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Il QUADERNO e la RELAZIONE di LABORATORIO La produzione del quaderno di laboratorio spetta a ogni singolo studente e la sua compilazione deve essere fatta con attenzione e in tempo reale, senza trascurare piccoli dettagli, quali le date delle esperienze o l’indi-cazione delle unità di misura. L’utilizzo del quaderno di laboratorio non è limitato al settore scolastico, ma è diffuso in tutto l’ambito della ricerca scientifica, come testimoniano i quaderni di laboratorio di famosi scienziati conservati nelle biblio- teche o nei musei. Il quaderno di laboratorio rappresenta la sorgente primaria dei dati sperimentali e quindi deve poter essere riletto a distanza di tempo dalle stesse persone che partecipano all’esperimento (o da altre persone); le anno-tazioni devono essere chiare ed essenziali, eliminando cioè il superfluo (anche se all’inizio non è facile di-stinguere cosa lo sia). E’ fondamentale ricordare che la raccolta dei dati deve essere fatta in tempo reale: l’idea “prima lavoro e poi scrivo”' in genere non funziona. Non bisogna mai fidarsi della propria memoria e quindi è impensabile compilare il quaderno di laboratorio la sera (nella vita professionale in genere non ci si porta il quaderno di laboratorio a casa) oppure il giorno dopo. Le annotazioni prese durante un esperimento devono essere sufficienti per poter riprodurre le stesse con- dizioni sperimentali, individuare errori o sorgenti di anomalie, scoprire nuovi effetti e modificare le procedure. Quando si nota qualcosa di nuovo è d’obbligo annotarlo sempre con estrema precisione. Bisogna tenere a mente che più disegni si faranno e più note si scriveranno, meglio sarà e il lavoro tornerà sempre utile in futuro. Senza contare la soddisfazione di vedere un bel lavoro fatto con le proprie mani, ricco di informazioni utili. Ecco alcuni validi consigli per iniziare da subito con il piede giusto: - il quaderno di laboratorio è preferibilmente un quaderno a quadretti con le pagine rilegate su cui si annota tutto (è meglio utilizzare quaderni con le pagine rilegate mediante spirale metallica perché quando si lavora sui banconi da laboratorio è utile avere un quaderno che stia ben aperto, senza creare intralcio alle opera-zioni); - sulla prima pagina si possono riportare le solite indicazioni, come il corso o il tipo di laboratorio, il nome, l’anno accademico o scolastico, il professore oppure la scuola e la classe; - le prime pagine devono essere utilizzate per un indice dettagliato, in modo tale da ritrovare facilmente le metodiche sperimentali; - le pagine successive devono essere numerate con numeri arabi (ciò può servire per effettuare richiami del tipo “per la procedura vedi pagina...” oppure “dati ripresentati a pagina x ”; - se si interrompe un esperimento, e nel frattempo se ne inizia uno nuovo, quest’ultimo deve essere riportato in una nuova pagina. Quando la vecchia procedura viene ripresa in un secondo momento, è

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Il QUADERNO e la RELAZIONE di LABORATORIO

La produzione del quaderno di laboratorio spetta a ogni singolo studente e la sua compilazione deve essere

fatta con attenzione e in tempo reale, senza trascurare piccoli dettagli, quali le date delle esperienze o

l’indi-cazione delle unità di misura.

L’utilizzo del quaderno di laboratorio non è limitato al settore scolastico, ma è diffuso in tutto l’ambito della

ricerca scientifica, come testimoniano i quaderni di laboratorio di famosi scienziati conservati nelle biblio-

teche o nei musei.

Il quaderno di laboratorio rappresenta la sorgente primaria dei dati sperimentali e quindi deve poter essere

riletto a distanza di tempo dalle stesse persone che partecipano all’esperimento (o da altre persone); le

anno-tazioni devono essere chiare ed essenziali, eliminando cioè il superfluo (anche se all’inizio non è facile

di-stinguere cosa lo sia).

E’ fondamentale ricordare che la raccolta dei dati deve essere fatta in tempo reale: l’idea “prima lavoro e

poi scrivo”' in genere non funziona. Non bisogna mai fidarsi della propria memoria e quindi è impensabile

compilare il quaderno di laboratorio la sera (nella vita professionale in genere non ci si porta il quaderno di

laboratorio a casa) oppure il giorno dopo.

Le annotazioni prese durante un esperimento devono essere sufficienti per poter riprodurre le stesse con-

dizioni sperimentali, individuare errori o sorgenti di anomalie, scoprire nuovi effetti e modificare le

procedure. Quando si nota qualcosa di nuovo è d’obbligo annotarlo sempre con estrema precisione.

Bisogna tenere a mente che più disegni si faranno e più note si scriveranno, meglio sarà e il lavoro tornerà

sempre utile in futuro. Senza contare la soddisfazione di vedere un bel lavoro fatto con le proprie mani,

ricco di informazioni utili.

Ecco alcuni validi consigli per iniziare da subito con il piede giusto:

- il quaderno di laboratorio è preferibilmente un quaderno a quadretti con le pagine rilegate su cui si annota

tutto (è meglio utilizzare quaderni con le pagine rilegate mediante spirale metallica perché quando si

lavora sui banconi da laboratorio è utile avere un quaderno che stia ben aperto, senza creare intralcio alle

opera-zioni);

- sulla prima pagina si possono riportare le solite indicazioni, come il corso o il tipo di laboratorio, il nome,

l’anno accademico o scolastico, il professore oppure la scuola e la classe;

- le prime pagine devono essere utilizzate per un indice dettagliato, in modo tale da ritrovare facilmente le

metodiche sperimentali;

- le pagine successive devono essere numerate con numeri arabi (ciò può servire per effettuare richiami del

tipo “per la procedura vedi pagina...” oppure “dati ripresentati a pagina x ”;

- se si interrompe un esperimento, e nel frattempo se ne inizia uno nuovo, quest’ultimo deve essere

riportato in una nuova pagina. Quando la vecchia procedura viene ripresa in un secondo momento, è

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possibile scrive-re nella pagina a cui era stato interrotto “continua a pagina x ”, utilizzando una pagina

nuova per continuar-lo, avendo poi l’accortezza di scrivere in cima “continuazione di pagina x ”. In questo

modo il lavoro precedente non verrà perso;

- le ultime pagine del quaderno si possono dedicare a formule di uso frequente, ricette di soluzioni, tavole

con gli ordini di grandezza, particolari norme di prudenza sull’uso di certi strumenti, o qualsiasi altra

annota-zione che può tornare utile in laboratorio;

- nelle annotazioni degli esperimenti non devono mai mancare la data, il titolo, una parte iniziale in cui si

descrive ciò che si intende fare ed eventuali ipotesi da verificare;

- deve essere specificati il materiale e gli strumenti utilizzati: questa accortezza può essere utile sia per

evitare di confondere due strumenti dello stesso tipo, ma che possono differire leggermente in

calibrazione;

- per le soluzioni è meglio indicarne la quantità e la concentrazione;

- la procedura va annotata durante il suo svolgersi ed in ordine cronologico, utilizzando schemi esplicativi

per particolari manipolazioni o apparecchiature: pur senza essere abili come Leonardo, spesso anche

un di-segno non necessariamente artistico può essere più utile di tante parole;

- se un esperimento durasse più giorni è conveniente, al termine di ciascuna giornata, indicare a che punto

si è rimasti, facendo il resoconto della giornata e riportando le informazioni che possono servire per

riprendere il lavoro;

- al termine di un esperimento bisogna indicare i risultati, annotando le difficoltà incontrate e superate (si

scriva come sono state superare e con quali espedienti);

- se i risultati dell’esperimento sono inaspettati si devono scrivere le possibili sorgenti di anomalie e

bisogne-rebbe indicare alcuni rimedi (oppure si dovrebbero rivedere le ipotesi iniziali);

- negli esperimenti sarebbe un gravissimo errore quello di “far quadrare i conti a tutti i costi”: non sono i

risultati degli esperimenti che si devono adattare alla teoria, ma è la teoria che si deve adattare all’espe-

rimento. Così funziona il metodo scientifico!

- riportare i dati originali direttamente sul quaderno a penna (ovvero in modo indelebile) e mai su fo-glietti

volanti;

- in laboratorio dimentichiamoci i concetti di `”brutta” e “bella”. Trascrivere dalle minute alla bella copia è

una perdita di tempo; è preferibile dedicare il tempo a disposizione per altre misure, per ve-rifiche o per

cominciare ad elaborare i dati. Si possono inoltre commettere errori di trascrizione e si rischia di eliminare

alcuni valori che sembrano inutili o “sbagliati”;

- numerare le tabelle o i disegni: in questo modo si potrà farne facilmente riferimento in un testo scritto. Ad

esempio: “effettuare la filtrazione come indicato in fig. 3...” oppure “dalla tabella dei dati (vedi tab. 6)

risulta che...”;

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- tutti i valori sperimentali devono essere riportati con le rispettive unità di misura;

- quando si utilizzano dei prodotti chimici, è buona norma riportarne una descrizione dettagliata (nome del

prodotto, formula, peso molecolare, grado di purezza, principali frasi di rischio e di prudenza);

- tutti i valori letti vanno registrati direttamente senza elaborazioni intermedie (cambiamenti di scala,

sottrazioni di tara, etc.). Qualora sia possibile, è buona norma leggere il valore, riportarlo sul quaderno e

ricontrollarlo sullo strumento;

- se ci si accorge di aver commesso degli errori, è preferibile non cancellare o bianchettare i valori “sba-

gliati”, ma fare semplicemente delle barre su di essi in modo che essi rimangano ancora leggibili. Può

infatti accadere di accorgersi in seguito che quello che si riteneva sbagliato era in verità giusto. Anche se

ciò non si verificasse, i valori riportati potrebbero fornire indicazioni sul malfunzionamento di uno

strumento oppure sul cattivo modo di procedere dello sperimentatore;

- nel quaderno di laboratorio non è raccomandabile dilungarsi in introduzioni teoriche sull’esperimento;

- le esperienze vanno riportate in ordine cronologico, senza lasciare pagine bianche fra una esercitazione e

l’altra: avendo numerato le pagine è facile fare dei rimandi in avanti e indietro.

Il quaderno di laboratorio costituisce una traccia del lavoro scientifico svolto e permette quindi di ripetere

un esperimento. Contiene le procedure, i problemi riscontrati e le soluzioni trovate. Il quaderno è qualcosa

per te e per il tuo gruppo di lavoro; per questo, anche se deve essere ben organizzato e chiaro, lo stile è

informale e abbastanza libero.

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La RELAZIONE

A differenza del quaderno di laboratorio, la relazione serve a comunicare il proprio lavoro sperimentale a

un’altra persona. La procedura e le conclusioni devono essere quindi “leggibili” anche da persone che

potrebbero avere una formazione diversa. Riuscire a comunicare bene le proprie idee dipende soprattutto

dallo stile e dal formato che si utilizza per stendere la relazione.

Quest’ultima non deve essere lunga per essere ben articolata! Essa deve in primo luogo chiarire gli

obbiettivi del lavoro, presentando un risultato corredato con tutti i calcoli, tutte le osservazioni e,

soprattutto, con la procedura seguita, in modo che colui che legge possa capire in che modo tale risultato è

stato ottenuto.

Chi legge la relazione è, attualmente, l’insegnante, ma successivamente potrà essere il datore di lavoro, o il

commissario di un concorso pubblico, ed è bene abituarsi a compilare la relazione in modo corretto.

Per prima cosa è bene ricordare che una relazione di laboratorio non è un tema di italiano: essa deve essere

corretta dal punto di vista della forma e dell’ortografia, ma deve anche essere schematica e impersonale.

Per esempio, non deve contenere frasi del tipo: “Siamo andati con la professoressa in laboratorio” oppure

“il mio compagno ha preparato la soluzione” o, peggio ancora, “è stato molto interessante e ci siamo

divertiti”.

La relazione deve essere scritta a breve distanza dall’attività sperimentale: in questo modo si hanno sempre

presenti le varie fasi del lavoro e si ricorda bene tutto quello che può essere successo. Non ha senso

scrivere relazioni di laboratorio dopo molti giorni o addirittura settimane.

Titolo dell’esperimento

E’ bene abituarsi ad usare un corretto linguaggio scientifico, facendosi aiutare le prime volte

dall’insegnante.

Esempio: Determinazione volumetrica del titolo di una soluzione di HCl.

Principio del metodo

Descrivere brevemente i principi su cui l’analisi è basata, riportando tutte le reazioni chimiche relative

all’esperimento. Non occorre dilungarsi in trattazioni teoriche: se chi legge la relazione è interessato alla

teoria, certo troverà più utile consultare un testo specifico.

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Esempio: Il titolo dell'acido cloridrico viene determinato titolando quantità esattamente pesate di Na2CO3

puro, usando come indicatore metilarancio.

Na2CO3 +2HCl H2CO3 + 2NaCl

Materiali utilizzati

Elencare i reattivi utilizzati, specificando la loro concentrazione esatta o approssimata. Elencare quindi gli

strumenti, indicando la marca e il modello e la vetreria usata.

Esempio: HCl 0,5 %, Na2CO3 puro

becher da 400 ml, buretta da 50 ml

bilancia analitica

Non importa riportare nell’elenco l’acqua distillata, il sostegno per la buretta, la bacchetta, ecc.

Descrizione delle operazioni

Elencare brevemente le operazioni compiute, utilizzando un corretto linguaggio scientifico, in modo che, in

caso di risultato errato, si possa analizzare la procedura seguita alla ricerca delle possibili cause di errore.

Esempio: Il carbonato di sodio è stato seccato in stufa a 150°C per due ore. Successivamente sono state

pesate con la precisione di 0,1 mg porzioni di circa 0,2 g, sciolte in 50 ml di acqua e titolate con l’acido

cloridrico fino al viraggio da giallo a giallo-rosa del metilarancio. La prova è stata ripetuta fino ad ottenere

valori della concentrazione dell'acido cloridrico che non differivano più dell'1%.

Risultati e calcoli

Scrivere i risultati ottenuti (volumi, pesate, valori strumentali ecc.) in modo chiaro e distanti l’uno dall’altro,

con le unità di misura e indicando a fianco di ogni valore che cosa questi rappresenta. Può essere utile

presentare i risultati sotto forma di tabella, che permette una visione immediata e completa di tutti i dati.

Indicare le principali equazioni chimiche utilizzate ed effettuare i calcoli necessari. Per ultimo fare i calcoli

statistici (medie, errore %, deviazione standard ecc.).

Conclusioni:

Riportare il risultato finale e scrivere le osservazioni su tutto ciò che può essere successo durante l’analisi e

sulle possibili cause di errore.

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La relazione di laboratorio

Allora, partiamo dall’etimologia: relatus è il participio passato del verbo referre, il nostro riferire; contiene

la radice di res, cosa, e insieme l’idea di ripartire daccapo. Stiamo parlando di ciò che abbiamo visto e fatto,

e lo dobbiamo comunicare ad un altro, che potrebbe anche non saperne niente e vuole scoprire da noi

tutto quel che gli interessa, perdendoci il meno tempo possibile. In un’azienda ci ripagherà del lavoro con lo

stipendio, e in un classe con il voto.

Dobbiamo comunicare qualche cosa, quindi dobbiamo partire da cosa, cioè dai contenuti. Se

chiacchieriamo con qualcuno/a perché ci piace ascoltare il suono della sua voce mentre lo/la guardiamo

negli occhi, il contenuto può essere meno importante dell’essere lì a comunicare: ma la cosa ha

ugualmente un senso, proprio perché in realtà ci stiamo comunicando qualcosa di diverso da quel che

diciamo con le parole.

Una relazione di laboratorio, così come un articolo di cronaca su un giornale, o un’insegna stradale, deve

invece trasportare tutto il contenuto di informazioni, in maniera tale che chi la legge non abbia eccessivo

bisogno di usare la propria fantasia per cogliere tutti i significati importanti.

Perché la lingua scritta non serve solo per le tipologie di tipo a, b o z del compito di maturità: nella vita reale

si deve saper comunicare per iscritto in tanti altri modi. E la scienza è eccezionale per imparare a comunica-

re, perché nella stessa pagina dobbiamo saper padroneggiare mezza dozzina di lingue differenti: la stechio-

metria, la matematica, le formule, le immagini, i grafici… oltre ad un italiano che sia al tempo stesso sche-

matico e vivo. Non è il caso di scomodare Primo Levi per ricordare che quando uno scienziato diventa uno

scrittore, di solito quel che colpisce è l’esattezza del linguaggio.

La seconda cosa interessante di una relazione di laboratorio è che è un documento di seconda mano, una

rielaborazione che raccoglie, riordina, traduce in maniera organizzata tante informazioni che esistono già.

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Già, ma dove esistono? O nella nostra memoria, o, in maniera più sicura, sul nostro quaderno di

laboratorio.

Quindi, stiamo vedendo uno dei tanti motivi per cui è indispensabile ad un chimico tenere un quaderno

puntualmente aggiornato, preso in diretta e mai corretto o elaborato successivamente: dobbiamo

comportarci come se tutto e solo quel che possiamo sapere del nostro lavoro in laboratorio sia tutto e solo

quel che sta scritto sul quaderno. Mai fidarsi della propria memoria, e questo vale soprattutto per chi ha

una buona memoria e quindi tende a fidarsene troppo.

Mentre il quaderno di laboratorio va compilato in diretta e, in seguito, magari commentato, ma sempre

avendo la cura di distinguere i fatti dai commenti successivi, senza mai falsificare o ritoccare quello che è

già stato scritto, una relazione è qualche cosa che si può (o si deve?) scrivere e riscrivere, prima di

consegnarla, e spesso capiterà che ci venga restituita con la richiesta di modificarla più o meno

pesantemente per sistemare questa o quell’altra parte.

Un quaderno di laboratorio senza macchie e scarabocchi, troppo ordinato e magari infiocchettato,

semplice-mente non è credibile. Una relazione scarabocchiata e pasticciata invece è sgradevole e comunica

disordine e poca attenzione.

Ci sono molti schemi che elencano le parti che deve contenere una relazione. Non penso di inventare

niente di nuovo, ma riflettiamoci attentamente, senza introdurre suddivisioni artificiose che potrebbero

non bastare in una situazione ed essere inutilmente prolisse in un’altra.

Partiamo da un’intestazione chiara. Voglio dire: nome e cognome, classe, materia, data, … in caso contrario,

per chi la legge ora, o per chi la rivedrà in futuro (magari tu stesso per ripetere o sviluppare un certo lavoro)

diventa piuttosto difficile rintracciarla e capire di cosa si parla. E comunque è un chiaro segno di ordine

men-tale.

Poi, dovrebbe esserci un titolo o qualcosa di simile. Il titolo potrebbe essere anche molto generico, per

esem-pio “polimeri” o “laboratorio sulle fibre”, ma rischierebbe di dirci un po’ poco, se per esempio stai

facendo un corso sulle fibre e per tutto l’anno parlerai solo di quello. Non deve essere però inutilmente

prolisso, per non perdere in chiarezza. Vogliamo provare a stare nei meravigliosi 140 caratteri di Twitter?

Di seguito ci dovrebbe essere un piccolo riassunto o descrizione generale dell’esperienza. Qui spesso salta

fuori un pasticcio linguistico: nei documenti anglosassoni, di solito compare la parola scope. Nel nostro

inglese di Broccolino la troviamo spesso trascritta come scopo. Peccato che… “scope” in inglese ha a che

fare con la visione di una situazione, con una prima comprensione generale della faccenda di cui ci

dobbiamo occupare: addirittura, indica il mirino di un cannocchiale o di un’arma. La parola deriva infatti dal

greco skopeo ed è collegata all’idea di visione esattamente come, in italiano, la ritroviamo in telescopio o

microscopio. Scopo, invece, in italiano sta di solito a indicare un’intenzione, un fine da raggiungere, il che

non c’entra assolutamente nulla.

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Un elenco dei materiali e delle attrezzature utilizzate è sempre utile. Ma quante sono le cose che vanno

elencate e con quale dettaglio? Per chi abitualmente svolge un certo lavoro, e sa che sia lui, sia chi legge la

relazione sanno benissimo a cosa serve e come si usa (per esempio: penna, matita, foglio di carta, becher,

cilindro graduato, …), non sarà necessario entrare nei dettagli (“ho usato una penna Bic nera quasi nuova e

dotata del suo cappuccio originale…”), al massimo si potrà aggiungere un “… oltre alla normale attrezzatura

di laboratorio, per il grafico ho usato anche la penna d’oca e l’inchiostro di china”.

Sarà invece molto importante capire, ad esempio, la classe di precisione di uno strumento, o se i reagenti

erano di tipo “tecnico”, “per analisi”, “per HPLC in tracce” e simili. Ogni indicazione utile allo scopo

ricavabile dall’etichetta, tanto per dire. Così magari chi la legge si accorge se hai smanacciato NaCl puro al

99.99999% che costa un euro al microgrammo, quando bastava il sale da cucina del supermercato. E ti

manda in miniera per ripagare il danno.

Da qui in poi, è abbastanza normale che le relazioni prendano aspetti e proporzioni piuttosto diverse, in

funzione del lavoro svolto, del destinatario che le deve leggere e così via.

Ma qui ci metterei sempre la parte più importante, e tristemente più trascurata: la valutazione dei rischi.

Perché la sicurezza deve essere la prima cosa di ogni lavoro (e la seconda, la terza e pure l’ultima).

Che pericolosità hanno i vari reagenti? Cosa hai fatto sul bancone aperto e cosa sotto cappa, e perché?

C’erano fiamme libere o dispositivi assimilabili? Anche qui, limitandosi a quello che serve in funzione dello

specifico lavoro: il rischio di caduta meteoriti di solito è trascurabile.

La parte descrittiva del lavoro e delle osservazioni, dove possibile, è conveniente sia sdoppiata, anche per

facilitare la lettura da parte di chi vuole capire con maggiore senso critico lo svolgimento: per poterlo

riprodurre, per capire dove ci possono essere stati degli intoppi o dove bisognerà fare dei miglioramenti,

eccetera.

Diversa è anche la descrizione in funzione dello scopo del lavoro: se faccio per la prima volta una titola-

zione, racconterò di come cambia il colore con una o due gocce in più, e così via; se invece descrivo un

lavoro complesso ed esperto, su un campione “reale”, potrebbe bastare “ho titolato con fenoftaleina”.

Mi viene in mente quella grande scuola di vita che era la naja: al CAR, per imparare, ti facevano scattare

sull’attenti nel saluto pure di fronte al caporale; quando poi lavoravi allo Stato Maggiore, se entrava un

capitano bastava un “buongiorno” e ti alzavi a salutare solo il generale… non so se ho reso l’idea.

Allora: descrizione del lavoro svolto. Rileggendo la bozza della nostra relazione, quando la rivediamo prima

di consegnarla, dobbiamo verificare se ci sono, più o meno estesamente, in maniera più o meno completa,

elementi come i seguenti: una descrizione delle principali operazioni, quali materiali abbiamo impiegato

nelle varie fasi, perché sono stati scelti; tempi, temperature, preparazione dei campioni, e così via.

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Dopodiché, le osservazioni: i materiali all’inizio si presentavano in un certo modo… durante il riscaldamento

hanno subito questa trasformazione, a queste temperature, in questo tempo (o almeno in quest’ordine), si

sono sviluppati dei vapori, ci sono stati dei cambiamenti di colore, puzzavano, si sono incendiati.

Basta un po’ di esperienza per capire che l’uso di tabelle, e possibilmente di grafici, è di una comodità

mostruosa sia per riordinare in maniera chiara le osservazioni svolte, sia per poterle leggere e mettere a

confronto con facilità. Li hanno inventati proprio per quello. Costruire una tabella, e a maggior ragione un

grafico, è meno semplice di quanto sembri, ma non è poi tanto difficile. E ha un valore spettacolare.

L’ho già detto ma lo ripeto: descrizione del lavoro e osservazioni devono trovare esatta rispondenza a

quanto indicato sul quaderno. Se non altro, questo permetterà a chi corregge la relazione di andare a

ricontrollare qualche punto che dovesse essere particolarmente interessante e/o di difficile

comprensione. Se una cosa non è scritta sul quaderno, non esiste. E se non l’hai scritta, capisci che hai

lavorato male e la prossima volta dovrai essere più attento.

Nella prima parte abbiamo visto come costruire una relazione, sulla base di quanto ci siamo appuntati in

tempo reale sul quaderno di laboratorio. Adesso introduciamo alcune considerazioni che potranno servire

anche per i materiali da presentare all’esame, “tesine” o simili.

Siamo arrivati all’ultima pagina. Molti son pronti a usare la famosa, famigerata parola: conclusioni. Beh,

certo, dopo tutto questo lavoro vuoi non mettere delle conclusioni?

Forse, ma a qualche condizione. Che siano davvero concludenti, per esempio. In genere le ultime righe,

magari orrendamente prolisse, tendono di più al tono autoflagellatorio di un marito da soap-opera che

cerca di farsi perdonare dalla moglie tradita (pur sapendo che la tradirà di nuovo nella puntata successiva).

Ad esempio: “…l’esperienza non è venuta pienamente bene perché non siamo riusciti a trovare i risultati che

ci aspettavamo in base a quanto ci è stato detto dal prof, questo perché abbiamo commesso molti errori a

causa della nostra disattenzione e non abbiamo seguito le indicazioni del libro di testo, del resto si sa che noi

ragazzi siamo discoli e disattenti, abbiamo perso una grossa occasione ma ci auguriamo che, la prossima

volta, se seguiremo meglio le indicazioni date dei nostri insegnanti sapremo…”

Il guaio è che, quando si leggono sproloqui simili, non possiamo scrivere quello che vorremmo. Un prof

certe cose non le dice. Purtroppo!

Stiamo lavorando su qualcosa di scientifico-tecnico! Non deve essere come nel tema di certi insegnanti di

italiano di una volta: guai a chiuderlo senza un paragrafo zuppo di retorica con le tue nobili idee ed i tuoi

alti princìpi. Dei quali, una volta visto il voto, non ve ne interessava più nulla, né a te né all’insegnante, e

men che meno quel che avevi scritto ti avrebbe cambiato la vita.

Se stiamo imparando a lavorare in modo scientifico e tecnico, ogni conclusione può (o deve?) essere il

punto di partenza per il lavoro successivo, ogni passo fatto può essere il primo di un lungo viaggio. I passi in

una direzione sbagliata o non voluta ci fanno scoprire qualcosa d’inaspettato, e non è sempre un burrone.

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Mentre da un lavoro “che è venuto” come ce lo aspettavamo, non è detto che impariamo qualcosa, se non

potremo o non sapremo dargli qualche tipo di seguito.

Se proprio ci pare brutto consegnare una relazione che non contenga delle “conclusioni”, limitiamoci a

elencare sinteticamente i punti salienti di quel che abbiamo capito, di quel che abbiamo capito di non aver

capito, e di come riteniamo si possa proseguire il lavoro. Ma anche no. Almeno, non saranno sconclusioni.

E finalmente la prima bozza della relazione è pronta. Rileggiamola cercando gli elementi di base della

grammatica di una comunicazione scientifica. C’è un’antica diatriba sul fatto che le relazioni di laboratorio

scolastico vadano scritte in prima persona singolare, in prima plurale o in forma impersonale passiva: non

va scelto a casaccio o secondo regole rigide da manuale, perché il modo di esprimerci influenza il tipo di

informazioni che il lettore raccoglie. Per fare un esempio, “Io ho pesato 2 g” *hai fatto bene+, oppure “noi

abbiamo lasciato ad essiccare per 1 h” *e cosa avete fatto tutti e 3 nel frattempo?+, o infine “si è agitato con

forza rompendo la vetreria” *complimenti! chi è stato?].

Sul quaderno di laboratorio non è ammessa nessuna forma impersonale: se una certa cosa l’ho fatta “io”, è

chiaro che non l’ha fatta qualcun altro, e viceversa. Nella relazione, non da’ invece nessun fastidio l’uso

della prima singolare quando il lavoro è stato svolto singolarmente, e la prima plurale quando il lavoro è

stato eseguito in gruppo. Usando un minimo di distacco si può evitare che assomigli a una pagina della

bacheca con i “mi piace”.

Quel che importa è che un cronista, un reporter, descriva i fatti come sono realmente accaduti, senza

ambiguità. Coniugando opportunamente tutti i tempi e i modi dell’indicativo passato: “mentre si scaldava,

abbiamo aggiunto…”

E’ sconvolgente leggere relazioni in cui si trovano frasi come: “si pesano 2 o 3 g…”, “scaldare a ricadere per

5 h, poi versare…”, eccetera. Per due ragioni.

Primo, si ha l’impressione che siano delle frottole. Se il lavoro l’hai veramente fatto tu, tu e solo tu sai se ne

hai pesati 2, 3 o nessun grammo: quindi, sei pregato di dirmelo. Se in base al nostro orario non stiamo mai

in laboratorio per più di 2 h effettive, devi spiegarmi come hai potuto svolgere fedelmente un lavoro che

richiedeva un’intera giornata. E così via.

Il secondo motivo è che questo indicativo-esortativo suona come un imperativo decisamente fuori luogo.

Voglio dire: leggendo la tua relazione mi sembra che tu stia dicendo a me quello che io dovrò fare, anziché

dirmi cosa hai fatto tu di quel che io ti ho detto di fare.

Sembra una istruzione normativa (quelle che si usano nei metodi di analisi di laboratorio o nelle ricette di

cucina) la quale implica, fra l’altro, che d’ora in poi tutti dovranno lavorare necessariamente in quel modo.

Il che andrà benissimo quando sarai relatore di una norma ISO. Ma è tutto il contrario di quel che mi

aspetterei da una attività didattica esperienziale, come direbbero quelli che san parlare complicato. Che

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abbiamo fatto questa volta con te, o con voi, perchè l’abbiamo studiata insieme, mentre la prossima volta

faremo qualcosa di diverso che servirà a chi ci sarà al posto vostro.

E qui siamo arrivati ad un punto cruciale: perchè si lavora in laboratorio? Per imparare e capire picchiando il

naso contro le difficoltà, svolgendo un lavoro in prima persona in cui ti assumi la responsabilità di quel che

fai o non fai, divertendoti ed incavolandoti? O invece perché l’insegnante ti ha dato una scheda

precompilata dove scrivere solo il risultato di una noiosa attività che non vedevi l’ora di finire?

Nel 2014, capita ancora di vedere esperienze intitolate “Verifica della legge di X”. Il che significa una

didattica antiscientifica, che richiede non di fare, vedere e imparare, ma di eseguire gesti senza senso per

credere di aver visto solo quello che il Libro Di Testo dice che avresti dovuto vedere.

Come se il sig. X non aspettasse che te per avere conferma di quel che diceva due secoli fa, e non debba

invece essere tu a capire se e quanto ci sia di importante per te, oggi, nel suo lavoro.

L’archetipo di certe tesine di maturità, piene di “cio’ che faceva piacere / a chi all’esame lo andava a

vedere”, per parafrasare un’altra pietra fondante della nostra cultura?

Ecco, intendo proprio quello. Dove gli sforzi creativi dell’autore si limitano a esercizi di (cattivo) gusto

stilistico, dove il docente controlla soprattutto che l’oggetto sia lezioso se verrà squadernato di fronte alla

commissione d’esame, a prescindere da quello che c’è scritto dentro. Purtroppo, di cose simili ne ho viste

fin troppe, e non voglio stare qui a raccontare una serie di aneddoti con cui si potrebbe riempire l’ennesima

antologia di sciocchezze. Dalla sciatteria nei calcoli, nell’uso delle cifre significative e delle unità di

misura, all’incapacità di interpretare i grafici più evidenti, dai riferimenti bibliografici inconsistenti

a quello stile appiccicoso di cui abbiamo parlato più sopra. Non da ultimo, ad una presentazione

grafica troppo pretenziosa e/o troppo piatta e burocratica (sì, le due cose possono coesistere!).

Riguardiamo con occhio critico il nostro elaborato, e controlliamo che non rechi traccia di quel

piccolo Umbridge che da qualche parte è dentro ciascuno di noi.

Conclusioni? … ohibò, ci sono cascato… La regola per scrivere una buona relazione di laboratorio è che non ci vogliono regole. Ci vuole

Page 12: Il QUADERNO e la RELAZIONE di LABORATORIOfisicalive.altervista.org/1 liceo/Quaderno relazione laboratorio.pdf · Il quaderno di laboratorio costituisce una traccia del lavoro scientifico

serietà, razionalità, fantasia, per comunicare qualcosa a qualcuno nel modo più efficace. Con l’esperienza si impara che in ogni contesto ci saranno usi e costumi particolari, che variano col tempo e magari ritornano di moda, come le minigonne o i maximaglioni. Certe cose restano, ok: non si va ad un esame in bermuda ed infradito, e con lo smoking in spiaggia fatichi a muoverti e fai ridere: ma da lì in poi, credo che l’abilità di insegnanti e studenti stia anche nel costruire insieme uno stile personale, consapevole, adattabile alle diverse circostanze. Scrivere come autentico esercizio didattico.

Nessuno fa testo una volta per tutti. Un conto è quando dovrai presentare un articolo ad una rivista scientifica, che ti chiederà di rispettare i suoi standard editoriali, e che pure sono differenti tra l’una e l’altra. Ma se un libro scolastico ti dice “una relazione SI FA così”, e parte con un elenco di precetti che devon valere sempre e per ogni attività, non prenderlo sul serio. Capita spesso con quelli nostrani, che tante volte si copiano e ricopiano l’un l’altro senza riflettere. Ma non era così con i libri scritti cinquanta o cent’anni fa, in epoche meno conformiste, che possiamo trovare nelle biblioteche dei nostri Istituti più antichi o tra le mille risorse di rete.

Non capita con certi libri di tradizione anglosassone (o anche germanica), dove non è molto apprezzato quell’approccio al laboratorio che da noi potremmo chiamare liceale nel senso deleterio del termine. E dove non a caso uno dei maggiori long-seller per il college è The Organic Chem Lab Survival Manual di Zubrick, arrivato alla 8^ edizione e che parte proprio insistendo su come si tiene un quaderno. Lì lo stile, più che alla Umbridge, fa pensare ad una via di mezzo tra Mad-Eye Moody e Chuck Norris…

Dopodichè, buon lavoro: la mia opinione te l’ho data, adesso sbaglia da solo.