Il Primo Sigillo

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Alessio Vincenti, fantasy Pau ha perso la donna che ama. Non può cambiare il passato, ma può cambiare universo. Evan è diventato Re di Castillion troppo presto, e la sua inadeguatezza potrebbe portare il Regno alla rovina. Calros è il consigliere del Re e membro della Fratellanza della Verità, ma ha visto crollare davanti a sé i valori secondo i quali ha vissuto tutta una vita. Sander è un semplice contadino. Yvae è venuto a cercare risposte nel Regno, ma ha trovato solo ostilità. Chaya è stata rapita, e non sa il perché. Questi e altri personaggi inizieranno un viaggio inaspettato che li porterà verso un unico luogo in un preciso momento. Il destino è una pura invenzione umana e le profezie non esistono, ma allora cosa li ha riuniti? E perché? Il Sentiero è lungo e inizia qui…

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In uscita il 25/11/2014 (15,70 euro)

Versione ebook in uscita tra fine dicembre 2014 e inizio gennaio

2015 (6,99 euro)

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ALESSIO VINCENTI

IL PRIMO SIGILLO Gaian, libro primo

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IL PRIMO SIGILLO Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-815-2 Copertina di Antonio DelBino

Disegno interno di Sasha Vincenti

Prima edizione Novembre 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Ai miei figli, perché ci sono Ai miei genitori, per avermi messo in mano

Le avventure di Tom Sawyer a sei anni A mia moglie, per la scintilla iniziale

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Prologo I

I Dormienti Gli esseri dormivano. Dormivano da molto, molto tempo. Come le altre creature viventi, anche loro dormivano al fine di riacquistare le energie spese durante il periodo di veglia, e proprio come le altre creature viventi avrebbero dormito per un tempo proporzionato alla quantità di forze uti-lizzate. Lo sforzo da loro compiuto era stato immenso: avevano affronta-to il viaggio che li aveva portati dove ora si trovavano. Viaggiare era il loro scopo, il motivo per cui erano stati creati. Viaggiare e aprire la stra-da a ciò che li avrebbe seguiti. Eppure era per loro sempre più difficile. Non tanto il viaggio in sé, quanto il sonno che seguiva e che li imprigio-nava per i secoli necessari al Risveglio. Gli esseri non ricordavano nemmeno più quante volte avevano viaggiato, quante volte avevano dormito e si erano svegliati, con ciò che inelutta-bilmente seguiva. L’unica certezza che avevano era che tutto sarebbe ricominciato di nuovo. Erano stanchi di questa vita, ma pur essendo mol-to potenti non erano loro a poter decidere della propria esistenza. Questa era dettata da uno scopo, non c’era altro. Se fosse stato possibile osser-varli, il loro sonno sarebbe apparso molto più simile al concetto di morte che a quello di riposo, apparenza che tornava molto utile poiché durante il sonno erano più vulnerabili. Ma, ovviamente, non era possibile osser-varli. Come per le altre creature viventi, anche per loro il sonno non era di per sé sufficiente per riacquistare le forze spese, avevano bisogno anche di nutrimento. Gli esseri si nutrivano durante il sonno, attingendo alle ener-gie che l’ambiente forniva. Era la presenza di quelle energie a fargli sce-gliere il punto di arrivo dei loro viaggi, o a farglielo scartare se tali ener-gie erano assenti o non sufficienti al proprio scopo. Quel luogo ne era estremamente ricco, e per lungo tempo tutto era andato secondo i piani, nessuno aveva disturbato il loro sonno e nutrimento. Ma poi qualcuno, per caso, li aveva scoperti. A differenza delle altre creature viventi, gli esseri avevano una mente così potente da riuscire a influenzare ciò che li circondava anche durante

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il sonno, e l’intrusione non era certo passata inosservata. E così, senza che ci fosse un’intenzione cosciente ma solo una semplice reazione a uno stimolo, gli esseri avevano usato coloro che li avevano scoperti. Li ma-nipolarono, insegnando loro come utilizzare quelle energie al solo fine di aumentarne il flusso. La porta attraverso la quale le energie passavano era rimasta socchiusa per molto tempo, gli esseri fecero in modo che si spalancasse. Ma successe qualcosa, qualcosa che non era mai accaduto in tutti i loro viaggi precedenti: qualcuno si rese conto del pericolo che rappresentava-no. Gli esseri sottovalutarono la minaccia, sicuri del proprio potere a tal pun-to da ritenersi al di sopra di ogni rischio, e sbagliarono. Fu tentata un’impresa che non avrebbero potuto prevedere, un gesto disperato e incredibile, ma certo efficace: il flusso fu sigillato, la porta fu chiusa. Naturalmente anche i loro antagonisti persero la capacità di attingere a quelle energie e sprofondarono nel caos, ma per loro quello fu il male minore, un male necessario. E così gli esseri continuarono a dormire ma non a nutrirsi, vicini al loro scopo eppure lontanissimi, poiché senza nutrimento non ci sarebbe stato il Risveglio. Nella loro coscienza però c’era una consapevolezza che li rendeva tran-quilli: una porta, per sua stessa natura, non può rimanere chiusa per sem-pre. Solo grazie a questa certezza la loro prigionia non li aveva fatti im-pazzire, e da qualche tempo essi “sentivano” che il momento era vicino, avvertivano una tensione palpabile, come quella che c’è subito prima di un’esplosione che sappiamo debba avvenire. Presto la porta si sarebbe aperta di nuovo, e questa volta gli esseri non avrebbero permesso a nessuno di fermare il Risveglio. Presto, presto...

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Prologo II

La macchina dei desideri L’isolata villetta si trovava appena fuori Madrid. Allo sguardo distratto di un passante poteva dare l’impressione di essere quasi ultimata: le pic-cole piante lungo il vialetto di ghiaia erano state interrate da poco, e in futuro promettevano di diventare una siepe rigogliosa. La parte sinistra della facciata era già stata dipinta del colore definitivo, un giallo sabbia, mentre nella parte destra, in basso, si potevano ancora vedere le chiazze delle precedenti prove di altre tonalità. Sul lato destro era ancora in co-struzione un patio, al quale mancava solo la copertura, e ai vetri delle finestre non erano ancora stati asportati i timbri bianchi del marchio di sicurezza. A una rapida occhiata avrebbe potuto dare la piacevole im-pressione di qualcosa che inizia. A un esame più approfondito però, ci si sarebbe resi conto che così non era. Le piante stavano morendo, le foglie ingiallite testimoniavano che nessuno le aveva irrigate da molti giorni. La tinta murale era stata appli-cata da troppo tempo, mentre le travi del patio non erano state ancora trattate, e il feroce sole spagnolo aveva aperto delle profonde crepe nel legno. E allora si sarebbe avuta la fastidiosa impressione di un lavoro iniziato e mai finito. La villetta sarebbe addirittura potuta apparire abbandonata se non fosse stato per la Toyota parcheggiata nel piazzale di ghiaia davanti all’ingresso. Il suo unico abitante, comunque, sarebbe stato del tutto in-differente alle impressioni di un possibile osservatore. Pau Andrés Santz era seduto su una sedia in salotto, e passava lo sguardo sulle quattro foto davanti a lui, lentamente, ossessivamente. Non sapeva da quanto tempo fosse lì, di sicuro da ore. Sul tavolo alla sua destra c’erano ancora i resti di una pizza, dimenticati da abbastanza tempo da aver sviluppato odori non previsti dal suo creatore. Vicino a una delle finestre c’era la sua chitarra, una Gibson semiacustica. Non la suonava più da molto tempo, anche il jazz aveva perso significato per lui. La poca luce che filtrava dalle imposte chiuse era appena sufficiente perché riu-scisse a vedere le foto disposte sul mobile, liberato appositamente a tale

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scopo. I vari soprammobili che occupavano in precedenza quello spazio erano sul pavimento, alcuni in molti pezzi. Per Pau c’erano solo le quat-tro foto. Posò lo sguardo sulla prima per l’ennesima volta: lui sdraiato su un telo da spiaggia in riva al mare, e su di lui Isabel, completamente bagnata e con ancora indosso la muta. Quell’estate a Gran Canaria aveva scoperto il bodyboard, con risultati notevoli. Era una sportiva, e lui si era sempre chiesto come potesse un architetto avere un corpo del genere. Glielo chiedeva anche, ma lei, che non amava i complimenti, invariabilmente rispondeva che mangiava cereali a colazione e beveva molta acqua. Seconda foto: abbracciati sul pontile di legno e ferro al porto vecchio di Barcellona. Lei sorrideva, luminosa come una nova. Terza foto: Isabel sdraiata sulla neve, braccia e gambe larghe. La vacan-za ad Aspen, che lui ricordava attimo per attimo malgrado fossero passati quattro anni. Quarta foto: un autoscatto, nella stessa sala dove si trovava lui, ma quasi cinque mesi prima. Erano tutti e due sporchi di polvere al termine di un’epica lotta contro i mobili. Ma ne erano usciti vincitori e la felicità gli si poteva leggere in faccia. Felicità... Giovani, belli e intelligenti. Entrambi con un lavoro fantastico e altamen-te remunerativo. Lei un architetto di grido, lui un fisico quantistico pres-so il Centro Ricerche per la Fisica delle Alte Energie di Madrid. Aveva-no appena acquistato la villetta, e la parola “matrimonio” ogni tanto fa-ceva la sua comparsa. Proprio la sera della quarta foto, a letto dopo aver fatto l’amore, lei aveva detto che erano estremamente fortunati, e si era chiesta cosa mai avrebbe potuto rovinare un sogno così. Un ictus, per esempio. Un ictus. Come al solito trovò la parola ridicola, e rise. Una risata empia, che stri-dette nel silenzio della casa come una forchetta passata sul vetro. Una parte del suo cervello, quella dello scienziato, si chiese se fosse normale ridere in quel modo o se fosse un sintomo di pazzia. Forse sarebbe stato più consono il pianto, ma lui non aveva più lacrime. Le aveva esaurite tutte in due giorni, e dopo aveva pianto anche gli altri umori del suo es-sere, lasciando solo polvere. Ictus. Pau si chiese per l’ennesima volta come potesse una parola così corta descrivere lo spaventoso vuoto che aveva creato nell’universo. Non che “momentanea occlusione dei vasi sanguigni che rinnovano l’ossigeno al cervello” avesse più senso.

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Aveva rimosso tutto ciò che era successo quella notte, ma ricordava in maniera vivida la mattina seguente, quando al termine dell’intervento il dottore gli aveva dato la notizia. In quel momento, stordito dall’enormità di ciò che era successo, era riuscito a pensare solo di non essere riuscito a parlarle prima della fine. Trovò tremendamente ingiusto non aver avuto quel comodo quarto d’ora che c’è in tutti i film, durante il quale si rie-scono a dire tante cose meravigliose. E invece l’ultima parola che si era-no scambiati era stata “buonanotte”. Tremendamente ingiusto. Qualcosa si mosse nel profondo della sua mente. Era già successo altre volte, era come se ci fosse un ricordo, un concetto o forse un’idea che cercava di farsi largo nel caos della sua disperazione. Qualcosa che ave-va a che fare con la giustizia, e che lottava per farsi sentire. Pau sapeva che doveva essere estremamente importante, ma non riusciva mai a met-tere a fuoco cosa fosse, e quello scompariva di nuovo. Questa volta non fu da meno, e lui tornò alle quattro foto. Posò lo sguardo sulla prima per l’ennesima volta: lui sdraiato su un telo da spiaggia in riva al mare, e su di lui Isabel, completamente bagnata e con ancora indosso la muta (il rumore di una macchina che risale il via-letto). Quell’estate a Gran Canaria aveva scoperto il bodyboard, con ri-sultati notevoli (uno sportello si apre, e si chiude). Era sempre stata una sportiva (passi sulla ghiaia, poi sui gradini). Pau imprecò tra i denti. “Chi sarà l’anima caritatevole che oggi tenta la mia redenzione? Avranno deciso dei turni?” si domandò. L’inevitabile bussare alla porta. «Avanti Pau, apri». “Sì, li hanno decisi, e oggi tocca a Santi” si rispose Pau. Santiago Herre-ra Sanchez era suo collega, e sicuramente il suo migliore amico. Ma lui non si mosse. «Senti testone di un catalano, o apri la porta o questa volta giuro che la sfondo!». «È blindata, lo sai». Pau trovò la propria voce roca, ma non se ne mera-vigliò, non la usava molto ultimamente. «Allora userò la macchina! Avanti, apri la porta!». Pau si chiese se l’amico avrebbe portato in fondo la minaccia. Probabil-mente no, si disse, ma si alzò comunque dalla sedia e aprì. La luce lo colpì come uno schiaffo, e di riflesso chiuse gli occhi con una smorfia. Quando li riaprì, riuscì a mettere a fuoco la figura di Santi. Era più alto di lui di una spanna e aveva un corpo possente. La barba sempre curata e gli occhi da bambino ne tradivano l’animo gentile. Lui lo chiamava l’Orso Buono. E buono lo era davvero. Per un amico avrebbe fatto di

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tutto, anche prenderlo a calci se necessario. Dalla faccia che aveva in quel momento, era esattamente quello che Pau si aspettava facesse. «Marisol come sta?» chiese Pau, tentando inutilmente di evitare l’ovvio motivo della visita. «Hai un’aria orrenda. E puzzi» rispose Santi, ignorando la domanda ri-guardo alla moglie. «Strano» ribatté Pau grattandosi la barba troppo lunga. «Io mi sento una favola». Con una smorfia di disgusto per la stupida ironia dell’amico, Santi entrò in casa senza aspettare l’invito, spingendolo da parte. «E la casa è messa peggio di te. Senti, io direi che il periodo di auto-commiserazione è finito, e siccome tu sei d’accordo, ora mi darai una mano. Tu pulisci il tavolo, io apro le finestre». Così dicendo, Santi iniziò ad aprire le imposte e a spostare mobilia. Il teatrino dell’amico non smosse niente nell’animo di Pau. L’autocommiserazione era la cosa più remota da lui. Non passava le giornate a ripetersi quanto stava male, stava male e basta. Rendendosi conto che Pau era rimasto fermo a guardarlo, Santi appoggiò a terra la sedia che stava spostando con un sospiro e si voltò verso di lui. «Io non posso sapere quello che provi, ma so per certo che ne devi usci-re. Così ti autodistruggerai. Sai che manchi dal Centro da più di quattro mesi? Ari è molto comprensivo, ma deve rendere conto ai finanziatori, e prima o poi ti dovrà licenziare se non riprendi il tuo posto». Pau rimase a fissarlo. Non aveva niente da dire, voleva solo che se ne andasse e lo lasciasse in pace. Tutti avrebbero dovuto farlo. «Pau, almeno esci da qui, vieni a stare da noi per un po’. Marisol me lo ha chiesto molte volte, e a Paola manchi tanto. Potrai rimanere quanto vorrai. Avanti, di’ qualcosa». Anche a lui mancava la bambina. Santi l’aveva chiamata così proprio per lui. Ma rimase in silenzio, niente riusciva a toccarlo abbastanza, ormai. Santi a quel punto perse la pazienza. Con due falcate attraversò lo spazio che li separava e lo prese per le braccia, scuotendolo come un pupazzo. Pau poté sentire i propri denti sbattere insieme, ma non riuscì a fare altro che continuare a fissare l’amico. «Cazzo, ti vuoi svegliare!» gli urlò in faccia l’Orso Buono. «Guarda che hai dei doveri, non sei al centro del mondo! Ci sono persone che ci ten-gono a te, e tu devi loro qualcosa. Guarda in faccia la realtà, Isabel è morta! Devi fartene una ragione, lo devi accettare!». E il tempo si fermò. In quel preciso momento tutto attorno a Pau rimase come bloccato in un

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fermo immagine, di una limpidezza quasi dolorosa dopo tutte le nebbie nelle quali aveva vagato. Pau capì. Quel pensiero che tentava di liberarsi da tanto esplose nella sua mente, grazie alle parole dell’amico. Dopo quasi cinque mesi di tormento ebbe tutto chiaro e, proprio a causa della rivelazione che aveva appena avuto, pose una domanda che a lui appari-va estremamente ovvia: «Perché?». L’assurdità della domanda colpì Santi in maniera inaspettata, lasciandolo a bocca aperta a fissare l’amico. «Che... come sarebbe “perché”?» chiese, sedendosi sul bracciolo di una poltrona che si trovava provvidenzialmente dietro di lui. «Perché devo accettarlo?» ripeté Pau, con l’aria di chi veramente non ha capito. «Pau, che stai dicendo?» chiese Santi, preoccupato. Ma Pau non lo ascol-tava più, guardava verso le scale borbottando qualcosa riguardo a degli appunti e a dove potessero trovarsi. Poi si voltò, ricordandosi dell’amico. Si ritrovò a sorridere, provando una sensazione di disagio a usare di nuo-vo i muscoli mimici per quello scopo. «Che giorno è?» chiese. «Giovedì. Senti, parliamone con calma...», ma Pau non lo lasciò finire. «Devi farmi un favore» disse prendendolo sottobraccio e accompagnan-dolo verso la porta. «Di’ ad Ari che lunedì sarò da lui alle nove, devo parlargli. Ora scusami, ho delle cose da fare, molto importanti». Santi si ritrovò fuori dalla porta a fissare Pau, ormai in preda alla confusione. «Santi, grazie». «Di che?». «Di avermi fatto capire. Ci vediamo lunedì» disse chiudendo la porta sulla faccia stupefatta di Santiago. Pau non perse tempo. In quel momento si rese conto di puzzare davvero, come se avesse improvvisamente riacquistato l’olfatto, ma la doccia a-vrebbe dovuto aspettare ancora un po’. Salì in soffitta e iniziò a frugare nei vari scatoloni finché non trovò quello che stava cercando: una ricerca fatta alcuni anni prima da un fisico indiano. Scese di nuovo nel salone, liberò il tavolo e ordinò pizza e birra, deciso a consumarle in tempo utile, quindi si mise a scrivere. Continuò così nei due giorni successivi, dor-mendo il minimo indispensabile. Rimase comunque lucido, lo scopo che perseguiva era troppo importante per perdere tempo in una cosa futile come il sonno. Quando capì di avere le idee abbastanza chiare, sabato notte, salì in bagno, si lavò e si rase, quindi andò a letto. Dormì tutta la domenica, e lunedì si svegliò alle sette in punto. Notò distrattamente che

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non aveva nemmeno dovuto mettere la sveglia. Si lavò e si vestì, e prima di uscire si fissò allo specchio. Aveva ancora un aspetto orrendo, ma nes-suno si sarebbe aspettato qualcosa di meglio. «Devo farcela» disse deciso all’ombra di se stesso che lo fissava dallo specchio. Due ore dopo Pau era seduto davanti alla scrivania di Ari Mendez Perei-ra, il direttore del Centro Ricerche per la Fisica delle Alte Energie di Madrid. Ari stava leggendo in silenzio gli appunti da venti minuti. Lo aveva accolto calorosamente, confessando che non credeva che si sareb-be fatto vivo. Pau sapeva che il suo affetto era sincero, i loro rapporti erano sempre stati buoni, anche se non avevano mai superato il livello professionale. Ari si disse molto colpito dal fatto che avesse addirittura portato un progetto, e a mano a mano che lo leggeva, la sua espressione si faceva più seria. Dopo un’eternità, Ari alzò lo sguardo verso Pau e si accigliò. Il direttore del Centro non si era ancora abituato a vederlo ridot-to così: aveva perso diversi chili, e non essendo molto alto adesso dava l’impressione di un’estrema fragilità. Il volto da bel tenebroso che aveva fatto strage di cuori tra le assistenti era segnato da profonde occhiaie e, benché avesse evidentemente tentato di pettinarsi, i neri capelli avevano un disperato bisogno di un barbiere. Ma nel suo sguardo c’era di nuovo quella luce di vitalità che mancava da troppo tempo. No, si corresse Ari, non la stessa luce di vitalità, qual-cos’altro. Sempre meglio del vuoto che aveva visto dopo il funerale, co-munque. «Ponti di Einstein-Rosen. Mi sarei aspettato di tutto, ma certo non una cosa così impegnativa. Non è il nostro campo specifico, Pau» proferì. «E questo è positivo o negativo?» chiese Pau. Sperò che il nervosismo non trasparisse dalla voce e dal sorriso tirato. «Sono solo sorpreso, Pau. Positivamente sorpreso. Ma da qui a dare il via a una cosa così...». Ari sospirò. Non era un dirigente che giocava sempre sul sicuro, ma i finanziamenti in Spagna erano un argomento de-licato, e lui odiava dare inizio a qualcosa senza sapere se avrebbe potuto portarlo a termine. Pau se lo aspettava, sapeva bene che quella sarebbe stata la parte più difficile del suo progetto. «Ci conosciamo da otto anni Ari, sai come lavoro. So che dopo quello che ho passato potrei non essere degno della stessa fiducia, ma ti prego di darmi questa possibilità. Sono stato folgorato, Ari. So che il progetto avrà esito positivo. Non so perché proprio ora mi sia venuta l’idea, ma se questo è il modo per uscire dalla fossa che mi sono scavato negli ultimi cinque mesi, beh, tanto vale che lo faccia vincendo un Nobel».

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Pau finì la sua tirata e aspettò una risposta senza respirare. Se fosse stato un no, le cose si sarebbero complicate a dismisura. Ari lo fissò per molti secondi prima di rispondere. «Avremo bisogno di molti soldi. Come vanno i tuoi contatti con i finan-ziatori privati?». Pau dovette trattenersi dal saltare la scrivania e abbracciarlo. Pau scese dalla macchina e salì i tre gradini chiudendosi con una mano il colletto del giubbotto di pelle. Si preannunciava un inverno piuttosto freddo. Suonò il campanello di casa Herrera col gomito, avendo l’altra mano impegnata a portare una torta e una bottiglia di Cava millesimata. Mentre aspettava risposta dette un’occhiata in giro. Aveva sempre odiato Madrid, ma ora che stava per andarsene la trovava quasi bella. «Chi è?» chiese una voce infantile al citofono. Paola. «Winnie the Pooh». «Zio Pau! Sali!». Salendo lentamente le due rampe di scale, Pau ripensò agli ultimi tre an-ni e mezzo. Il progetto era ormai alla fase operativa, e in tempi record. Aveva lavorato quasi tutti i giorni e diverse notti, seguendo tutte le fasi personalmente. I suoi collaboratori erano al settimo cielo per l’opportunità che avevano di entrare nella storia, e lui era felice anche di questo. Dimostrare la possibilità fisica dei wormholes valeva sicuramen-te il Nobel, e lui aveva lasciato una marea di appunti per chi avesse por-tato a termine il progetto la seconda volta. Purtroppo questa volta non sarebbe rimasto molto su cui lavorare. L’unico rammarico era non aver permesso a Santiago di farne parte. Aveva detto che non voleva niente sul lavoro che gli ricordasse Isabel. Ovviamente era una menzogna, e Santi non se l’era bevuta, ma non aveva fatto domande. Nemmeno a pro-posito del suo strano comportamento in quel primo giorno. Pau sospetta-va che ci fosse rimasto male, ma non poteva rischiare che l’amico capis-se. «Spero sia pesce» esordì entrando in casa e consegnando vino e torta a Marisol. «No, ma non credo che ciò ci impedirà di berla». La famiglia di Santi era per Pau il modello sul quale tutto il mondo a-vrebbe dovuto basarsi, ed era sempre felice di passare una serata con lo-ro. Loro tre erano la cosa più vicina alla sorridente famiglia degli spot pubblicitari della prima colazione. E poi Marisol cucinava in maniera divina.

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Ovviamente l’argomento di discussione durante la cena fu il progetto, che proprio il giorno seguente sarebbe dovuto passare alla fase sperimen-tale. «Senti Pau, in nome della nostra amicizia devi salvarmi. Marisol mi sta massacrando da due anni perché le spieghi che cos’è un wormhole» disse Santiago recitando la parte dell’uomo perseguitato. «E tu in due anni perché non l’hai mai fatto?» chiese Pau. «Oh, ma l’ha fatto» rispose Marisol, fingendo altrettanta disperazione, «solo che perde la pazienza appena accenno a non aver capito i suoi stra-ni disegnini...». «Non sono disegnini!» intervenne indignato Santi. «Sono grafici». «Il concetto di base dei wormholes, o più precisamente del ponte di Ein-stein-Rosen, è molto semplice» iniziò Pau prendendo una mela dal vici-no cesto di frutta e tenendola sulla punta delle dita. «Immagina che l’universo sia la superficie esterna di una mela. Essendo la superficie della mela curva, la linea che unisce il punto A al punto B sarà sempre curva, anche se gli abitanti della superficie la percepiranno come retta. Poi arriva un verme, e partendo dal punto A scava un buco, da cui il termine wormhole, raggiungendo il punto B con una linea “ve-ramente” retta, risparmiando molto tempo rispetto a chi cammina sulla superficie della mela. Ovviamente è un po’ più complicato di così, ma se le teorie della fisica quantistica sono giuste, allora i wormholes sono una necessità matematica. Domani cercheremo di provarne la possibilità fisi-ca». «Avete speso milioni di euro per fare un buco in una mela?» chiese Ma-risol. «Lascia perdere, Pau. È senza speranza» affermò Santi scuotendo il ca-po. La cena proseguì in allegria, poi Pau si concesse mezz’ora di gioco con Paola. Dopo la morte dei suoi genitori, Pau aveva perso i contatti con il resto della famiglia, un po’ per la distanza dalla sua regione natale, un po’ per scelta. Tutto ciò che aveva ormai, a livello sentimentale, era in quella stanza, e sentiva la necessità di un addio e di un ricordo. Una volta che la bambina fu a letto, Santiago preparò i bicchieri per quello che chiamava il Rituale del Cognac. Pau non rimase ancora molto, e quando se ne andò, salutò gli amici con un abbraccio. Un’ora dopo, Marisol stava raggiungendo Santiago a letto. «Bella serata» disse abbracciando il marito, che le dava le spalle. Come risposta ricevette solo un grugnito d’assenso. «Pau era un po’ strano, no? Non lo avevo mai visto giocare così tanto

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con Paolita. E poi quando se n’è andato ci ha salutato come se fosse un addio». Ci furono un paio di secondi di silenzio, poi con uno scatto Santi si tirò su a sedere. Marisol fece un balzo indietro, spaventata. «Che ti prende? Mi hai fatto prendere un colpo!». Santiago si voltò verso la moglie, improvvisamente sveglissimo. “Sicu-ramente più sveglio che negli ultimi tre anni” si disse. Doveva essere stato praticamente privo di sensi per non accorgersi di nulla. «Lo era. Era un addio» confermò. Si alzò dal letto e iniziò a vestirsi fre-neticamente. «Che idiota che sono. Ecco che voleva dire quando mi chiese perché. Perché accettare una cosa così banale come la morte? Ecco perché ha insistito per creare la camera dell’esperimento così grande, ci doveva entrare. Che idiota!». Marisol ascoltò tutta la tirata, poi decise che era giunto il momento. «Ti do tre secondi per spiegarmi, poi perdo la pazienza» pronunciò nel tono che il marito aveva imparato a temere. Santi iniziò a parlare mentre si infilava i calzini. «Hai presente l’esempio della mela? In teoria non c’è una sola mela, ma infinite altre all’interno della nostra e altrettante all’esterno. Universi paralleli, capisci? Bene, i wormholes possono essere aperti attraverso la superficie di uno di essi, come ti ha spiegato Pau stasera, ma in teoria anche tra due universi adiacenti». Marisol continuò a guardarlo aspettando fiduciosamente la spiegazione, che dal suo punto di vista non era ancora arrivata. Santi, che aveva finito di vestirsi, la guardò esasperato. «Magari nella mela sotto la nostra, Isabel è ancora viva...». Una vocina nel suo cervello gli disse che la frase non aveva il minimo senso. In un’altra situazione avrebbe anche riso, ma ebbe comunque l’effetto voluto sulla moglie, che rimase a bocca aperta. «Si è costruito una macchina dei desideri». Santi annuì, e uscì di casa. Ventidue minuti più tardi parcheggiò la mac-china davanti all’entrata del Centro. Non si era sorpreso neanche un po’ quando gli uomini della vigilanza gli avevano comunicato che il dottor Santz era già arrivato. Lui non aveva detto niente, deciso a parlare a Pau prima di avvertirli. Entrò a passo di carica nel laboratorio 3, sede dell’esperimento. Pau era al terminale, evidentemente programmando la sequenza di inizia-lizzazione, uno zaino appoggiato alla scrivania. Premette il tasto di invio e si voltò verso l’amico.

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«Nessun sospetto per quasi quattro anni e decidi di capire tutto tre minuti prima del momento fatidico. Tempismo degno di un film d’azione» af-fermò con un sorriso Pau, alzandosi. «Non te lo lascerò fare». «L’utenza è bloccata da una password. Tra due minuti e mezzo accadrà, che tu lo voglia o no. E io sarò dentro la camera» avvertì Pau indicando il macchinario alle spalle dell’amico. “Camera” era il termine tecnico. In effetti, sotto decine di chili di cavi, sensori e schermature c’era una strut-tura di metallo il cui interno formava uno spazio cilindrico di sessanta centimetri di diametro e alto un metro e venti, destinazione finale delle energie prodotte nell’acceleratore di particelle toroidale sepolto sotto di loro. In quello spazio angusto si sarebbero imbrigliate per un nanosecon-do le energie basilari dell’universo. «Hai idea di quanti megawatt servano? Senza l’autorizzazione farai sal-tare decine di centraline. Un danno spropositato per un suicidio. Buttati da un ponte, come fanno tutti». «Non morirò, lo sai. Dai Santiago, così proverò che funziona! Lo so che non rimarrà molto su cui lavorare, ma Celia e Cristobal conoscono bene il mio lavoro. Prendi tu le redini del progetto, e l’anno prossimo avrete comunque il Nobel». «No Pau. È troppo egoistico da parte tua. Non è giusto». «Giusto?» Pau guardò l’amico con aria incredula e iniziò a urlare. «Giu-sto?!? Dov’è la giustizia nella morte di Isabel?». Pau chiuse gli occhi, stringendo i pugni in maniera spasmodica. Quando li riaprì la feroce rab-bia che lo aveva colto aveva lasciato il posto alla determinazione. Fissò l’amico. «Manca un minuto, e sai che dovrai fermarmi con la forza». Così dicen-do prese lo zaino e si diresse verso la camera. Quando arrivò abbastanza vicino, Santi lo prese per un braccio, con energia. Pau fronteggiò l’amico, pronto a tutto. Aspettava da più di tre anni, non si sarebbe fatto trattenere. Si fissarono per dieci lunghissimi secondi, durante i quali Santiago do-vette prendere una decisione difficilissima. “Qual è il vero motivo per cui lo vuoi fermare? Se il motivo è l’amicizia che provi per lui, allora chi è l’egoista?” si chiese. Chi era lui per giudicare qualcosa di così grande? Negli ultimi minuti infatti, non riusciva più a percepire Pau come l’amico che conosceva da una vita, ma come l’emanazione fisica di una forza trascendente, uno spirito pronto ad affrontare un intero universo e tutte le sue leggi pur di raggiungere lo scopo che i miseri esseri umani percepivano come inarri-

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vabile. Lui, Santiago, avrebbe saputo concepire altrettanto? Si ritrovò a provare una profonda tristezza per la perdita imminente e una sconfinata ammirazione. Tirò a sé l’amico e lo abbracciò. «Dalle un bacio da parte mia» disse, prima che la voce fosse strozzata da un nodo alla gola. Pau non rispose, ma gli sorrise. Corse verso la camera e disinserì il si-stema di chiusura. Entrò e richiuse, senza guardarsi indietro. Alcuni se-condi più tardi il conto alla rovescia arrivò a zero. Non ci fu nessun lam-po di luce, nessuno strano effetto ottico, solo un sonoro “pop” quando l’aria colmò lo spazio precedentemente occupato dall’uomo che non considerava la morte come un’opzione accettabile. Un attimo dopo calò il buio nel laboratorio 3 e nei cinque quartieri adiacenti della grande città spagnola. Santiago rimase ancora qualche secondo lì, fermo, poi iniziò a spostarsi con cautela verso la porta. Il suo piede toccò qualcosa. Capì subito di cosa si trattasse. «Testone di un catalano, hai dimenticato lo zaino».

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Capitolo I

La caduta del regno

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I Sander si era distratto di nuovo. La coccinella, il motivo della sua attuale distrazione, era enorme, e si stava arrampicando sul tralcio di vite che lui avrebbe dovuto legare. Il ragazzo avvicinò l’indice all’insetto che, infastidito dall’intrusione, ini-ziò a controllare il dito con le antenne. Decisa che il nuovo oggetto non rappresentasse un pericolo, la coccinella vi salì sopra. Sander portò allora la mano vicino agli occhi, ruotandola per mantenere la coccinella in vista a mano a mano che questa procedeva con l’esplorazione. Osservando l’insetto, Sander iniziò a farsi quelle che suo padre aveva denominato le “domande dell’affamato”, ossia quelle domande inutili che, a forza di perder tempo a porsele, un giorno lo avrebbero ridotto senza cibo e senza lavoro. Quante ali ha una coccinella? Due come le mosche? O quattro come le libellule? E poi, perché alcuni insetti ne hanno due e altri quat-tro? Come accadeva sempre in quei casi, la sua bocca si aprì leggermen-te, dandogli l’aria del ritardato per la quale gli altri ragazzi lo prendevano in giro. La coccinella aveva compiuto tutto il giro del dorso della mano, e stava ora attraversando il palmo. Proprio mentre stava passando sulla strana macchia che si trovava nel centro fin dalla sua nascita, una voce lo chiamò. «Saaaander!». Sander trasalì, e l’improvviso movimento spaventò la coccinella, che volò via abbandonando l’esplorazione, indignata. Tre filari più in là suo fratello lo stava fissando, con un sorriso malcelato sulle labbra. «Che stavi facendo?» gli domandò. «Ahm... niente...». «Appunto» disse Sadrian. «Padre ci ha detto di finire la vigna nord entro oggi. Siamo poco più che a metà, e tra poco suonerà la campana del pranzo. Lo sai che le giornate sono corte». Nella voce del fratello il tono di rimprovero era lieve, più dettato dalla necessità che da una reale irritazione. Sander abbassò la testa e riprese a legare i tralci ai sostegni di legno senza rispondere, comunque offeso dal rimbrotto. Avrebbe finito i suoi filari in breve tempo. Anzi, prima di suo fratello, decise. Era il diciassette di Plianum, il primo mese dell’anno, e le giornate erano

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fredde, oltre che corte. Ma a Sander il freddo non dispiaceva. In inverno l’aria era più limpida e dalla vigna nord, dove ora si trovavano, si poteva vedere la vallata che si estendeva a sud, il villaggio di Dennia e, nelle giornate più terse, perfino i torrioni del Palazzo Reale di Amaya. La fat-toria della sua famiglia si trovava proprio a ridosso delle propaggini me-ridionali dei Monti Sievada, in una grande conca naturale circondata da boscose colline. La casa si trovava nel centro della piccola valle, mentre tutti i suoi lati erano ricoperti dai vigneti. Quando saliva lassù, Sander rimaneva sempre incantato dalla vista di cui si godeva. Amava il posto in cui viveva, e amava il suo lavoro. Curare le viti anno dopo anno e veder-le crescere non smetteva mai di affascinarlo. Alle volte si trovava a par-lare con loro in maniera amorevole, sicuro che in qualche modo, a qual-che livello, percepissero il suo affetto e lo ricambiassero. Suo padre una volta lo aveva sorpreso a parlare con le piante, aveva scosso il capo e scherzando si era detto speranzoso che almeno le viti non gli rispondes-sero. Sander ci era rimasto male, ma non aveva smesso. In fondo le viti chiedevano solo un po’ di cura, e in cambio permettevano alla sua fami-glia di vivere una vita migliore di tanti altri. Lui non si ricordava di aver mai saltato un pasto, cosa che la maggior parte dei contadini della vallata non poteva certo dire. Le viti non parlavano, è vero, ma tanto meno giu-dicavano. Poi c’era il periodo della vendemmia, durante il quale i frutti del lavoro della sua famiglia si potevano vedere, assaggiare e, in seguito, vendere. Il loro vino era rinomato nella zona, e addirittura tre anni prima erano riusciti a venderlo per uno scudo d’argento al barile. Fare il vino era per lui motivo di infinito orgoglio, e ultimamente gli erano venute alcune idee per una nuova produzione. Era sicuro che sul lato ovest ci fosse ancora posto per una piccola vigna. Anche se suo padre era scetti-co, lui era certo che l’esposizione al sole era ottimale, e che una ven-demmia tardiva avrebbe prodotto un vino dolce di qualità. Forse la sta-gione successiva suo padre avrebbe acconsentito. Sander era felice della sua vita e al contrario di suo fratello, che spesso fantasticava di lasciare la fattoria, lui vedeva il suo futuro lì, con le sue vigne e il suo vino, lontano da tutti. Lontano specialmente da chi lo prendeva sempre in giro. Vivendo ad alcune miglia dal villaggio di Dennia, a sua volta distante una decina di miglia dalla capitale del regno, Amaya, non vedeva spesso altre persone oltre agli appartenenti alla sua famiglia. Ma, come tutti i ragazzi della sua età, una volta ogni decidia doveva andare alle lezioni, oltre ad assistere una volta al mese alle Funzioni. Sander iniziava a teme-re quel giorno già dai tre giorni precedenti. Non che le lezioni non gli

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piacessero, anzi, lui amava apprendere quel poco che Fratello Rique ave-va da insegnare ai ragazzi del villaggio. No, quello che lo spaventava erano proprio quei ragazzi. A quanto pareva, infatti, le lezioni interessa-vano solo a lui ma annoiavano a morte gli altri, che per distrarsi durante i lunghi pomeriggi che dovevano passare nella Sala della Verità avevano l’abitudine di tormentarlo. Le prime volte Sander aveva fatto molte do-mande a Fratello Rique, e proprio per questo aveva attirato l’attenzione di Fran Arimin, il figlio del fabbro e “capo” ufficiale dei ragazzi del vil-laggio. Ovviamente aveva smesso di fare domande dalla volta successiva ma spesso, quando Fratello Rique spiegava qualcosa che a lui risultava interessante, Sander lo fissava e apriva leggermente la bocca, proprio com’era successo con la coccinella. E allora i ragazzi iniziavano a pren-derlo ferocemente in giro. «Ti ci farà il nido un merlo!» diceva qualcuno, indicando la bocca aperta. «Stupido com’è, non chiuderà più la bocca per non disturbare le uova!» rincarava qualcun altro. Sander si accorgeva sempre troppo tardi di aver assunto l’aria da sciocco, e quando iniziavano gli scherzi lui arrossiva e chinava il capo, odiandosi per apparire stupido e odiandosi ancora di più per non riuscire mai a difendersi dalle prepotenze di Fran e del suo grup-petto. Ma lui era fatto così, troppo timido e dimesso, come diceva sem-pre suo padre Mardos. Per quanto si odiasse non riusciva comunque a cambiare, e finiva sempre per subire in silenzio. Anche perché sapeva che le cose non sarebbero mai andate oltre il dileggio. A quel punto in-fatti interveniva suo fratello. Sadrian, il suo fratellone. Se li si guardava attentamente, ci si sarebbe accorti della stretta parentela che li univa: entrambi avevano ereditato l’altezza e i capelli chiari dal padre, ed entrambi erano di corporatura robusta, anche grazie al lavoro nelle vigne. Sander aveva gli occhi chiari della madre, mentre Sadrian assomigliava a suo padre anche nei tratti del viso, più marcati, e negli occhi scuri. I due, però, erano così diversi nell’atteggiamento che nessu-no riusciva a vederne la somiglianza fisica. Sadrian era sempre sicuro di sé, e dava l’impressione di sapersela cavare in tutte le situazioni, l’esatto contrario di Sander. Era come se istintivamente le persone dessero per scontato che non poteva essere stata la stessa madre a generare due ra-gazzi tanto diversi. Fin da piccolo, lui vedeva Sadrian come un gigante pronto a difenderlo. E in effetti, così era. Sadrian era molto protettivo con lui, ma odiava do-verlo proteggere. Quando si era trovato in difficoltà, suo fratello era sempre stato presente. Sander sapeva che dopo aver messo al loro posto i

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ragazzacci del villaggio, Sadrian avrebbe avuto da dire un paio di cose anche a lui, ma non gli importava. «Potrei non esserci, la prossima volta» gli ricordava. Ma poi c’era. Sem-pre. Sander si spostò di alcuni metri e fissò un altro tralcio al telaio. Quello era un lavoro delicato, che poteva compromettere lo sviluppo dei grappo-li l’estate successiva, ma lui lo svolgeva con passione ormai da quando aveva otto inverni, e i suoi gesti erano sicuri mentre legava il salice at-torno alla vite. Suo fratello lo chiamò di nuovo. «Ho finito i legacci, vado a prenderli» gli urlò, indicando il piccolo cesto di vimini legato alla cintura. «Ne porto anche a te?» Sander controllò la sua cesta e fece cenno di no. Aveva ancora legacci in abbondanza, e si chiese mestamente se ciò fosse la prova della sua len-tezza. Suo fratello corse lungo il filare in cui stava lavorando e si diresse verso il vecchio fico, sotto il quale avevano lasciato i rametti di salice. Lui riprese il lavoro. Tra poco sua madre avrebbe suonato la piccola campana appesa nel portico della fattoria, informando così loro due e suo padre, impegnato a sistemare il recinto delle capre, che il pranzo era pronto. Sander cercò di ricordarsi cosa stesse cucinando sua madre quel-la mattina mentre stavano uscendo, ma invano. Qualsiasi cosa sarebbe andata bene, decise. Era affamato come un lupo in inverno. «Ragazzo!». Prima ancora di voltarsi, Sander seppe che la voce non apparteneva a nessuno dei suoi familiari. A poche decine di passi da lui, il filare termi-nava sul lato esterno della piccola valle, e poco più in là si trovava il sen-tiero che la costeggiava tutta ed entrava nei boschi. L’uomo aveva lascia-to il cavallo sul sentiero e stava camminando verso lui, nel vigneto. Alle sue spalle, sul sentiero, Sander vide altre due figure a cavallo, avvolte in mantelli di lana marrone. Avevano il cappuccio tirato su, e a quella di-stanza l’unica differenza visibile tra i due era la statura. Anche l’uomo che lo aveva chiamato portava un mantello, ma il cappuccio era calato. Aveva corti capelli rossi, un paio di lunghi baffi e la faccia segnata di chi ha passato la maggior parte dei propri giorni all’aperto. Qualcosa al suo fianco sinistro si muoveva sotto il mantello a ogni passo, l’elsa di una spada. Sander non ebbe dubbi, si trattava di un soldato. Lo si intuiva dal portamento sicuro e arrogante che ha chi porta un’arma. Che ci facevano quei tre così lontano dal villaggio? Sander conosceva i soldati della piccola guarnigione di Dennia perché lui e suo fratello ci passavano davanti ogni volta che andavano alle lezioni, ma questo non lo aveva mai visto. In effetti non aveva mai visto un soldato dalle parti della

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fattoria in tutta la sua vita. Ovviamente la stranezza della cosa e l’avanzare imperioso dell’uomo lo fecero agitare immediatamente. «Quello è il sentiero che porta alla Fonte del Lupo?» chiese l’uomo, in-dicando alle sue spalle. Sander aprì bocca, ma nessun suono ne uscì. In compenso arrossì furiosamente. «Sei sordo? Quel sentiero porta o no alla Fonte?» incalzò lo sconosciuto. Sander sapeva benissimo che era quello il sentiero. Aveva giocato alla Fonte del Lupo centinaia di volte quando era bambino. Bastava dire di sì. Ma rimase bloccato. Come al solito. Mentre abbassava lo sguardo si maledisse per la sua timidezza. O forse era veramente stupido, come diceva sempre Fran. L’uomo emise un gru-gnito di disgusto mentre si voltava verso i compagni. «Deve avere avuto la febbre alla testa da bambino. Non capisce quel che dico» riferì ai due compagni. In quel momento Sadrian emerse dal filare vicino, e l’uomo si voltò ver-so di lui. «No ser, mio fratello è solo timido» disse salutando l’uomo con un leg-gero inchino. Malgrado il segno di deferenza, il tono della sua voce la-sciò trasparire una punta di durezza. Sadrian non era tipo da farsi intimi-dire, nemmeno da un soldato. «Se state cercando la Fonte, il sentiero è quello giusto. Dovete solo se-guirlo per un’ora, non potete sbagliare» spiegò. Il soldato squadrò Sa-drian diversi secondi. Sander pensò che stesse per rispondere alla piccola insolenza, ma quando parlò c’era qualcos’altro nella sua voce, la diverti-ta ammirazione davanti a una dimostrazione di coraggio. «Insegna a tuo fratello a rispondere alle domande che gli vengono rivol-te» proferì. «Ai mercati di Amaya non si vende vino stando zitti». L’uomo si voltò e tornò verso il proprio cavallo e i suoi compagni, senza nemmeno ringraziare per l’informazione. Non che se l’aspettassero, loro erano due comuni contadini, mentre quei tre sembravano gente importan-te. Anche troppo, pensò Sander, per interessarsi alla Fonte del Lupo. Non c’era niente là, tranne una vasca di pietra piena d’acqua costantemente riempita dalla fonte che sgorgava dalle rocce. A meno che non stessero cercando il vecchio che viveva da quelle parti. Lui lo conosceva, perché una volta ogni due mesi circa il vecchio andava a Dennia, passando nei pressi della fattoria. I suoi pensieri furono bruscamente interrotti da Sa-drian. «Si può sapere perché non gli hai detto dov’era la Fonte?» gli urlò agi-tando le braccia. «Io...».

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«Maledizione Sander! Hai diciassette inverni, non sei più un bambino. Quell’uomo aveva ragione, tra qualche anno dovremo andare da soli ai mercati a vendere il vino, e se continui a essere così... così...». «Debole?» chiese Sander sommessamente. Aveva ancora lo sguardo chi-no e si passava le dita sulla macchia che aveva sul palmo della mano de-stra, come faceva sempre quando era pensieroso. O umiliato. Sadrian lasciò cadere le braccia, l’irritazione sostituita dall’affetto. Pur-troppo però, era esattamente quello che pensava. Da quando aveva tre anni, da quando cioè era nato Sander, Sadrian aveva passato la vita a cercare di farlo diventare più forte, ma senza risultato. Sapeva che prima o poi sarebbe giunto il momento in cui suo fratello si sarebbe trovato ad affrontare la vita da solo, e temeva che non ce l’avrebbe fatta. Come a-vrebbe potuto, se non riusciva nemmeno a parlare con uno sconosciuto? «Stavo per dire timido» mentì Sadrian. I due rimasero in silenzio, l’uno fissando l’altro e l’altro fissando i propri piedi. La campana del pranzo risuonò provvidenziale per tutta la valle, e senza dire altro i due s’incamminarono verso la fattoria. Fatti alcuni passi, Sa-drian cinse le spalle del fratello con un braccio. «Ho un’idea» disse, scuotendolo giocosamente. «La prossima volta che andiamo a Dennia ti porto dalla vecchia Gedda, le regaliamo un pezzo di formaggio e lei ti farà passare la timidezza. Che ne dici?». Sander si fermò e fissò il fratello con aria oltraggiata. Gedda era la pro-stituta di Dennia, l’unica del piccolo villaggio, e a detta di loro padre aveva reso uomini almeno tre generazioni di ragazzi. Ora la poverina aveva visto quasi sessanta inverni, e non erano certo pochi vista la dura professione. Sadrian riuscì a guardare il fratello con aria seria ancora qualche secondo prima di scoppiare in una risata. Sander sferrò un pugno sulla spalla del fratello e s’incamminò a passi decisi verso casa, mugugnando a denti stretti. Sadrian, ormai in piena crisi di riso, lo seguì, descrivendogli mi-nuziosamente ogni tecnica e ogni posizione che la vecchia Gedda avreb-be usato. Quando raggiunsero la fattoria ormai ridevano entrambi come bambini.

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II I tre uomini a cavallo si lasciarono alle spalle i vigneti ed entrarono nel bosco di querce e frassini che ricopriva le pendici dei monti Sievada. Era circa mezzogiorno, ma il sole non era riuscito a riscaldare la limpida giornata invernale. La sua luce però illuminava il sentiero attraverso i rami spogli, e l’unico rumore che si poteva sentire nel bosco era quello dei passi dei cavalli sul letto di foglie. Per fortuna la neve non era ancora arrivata, altrimenti il loro piccolo viaggio sarebbe stato molto più diffi-coltoso. I tre procedevano senza parlare, ognuno immerso nei propri pensieri. Il più giovane si trovava in mezzo agli altri due, e sapeva bene che quel silenzio non era dovuto al piacere di una cavalcata all’aria aperta, era un silenzio carico di tensione. Il soldato alla sua destra era taciturno per natura, ma in quel caso il suo comportamento era causato dalla disapprovazione per ciò che erano ve-nuti a fare. Ovviamente non l’avrebbe mai detto, ma si conoscevano da troppo tempo perché lui non lo percepisse. Anche l’altro suo compagno non approvava la loro missione, e al contrario del soldato lo aveva detto chiaramente. Ma c’era qualcos’altro nel suo comportamento oltre alla contrarietà. Dopo quello che era successo sedici giorni prima, l’uomo era cambiato, era come se stesse combattendo una guerra interiore. Qualunque fosse la ragione, non cambiava la realtà: quel silenzio era pesante come un’accusa, era un dito puntato contro di lui. Era un silenzio che gli urlava contro tutta la sua incapacità. Quello che stava facendo aveva senso? O era solo il capriccio di un ragazzino che fa quello che gli è stato sconsigliato solo per dimostrare di essere abbastanza grande da operare delle scelte? Si morse un labbro per non cedere alla pressione e dire qualcosa per colmare quel vuoto assordante. Forse si stava solo creando dei problemi che non esistevano. Suo padre avrebbe detto che se aveva preso una de-cisione doveva portarla fino in fondo, senza mai dare l’impressione di avere dei dubbi. “I dubbi sono per gli allevatori e per i contadini, non per i Re”. Ma lui non era suo padre e la cosa era chiara a tutti, pensò amaramente. Per quanto si sforzasse, non riusciva mai a dare l’impressione di possedere la forza che il suo ruolo gli imponeva. Dopo aver fatto una scelta si ritrova-

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va sempre a cercare l’approvazione degli altri, pur sapendo quanto que-sto comportamento fosse sbagliato da parte di chi ha una posizione di comando. L’unica volta che non era tornato sui suoi passi a causa delle critiche era proprio questa, ma ora si trovava a navigare in un mare di incertezze, non tanto per la decisione in sé, quanto per le motivazioni che l’avevano spinto a continuare per la sua strada. Cosa voleva dimostrare, e a chi? Dopo alcuni minuti, comunque, fu lui a rompere il silenzio. «Non hai trattato troppo duramente quei due ragazzi, vero?» domandò al soldato. Che domanda futile. Poté quasi sentire la voce di suo padre che lo rim-proverava: «Quando non hai niente da dire, taci». «Troppo poco direte, sire. Timido! Ah! Mi basterebbe un mese per rad-drizzare la schiena a quel ragazzino». «Era solo un contadino, Broer! Non credo che dovrà mai affrontare una banda di predoni Sahaduin in vita sua» disse il Re, abbassandosi il cap-puccio del pesante mantello. Broer era un brav’uomo, ma tendeva a giu-dicare tutto e tutti secondo il metro di giudizio del soldato. Forse, visto il ruolo che ricopriva, il non avere incertezze nel dividere tutto ciò che gli si parava davanti in nemico o amico era un vantaggio, ma non riusciva a vedere una semplice verità: lui era ciò che era proprio per difendere quel-li che non erano come lui. «Sire, credete che sia saggio scoprirsi il volto?» chiese l’altro uomo. «Siamo in un bosco, chi dovrebbe riconoscermi?». Evan Amalian y Acellia, Re di Castillion, inclinò indietro la testa e inspi-rò profondamente la fredda aria del bosco, con gli occhi chiusi. Percepì il forte aroma di sottobosco e di legno marcio, odori che non sentiva da molto tempo. Da tre anni era praticamente chiuso a Palazzo, e solo ora si rendeva conto di quanto cose semplici come quelle gli mancassero. Sor-rise senza un motivo preciso e si stiracchiò sulla sella. Non avevano pre-so i cavalli della Scuderia Reale per non attirare l’attenzione con dei pu-rosangue, e lui non era abituato a montare cavalli così docili come i tre presi in prestito alla guarnigione. Almeno si poteva godere la passeggia-ta. Strinse il nodo del laccio di pelle che gli raccoglieva i capelli in una coda, allentatosi a causa del cappuccio. Aveva i capelli castani e gli oc-chi di un verde intenso, e i delicati lineamenti di sua madre. Anche se negli ultimi mesi aveva messo su qualche chilo di troppo, era decisamen-te un bel ragazzo. L’interesse che suscitava nelle donne era però prima-riamente dovuto al suo rango, non all’aspetto fisico. Una volta aveva sentito dire di nascosto a due serve del Palazzo che era bello, anche più

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di suo padre, ma che era insipido come una pagnotta bagnata. Le due donne avevano riso di gusto. La cosa lo aveva ferito molto, ma non ave-va fatto niente per punirle. Non si era fatto nemmeno vedere, ma tutte le volte che incontrava una delle due nei corridoi del Palazzo non poteva fare a meno di sentirsi in imbarazzo. Quante altre donne la pensavano così? Erano della stessa opinione anche quelle che ogni tanto condivide-vano il suo letto? Il Re si voltò verso l’uomo alla sua sinistra. «So cosa pensi di ciò che stiamo per fare, ma almeno goditi la cavalcata. Avanti Fratello Calros! Abbassa quel cappuccio e prendi un po’ di sole! Sei più pallido del marmo della Sala della Verità». Lo scherzoso paragone non produsse l’effetto voluto sull’uomo, che però abbassò il cappuccio della veste bianca per non disobbedire a un ordine del Re, seppure amichevole. Portava una corta barba, in contrasto con la testa completamente rasata. Sotto le sottili sopracciglia aveva uno sguar-do penetrante, sempre in movimento. Le severe labbra e la fronte costan-temente aggrottata lo facevano apparire come un uomo che non ride mai, cosa in effetti molto vicina alla realtà. Calros non rispose al Re, non ce n’era bisogno. Aveva già espresso la sua posizione riguardo alla missio-ne che stavano compiendo, ma non era certo questo il problema che lo attanagliava da sedici giorni. La loro spedizione si sarebbe risolta in niente, e anche se non gli faceva certo piacere rivedere Eglen, Calros aveva deciso comunque di seguire il Re, come il suo ruolo di Primo Consigliere gli imponeva. Il silenzio ripiombò sul gruppo, e questa volta nessuno fece un tentativo di conversazione. Il sentiero salì lungo il fianco boscoso della montagna, e dopo qualche miglio divenne troppo stretto per far procedere i cavalli affiancati. Pro-prio come aveva detto il ragazzo della vigna, i tre raggiunsero la Fonte del Lupo dopo circa un’ora. A causa dell’erosione, si era formato uno spiazzo piuttosto largo nel punto in cui parte della collina doveva essere franata centinaia di anni prima. Lo spiazzo era stato poi livellato da mi-gliaia di bivacchi, e l’acqua della fonte incanalata in una vasca di pietra, alta un braccio e lunga due. Nel bordo della vasca che dava verso valle era stata intagliata una tacca, dalla quale l’acqua in eccesso fluiva in un rigagnolo, che attraversava il sentiero e si perdeva lungo il fianco della collina. A causa dell’umidità, molti rampicanti e muschi avevano avvolto la vasca e parte della parete rocciosa dietro di essa, e al loro arrivo una famiglia di uccelli prese il volo con un rumoroso sbattere di ali, cinguet-tando la loro rabbia per l’invasione. La luce che filtrava a chiazze attra-verso gli alberi e il delicato scrosciare dell’acqua trasmisero un senso di

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pace al Re. I tre smontarono dai cavalli e li fecero abbeverare dalla va-sca. «E ora?» chiese il giovane Re a Calros. L’uomo si guardò intorno. «Secondo quanto fu dichiarato da Eglen, la sua casa si dovrebbe trovare nei dintorni della fonte, poco distante dal sentiero principale» informò. «Allora basta trovare il sentiero che porta a casa sua» fece Broer, prose-guendo a piedi lungo il sentiero. Sicuramente non poteva trovarsi prima della fonte, o lui lo avrebbe notato. Quando Broer si fu allontanato di alcune decine di passi, Calros si rivolse al Re. «Sire, sapete certamente la storia che lega mio padre a Eglen Agalli, quindi capirete perché eviterò di parlare con lui il più possibile. Questo per non mettere a rischio la vostra missione, ovviamente. Sarà già diffici-le per voi parlargli di ciò che è successo, poiché non credo che il suo rancore nei confronti del Re si sia spento». «Quel Re era mio padre, non io, e quella storia è legata a tuo padre, non a te. Avevo appena sei inverni quando Eglen venne bandito da corte, e tu non molti di più. Come può addossarci quelle colpe?». «Perché la condanna non è stata sollevata, e questa responsabilità ricade sulle nostre spalle». Calros aveva ragione, come al solito. Le sue responsabilità, in quanto Re, riguardavano anche ciò che era stato fatto prima che lui fosse investito della corona, e solo ora si rendeva conto di non avere un’idea propria su quella condanna. Se era giusta, allora stava chiedendo aiuto a un uomo bandito da corte e quindi non degno di fiducia. Se invece la condanna fosse stata ingiusta lui avrebbe già dovuto sollevarla. In ogni caso lui, il Re, non aveva adempiuto ai suoi doveri. In quel momento, come molte altre volte, provò una forte rabbia nei confronti di suo padre. Perché era morto? Perché non si era accertato che suo figlio fosse in grado di regna-re prima di morire in uno stupido incidente di caccia? Non era già abba-stanza che avesse perso sua madre per una malattia quando aveva sei anni? Quei momenti di disperazione di solito lo coglievano quando era a letto, e allora piangeva, piangeva finché non si addormentava, e non ca-piva se stesse piangendo per rabbia o per dolore. Fortunatamente la voce di Broer lo riportò alla realtà prima di dare un’ulteriore dimostrazione della sua immaturità al Primo Consigliere di corte ed eminente membro della Fratellanza della Verità. «L’ho trovato!» urlò il soldato. «Ma è troppo poco battuto. Non potremo cavalcare, dovremo portare i cavalli a mano». Il gruppetto riprese la marcia inoltrandosi nel nuovo sentiero. Salirono lungo il fianco della montagna ancora per alcune centinaia di passi, per

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poi raggiungere un tratto pianeggiante tra due creste. Il sentiero si snoda-va dove il bosco era più fitto, ma si poteva vedere che qualcuno aveva cura di tenerlo sempre aperto. Appariva ovvio che quel qualcuno era abi-tuato a procedere a piedi e non a cavallo, visto che i rami più alti di due braccia non venivano tagliati. Improvvisamente si ritrovarono in uno spiazzo perfettamente circolare, di circa venti passi di diametro. Il suolo era coperto da foglie secche, an-che se qua e là spuntavano alcuni ostinati fiorellini. Il sentiero riprendeva dalla parte opposta della radura. Ma lo sguardo dei tre venne subito cat-turato dall’oggetto che si trovava nel centro esatto dello spiazzo: una pie-tra rettangolare, alta circa quattro spanne. Il piccolo monolite era ricoper-to di rune ed era completamente immerso nella luce del sole. «Che cos’è?» chiese il Re. «Una pietra pagana» rispose Calros. Sembrò che sputasse le parole, in-vece di dirle. «Cos’altro ci si poteva aspettare di trovare nei pressi di ca-sa sua?». «Non ne vedevo una da molti anni» intervenne Broer avvicinandosi al manufatto. «Da quando prestai servizio al nord. Una volta ce n’erano molte anche qui». Il Re lo seguì con palese interesse mentre Calros, pur entrando nella ra-dura, si tenne a distanza dalla pietra, osservandola con esagerato disgu-sto. «Poi la Fratellanza le ha distrutte, grazie a Galdon» proseguì Calros, por-tando i palmi delle mani al petto. Aprì poi le braccia in un ampio gesto circolare e alzò lo sguardo al cielo. Il gesto simbolico dell’Illuminazione di Galdon. Di solito veniva esegui-to nella vita di tutti i giorni con una sola mano e con una breve estensio-ne del braccio. Tra Fratelli della Verità era un saluto dovuto, e tra le per-sone comuni era un gesto di fede verso la Fratellanza e il Credo della Verità, ma veniva eseguito nella sua forma completa, come aveva fatto in quel momento Calros, solo durante le Funzioni. La cosa non mancò di sorprendere gli altri due. Certo, le pietre pagane erano per fortuna l’ultima reminiscenza del periodo buio, in cui le persone vivevano nella superstizione e credevano in creature soprannaturali, ma Calros non era tipo da avere reazioni così eclatanti. In fondo, quell’epoca era finita più di settecento anni prima, quando Galdon ricevette l’Illuminazione e pas-sò il Credo della Verità ai sei Fondatori della Fratellanza, e non sarebbe bastata certo una singola pietra, anche se nel cuore del Regno, a far ri-piombare nella cecità e nella superstizione gli uomini. No, quel comportamento nascondeva qualcosa di più profondo. Il Re

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ebbe l’impressione che il gesto dell’Illuminazione fosse rivolto all’interno di Calros, contro ciò che lo stava consumando da molti giorni, piuttosto che contro la piccola pietra. «Dovremo venire a distruggerla» disse il Fratello, a nessuno in particola-re. «Credo che abbiamo trovato la casa» enunciò Broer indicando il sentiero che proseguiva oltre la radura. Poche decine di passi oltre lo spiazzo in cui si trovavano ce n’era un altro, e si poteva intravedere la facciata di una capanna attraverso il sentiero che li univa. Impastoiarono i cavalli agli alberi e si diressero verso la casetta di tronchi. Broer apriva la fila, e prima di raggiungere la capanna si scostò dalle spalle il mantello, libe-rando in tal modo le braccia e l’elsa della spada. Per quanto la situazione fosse tranquilla, lui non dimenticava mai il suo ruolo. La capanna, poiché di casa non si poteva certo parlare, sorgeva in uno spiazzo poco più grande del precedente. Era costruita con tronchi di legno, con l’evidente eccezione del camino, del quale si poteva intravedere la corta canna fu-maria. Dal comignolo si levava un filo di fumo, segno della presenza di qualcuno all’interno. Sul fianco sinistro era stata costruita una pergola spiovente, sotto la quale trovavano posto una catasta di legna e due fa-giani spiumati, appesi al freddo a frollare. C’era una sola porta, proprio di fronte al sentiero, e un paio di finestre. Broer guardò il Re, quasi a chiedere se davvero volesse andare fino in fondo. Al suo cenno d’assenso, il soldato si avvicinò alla porta e bussò in maniera decisa. Silenzio. Broer bussò di nuovo, e questa volta si udirono alcuni passi dall’interno. La porta si aprì su un uomo di mezza età, barba incolta e capelli lunghi, piuttosto scombinati, e semplice abbigliamento da boscaiolo. Teneva una lunga ascia da legna nella mano destra, quasi ad avvalorare la tesi del semplice boscaiolo, ma nel suo sguardo non c’era niente di semplice. Senza dire nulla, uscì dalla capanna e passò i suoi occhi penetranti sui tre. La barba si mosse, unico suggerimento che stava sorridendo. I suoi occhi però rimasero duri. Broer a quel punto portò le mani ai fianchi con aria minacciosa e ammiccò verso la mano destra dell’uomo. Lui seguì lo sguardo del soldato e si rese conto di impugnare ancora l’ascia. «Chiedo perdono, ma vivendo in un posto talmente isolato non si sa mai chi può bussare alla porta». Così dicendo appoggiò l’attrezzo alla parete della capanna. A nessuno dei tre sfuggì il tono accusatorio dell’uomo riguardo al suo attuale domicilio. «Di certo non potevo aspettarmi una visita di così alto livello. Se l’età e la solitudine non hanno intaccato troppo il mio cervello, alla mia porta

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c’è il Re in persona, Evan Amalian y Acellia, terzo con questo nome nel-la linea dei regnanti e portatore legittimo della Corona e dello Scettro del regno di Castillion. Accompagnato dal Primo Consigliere, Fratello Cal-ros Asandos, della linea di Asturian, e dal Cavaliere Protettore Broer Agamin, già Protettore di Re Malian». Se anche avessero avuto un dubbio sulla sua identità, sarebbe stato spaz-zato via dalla precisione nell’elencare nomi, linee e cariche. No, la soli-tudine e l’età non avevano intaccato la mente affilata come un rasoio per la quale a corte si parlava ancora di quest’uomo, Eglen Agalli. «Visto che sai così bene chi ti trovi davanti, dovresti inchinarti» disse Broer in tono ancor più minaccioso. Non sopportava l’arroganza. Eglen gli rispose senza allontanare lo sguardo dal Re. «Sono stato bandito da corte sedici anni fa e mi è stato vietato di stabi-lirmi in una qualsiasi città o villaggio, ma se questo vi ha liberati di me, ha anche liberato me da voi. Non mi inchinerò, e a meno che il Re e la Fratellanza non abbiano deciso che ciò sia un crimine capitale, rientrerò in casa». Eglen si voltò, evidentemente deciso a fare ciò che aveva detto. Evan dovette quasi fare un salto per bloccare Broer mettendogli una mano sul petto, prima che il soldato passasse alle vie di fatto. «Non vuoi sapere perché siamo qui?» chiese Evan all’uomo. Lui non si voltò nemmeno nel rispondere, un’ulteriore insolenza. «Volete sollevare la condanna?» domandò. Evan non rispose, ed Eglen con un’alzata di spalle entrò in casa. Prima che potesse chiudere la porta, Evan si fece avanti, e con la disperata determinazione di uno che sta per suicidarsi gettandosi da una scogliera, urlò: «Dobbiamo parlarti di un elfo!». Eglen si bloccò, come se le parole del Re lo avessero improvvisamente trasformato in pietra. Si voltò, molto lentamente. Nel suo sguardo c’era la diffidenza di un animale sfuggito a molte battute di caccia, ma che per fame si ritrova ad accettare cibo da un uomo. È più forte la fame o la paura di una trappola? Quella volta vinse la fame. «Entrate, prego» disse. L’interno della capanna confermava le aspettative di austerità che pro-metteva l’esterno. Una semplice stanza col camino, un tavolo e due sole sedie. Una porta dava nell’unica altra stanza della casa, evidentemente la camera da letto. Eglen mise a scaldare l’acqua per una tisana di erbe,

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quindi uscì dalla capanna. Quando rientrò, aveva sotto ogni braccio un ceppo di legna da ardere. «Capitemi se ho solo due sedie, non ricevo molte visite. Credo che voi due dovrete accontentarvi di questi» disse a Broer e a Calros sistemando i due ceppi in piedi, al lato del tavolo. A Evan fu ovviamente riservata una delle sedie, e mentre Eglen si sedeva sull’altra, Calros non poté non notare il ghigno di soddisfazione sulla faccia dell’uomo mentre lui si se-deva sul ceppo. Il Fratello inspirò profondamente per controllarsi e si sistemò nella maniera più dignitosa possibile, date le precarie condizioni di equilibrio. «Vi confesso, sire, che non so cosa pensare. Avete affrontato ore di mar-cia per venire qui in pieno inverno a parlare di elfi. Credo che il vostro Primo Consigliere vi abbia informato che gli elfi non esistono, né sono mai esistiti se non nelle menti perverse dei pagani dei tempi antichi, menti non ancora illuminate dal Verbo della Verità. Davvero, avete fatto molta strada per parlare di sciocche credenze popolari». Eglen era chiaramente divertito dalla situazione, anche se non sapeva di che cosa si trattasse esattamente. Calros capì che l’uomo sapeva di essere in vantaggio. Loro volevano qualcosa da lui, il reietto, il condannato all’esilio, e lui aveva tutte le intenzioni di godersi il momento. Evan invece pareva in difficoltà. Evitava lo sguardo dell’uomo e cercava conforto in quello dei due compagni. Ma Calros non gliene avrebbe dato. Lui aveva preso la decisione di cercare aiuto qui, e lui avrebbe dovuto portarla in fondo. Il Fratello si limitò a guardare Eglen con uno sguardo neutrale, evitando di proposito il Re. Sapeva benissimo che in una situa-zione del genere Broer sarebbe stato di aiuto quanto una statua di mar-mo. Il Re sembrò capire la situazione e, preso un bel respiro, iniziò a par-lare. Con sommo stupore del Primo Consigliere però, il Re cambiò le carte in tavola. «Eglen Agalli, puoi dirmi perché sei stato bandito da corte?». A quella domanda l’uomo si irrigidì. Fissò il Re intensamente, come se si aspettasse di capirne le intenzioni leggendogliele attraverso gli occhi. Calros si ritrovò a sorridere leggermente, in approvazione al comporta-mento di Evan. Forse nel profondo di quel ragazzino insicuro e superfi-ciale c’era un Re simile a suo padre. Forse. Eglen rimase in silenzio per un tempo infinito. Evan rimase immobile, fissando le proprie mani appoggiate sul tavolino. Poi l’uomo si alzò e si diresse verso la pentola attaccata al gancio del camino, la prese aiutando-si con uno straccio e ne travasò il contenuto in una teiera. Versò al suo interno alcune cucchiaiate di erbe essiccate e mischiò il tutto. Sistemò

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poi quattro tazze di legno sul tavolo e le riempì di tisana. Posto un vaset-to di terracotta pieno di miele sul tavolo, finalmente si sedette, lasciando che ognuno si servisse. «Vi risponderò, sire, non perché creda che non conosciate la storia, ma perché sono certo che non conoscete la mia versione. Sono il quarto fi-glio di Galli Asteriol, l’allora Reggente del Principato di Surimar al qua-le, come sapete, è succeduto mio fratello Teriol. Per me non c’era molto da fare a Montroj, poiché le cariche di reggenza sarebbero state ripartite tra i miei fratelli. Decisi quindi di andare a corte e offrire i miei servigi al Re, vostro padre. Ero molto giovane e amavo studiare, e quale miglior posto del Palazzo Reale e delle sue biblioteche? Gli anni passarono, e da semplice Attendente raggiunsi, grazie ai miei studi, il rango di Consiglie-re. Posso vantarmi di essere stato tra i Consiglieri più stretti di vostro padre, e per molti anni ho avuto la sua piena fiducia. Purtroppo però la vita a corte è più complicata di quel che sembra, e avere la fiducia del Re può non essere abbastanza quando chi parla contro di voi gode di una fiducia ancora maggiore. L’allora Primo Consigliere era Fratello Sandos Afrancin, e a quanto pare la linea dei Primi Consiglieri va di pari passo con quella dei Re». Calros non riuscì a lasciar passare la provocazione: «Mio padre si è guadagnato la carica, e io ho fatto altrettanto» affermò sommessamente il Fratello, ma con una voce così carica di tensione che Evan si sporse verso di lui e gli appoggiò una mano sul braccio. A quel tocco, Calros parve calmarsi immediatamente. Per fortuna Eglen riprese il racconto senza nessun commento oltre a uno sbuffo. «Il campo di studi che preferivo era certamente la storia precedente alla fondazione della Fratellanza. C’erano decine di libri che ne descrivevano l’orrore e l’ottusità, ma sempre come esempio rispetto all’era illuminata dal Credo. Non riuscivo a trovare nessun testo che ne parlasse in maniera spassionata, da un punto di vista storico. È facile per me, ora, capire per-ché non ne trovassi. Perché non ce ne sono. La Fratellanza ha pensato bene di distruggere tutti quelli che ha trovato, e dopo quasi settecento-cinquanta anni di lavoro, dubito che ne rimangano. Comunque, più non trovavo ciò che cercavo, e più approfondivo. Purtroppo per me, non feci un mistero della cosa, e per Fratello Sandos la mia ricerca era pericolo-samente vicina all’eresia. La Fratellanza naturalmente si schierò compat-ta dietro di lui, e il Re non poté più ignorare la cosa. Mi fu detto di ab-bandonare quel comportamento, così immorale e pericoloso. “I tempi bui sono alle nostre spalle, è pericoloso per il popolo anche solo ricordarli!” tuonava Sandos davanti al Re...».

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«Mio padre aveva ragione!» intervenne Calros. «La Fratellanza ha lottato centinaia di anni per dare la Verità all’uomo. Che diritto avevi tu di met-tere in pericolo tutto il nostro lavoro?». «“Guardare al passato serve per costruire il futuro”. Non è così che recita un passo dei tuoi preziosi Libri di Galdon?» rispose Eglen senza scom-porsi. Calros scattò in piedi, facendo cadere il ceppo dietro di sé. «Zitto! Non sei degno di recitare i passi dei Libri!» urlò, rosso in volto. Anche Eglen si alzò di scatto, picchiando con violenza i palmi delle mani sul tavolo e facendo così rovesciare le tazze e il loro contenuto. Evan si tirò indietro istintivamente, e Broer portò la mano all’elsa della spada. «Ho più diritto di te, ragazzo! Se la tua amata Fratellanza ci tiene così tanto alla verità, perché non permette che si parli di ciò che successe prima che nascesse? Dimmi, Calros Asandos, cosa nasconde la Fratel-lanza della Verità?» urlò Eglen. In un attimo Calros perse tutto il colore dal volto. Il cambiamento fu così repentino che persino Eglen, in preda fino a un attimo prima a una rabbia covata per sedici lunghi anni, rimase abbastanza sorpreso da calmarsi. Calros era sbiancato e aveva uno sguardo strano. Le parole di Eglen lo avevano colpito profondamente, ma la sua non era l’espressione di un uomo colpevole che è stato appena scoperto. No, era l’espressione di un uomo che si è perso, e dopo lungo girovagare deve finalmente venire a patti con la sua situazione, disperandosi. Si voltò, raccolse il ceppo con misurata lentezza e vi si sedette di nuovo, con lo sguardo basso. Quello che aveva detto Eglen aveva a che fare con il bizzarro comportamento che Calros teneva da tempo, ma Evan non riuscì a capire in che modo. Nel frattempo anche Eglen si era seduto, e aveva ripreso a parlare. «A ogni modo, un giorno fui scoperto mentre cercavo di decifrare le scritte su una pietra runica. La pietra era una delle tante che costellavano il Regno, simile a quella che avete incontrato venendo qui. Quando veni-vano scoperte, venivano dissotterrate dai Veriti e portate ad Asture, al Palazzo della Verità, per essere distrutte. Ero riuscito ad averne una, e venirne trovato in possesso fu esattamente quello che mancava a Sandos per non lasciare scelta al Re. Fui bandito da corte. Non fui imprigionato nella Fortezza di Asture solo per rispetto verso la mia casata, e spesso mi chiedo se non sarebbe stata una sorte migliore». Eglen sorrise. «Dite la verità sire, non avevate mai sentito questa storia raccontata così, vero? Ho avuto l’onore di chiamare vostro padre “amico”, e solo per questo voglio darvi qualcosa che non do a un Re da molto tempo: un consiglio. Diffidate di chi ha paura della conoscenza».

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Eglen si alzò e sistemò tazze e teiera, anche se nessuno aveva toccato l’infuso. Evan studiò l’uomo. Dopo sedici anni di esilio doveva avere dentro di sé una rabbia smisurata, eppure riusciva a essere civile ed edu-cato. No, si corresse subito, era solo confuso dalla loro presenza, e stava cercando di capire cosa volessero. «Adesso spero che mi riveliate il motivo della visita» pregò Eglen men-tre asciugava la tisana fuoriuscita dalle tazze, confermando i pensieri del Re. «Se ho voluto conoscere la tua versione dei fatti è solo perché dovevo decidere se fidarmi di te abbastanza da raccontarti ciò che è successo sedici giorni fa. Hai esposto i fatti in maniera abbastanza obiettiva, e questo per me è sufficiente» proferì il Re. Eglen riprese posto al piccolo tavolo di legno. Evan rimase per un attimo in silenzio, pensando da che parte iniziare a raccontare. «Era il primo giorno dell’anno, e come di consueto eravamo riuniti nella Sala delle Udienze, per ascoltare i Petitori». Eglen non dovette certo chiedere spiegazioni al riguardo, aveva assistito a molte Petizioni, sia a corte sia al castello di suo padre. Una volta al me-se, infatti, chiunque avesse un valido motivo poteva presentarsi di fronte al Reggente del proprio Principato ed esporre il suo problema, che il Reggente era tenuto a risolvere in nome del Re e con equità. Solo una volta all’anno, nel primo giorno, era possibile portare la propria petizione di fronte allo stesso Re, ammesso che il motivo lo giustificasse. Di solito le questioni riguardavano confini di possedimenti, disaccordi tra nobili o lamentele di ricchi commercianti. Eglen se la ricordava come una delle giornate più noiose dell’anno. «Oltre a noi tre» continuò Evan indicando se stesso, Broer e Calros, «c’erano Santis Alaio, Reggente del Principato di Castillion, e Macros Agadin, Primo Fratello della Verità, con due Veriti. Avevamo concluso l’incontro con un mercante di pesce che rivendicava una striscia di costa per le sue barche a Denea, e venne annunciato il Petitore successivo, un certo Yvae. Un nome strano, e per di più senza nome di discendenza. Si fece largo tra gli altri Petitori indossando uno strano mantello, aperto davanti ma dotato di larghe maniche. Aveva il cappuccio tirato su, e gli fu chiesto di abbassarlo davanti al Re». Evan si fermò, come se non riu-scisse a trovare le parole per continuare. «Quando scoprì le mani e le portò ai lati del cappuccio, potemmo vedere tutti che non aveva cinque dita per mano come noi, ma quattro. Non ave-va il mignolo, e le... le dita erano più lunghe delle nostre. Poi si tirò giù il cappuccio. Non era un uomo, era... qualcos’altro. Aveva le orecchie ap-

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puntite e lunghi capelli neri e lisci. Non c’era un filo di barba sulla sua faccia, e aveva delle sottili sopracciglia che curvavano verso l’alto. Ri-manemmo tutti di pietra, ma ricordo che il primo a reagire fu Macros. Si alzò in piedi e chiese che cosa significasse tutto ciò». Nessuno degli altri, presi dal racconto, notò che in quel momento Calros perse di nuovo il colore dal volto, e che le sue mani erano strette in ma-niera così violenta che le nocche erano diventate bianche. Non si sarebbe mai dimenticato quel momento, il momento in cui il suo mondo vacillò. Quando Macros si alzò dalla sedia, lui riuscì a distogliere lo sguardo dal-lo straniero e si voltò verso il capo della Fratellanza, l’uomo che, da quando era stato investito Primo Fratello, rappresentava per Calros tutto ciò che c’era di giusto su Gaian, l’esempio da seguire, l’ideale da rag-giungere. E ciò che lesse sul volto del Primo Fratello lo sconvolse più dello stra-niero: solo rabbia e indignazione. Macros non era sconvolto nell’essere davanti a una creatura che non doveva esistere, una creatura che, sempli-cemente trovandosi in piedi davanti a loro, metteva in pericolo le fonda-menta stesse della Fratellanza. No, Macros era infuriato per la sua presenza indesiderata, ma non sor-preso dalla sua esistenza. Le parole di Eglen di poco prima gli risuonarono nelle orecchie. Che co-sa nascondeva la Fratellanza della Verità? Quasi non sentì Evan che ri-prendeva il racconto. «Lui rispose che era stato inviato per sapere cosa era successo agli uomi-ni. Aveva uno strano accento nel parlare la nostra lingua, ma non come se fosse uno straniero che ha imparato a usarla, più come se ne conosces-se una diversa versione. “Tu sei il Re degli uomini” mi disse. “Noi siamo venuti più a ovest che potevamo, e vi abbiamo attesi. Perché non avete rispettato il Patto?”. Ma a quel punto, Macros ordinò ai Veriti di catturar-lo, con l’accusa di eresia verso il Credo della Verità. Le due guardie del Credo si lanciarono sullo straniero mentre lui mi urlava di essere un tra-ditore. “Il Patto è spezzato!” urlò. Ovviamente era disarmato, ma riuscì ugualmente a mettere fuori combattimento i due Veriti». «Il primo Verite gli si avvicinò da sinistra con la picca spianata» spiegò Broer. Non aveva detto una parola da quando erano entrati, ed Eglen si era dimenticato di lui. «Ma l’elfo ne afferrò l’asta con la mano destra, entrò nella guardia dell’uomo girando su se stesso e mettendosi quindi l’arma dietro la schiena, e lo colpì al viso col dorso della mano sinistra. In un unico movimento mise fuori combattimento l’avversario e lo disarmò. Con una picca in mano, l’altro Verite non fu un problema».

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«Tu lo ammiri» disse Eglen al soldato. «Non avevo mai visto nessuno combattere come lui» ammise Broer. «Quindi non lo avete catturato» concluse Eglen. «No, è riuscito a uscire da Palazzo e si è dileguato». Migliaia di domande si facevano largo nella mente di Eglen. Si rese con-to che anche sotto sedici anni di cenere, il fuoco della conoscenza non si era spento e ora, inaspettatamente, qualcuno lo stava risvegliando. Ma la domanda più pressante non riguardava ciò che il Re aveva appena rac-contato. «Cosa volete che faccia, sire?» chiese dopo un lungo silenzio. «Come puoi ben immaginare, la visita di oggi non ha trovato molti con-sensi, specialmente da parte della Fratellanza» confessò il Re con un sor-riso, che Eglen contraccambiò. «Sono tutti convinti che sia stata una messinscena e che non dovrei per-dere tempo dietro a certe sciocchezze. Eppure siamo stati noi ad attacca-re questo straniero, senza nemmeno dargli modo di spiegare cosa voles-se. Che intendeva dire con “il Patto”? Perché ci hanno attesi? Era vera-mente ciò che sembrava? Come tu stesso hai detto, la Fratellanza ha di-strutto tutti i libri su questi argomenti, quindi speravo che tu ne sapessi qualcosa». Eglen scoppiò a ridere. «Sono stato bandito da corte da un Re per le mie ricerche, e ora vengo riabilitato da un altro Re perché conduca le stesse ricerche! Mi dispiace deludervi sire, ma il fatto che fossi interessato al periodo precedente alla Fratellanza non significa che credessi alle storie di magia e creature so-prannaturali. Il mio è un interesse solo accademico, e non ho mai creduto veramente che gli elfi potessero esistere. Fino a oggi, almeno. Non so a quale patto si riferisse, e non posso certo approfondire l’argomento ri-manendo esiliato sui monti». Non servì che Eglen esponesse la necessaria conseguenza di ciò che ave-va detto, ed Evan seppe che era giunto il momento di prendere una deci-sione dalla quale non ci sarebbe stato ritorno. Si alzò in piedi e guardò per primi i suoi compagni. Broer ricambiò con uno sguardo neutrale. Era un uomo pratico, ed essendo giunti fino a quel punto per lui era ovvio che si dovesse arrivare fino in fondo. Evan si aspettava un silenzioso rimprovero da parte di Calros, ma il Fratello rimase con lo sguardo basso. “Il Re sono io” si disse, “la decisione è solo mia”. «Eglen Agalli, da questo momento dichiaro decaduto l’esilio da corte che pesava sulla tua persona, e richiedo i tuoi servigi in qualità di tuo

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Re». Broer estrasse dal mantello un editto reale, scaldò sul fuoco del camino della ceralacca e ne versò un po’ sulla pergamena. Porse poi l’editto al Re, che impresse il sigillo del regno con l’anello che portava al dito me-dio. Eglen prese l’editto con mani tremanti e lo lesse. Riportava ciò che aveva detto il Re, con l’aggiunta di titoli e discendenze. Passò un dito sul sigillo reale, un’aquila con le ali spiegate che porta negli artigli una spa-da e il Libro di Galdon, poi fissò il Re. Lentamente l’uomo si inchinò. «Sarò a Palazzo domani mattina, sire». Per la prima volta in vita sua, Evan si era guadagnato il rispetto di qual-cuno per ciò che aveva fatto, e non per diritto dinastico. Eglen si era in-chinato davanti a Evan, non davanti al Re. Sentì crescere dentro di sé la sicurezza di aver fatto la scelta giusta, malgrado le opinioni dei suoi con-siglieri. Pochi minuti dopo, i tre erano in viaggio verso Amaya, ed Evan si rese conto che la sua sicurezza andava scemando a mano a mano che si avvi-cinavano al Palazzo Reale.

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III Il bicchiere di fine cristallo muntaneano attraversò la stanza spargendo il costoso vino che conteneva lungo tutto il tragitto. Si infranse contro il muro che si trovava nella sua traiettoria con un rumore squillante, ma il suono di vetri rotti venne coperto dal belluino grido di rabbia dell’uomo che lo aveva lanciato. «Calma Macros, calma» disse pacatamente la donna seduta vicino alla finestra. La limpida luce del mattino invernale inondava la stanza, facen-do risaltare i fini arazzi alle pareti, i tappeti e i mobili intarsiati. Non era però abbastanza forte da penetrare la nera rabbia che offuscava il volto di Macros Agadin, Primo Fratello della Verità. «Oh, ma sono calmo, cara Kalia. Se non lo fossi, avrei già strangolato quel piccolo, borioso idiota!». Macros prese un secondo bicchiere e, con un altro urlo animalesco, mise fine alla sua esistenza allo stesso modo del precedente. Il Verite che si trovava a lato della porta e pericolosamente vicino al punto d’impatto dei bicchieri, fece del suo meglio per rimanere immobile, ma non riuscì a non perdere un po’ di colore dal volto. Il suo pallore fece risaltare ancora di più lo strano tatuaggio nero che portava sul collo, appena visibile so-pra il colletto della divisa marrone. «Quando ti sarai sfogato o avrai finito i bicchieri, confido che potremo affrontare il problema» asserì Kalia che, come suo solito, osservava la scena con fastidioso distacco. I due si conoscevano da molti anni, e Ma-cros aveva imparato a non irritarsi per il comportamento di superiorità della donna da quando aveva capito che farlo irritare era il preciso obiet-tivo di quel comportamento. Aveva ragione lei, come sempre, ma Ma-cros non era tipo da capitolare senza combattere. Dopotutto lui era suo superiore gerarchico. Tanto per darsi un tono, prese un altro bicchiere e lo lanciò, quindi si sistemò la lunga veste bianca, facendo un lungo respi-ro. Il Verite si rilassò, probabilmente non sarebbero volati altri bicchieri. Macros si portò alla finestra e osservò la città che si estendeva sotto di lui. La Sala della Verità di Amaya era la più grande struttura della Fratel-lanza dopo il Palazzo della Verità ad Asture, il cuore stesso della loro confraternita. Benché le stanze riservate al Primo Fratello qui ad Amaya fossero spaziose ed estremamente lussuose, Macros rimpiangeva sempre

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i suoi alloggi al Palazzo, poiché purtroppo la sua carica lo portava lonta-no da Asture molti mesi all’anno. L’unica cosa che le stanze del Palazzo ad Asture non avevano era la vista che si poteva godere da lì. Le finestre davano verso sud, ed essendo la stanza più alta dell’edificio si potevano vedere i tetti di mezza città risplendere nel sole mattutino, e più in là la solitaria rocca con l’antico castello e le case diroccate attorno, note come la Città Vecchia. Erano tutti convinti che il castello fosse la dimora reale dei tempi antichi, abbandonata per il più comodo Palazzo, ma lui sapeva che la storia di quel castello era molto più remota del regno di Castillion. Prima di distogliere lo sguardo dalla splendida vista, Macros mise a fuo-co la sua immagine riflessa nel vetro della finestra. Non era molto alto, aveva una corporatura robusta, e benché avesse una pancia piuttosto ro-tonda non dava l’impressione di essere grasso, ma massiccio. Si passò una mano sulla testa, rasata a zero come tutti gli appartenenti alla Fratel-lanza. Pensò che ormai non c’era più molto da tagliare, gli anni stavano facendo quello che fino ad allora era stato compito del rasoio. Alla soglia dei cinquanta inverni era normale un certo deterioramento del fisico, ma la cosa lo infastidiva comunque. Si voltò verso Kalia. La donna aveva solo pochi anni di meno, ma il tempo era stato più magnanimo con lei. Macros si ricordava di un tempo, quando erano stati entrambi giovani. Kalia era molto bella, lui un giova-ne Fratello, forte ed entusiasta, e la loro storia era stata lunga e piena di passione come può essere solo nel fiore della gioventù. Macros ricordava sempre con calore quel periodo. Le loro strade si erano separate per mol-ti anni, per riunirsi di nuovo al vertice di comando della Fratellanza della Verità. L’antica intesa c’era sempre, anche se ormai solo fuori dal letto, e i due avevano saputo volgere a proprio vantaggio quella sinergia. La ma-turità che solo gli anni possono dare e la conoscenza del glorioso scopo per il quale la Fratellanza era nata, avevano creato un sodalizio indisso-lubile. Dove lui era impulsivo e pronto allo scontro, lei era distaccata e fredda. Dove lei era troppo riflessiva nel prendere decisioni, lui le mette-va in atto in maniera risoluta. Ora loro due erano a capo della Fratellanza, anche se nominalmente solo lui lo era, mentre Kalia aveva il ruolo di Attendente al Primo Fratello, e sotto il loro comando stava per succedere ciò che la Fratellanza aspettava da settecentocinquanta anni. Per un’altra persona questo sarebbe stato un onore dovuto al caso, ma per Macros era solo l’ovvio segno della loro superiorità rispetto ai predecessori. Non erano nel posto giusto al mo-mento giusto, vi si trovavano perché era il momento giusto. Kalia alzò lo sguardo verso di lui con un sorriso. La luce mise in risalto

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la testa rasata della donna. Gli altri uomini trovavano le donne calve sgradevoli ma Macros, un vero Fratello della Verità, le trovava addirittu-ra più attraenti. Kalia era ancora molto bella, gli anni non erano riusciti a sconfiggere la sua femminilità. Macros aveva molte volte tentato di rin-verdire il rapporto anche sotto le lenzuola, ma Kalia era stata adamanti-na. Il loro sacrificio era necessario per raggiungere la vetta, nessuna complicazione. Pur avendola raggiunta, la vetta, Macros si era sempre chiesto se non fosse stato solo un modo delicato per rifiutarlo, visto che Kalia aveva sempre trovato qualche “complicazione” con un giovane cortigiano o un Novizio, pronti a scaldare il suo freddo letto invernale. «Hai finito?» chiese la donna. Macros si voltò di nuovo verso la finestra portando le mani dietro la schiena. «Per centinaia di anni abbiamo lavorato verso un unico scopo, e adesso che siamo a pochi mesi dall’obiettivo un elfo si presenta alla nostra por-ta» protestò Macros, riassumendo il motivo della sua feroce rabbia. «E dopo nemmeno due decidie, il nostro amato Bamboccio decide di ripor-tare a corte nientemeno che Eglen Agalli. E tu mi chiedi di stare cal-mo!». Macros dovette trattenersi per non dare nuovamente libero sfogo alla sua rabbia. Il Verite si irrigidì. «Certo che te lo chiedo, e sai bene che ho ragione a farlo» precisò Kalia. «Che cosa potrebbe succedere? Cosa credi che Eglen possa scoprire a corte? Come hai detto tu, ci sono voluti centinaia di anni per arrivare dove siamo, e non basteranno certo un vecchio studioso bandito già una volta da corte e un Re ragazzino a crearci dei problemi». «E se invece fosse così?» chiese Macros voltandosi verso la donna. «So bene quanto te che è quasi impossibile, ma “quasi” per me non è abba-stanza. Non possiamo rischiare tutto proprio adesso che siamo così vici-ni». Kalia abbassò lo sguardo e si mordicchiò l’interno delle labbra. “Buon segno” pensò Macros. Kalia stava riflettendo sulle sue parole. Decise di approfittare del vantaggio. «E tutto per colpa di quel maledetto elfo. Se la Matriarca mi avesse a-scoltato, gli Esuli sarebbero stati schiacciati da anni, come noi abbiamo fatto coi Ratti. Invece lei ha il cuore tenero, e adesso ci troviamo in mano questa patata bollente». Su questo punto Macros sapeva di aver ragione, e lo sapeva anche Kalia. La Matriarca degli elfi, Rea, non era riuscita ad adottare il pugno di ferro con quelli del suo popolo che avevano voluto seguire il sentiero sbaglia-to, e la visita dell’elfo il giorno dei Petitori ne era la diretta conseguenza.

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La Fratellanza era stata molto più efficiente, sia con il popolo, sia con l’Ordine Grigio, i loro antagonisti. Macros, come tutti i Fratelli di rango abbastanza elevato da conoscerne l’esistenza, li chiamava i Ratti. Non era vero però che li avevano schiacciati tutti. «Sai bene che non sono tutti morti, c’è ancora un Ratto in giro. Finché rimane vivo, non possiamo dire di aver distrutto definitivamente l’Ordine Grigio» gli fece notare Kalia. «Esattamente il mio punto!» esclamò Macros, che l’aveva portata pro-prio dove voleva. «Troppe persone hanno visto l’elfo, e ora Eglen è di nuovo a corte. Se tu fossi l’ultimo appartenente all’Ordine Grigio, potre-sti trovare un momento migliore per agire? Lo so, lo so» disse Macros alzando le mani per fermare Kalia dal protestare. «Sarebbe un’azione disperata e con poche possibilità di riuscita, ma ti chiedo, tu sei pronta a rischiare?». Questa volta fu Kalia ad alzarsi. Camminò su e giù per la stanza alcuni minuti, poi si versò un po’ di vino in uno dei bicchieri superstiti. Rag-giunse Macros alla finestra. «Cosa proponi?» domandò. «Non ho un’idea chiara, ma arrivati a questo punto possiamo osare anche un’azione estrema. Tra pochi mesi potremo permetterci di ignorare qual-siasi conseguenza. L’unica cosa veramente importante ora è che niente metta in pericolo ciò che dobbiamo fare». Sapevano entrambi di cosa si trattasse ovviamente, ma nessuno ne parla-va mai in maniera esplicita. Kalia rimase silenziosa ancora a lungo. «Forse hai ragione tu, non è più tempo di discrezione» cedette. Macros alzò le sopracciglia, stupefatto. Non era facile sentirla proporre azioni eclatanti. «Sembra che un’idea ce l’abbia tu, ora» le disse. Kalia si volse verso di lui e sorrise. «Sì, e proprio Evan ci ha fornito tutti gli strumenti necessari. Faremo buon uso dell’elfo e di Eglen, e se nel frattempo si sarà fatto vivo anche il Ratto la nostra vittoria sarà completa». In quei momenti Macros era grato di essere dalla parte di Kalia, e prova-va pietà per tutti quelli che si trovavano dall’altra parte della barricata. «Spiegami» le disse. FINE ANTEPRIMAContinua...