolse l’attenzione da lei, che nel frattempo continuava a parlare al vuoto, e si avvicinò a me.“Morfeo”, lo riconobbi.“Quale coraggio hai avuto per entrare nel sogno di tua nonna. Vedo che hai capito”, lui riprese la sua forma originale.“Sì. Ho capito adesso”, io congiunsi le mani.“Puoi chiamarmi padre”, affermò.“D-d’accordo”, sapevo che dovevo stare al suo gioco e non farlo arrabbiare se volevo avere più

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possibilità di ottenere quello che volevo.“So che cosa ti ha portata qui”, la sua voce rilas-sante, nonostante io avessi acquisito molta più si-curezza di prima, continuava ad angosciarmi, “Vuoi che sciolga la maledizione… e che salvi i tuoi cari”.I miei occhi si illuminarono. Era proprio quello il mio desiderio, il mio unico vero desiderio.“Credi veramente di essere la prima fanciulla a chiedermelo?”, sul suo viso era comparso un sor-riso, “Ho avuto tanti figli e figlie nel corso della sto-ria. Perché credi che dovrei soddisfare proprio il tuo desiderio? L’unico mio scopo è quello di dare la pace del sonno agli esseri umani, è vero, ma come pensi che io possa cancellare una maledi-zione ormai così grande, che adesso vive a sua volta in milioni di persone? Sono considerato un dio benevolo da molti, ma sono pur sempre un dio”.“Proprio per questa ragione, padre: siete un dio. Perché non volete aiutarmi?”Morfeo mi concesse di prendergli la mano. Io al-lungai la mia e mi feci trasportare all’interno di quel sogno. Ogni tanto mi sfuggivano pensieri come: “Per favore, fa che funzioni”; pensieri che probabil-mente non erano nascosti al dio.Raggiungemmo in volo un paesino, fino a raggiun-gere una casa di legno, probabilmente quella era l’immagine di un paesino greco nel periodo avanti Cristo. Riuscivo a percepirlo come se Morfeo me lo stesse sussurrando alle orecchie.

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“Questi sono i miei ricordi”, affermò lui tenendomi delicatamente la mano.Facevo grandi sforzi per non addormentarmi. Quel-la presa era troppo soporifera.“La casa che vedi davanti a noi era la casa di una fanciulla. Questa fanciulla era come te. Aveva la stessa maledizione ed era mia figlia”.Una ragazzina uscì dalla casa e corse sotto ad un albero, seguita dagli urli della madre che stava tra-sportando un grosso vaso di terracotta contenente dell’acqua. Era una bellissima donna: occhi ver-di sfavillanti, capelli neri e mossi. La fanciulla, poi, era così bella che sembrava una ninfa.“Non l’avete mai aiutata”, pensai io, non rendendo-mi conto nuovamente che poteva sentirmi.“Era una parente stretta di Oneira, la nipote della nipote”.Quindi Oneira aveva avuto dei figli, in quel mo-mento lo constatai.“Ammetto che mi fece pena e decisi di aiutarla e liberarla dalla maledizione, quando ancora mi era possibile, purtroppo lei morì prima del tempo, sci-volò e batté la testa”.“Che fortuna”, pensai io sarcastica.“Così fu anche per molte altre fanciulle, che prete-sero da me la risoluzione dei loro problemi”.“Quindi, se annullassi la maledizione, io e molte altre tue figlie potremmo morire?”.“L’intervento di un dio è qualcosa di naturale, che

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esso sia un capriccio, oppure no. Tentare di mo-dificare questa naturalità delle cose potrebbe por-tarti solo svantaggi e modificare qualcosa che non dovrebbe essere modificato, ossia il moto naturale delle cose”.Nutrivo un profondo disprezzo per quell’entità. A causa di un suo capriccio, praticamente, aveva ro-vinato la vita di milioni di donne. La cosa più brutta poi era che non si sentiva in colpa, non aveva il minimo rimorso di coscienza, anzi, affermava che tutto ciò era normale ed era la naturalità delle cose.“So che mi disprezzi. Non posso farci nulla. Fai parte di una specie che non potrà mai compren-dere la complessità del mondo divino, perché non potrà mai accedervi. Ammetto che mi duole di non poterti aiutare, perciò vorrei sottoporti a tre prove. Bada però: se le passerai, cancellerò la tua male-dizione, se fallirai, ti porterò con me e non potrai più rivedere i tuoi cari. Questa è la tua unica possi-bilità di ottenere qualcosa da un dio, sfruttala”.Il terrore mi assalì. Perciò quello era l’unico modo per risolvere qualcosa, o almeno per cancellare la mia maledizione. Non avevo tempo per decidere sul da farsi, dovevo decidere subito.“Ti prego, concedimi almeno di annullare anche le maledizioni delle persone a me care. Ti supplico”, mi misi in ginocchio, “Se avrai cuore di concedermi questa cosa, ti giuro che, nel caso dovessi fallire, la mia anima e il mio corpo saranno tuoi”.

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Stavo veramente trattando con un dio? Fino a quel momento avevo sempre pensato che potesse ac-cadere solo nei film una cosa del genere.“Che sia”, sentenziò svanendo nel nulla e lascian-domi immersa in un bianco infinito.

Fui catapultata in un mondo grigio e spento. Era una città immersa nel panico. C’era gente che scappava da case in fiamme e altri che venivano uccisi senza pietà da guardie armate fino ai denti. In tutto questo caos ero coinvolta anche io, che correvo terrorizzata, per sfuggire da quella strage.Corsi e corsi, sapevo che ero in un sogno, ma lo percepivo come se fosse stato reale. Nella mia mente avvenne ciò che mi accadeva sempre nei miei sogni: mi si impresse la conoscen-za del mondo che mi circondava. Allora capii qua-le era il pericolo che travolgeva quella città: c’era uno stregone malvagio che si era posto a capo di un numerosissimo gruppo di terroristi. Questi ul-timi stavano devastando la città di Argon, una fa-mosissima città commerciale. Erano interessati al bottino e alla supremazia sul mondo, che sarebbe seguita alla conquista della città. Io ero parte del-le forze della Resistenza di Argon e, come solda-to semplice, avrei dovuto difendere fisicamente la mia patria dall’assedio di quei banditi. Io però ero terrorizzata e non sapevo più dove nascondermi. Il mio istinto mi stava dicendo di nascondermi il più a

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lungo possibile e di aspettare il momento migliore per infiltrarmi nell’accampamento di quei malfatto-ri e uccidere il loro capo. Era giunta spesso voce ad Argon di quello stregone. Si diceva che era un uomo sadico e molto potente, che amava torturare i suoi prigionieri e che stava cercando l’erede della famiglia reale di Argon per ucciderlo e conquistarsi il trono. Fortunatamente l’erede era stato ben na-scosto dalla Resistenza, ma la paura della minac-cia incombente dello stregone rimaneva impressa nella testa dei soldati, che non avevano molto a cui affidarsi, se non all’addestramento e all’onore. Fu così che iniziò la mia prima prova.

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ra calata la notte. Stavo aspettando solo che sorgesse la luna per dare il via alla mia mis-sione. Dovevo raggiungere l’accampamento

nemico. Ero stata qualificata come spia e questo, nell’esercito della Resistenza, voleva dire anche essere assassini professionisti. Non ebbi proble-mi a uscire dalle mura della città, una volta che l’assedio era stato fermato. Anche il nemico aveva bisogno di mangiare e riposarsi, dopotutto. Sfruttai questa stasi momentanea per arrampicarmi sulle mura e scavalcarle. Parte più difficile era attraver-sare il fossato che circondava le mura di quella cit-tà, definita inespugnabile un tempo. Al suo interno si diceva che venissero allevate delle creature che nessuno aveva mai potuto vedere con i propri oc-chi, ma che dei nemici della città ne facevano pol-pette. Si diceva anche che queste creature fossero innocue nei confronti dei cittadini di Argon e dei suoi alleati. Riuscivano a percepire la malevolenza e per questo si diceva che fossero state inviate a difendere la città dagli dei. La mia difficoltà stava nell’attraversare quelle acque senza correre il ri-schio di scoprire la falsità di quelle dicerie, ma so-prattutto facendolo senza farmi notare dai nemici, accampati a poco meno di un chilometro di distan-za da lì. Senza il ponte levatoio abbassato era un

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bel problema. Dovevano esserci delle scialuppe di emergenza sulla muraglia. Cominciai a cercare un magazzino e lo trovai. I magazzini erano delle piccole stanze contenenti quattro scialuppe, due a destra e due a sinistra, sospese a una trentina di metri dal livello dell’acqua. Queste ultime erano un’alternativa di fuga per gli abitanti, nel caso la guerra avesse preso una brutta piega. Ne adoperai una, calandomi giù, con un po’ d’an-sia per la discesa. Il fossato era profondo e l’acqua era sempre scurissima, perciò non era mai stato possibile vederne il fondo. Feci in modo di ada-giarmi delicatamente sulla superfice dell’acqua e cominciai a remare verso l’altra sponda.Raggiunsi senza problemi la riva e cominciai il mio cammino verso l’accampamento nemico. Ero ve-stita con abiti da spia: una tuta aderente e nera, degli stivali armati dello stesso colore, guanti pro-teggi palmo, ginocchiere, maschera, mantellina nera, che mi ricopriva metà del busto, una grande sacca, anch’essa in tinta, e piccoli pugnali a scia-bola nascosti dietro la schiena, sotto la mantellina.Raggiunsi l’accampamento. Mi era stato detto che lo stregone lo aveva sigillato con la magia. Era stato difficile, infatti, trovare un rimedio a questo problema per la Resistenza. Già altre spie erano venute prima di me in quel posto e ci avevano la-sciato la pelle. Fortunatamente avevo un rimedio a questo problema. La barriera invisibile poteva es-

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sere deviata tramite un contro incantesimo. Qual-che giorno prima, il capo della Resistenza aveva convocato al suo cospetto il più grande mago della città, per studiare come creare questo contro in-cantesimo. Ci mise un po’ di giorni a scoprirlo, ma se adesso potevo entrare nell’accampamento era solo grazie al suo contributo. Posai in cinque punti distinti delle piccole scatole incantate e le aprii se-guendo la sequenza insegnatami dal mago.Quando terminai il mio lavoro, in quel muro invisi-bile si sarebbe dovuto formare un buco di almeno un metro e mezzo. Provai a passare, a quel punto, raccogliendo un po’ di coraggio, siccome la paura che l’incantesimo non funzionasse c’era sempre. Riuscii a passare e il passaggio si richiuse dietro a me, almeno, quello fu ciò che percepii io. Probabil-mente, per adempiere al mio compito, sarei mor-ta lì. Un brivido mi corse lungo la schiena, mentre avanzavo nel campo nemico, nascondendomi tra le sterpaglie. Ero stata informata che la tenda del-lo stregone era molto simile alle altre, perciò avrei dovuto scoprire io di quale si trattava. Vedevo molti soldati nemici passarmi praticamente accanto, fa-cendomi tremare ogni volta per la paura di essere scoperta.Improvvisamente lo vidi. Vidi lo stregone, lo rico-nobbi grazie al suo particolare vestiario: indossava una tunica nera, coperta da un tabarro non mol-to lungo, ma che gli nascondeva il viso dentro un

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cappuccio. Era insieme ad un gruppo di uomini ar-mati con spada e pugnale. Ormai conoscevo il loro equipaggiamento. Probabilmente stava facendo un qualche discorso incitante alle truppe. Non mi restava che aspettare che si ritirasse, per coglierlo di sorpresa. Una volta terminato il discorso, lo stregone si inol-trò da solo all’interno dell’accampamento. Quale momento migliore per agire? Lo persi di vista solo per un secondo, quando passò dietro a una tenda che mi stava coprendo la visuale. Continuai a se-guirlo, fino a quando raggiunse una tenda un po’ più grande delle altre e ci entrò. Doveva essere da solo, perciò era il momento migliore per agire. Mi avvicinai alla tenda e cominciai a origliare ciò che succedeva all’interno. Silenzio. Entrai di sop-piatto nella tenda e aggredii l’uomo al suo interno, tagliandogli la gola con uno dei miei pugnali. L’ave-vo fatto. L’avevo ucciso. Avevo ucciso lo stregone. Non avevo molto tempo per pensare. Uscii dalla tenda e ritornai a nascondermi tra le sterpaglie, sperando di non essere localizzata. Quando la morte dell’uomo fu scoperta non ci fu il trambusto che mi sarei aspettata. Avevo per davvero ucciso lo stregone? Due uomini portarono fuori il cadave-re. Dovetti ammettere che il morto non sembrava affatto essere come me l’ero immaginato, ma nel buio della tenda mi era stato quasi impossibile ve-derlo. Ero sul punto di pensare di essermi sbaglia-

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ta, quando qualcuno mi tramortì.Fui trasportata fino a una capanna di legno e rin-chiusa in una gabbia di ferro. Quando mi risvegliai capii di essere in trappola. Le mie armi mi erano state sottratte. Non avevo più a disposizione nem-meno la sacca, o i guanti. Intorno a me si erano raccolti un po’ di soldati, che mi sputavano addos-so. Era finita. Ero stata catturata ed entro non mol-to tempo sarei morta. Nella capanna entrò lo stregone, quello vero. Mi chiedevo come avesse capito che lo stavo seguen-do. Il suo volto era ancora coperto dal cappuccio. Dovevo sfruttare la mia ultima risorsa prima di mo-rire. Lo stregone si fece avanti tra la folla e fece allontanare tutti. Saremmo rimasti da soli, quale migliore opportunità? Quando ogni uomo fu uscito, mi preparai ad at-taccare. All’interno della suola degli stivali avevo dei piccoli coltelli e con un po’ di attenzione avrei potuto accedervi senza dare nell’occhio, poi tutto sarebbe dipeso dalla mia mira. Lo stregone si av-vicinò alla mia gabbia e si levò il cappuccio. Sco-prendo la sua vera identità rimasi scioccata. Era mio padre. Questa scoperta mi bloccò, impeden-domi di fare qualsiasi cosa. A mio padre bastò un gesto per provocarmi dei forti dolori al petto. Non conoscevo con precisione i poteri di uno stregone, ma sapevo che potevano essere molto forti e quel-lo che avevo davanti era stato considerato uno dei

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più potenti al mondo.“Papà”, pensai sofferente, mentre la tortura con-tinuava. Mio padre stava cercando di estorcermi delle informazioni riguardo ai piani della Resisten-za. Non potevo cedere, o avrei rovinato tutto.Dovevo estrarre i coltelli, o non avrei avuto più oc-casione di ucciderlo. Improvvisamente un soldato entrò nella capanna e lo stregone mollò la presa, lasciandomi finalmente libera di respirare. Uscì e mi lasciò da sola. Cosa stava succedendo? C’erano persone che urlavano là fuori. Che fosse qualcuno dei miei compagni che era venuto per aiutarmi? Eppure pensavo che avrei dovuto fare tutto da sola. L’accampamento fu messo sotto assedio dai miei commilitoni e le figure di maggior rilievo, tra le qua-li mio padre, si nascosero nella capanna dove ero stata rinchiusa io.Appena ne ebbi l’occasione, lanciai i miei due col-telli, mirando al collo dello stregone, ma questi rim-balzarono poco prima di toccare la sua pelle. Si era protetto con la magia?Alla fine, dei miei compagni riuscirono a liberarmi dopo aver messo alle strette lo stregone, grazie ad un congegno che ci sarebbe dovuto servire a inca-tenare i suoi poteri magici. Il congegno funzionò, forse anche grazie all’effetto sorpresa, e il mago perse tutti i suoi poteri.Questa volta li avevamo messi alle strette. Forse

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saremmo riusciti a vincere quella battaglia. Altri soldati stavano ancora combattendo all’esterno della capanna. Avrei dovuto farla finita e uccidere mio padre. Mio padre, come potevo uccidere mio padre? Mio padre non era cattivo. Gli volevo bene. I suoi occhi azzurri mi stavano persuadendo a non farlo. Improvvisamente mi sentii mancare le forze. Qual-cosa mi aveva colpito. Il mio ventre stava perdendo sangue. Una freccia aveva trapassato il mio corpo. Mi accasciai a terra. I miei compagni, notando le mie condizioni si nascosero dietro alle gabbie, co-perte da dei teli. Lentamente, persi i sensi. Non ero riuscita ad uccidere lo stregone.

Quando mi sembrò di aver perso totalmente la capacità di respirare, tutto si fece buio. La ferita sparì, piano, piano. In quel momento mi resi conto che tutto ciò che avevo vissuto non era reale. Era forse una prova? L’avevo superata? Ce ne sareb-bero state altre?Non feci in tempo a cercare di ricordarmi quello che avevo stipulato nel patto con Morfeo che un nuovo scenario si aprì ai miei occhi.

Mi trovavo in una chiesa. Era tutto addobbato con fiori e ghirlande. Si festeggiava qualcosa? Sì, si stava festeggiando il matrimonio di qualcu-no. Gli invitati stavano uscendo, probabilmente per

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attendere gli sposi all’esterno e per lanciar loro i chicchi di riso. Io ero una di questi. Più precisa-mente, ero la sorella dello sposo. Raggiunsi gli altri all’esterno e attesi qualche minuto l’arrivo dei due festeggiati. Intuii che si stavano avvicinando, per-ché udivo delle ovazioni da parte degli altri invitati. La prima che vidi uscire fu la sposa. Era Sarah, vestita con un bellissimo abito bianco con corpetto ricamato e maniche lunghe, orlate e trasparenti, la gonna era di seta, gonfia e decorata alla stessa maniera. Quando vidi lo sposo, cacciai un grido.

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iva gli sposi!”, urlarono gli altri invitati. Ave-vamo raggiunto la sala del ricevimento e io non potevo fare a meno di fissare Colin

e Sarah, che ogni tanto si scambiavano sguardi infuocati e si baciavano. Era una tortura. Quanto avrei voluto protestare, ma cosa avrei potuto dire? Ero sua sorella.Tra il cibo e le danze, la mia mente vacillava, non ero ancora riuscita a calarmi completamente nella parte offertami da quel sogno. Molti bei ragazzi mi chiedevano di ballare, ma io non potevo far altro che ignorarli e rivolgere il mio sguardo alla coppiet-ta felice. Che cosa stava testando? Perché sentivo di non poter evitare quella triste sorte?Dopo un casque i due si baciarono nuovamente, lasciandomi con un secco groppo in gola. Non po-tevo permettere a Colin di baciarla ancora, non potevo permettere a Sarah di guardarlo ancora in quel modo. La odiavo. Una forza omicida stava crescendo dentro di me. Per placarla un po’, uscii sul terrazzo del ristoran-te e mi accesi una sigaretta. Fumavo? Da quan-do? Nonostante il mio tentativo di allontanamento, però, mi bastava girarmi per vederli ancora lì, in-sieme, mentre ballavano con gli ospiti. Purtroppo

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la porta era di vetro, quindi non avevo nemmeno la possibilità di alienarmi da quel momento orribile.“Colin. Perché mi stai facendo questo? Sarah…”, desiderai di ucciderla. Stavo per davvero deside-rando di uccidere la moglie di quello che doveva essere mio fratello? Sembrava tutto così reale, ep-pure sapevo dentro di me che c’era qualcosa che non andava. Loro non avrebbero dovuto restare insieme.Quando finii la sigaretta, mi preparai a rientrare. Nella mia testa avevo mille idee su come ucci-dere Sarah: l’avrei avvelenata, oppure pugnalata con un bicchiere rotto, oppure ancora avrei potuto spaccarle la testa con una sedia, o con un vaso. Io stessa mi chiedevo come fosse possibile per me pensare a cose così atroci, ma non sapevo più come contenere l’odio in quel momento.Proprio quando avevo cominciato a pensare a qua-le veleno usare, mi resi conto di come Colin stava guardando Sarah. Lui l’amava? Perché l’amava? Lui doveva amare me e solo me. “Vuoi ballare?”, mi accorsi solo in quel momento che lo stesso Colin, che un attimo prima stava bal-lando felice con sua moglie, si era avvicinato a me.“Sì”, risposi io euforica. L’aveva lasciata per balla-re con me. Finalmente.Cominciammo a ballare un lento. Io ero completa-mente rapita dai suoi occhi, ma notai che il sorriso che sfoderava nei miei confronti non era lo stesso

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di quando guardava Sarah.“Quindi. Ti sei sposato”, gli ricordai, tentando di sorridere e fallendo miseramente.“Già”, lui sfoggiò un ampio sorriso, “Sai. Parlano, parlano del matrimonio… eppure io sono felice”.Il mio stomaco cominciò a contrarsi. Sentire quella cosa mi ferì profondamente. “Allora l’ama per dav-vero”, pensai.“Sono felice per te”, gli mentii, sperando di render-lo ancora più felice.Improvvisamente, tutti i piani omicidi che mi era fatta si dissolsero nel nulla. Non potevo uccidere la persona che Colin amava. L’avrei fatto soffrire. Non potevo.

Tutto cominciò a svanire e quando mi accorsi che, in realtà, era stato tutto un sogno era troppo tardi. Non potei fare altro che lasciare Colin con Sarah.“Perché? Perché ho deciso di fare queste prove? Perché?”, mi torturai, anche se conoscevo bene la risposta alle mie domande.

Molto in fretta, il bianco più totale venne sostituito da colori sgargianti. Quella spiaggia, mi era così familiare. La sabbia spostata dal vento mi acca-rezzava i piedi nudi. Non c’era alcuno scenario preimpostato quella volta. Quale sarebbe stata la mia prova allora? Perché riuscivo a ricordarmi del-le prove, poi?

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A passo lento e insicuro, avanzai in quello che or-mai sembrava essere diventato un gioco di ruolo.Mi diressi verso quella che doveva essere la casa di Hypnos. Perché Morfeo mi stava mostrando quello? Perché ero così consapevole di essere in un sogno? Era un suo errore, o era tutto un piano?Notai una figura, questa stava entrando nell’altra porta, quella che non avevo mai varcato. Incuriosi-ta la seguii. Mi fermai davanti all’entrata. Non ricor-davo il significato di quelle due soglie. Era come se mi fosse stato cancellato dalla mente. Incuriosita dall’impossibilità di vedere dentro, spin-si e aprii quella porta. All’interno era buio pesto. Non riuscivo a vedere nulla. Quando la porta si ri-chiuse violentemente dietro di me, sobbalzai. Sen-tivo di aver sbagliato qualcosa. Provai a riaprirla, ma non mi fu possibile, siccome si era sigillata. “Cosa ho fatto?”, pensai. L’unica cosa che pote-vo fare era avanzare nel buio, sperando di non in-contrare mostri, o cose del genere. L’oscurità mi terrorizzò. Inizialmente rimasi incollata alla porta, sperando che nessuno mi aggredisse. Quando fui certa che non c’era nessuno, avanzai a tentoni in quello spazio mal definito. Non sembrava la stessa casa che avevo visto da fuori, era troppo grande. Improvvisamente sentii qualcosa strisciarmi sulla mano. Cominciai a scuoterla come un’ossessa e scattai, fino a ché non sbattei contro una delle pa-reti davanti a me. La botta mi fece cadere a terra,

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ma ero in un sogno in quel momento, il sogno di qualcun altro oltretutto, e non potevo ferirmi per davvero, se non nell’orgoglio. Ero consapevole di questo, eppure mi toccai la fronte, constatando di stare sanguinando realmente. Mi sentii mancare le forze. Perché? Stavo solo sognando, no? “Stai morendo”, affermò una voce alle mie spalle.Mi voltai ma non riuscii a vedere nulla. “Cosa stai dicendo? Non è vero!”, urlai terrorizzata.Non poteva essere reale tutto ciò. Ero in un sogno. Che fosse diverso il fatto di essere in un mio so-gno, o in quello di qualcun altro?“È vero. Te lo dimostrerò”.La voce svanì e davanti a me potei vedere la stan-za d’ospedale dove mi ero addormentata, come in una telecamera di sorveglianza. Con me c’era mia madre. “Mamma?”, pensai. La madre di Colin entrò nella stanza e consegnò a mia madre una siringa. “Ma che…?”. Mia madre si avvicinò a me e mi iniettò una dose di qualcosa.“Tua madre ti sta avvelenando”, ricominciò il so-gno.“No. Sei un bugiardo! Non può essere vero. No!”, mi gettai a terra, con le mani che premevano sulla testa. Non volevo crederci. La persona che, fino a poche ore prima, mi aveva detto che mi voleva bene mi voleva uccidere in realtà. “Quindi è così. Pensava veramente che non sarei mai dovuta na-scere”, il mio odio salì sempre di più, fino a farmi

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sentire degli scoppiettii nella testa, come se i miei neuroni stessero davvero esplodendo. “Perché, mamma? Perché?!”“Pensavi davvero che mi importasse qualcosa di te?”, dal buio comparve la figura di mia madre, “Piccola illusa”, il suo sorriso beffardo non fece che peggiorare la mia condizione.Mia madre mi stava avvelenando e la madre di Co-lin era complice. Perché mi volevano morta? Cosa avevo fatto? Tutto ciò solo perché ero figlia di un dio?“Basta! Basta!”, avvertivo la mia testa come se stesse per scoppiare. Dal mio naso stava colando così tanto sangue che sentivo il pavimento diventa-re sempre più appiccicoso. “No! No! No!”. Impazzii, mi alzai in piedi e cominciai a battere forte i pugni sulla porta, che ormai sembrava essere completa-mente sparita. “Per favore! Aiutatemi!”. Nonostante volessi tanto piangere dalla paura, non ci riuscivo, come se avessi terminato tutte le lacrime a mia disposizione. Cominciai a sentirmi mancare. Non potevo morire così. Non smisi per un secondo di cercare una via d’uscita, fino a che, proprio quando non riuscivo più a reggermi in piedi, si aprì una porta all’interno della stanza, lascian-do entrare una forte luce che mi accecò. Strisciai il più velocemente possibile per attraversarla ed, quando finalmente superai quell’ostacolo, essa si richiuse.

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Faticavo a respirare. Quella stanza era incredibil-mente soporifera. Era un’impresa tenere gli occhi aperti, ma la mia determinazione a restare vigile era più forte. “Sono figlia di Morfeo, forza”, pensai, cercando di incoraggiare me stessa. Lentamente riuscii ad alzarmi, ma non riuscii ad avanzare. In quella stanza c’ero già stata, ma allo stesso tem-po mi era estranea. Avanzando al suo interno mi accorsi della presenza di un’altra stanza. Fu allora che mi ricordai dove l’avevo già vista. Ebbi un dejà vu di Morfeo che mi portava via di lì. “Non dove-vi avvicinarti così a mio padre”. C’era un grande letto e la figura che vi giaceva sopra era difforme e spaventosa. Era forse Hypnos quella figura mi-steriosa? Mi avvicinai sempre di più, pensando, “Speriamo che stia dormendo, non vorrei mai sve-gliarlo”, quando improvvisamente quella figura si alzò. Non aveva una forma precisa, ma percepii il suo potere schiacciarmi con forza a terra. Il son-no. Il sonno mi stava uccidendo. Quando il dio mi rivolse il suo sguardo, sentii la fine arrivare. Il mio corpo era completamente addormentato, anche se la mia mente stava cercando di resistere, piano, piano sentii ogni cosa spegnersi. Forse era per quello che non avrei dovuto avvicinarmi a lui. Pro-babilmente, se non fossi stata una semidea sarei già morta alla sola vista del suo corpo. Egli stesso appariva così assonnato nei suoi movimenti. Le varie zone del mio cervello si stavano spegnendo,

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una ad una. C’era solo una scintilla a tenermi in vita. Una scintilla che nemmeno io riuscivo a spe-gnere, nonostante desiderassi con tutta me stessa di dormire e finirla lì. “Sei tu la semidea?”, il dio mi parlò con il pensiero. Era così che comunicavano i figli della Notte quin-di?Io non riuscii a rispondere, essendo la mia mente quasi completamente assopita, ma stranamente riuscii a comprendere le sue parole.“Così è successo di nuovo. Mio figlio non sa fre-narsi”, la figura non si muoveva da quel letto. In quel momento notai che c’erano altre migliaia di forme oscure e non definite che scivolavano sul pavimento intorno a lui. Non avevo nemmeno la forza per avere paura in quel momento.“Ti ha fatta entrare nella stanza dei sogni falsi. Am-metto che ho avuto pietà di te. Non doveva nem-meno essere questa la tua prova. Mio figlio è stato ingiusto”.“Come faceva a sapere delle prove?”. Perché me lo chiedevo? Erano padre e figlio. Era ovvio.Cominciai ad abituarmi a quell’effetto soporifero e riacquistai la facoltà di pensare.“Andate, Fantaso e Icelo. Mostratele la via per la sua ultima prova. E tu, Morfeo, sii più leale, ricorda che devi essere un dio imparziale e corretto”. I tre avevano la forma di piccole nebbie nere.Morfeo prese forma umana e salutò con educa-

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zione il padre. Dopodiché mi prese in braccio, tra-sportandomi fuori da quell’incubo.“Ammetto che ho sperato di averti per sempre con me”, affermò mentre le sue braccia mi cullavano e mi facevano sentire, stranamente, al sicuro.

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uando lasciammo la dimora di Hypnos, i miei arti anestetizzati ricominciarono a funziona-re e finalmente riacquisii la facoltà di espri-

mermi.“P-perché?”, pensai osservando il cielo azzurro sopra di me. Morfeo mi stava trasportando tra le sue braccia. Osservai il suo volto. Era incredibi-le quanto apparisse giovane nonostante avesse migliaia di anni. “Chissà quando nasce una divi-nità?”, pensai, non facendo caso al fatto che lui poteva sentirmi.“Quando ci sono più persone che credono in essa a sufficienza da permetterle di esistere”, mi rispo-se. Come poteva essere così saggia un’entità che allo stesso tempo era così capricciosa. Forse era così perché, effettivamente, così l’avevano immaginato tante persone. Se l’essere umano creava la divi-nità, probabilmente, essa avrà dovuto possedere una forma e un carattere non dissimili ai suoi.Continuò ad avanzare in quel sogno, mentre Fan-taso creava una grande foresta, attraversata da uno stretto viale, davanti a noi, e Icelo si era tra-sformato in un gatto bianco identico a Cotton.“Padre, come farò a capire se avrò superato tutte le prove?”, chiesi io curiosa.

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“Lo capirai. Solo tu potrai capirlo”, rispose, ferman-dosi davanti all’entrata di quell’oscura cattedrale fitomorfa. Sentivo di avere così tante questioni da chiarire, ma temevo che non ce ne fosse il tempo. Lui mi lasciò andare e tornai a camminare, anche se con i muscoli un po’ indolenziti.“Posso chiedervi un’ultima cosa prima di andare?”Lui tenne fisso lo sguardo sui miei occhi, rimanen-do in silenzio.“A voi fa piacere la mia compagnia, non è vero? Altrimenti non avreste cercato di imbrogliarmi”.Lui rispose con un sorriso e svanì nel nulla, la-sciandomi da sola davanti a quella scura strada.Rimasi ancora per qualche minuto ad osservare il punto dal quale era sparito, percepivo una sorta di malinconia. Non avevo più la stessa paura di andare in coma. In quel momento ero terribilmente curiosa di sapere e, allo stesso tempo, dentro di me bruciava il desiderio di salvare almeno le po-che persone che avevo conosciuto e che erano legate da quella maledizione. Quell’orribile maledi-zione doveva svanire e non mi sarei fermata fino a quando non avrei ottenuto quello che volevo.Avanzai lungo il corridoio, che era delimitato da alti alberi, seguendo quel gatto tanto simile a Cotton. Incredibile, non mi ero mai resa veramente conto prima di allora di essere circondata dagli dei. Quel-la situazione aveva un ché di poetico. Io mi sentivo

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stranamente rilassata, mi era stata cancellata ogni paura, un effetto catartico del Sonno probabilmen-te.Mano a mano che avanzavo, il paesaggio si face-va sempre più nebbioso, fino a quando non mi ri-trovai completamente immersa nella foschia. Non si vedeva più niente, la nebbia era diventata così fitta che l’avrei potuta tagliare con le forbici. Con-tinuai ad avanzare, inflessibile. Quando giunsi in una radura. Davanti a me comparve l’insegna di un cimitero. “Un cimitero?”, un brivido mi percorse la schiena e tutti gli altri arti. Avanzai, notando che lentamente la nebbia si sta-va diradando e quella necropoli, da luogo mistico e inquietante, stava diventando un normale cimitero, di quelli che si possono incontrare fuori città.

Ero venuta lì assieme alla mia famiglia. Facevamo visita alle tombe, non capivo bene per quale ragio-ne. Le esplorammo una ad una, ogni tanto i miei genitori si fermavano a compiangere qualcuno di cui io non ricordavo nulla. Quando mi imbattei in una tomba con il nome di mia nonna. “N-onna”, una lacrima rigò il mio volto, ma continuai. Accanto a mia nonna c’erano due tombe vuote. Chissà chi doveva essere seppellito lì. Dal bel tempo il clima iniziò a farsi più nuvoloso, finché non iniziò a pio-vere. Mia madre si avvicinò a me e mi appoggiò una mano sulla spalla. In quel momento mi aspet-

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tai delle parole di consolazione per la morte della nonna.“È arrivato il momento”, affermò lei, parlando a mio padre.Mio padre le si avvicinò. Forse avevano intenzione di contemplare insieme la tomba della nonna.Quando entrambi furono vicini a me, si posiziona-rono in linea con le due tombe. “Mamma… Papà… che state facendo?”.Da quelle tombe cominciarono ad uscire rivoli di fumo nero. Non riuscii più a vedere il fondo.“Ma cosa?”, io mi allontanai, istintivamente.I miei genitori rimasero inflessibili in quel punto, non dando importanza ai tentacoli d’oscurità che sembravano intenzionati ad inglobarli.“Mamma! Papà! Muovetevi, non state lì!”, cercai di avvisarli io, ma era impossibile smuovere la loro attenzione. Dovevo prendere un decisione veloce, dovevo decidere chi dei due salvare. Era questa la mia prova? Ma come potevo scegliere tra mia ma-dre e mio padre? Per quanto potessero aver sba-gliato, volevo bene ad entrambi. Improvvisamente comparve Colin dietro di me. “Yvonne! Vieni con me! Salvati”. Quindi era così. Cosa potevo fare? avevo anche fin troppe scelte possibili. I miei genitori, all’unisono buttarono in avanti un piede, senza appoggiarlo, mantenendolo sospeso nel vuoto.“Yvonne!”, nel frattempo Colin mi chiamava, ten-

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tandomi dalla parte opposta, vicino all’uscita.Era impossibile scegliere. Non potevo proprio fug-gire, ma non avrei neanche potuto salvare entram-bi i miei genitori. Non sapevo perché, ma senti-vo che dietro questa oscurità centrava in qualche modo l’anima della nonna. Mi piazzai sopra il tu-mulo della nonna e la pregai di prendere me, non i miei genitori. Non successe niente. Il cimitero si stava riempiendo sempre più di oscurità. Allora ca-pii che l’unica cosa che potevo fare era stare fer-ma e lasciare che gli eventi facessero il loro corso. Era la cosa più facile, ma allo stesso tempo la più logica. Non potevo salvare tutti, non potevo divi-dermi in due Yvonne diverse. Non potevo sceglie-re chi doveva vivere o chi doveva morire, ma allo stesso tempo non volevo lasciarli da soli. La fred-da pioggia mi stava inzuppando. Ripensandoci mi sembrò una scelta stupida, dopotutto avrei potuto salvare qualcuno, almeno provarci, eppure sentivo che quella era la cosa giusta da fare. Come potevo scegliere tra due persone che amavo allo stesso modo?“Quindi è così che decidi?”.Tutto si bloccò e comparve Morfeo dal buio del ci-mitero. Io non riuscii a rispondergli, ma avevo già preso una decisione e speravo tanto che fosse corretta.“Bene”, lui sogghignò, i suoi occhi apparivano come dei diamanti azzurri. Sparì, portando via con

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sé tutto quanto.

Rimasi da sola nel vuoto più totale. Cosa mi sa-rebbe successo? Avevo scelto bene, o avevo sba-gliato? Non sapevo nulla, nemmeno riguardo alle altre prove. Era una questione di vita o di morte. La tensione si fece sentire pesante sul mio povero cuore, che in poche settimane ne aveva vissute di tutti i colori.“Ti prego. Devo aiutare i miei amici. Devo aiutare la mia famiglia. Ti prego, dammi la possibilità di essere una ragazza normale”.Avevo solo sedici anni, eppure in quel momento stavo dimostrando di averne molti di più. Improvvisamente mi ritrovai di nuovo al cospetto di Hypnos. Questa volta ero fuori dalla porta d’entra-ta. Probabilmente, se fossi entrata, avrei rischiato nuovamente di addormentare la mia mente.Morfeo era all’interno della dimora, proprio davanti a me. Allungò una mano e prese il mio ciondolo, quando rilasciò la presa quest’ultimo aveva comin-ciato a brillare di un color porpora dorato.“Entra”.Io fui riluttante a eseguire il suo ordine, ma lo feci. Entrai all’interno della stanza e notai che il sonno non mi attaccava più come prima. Questa volta mi era più semplice restare in piedi. Mi si chiudevano le palpebre, ma ero comunque molto facilitata ri-spetto a prima.

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“G-grazie”, dissi senza rivolgermi a nessuno in particolare.Hypnos era sveglio e mi guardava dal letto. Io riu-scivo a vederlo solo come un’ombra. Non riuscivo proprio a distinguere i suoi tratti somatici, o le sue principali caratteristiche corporee.“Avvicinati”, mi ordinò.Io mi avvicinai al suo letto, un po’ impaurita, e mi bloccai davanti a delle ombre che, ai suoi piedi, stavano occupando lo spazio.“Scostali”, aggiunse lui.Mossi un poco i piedi e le ombre si spostarono. Quando fui abbastanza vicina, lui mi toccò le guan-ce. Il sonno pervase i miei muscoli, ma cercai di resistere, nonostante non riuscissi più a riaprire gli occhi. Lui prese il mio ciondolo e lo studiò intensa-mente. “Gli umani. Quante cose inventano per spiegare l’inspiegabile”.Quella frase mi rimase impressa in testa. Non ri-uscii a darle un senso logico in quel momento. Come poteva essersene uscito con quel tipo di frase semplicemente osservando il mio ciondolo?“Il tuo desiderio quindi è quello di dare pace ai tuoi cari e a te stessa. Intendi interrompere la maledi-zione”, affermò, appurando ciò che già sapevo.Io annuii. Quindi avevo passato quelle prove? Come mai non ero ancora riuscita a capirlo?“Morfeo ti sta sottoponendo a tre prove. Tu, con

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coraggio e bontà d’animo, le hai affrontate una per una. Se le avrai superate lo capirai da sola, per-ché queste prove sono state costruite sulle tue più grandi paure”, continuò dopo avermi ridato il cion-dolo di mia madre, “Starà solo a te capire se hai seguito la verità o la menzogna”.Dopo che ebbe detto ciò, lanciò uno sguardo a Mor-feo, che mi prese per la mano. “Perché mi prende per mano?”, pensai terrorizzata. Il dio salutò nuo-vamente il padre, mentre io non sapevo cosa dire, perché ero troppo confusa. Morfeo mi trascinò fuori. Nella sua espressione c’e-ra soddisfazione. La paura di aver perso mi passò per la mente per un attimo, ma questo bastò a far-mi congelare le vene.“Non avere paura”, mi disse lui, “Hai ancora qual-cosa da fare, prima di scoprire la verità. Sii felice dell’opportunità che mio padre ha deciso di darti”. “Q-qualcosa da fare? Cosa devo fare?”.Lui mi indicò il mio ciondolo. Cosa voleva dire?Raggiungemmo il mare e continuammo a cammi-nare fino a quando l’acqua non mi raggiunse il collo. “Perché mi sta facendo questo? Cosa significa?”, il dio continuava a tenermi per mano e mi stava trascinando con sé sott’acqua. Quando fummo in-teramente immersi, mi sentii sprofondare sempre di più, ancora di più, finché non mi risvegliai.

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i risvegliai in un lettino d’ospedale. I miei occhi non vedevano bene, perciò impie-gai un po’ di tempo per adattarli alla luce

che entrava dalle finestre. Mia madre giaceva ad-dormentata accanto a me, con la testa appoggiata sul letto.“Sono sveglia”, pensai, “Devono avermi spostata qui vedendo che non mi svegliavo più”. Feci qual-che lungo sospiro e appoggiai una mano sulla te-sta di mia mamma. «Mamma…?».Lei non si svegliò subito. Ci volle qualche minuto. Probabilmente aveva dormito tutta la notte lì. «Yv-onne», disse ancora mezza addormentata, «Yvonne!», scoppiò a piangere e mi saltò addos-so abbracciandomi forte, «Sei sveglia, mio dio, sei sveglia!»Cominciò a muoversi convulsamente avanti e in-dietro. Era completamente impazzita e aveva un tic all’occhio che non avevo mai notato. «Infermieri!», si sporse un po’ fuori dalla porta per avvertire gli infermieri di quello che era successo.Mi ero forse appena risvegliata da una sorta di coma? Davvero? Era così sottile la differenza tra coma e sogno? «Mio dio, mio dio», mia madre piangeva di felici-

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tà. Era completamente andata.Io non riuscii a dire niente. Ero un po’ confusa da tutto quel trambusto. Due infermiere ci raggiun-sero, una si diresse verso la macchina collegata al mio corpo, l’altra si avvicinò a me e cominciò a toccarmi, a guardarmi gli occhi e a chiedermi se la sentivo, cosa sentivo e altre cose. «Sì», risposi io ancora scossa. Non mi ero asso-lutamente resa conto di essere sull’orlo del preci-pizio e di essermi salvata per un pelo. «M-mamma», in quel momento sentivo un gran-de bisogno di affetto e mia madre era lì davanti a me, pronta per darmi tutto l’affetto di cui necessi-tavo. «Sì tesoro», mia madre mi si avvicinò appena le infermiere glielo concessero.Cominciò ad accarezzarmi e a baciarmi tutta la faccia. Sembrava veramente che fossi appena ri-sorta. «Quanto ho dormito?»Mia madre mi guardò con occhi lucidi e rossi, quel-lo sguardo mi ricordava molto quello che avevo vi-sto quando mia nonna era andata in coma. Mia madre era preoccupata per me. Un enorme senso di colpa nacque dentro di me. Lei non rispose subito alla mia domanda. Era una risposta così scioccante? «Hai dormito per due mesi» «D-due mesi?»

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L’infermiera che era rimasta, che stava ancora con-trollando i miei valori, annuì cercando di sorridere. «Stai tranquilla tesoro mio. Non ti sforzare trop-po», continuò mia madre, mentre io cercavo di al-zarmi.Era quello l’effetto del Sonno? Faceva perdere completamente la cognizione del tempo? Erano durate così tanto le mie prove? Mi toccai il collo per vedere se avevo ancora il pendente, ma ovvia-mente me l’avevano tolto. «Dov’è il pendente?»Mia madre mi fissò interrogativa. «Il pendente a forma di papavero», precisai.Mia madre parve dubbiosa e mi squadrò, come per capire se stessi scherzando o se avessi sognato qualcosa del genere e in quel momento stessi de-lirando. «Non te lo ricordi?».Mia madre fece segno di no con la testa. Io rima-si paralizzata davanti a quella risposta. Come era possibile che io fossi l’unica a ricordarsi di quella collana? Forse era successo? Forse la maledizio-ne era svanita? «La nonna?», chiesi. «La nonna cosa?», rispose. «Come sta?»Mia madre diventò sinceramente preoccupata, «Yvonne… la nonna è morta due anni fa. Perché mi chiedi di lei? L’hai sognata?»

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«La nonna è morta?», la mia voce divenne un po’ roca, «Ma… come?» «È morta… per un attacco cardiaco», mi rispose nella maniera più dolce che si potesse immagina-re. Doveva avere paura che lo shock mi facesse svenire. «Ma… non è possibile. Era in coma»Sul volto di mia madre comparve un’espressione compassionevole, accompagnata da una tonalità di voce così leggera da riuscire a rilassarmi, no-nostante il mio cuore avesse accelerato così tanto che mi sentivo già sull’orlo del pianto. «Tesoro, la nonna adesso è in cielo… e probabil-mente è grazie al suo aiuto se adesso sei qui con me».

Passai le giornate a seguire concentrandomi sul-la ricerca della Comunità Americana del Culto di Hypnos, la comunità grazie alla quale avevo cono-sciuto Sarah, Bridget e Abbie. Cercai ovunque su Internet, ma trovai solo qualche riferimento ad Ovi-dio e all’Iliade di Omero. Non trovai nulla riguardo al Culto. Dove aveva cercato mia madre per tro-vare quel sito? Doveva essere una cosa proprio segreta. Avevo già provato a contattare Sarah e Abbie, ma entrambe sembravano non conoscermi, Sarah mi aveva anche dato della stalker. Era come se tutto quello che avevo vissuto fosse stato can-cellato dalla faccia della Terra ed era strano, per-

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ché il mio patto non parlava di tutte le maledizioni, ma si riferiva solamente a quelle dei miei cari, per-ciò il sito dedicato al Culto di Hypnos doveva es-sere reperibile in un qualche modo. Nemmeno mio padre si ricordava più del problema, esattamente come Colin. Chiunque io conoscessi si era com-pletamente dimenticato della maledizione, come se in realtà non fosse mai esistita, come se le cose per cui io, Sarah e Abbie ci eravamo conosciute, in realtà, non fossero mai successe.Mi ci volle un po’ per prendere consapevolezza di quella cosa. Mia madre appariva molto più fragile di quanto non fosse già stata in precedenza. Un giorno notai che stava assumendo degli psicofar-maci. Anche io mi sentivo diversa. I problemi con il mio diabete erano aumentati e facevo veramen-te fatica a controllarmi, probabilmente perché non ero più abituata a quel genere di vita. Allora era proprio vero che tutte le donne, o quasi, maledet-te da Morfeo avevano dei problemi psico-fisici che venivano in un qualche modo attenuati dalla loro maledizione. Riflettei a lungo su come potesse es-sere stata la maledizione stessa costruirsi in una sorta di simbiosi con il nostro corpo, oppure se fos-se stato il nostro corpo ad adattarsi ad essa, col passare dei millenni. L’unica cosa che avevo di chiaro e lampante davan-ti a me era che i nostri problemi erano peggiorati pesantemente. Spesso io ero costretta ad andare

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in ospedale per farmi somministrare l’insulina diret-tamente da un infermiere. Faticavo a concentrarmi a scuola perché dovevo andare molto spesso in bagno, non uscivo molto con Colin, né con nessun altro, perché avevo una dieta molto ferrea e spes-so mi veniva la tentazione di mangiare cose che non avrei dovuto mangiare. Era incredibile quanto si fosse complicata la mia vita in pochi giorni.Pensavo che con il tempo sarebbe migliorata un po’ la mia condizione, ma non fu così. Peggiorò sempre più, fino a quando non mi ritrovai legata a un lettino d’ospedale. Ormai abitavo lì. Mi succe-deva spesso di avere shock iperglicemici. La mia insulino-resistenza era aumentata a vista d’occhio. Mia madre veniva spesso a trovarmi in ospedale. Molto spesso trovavo delle pillole nella sua borsa. Temevo per la sua salute esattamente come lei te-meva per la mia. Eravamo diventate inseparabili: quando non lavorava passava la giornata in ospe-dale con me. Come avevo potuto anche solo pen-sare che mia madre non mi amasse, o addirittura che mi volesse uccidere? Era incredibile come la maledizione magica fosse stata completamente sostituita da quella maledizione reale e fisica.Colin non mi abbandonò, rimase accanto a me an-che nei momenti più bui. Era sempre stato un ra-gazzo dolcissimo. Continuava a farmi ridere, con le sue battutine stupide. Eppure non ero felice come avrei pensato di dover essere una volta cancellata

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la maledizione. Riuscivo finalmente a dormire in pace e a sognare senza la paura di poter andare in coma da un momento all’altro, ma sentivo che c’era ancora qualcosa che non quadrava. Non riu-scivo a stare tranquilla nemmeno così. Tutto degenerò quando mia madre ebbe quell’inci-dente. Mi dissero che era stata investita da un’au-to. Anche se mi faceva male ammetterlo, credevo di più alla versione dell’autista che si era discolpa-to dicendo che era stata lei a buttarsi sulla strada. Da allora mio padre non fu più lo stesso. Cominciò a bere. C’era da ammettere che, con la sfortuna che aveva avuto la nostra famiglia in quell’ultimo periodo, non aveva tutti i torti. Io però non potevo concedermi nemmeno quello. Non potevo mangia-re schifezze, o dolci, non potevo bere alcolici, non potevo smaltire lo stress in nessun modo. L’unico mio motivo di vita era Colin.

«Ehilà splendore, guarda chi è arrivato», Colin entrò nella mia stanza d’ospedale, con un sorriso a trentadue denti. Portò con sé un mazzo di gerbere rosse e la scimmia peluche che gli avevo regalato due anni prima, «È da tanto tempo che non ti ve-deva e oggi ha deciso di venire a salutarti» «La scimmia vampiro», sorrisi debolmente io, che ero sdraiata nel lettino, spossata. Ero stata portata in terapia intensiva a causa di un collasso. «Ecco, lo metto qui, così ti coccola un po’ anche

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lui», appoggiò la scimmia sul letto, accanto a me. «Oh», io accarezzai il morbido pelo del pupazzo. «Allora, che si mangia oggi?» «La solita brodaglia», risposi. «Mmh, buona. Mi piace la brodaglia».Io risi senza riuscire a fermarmi. In realtà ero così triste in quel momento che preferivo ridere piutto-sto che piangere. «Sai che cosa ti ho portato?», continuò Colin. Raccolse da terra la sua borsa e tirò fuori dei dvd, «Dan, dan, dan! Il Signore degli Anelli, versione integrale, e…», tirò fuori un altro dvd e il suo com-puter portatile, «Dragon Age, Origins!».Il Signore degli anelli era la mia catena di film pre-ferita e amavo Dragon Age, ma in quel momento avevo tutt’altro che la voglia di guardare un film o di giocare a un videogioco. Colin provava sempre a tirarmi su di morale, ma la cosa era molto difficile. «E dai! Fammi almeno un sorriso», mi pregò lui.Io tentai di sorridergli, ma quello che venne fuori fu un’espressione storpiata. Lui allora cominciò ad accarezzarmi la testa. Adoravo i grattini, infatti in pochi minuti mi fece sentire meglio. «Okay, vado un attimino in bagno e sono subito da te. Ci spareremo tutti i film de Il Signore degli Anelli in un giorno», imitò una risata malvagia e uscì dalla stanza.Rimasi da sola. Quindi ero destinata a vivere in ospedale. Tutto

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quello era accaduto perché avevo sbagliato qual-cosa nelle prove? Oppure doveva essere così per-ché era destino che la mia vita rimanesse un’eter-na maledizione? “Purtroppo lei morì prima del tempo, scivolò e batté la testa… Così fu anche per molte altre fanciulle, che pretesero da me la risoluzione dei loro proble-mi… L’intervento di un dio è qualcosa di naturale, che esso sia un capriccio, oppure no. Tentare di modificare questa naturalità delle cose potrebbe portarti solo svantaggi e modificare qualcosa che non dovrebbe essere modificato, ossia il moto na-turale delle cose”.Morfeo stesso mi aveva avvertita che ciò che gli stavo chiedendo mi si sarebbe rivolto contro. Avrei tanto voluto pensare a lui come a un disonesto, ma, alla fine, tutti quei problemi me li ero cercati io. Io che mi ero spinta oltre le possibilità umane, ten-tando di modificare un’azione divina. Mi ero resa conto solo in quel momento di quanta fosse stata la mia arroganza. Non ero una dea, ero figlia di un dio, vero, ma non avevo il potere di comprendere i poteri divini e quanto essi fossero legati alle forze della natura. Mi sdraiai, accomodandomi sul mio lettino e vol-tandomi a guardare fuori dalla finestra, che l’infer-miera aveva aperto pochi minuti prima. Si sentiva il cinguettio dei cardellini. Sembravano così alle-gri. Avrei tanto voluto poter volare in quel momen-

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to. Volare lontana da quel triste posto, lontana da quell’odore di disinfettante, lontana dalla mia ma-lattia. Chiusi gli occhi, cullata dalla musica di que-gli uccellini.“Voglio essere un uccellino”“Voglio volare via di qui”“Voglio vivere una vita normale”

“Voglio, voglio, voglio”, una voce a me familiare aveva appena interrotto i miei pensieri.

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-cosa?”. Improvvisamente mi resi conto di non riuscire più a riaprire gli occhi. “Voglio, Voglio, Voglio. Vuoi tante cose”,

una voce mi stava scimmiottando. Ero intrappolata nel buio, senza la possibilità di uscirne. “Ma, ma, cosa?”.Avvertivo degli esseri incorporei girare in tondo in-torno a me. I miei polmoni congelarono.“C-cosa succede?”Davanti a me si illuminò improvvisamente una lan-terna mostrando sotto di essa una porta, con delle finestrelle in alto, attraverso le quali si vedeva solo il buio, come un riflesso.“No…”, non riuscii a capire. Stava succedendo tut-to così in fretta. Perché? Avevo passato tutte le prove no? Innervosita e spaventata allo stesso tempo, spalancai quella porta. Ero stufa. Come immaginavo, la porta mi riportò a quella spiaggia. Ormai conoscevo bene quel posto.“Cosa succede!?”, urlai cercando l’attenzione di Morfeo, “Dove sei!?”.Il mio richiamo funzionò, il dio si materializzò pro-prio di fronte a me, facendomi trasalire e fare qual-che passo indietro.“Come mai sono ancora qua?”, mi lamentai.Lui non rispose, ma mantenne sul suo volto un

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sorriso canzonatore.“Perché mi fai questo? Avevamo fatto un patto!”, io cominciai a scuotere la testa, ero stanca di pian-gere, finiva sempre che piangevo. La mia vita era forse stata destinata al pianto? “Perché mi guardi così? P-erc-”, la mia voce si strozzò quando le lacrime e i singhiozzi comincia-rono a prendere il sopravvento.Caddi a terra in ginocchio, mi faceva male la testa, mi sembrava di avere la febbre in quel momen-to, siccome la fronte era bollente e le mie menin-gi scoppiavano di dolore. Tenni un mano premu-ta sulla tempia e feci di tutto pur di non guardare in volto quell’entità che mi aveva fatto passare le pene dell’inferno e non voleva smettere di farmi soffrire.“P-perché? Perché?”, sussurrai io con un filo di voce.Morfeo si avvicinò a me e tese la sua mano, “Alza-ti”, non si era ancora scollato quel fastidioso sorri-so di dosso.Io tentennai molto in quel momento. Non avevo assolutamente intenzione di obbedirgli. Mi aveva rovinato la vita. Fu allora che compresi.“Era quella la terza prova, non è vero?”, gli rivolsi un breve sguardo spaventato, “Mi avete inganna-ta. Mi avete fatto credere che la prova fosse termi-nata”. Li odiavo. Li odiavo tutti, fino all’ultimo dannato dio.

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Scoppiai nuovamente in singhiozzi.“Alzati”, ripeté lui autoritario.“No! Non ci verrò con te!”, affermai io terrorizza-ta. Mi sentii presa in giro. Il danno e pure la beffa. Mi trattenni dall’insultarlo unicamente per paura di essere punita, dopotutto era un dio e se lo avessi offeso in qualche modo non mi avrebbe dimostrato alcuna pietà.“È il mio ultimo avvertimento: alzati”, ripeté impas-sibile, incutendomi non poca paura con quella fra-se.Io mi alzai lentamente senza prendere la sua mano, non riuscii a guardarlo negli occhi. Continuavo ad evitare il contatto visivo, un po’ per paura, un po’ in segno di protesta.“Perché non ho passato la prova?”, chiesi, sempre sfruttando i miei pensieri per comunicare con lui.Lui non rispose. Non confermò che avevo sbaglia-to, ma neanche che avevo fatto giusto.Nel frattempo il suo braccio era rimasto teso. Era intenzionato a portarmi da qualche parte? Se non mi rispondeva riguardo alle prove, come potevo sapere che cosa mi sarebbe successo? Singhiozzante, decisi di farmi coraggio, per l’ultima volta, e di affrontare il mio destino. Forse era quel-lo il problema: dovevo accettare il mio destino. Gli lasciai prendere la mia mano, rabbrividendo al suo tocco. In quel momento qualcosa al mio collo si illuminò. Avevo ancora indosso il pendente di mia

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madre. “Padre”, con mia grande sorpresa, mi accorsi che non ero stata io a dire quella parola, ma era stato Morfeo stesso.Lanciai un’occhiata prima a lui e poi al mio penden-te, notando che il dio stava effettivamente guar-dando in quella direzione. Lui lasciò delicatamente la mia mano e, dopo avermi guardata intensamen-te negli occhi, svanì come fumo al vento.“Cosa sta succ-”, pensai io guardando la collanina, che aveva cominciato a vibrare e a levitare, rima-nendo sempre appesa al mio collo.Subito dopo, comparvi all’interno della capanna di legno nella quale ero già stata in un precedente sogno. L’assenza del dio al suo interno mi dette la possibilità di ispezionare quella stanza: c’erano un tavolo di legno e un letto di paglia. Appariva come una banale dimora pastorale antica, a parte che per una serie di papiri stesi sul tavolo. Mi avvici-nai e provai a leggere quello che vi era scritto, ma la lingua era incomprensibile. Provai ad uscire da quel luogo e ci riuscii.Una volta all’esterno, ebbi davanti a me quel pa-esaggio spettacolare. In sottofondo sentivo delle risate e suoni gioiosi. Dovevano essere quelle per-sone che avevo già visto l’ultima volta che ero stata su quell’isola. Seguii quelle voci, fino a giungere ai piedi di quel promontorio, ritrovandomi davanti uno spiazzo verde e fiorito. Era tutto così armonioso da

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farmi pensare di essere finita nell’Eden. Non molto lontane c’erano tre donne, completamente nude, che cantavano e danzavano festanti. Un po’ im-barazzata mi allontanai, restando ad una distanza che mi permettesse di osservare quella meraviglia e, allo stesso tempo, di essere al sicuro. Mi infasti-diva terribilmente il fatto di non riuscire a compren-dere quello che stava accadendo. “Perché ti sei illuminato?”, riferii i miei pensieri al pendente, “Se fossi in grado di spiegarmelo sa-rebbe fantastico. Poi, per quale ragione Morfeo è svanito così all’improvviso? E poi perché sono stata trasportata qua?”. Tante, troppe domande af-follavano la mia mente in quel momento. Ormai la differenza percepibile tra realtà e sogno stava sva-nendo. Mi sentivo come se stessi per impazzire. Volevo capire, ma allo stesso tempo sentivo di non poterlo fare.“Perdona la mia assenza”, eccolo, nuovamente alle mie spalle, “Seguimi”.Mi fece strada verso la cima del promontorio.“Dove mi stai portando?”, pensai io.“Lo vedrai presto”.Raggiungemmo la cima del promontorio, non per-cepivo stanchezza, nonostante avessi camminato tanto. Lui mi fece osservare il panorama.“Bello, vero?”.Dalla cima di quella montagna si potevano vedere il mare e le altre isole, il verde, il blu e l’azzurro era-

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no così brillanti da darmi l’impressione di essere stati dipinti.“Sì”, risposi a bassa voce, mirando costantemente a terra con lo sguardo.“Non avere paura”, a quelle parole, dentro di me si accese nuovamente l’agitazione, “Non ti farò del male”, mi prese il volto tra le mani. Bastò quel toc-co a calmare la mia ansia, un solo tocco.Avevo tanta voglia di chiedergli nuovamente della prova, ma non ci riuscii.“Non potrei mai fare del male al sangue del mio sangue. So che hai tante domande. Ogni risposta giungerà al momento opportuno”, ritornò a guarda-re il panorama.“Quindi… non mi punirai ancora?”, chiesi a bassa voce.“Punirti? Chi ha parlato di una punizione?”.Io rimasi interdetta, senza riuscire a spiccicare al-tre parole. Lui sorrise ancora.“Gli umani cercano sempre ostacoli dappertutto, quando l’unico ostacolo in realtà sono loro stessi”.Dopo quelle parole, mi prese una mano con una delle sue e l’altra me l’appoggiò sulla tempia.In un lampo, un vecchio ricordo, probabilmente non mio, mi emerse alla mente: ero piccola, non sapevo quanti anni avessi di preciso, ed ero a let-to. Mio padre mi aveva appena dato la buona notte e io ero in procinto di chiudere gli occhi per addor-mentarmi, quando nella stanza giunse Morfeo. Mi

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si avvicinò e, con un papavero, mi chiuse gli occhi e mi baciò la fronte. Vedendo quella scena ebbi dei brividi, come se quel bacio lo avessi ricevuto proprio in quel momento.“Q-quella sono io”, affermai l’ovvio.“Esatto. Ti ho fatto visita ogni notte, desideravo conciliare il tuo sonno. Così è stato fino ad ora”“Mi sento incredibilmente stupida. Continuo a non capire per quale ragione non potete fare nulla per questa maledizione. Voi stesso l’avete creata”.Sul suo volto balenò un’espressione comprensiva e paziente, “La terza prova che hai dovuto supe-rare è esemplare in proposito. La maledizione l’ho creata io, è vero, ma è stato l’essere umano ad ali-mentarla e nutrirla con la paura e con l’odio. Perciò è come se questa maledizione fosse divenuta una divinità a sé stante. Una divinità, mia mostruosa figlia, che continua a perseguitare dopo millenni i successori di Oneira”.“Allora è fuori dal vostro controllo?”“Non totalmente, posso controllarla per quanto ba-sta a non far addormentare per sempre qualunque essere umano, questa creatura è figlia delle azioni dell’uomo e di quelle divine”“Eppure voi avete maledetto Oneira, quella pove-ra ragazza, solamente perché vi aveva rifiutato”, sentenziai, pentendomi subito di quello che avevo detto.Lui nel frattempo continuava ad osservarmi, era

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molto inquietante quanto fosse penetrante il suo sguardo.“È così”, confermò lui, “Ho scelto io di maledire Oneira e la sua famiglia. Scelsi di farlo tanto tem-po fa. Sono un dio, normalmente non sono tocca-to dai problemi umani, ma ci sono stati così tanti altri, prima di te, che hanno cercato di spezzare questa maledizione, talmente tanti che fui convinto già molto tempo fa ad annullarla. Purtroppo scoprii che essa aveva cominciato ad acquisire vita pro-pria, dopo aver notato che ogni donna che veniva liberata dal vincolo terminava la sua vita molto pre-cocemente”.“Credo di aver capito”, risposi alla sua spiegazio-ne.In realtà, per quanto potessimo discutere su quell’argomento, sapevo che non mi sarei mai tro-vata pienamente d’accordo con lui. “Ho affrontato già diverse volte la mia stessa ma-ledizione”, continuò lui, “Continuo a farlo ancora adesso”, con queste parole terminò il suo discorso.Non capii bene la ragione, ma quelle parole mi ave-vano fatta rabbrividire, mi sentii strana, come se il suo sproloquio mi avesse toccata nel profondo.“Mi terrete qui ancora per molto tempo?”“In realtà vorrei poterti tenere qui con me per sem-pre…”, affermò sfiorandomi la guancia con le tie-pide dita, “… ma mio padre ha deciso il meglio per te”.

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“Hypnos?”, chiesi io, “Vostro padre ha deciso?”“È sempre troppo buono con gli umani”, affermò lui, il suo volto fu rigato da un ghigno. Sembrava disapprovare proprio la decisione di Hypnos, ma allo stesso tempo mi infondeva il dubbio: stava di-cendo la verità o mentiva?“Immagino che non potrò ancora conoscere il mio futuro”.Lui mi appoggiò una mano sulla testa. Avevo co-minciato ad avvertire una sottilissima affinità tra noi due. Non sapevo nemmeno perché continuavo a dargli del Voi. Per quanto si trattasse di una cre-atura divina, mi sentivo incredibilmente vicina a lui. Quello che provavo in quel momento era un misto micidiale di amore e odio. Tutto il tempo che avevo passato con Morfeo mi aveva permesso di avvici-narmi sempre di più spiritualmente a lui. Anche se non ero d’accordo per molti versi con le sue azioni, mi sentivo incredibilmente affascinata da quella di-vinità, così misteriosa e magnifica, ma allo stesso tempo così vicina all’essere umano e ai suoi errori.

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arrivato il momento”, sentenziò Morfeo. “Il momento per cosa?”, nei miei pensieri c’era ancora la paura. Quale sarebbe stato

il mio destino?Lui mi sfiorò per l’ultima volta il volto con le sue mani soporifere.“Dirigiti verso il mare, non devi voltarti mai indietro”, detto ciò si dileguò, trasformandosi in una nera nu-voletta di fumo.Io, un po’ impaurita dalla sua affermazione, seguii la sua indicazione. Raggiunsi lentamente il mare, provando a non guardare indietro, anche se era difficile, ogni tanto il mio sguardo era catturato da esseri che si muovevano intorno a me, mentre at-traversavo quel verde prato. Degli insetti e degli animali mi passavano intorno, cercando di disto-gliere la mia attenzione dal mio principale obbiet-tivo. Andai avanti. Sentivo che non avrei dovuto voltarmi indietro, altrimenti mi sarebbe successo qualcosa di brutto, eppure allo stesso tempo sen-tivo di stare abbandonando qualcosa a cui ero af-fezionata. Una grossa tentazione di voltarmi e sa-lutare tutto quello un’ultima volta mi assalì. Questa forza superiore mi fece girare per metà la testa, senza vedere nulla dietro di me però, nemmeno con la coda dell’occhio. Dovevo smetterla. Rag-

“E’

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giunsi il mare. Dovevo andare avanti e avevo ca-pito come fare. “È tutto un sogno Yvonne. Forza, ce la puoi fare”. Marciai, entrando nell’acqua fino a sprofondare le mie ginocchia. In quel momento cominciai a piangere, non sapevo nemmeno io il perché. Ebbi un dejà vu. Continuai ad affondare il mio corpo in quella tiepida acqua, fu allora che mi girai. Non guardai dietro di me, ma il mio sguardo fu catturato da una ragazza che mi stava fissando su un’altra riva. Perché mi era così famigliare il suo volto? Fu allora che decisi di smetterla. Dovevo an-dare. Guardai la superfice del mare incresparsi e intorbidirsi. Mi tuffai al suo interno, senza emettere un solo rumore.

Sentivo il corpo tutto intirizzito, i piedi mi stavano formicolando. La mia schiena era rigidamente ap-poggiata al materasso. Avevo le mani posate sulla pancia, le dita incastrate tra loro. Sembravo una mummia. Non ricordavo di essermi addormenta-ta in quella posizione. Mi raddrizzai, mettendomi seduta. Cosa era successo? Non riuscivo a ricor-darmi molto del sogno che avevo fatto. Doveva essere stato un sogno strano, particolare, perché avevo ancora una strana sensazione che mi face-va battere forte il cuore.Ero all’interno della mia stanza. In quel momen-to mi ricordai che ero andata a dormire dopo aver studiato con Colin, che infatti si trovava proprio ac-

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canto a me in quel momento.Cosa avevo sognato di tanto bislacco da non riu-scirmi a scollare quei pensieri di dosso? C’entrava qualcosa un patto con gli dei, ma non riuscivo a ricordarmelo bene. Sapevo però che quei pensie-ri sfocati, durante la giornata, sarebbero comple-tamente scomparsi, facendomi dimenticare ogni cosa.

«Buongiorno», mi disse mia madre, che aveva preparato la colazione. «Mamma», affermai io senza capirne il motivo. «Che c’è?», mi chiese in tutta risposta. «Oh, nulla», continuai io con la sensazione di es-sermi dimenticata qualcosa di importante, «Mmh, pancakes, buoni!» «Guarda come sono usciti bene, belli vero?», mi chiese un parere lei. «Sì, ti sono usciti bene».Mi alzai dalla tavola per andare a chiamare Colin, che stava ancora dormendo. Dopodiché tirai fuori dal frigorifero la marmellata alle more, la mia pre-ferita, e cominciai a mangiare con avidità quel cibo divino, come se non avessi mangiato per secoli. «Piano», mi fece mia mamma, esortandomi a rallentare, «Guarda che poi stai male»Io la ascoltai, «Giusto. Scusa mamma».Mia madre sorrise e si sedette anche lei. «Qualcuno ha mangiato il mio scimmiotto pupaz-

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zo», entrò in salotto Colin con la voce roca, sbadi-gliante. «Chi?», gli chiesi io divertita al solo pensiero del-la sua risposta. «Sei stata tu, mangiona. L’avevi scambiato per un pancake», affermò un po’ offeso.Io risi e con me anche mia madre, alla quale uscì un po’ del latte che stava bevendo dalla bocca. «Tu perseguiti la mia scimmia vampiro anche nei miei sogni», continuò, «Io non li mangio più i pancake con te». «Io invece ho fatto un sogno parecchio strano. Peccato che non mi ricordo nulla» «Un sogno strano?», attaccò mia madre, «Anche io ho sognato qualcosa di nonsense questa notte» «Sì? Ti ricordi cosa hai sognato?», le chiesi io incuriosita. «Ho sognato la nonna e te, eravate insieme nello stesso posto. Io ero un uomo nel sogno»A quelle parole io risi, pensando a mia madre con la barba e i baffi. La nonna non c’era più da molti anni, ma era bello risentirla nominare ogni tanto e, soprattutto, rive-derla in sogno. «Secondo me, mamma, tu in una vita passata sei stata un uomo» «La nonna cosa faceva?», chiese Colin incurio-sito a sua volta dall’argomento. «Nulla di ché, stavamo parlando del più e del

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meno. Non ricordo precisamente» «Accidenti! Perché nessuno si ricorda del proprio sogno tranne me?», chiese Colin alzando un po’ la voce, «Insomma, sono curioso!»Mentre ridevamo come degli scemi di prima matti-na, udimmo il rumore metallico della serratura del-la porta d’ingresso. Cotton si fiondò subito davanti alla porta strusciandovisi addosso. Dal tavolo in-travidi mio padre che era appena entrato in casa. «Ciao papà!», gli corsi incontro, peggio del gatto, e lo abbracciai. «Ahi, ahi. È arrivato mio suocero», scherzò fin-gendo di tossire Colin. «Guarda che ti sento. Faremo i conti dopo», gli rispose a tono mio padre, coccolandomi come se fossi stata ancora una bambina.Si sedette anche lui al tavolo con noi e prese parte alla nostra conversazione. «Allora, come è andato il lavoro?», gli chiese mia madre, ritornando seria. «Pesantemente, ma è andato. Domani presen-terò il progetto in agenzia. Ho lavorato tutta la not-te», rispose mio padre. Solo in quel momento riuscii a notare la sua aria stanca e le sue occhiaie. «Perdonatemi se non sto qui a mangiare con voi. Credo che andrò a riposare», si alzò dalla tavola. «Ma come? Non mangi?», insistette mia madre, un po’ contrariata.

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Lui scosse la testa e andò in camera da letto. «Va bè», buttò lì mia mamma ancora stizzita.In quel momento mi ero completamente dimen-ticata del sogno che avevo fatto. Se prima mi ri-cordavo qualcosina, mi bastarono pochi minuti per dimenticarmene del tutto. Ricordavo solo la stra-na sensazione che avevo provato la sera, prima di addormentarmi. Quel delicato tocco che avevo percepito sulle palpebre.

Il pomeriggio c’era scuola. Io e Colin ci andammo insieme, mano nella mano. Eravamo anche in an-ticipo quel giorno, quindi potevamo permetterci di camminare più lentamente. «Sai una cosa?», mi chiese lui. «Cosa?» «Stavo pensando... riguardo a quello che ab-biamo studiato ieri. Sai, per la lezione di storia: tu cosa ne pensi degli dei greci?»A me parve un po’ una domanda campata per aria. «In che senso: cosa ne penso?» «Nel senso: secondo te perché molti popoli ten-dono a creare entità superiori di quel tipo?» «Non saprei. Forse perché riescono a spiegarsi la natura e cose del genere solo in quel modo» «Non credo che sia così», continuò Colin, «Al-trimenti gli esseri umani vivrebbero con la paura degli dei… e non è così. Almeno, non è così per tante persone»

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«E come pensi di spiegare questa questione?», lo stuzzicai io. «Non saprei nemmeno io… è semplicemente incredibile come gli esseri umani spesso abbiano la necessità di credere nella magia e nel sopran-naturale»Io sorrisi. Era quello che pensavo anche io. Era un argomento antropologico abbastanza complicato e che spesso mi era capitato di trattare nei miei di-scorsi. La mitologia mi aveva sempre affascinata. Amavo i racconti fantastici.Quando raggiungemmo la nostra scuola, fu il mo-mento di separarci. «In bocca al lupo per il test di oggi», mi incorag-giò lui, «Vedrai che andrà bene. Sei brava in storia, soprattutto se ci sono di mezzo dei miti pastorali».Lo salutai con due baci a stampo sulla bocca e mi allontanai, girandomi ogni tanto per guardarlo andarsene. Mi feci strada tra i ragazzi che occu-pavano i corridoi e mi diressi al mio armadietto per appoggiare la mia roba. “Questi umani. Quante cose inventano per spiega-re l’inspiegabile”, pensai io mentre osservavo il fo-glio del test che ci aveva appena consegnato l’in-segnante. Non sapevo per quale ragione lo stessi pensando. Non capita anche a voi di pensare qualcosa, ma di non capire il perché?

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«Come è andato l’esame?», mi interrogò mio padre, che aveva passato la giornata a dormire e sembrava essersi ricaricato di energia come una batteria. «Non saprei…», risposi io molto incerta riguardo al risultato, «Non mi sembra di essere andata così tanto bene» «Bè. Vedremo il risultato».Mio padre mi osservò attentamente sorridendomi. «Sei identica a tua madre»Cos’era quella storia? Adesso come mai se n’era uscito con quella frase? «C-credo di sì», risposi confusa. «Hai i suoi stessi occhi, la stessa forma del viso. Vero Mamma?», interrogò mia madre. «Vedi? Tutta la sua mamma», rispose lei fiera-mente. «È anche modesta, come te. Sai, tua madre ha sempre il terrore di sbagliare, quando in realtà è sempre stata molto brava nel suo lavoro», si era sentita l’ironia nella prima frase. «Adulatore», rispose mia madre gongolando un po’.Io non potei non sorridere vedendo quella dimo-strazione di affetto di mio padre verso mia madre. Per un attimo avevo avuto un altro dejà vu, ma sarà stata la mia solita sensazione. «E quel pendente?», mi chiese lui indicando il mio collo.

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«Questo?», lo presi in mano, «Me l’aveva re-galato la mamma per il mio compleanno. Adoro i papaveri», feci una faccia dolce.Mio padre si mise a ridere. «Ne prenderò atto quando dovrò farti un regalo», mi fece un occhiolino.Io lo imitai. Li avvisai che sarei andata in camera mia a scri-vere. Stavo scrivendo un monologo già da un po’ di tempo. Qualche tempo prima avevo fatto legge-re alla mia insegnante di teatro una prima bozza e le era piaciuto davvero molto. Mi aveva offerto di leggerlo nel nostro prossimo spettacolo, come aggiunta artistica che, secondo lei, sarebbe stata apprezzata dal pubblico.Mi sedetti alla scrivania e revisionai l’ultima par-te del monologo. Avevo deciso di fare un discor-so incentrato sulle stramberie dell’essere umano e della sua storia. Avevo parlato un po’ delle varie epoche, dall’età della pietra ai giorni nostri, strin-gendo di molto il contenuto complessivo. Avrebbe dovuto essere un discorso introspettivo e anche un po’ divertente. Avevo cominciato a scrivere una parte riflessiva riguardante gli dei. “L’intervento di un dio è qualcosa di naturale. Una naturalità che se modificata potrebbe cambiare cose che in realtà sono fondamentali nella vita di tutti i giorni e il cui mutamento causerebbe solo danni. Se prendessimo come esempio un giovane

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contadino e questo andasse davanti a Demetra e le chiedesse di far crescere gli olivi prima del tem-po, o andasse a pregare Poseidone di far nascere più pesci nel mare; ora, anche se la sua famiglia stesse per morire di fame, pensate a cosa potreb-be succedere se Demetra o Poseidone si convin-cessero davvero ad aiutarlo. La natura verrebbe modificata per un capriccio umano e questa ma-nipolazione potrebbe portare ad un’esagerata cre-scita degli olivi o della popolazione marina, fino a nuocere allo stesso uomo. Gli dei quindi sono nati per dei capricci prettamente umani? Probabile. Gli dei rispecchiano i capricci umani, come l’acqua dello stagno rispecchiava l’immagine di Narciso prima che vi ci si buttasse dentro. Gli umani cer-cano sempre ostacoli dappertutto, quando l’unico ostacolo in realtà sono loro stessi”. Buttai giù quel testo in un lampo. Tutte quelle pa-role erano già scritte e stampate nella mia men-te. Ci volle poco per me a stenderle sul foglio, era come se la mia mano fosse stata comandata da una musa ispiratrice. «Fantastico», affermai parlando da sola.Ero veramente fiera di me, nonostante sapessi che avrei trovato parecchi errori in quel testo una volta ricorretto. «Come sta la mia bimba? Lo vuoi un tè?», mia madre era entrata in camera mia di soppiatto, spa-ventandomi un poco.

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«Sì certo», sorrisi io.Mi piaceva tanto la mia vita, la amavo, e mi consi-deravo molto fortunata ad avere dei genitori così fantastici, di avere Colin, le mie passioni e tutto il resto. In quel momento mi sentii come se stessi vivendo all’interno di un meraviglioso, spettacolare e insu-perabile sogno.

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ra infuriato. Così fuori di sé che avrebbe po-tuto spaccare la porta, o anche il muro, di ca-mera sua a pugni. Come poteva essere così

stupida? Come poteva non pensare agli altri, non pensare a lui? Cosa avrebbe fatto lui senza di lei? Sarebbe andato ogni mattina a scuola aspettan-dola pur sapendo che non l’avrebbe più trovata, avrebbe cercato la sua treccina in ogni ragazza che le somigliava un pochino speranzoso di rive-derla? Si gettò sul letto e strinse forte il suo viso sul cu-scino. Là sopra c’era ancora il suo portatile, che fece un piccolo salto. Lui allungò istintivamente il braccio per non farlo cadere. Non sopportava di essere così impotente davanti ai sogni di Yvonne, non riusciva a perdonarsi il fatto di non poter di-fendere la sua amata, da un così crudele destino. Lei era tutto per lui. Aveva vissuto tutti i momenti importanti della sua vita con lei. Lei doveva fare parte della sua vita.

E

Un pensiero mi strugge il cuore:Che possa essere io, l’artefice dei miei mali?

Che possa tutto questo essere un mio gigantesco delirio?

La tristezza infinita mi trasporta e mi cullanella tana del Sonno, che tutto fa tacere.

Incantato dal magico suono di quel ruscello,il mio corpo vacilla e mi supplica di dormire.

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Improvvisamente scattò in piedi e si diresse verso la sua libreria, tirando fuori una scatola ben nasco-sta dai libri. La aprì e ne trasse dei dvd. Ricordava di aver fatto lui stesso la copertina di quei dischi. Ne tirò fuori uno, il primo, e lo inserì nel lettore del suo pc. Qualche ronzio fu seguito dalla comparsa della finestra del lettore. Eccolo lì, il suo menu, il loro menu. Avviò il film. Appena poté rivedere i primi montaggi che aveva-no fatto insieme con Movie Maker, le sue labbra tremarono. Desiderava così tanto riavere la sua infanzia. Solo con la sua infanzia avrebbe riavuto Yvonne, la vera Yvonne. Quella che lo aveva sem-pre incoraggiato e difeso. Doveva essere arrivato il momento che fosse lui ad incoraggiarla e difen-derla. Aveva bisogno di lei, del suo affetto, del suo amore.“Quanto è sciocca”, pensò infastidito, chiudendo lo schermo del portatile.Si era fatta ormai sera, aveva guardato integral-mente uno dei loro vecchi dvd. Quello spettacolo gli aveva ridato la voglia di andare da lei. Uscì dalla sua camera. Passando accanto a suo padre, che lo bloccò.«Colin, potresti portare l’ombrello a tua madre, per favore? Io adesso devo andare a fare la spesa».Lui annuì silenziosamente. Avrebbe dovuto cam-biare programma quindi: sarebbe passato prima all’ospedale e, subito dopo, a casa di Yvonne.

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Indossò la sua giacca e si mise in viaggio. L’aria era così fredda quel giorno. Il vento gli aveva con-gelato gli occhi, infatti faceva una grande fatica a tenerli aperti. “Proprio il tempo ideale”, pensò sar-castico. Probabilmente da un momento all’altro avrebbe ricominciato a nevicare. Si tirò su il cap-puccio per salvare almeno le orecchie da quella fastidiosa temperatura.Un po’ si sentiva in colpa di andare prima da sua madre per una cosa così sciocca e poi da Yvon-ne per una cosa tanto seria, ma accettò il fatto e continuò a camminare. L’ospedale era solo a due chilometri di distanza, che si potevano fare a piedi tranquillamente, oppure con i mezzi. Di solito lui li faceva a piedi.Cercò di incoraggiarsi nel frattempo, pensando che Yvonne non sarebbe morta. Non avrebbe mai potuto fargli una cosa del genere. Non riusciva a credere che avevano litigato in quel modo. Non gli era mai successo di decidere di andarsene e la-sciarla da sola, non era mai stato così tanto arrab-biato con lei. Doveva farsi perdonare, o forse era lei che doveva chiedergli scusa?Raggiunse l’ospedale con le mani ormai congela-te. Non avrebbe mai più lasciato i guanti a casa, in quel momento si era reso conto della loro vita-le importanza. Non riusciva più a muovere le dita, che gli si scongelarono lentamente provocandogli dei formicolii. Si diresse verso il reparto di terapia

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intensiva, attraversando i lunghi corridoi bianchi, annusando quell’aria antisettica, e cercando con lo sguardo sua madre. Incrociò gli occhi con una sua collega. «Ciao Colin! Stai cercando Dana?».Lui rispose con un “Sì” un po’ spento. «È in magazzino adesso, se vuoi te la chia-mo» «Grazie, molto gentile».La osservò allontanarsi e, nel mentre aspettava, si sedette su una delle sedie della sala d’aspetto. «Ciao!», lo salutò sua madre, «Perché sei venuto fin qui?», lo guardò sorpresa. «Ti ho portato l’ombrello», rispose. «Grazie…», lo ringraziò la madre, forse un po’ delusa dalla motivazione della visita, «Vuoi che ti offra qualcosa dopo? Sei venuto a piedi con que-sto freddo. Sei matto», lo rimproverò storcendo le labbra. «No mamma. Ho da fare» «Ah sì? Dove vai?», si impicciò lei. «A casa di Yvonne» «Guarda che Yvonne e sua madre sono qui adesso. Sono venute a far visita alla nonna. A pro-posito, tra poco devo andare a controllare come sta la paziente. Se vuoi puoi venire con me e le dico che sei qui»Colin annuì sorpreso. Se Yvonne era ancora sve-glia poteva solo voler dire che non aveva tentato di

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fare sciocchezze la sera prima.Seguì la madre, un po’ agitato dentro di sé. Rag-giunsero la porta della stanza dove era ricoverata sua nonna. Non fecero in tempo ad aprirla però che la voce di Yvonne si cominciò a sentire anche dall’esterno. Stavano litigando? La madre di Colin aprì la porta. «Tu, madre, dovresti essere fiera di questa cosa. Io posso spazzare via questa tortura. Solo io posso e tu volevi nascondermi queste capacità», la voce di Yvonne appariva autoritaria. Non l’aveva mai vista parlare in quel modo, soprattutto a sua madre. Rimase scioccato. «Yvonne», la madre di Yvonne aveva un vol-to supplicante.Appena la ragazza li vide entrare, lanciò lo stesso sguardo anche a lui. «Scusate. Devo solo controllare che i valori siano a posto», affermò la madre di Colin, fingendo di niente. «Cosa ci fai qui?», il tono della sua voce sembrava stizzito. «Sono venuto qui per portare a mia madre una cosa», rispose lui infastidito e spaventato allo stesso tempo. Quella non era più la sua Yvonne. La forte, dolce, sensibile Yvonne che aveva cono-sciuto da bambino. Era la sua maledizione a parla-re, non lei. Sembrava completamente posseduta.La sua ragazza gli passò accanto mantenendo

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sempre quello sguardo. Gli stava facendo paura. Uscì dalla stanza, dirigendosi verso l’uscita.Lui salutò sua madre. Doveva seguirla e chiederle delle spiegazioni. Rivoleva indietro la sua ragaz-za. Camminò il più velocemente possibile, ma lei si era già dileguata. Però lui sapeva dove andava Yvonne ogni volta che stava male. Fu per questo che non gli ci volle molto tempo per ritrovarla. La casa di sua nonna non era lontana.Gli sarebbe bastato uno sguardo, un solo sguardo per capire se lei desiderava ancora che facesse parte della sua vita. Suonò, con la mano tremante, un po’ per il freddo, un po’ per l’ansia. Quando lei gli aprì la porta i suoi occhi si illumina-rono. «Ciao», le disse. Non sapendo come iniziare il discorso. «Cosa vuoi?», rispose brutalmente lei. «Rivoglio indietro la mia Yvonne».Colin la spintonò, entrando. Lei chiuse la porta. Sembrava che non gliene fregasse nulla di lui. Lui si piazzò in mezzo alla stanza, pronto a impe-dirle di andare da qualsiasi altra parte. «Ridammi la mia Yvonne!», urlò.Yvonne rimase muta ad osservarlo, senza proferi-re parola. Lui allora si avvicinò a lei, fino a metter-la alle strette. Erano così vicini, che la tentazione di baciarla era fortissima, ma prima voleva vedere cosa gli dicevano i suoi occhi.

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«Lasciami in pace», disse lei. Nella sua voce si percepiva un cambiamento.Colin la strinse ancora di più a sé. «P-per favore. Lasci-ami».Lui allentò un po’ la presa, notando che le stava facendo male. «No. Non ti lascerò mai più. Non ti libererai di me così facilmente, lo sai? Pensi veramente di avere il potere di allontanarmi da te semplicemen-te dicendomi di andarmene? Credi davvero che il mio amore sia così debole da cedere sotto que-sto tuo comportamento? Ridammi la mia Yvonne: quella dolce, quella espansiva, quella che mi ha insegnato ad essere più socievole, quella che ha rubato il mio cuore con un singolo bacio. Ridammi la mia Yvonne e, forse, ti lascerò in pace».Eccolo, vide nei suoi occhi quello sguardo, quello sguardo che lo aveva sempre incantato. «Grazie».

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a stanza era fiocamente illuminata dalla luce notturna. Era lì da qualche ora, stava osser-vando sua figlia mentre tentava di dormire

invano, infastidendo il ragazzo che aveva addor-mentato poco prima. Le si avvicinò, con la calma e la delicatezza che lo contraddistinguevano, e le accarezzò gli occhi con il papavero rosso, suo fedele compagno di viaggio di ogni notte. Questo avrebbe dovuto do-narle la pace del sonno e il ristoro del corpo. La osservò mentre chiudeva gli occhi, nascondendo le sue iridi color nocciola. Non riusciva mai a smet-tere di osservarla. La sua bellezza, benché simile a quella della madre, la superava di gran lunga. Era sempre così quando si trovava davanti ai suoi figli. Si rendeva conto anche lui di essere troppo legato a quel mondo, nonostante non fosse il suo. Hypnos aveva ragione ad affermare che se si fos-se affezionato troppo a quel mondo non avrebbe più potuto essere quello che era. Doveva seguire le parole di chi era più vecchio e saggio.Una parte di lui, in quel momento, era ovunque, proprio per garantire il sonno a qualunque essere umano. Era quello il suo scopo, dopotutto. Nono-stante ciò, percepiva uno strano legame con quel-la ragazza. Era successa la stessa cosa con molte

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altre sue figlie attaccate dalla sua antica maledizio-ne, ma con lei era diverso. La sua sensibilità era ad un livello altissimo. Era così facile manipolare i suoi sogni. Forse avrebbe potuto calmare il suo subconscio, forse avrebbe potuto portarle la pace. Tutto stava a lui. La sua stessa maledizione gli si stava ritorcendo contro. Dopo tutti quei millenni, quando anche il sol fatto che esistesse ancora era incomprensibile, non aveva più senso di sussistere. Lui avrebbe po-tuto sistemare le cose, ma non sapeva nemmeno cosa fosse a tentarlo realmente, cosa lo spingesse a desiderare di cambiare ciò che lui stesso ave-va contribuito a trasformare in realtà. Non poteva alterare nuovamente tutto quanto, perciò c’era un solo modo per lavorare su quella maledizione: do-veva capire che cosa lo stesse spingendo a vo-ler cambiare tutto, per prima cosa, e poi in base a quella cosa avrebbe risolto la situazione. Se quella maledizione fosse diventata ancora più potente, ne avrebbe perso totalmente il controllo e questa avrebbe modificato la naturalità di molte cose. Fu un attimo ed eccolo nel sogno di Yvonne. Forse era quella ragazza l’origine del suo desiderio? Era per lei che intendeva aggiustare le cose? Forse avrebbe potuto, ma gli servivano i suoi sogni per raggiungere il suo scopo. Tramite i sogni di sua figlia e le sue paure più profonde avrebbe potuto attirare la maledizione, per poi annientarla dopo

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averla fatta crescere nel corpo di Yvonne. L’avreb-be difesa da questa degenerazione, non voleva nuocerle in alcun modo. Il suo sonno e i suoi sogni dovevano essere suoi. Perché questo potesse ac-cadere quella maledizione avrebbe dovuto sparire.Doveva sfruttare Yvonne come vettore per incana-lare quell’entità e cancellarla per sempre dalla vita di sua figlia, senza incappare in ulteriori compli-cazioni. Sarebbe stato difficile quel gioco subcon-scio, ma per lui sarebbe stato fattibile. Solo così l’avrebbe avuta tutta per sé.In quel momento la maledizione stava disturbando già il sogno della ragazza.“Per favore. Non voglio dimenticare ancora”, la ra-gazza si gettò a terra, rannicchiandosi.“Perché mi succede questo? Non voglio dimenti-care. Ti prego”.A quel punto decise che era troppo, non avrebbe permesso all’entità di scioccare ulteriormente sua figlia. Doveva ricordare a Yvonne il motivo per cui era in quello stato. Doveva provare a comunicar-glielo, nonostante i disturbi dovuti all’influenza del-la maledizione. “Voglio… Voglio… Voglio”, ripeté più volte quella parola, per assicurarsi che la ragazza la potesse sentire, “Voglio essere un uccellino”, imitò la sua voce, “Voglio rimanere per sempre qui… Voglio vi-vere per sempre questo momento… Voglio dimen-ticare”.

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Una voce, al di fuori del sogno, lo richiamò. L’an-ziana donna gli stava parlando con i suoi pensieri.“Per favore, proteggi la mia Yvonne. Io sono già finita ormai. So che è speciale. Per favore, prendi-tene cura”.Morfeo ascoltò attentamente la preghiera della si-gnora, la conosceva bene. “Me ne prenderò cura. Mia figlia sarà sempre sotto la mia protezione”.

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e ne prenderò cura. Mia figlia sarà sem-pre sotto la mia protezione”.Terminò l’ultimo rigo e si bloccò, rima-

nendo fissa su quella frase. Era finita. Era finita così. Posò la penna a sfera e si alzò dalla sua scrivania. Aveva bisogno di prendere un po’ d’aria.Uscì in giardino, lasciando che l’odore dei fiori d’a-rancio le solleticasse il naso e le riportasse alla mente antichi ricordi. Era da una vita che scriveva, ma nessun racconto, nessuna novella, nessun ro-manzo le aveva mai fatto quell’effetto. Non sapeva nemmeno come spiegare a sé stessa quello che stava provando, eppure di solito era brava a psica-nalizzarsi. Sentiva ciò che aveva scritto come se non facesse realmente parte di lei, cosa che inve-ce, solitamente, le accadeva con qualunque poe-sia, qualunque linea narrativa tracciasse su carta. Tutto solitamente partiva da lei, dalla sua mente, quindi perché si sentiva come se quella storia fos-se estranea alla sua mano creativa?“Il richiamo di Morfeo”, nella sua mente balenò il titolo del suo racconto. Non riusciva a smettere di pensarci. Yvonne era stata il personaggio più stra-no che potesse mai creare. Ogni suo protagonista faceva parte di lei, era caratterizzato similarmente

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a lei e aveva una storia simile alla sua. Continuava a non capire cosa non quadrasse in quel romanzo.Avanzò, seguendo il marciapiede. La bellissima vista della campagna, di quei campi giallastri nei quali ogni tanto si riuscivano a scorgere dei papa-veri, accompagnava la sua camminata. Aveva de-ciso di vivere in campagna per quello. Quel posto era l’unico dov’era riuscita a ritrovare l’ispirazione, dopo anni che non scriveva più.“No. Non è finito”. Dentro di lei qualcosa scattò. Sentì un bisogno irrefrenabile di scaraventarsi nuovamente su quel povero foglio, che aveva im-brattato di annotazioni. Fece per tornare indietro, quando si scontrò con un uomo. Ebbe una strana sensazione quando percepì il suo corpo. Lo conosceva? «Mi scusi tanto», si scusò mortificata.Quando incrociò i suoi occhi ebbe la sicurezza di averlo già visto da qualche parte. «Aspetti un attimo, noi ci conosciamo?», chiese lui. Improvvisamente nel suo volto apparve un’e-spressione di sorpresa, «Gemma?»Lei lo guardò confusa, «Ci conosciamo?» «Certo! Sono David. Ci siamo incontrati al matri-monio di Colin»Ebbe un sussulto. I suoi occhi celesti le erano così tanto famigliari, ma non riusciva a comprendere perché non si ricordava di averlo già visto al lago. «Mi scusi. Non riesco proprio a ricordarmi di lei»

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Ripensò, si spremette le meningi per ricordare, ma nulla. Pensò al ricevimento sul lago: così le tornò in mente il meraviglioso panorama di quel posto; gli uccelli che lo sorvolavano e che parevano toccare le montagne; la sua amica Sarah che si era ostina-ta a portare il suo cagnolino al proprio matrimonio e che tentava di prenderlo in braccio ogni volta che il fotografo decideva di fare il proprio lavoro, tra un cocktail e l’altro; la sorellina adolescente di Sarah, che si era vestita di nero, peggio che a un funera-le; si ricordò addirittura quel momento in cui era inciampata e le si era rotto il tacco sinistro. Niente. «Mi perdoni. È stato molto tempo fa», cercò una scusa per non peggiorare la sua figuraccia. «Proverò a rinfrescarle la memoria», l’uomo tras-se fuori dalla tasca della giacca un oggetto lucido, placcato in argento. Sembrava un pendente. Ave-va la forma simile a quella di un papavero. «Oh cielo», allungò la mano per recuperarlo, «È il pendente di mia madre. Credevo di averlo perso per sempre», gli lanciò un’occhiata, «Forse ho ca-pito chi sei. Sei quell’amico di Colin… quello che faceva l’attore».Ricordò improvvisamente, come se quel ricordo le fosse stato asportato dalla memoria per poi esse-re reinserito in quello stesso momento. Ebbe un flash e lo rivide: era vestito in abito elegante, con un cappello nero. Erano giovani. Molto più giovani. L’aveva invitata a ballare ed erano andati a osser-

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vare le stelle comparire nel cielo, mentre tutti gli altri finivano di banchettare. Aveva avuto un colpo di fulmine. Era stato un momento. Lui era così af-fascinante, un gentiluomo, ipnotizzante. Accadde qualcosa, forse un bacio, ma non era quello che ricordava. Si ricordava solamente di quel bellissi-mo panorama e di quell’avvolgente sensazione di calore. «Esattamente. Strano, ti ho riconosciuta subito» «Non ti vedo… da quanto? Dieci anni?» «Forse di più», la corresse, sfoggiando un bel sorriso. «Come va?», lei portò avanti il discorso, mentre osservava nostalgica il pendente che le aveva re-stituito dopo così tanto tempo. «Non c’è male. Mi sono sposato, ho avuto un figlio, eccetera, eccetera» «Fantastico», rispose lei con lo sguardo freddo che la caratterizzava. «E… a te?», insisté lui, vedendo che non conti-nuavo. «Io? Nulla di che: ho scritto qualche libro, ho frequentato qualche centro di recupero, vivo con il mio gatto… fine» «Hai una vita molto interessante», affermò lui canzonatore, «Centro di recupero per cosa?»Lei gli lanciò un’occhiata e tornò a osservare la strada. Ascoltò il canto primaverile dei cardellini, che le aveva sempre trasmesso un’incredibile de-

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siderio di consumare inchiostro. «Depressione», affermò indifferente.Lui piombò in un silenzio fastidioso. Con la speran-za di sbloccare il discorso, lei gli sorrise. «Bè, ognuno ha i suoi problemi. Posso offrirti un caffè? È da così tanto che non ti vedevo», le pro-pose con l’aria di un vero galantuomo.Lei annuì, senza farsi troppi problemi. Si avviaro-no verso il bar più vicino, che, tra l’altro, era il suo preferito. «Di quali problemi stai parlando? La tua vita sem-bra un bel sogno», gli rimbeccò lei.Lui abbassò il capo, «La mia vita è stata un bel sogno, forse, ma non è durato molto».Entrarono nel locale, accolti dal saluto della pro-prietaria, che era stata una sua compagna di clas-se del liceo. «Ehi Gemma» «Ehi Mary», rispose lei, accompagnando il saluto con un gesto della mano. «Mamma, mamma! Vuoi un po’ di tè?», la sua figlioletta di tre anni le porse una tazzina di plastica vuota. «Non ora, Abigail», rispose con severità, «Cosa volete che vi porti?» «Due caffè, grazie», affermò David, con quella decisione che lei non vedeva in una persona da molto tempo. «Scusa, come fai a sapere che di solito prendo

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il caffè? E se avessi voluto un tè, o una cioccolata calda?».Lui le sorrise. Ci aveva azzeccato. Probabilmente glielo aveva detto quando si erano incontrati la prima volta. C’erano troppe cose che non riusciva a ricordarsi.Si sedettero al suo tavolo preferito. Lei si incastrò nell’angolino del locale, come al solito. «Allora, signor marito e padre, che cosa è andato storto nella tua vita?», gli rimbeccò acidamente lei. «Ho divorziato, mio figlio non mi vuole più ve-dere, sono senza ingaggi da almeno un anno, ho perso il lavoro… vuoi che continui?»Lei rimase in silenzio ad ascoltare quell’uomo, che aveva posseduto tutto ciò che lei avrebbe deside-rato avere e lo aveva perduto con una tale facilità da spezzare il cuore. «Wow», affermò lei, senza sapere come conti-nuare quel discorso, che sembrava aver preso una brutta piega. «Sai, quando ti ho rivista ho pensato: “Incredi-bile, è identica a una decina di anni fa”; eppure il tuo carattere sembra esser cambiato», i suoi occhi brillarono, erano diventati grigi. Si scostò indietro una ciocca di capelli neri che gli era caduta sulla fronte. «Vorrei poter dire la stessa cosa», affermò lei, lasciandosi scappare una risata. Anche lui rise, anche se più moderatamente, «Cosa ci fai qui, a

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proposito?» «Questa mattina ho avuto un colloquio di lavo-ro in centro. Mi stavo giusto dirigendo in stazione quando ho incrociato il tuo cammino» «Ah sì? Come è andato?» «Credo bene, almeno lo spero».“Il richiamo di Morfeo”. Quel titolo continuava a rimbalzare nella sua testa, con grande assillo. Do-veva continuarlo. Sentiva il bisogno di scrivere e il fatto di essere riuscita a recuperare quel cimelio di famiglia non aveva fatto altro che alimentare la sua voglia. “Perché sento di doverlo continuare? Che cos’ha di speciale quella storia?”. Tutti i personag-gi di quel romanzo si chiamavano come persone che aveva realmente conosciuto, quello era sem-pre stato il suo formato, quello era ciò che rendeva le sue storie così speciali. Oltretutto, molto spes-so scriveva i suoi personaggi imitando inconsape-volmente il carattere delle persone reali alle quali essi si ispirano. Questo le dava la sensazione di conoscere per davvero i suoi racconti. Purtroppo non aveva avuto molta fortuna con le case editrici. “Yvonne”. Era fissata con quel nome, non riusciva proprio a toglierselo dalla testa da quando lo ave-va sognato. «Comunque, smettiamo di parlare di me e parlia-mo un po’ di te», continuò David. «Di me? Non c’è molto da dire» «Bè, hai scritto dei romanzi, no? Di che parla-

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no?»Lei cercò di cambiare discorso. Non le piaceva parlare di ciò che scriveva. Forse era anche per quello che le sue storie avevano avuto poca fortu-na. Erano molto, troppo personali. «Mah. Ho scritto di una ragazza che va in coma, di un sogno nel sogno, un testo teatrale e… cam-biamo argomento per favore» «E dai! Non stai scrivendo nulla adesso?» «Sì», affermò lei un po’ in imbarazzo. «Non puoi raccontarmi almeno di quello?» «Sto scrivendo la storia di…», si bloccò. Non sapeva nemmeno lei quale fosse il significato della sua storia, «… una ragazza» «Una ragazza», ripeté lui come un pappagallo, aspettando che lei continuasse. «Sì… Ecco… lei non può sognare… perché…», si bloccò nuovamente. «Fammi indovinare. Sei tu», affermò lui ridac-chiando. «N-no. Non sono io», obiettò lei. «Sì che sei tu. Ne sono certo» «E come faresti a saperlo?» «Per la stessa ragione per cui so che preferisci il caffè», continuò lui con un sorrisetto compiaciuto. «Cioè?» «Sei un libro aperto, ai miei occhi», rispose sem-plicemente.Come poteva indovinare quelle cose? Era tutto

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così strano. Quasi surreale. «Stai scherzando, vero?»Lui non rispose a quella domanda. Perché? Per-ché sentiva come se la storia che stava scrivendo la stesse coinvolgendo in qualcosa di più grande. “Il richiamo di Morfeo”. Perché si sentiva così con-fusa? La sua intera vita le sembrò sempre più una grande bugia. Nessuna certezza, niente di sicu-ro. L’unica cosa che era certa era Yvonne e i suoi sogni. Era l’unica cosa che era sicura esistesse davvero perché l’aveva creata lei stessa, almeno credeva di averla creata lei con la sua fantasia. Trovava inquietante e allo stesso tempo affasci-nante quell’uomo, che conosceva cose su di lei che nemmeno lei era sicura di conoscere. «Sei ancora bellissima, questo è sicuro» «Cos’è, ci stai provando con me?», lo fulminò lei agitata all’idea.Da quanto tempo non aveva più trovato un uomo così galante? Le tornò in mente il Colin del roman-zo e sorrise. «Perché, non posso?», rispose lui sempre con sicurezza. Il confronto con il suo personaggio le fece perdere il respiro per un attimo, «Perdonami, i tuoi occhi mi avevano incantato e per un attimo non ho saputo più controllarmi»Quella frase le fece salire un lento brivido lungo la schiena. «Posso invitarti a casa mia… per cena?», azzar-

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dò lei.Le piaceva molto quell’uomo. Nessun’altro era sta-to in grado di affascinarla in quel modo prima. Che fosse quello giusto? Era stufa di vivere da sola con Cotton. Aveva bisogno di un po’ di compagnia. «Gemma Pierce. Non avrei mai creduto di poter incontrarti di nuovo»Lei ebbe un altro brivido quando sentì il suo nome uscire dalla sua bocca. Perché le stava facendo quello strano effetto?

Raggiunsero casa sua. Era piccolina e molto or-dinata. Lei non aveva mai sopportato il disordine, ne aveva già fin troppo in testa per sopportare di averne anche in casa. In ogni caso era molto facile per lei mantenere tutto in ordine: l’unico oggetto che utilizzava sempre era la scrivania dove creava le sue storie.Quando David aveva varcato la soglia di casa sua, aveva sentito qualcosa dentro di sé, qualcosa di simile a un senso di completezza. Che cosa stra-na. Lo fece accomodare e iniziò a preparare la cena, con la sua solita calma.Mangiarono silenziosamente, eppure a lei non dette fastidio quella cosa. La familiarità che le tra-smetteva David la faceva sentire al sicuro. «È stata una cena fantastica», si complimentò lui con lei, una volta arrivata l’ora di andarsene.

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«Ti ringrazio…», aveva una voglia matta di chie-dergli di restare, ma non sapeva che cosa dire. Ci mise un po’ per mettersi d’accordo con sé stessa, «… Ti andrebbe di restare q-», si bloccò qualche secondo, «Scusa. Non fa nien-».In quel momento David la baciò. Fu colta di sorpre-sa, ma si lasciò andare al suo bacio. Quel suo tocco le trasmise un grande sonno. Così tanto sonno che, quando raggiunsero il suo letto, si assopì.

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Morfeo, mio diletto figlio, perché giungestiAl mio cospetto? Cosa mi chiedesti mai?

Sol tu, che la tua figura in ogni sogno innesti,vorresti avverarsi il tuo desir? Giammai.

Ecco il grande mutaforme, si fa debole e spigliato,tu stesso cotanto somigliasti all’uomo,

il mio divino sangue hai ripudiato?Le Esperidi hai lasciato al loro sacro pomo?

Figlio della Notte, torna tra le mie braccia.Tu sei un dio, non hai tempo per gli umani.

Accostati agli altri figli miei, non darti alla caccia.Lascia che la Natura fia d’essi i suoi piani.

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Introduzione Più volte mi sono chiesta come iniziare que-sto discorso. Innanzitutto sarebbe meglio specifi-care che Il richiamo di Morfeo è una light novel, perciò non pretende di essere un capolavoro, che è stata stesa in un brevissimo periodo, per ragio-ni di tempo (essendo stato scritto nel periodo tra Settembre e Novembre, compreso il NaNoWriMo – National Novel Writing Month). Avevo elaborato uno schema generale della storia nel periodo di Settembre, ma non avevo ancora conosciuto l’ini-ziativa del NaNoWriMo a quel tempo. Mi iscrissi al sito dopo aver visto l’evento del NaNo condiviso sulla bacheca di Facebook di una mia amica che vi aveva già partecipato. Da questo intuirete che decisi di partecipare a questa iniziativa all’improv-viso: dovevo raggiungere la quota di 50.000 parole entro un mese. In quel momento mi ero tirata die-tro circa 10.500 parole da Settembre (mese in cui avevo già scritto un tot di capitoli del romanzo, ma non avevo ancora realizzato che l’avrei completato giusto un mese dopo). All’inizio del NaNoWriMo, io mi ero già messa all’opera, determinata a raggiun-gere il mio obbiettivo. Ogni mattina, mentre anda-vo in università, appuntavo le cose che dovevano

Dissertazione

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accadere in un determinato capitolo sul mio blocco note e, la sera, mi mettevo davanti al computer a scrivere e nessuno mi scollava più, nemmeno per mangiare. L’avevo preso come un vero e proprio lavoro. Ogni giorno dovevo buttare giù un capitolo, di minimo tre pagine, altrimenti non avrei raggiunto il mio scopo. Da questo avrete capito che lo scopo primario, quello che sentivo di dover raggiungere quando avevo cominciato la storia, ossia lo svolgimento della trama, era stato piano piano sovrastato da quello che mi ero imposta con il NaNo: raggiunge-re le 50.000 parole. Questa cosa mi fece vacilla-re un po’, lo ammetto. Come costruire una storia decente se devi scrivere tanto e in fretta? Nono-stante ciò, mi emozionava l’idea che avrei avuto infine una storia così complessa e completa tutta mia, per la prima volta. L’idea di avere finalmente un libro tutto mio, seguita dalla pressione data da-gli esami universitari, mi diede la forza di andare avanti, in primis per avere qualcosa di mio in poco tempo, in secundis per finire il prima possibile e poter ritornare a studiare. Il lavoro era intenso e proprio per questo mi ritro-vai più volte a condire la storia, tralasciando la trama. Ad un certo punto capii però quanto fosse importante avere una ulteriore impostazione gene-rale, non potevo perdermi nella mia stessa storia, dovevo inquadrare la direzione che quest’ultima

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stava prendendo. Per fare ciò, mi concessi una o due giornate per tracciare uno schema generale e fu allora che decisi quale sarebbe stato il futuro dell’opera (che, ripeto, non è un capolavoro e non pretende di esserlo, personalmente l’ho sempre vi-sta come una sorta di “sperimentazione”) e quali sarebbero stati i suoi possibili finali.Sì, Il richiamo di Morfeo non è lineare. Non c’è una trama precisa in realtà. Forse all’inizio c’era, ma si sa che, quando si crea qualcosa, le idee iniziali fi-niscono sempre per essere sovvertite dalle nostre evoluzioni interiori. La storia ha più strade possi-bili, che vi elencherò in seguito, e non solo quelle che ho pensato io. Mia intenzione era infatti quel-la di portare il lettore a speculare sulla storia, a fantasticarci sopra, seguendo la strada che più lo aggradava. Volevo che la storia attivasse la mente del lettore e non lo lasciasse “fermo” nella lettura di una trama statica. Il lettore doveva poter viaggiare con la sua immaginazione, doveva muoversi nello spazio poco definito del romanzo e scrivere da sé, con le sue impressioni, quella che sarebbe stata poi la vera storia di Yvonne.Sembra un esperimento azzardato, probabilmen-te, ma di un esperimento si è trattato. Il culmine del nonsense si è creato poi negli ultimi capitoli, capitoli che credo in pochi riusciranno a compren-dere, proprio per via della complessità data dalla inconsistenza della trama. La trama è una trama

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fantasma, che si percepisce, ma allo stesso tempo svolazza a mezz’aria sul lettore, che rimane confu-so ed estraniato dalla storia.Non sto giustificando le imperfezioni della storia in questo modo, anzi il libro è ricolmo di imperfezioni, di errori sintattici e grammaticali, di sottotrame non chiuse e tanti altri difetti. Non parlerò però di quelli che sono gli errori tecnici del libro, ma mi concen-trerò su ciò che doveva “essere” il libro e che è per la sua autrice.

Trama La trama inizialmente doveva essere sem-plice: Yvonne, una liceale, nerd e poco socievole, condizionata da un anno poco piacevole per via dei continui litigi dei genitori, che lei pensa si vogliano separare, si estranea dal mondo e cerca riparo da sua nonna, che sembra essere una figura impor-tante nella sua vita. Un ulteriore problema avrebbe rovinato la normale vita della ragazza, causandole forti problemi di depressione: il suo sonno è tortu-rato dagli incubi, oltretutto questi le causano episo-di di sonnambulismo, che peggiorano di giorno in giorno. Da questo punto in poi la trama si evolve, facendo conoscere al lettore nuovi personaggi, tra i quali il più importante però resterà sempre il mi-gliore amico di Yvonne, Colin, che si dimostrerà innamorato di lei. Le varie evoluzioni della trama, dalla sua scoperta del “richiamo” in poi, sono con-

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fusionarie. Si rimane infatti sempre incerti se ciò che si sta leggendo sia reale o qualcosa di astratto e creato dalla mente della stessa Yvonne. Ciò ser-virebbe a spiegare molte incertezze della trama.Quando Yvonne entra in contatto con Morfeo, il deus ex machina della situazione, la trama viene letteralmente stravolta e ciò che si era letto in pre-cedenza è come se scomparisse, lasciando spa-zio a un universo completamente astratto e incor-poreo. Questo porterebbe il lettore a ipotizzare che si trattasse di un sogno o di qualcosa di simile, ma questa ipotesi viene ulteriormente smentita quan-do iniziano gli spin-off di Morfeo, di Colin e di Gem-ma, tra i quali l’ultima è proprio estranea, se non per il fatto che appare come la scrittrice della sto-ria. Cosa significa quindi questo grande casino?Probabilmente i conduttori principali verso i diversi possibili finali sono proprio gli ultimi capitoli, che creano ulteriore confusione nel lettore e sono pro-prio quelli che lo mettono a dura prova.

Diramazioni della storia1) La maledizione: Yvonne è perseguitata dal-la maledizione di Morfeo, come la trama principa-le lascia intendere. La ragazza, quando scopre di essere figlia del dio, decide di sfruttare la sua posizione per ottenere delle concessioni da par-te del dio. Morfeo la sottopone a delle prove, per capire se Yvonne è realmente legata alla sua vita,

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oppure è più legata ai suoi sogni. Ecco il primo alone di confusione, perché proprio qui si divido-no i primi possibili finali. Non viene mai specificato che Yvonne sia riuscita a risvegliarsi per davvero. Yvonne potrebbe essersi risvegliata, come potreb-be essere entrata in coma, questo esattamente come Yvonne potrebbe non essere mai uscita in realtà dalla “stanza dei sogni falsi” ed essere stata ingannata ulteriormente da Morfeo, rimanendo in-trappolata nel suo sogno. In ogni caso le parole del dio “Mia figlia sarà sempre sotto la mia protezione” sono legate a diversi aspetti di “protezione”: la fi-glia sarà protetta nella realtà dal dio o, dovrà anda-re in coma, o morire, perché ciò possa accadere?

2) “Non sono io ad incatenarti”: Effettiva-mente, tutta la storia è legata a Yvonne. Per qual-che ragione siamo portati a credere che la vicenda non si spazi nella nostra realtà, ma in una real-tà trascendentale, una realtà creata dalla mente stessa di Yvonne. Allora cosa succede? Siamo in un sogno della protagonista, che si risveglia alla fine? La protagonista in realtà è già in coma e il suo reale risveglio avviene nel capitolo 27, quando si risveglia in un lettino d’ospedale? Se si trattas-se del primo finale elencato allora lo svolgimento della storia sarebbe chiaro a tutti: la ragazza si è addormentata, ha sognato e si è infine risvegliata; se fosse il secondo finale la ragazza è fin dall’ini-

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zio della storia in coma e il suo risveglio avviene nel capitolo 27. Potrebbe essere andata in coma a causa del suo diabete degenerato. In ogni caso ogni avvenimento accaduto alla protagonista è in qualche modo legato alla sua interiorità. Il problema principale con questo finale sono gli spin-off, che risultano distaccati in un qualche modo dalla storia, anche se è possibile costruirci sopra, ricamando la storia con la propria fantasia. I capitoli a seguire potremmo vederli come ulterio-ri sogni della protagonista, oppure come dei deliri della protagonista che cerca di scollarsi di dosso il problema che è diventata la sua vita.

3) Duplice personalità: Questo finale collega ogni avvenimento della storia alla scrittrice, Gem-ma. Chi è Gemma? Perché ha scritto questa storia, ma soprattutto come mai percepisce il nome della protagonista, Yvonne, nome in realtà a lei scono-sciuto, come qualcosa di famigliare? Gemma ha una duplice personalità, o è Yvonne ad avere una duplice personalità? Il fatto che Gemma scriva sto-rie introspettive e con personaggi che posseggono gli stessi nomi di persone che lei ha conosciuto, potrebbe essere un tentativo inconscio di mettersi in collegamento con la sua seconda personalità, o di comprenderla in qualche modo? È Gemma la personalità di Yvonne che soffre di sonnambuli-smo?

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In un altro caso potremmo invece pensare che David sia Morfeo, appunto perché causa sonno in Gemma con un semplice tocco. Questa ipotesi ci riporterebbe all’idea della maledizione e al pen-siero che Gemma sia in realtà Yvonne, che si sta perdendo sempre più nei suoi sogni, creandosi un mondo tutto suo.

4) Colin-Morfeo: lo spin-off meno ricollegabile è quello di Colin. Se si tratta di un sogno di Yvonne, allora come mai possiamo rivivere qualcosa che ha vissuto Colin durante il romanzo? Questo ca-pitolo da ulteriore spessore alla figura di Colin. Se Morfeo esistesse per davvero e apparisse, sotto forma di ogni personaggio che compare nella sto-ria? Colin in realtà potrebbe essere Morfeo, quindi lo spessore verrebbe dato a Morfeo e ai suoi pen-sieri, non a Colin. Questo implicherebbe che tut-to sia un sogno della protagonista. Quindi Morfeo predilige la figura di Colin perché è innamorato di Yvonne?

5) Malattia mentale: Possiamo intuire, verso gli ultimi capitoli, quanto Yvonne sia legata alla figura della nonna. Addirittura, diventa lei sua nonna in una scena riflesso degli ultimi capitoli. Se la nonna non fosse mai esistita in realtà e Yvonne, con la sua immaginazione l’avesse creata per proteggere la sua mente da tutte le cose brutte che le stavano

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accadendo? Ma allora Yvonne ha dei seri problemi psicologici? È schizofrenica? La sua mente è ma-lata?

Conclusioni So che questa storia è piena di errori e pro-babilmente è un esperimento troppo complesso costruito con troppa fretta. Ho sempre pensato che la fretta sia cattiva consigliera e, questo libro, sicu-ramente, ne è la dimostrazione. Quelli che ho elencato sono solo alcuni dei possi-bili finali attribuibili alla storia. Alcuni dei tanti che la mia e la vostra immaginazione potrebbe creare.Spero che queste spiegazioni vi siano state utili a capire quello che è stato lo svolgimento della crea-zione, della stesura e della realizzazione di questo libro e spero che per voi lettori non sia stato un totale buco nell’acqua.Nelle mie intenzioni c’era un romanzo fantasy, ini-zialmente, poi si è aggiunta la mia solita vena in-trospettiva, che ha sbalzato la storia da una dimen-sione surreale a una dimensione maggiormente realistica.Personalmente vedo questo libro un po’ come una metafora: una ragazza che si trova ad attraversare un periodo molto difficile, quello dell’adolescenza, un periodo che, se attraversato senza problemi la adatterà alla sua vita futura, ossia l’età adulta, ma che se nel suo sviluppo incontra traumi particolar-

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mente forti rischia di rovinare tutto e bloccarla per sempre.

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enny, per favore», sgridò sua figlia, che puntualmente, dopo pochi minuti, riprese a fare chiasso, imitando il suono del treno con la bianca voce da fanciulla.

«Signorina Jenkins… potreste accompagna-re Jenny al parco? Sto lavorando e non voglio di-strazioni».Il signor Pierce stava scrivendo. Necessitava sem-pre della massima concentrazione quando lo face-va. Scriveva, ma non era un letterato, o uno stori-co, né uno scienziato. Si limitava a filosofeggiare e a svolgere lunghe ricerche, anche se fino a quel momento non gli avevano fruttato grandi guada-gni. Era stato favorito fino a quel momento da un suo vecchio successo: un saggio universitario di cinquecento pagine all’incirca. Una ricerca sull’o-nirica attraverso la storia e la letteratura. Grazie a questo aveva avuto la possibilità di partecipare ai più facoltosi gabinetti letterari. Tramite i professori universitari, fin da giovane, aveva avuto la possibi-lità di incontrare le menti più famose. Aveva anche lavorato come scrittore in un giornaletto dedicato alla letteratura e alle recensioni scrivendo il suo primo ed unico articolo sull’American Literary Ma-gazine: uno studio di alcuni autori e la connessione tra orrore, psiche umana e sogno. Uno studio che

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gli era stato ispirato dalle recenti teorie di Freud. Era molto affascinato dal sogno. A volte si sentiva così vicino alle risposte che tanto agognava, che si ritrovava ancora più disorientato e confuso quando scopriva che tutte le sue ricerche erano state vane e non l’avevano portato da nessuna parte. Doveva essere per quello che non aveva mai avuto suc-cesso. «Jennifer. Vieni, andiamo a fare una passeg-giata», la signorina Jenkins, con quel suo fare ag-graziato, gesticolò con la mano, attirando l’atten-zione della ragazzina. Le osservò allontanarsi. Il suo sguardo era stato rapito dallo splendido portamento della badante. I suoi occhi gentili e profondi, la sua lunga treccia, il suo abito lungo, che le si stringeva in vita metten-do in risalto il suo seno. Era una donna piacevole, non si poteva negare.Quando le due lasciarono la casa, tornò al suo la-voro, ma si bloccò. La sua mente non riuscì più a mantenersi concentrata sulla sua ricerca. Aveva notato che era sempre così, ogni volta che allon-tanava sua figlia era come se tutto il suo deside-rio di scrivere venisse spazzato via, come polvere al vento. Lo affascinava così tanto quello strano fenomeno, che sentiva che ne avrebbe scritto un pezzo in proposito, prima o poi, se non se ne fosse dimenticato, come gli succedeva fin troppo spes-so.

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Da quando era rimasto solo, a causa della prema-tura morte di sua moglie, si sentiva come se tutto ciò che aveva amato di quel mondo gli fosse sta-to strappato via, con la brutalità che solo la morte poteva avere. La morte, quel fenomeno, indissolu-bilmente legato alla vita che lo terrorizzava e lo af-fascinava più di ogni altra cosa. La morte gli aveva portato via la sua amata e la morte lui rincorreva tramite le sue ricerche estenuanti. Sua figlia era diventata recentemente oggetto del-le sue ricerche. Aveva cominciato a esaminarla mentre dormiva, a fare degli esperimenti inconclu-denti, ma che lo affascinavano sempre molto. Le raccontava una sera tre fiabe con lieto fine e un’al-tra sera tre fiabe con epiloghi orripilanti, semplice-mente per il gusto di analizzare i cambiamenti che avvenivano nel sonno della fanciulla. Di recente aveva riscontrato qualcosa di strano nei suoi so-gni: la piccola gli aveva raccontato, come sempre, i suoi sogni e, in quegli ultimi giorni, aveva avuto solo orribili incubi. Questo senza avere fatto alcun tipo di esperimenti su di lei. Gli incubi spesso era-no molto violenti, tanto che a volte cominciava a parlare, o addirittura a urlare, nel bel mezzo della notte, spaventandolo quando impiegava minuti in-teri nel tentativo di risvegliarla. C’era qualcosa che non andava. L’aveva portata dallo psicologo, ma non si era scoperto molto, a parte la possibilità di una nascente nevrosi. Non si era mai fidato molto

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degli strizzacervelli, ma la paura di perdere anche sua figlia lo spingeva a fare qualsiasi cosa. La ra-gazzina aveva cominciato a isolarsi e a comportar-si in modo bizzarro, perciò si era trovato costretto a allontanarla dalla scuola e a relegarla in casa, combattendo ogni giorno con gli insegnanti privati, che dopo pochi giorni si rifiutavano di continuare a seguirla. Degli uomini adulti che non sopportava-no di seguire una ragazzina con degli amici imma-ginari, degli idioti rammolliti. L’avrebbe seguita lui stesso sua figlia, piuttosto che pagare fior di quat-trini per degli incapaci. Due giorni prima aveva ricevuto una lettera ano-nima. La lettera recitava un messaggio di poche parole: “Siamo a conoscenza del suo problema, signor Pierce”; seguite da un invito ad incontrarsi due giorni dopo in piazza, un luogo affollato. Non aveva idea di chi potesse avere avuto la necessi-tà di scrivergli quel messaggio e in realtà, inizial-mente, non aveva avuto intenzione di incontrare quella persona. Chi gli diceva che non si trattasse di un malintenzionato? Eppure la curiosità ebbe la meglio su di lui e fu proprio a causa di questa che abbandonò la sua comoda dimora per vedere con i suoi occhi di chi fosse quella voce misteriosa che aveva tormentato i suoi pensieri. Dopotutto, in un luogo affollato sarebbe stato più al sicuro dall’at-tacco di possibili malintenzionati.

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Fu così che si ritrovò seduto su una delle panchi-ne di legno davanti alla piazza del paese. I gomiti appoggiati sulle gambe. Non riusciva a fermare il piede destro, che continuava battere il ritmo del suo cuore agitato. «Buon pomeriggio».Il signor Pierce si voltò di scatto e fu sorpreso nel vedere una donna davanti a sé. I capelli biondi e fluenti arrivavano fino alle spalle, i suoi occhi era-no di un azzurro così chiaro che non riusciva a di-stinguerli dal colore del cielo pulito di quella calda giornata. «Il signor Gregory Pierce, giusto?» «Sì, è il mio nome. Piuttosto, voi chi siete?»La giovane donna gli tese la mano, «Hannah Go-odwin».Lui le strinse la mano, un po’ confuso da ciò che stava accadendo. «È lei l’autrice di quella lettera?».La donna sorrise, «Era da un po’ di tempo che la stavamo osservando, precisamente da quando sua figlia ha cominciato a comportarsi in modo strano».Improvvisamente l’uomo riconobbe quegli occhi azzurri, aveva già notato quella donna, anche se di sfuggita, quando era andato a ritirare la bambi-na da scuola. «Lei… era una sua insegnante?»

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«No. Lavoro nella biblioteca davanti alla vec-chia scuola di Jennifer. La piccola amava i libri, si faceva sempre accompagnare lì dalla sua badan-te» «Allora siete voi la signora Hannah. La bi-bliotecaria di cui mi ha tanto parlato. Perdonatemi, vi immaginavo più anziana».La donna rise, mostrando delle graziose fossette e coprendosi la bocca, quasi tentando di nasconde-re quella espressione. «Posso conoscere, quindi, la ragione del vo-stro invito ad incontrarmi?».La donna gli indicò con la mano il vialetto del parco lì vicino, facendogli capire che avrebbero cammi-nato un bel po’. «Io faccio parte di un gruppetto di persone che hanno riscontrato problemi comuni quando dormivano», sembrava che l’argomento la toccas-se intimamente, la donna era molto agitata mentre ne parlava, «Incubi, disturbi del sonno, sonnambu-lismo. Stiamo cercando di dare un perché a questi disturbi, ma non ci siamo ancora riuscite e molte di noi stanno peggiorando. Anche delle bambine, come sua figlia, hanno maturato gli stessi disturbi. Non sono molto comuni, sicuramente. Io e la mia famiglia viaggiamo molto e incontriamo persone che soffrono delle nostre stesse patologie. Siamo arrivate a valutare anche la possibilità che non si tratti di un problema psichico, ma di qualcosa di più

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grande, di inafferrabile. In alcune delle famiglie che ho incontrato, di madre in figlia ci si tramanda un ciondolo, o un anello a forma di papavero. Dei mo-nili simbolici, che molte non hanno idea del perché esistano, mentre altre sono fermamente convinte che abbia una utilità scaramantica e che allontani gli spiriti cattivi» «Quindi mi avete contattato perché avete ri-scontrato lo stesso problema in mia figlia? Come avete fatto a capirlo?» «Alcune delle bambine che hanno avuto questo problema hanno cominciato a comportarsi in modo strano… a dissociarsi dal mondo esterno e a rifugiarsi in un mondo fantastico… alcune poi sono…» «Sono?» «Impazzite».La giovane donna distolse lo sguardo e lo rivolse al cielo. I suoi occhi sembravano improvvisamente più lucidi. «Impazzite. Volete dire che anche mia figlia potrebbe…?» «È possibile, sì».Greg portò una mano alla fronte, cercando di man-tenere la calma e di non perdere la pazienza.La donna continuò, «So cosa vuol dire. È orribile, ma bisogna accettare questa possibilità» «Lei sa cosa vuol dire? Come può saperlo una donna giovane come lei. Avete forse figli?»,

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rispose lui, con tono maleducato. «Ho avuto… una figlia», la donna aveva ab-bassato la testa, lo sguardo spento.Il signor Pierce esitò un attimo prima di continuare a parlare, «S-scusi. Non era mia intenzione. Ero solo…» «Contrariato? Non si preoccupi. È passato tanto tempo e nonostante questo appaio ancora… così giovane»«Mi permette di offrirle un caffè? Per fami perdo-nare».La donna rispose con un fiacco sorriso. «L’ho contattata anche perché ci serve il suo aiuto. Sappiamo che ha fatto diverse ricerche, teo-riche e pratiche, sull’onirica. Ho letto molti dei suoi lavori»L’uomo rimase sorpreso, non aveva mai pensato che i suoi articoli potessero essere il tipo di lettura che si addicesse ad una donna. «Forse… il mio gruppo potrebbe aiutarla nel-le sue ricerche e, allo stesso tempo, lei potrebbe aiutare noi. Possiamo pagarla. Necessitiamo vera-mente di qualcosa in cui credere».La proposta di pagamento era interessante, ma nulla lo interessò più della disponibilità di così tante persone a dargli testimonianza delle loro “sessioni oniriche”, termine con cui era solito definire i sogni. Avrebbe così avuto la possibilità di studiare ulte-riormente quella fase che così tanto gli ricordava il

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fascino della morte: il sogno.

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SommarioCapitolo 1 ................................................................................ 6Capitolo 2 ............................................................................... 11Capitolo 3 .............................................................................. 19Capitolo 4 .............................................................................. 27Capitolo 5 .............................................................................. 33Capitolo 6 .............................................................................. 40Capitolo 7 .............................................................................. 47Capitolo 8 .............................................................................. 54Capitolo 9 .............................................................................. 64Capitolo 10 ............................................................................. 72Capitolo 11 ............................................................................. 80Capitolo 12 ............................................................................ 90Capitolo 13 ........................................................................... 101Capitolo 14 ........................................................................... 108Capitolo 15 ........................................................................... 119Capitolo 16 ........................................................................... 130Capitolo 17 ........................................................................... 136Capitolo 18 ........................................................................... 145Capitolo 19 ........................................................................... 157Capitolo 20 ........................................................................... 170Capitolo 21 ........................................................................... 180Capitolo 22 ........................................................................... 188Capitolo 23 ........................................................................... 194Capitolo 24 ........................................................................... 202Capitolo 25 ........................................................................... 210Capitolo 26 ........................................................................... 219Capitolo 27 ........................................................................... 227Capitolo 28 ........................................................................... 237Capitolo 29 ........................................................................... 248Capitolo 30-1 ........................................................................ 257Capitolo 30-2 ........................................................................ 264Capitolo 30-3 ........................................................................ 269Dissertazione ....................................................................... 282Capitolo 31 (a sorpresa) ........................................................ 293

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Note dell’autriceTi ringrazio infinitamente per avere letto questo libro e di avergli dedicato il tuo tempo. Spero che il breve viaggio nel mondo onirico ti sia piaciuto e ti rimando a qualche altra mia vecchia storiella. Ti invito caldamente a visitare il mio sito, che troverai sul retro del libro.

“Fine“Una breve storia che si appresta narrare, la vita di Anastasia. Giovane studentessa universitaria, dal carattere criptico.La narrazione punta a visualizzare a spezzoni le scene di vita quotidiana, accompagnate da flashback, come se stessimo osservando la protagonista da lontano, con un cannocchiale e, di con-

seguenza, aiutare il lettore ad avvicinarsi e a compren-dere la sua storia psicologica, mediante diverse strategie narrative e immergendolo nell’atmosfera misteriosa, che è un po’ il clima della storia. La giovane Anastasia ha soffer-to molto e l’idea di una fine riporta alla sua mente i ricordi che più hanno condizionato la sua mente. Si tratta di un viaggio introspettivo che mira unicamente a far conoscere al lettore la storia di una ragazza, la cui vita subirà una forte svolta, ripulendo la sua mente dai suoi traumi passa-ti e liberandola da ogni rancore, ogni peso che da anni lei trasportava su di sé.

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Ciò che vedrete in queste ultime pagine è l’anteprima di un’altra storia che scrissi tempo fa: ”Fine“.

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«Annie», richiamò la sua attenzione Federi-ca, porgendole la seconda barretta di Twix della confezione che aveva preso alle macchinette un minuto prima.Anastasia lo accettò ben volentieri. Era molto go-losa di quella roba, anche se la infastidiva un po’ il fatto che ogni volta il caramello le si appiccicasse ai denti. «Tra poco devo andare, sono già le 14.10» «D’accordo. Ci rivediamo dopo?», le chiese Anastasia, nonostante in quel momento avesse solo voglia di tornare a casa per riposarsi.La sua compagna annuì con un lieve sorriso pri-ma di alzarsi, caricare la sua borsa Eastpak sulla spalla, salutarla con un cenno di mano e avviarsi verso le aule.Terminò l’ultimo boccone della barretta e si avviò all’uscita. Non aveva voglia di aspettare due ore su una panca, perciò decise di tornare all’appar-tamento a studiare. “Questa è la vita dello studen-te universitario: lezioni, studio, esami”. Quella vita non le piaceva molto, ma se l’era scelta lei dopo-tutto.

Anastasia abitava in un piccolo appartamento con la sua compagna di studi, Federica. Ormai convi-

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vevano da un anno in quel buco, ma lei non era mai uscita da lì, se non per studiare in biblioteca. Alme-no Federica, ogni tanto, usciva con delle amiche (e prendeva anche voti più alti di lei). Anastasia non la considerava proprio come un’amica. Non si fida-va più di nessuno fin da quando era piccola. Era sempre stata chiusa a riccio e probabilmente l’uni-ca cosa che tratteneva Federica dall’ignorarla era la loro convivenza. La cosa che più apprezzava di Fede era che, quando era affamata e non aveva portato con sé del cibo, lei le offriva sempre qual-cosa da mangiare, anche se spesso aveva avuto il dubbio che lo facesse solo perché la vedeva sem-pre deperita.

Appoggiò sulle gambe il suo zainetto di jeans, so-pra vi erano cuciti disegni floreali (aveva sempre amato le piante), quando occupò un sedile della metropolitana. Il micetto di plastica attaccato ad una delle zip dello zaino ciondolò per il movimen-to, “pac, pac, pac”. Lei istintivamente lo fermò con una mano. La infastidiva sentirsi rumorosa.Una volta raggiuto il monolocale, appoggiò lo zai-netto sulla sua brandina e vi si gettò sopra. Aveva fame, ma non aveva voglia di procurarsi del cibo.All’improvviso il cellulare cominciò a suonare. Era la suoneria delle notifiche del calendario, la rico-nobbe subito (le era sempre piaciuto personalizza-re le suonerie). Cominciò a svuotare il suo zaino,

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altrimenti sarebbe stato un casino ritrovare il cel-lulare. Intravide tra i libri la sua cover con i maca-rons. Quando lo ebbe in mano, sbloccò lo scher-mo e la prima cosa che notò fu il titolo della nota: “Fine”. Non riusciva a capire. Lei non ricordava di aver scritto quella parola, né di aver creato quell’e-vento, anche perché usava di rado il calendario del cellulare. “Fine”.Aveva cominciato a piovere. Il suo ombrellino, come al solito, non resse alla forza del vento e si capovolse, facendola arrivare in università inzup-pata, tanto che dovette strizzarsi i capelli goccio-lanti. Trovò posto in fondo all’aula crepitante di per-sone. Era al primo anno di Filosofia, una materia che l’aveva sempre affascinata, ma probabilmente era solo per il suo innato masochismo nel rendere sempre tutto più complicato.“Fine”. Questo pensiero le era rimbalzato in testa per tutta la giornata. “Cosa può avermi spinta a scrivere quella parola? A cosa stavo pensando?”. Ripescò il cellulare dalla tasca del giubbotto. La data dell’evento era segnata per il giorno 31 Mar-zo, ore 18.22. “Oggi è il ventiquattro”. Qualcosa di importante doveva finire il 31 Marzo. Il problema rimaneva il cosa. Prese appunti automaticamente, perché con la testa era da tutt’altra parte.

Il freddo sedile della metropolitana l’aveva stanca-ta. Si alzò lasciando sedere una signora trentenne

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con tacco dodici. Erano poche fermate dopotutto, non aveva bisogno di stare seduta. Il rumore mec-canico delle porte che si chiudevano dietro di lei accompagnarono la sua camminata. “Sette giorni”.Prese al volo l’autobus per grazia dell’autista, che vedendola arrivare le aprì la porta in fondo. Era così affollato che a malapena riuscì a reggersi ai sostegni. “Speriamo che non faccia manovre trop-po brusche”. Fu così che l’autista sterzò e Anasta-sia finì addosso ad un ragazzo appoggiato sulla parete del retro dell’autobus. «Scusami», era così imbarazzata che non fece in tempo a trovare modo di aggrapparsi da qualche parte, ritornando così tra le braccia del malcapitato, «Dio… ma dove ho la testa. Scusa. Scusa ancora»Il ragazzo non sembrava scosso dall’accaduto, «Figurati», le sorrise e, dopo un breve sguardo, tornò a smanettare con il cellulare. “Che vergogna”. Non aveva mai preso l’autobus prima, perché di solito lo perdeva. Lei e quel ragazzo scesero alla stessa fermata. Anastasia procedette per la sua strada abituale. In un certo tratto le era parso che quel ragazzo stesse facendo il suo stesso percor-so, infatti si era voltata indietro diverse volte, ma lui in realtà aveva già cambiato via molto prima. “Peccato, era carino”.Aveva quasi raggiunto il cancello del condominio

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e le riaffiorò alla mente la questione del calen-dario. “Perché nella descrizione non c’era scritto nulla?...”. Più volte le era venuta la tentazione di cancellare la nota, ma la curiosità la spingeva a lasciarla sul cellulare. “… E poi l’ora… cosa deve avvenire alle diciotto e ventidue?”.Tirò fuori dal taschino più piccolo dello zainetto le chiavi, riconoscibili dal portachiavi a forma di tri-foglio regalatole il compleanno scorso da sua cu-gina. Fece per entrare quando vide dietro di sé il ragazzo dell’autobus. Imbarazzata si immobilizzò. «Posso entrare?», chiese lui sorridente indi-cando con lo sguardo il cancello che lei stava bloc-cando. «Sì, certo, scusami», si scostò lasciandolo entrare. «Grazie», rispose lui cordiale, «Ciao», la sa-lutò e si diresse verso il condominio lasciandola di stucco. “Abita qui?”, la ragazza sentì un brivido attraversarle la schiena. Non le succedeva più da anni.

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