Il Premier Diviso

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Il premier diviso prof. F.Musella Capitolo 1 La separazione dei poteri è esposta da Montesquiè rappresenta un vero e proprio mito della democrazia occidentale, questo schema è sopravvissuto in epoche più recenti anche se l'osservazione empirica continuava a mostrarne le fragilità: per esempio il tema delle relazioni tra governo e Parlamento è stato interpretato spesso con una prospettiva di analisi che dà per scontato un dualismo istituzionale, esecutivo e legislativo sono considerati come due organi autonomi di cui si può misurare la forza. Più difficile è adottare la medesima prospettiva dopo lo sviluppo dei moderni partiti di massa, quando le formazioni collettive agiscono come potente collegamento tra governo e Parlamento, determinandone di fatto una sorta di fusione istituzionale. Il partito domina il Parlamento, essendo in grado di dettare la disciplina ai suoi aderenti, esso agisce infatti in assemblea come unico possibile principio ordinativo: come afferma Calise è grazie allo sviluppo del partito politico che un'assemblea litigiosa di rappresentanti del popolo si trasforma in un numero limitato di gruppi parlamentari, tenuti insieme dai medesimi valori e, soprattutto, dalla consapevolezza che unendosi fosse possibile conquistare il governo a tenere saldamente in pugno le redini. I governi assumono la forma di una semplice emanazione del potere partitico, si pensi alla quantità di decisioni di rilevanza collettiva prese nelle sedi partitiche e alla predominante partitizzazione del personale ministeriale. I partiti riescono a determinare la formazione degli esecutivi spartendosi le spoglie ministeriali, e gettando poi le principali linee del policy-making nazionale, il cosiddetto “ governo di partito”/party governement. Perché si possa parlare pienamente di un governo con una legittimazione indipendente da quella del Parlamento è stata necessaria un'ritorno al passato monocratico, anche in questo caso sono gli Stati Uniti a presentare all'Europa il proprio destino istituzionale. All'inizio del secolo scorso i presidenti, infatti, hanno cominciato a prendere pieno vantaggio dal instaurazione di una relazione diretta con l'elettorato, affermando la propria leadership sui processi di decision-making, in modo via via sempre più indipendente rispetto ai partiti. Il caso italiano ha conosciuto negli ultimi anni una linea di cambiamento che ricorda quella registrata oltre oceano, a partire dagli anni 90 la tradizione partitocratica italiana è rimessa in discussione, contrastata, dall'emergere di un diverso principio di regolazione dei 1

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Riassunto del testo di Fortunato Musella

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Il premier divisoprof. F.Musella

Capitolo 1La separazione dei poteri è esposta da Montesquiè rappresenta un vero e proprio mito della democrazia occidentale, questo schema è sopravvissuto in epoche più recenti anche se l'osservazione empirica continuava a mostrarne le fragilità: per esempio il tema delle relazioni tra governo e Parlamento è stato interpretato spesso con una prospettiva di analisi che dà per scontato un dualismo istituzionale, esecutivo e legislativo sono considerati come due organi autonomi di cui si può misurare la forza. Più difficile è adottare la medesima prospettiva dopo lo sviluppo dei moderni partiti di massa, quando le formazioni collettive agiscono come potente collegamento tra governo e Parlamento, determinandone di fatto una sorta di fusione istituzionale. Il partito domina il Parlamento, essendo in grado di dettare la disciplina ai suoi aderenti, esso agisce infatti in assemblea come unico possibile principio ordinativo: come afferma Calise è grazie allo sviluppo del partito politico che un'assemblea litigiosa di rappresentanti del popolo si trasforma in un numero limitato di gruppi parlamentari, tenuti insieme dai medesimi valori e, soprattutto, dalla consapevolezza che unendosi fosse possibile conquistare il governo a tenere saldamente in pugno le redini. I governi assumono la forma di una semplice emanazione del potere partitico, si pensi alla quantità di decisioni di rilevanza collettiva prese nelle sedi partitiche e alla predominante partitizzazione del personale ministeriale. I partiti riescono a determinare la formazione degli esecutivi spartendosi le spoglie ministeriali, e gettando poi le principali linee del policy-making nazionale, il cosiddetto “ governo di partito”/party governement. Perché si possa parlare pienamente di un governo con una legittimazione indipendente da quella del Parlamento è stata necessaria un'ritorno al passato monocratico, anche in questo caso sono gli Stati Uniti a presentare all'Europa il proprio destino istituzionale. All'inizio del secolo scorso i presidenti, infatti, hanno cominciato a prendere pieno vantaggio dal instaurazione di una relazione diretta con l'elettorato, affermando la propria leadership sui processi di decision-making, in modo via via sempre più indipendente rispetto ai partiti. Il caso italiano ha conosciuto negli ultimi anni una linea di cambiamento che ricorda quella registrata oltre oceano, a partire dagli anni 90 la tradizione partitocratica italiana è rimessa in discussione, contrastata, dall'emergere di un diverso principio di regolazione dei poteri: quello che affida al leader della responsabilità di governare sulla base di un rapporto di tipo diretto, elettorale o mediatico, con la cittadinanza.

In Italia i partiti hanno assunto un posto di primo piano fin dagli esordi della costituzione repubblicana, cioè nei lavori dell'assemblea costituente infatti il confronto tra due significativi ordini del giorno segnalava molto chiaramente la direzione verso cui si indirizzava, dalle sue origini, il sistema politico italiano:- il primo ordine del giorno, Dossetti, affermava la necessità del riconoscimento giuridico dei partiti politici e dell'attribuzione ad essi di compiti costituzionali. I partiti erano considerati la vera architrave del regime nascente. Nel testo finale della costituzione non si fisserà la rilevanza del partito come organo dello Stato: Tranfaglia, proprio nel momento in cui i partiti si stanno affermando come fattore essenziale di tutta la politica, anche di quella parlamentare, si decise di far finta che contassero poco e li si affidò alla legge ordinaria come associazioni private.- Il secondo ordine del giorno, Perassi, si presentava favorevole all'adozione del sistema parlamentare, da disciplinarsi tuttavia con disposizioni costituzionali idonee a tutelare l'esigenza di stabilità dell'azione di governo ed evitare le degenerazioni del parlamentarismo. Questa posizione poteva raccogliere il consenso di diversi sostenitori presenti in assemblea costituente, tuttavia, anche se l'ordine del giorno viene

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approvato, fu contraddetto da successive scelte dei costituenti arrestò nei fatti disatteso. Il terreno di incontro tra costituenti di sinistra e centristi, si individuò invece intorno al pieno riconoscimento dell'assemblea come espressione della volontà popolare.Centralità dei partiti e del Parlamento rappresentavano, dunque, i due ingredienti principali della prima Repubblica. La cultura dominante mostrava scarsa propensione per gli interventi che assicurassero a autorevolezza alla leadership governativa: sia l'anima comunista che quella democristiana, propendevano per elevare il potere dei partiti al di sopra di quello delle istituzioni, ciò rispondeva in primo luogo a quel complesso del tiranno che la recente esperienza fascista aveva lasciato in eredità e frenava l'introduzione di elementi di rafforzamento della guida monocratica per il timore di possibili involuzioni autoritarie. Il percorso verso la democrazia consensuale veniva, inoltre, indicato dalla stessa struttura sociale del paese, secondo Lijphart questa rappresenta il codice operativo, oltre che l'unica soluzione percorribile, per quei paesi fortemente segmentati e attraversati da profonde fratture. Anche nel nostro paese la considerazione delle linee di di visione, di ordine ideologico, poneva la necessità di ampliare le basi di legittimi si o nella nuova democrazia, conducendo di conseguenza scelte che privilegiassero il criterio di inclusione di tutte le forze politiche partecipanti al processo costituente. Un tentativo di aderire ad un diverso modello di democrazia coincide nei primi anni della Repubblica, quando si cercò di trovare una strada per il rafforzamento della leadership istituzionale. Si tratta tuttavia solo di una fase contingente di breve durata. Il periodo degasperiano ha costituito, infatti, un'eccezione nella storia repubblicana. Di fatto, subito dopo l'approvazione della legge Scelba, battezzata legge-truffa per l'eccessivo vantaggio che essa avrebbe concesso alla maggioranza parlamentare, le elezioni politiche del 1953 assumono il significato di una sorta di referendum popolare sull'attuazione della proposta di democrazia maggioritaria dei partiti di centro.Il primato dei partiti.Nonostante le resistenze formalistiche al riconoscimento del ruolo dei partiti, inizia un percorso istituzionale nel quale i partiti diventano “ le componenti pervasiva e dominanti del nuovo sistema politico, Pasquino”. Espressioni come governo dei partiti, partitocrazia, segnalano, in questa fase, lo slittamento del baricentro decisionale dalle sei ufficiali a quelle dei di intermediazione. Tali categorie fotografano la centralità dei partiti nel sistema politico italiano, evidenziano l'affidamento ai partiti delle principali decisioni nelle attività di governo è nei processi di nomina politica. Le critiche alla partitocrazia sono provenute in un primo momento dai liberali, difensori di un tipo di rappresentanza individualistica che legava elettore e notabile. Il rafforzamento dei corpi intermedi da questo punto di vista rappresentava una seria minaccia alla libertà del parlamentare nell'esercizio delle sue funzioni. In un secondo momento però la perplessità iniziale hanno assunto un diverso segno politico, riguardando il monopolio della gestione politica che i partiti hanno costruito è gelosamente conservato. Alcuni contributi politologi hanno attribuito un significato più neutro e analitico al concetto di party government, mettendo a fuoco tratti definito di che si riveleranno validi anche per la comprensione del caso italiano, Richard Katz nel suo lavoro lo legava l'emergere di tre caratteristiche: “ tutte le principali decisioni di governo sono prese da persone scelte dai cittadini in elezioni basate su contrapposizioni di partito; le politiche sono elaborate dai partiti di governo; che le più alte cariche sono nominati all'interno dei partiti e sono responsabili nei confronti dei cittadini attraverso i loro partiti”. In questo modo si proponeva di considerare il grado di penetrazione dei partiti nelle istituzioni statali, attraverso la considerazione del controllo sviluppato da questi sul decision-making.

Ma come si può inquadrare il party-government italiano alla luce dei canoni della modellistica costituzionale? - In primo luogo, bisogna considerare la legittimazione del capo del governo, questa nei regimi partitocratici è per di +1 fatto extra elettorale, dal momento che la designazione del vertice dell'esecutivo proviene dai partiti. Tuttavia malgrado la carta costituzionale assegna al capo dello Stato significativi poteri nei processi

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di formazione del governo, l'osservazione empirica ha lasciato riscontrare l'assunzione di un ruolo solo ratificato olio rispetto alla volontà dei partiti, con spazi molto limitati di discrezionalità. Il presidente della Repubblica ha potuto agire da ago della bilancia solo in circostanze di difficile accordo tra i partiti, in generale si può asserire che i partiti sembrano consentire al presidente di esercitare un effettivo potere di nomina in ragione della loro temporanea debolezza nella formare maggioranze. La designazione del primo ministro, dunque, era da considerarsi una prerogativa dei partiti, ed era all'origine dell'intrinseca debolezza dell'istituzione governativa. Ne conseguiva che anche la crisi del governo costituisse un fatto assolutamente extraparlamentare. - Un secondo elemento, che appare utile per definire il regime partitocratico, riguarda i rapporti tra governo e Parlamento. Tale regime si caratterizza per dar vita ad una fusione dei poteri tra i due rami istituzionali, producendo fra questi un continuum politico: Calise “ tanto è legislativo quanto l'esecutivo dipendono dall'organizzazione di partito, sia per l'appoggio elettorale, che per il reclutamento delle elite di governo”. Ben si inserisce in questo quadro la prima Repubblica italiana, dove il predominio dei partiti anche accentuato dall'impianto proporzionale del sistema elettorale. I membri del Parlamento sono, infatti, in una condizione di subordinazione rispetto alle gerarchie di partito, che ne determinano le candidatura e condizionano l'attività politica.- Infine un terzo elemento caratterizzante la partitocrazia, riguarda la struttura dell'esecutivo, che assume forme marcatamente collegiali. In Italia, nonostante le prerogative formalmente riconosciute al presidente del consiglio nella formazione della squadra di governo, la compagine ministeriale era nominata dalle forze della maggioranza secondo una logica compromissoria. Il primo ministro si qualificava come un primus inter pares senza significative possibilità di nomina, direzione e coordinamento dei ministri, Sartori. Adottando la prospettiva di tipo C, il ruolo del primo ministro in Italia viene classificato senza incertezze tra i più deboli d'Europa, il suo rafforzamento avverrà solo negli ultimi anni, quando il declino del partito come attore chiave nei processi della rappresentanza, porterà alla perdita della sua centralità nell'attività governativa. La conduzione dell'esecutivo in queste fasi è stata definita a “ direzione plurima dissociata”: in esso impallidisce il ruolo del presidente del consiglio, perché la funzione di stimolo e coordinamento del capo dell'esecutivo degrada a semplice mediazione, e si indebolisce allo stesso tempo anche l'identità del Consiglio dei Ministri.La crisi degli anni 90 e gli approdi presidenziali. L'analisi delle più recenti trasformazioni dei partiti politici sullo scenario europeo sembra suggerire il loro ridimensionamento nelle democrazie contemporanea. L'allentamento nel rapporto tra partiti a base sociale, la riduzione del numero degli iscritti, l'indebolimento del senso di identificazione partitica, lo sviluppo del sentimento antipolitico, rappresentano spie della crisi degli attori e delle forme di intermediazione politica. Anche in Italia si confermano tali tendenze: in primo luogo avviene un evidente calo di partecipazione dei cittadini. Ma il declino dei partiti non è solo dettato dalla riduzione della loro capacità di coinvolgere la cittadinanza, la crisi del party on the ground. Si può mettere in evidenza anche una drastica flessione dei tassi di fiducia nei confronti del partito come architrave ordinamentale, soprattutto dopo i fatti di Tangentopoli i partiti sono stati assunti come il principale bersaglio critico. Sono questi gli anni in cui si pongono sotto denuncia i mali del controllo dei partiti sulle attività di governo: per molti un'occupazione di uno spazio improprio che lascia constatare un vero e proprio processo di “ colonizzazione dello Stato” -Sartori, Panebianco-. I partiti, che sono stati così importanti per la nostra democrazia, sono apparsi come il principale male della stessa, producendo negli ultimi decenni una diffusa insoddisfazione per il funzionamento delle nostre istituzioni è sempre più numerose proposte di cambiamento. La posizione di più non era quella di abbattere il governo di partito, ma di correggerlo, il sistema elettorale rappresentava il principale campo di sperimentazione: nei primi anni 90 si formavano assemblee parlamentari con nuove regole- la partitocrazia, che si era detta sul sistema elettorale

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proporzionale, venne costretti a fare i conti con un sistema elettorale per tre quarti maggioritario in collegi uninominali e un quarto proporzionale, Pasquino-. Il nuovo impianto avrebbe dovuto condurre, in primo luogo, la riduzione del numero dei partiti e all'instaurazione di un formato di competizione bipolare: due partiti avrebbero rappresentato opzioni facilmente identificabili dai cittadini e poi si sarebbero impegnati a svolgere politiche congruenti agli enunciati programmatici. Ciò avrebbe portato inoltre ad 1+ chiara attribuzione delle responsabilità politiche e a 1+ frequente alternanza alle posizioni di comando. Tuttavia, da una parte questa visione razionalistica del governo di partito non ha trovato un adeguato riscontro; dall'altra, all'avvio di questo tipo di governo di partito è stato particolarmente difficoltoso in un paese come l'Italia, caratterizzato da una diversa tradizione costituzionale e storia politica. Le nuove leggi elettorali non hanno garantito quel regime dell'alternanza fondato su due partiti che sembravano promettere. Lontanissimo, infatti, è l'obiettivo del bipartitismo, dal momento che la somma dei voti raccolti dai due principali partiti si ferma alla soglia del 40%. Inoltre, non c'è alcun dubbio che “ sulla frammentazione partitica, il fiasco del Mattarellum è stato clamoroso, Sartori”. Il bipolarismo è ancora incompleto in perfetto, dando vita a coalizioni sempre più disomogenee in cui ciascun partito cerca di sottolineare la propria identità e visibilità sulla scena pubblica. Eppure le trasformazioni avvenute sono ben nostro paese di tipo epocale, anche se non hanno preso la direzione che molti speravano, non hanno creato un diverso il più maturo party government, lo messo invece in discussione il dominio dei partiti nella sfera statale, ma per aprire un importante finestra di opportunità, ai diversi livelli di governo, per una valorizzazione della leadership monocratica. Il primo laboratorio del governo monocratico e a livello locale, dove l'introduzione dell'elezione diretta dei sindaci, nei primi anni 90, è stata considerata come una vera e propria rivoluzione legale, la primavera dei sindaci. La metafora della “ repubblica delle città” ma che le realtà locali che compongono il nostro paese avrebbero assunto un ruolo propulsivo per il sistema politico nel suo complesso. Cambiavano profondamente le pratiche di governo locale, che trovavano un nuovo baricentro nella capacità di indirizzo politico dei nuovi sindaci: in tale fase stata registrata la tendenza massima al presidenzialismo sostanziale, alla marginalizzazione dei partiti dalle decisioni di governo, e il più alto uso di tecnocrati privi di affiliazione partitica. Il meccanismo dell'investitura diretta del presidente della regione viene fissato solo a fine anni 90, il presidente sfrutta appieno i nuovi poteri di nomina e revoca dei componenti della giunta, sempre più spesso formando compagini governative interamente composte da non consigli, quasi a sottolineare la propria autonomia rispetto ai partiti. Alla luce di queste nuove prerogative, in media hanno accolto i nuovi leader demo-eletti attribuendo loro il titolo, forse improprio, di governatori. Un cambio di regime. Il passaggio dalla repubblica dei partiti a quella dei presidenti negli anni 90 si può analizzare prendendo in considerazione gli elementi già utilizzati per definire la partitocrazia: le modalità di formazione del governo, i rapporti esecutivo assemblea, gli equilibri all'interno del Consiglio dei Ministri. - In primo luogo, prende vita una nuova fonte di legittimità del primo ministro. Le alleanze elettorali si formano prima delle elezioni, così che gli elettori possano conoscere all'atto del voto, in nome della guida del governo. Si realizzò un meccanismo di elezione quasi diretta del presidente del consiglio, per effetto da una parte dell'indicazione del nome del primo ministro imposizione di capolista della coalizione, dall'altra, del processo di bipolarizzazione del sistema dei partiti, che spinge a pensare alle competizioni elettorali come uno scontro tra due candidati. Il premier si propone come interprete della maggioranza degli elettori sulla base di un proprio mandato a decidere. Una tendenza che ha riguardato in particolare Silvio Berlusconi. L'attacco alla politica tradizionale ritenuta corrotta, il decisionismo e l'insofferenza verso l'opposizione, il richiamo al popolo come fonte di legittimazione dell'operato politico e rappresentano i più limpidi segnali. - Cambiano anche gli equilibri di potere all'interno delle compagini ministeriali, dove il presidente del

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consiglio inizia ad affermarsi come primus super pares. Un nuovo ruolo del premier si rileva già nelle attività di nomina dei ministri; questa dipende dalla natura composita delle maggioranze, che spinge, e costringe, a cercare un punto di accordo tra i partiti che la compongono. Tuttavia il primo ministro acquista, rispetto alla fase precedente, un surplus di potere politico, di cui ha approfittato per nominare ministri da lui scelti direttamente, Pasquino. - Il processo di rafforzamento del primo ministro avviene inoltre anche nella prassi amministrativa, nei primi decenni dell'Italia repubblicana, la presidenza del consiglio è stata un'istituzione debole dal punto di vista strutturale, priva di adeguati mezzi logistici ed economici. Un mutamento silenzioso riguarda invece, a partire dai primi anni 80, l'introduzione di nuovi mezzi di direzione dell'esecutivo, che assicurano al capo dell'esecutivo maggiore centralità è capacità di coordinamento. La legge 400/88, rappresenta un punto di svolta sia nel potenziare gli apparati della presidenza, sia nel creare un rapporto fiduciario tra ministro il suo scafo, introducendo nel nostro paese un importante nucleo di spoil system controllato direttamente dal primo ministro. Si definiscono anche due nuove figure istituzionali: il sottosegretario alla presidenza, che rappresenta il principale collaboratore politico istituzionale del primo ministro; e il segretario generale, che assume invece il compito di coordinamento delle strutture di policy della presidenza. In seguito, gli interventi messi in atto dai successivi presidenti del consiglio saranno tutti nel segno della trasformazione della macchina di governo in una vera e propria cabina di regia guidata dal premier. - Un altro importante ambito di trasformazione istituzionale riguarda il controllo del processo legislativo. È stato registrato un forte incremento della capacità normativa autonoma dell'esecutivo, che si rende manifesto attraverso l'uso massiccio degli strumenti del decreto-legge, del decreto legislativo e dei regolamenti governativi, secondo un processo di sostanziale svalutazione della legge formale. Dal punto di vista dei presupposti formali, la riforma dei regolamenti interni delle camere parlamentari ha assicurato un nuovo spazio al potere governante per il controllo sull'agenda dei lavori e sul contingentamento dei tempi, fino ad arrivare alla formazione di una vera e propria corsia preferenziale per i disegni di legge di origine governativa. Un passaggio importante anche rappresentato dall'abolizione del voto segreto, uno strumento utilizzato dai parlamentari dissidenti per ricattare l'azione governativa. Tuttavia, se le nuove regole stabiliscono un diverso ruolo della presidenza del consiglio nel Parlamento, l'esercizio delle nuove prerogative resta condizionato alla natura del rapporto tra esecutivo la maggioranza, che può diventare problematico quando quest'ultima si mostra risicata, divisa o frammentata. Le alleanze sembrano reggere al momento elettorale, non certo in corso di legislatura, quando invece le coalizioni mostrano la loro fragilità politica. Fra una consultazione l'altra, ciascun partito o corrente cerca di sottolineare la propria identità e visibilità. La divisione all'interno delle assemblee legislative prodotta da un processo di personalizzazione che ha riguardato non solo i vertici delle istituzioni ma, in generale, tutti i livelli della rappresentanza politica.

La storia istituzionale del nostro paese è scandita dalla cesura tra due fasi che hanno caratterizzato il periodo repubblicano, una cesura che, per la radicalità e la velocità dei cambiamenti avvenuti, anche fatto parlare di due diverse repubbliche:

- La prima fase vede il dominio incontrastato dei partiti politici. Essi hanno costituito un attore chiave nel processo di consolidamento democratico, favorendo l'ancoraggio della società alle neonate istituzioni democratiche, Morlino. I partiti politici non si sono limitati a mobilitare le masse nel nuovo progetto democratico, a costruire degli intermediari tra Stato e società. Nel corso dei primi decenni repubblicani essi hanno conquistato una posizione di piena egemonia, non solo nei processi di rappresentanza ma anche nel decision-making, assumendo il controllo sulle risorse statali. L'espressione party government è fra le più lucide nel ritrarli come gli attori preminenti sulla

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scena pubblica. Il sistema di governo basato sui partiti è stato però rimesso in discussione, nel nostro paese questo è entrata in crisi in un lasso di tempo molto breve: è stato detto che va attivi sono stati come dei giganti dai piedi di argilla, cotta. Di quelli che componevano l'arco costituzionale repubblicano molti sono scomparsi, tutti hanno cambiato immagine e natura. In molti si attendevano da questi cambiamenti una trasformazione maggioritaria delle nostre istituzioni, un altro governo di partito, questa volta più vicino al modello inglese.

- La seconda Repubblica ha preso invece una direzione diversa. Un processo di valorizzazione del potere monocratico ha spezzato il predominio dei partiti sulle istituzioni governative. Anche in assenza di un meccanismo formale di investitura popolare il presidente del consiglio acquista una legittimità quasi diretta, facendosi spesso interprete della propria maggioranza, secondo i canoni del governo presidenzial-populista, Musella. Crescono i poteri normativi del governo, che si appropria di una vera e propria funzione legislativa di rango primario, anche se è i limiti della legittimità costituzionale. Per quanto riguarda le attività parlamentare, le modifiche apportate ai regolamenti delle camere cercano di rimodulare le procedure in direzione della realizzazione della democrazia competitiva, mirando ad accrescere le capacità di indirizzo del governo nel processo legislativo ordinario. Nella nuova fase istituzionale è il nesso governo maggioranza ad essere più difficoltoso e incerto. La personalizzazione, che da una parte detta l'ascesa del governo monocratico, dall'altra scandisce un processo di atomizzazione in assemblea. Sempre più si può registrare la moltiplicazione dei partiti che compongono le coalizioni e dei gruppi che risiedono in Parlamento. Sono numerosi i leader che si mettono a capo di informazioni personali, alimentando una spirale di progressiva frammentazione. Più in generale, i membri del legislativo, privati del riferimento collettivo dei partiti, e non più legati da una comune disciplina, danno vita ad azioni di tipo individualistico in cerca di maggiore visibilità.

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Capitolo 2l'America è il paese dei presidenti: questa è l'immagine che subito si fa presente nella mente dei cittadini. In realtà già le prime costituzioni vedevano nell'assemblea il cuore della nascente democrazia. La tensione rinvenibile negli scritti dei padri fondatori avrebbe poi animato a lungo la teoria politica statunitense. Per tutto il 19º secolo lo sviluppo del governo presidenziale è stato ostacolato dal processo di consolidamento istituzionale dei partiti politici, che, controllando sia il legislativo che l'esecutivo, hanno dato vita ad un assetto di fusione tra i due rami istituzionali. I partiti, infatti, controllavano i canali di accesso alle cariche sia e elettive che amministrative, e su questa base sono divenuti il cuore dell'indirizzo politico; anche la nomina del presidente, che secondo i padri fondatori avrebbe dovuto essere espressione della volontà popolare, è stata fortemente condizionata dalle macchine di partito. L'interruzione del dominio dei partiti è legata a particolari contingenze storiche, e alla finestra di opportunità apertasi per i presidenti nel periodo di crisi economica degli anni 30. È allora che inizia a formarsi un circuito di consenso autonomo per il leader di governo, dal quale egli ricava il sostegno per le sue iniziative politiche, e la forza per superare i veti incrociati di altri attori concorrenti come il congresso e la corte. La costruzione della moderna presidenza fa leva su nuove e accurate strategie di comunicazione di massa che promuovono le azioni e l'immagine del capo dello Stato presso l'opinione pubblica, anche con il ricorso delle più evolute modalità di rilevazione degli orientamenti degli elettori. L'ascesa dei presidenti non sarebbe immaginabile senza la qualità, il temperamento e l'esperienza di coloro che hanno occupato questa carica: secondo molti osservatori, la fondazione della presidenza moderna è prima di tutto personale a cui segue un percorso di crescita organizzativa, cresce lo staff del presidente. Allo stesso tempo crescono per quantità e irrilevanza i poteri normativi del presidente, grazie alla scelta volontaria del congresso di delegare una quota consistente delle proprie funzioni legislative, sia per l’appropriazione indebita da parte dell'esecutivo di alcune prerogative del governo, si è parlato di usurpazione o abuso. Per analizzare le diverse fasi costituzionali vissute dagli Stati Uniti, in particolare il passaggio dal governo dei partiti al governo del presidente, si utilizzerà il sistema delle fonti normative come specchio di questa evoluzione.La prima repubblica americana. Il primo imprinting costituzionale degli Stati Uniti è di tipo assembleare. Dopo l'indipendenza, la reazione alla figura del governatore come rappresentante della madrepatria spinse le ex colonie ad adottare assetti istituzionali nei quali il capo dell'esecutivo fosse eletto dall'assemblea legislativa e conservasse poteri molto limitati. Le costituzioni dell'epoca ampliarono i poteri parlamentari. Successivamente, per motivi di ordine geopolitico, innanzitutto per garantire l'unità di un paese di vaste dimensioni come gli Stati Uniti e per assicurare la centralizzazione del comando delle operazioni militari, i padri fondatori si convinsero di rafforzare la figura del presidente, attribuendogli un'investitura popolare al pari del potere legislativo. Fin da subito era però chiara la tensione fra due concezioni dei poteri, fra due diverse posizioni sul governo: l'una che ne postulava la sottomissione; l'altra che, nell'ambito di generosi limiti, lo riteneva completamente autonomo. La stessa apertura della costituzione americana costituirà poi la premessa per la realizzazione di diversi assetti politico-istituzionali nel corso della storia repubblicana, permettendo dapprima il rafforzamento del potere dei partiti, e in un secondo momento il loro spot testamento a favore del presidente. Lungo il 19º secolo, i partiti furono al centro della scena pubblica americana. Già a fine 700 le fazioni che componevano il primo è secondo congresso si trasformarono rapidamente in veri e propri partiti, dotati di una stabilità e di un'organizzazione che non aveva pari in nessun altro posto al mondo. Merita di essere sottolineato, fra gli elementi che hanno determinato la forza dei partiti nel sistema politico americano, il controllo dei processi elettorali. Per quanto riguarda il vertice dell'esecutivo, dagli ultimi anni dell'800 agli anni 20 del 900, il candidato presidenziale veniva scelto direttamente dal caucus parlamentare del partito democratico-repubblicano e del partito federalista, tanto che si inizia ad utilizzare l'espressione “King-Caucus”,Fabbrini. Il primo caucus risale al 1796, quando membri i federalisti del congresso americano si ritirarono segretamente per nominare John Adams come

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sfidante dell'indiscusso candidato repubblicano Jefferson. La clandestinità è in questa fase un elemento caratterizzante e rappresenta il motivo per il quale, ancora oggi, il termine caucus viene associato ad un significato spregiativo, alludendo ad un accordo segreto e non trasparente per i cittadini. Tra il 1830 e 900, la selezione per i candidati è affidata ad un meccanismo che resta ancora a completo appannaggio dei partiti pur prevedendo maggiore partecipazione popolare: il sistema delle convention. In specifici raduni si scelgono rappresentanti di partito da inviare in assemblee di livello superiore, appunto le convention. Dopo aver ricevuto tale mandato, i delegati prendono poi decisioni in composizione collegiale su questioni che riguardano la vita del partito. Si può concludere che, nonostante la punto di vista formale l'impianto elettorale statunitense avrebbe dovuto garantire una elezione diretta del presidente, tuttavia agli intenti originari ben presto rispose un crescente controllo di tale processo a opera delle macchine di partito. Nel giro di pochi mandati si realizzò la coincidenza fra cui il capo del governo e la posizione di leader del partito. Con la conseguenza che il presidente avrebbe sviluppato un rapporto di responsabilità verso l'organizzazione che ne determinava l'elezione. Del resto anche gli strumenti di comunicazione a disposizione del presidente erano ancora limitati, il leader si rivolgeva ai propri sostenitori affidando i propri messaggi a una rete di giornali di partito su base locale. Il discorso non cambia per quanto riguarda le elezioni dei rappresentanti che sedevano nel congresso e nelle assemblee statali e locali, per le quali anzi il sistema delle convention trovava suo primo collaudo. I partiti controllavano i circuiti elettorali, su questa base le attività degli eletti al congresso, essi dominavano quel sistema delle commissioni che Wilson aveva identificato come il pilastro del Congressional Government. Alla chiusura delle elite di partito si opporrà poi, all'inizio del novecento, il movimento progressista, che determinerà la diffusione delle primarie come metodo di scelta dei candidati non solo per le presidenziali ma anche per le consultazioni nei singoli Stati, con ampie conseguenze per il sistema politico americano nel suo complesso.Di fatto i partiti hanno assunto un ruolo determinante nella costruzione dello Stato americano, sono divenuti l'attore chiave della strutturazione delle sue istituzioni, che hanno provveduto ad organizzare dall'interno, facilitando le relazioni tra gli organi costituzionali e routinizzando le procedure amministrative. Nel periodo che una lunga tradizione di studi a definito come Party period, i partiti diventano l'attore chiave anche nella distribuzione delle cariche pubbliche. Fin dai primi decenni dell'800, la rivoluzione jacksoniana produsse un sistema di nomina partitica degli amministratori che divenne noto come la formula dello spoil system. Molte funzioni burocratiche, a livello locale e federale, invece di essere affidate a personale di carriera, erano assegnate ai membri del partito risultato vincitore. Il meccanismo delle spoglie portava il partito a gestire ingenti risorse e la possibilità di stipulare contratti con i privati. Fra le attività più redditizie si ricordano l'amministrazione delle poste con la possibilità di gestire canali delle comunicazioni, l'amministrazione del demanio pubblico; l'amministrazione delle dogane. Si tratta di ambiti che il partito poteva utilizzare per la costruzione e la riproduzione del consenso, attraverso la concessione ai cittadini di benefici particolaristici: è ciò che si può definire “patronage”, il rapporto patrono-cliente di memoria medievale. La rotazione delle cariche risultava anche ancorata ad 1.00 visione democratica volta ad evitare la tendenza della burocrazia statale a costituirsi come corpo autoreferenziale. Vigeva infatti la concezione che considerava “ inammissibile l'esistenza di funzionari stabili, portati a trasformarsi in una casta che considerava il proprio posto come una specie di proprietà –Calise-”.La svolta costituzionale. Gli Stati Uniti sono considerati come il modello presidenziale per eccellenza, tuttavia sono anche il caso che più di tutti ha mostrato la flessibilità dei tipi costituzionali. Un'ottica di lungo periodo lascia riscontrare infatti un vero e proprio cambiamento nella logica delle istituzioni americane. Tali trasformazioni sono da rinvenire nelle contingenze storiche che all'inizio del secolo scorso determinarono l'affermazione del presidente nei processi di acquisizione e di gestione del potere. È allora che il presidente divenne l'organo di indirizzo politico, in un nuovo assetto istituzionale che invece vedeva i partiti spogliati del loro ruolo di depositari della volontà popolare ed i soggetti di azione collettiva. La finestra di

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opportunità per questo epocale passaggio di consegne si aprì negli anni 30, le instabilità economiche del 29 posero la necessità di un cambiamento nel rapporto tra gli organi costituzionali: già Wilson criticò la lentezza decisionale in campo economico sociale e internazionale del congresso, furono però le prime due presidenze di Roosevelt che produssero le principali innovazioni politico istituzionali per la rifondazione della presidenza americana. Durante il suo mandato infatti la presidenza fu riformulata nella sua componente governativa, ossia la capacità di indirizzare i processi politici e di imporsi come attore preminente rispetto ai membri di partito che sedevano nel congresso e nei parlamentini degli stati membri, e nella sua componente popolare, vale a dire la capacità di farsi depositario della volontà della cittadinanza e interagire con questa senza alcun tipo di intermediazione partitica dal primo punto di vista, un importante spinta per il rafforzamento presidenziale derivava dall’implementazione del piano del New Deal. Un turning point della storia costituzionale americana si verificava, infatti, quando la corte suprema legittimava l'intervento del governo federale in ambito economico. Se fino ad allora, in linea con la dottrina del federalismo duali, gli Stati avevano conservato competenza esclusiva per tutto ciò che li riguardava, in questi anni avveniva invece un netto ampliamento della legislazione federale a discapito di quella dei singoli Stati. Cambiava anche la qualificazione delle politiche del National governement, che mostrava una maggiore presenza sia nell'aria regolativa, stabilendo rapporti di coercizione diretta nei confronti dei cittadini; sia in quella redistributiva, intervenendo invece sulle classi di individui e sui rapporti tra queste, Lowi. L'espansione dei compiti del governo nazionale si svilupperà ulteriormente dopo la seconda guerra mondiale, quando la decadenza dei partiti lasciava alla presidenza il controllo della vita politica ed economica. Dallo sviluppo di una particolare forma di Stato, conseguiva il deciso consolidamento dell'istituzione governo, infatti, man mano che i cittadini si abituavano all'idea del big governement, e una schiera di giuristi, politologi, economisti e giornalisti iniziavano a mostrare che questo costituisse un bene anziché un pericolo, si presentò la giustificazione per l'incremento del potere presidenziale, in quanto necessario al suo successo. La costituzione del presidente come baricentro decisionale del sistema politico americano poggia le basi, inoltre, su un processo di definizione dello staff di supporto della presidenza. In genere si fissa come anno di inizio di tale tendenza il 1939 con sospetto. Da quel momento l'amm. presidenziale ha conosciuto un percorso di crescita lungo l'intero secolo scorso, con un incremento sia in termini di numero di uffici che di impiegati. In secondo luogo, la fondazione del potere presidenziale è legata alla costituzione di una nuova base del consenso per la presidenza. Il rapporto tra libera al comando ed elettorato non è più mediato dai partiti, e anzi si inizia creare un rapporto basato sulla conoscenza sulla lealtà popolare verso il leader. In un'epoca caratterizzata da rilevanti conflitti istituzionali, la strategia principale del presidente diviene quella di rivolgersi direttamente ai cittadini ottenendo così un importante vantaggio competitivo nei confronti delle istituzioni rivali, come il congresso o i partiti. Tali sviluppi sono inoltre accompagnati dall'uso sistematico dello strumento del sondaggio, come metodo per valutare le tendenze dell'opinione pubblica, il presidential polling. In generale, il rafforzamento della presidenza faceva leva anche su un nuovo dispositivo ideologico, cambia la teoria democratica, secondo la quale la presidenza è la vera voce del popolo, in quanto unica istituzione eletta dall'intero elettorato. La costruzione del nuovo regime si basava dunque sul passaggio della figura del presidente da funzionario pubblico, che aveva principalmente un potere relegato alla sfera esecutiva, al leader popolare, che rappresentava la nazione e ne seguiva la volontà. Il colpo mortale ai partiti, come perno del sistema istituzionale, è stato inferto nei primi decenni del 900. Di notevole impatto è stata la diffusione delle elezioni primarie come modalità prevalente di selezione della leadership. Mare come strumento per riformare i partiti, le primarie si sono, infatti, ben presto manifestare come la principale premessa della loro crisi. In campagna sempre più centrate sui candidati, quest'ultimi diventavano gli unici promotori della propria elezione, assumendone in prima persona i costi e ricercando le risorse necessarie per la vittoria nel sostegno dei gruppi di pressione. I partiti furono, dunque, fortemente indeboliti, sia nelle funzioni di mobilitazione dei cittadini sia

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nelle attività di governo. Già negli anni 50, gli scienziati politici lamentavano l'assenza di un “responsible party government” sul modello inglese. Il partito americano non aveva gli strumenti necessari per indirizzare i suoi membri verso la realizzazione del proprio programma, così che la responsabilità del partito nei confronti degli elettori sembrava perdere di significato. La debolezza dei partiti da un certo punto di vista favorisce il presidente; d'altra parte però è lo stesso presidente a non poter più contare sui partiti e sul loro sostegno. Forza normativa . Un aspetto particolarmente rilevante dell'evoluzione presidenziale si ritrova nella ridefinizione del sistema delle fonti normative. La costituzione americana specifica i poteri del congresso, a cui affida l'autorità legislativa, mentre attribuisce al presidente poteri generali di regolamentazione senza la specificazione di alcuna riserva. Tale impostazione fu rimessa in discussione a partire dalla fine del 19º secolo, quando inizia a realizzarsi un processo di delega di poteri dal congresso all'esecutivo. Un trasferimento di competenze che si è avvalso anche della complicità della corte suprema. L'evoluzione della giurisprudenza costituzionale può essere infatti posta in evidenza dall'analisi di alcuni atti della corte, che tracciano un percorso di riconoscimento e valorizzazione dei poteri normativi dell'esecutivo e, in particolare, della legislazione delegata. La corte autorizza la delegazione qualora il congresso determina l'oggetto della normazione in modo preciso e indica norme tese a regolamentarne l'attività delegata. Il cambiamento di prospettiva avveniva sotto la presidenza Wilson, quando la corte suprema, chiamata a pronunciarsi sul fatto che il potere presidenziale di nominare i funzionari federali di essi anche il diritto a revocarli, non si limitava a chiarire come il primo potere fosse associato al secondo, ma affermava che il presidente si dovesse considerare titolare di poteri non enumerati, perché il potere presidenziale si diceva era dato in termini generali: è questo il fondamento costituzionale di una presidenza non più meramente esecutiva della volontà del congresso. La corte ha ridimensionato poi progressivamente gli standard di ammissibilità della delega, così che il trasferimento di competenze legislative dal congresso al presidente è divenuto amplissimo è privo di indicazioni di contenuto. Ciò risponde anche alle nuove esigenze economico sociali poste dalle contingenze dei primi decenni del 900. Un secondo ambito di espansione normativa presidenziale ha riguardato la crescita del potere di decretazione, attraverso un processo incrementali: per esempio si consideri l'uso degli ordini esecutivi, executive orders, residenziali, che hanno conosciuto un aumento esponenziale negli ultimi decenni. Dal punto di vista qualitativo di ordini esecutivi si sono progressivamente allontanati dal loro compito originario, perdendo la natura prettamente regolamentare, per divenire un vero e proprio strumento di iniziativa politica e di riforma.Infine, un potere normativo che ha conosciuto una specifica evoluzione dopo la svolta costituzionale negli Stati Uniti è rappresentata dal veto-power, una pietra miliare nella costruzione della presidenza moderna. Da strumento di controllo preventivo di legittimità costituzionale dei testi approvati dal congresso, inizia registrarsi un diverso uso, dà atto reattivo diventa uno strumento di azione politica per il capo di governo. Con Roosevelt, il potere di veto si confermava pienamente come dispositivo per l'ampliamento delle prerogative presidenziali. Se si analizza l'uso del potere di veto nelle più recenti presidenze, si riscontra una sua sempre più completa associazione alle fasi di governo diviso, quando viene utilizzato dal presidente per fermare le iniziative politiche del partito avversario. Necessità che viene invece meno nei periodi di governo unificato. Nella prassi emergono anche particolari tipi di rito, in grado di mostrare la trasformazione funzionale di tale strumento normativo. Per esempio, a partire dagli anni 30, è stato utilizzato il cosiddetto pocket-veto, attraverso il quale il presidente si rifiuta di firmare un testo legislativo contravvenendo alla regola che imporrebbe di addurre motivazioni dettagliate. Negli ultimi anni un ampio dibattito si è sviluppato sulla possibilità da parte del presidente di respingere solo alcune parti di una legge, il cosiddetto line-item veto permette di bloccare una singola voce di spesa senza compromettere l'impianto di una legge finanziaria: una possibilità non prevista dai padri fondatori ed estranea alla tradizione costituzionale statunitense. Tale tipologia è stato dichiarato incostituzionale dalla corte suprema, anche se i presidenti hanno cercato di

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predisporre meccanismi simili. Infine, segnalando un maggior attivismo presidenziale, si ricordi che negli ultimi anni si è riscontrato un uso più frequente e spesso strumentale dei signing statement, vale a dire delle dichiarazioni scritte con le quali il presidente accompagna l'atto di approvazione delle leggi, prima della loro promulgazione. Tali atti hanno dato la possibilità al leader di segnalare la propria posizione sulla legislazione prodotta dal congresso, di pronunciarsi sulla sua validità o anche di dichiarare che non sia atterrà a parte di essa. È questa un'altra frontiera dello sviluppo del potere presidenziale, in cui il capo del governo di fatto assume una funzione di interpretazione, in molti casi di implicita produzione legislativa. Governo vs Assemblea. Due sistemi di governo si sono susseguiti lungo la storia costituzionale americana, in una prima lunga fase, i partiti hanno conquistato il monopolio della distribuzione delle cariche pubbliche della gestione del potere dello Stato. In questo periodo, anche se i presidenti sono dotati di legittimazione popolare quasi diretta, non sono tuttavia in grado di realizzare un'effettiva separazione dei poteri: i partiti volevano presidenza e congresso sotto il segno della propria supremazia. La stagione costituzionale che si apre con il New Deal di Roosevelt, vede il ribaltamento del regime partitocratico. Il presidente trova canali autonomi di acquisizione del consenso è su questa base diviene il principale responsabile dell'indirizzo politico del paese. Una trasformazione che Lowi fotografa con la formula “ presidenza personale”, un'istituzione che si allontana dai partiti per principi autorità; circuiti di legittimità; modalità di azione. Un processo di progressivo trasferimento di competenze legislative avviene lungo il secolo scorso con il beneplacito della corte suprema: il governo presidenziale pur usufruire di deleghe sempre più ampie e prive di sostanziali principi direttivi o di altre indicazioni da parte del Parlamento. Gli ordini esecutivi, dati di attuazione amministrativa acquisiscono quasi la statura di legislazione primaria. Anche il potere di veto diviene un'importante occasione per il presidente per intervenire nel processo legislativo, soprattutto in caso di governo diviso. Il presidente che da un lato si rafforza, spesso però non sembra trovare una sponda in Parlamento per la realizzazione del proprio programma politico. In particolare nelle fasi di governo diviso, il successo presidenziale nel campo del law-making conoscono un notevole ridimensionamento. Basterebbe considerare gli eventi più recenti per accorgersi delle difficoltà incontrate da Barack Obama, sia nella realizzazione dei punti più importanti del suo programma politico sia nel rispondere ad alcune emergenze sorte nel suo mandato. La sua elezione è stata circondata da un'altissima attenzione mediatica livello globale: l'ascesa del presidente sarà interpretata come l'inizio di una nuova era, con importanti ripercussioni sia per la politica interna che tra gli equilibri mondiali. Ben presto, però, l'uomo più potente della terra è sembrato sguarnito del necessario appoggio congressuale. La riforma della sanità, un punto centrale nell'agenda di Obama, ha trovato approvazione parlamentare solo dopo febbrili trattative parlamentari. Anche in campo economico le risposte sono state rallentate poi concordare con le camere. Ha destato ampia attenzione mediatica il discorso pronunciato nel settembre del 2011 per l'approvazione di un pacchetto di misure per la ripresa economica nel quale il presidente ha richiesto per ben 16 volte al plenum assembleare di approvare il provvedimento: la frequenza dell'espressione “ pass this bill” è stata interpretata come la prova evidente della fragilità del leader americano nell'indirizzare il congresso.Nel regime presidenziale statunitense la divisione dei poteri è dettata innanzitutto dalle modalità delle consultazioni americane che, non prevedendo la contestualità del voto del presidente del parlamento, conducono spesso la formazione di una maggioranza congressuale di colore politico diverso rispetto al capo dell'esecutivo. Il controllo del Parlamento da parte del presidente difficile dalla destrutturazione del quadro partitico americano e dalla scarsa disciplina dei parlamentari. A partire dai primi decenni del 20º secolo, le primarie hanno stimolato un processo di frammentazione dei partiti, spingendo spesso i candidati a ricercare le risorse necessarie per la vittoria nel sostegno di gruppi di pressione. I partiti sono diventati allora aggregati poco cui essi di esponenti locali. Tanto che la stessa preminenza del presidente della forma di governo ha dovuto sempre più fare i conti con la conseguente frammentazione e personalizzazione delle istituzioni rappresentative.

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Capitolo 3: i decreti legge.I decreti legge sono stati considerati già a partire dagli anni 80 come un termometro molto sensibile delle relazioni tra governo e Parlamento, e dello slittamento del baricentro decisionale in capo all'esecutivo. Negli ultimi decenni il loro utilizzo è stato giudicato anomalo: in primo luogo, sorprenderò la loro quantità, la progressione della decretazione. Si segnalavano, inoltre, le modalità della loro adozione, spesso in aperto contrasto con le indicazioni della costituzione: il decreto-legge era ritenuto il grande imputato colpevole del capovolgimento delle regole costituzionali che disciplinano l’istituto. Nonostante la continuità di questo giudizio critico si possono però descrivere diverse fasi politico istituzionali che i decreti legge attraversano, e che ne suggeriscono, nel corso del tempo, una diversa interpretazione. Nelle prime legislature, il decreto sembrava rimanere nell'alveo costituzionale, attribuendo all'esecutivo la possibilità di dettare l'indirizzo politico in condizione di straordinarietà e urgenza. A partire dalla quinta legislatura, inizia a manifestarsi sia l'incremento quantitativo dei decreti legge sia il distacco della fonte dai suoi parametri formali di riferimento. Per i decenni successivi il decreto-legge si consolida come uno strumento molto utilizzato, fino ad ingolfare la stessa attività parlamentare quando si affermerà la prassi della reiterazione.Nell'assemblea costituente si è discusso a lungo sull'eventualità di includere nel testo costituzionale la previsione del decreto legge. Era infatti ancora impresso nella mente dei costituenti l'uso che il regime fascista aveva fatto della decretazione. Il decreto diviene mezzo normativo privilegiato dell'esecutivo, per agire con pochi ho nessun limite, ogni qualvolta lo ritenesse utile. Ciò spiega l'orientamento molto cauto mostrato dall'assemblea costituente. Tale sfiducia indusse i costituenti a porre dei vincoli procedurali a quell'istituto che aveva manifestato una chiara vocazione a divenire strumento centralistico e autoritario; fu allora che si fece strada, in funzione garantista, la necessità di conversione parlamentare dei decreti e del controllo di costituzionalità operato dal presidente della Repubblica. La prassi ha mostrato però come il ricorso alla decretazione possa allontanarsi anche in modo notevole dal modello formale, pur correndo il rischio di semplificare, è possibile evidenziare 4 diverse fasi politico istituzionali del ricorso al decreto: 1)in una prima fase, i decreti sembravano rientrare nei limiti della disciplina procedurale. Nei primi anni del boom legali gli atti con forza di legge sono stati utilizzati solo come ipotesi eccezionali e subordinati al rispetto di condizioni precise, secondo il testo costituzionale. Tale periodo, che corrisponde alle prime 4 legislature repubblicane, è stato definito la fase classica in cui nella decretazione d'urgenza il governo è il legislatore: infatti, anche se dal punto di vista dimensionale dei decreti non raggiungono un alto numero, sono molto limitati gli emendamenti apportati ai essi in sede parlamentare.2)Una seconda fase vede sia l'incremento dei decreti prodotti sia l'assunzione da parte del Parlamento del ruolo di co-legislatore. Uno scenario che inizia definirsi a fine anni 60, e si realizza pienamente negli anni 70 per i mutati equilibri di forza tra maggioranza e opposizione. Quando, infatti, aumentava in Parlamento il peso del partito comunista, si registrava un incremento dei tempi medi di approvazione delle leggi ordinarie e di conseguenza 1+ frequente ricorso ai decreti legge. Attraverso i decreti erano anche approvati più importanti provvedimenti. Del resto la tendenza all'espansione degli ambiti regolati attraverso i decreti legge coincide con l'ampliamento dei compiti dello Stato, che stimolato verso interventi sempre più ampi in campo economico sociale deve contare sulla maggior forza degli organi di direzione politica. Ma non è la crescita quantitativa dei decreti l'elemento che maggiormente caratterizza questa fase. La novità principale riguarda, infatti, i rapporti tra legislativo ed esecutivo, che trovavano nel decreto-legge uno strumento di collaborazione. Il governo non è più il solo protagonista della legislazione d'urgenza, poiché la decretazione diveniva un punto di contatto tra le volontà dei due rami istituzionali.3)La collaborazione tra legislativo ed esecutivo nella produzione di decreti non viene meno nella terza fase, che comprende gli anni 80 fino alla metà degli anni 90. Tale arco temporale sembra caratteri zar si però per il deciso sviluppo di una vera e propria anomalia procedurale: la prassi della reiterazione. I decreti non approvati sono ripresentati alle camere nella stessa forma, allo scadere dei 60 giorni utili per la loro

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conversione in Parlamento, così da preservarne gli effetti normativi per altri due mesi. Nei primi anni 90 l'utilizzo della prassi della reiterazione divenne sempre più ingestibile. Si può affermare che la procedura della ripresentazione dei decreti diventava la modalità ordinaria attraverso la quale si producevano norme primarie nel nostro ordinamento. In questo modo non solo si produceva un'evidente contraddizione con l'eccezionalità che dovrebbe contraddistinguere la decretazione d'urgenza, ma si ingolfava no anche le attività parlamentari con un numero abnorme di decreti. Si scontravano inoltre significative ripercussioni sull'ordinamento giuridico nel suo complesso. Il sistema della reiterazione voleva produrre solo norme transitorie, legate alla ripresentazione dei decreti. È questo un altro elemento che porta ad una differenziazione con la fase precedente: l'ordinamento stesso vive in una sua precarietà intrinseca. Una simile caratteristica porterà a volte il giudice ordinario a non applicare per i contenuti dei decreti legge reiterati nelle controversie, secondo un processo che è stato definito di ribellione organizzata. Tuttavia, nonostante i segnali di malessere sistemico, la prassi della reiterazione continuerà fino alla metà degli anni 90, quando si interromperà per l'intervento di un organo di garanzia.4)L'interruzione della reiterazione rappresenta il primo a elemento che caratterizza la quarta fase della decretazione. La corte costituzionale ha in genere evitato di esprimere giudizi sui requisiti di necessità e urgenza dei decreti legge: era infatti noto che la maggior parte dei decreti né fosse sguarnito. La corte si è invece espressa sulla prassi della reiterazione sul finire degli anni 80, quando questa sembrava raggiungere i livelli più elevati. Fino a pronunciare voi una sentenza storica nel 96, con la quale gli vietava la reiterazione dei decreti legge, in quanto tale pratica mostrava di incidere in maniera significativa sulla stessa forma di governo. Dopo la sentenza della consulta, inizia un'altra parte dei decreti, che però non ha condotto, a dispetto delle aspettative diffuse, ad un ridimensionamento quantitativo del ricorso allo strumento. La corte, infatti, mostrava di soffermare la propria attenzione più sull'anomalia della ripresentazione dei decreti che sugli altri numerosi aspetti che segnalavano i loro scostamento dalle disposizioni costituzionali e in primo luogo la perdita del requisito di necessità e urgenza. La produzione di decreti durante i decenni repubblicani, al netto di quelli reiterati, resta pressoché costante e si stabilizza attorno ad un numero di 3-4 al mese. Sembra esistere, da questo punto di vista, un tasso strutturale di decretazione d'urgenza. Se si considera, inoltre, la quantità di legislazione ordinaria rispetto ad altre fonti, si riscontra la crescita significativa dei decreti legge durante gli anni 1996-2011, quando questi raggiungono il 17% della produzione normativa. Una percentuale che è ancora più interessante per l'incremento nello stesso periodo di un altro tipo di decretazione governativa, quella che prende avvio da una delega parlamentare. I decreti legislativi raggiungono, nei 10 anni considerati, circa il 30% della legislazione complessiva. I due processi di espansione dei decreti legge e legislativi portano, così, la legislazione ordinaria a decrescere fino a scendere in media al 52,8% della produzione normativa. Anche mettendo in conto che la riduzione del numero delle leggi possa essere ricondotto alla minore quantità di interventi normativi, la legge ordinaria sempre meno veicolo di politica organica, assumendo un carattere residuale nel complessivo sistema delle fonti del diritto. Classificazione. Dal punto di vista formale, le regole che circoscrivono le finalità e la natura dei decreti legge pongono pochi limiti di carattere contenutistico: un vincolo espresso dalla costituzione rimanda l'di vedove un decreto di contenere deleghe legislative; la legge 400/88 prevede che un decreto legge non possa contenere disposizioni che siano state già respinte. Di fatto, eluso il presupposto di necessità e urgenza che le legittima, i decreti legge sono intervenuti numerosi ambiti. Soprattutto negli ultimi anni la missione della decretazione d'urgenza sembra essere quella di prendersi carico dell'implementazione dei principali obiettivi del governo. Una prassi consolidata e dei decreti proposti dal presidente del consiglio congiuntamente ai ministri competenti per materia. Si può così constatare la straordinaria varietà dei temi affrontati dai decreti legge. In questo modo, l'ampio ventaglio delle materie trattate può essere interpretato come un segnale qualitativo della progressiva autonomizzazione del governo e della flessibilità

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dell'uso della decretazione. Una diversa classificazione dei decreti legge può essere operata adottando la nota quattro ripartizione delle politiche pubbliche introdotta da Lowi, sulla base dell'equivalenza che lo stesso autore ha posto per il concetto di policy, in giurisprudenza norma. Lowi cerca di cogliere la razionalità che esprime l'azione politica associata agli atti normativi, che si può caratterizzare da una parte per il grado di coercizione di cui è investita, prossima o remota, e dall'altra per l'ambito del suo intervento, individuale o collettivo. L'incrocio fra queste due dimensioni analitiche porta a identificare 4 diverse arene di azione pubblica o 4 tipi di policy. Le politiche regolative incidono direttamente sulla condotta individuale imponendo obbligazione sanzioni; le politiche distributive hanno l'immediata possibilità di applicazione, non imponendo però delle obbligazioni ma distribuendo benefici e facilitazione su base particolaristica; le politiche redistributive agiscono sull'ambiente della condotta dei cittadini piuttosto che sulla condotta in sé; le politiche costituenti definiscono l'ambiente della condotta dei cittadini esprimendo regole sull'esercizio del potere. Se si analizzano i circa 500 decreti prodotti tra il 1996-2011, con lo schema di Lowi si può consacrare la varietà di funzioni a loro associate. I decreti di natura regolativa, seppur numerosi e predominanti, lasciano spazio ad atti di natura finalità diverse. Una parte consistente di decreti si dedica ad concedere benefici a categorie ristrette di persone, tali interventi legislativi comportano un incremento delle spese pubbliche a beneficio dei destinatari già identificati in modo esplicito nel testo del decreto. I decreti la novità, in una quantità più contenuta di casi, anche altri interventi di natura redistributiva e costitutiva: sono questi campi in cui la presenza dei decreti legge dovrebbe essere più limitata, perché propri di una politica che adotta una prospettiva di medio lungo periodo che mal si adatta al carattere emergenziale della decretazione. Un elemento da sottolineare poi la natura mista di numerosi decreti legge che appaiono di difficile classificazione, trattando diversi argomenti senza alcun collegamento organico. Già Lowi avvertiva come questa categoria possa mettere in luce una significativa caratteristica degli atti legislativi: per esempio i capitoli di una legge omnibus possono far riferimento a diverse caselle della categorizzazione utilizzata. La disomogeneità degli atti non è, infatti, causale ma rimandata ad una concreta strategia politica volta ad accrescere le probabilità di approvazione di provvedimenti che avrebbero poco successo se presentati da soli.Aspetti procedurali. Oltre che la natura dell'oggetto, la decretazione d'urgenza appare anche problematica in relazione ai rapporti esecutivo legislativo, dal momento che è sembrata ridimensionare modo significativo le occasioni di discussione compromesso associate alla sua adozione. Si riscontra per esempio un netto incremento del numero delle questioni di fiducia poste nel corso dell'iter parlamentare di conversione dei decreti, con uno stratagemma che ha l'effetto di abbreviare i tempi di approvazione, di ridurre al minimo il dibattito in assemblea e di azzerare le capacità di emendamento. La dottrina ha definito questa prassi come un orrore legislativo. Durante il IV governo Berlusconi, le questioni di fiducia riguardano quasi un terzo dei processi di conversione dei decreti legge, 22. A ciò si aggiunga che molto spesso la questione di fiducia si esercita su maxiemendamenti presentati dallo stesso esecutivo. Questa prassi non è una novità nel nostro paese, nelle prime legislature essa era però utilizzata come atto finale di una maggioranza ormai in frantumi e di un governo ormai prossimo ad annunciare la crisi. Il combinato maxiemendamento questione di fiducia assume invece un diverso significato nel periodo maggioritario, rispondendo alla disomogeneità e alla poca compattezza della maggioranza, e diventando una modalità più o meno ordinaria per imporre l'indirizzo politico governativo in Parlamento. Negli ultimi anni sembra essersi registrato un ulteriore forzatura procedurale del suo uso, nel periodo della cdtt. Transizione, una caratteristica che riguarda la loro eterogeneità: sempre più frequente ricorso ai decreti omnibus, nei quali si pongono norme che riguardano materie differenti in un solo contenitore, sia in risposta motivazioni di velocità decisionale sia per superare il vaglio parlamentare sulle singole norme. Attraverso il voto su interi pacchetti di legge, i governi possono sottrarsi al rischio di veder votare distintamente disposizioni di cui si sono fatti promotori alcuni settori della maggioranza che li sostiene. Si può fare, inoltre, riferimento almeno

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a due tipologie che per propria natura denunciano la perdita del presupposto di necessità: il primo, e il fenomeno delle catene di decreti, vale a dire la presentazione di decreti legge sulla stessa materia in tempi diversi che contraddice in modo evidente il criterio dell'urgenza della decretazione; il secondo, si riferisce alla prassi dei decreti a perdere: talvolta il governo preferisce lasciar decadere un decreto per poi riprendere i suoi contenuti nell'ambito di un altro decreto, destinato alla conversione; questo soprattutto nei governi Berlusconi. Un altro modo riguardare all'abuso dei decreti legge negli ultimi anni è quello di osservare il crescente attivismo degli organi di garanzia, che a più riprese sono intervenuti per denunciare il ricorso anomalo alla decretazione: la corte costituzionale nel 2007 per la prima volta dichiara l'illegittimità di un decreto che mancava dei presupposti di necessità ed urgenza, anche se questo era già stato convertito. Anche il presidente della Repubblica ha assunto un ruolo molto + attivo che in passato, è stata, infatti, notato che proprio a fronte della perdita di influenza del capo dello Stato nel procedimento di formazione del governo, è avvenuto uno contro bilanciamento attraverso il rafforzamento dei poteri presidenziali di controllo-garanzia. Ci sono alcuni segnali, dunque, dell'affermazione di una funzione di tutela dell'ordinamento da parte del capo dello Stato che lo pone come legittimato a verificare la corrispondenza della decisione governativa ai parametri che ne condizionano la validità. L'esercizio di tale ruolo risulta tuttavia molto controverso si è registrata anche una progressiva affermazione di una fase di negoziazione tra l'esecutivo e il presidente della Repubblica; questo non è stato ancora accertato ma si è registrata la tendenza, da parte del presidente Napolitano, di spostare l'attività di mediazione con l'esecutivo alla luce del sole, e anche, ad opera da parte del capo dello Stato, di assumere 1+ ampia pubblicità attraverso l'uso dei canali mediatici. Il decreto-legge nel bipolarismo frammentato italiano. L'uso della decretazione d'urgenza si muove fra due diversi scenari: quando si ha un governo forte, autoritario, che sfida le opposizioni; o quando si ha un governo debole che si trova a dover combattere ogni giorno non soltanto le opposizioni ma anche, al proprio interno, con la sua opposizione, un governo che intende imbavagliare specialmente e i innanzitutto la propria maggioranza che lo sostiene uno dovrebbe sostenere, senza che queste contraddizioni esplodono:-il primo scenario collegabile all'uso del regime fascista del decreto-legge come strumento autoritario per aggirare il Parlamento, per appropriarsi di una funzione legislativa non regolata ne limitata.-Il periodo 1993 2011 lascia riscontrare invece un uso del decreto-legge che non esclude entrambe le ipotesi.In primo luogo il ricorso alla decretazione esprime la tendenza dei nuovi esecutivi personalizzati a varcare i propri confini istituzionali. Essa si segnala sia per la sua frequenza che per la sua spregiudicatezza: l'esecutivo di fatto legifera con tecniche normative ai limiti della legittimità costituzionale. Lo seppero cambiamo la nostra prospettiva, è possibile leggere nella proliferazione dei decreti anche un importante segnale dell'incompiutezza del modello maggioritario governante nel nostro paese. Si realizza una sorta di paradosso: il numero dei decreti leggi resta elevato nonostante si verifichi contemporaneamente lo sviluppo di mezzi normativi alternativi e i controlli di costituzionalità diventino più penetranti. Per spiegare questo quadro apparentemente contraddittorio bisogna osservare le trasformazioni della forma di governo italiana, che si è allontanata dal modello consensuale della prima devo ma che non è approdato ad un modello di tipo maggioritario, presentando ancora alti livelli di frantumazione intrapartitica e intracoalizionale. Il all'italiana comporta che si formino ampie coalizioni sulla base di alleanze che includono anche le ali estreme, utili però più per vincere le elezioni che per governare lo il premier deve svolgere dunque una continua opera di mediazione tra le componenti della maggioranza. Il ricorso alla decretazione può apparire dunque come una prevaricazione del governo, ma anche, da un altro punto di vista, con una scelta obbligata.

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Capitolo 4: decreto legislativo.Il campo dei decreti legislativi ha avuto in passato scarsa attenzione da parte di politologici e costituzionalisti, sembrava infatti non condurre a grossi inconvenienti dal momento che tale strumento normativo era stato utilizzato quasi esclusivamente per materie di secondaria importanza e in modo poco frequente. Per la dottrina, il ricorso alle deleghe non era concepito come ha affidamento al governo di un potere praticamente discrezionale, ma come un procedimento complesso, articolato, partecipato e democratico, che vede il concorso di più soggetti è nel quale il governo assume il ruolo di collaboratore del Parlamento. La dottrina però non presta attenzione ai cambiamenti riportati dalla prassi. Negli ultimi due decenni, infatti, il decreto legislativo è divenuto la principale strada per i governi per produrre interventi di riforme di ampio respiro e i numerosi settori di politica pubblica, in posizione di cresciuta autonomia rispetto al ramo assembleare. Il governo ha potuto appropriarsi così di una quota di sovranità che una lunga tradizione giuridica avrebbe voluto associata all'assemblea parlamentare. L'ampliamento dei margini di manovra dell'esecutivo evidenziato in primo luogo dall'aumento quantitativo del ricorso alla decretazione delegata.Una qualche forma di delega di funzioni normative dal Parlamento al governo si ritrova in tutte le democrazie contemporanea. Il nostro paese non si discosta da questa tendenza generale, e anzi le disposizioni costituzionali italiane sono particolarmente coraggiose nell'attribuire rango primario ai decreti legislativi, a differenza di molte altre democrazie occidentali che le relegano alla legislazione secondaria. In altri paesi europei, inoltre, il problema della legittimità dell'attribuzione di funzioni legislative al governo sembra risolversi attraverso un'effettiva predeterminazione dei compiti del Parlamento o la sua partecipazione al processo di rule-making. Nel caso italiano si stabilisce invece che, sotto determinate condizioni, il Parlamento possa delegare all'esecutivo alcune competenze legislative, sulla base di criteri direttivi. I decreti dei gradini che saranno adottati non necessitano, inoltre, a differenza dei decreti legge, di un successivo intervento di ratifica da parte del Parlamento. Non sono certo questi gli sviluppi previsti auspicati dai costituenti: il modello originario di delega, in Italia, faceva chiaramente percepire il favore per l'esercizio della potestà legislativa da parte del Parlamento. Ricordiamo l'art.76, con la sua doppia negazione: l'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi soltanto per un tempo limitato e per oggetti definiti. L'istituto della delega non sembra, dunque, essere stato predisposto per mettere fuori causa il Parlamento, ma per creare un momento di sostanziale collaborazione tra Parlamento, governo e amministrazione. Tuttavia nella prassi ognuno degli elementi che definiscono dall'istituto è stato forzato in direzione dell'ampliamento dei margini di azione dell'esecutivo. In merito alla materia delle deleghe, è avvenuta la perdita del criterio di complessità tecnica come guida della formazione, a favore di un uso generalizzato della delega per la realizzazione delle linee fondamentali del programma dei diversi governi succedutisi. In alcuni casi attraverso la delega non solo è affidata al governo la disciplina di oggetti definiti ma di intere materia: politiche del lavoro, settore sanitario. Il ricorso alla delega stato dilatato al punto che si può addirittura sostenere che sono cambiate in modo profondo i rapporti tra delegazione legislativa e legge ordinaria, così che mentre alla prima sono ricondotte le riforme organiche, settoriali o intersettoriali, alla seconda sono rimasti sostanzialmente contenuti provvedimentali o interventi di manutenzione normativa. All'ampiezza dei contenuti della delega si è aggiunta poi la genericità dei principi e dei criteri direttivi indicati dall'assemblea. La corte costituzionale ha avallato, infatti, l'uso disinvolto della delega legislativa nei casi in cui l'oggetto fosse poco definito i principi direttivi non sufficienti a vincolare l'azione del governo legislatore. Molto vaghi sono stati anche i termini temporali dell'utilizzo della delega: innanzitutto, vista la complessità tecnica della redazione dei decreti legge, tali termini risultano piuttosto estesi, in genere con riferimento ad un periodo ma inferiore a sei mesi e fino a un massimo di due anni; tuttavia il dato che merita di essere maggiormente evidenziato, proprio per la sua contraddizione rispetto alle disposizioni costituzionali,

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l'indeterminatezza del vincolo temporale. Spesso si è concesso al governo anche di poter tornare sulla legislazione delegata prodotta, senza necessità di una nuova legge, come avviene nelle cosiddette deleghe di correzioni e integrazione. In particolare, il Parlamento offre la possibilità al governo di produrre un decreto legislativo nel termine fissato, e poi altri decreti ad una data distanza temporale da quello principale, attraverso i quali l'esecutivo possa intervenire nuovamente sulla stessa materia. Si profila così il pericolo che si assicurino al governo poteri stabili per attuare serie temporali di interventi che necessitano di atti aventi forza di legge. Assistiamo in questo modo allo svuotamento dei presupposti formali dell'atto di delega: l'oggetto, le modalità e gli ambiti temporali dell'esercizio del potere delegato diventano sempre più indeterminati e fumosi.La grande espansione. L'incremento delle deleghe legislative nel nostro paese un fenomeno improvviso, che coincide col passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Per le prime cinque legislature, sono poche le deleghe e Parlamento attribuisce al governo, e tutte motivate con la complessità tecnica della normativa da trattare. A partire dagli anni 70, la legislazione delegata inizia essere utilizzata, anche se in modo contenuto, per permettere al governo di intervenire su importanti materie, in modo continuativo nel corso del tempo, ad esempio l'attuazione dell'ordinamento regionale. Si profilano, inoltre, i primi segnali di un uso della delega per la risoluzione dei problemi dell'instabilità della maggioranza parlamentare. Dal punto di vista procedurale ciò si accompagna a un mutato atteggiamento dei parlamentari nei confronti della delega, con la rivalutazione dell'attività consultiva svolta dalle commissioni parlamentari, quasi a delineare un possibile modello nuovo di relazioni governo Parlamento ciò che accadrà negli anni 90 è un processo del tutto imprevisto, sia dal punto di vista procedurale che sostanziale. La delega, anziché essere interpretata come un momento di collaborazione e di fusione istituzionale, fra governo e Parlamento, diviene uno strumento nelle mani dell'esecutivo per aggirare la difficoltà di conduzione del procedimento legislativo ordinario. Avviene dunque un impetuoso trasferimento di competenze legislative in capo al governo, di cui si possono facilmente constatare le dimensioni quantitative:nell'11ª legislatura di decreti legislativi raggiungono quasi quota 100 in solo 23 mesi. Un così alto numero di atti normativi si spiega da una parte dello spazio che iniziano a ricoprire le deleghe comunitarie di natura tecnica, per l'adeguamento del diritto interno a quello comunitario. D'altra parte per la fase di particolare emergenza in cui versava il paese per il deficit della finanza pubblica e per i vincoli stringenti posti da Maastricht. L'estensione della legislazione delegata non è però legata solo ai governi tecnici formatisi in seguito agli scandali di Tangentopoli. Dall'11ª legislatura questa diventa un tratto stabile della produzione normativa complessiva. I governi del periodo della cosiddetta transizione, sulla base della nuova quasi diretta legittimità del presidente del consiglio, chiedono deleghe sempre più ampie, facendosi nella maggior parte dei casi, anche promotori dell'iniziativa di legge con cui la delega viene disposta. In altre parole, la delega diviene uno strumento di attuazione delle linee programmatiche che il governo ritiene prioritarie in materia di particolare complessità.Contenuti. In merito ai contenuti dei decreti legislativi è possibile individuare tre macroaree, anni ’96-’11:1) la classe più numerose si riferisce agli atti di adeguamento alla normativa comunitaria: ciò è anche un effetto dell'impostazione della nota legge La Pergola, che introduceva all'inizio degli anni 90 la legge annuale comunitaria come legge di organizzazione della futura legislazione in materia di ricezione del diritto comunitario. Tale strumento, infatti, ha agito come volano della legislazione delegata, perché predisponeva una rete di atti normativi a cascata al cui vertice era posta proprio la delega legislativa, dalla quale discendevano poi una serie di decreti legislativi attuativi, integrativi e correttivi. La legge comunitaria ha costituito uno dei canali per l'ampliamento degli spazi di azione dell'esecutivo, a discapito del ruolo dell'assemblea legislativa.2) un gruppo più residuale di decreti si riferisce all'attuazione degli statuti delle regioni speciali. Anche questo tipo di decreto sembra un caso particolare rispetto al modello tracciato dalla costituzione. Esso, infatti, non necessita di una delega preventiva da parte del Parlamento, in quanto per questo sembra

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sussistere una sorta di delega permanente. Gli statuti delle regioni ad autonomia speciali approvati con legge costituzionale attribuiscono al governo la competenza per approvare norme di attuazione degli stessi. In 4 dei 5 statuti è stabilito inoltre che queste ultime siano inserite in decreti legislativi. I decreti legislativi in attuazione degli statuti delle regioni speciali hanno come caratteristica il fatto di non trovare origine in una legge parlamentare.3) infine il gruppo più importante dei decreti trae origine da un'espressa delega dell'assemblea. Solo in questo caso si può riconoscere il modello per il quale il decreto legislativo scaturisca da un volontario atto di trasferimento di competenze legislative del Parlamento al governo senza un input esterno come avviene invece negli altri casi. Con riferimento allo schema di Lowi, si può notare che la maggior parte delle norme prodotte dal sud delega sembra far capo alla categoria degli atti costitutivi, volti a stabilire principi e norme generali nelle materie delegate, a istituire nuovi enti o a produrre gli assetti organizzativi. La legislazione delegata si presenta dunque come uno strumento utilizzato per promuovere riforme di particolare complessità normativa ove realizzare punti programmatici di ampio respiro. Di particolare rilevanza sono i decreti legislativi per la riforma della presidenza del Consiglio dei Ministri, 99, che rappresentano una tappa fondamentale per quel percorso incrementare di rafforzamento degli uffici del primo ministro che nel nostro paese ha ormai durata trentennale, con l'obiettivo di valorizzare le funzioni di impulso e di indirizzo del presidente del consiglio.Il vantaggio del governo. Se stupisce l'ampiezza e la rilevanza delle arene sulle quali intervengono i decreti legislativi, sono da segnalare anche le forzature di ordine procedurale operate dal governo nell'ambito delle attività delegate, che hanno finito per indebolire le camere. E proprio la frequente adozione di procedure atipiche a spiegare perché una fonte d'uguale, che mette insieme la potestà normativa del Parlamento, che si esprime nella legge di delega, e quella del governo, che culmina nell'adozione del decreto legislativo, divenga uno strumento nelle mani dell'esecutivo per realizzare il proprio programma. Numerosi sono gli esempi di tale tendenza. Non è raro all'introduzione di norme di delega all'interno di provvedimenti collegati alla manovra finanziaria talvolta anche attraverso la posizione della questione di fiducia sulla loro approvazione. Altre volte sia arrivato a inserire le disposizioni di delega legislativa nel testo di un decreto legge, secondo una modalità di attribuzione di competenze legislative che lede in pieno la natura negoziale della legislazione delegata, in particolare le prerogative del Parlamento. In altre occasioni, sono i tempi e le modalità delle deleghe a porre l'assemblea nell'impossibilità di esercitare un compito effettivo di indirizzo e controllo. Si rileva poi l'incremento dell'emanazione di disposizioni integrative correttive con le quali il governo si riappropria di una delega già utilizzata in passato senza che intervenga una nuova legge parlamentare. Considerati gli ampi margini di discrezionalità con i quali opera il governo, sembra realizzarsi in questi casi una delega non già per oggetti definiti , ma per settori, o addirittura per materia, una sorta di stabile trasferimento della funzione normativa in capo all'esecutivo. Si ricordi anche che a partire dagli anni 90 il governo ha potuto avvalersi di un ulteriore strumento per assicurarsi la delega sostanziale di alcune competenze legislative: si tratta della delegificazione, che ha aderito al governo produrre atti di tipo secondario, regolamenti di delegificazione, in ambiti tradizionalmente associati alla legislazione primaria. Anche la delegificazione conosce infatti un nuovo uso nel passaggio tra prima e seconda Repubblica: l'utilizzo di tale strumento mirava ad alleggerire la legge ordinaria dalle prescrizione di dettaglio in risposta al problema della proliferazione di “leggine”. La delegificazione è stata utilizzata per produrre interventi innovativi e di ampio respiro: riordino e razionalizzazione della spesa pubblica; riforma della pubblica amministrazione; l'organizzazione dei ministeri; nel pubblico impiego. Negli ultimi anni i regolamenti di delegificazione sono stati chiamati dunque a disciplinare materie di grande rilievo acquisendo i tratti di veri e proprie leggi, divenendo in molti casi una sorte di assegno in bianco a favore del governo, data la mancanza di criteri e principi direttivi espressi dal Parlamento.

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Capitolo 5: i regolamenti.Alla luce dell'aumento della legislazione governativa non sorprende che uno dei campi di battaglia tra esecutivo e Parlamento sia rappresentato dal tentativo di cambiare le regole in assemblea. La modifica dei regolamenti parlamentari è stato oggetto di un processo di lungo corso che ha visto come punti salienti la costruzione di una corsia preferenziale per le proposte iniziate dall'esecutivo e l'abolizione del voto segreto. Tutti elementi che miravano ad assicurare all'esecutivo piena responsabilità sull'attuazione dell'indirizzo politico. Tuttavia il collasso di tale progetto è mostrato dal fatto che il dibattito sulle riforme dei regolamenti sia rimasto uno dei temi caldi del confronto politico. Il potere di agenda del governo è indubbiamente cresciuto rispetto alla fase del parlamentarismo integrale della prima Repubblica, quando i legislativo lavorava soprattutto sotto il controllo della conferenza dei capigruppo. I cambiamenti apportati dopo Tangentopoli non sembrano però offrire al governo il controllo della sua maggioranza. Se il nuovo impianto elettorale ha stimolato la formazione di ampie coalizioni capeggiate da un leader, e con un proprio programma politico, il destino di tali alleanze dopo le consultazioni rappresenta il nodo problematico di tali innovazioni. Il nuovo scenario porta il governo a non fidarsi delle camere per la realizzazione dei punti più importanti del proprio programma politico. La legge ordinaria è dedicata così sempre più spesso alla micro-regolamentazione. Un processo che non fa però che alienare ulteriormente il premier e la compagine ministeriale dalla loro base parlamentare.Il percorso dei regolamenti parlamentari. Le regole parlamentari possono essere considerate lo specchio delle trasformazioni nel sistema governo-Parlamento.1) i regolamenti del 1971 rappresentavano per esempio la consacrazione del parlamentarismo integrale. La loro ispirazione di fondo si rintraccia nella volontà di valorizzare l'assemblea come luogo dove l'indirizzo politico si forma con il concorso sia della maggioranza che dell'opposizione, secondo la logica del compromesso. Fra i punti cruciali del nuovo regolamento, concordi con questa impostazione si ritrovano l'elevazione del principio unanimistico e consensuale a criterio fondante della programmazione dei lavori; l'istituzione della conferenza dei capigruppo come ambito dell'accordo tra i partiti; la regolamentazione dell'attività delle commissioni in sede deliberante. Non si poneva alcun argine alla costituzione dei gruppi parlamentari, questi potevano essere informati anche in un numero al di sotto del requisito minimo disposto dal regolamento. Il problema degli strumenti da assicurare al governo per guidare il processo legislativo era estraneo all'agenda e alla cultura politica dominante, ben propensa non solo riconoscere il compromesso come logica di governo principale, ma anche a erger lo ha principio fondante della vera democrazia, Kelsen.2) negli anni 80 viene rimesso in discussione lo schema del consensualismo: da una parte si inizia ad affrontare il problema di velocizzare i tempi della decisione parlamentare e di migliorare la posizione del governo in assemblea potrebbe, dall'altra si mira ad incrinare il principio consociativo e unanimistico. Per esempio si mette fine all'idea per la quale i gruppi siano equi ordinati nell'esercizio dei poteri procedurali, essi impedisce ai piccoli gruppi di poter svolgere azioni che possano mettere a repentaglio il regolare svolgimento dei lavori. Si disciplinano le modalità di presentazione degli emendamenti e i tempi di discussione, introducendo regole più restrittive. Si riducono, inoltre, i poteri dei presidenti dei gruppi.3) nel 1992 si interviene sul ruolo e le funzioni delle strutture decentrate dell'assemblea: in particolare è ridimensionato lo spazio dedicato alle commissioni come produttrici di legislazione, a vantaggio di nuovi compiti di natura consultiva ma la novità più significativa riguarda il ruolo destinato al governo nell'attività parlamentare: si registra una diversa sensibilità, infatti, nel fornire all'esecutivo gli strumenti idonei per la realizzazione dell'indirizzo politico di maggioranza. Nel 1990 si dà ingresso ufficiale al governo nei lavori di programmazione si introducono timidi tentativi di contingentamento dei tempi a suo favore. Nel nuovo quadro normativo l'esecutivo, a differenza del passato, non è più solo un invitato a prendere parte al procedimento legislativo ma ne diviene un soggetto legittimo. Le innovazioni che riguardano il governo non

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si fermano però alle prime fasi del processo deliberativo, altre misure infatti favoriscono il governo nel controllo dei tempi di approvazione delle proposte legislative. Si determina, per esempio, l'estensione del voto di fiducia come strumento di affermazione della volontà governativa. Un posto a parte merita, per l'importanza di tale provvedimento, l'abolizione del voto segreto, che trasforma una prassi consolidata e diffusa in una scelta eccezionale ristretta alle votazioni sui diritti di libertà e sul funzionamento degli organi costituzionali, Calise. Anche tale modifica tende a garantire maggiormente il governo rispetto all'azione dissidente di alcuni parlamentari all'interno della stessa maggioranza.4) le modifiche del biennio 1997 98 rappresentano una frastagliata serie di innovazioni in cui però può individuarsi un filo logico nella rafforzamento del governo nel processo legislativo. Per quanto riguarda la definizione dell'agenda parlamentare, per esempio, la posizione del governo miglior attraverso l'acquisizione da parte del presidente della camera di poteri arbitrali decisivi nell'orientare la programmazione dei lavori. Si cerca, inoltre, di istituire corsie preferenziali per il governo all'interno dei lavori parlamentari, prevedendo procedure accelerate per i suoi disegni di legge. Allo stesso tempo si rende più difficoltoso il ricorso a manovre parlamentari a scopo puramente de faticatore ho, con la generalizzazione della regola del contingentamento dei tempi per la discussione parlamentare in contrasto ai fenomeni di ostruzionismo o sulla base di tali innovazioni il governo avrebbe dovuto guadagnare incisività non solo attraverso 1+ veloce calendarizzazione delle attività parlamentari ma anche contenendo maggiormente i tempi di votazione. Ciò avrebbe dovuto evitare la ricerca da parte del governo di canali di normazione alternativi alla legislazione primaria.Le nuove proposte di riforma. Il dibattito sulla riforma dei regolamenti ancora molto vivo. Nel corso della 16ª legislatura si è sviluppato un orientamento politico e dottrinario che presenta l'esigenza di rafforzare la posizione dell'esecutivo sul versante della programmazione dei lavori, di adattare le attività parlamentare alla nuova logica bipolare, e assicurare all'esecutivo il potere di imporre tempi certi e inderogabili per l'esame la definitiva approvazione delle proposte di legge ritenute prioritarie. Sul tema delle nuove regole da adottare in Parlamento si è soffermato lo stesso Silvio Berlusconi a mezzo stampa, chiedendo di cambiare i regolamenti parlamentari “ che non sono adeguati alla necessità di un governo è di una maggioranza di avere tempi certi e brevi per i propri disegni di legge”. Più in particolare, il premier rappresentato la proposta di introdurre alle camere una votazione per capigruppo parlamentari, anziché per singoli membri. Altri documenti presentati dalla coalizione di centro-destra prevedono che per i provvedimenti ritenuti prioritari dal governo sia sospeso il normale ordine di votazione, ponendo la proposta dell'esecutivo per prima in votazione. Il partito democratico si è soffermato maggiormente sul tema delle garanzie da assicurare alla minoranza parlamentare. Al rafforzamento del governo in Parlamento, molte proposte fanno seguire alcune garanzie all'opposizione come soggetto unitario, così che si distingue funzionalmente la minoranza più significativa in assemblea da tutte le altre minoranze. Lo seguì una svolta rispetto ai regolamenti parlamentari in vigore, che non prevedono alcun riconoscimento formale dell'opposizione e tendono invece a bilanciare e livellare le garanzie attribuite ai diversi gruppi. Altre proposte riguardano la composizione dei gruppi in Parlamento, e vanno nella direzione della riduzione della frammentazione assembleare, uno dei principali ostacoli al controllo del processo legislativo ordinario da parte dell'esecutivo. La fissazione di soia è molto facili da superare, unitamente alla disposizione di regole con le quali aggirare questi pur deboli barriere alla frammentazione, è stata una costante della tradizione parlamentare italiana: numero minimo di parlamentari per gruppo autonomo sono 10 componenti al Senato e 20 alla camera; oppure vi consiglio di presidenza li riconosce espressione di partiti organizzati nel paese. Si è esponenti di centro-destra e di centro-sinistra durante la 16ª legislatura hanno invece ribadito la necessità di garantire la corrispondenza tra le liste che si presentano alle elezioni e gruppi che si formano in Parlamento, e di scoraggiare la scomposizione ricomposizione delle formazioni partitiche dopo il voto. Le differenze delle posizioni espresse sulle nuove modifiche regolamentari sembrano porsi in difesa delle

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posizioni attuali nella dialettica maggioranza opposizione. Questa proliferazione delle proposte può essere interpretata come un adattamento all'introduzione, nel nostro ordinamento costituzionale materiale, del cosiddetto fait majoritarie, che superi le difficoltà di ricezione dei cambiamenti avvenuti a livello di costituzione formale. Tuttavia, è proprio il fatto che la riscrittura delle regole parlamentari abbia impiegato tempi così lunghi, e che sia ancora oggi all'ordine del giorno, a far dubitare della piena realizzazione nel nostro paese del progetto maggioritario per via regolamentare.Un Parlamento ancora più frammentato. La frammentazione dell'assemblea parlamentare è apparsa la principale causa delle difficoltà a conseguire gli obiettivi sottesi alle modifiche dei regolamenti, impedendo in particolare l'attribuzione al governo di maggiori capacità di controllo sul procedimento legislativo ordinario. I dati relativi alle articolazioni interne al Parlamento italiano non lasciano dubbi: alla fine della 15ª legislatura il numero dei gruppi è pari a 14. La 16ª legislatura è sembrata aprirsi sotto diversi auspici. I tentativi di riduzione del formato del sistema dei partiti attraverso la costituzione unica del partito delle libertà, Pdl, e del partito democratico, Pd, hanno incrementato la consistenza numerica delle 2+ grandi formazioni partitiche. Tuttavia in corso di legislatura non si sono fatti attendere episodi che mostrassero la divisione interna dei partiti unici di nuova costituzione. Basti pensare alla formazione del gruppo di alleanza per l'Italia distaccatosi dal Pd oppure al partito futuro e libertà distaccatosi dal Pdl, e poi all'emersione del gruppo misto, iniziativa responsabile, a sostegno del governo. A segnalare la scarsa fedeltà sia di partito sia di coalizione sono poi i dati relativi al transfughismo, vale a dire al cambio di casacca di quei parlamentari che decidono nel corso della legislatura di cambiare gruppo. Tuttavia negli ultimi anni il fenomeno ha assunto dimensioni notevoli, sia per il numero dei parlamentari coinvolti sia degli effetti prodotti e sulle forze politiche ed sulla stabilità degli esecutivi. Se in passato, infatti, in un regime di forte fedeltà e disciplina di partito, il cambio di gruppo avrebbe significato un vero e proprio suicidio politico e parlamentare, la frammentazione in assemblea che ha seguito lo sfaldamento del vecchio sistema dei partiti conduce a maggiore mobilità per i membri del legislativo. A ciò si aggiunga che prima del 1994 il party switching avveniva soprattutto sotto forma di movimento di gruppo mentre ora pare di tipo individuale. Si tratta di tendenze che lasciano dubitare sulla capacità delle sulle regole parlamentari di arginare il fenomeno della frammentazione: venuto meno, o indebolitosi, il collante rappresentato dall'identificazione ed all'organizzazione di partito, anche i gruppi parlamentari, che dei partiti sono espressione e proiezione, diventano un aggregato instabile di parlamentari. Emerge con maggior forza rispetto al passato il personalismo dei parlamentari, in un contesto che denota la scarsa capacità di tenuta e di controllo delle organizzazioni partitiche. Se la composizione del Parlamento descrive un quadro di frantumazione del sistema dei partiti, basta prendere poi in considerazione alcuni elementi del processo legislativo per accorgersi dell'emergere di una logica di tipo individualista: in particolare, prendendo in considerazione le modalità di presentazione delle proposte legislative e di emendamenti, si vede come i parlamentari agiscano spesso in modo indipendente dalle linee indicate dal proprio partito e spesso anche contro le stesse. Un quadro che può scoraggiare l'esecutivo dall'intraprendere un iter parlamentare. Tuttavia il tasso di successo di tali iniziative è bassissimo, addirittura inferiore all'1% per quanto riguarda la 15ª e la 16ª legislatura. La stragrande maggioranza delle proposte dei parlamentari non è dunque destinata a tradursi in un atto normativo. Si può pertanto sospettare che le finalità per la presentazione di un testo di legge da parte dei parlamentari non siano da riferirsi all'obiettivo della produzione di una legge ma nel ad una valenza di carattere simbolico espressivo. Tale uso è incoraggiato dopo il 1993 dalla logica dell'uninominale; ma non ha trovato alcun ridimensionamento con il cambio del sistema elettorale nelle 2005.L'analisi degli emendamenti sembra mostrare anche la mancanza di una distinzione di ruoli tra maggioranza e opposizione; solo un terzo degli emendamenti traggono origine dai gruppi dell'opposizione. A tale proposito, più che un atteggiamento di tipo bipartisan nel trattamento in aula destinata alle proposte di

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legge, Capano e Giuliani hanno ritenuto utile rimarcare una resistenza dell'assemblea ad adattarsi alle esigenze decisioni stile della logica di governo, il che spiega perché l'esecutivo preferisce non calarsi in un ambiente che appare ancora vischioso, in definitiva il luogo della contrattazione in cui mediare non solo con l'opposizione ma anche con la propria maggioranza. Una difficoltà sottolineata dall'uso estensivo della questione di fiducia, che viene sempre più spesso utilizzata per tenere sotto controllo i propri attori con un potere di Vito, interno ed esterno alla coalizione. Nel nuovo contesto l'istituto si adatta infatti a diverse finalità rimarcando il vincolo di coalizione; agendo da ancora di salvezza per i gabinetti dotati di maggioranze risicate, o fungendo da scudo nei confronti delle autonome iniziative dei singoli componenti della maggioranza. Nel corso del tempo si è registrata una netta crescita della dimensione dei disegni di legge per i quali si è ricorsi alla questione di fiducia, una levitazione quantitativa che secondo alcuni è il vero tratto caratteristico dell'evoluzione dell'istituto delle legislature nel maggioritario. A ciò si aggiunga l'elevata diffusione della tecnica della questione di fiducia su un maxi emendamenti: tale meccanismo, nella sua potenzialità di lesione delle prerogative parlamentari, può essere considerato il punto più basso del processo di perdita di centralità dei dibattiti parlamentari nella definizione dell'indirizzo politico.La marginalizzazione della legge. Il calo quantitativo delle leggi prodotte una delle tendenze più visibili delle ultime legislature. La riduzione del numero non è di per sé un dato di segno negativo, infatti, è indubbio che la razionalizzazione del processo legislativo comporta fra i suoi benefici più immediati proprio la riduzione della produzione normativa. In particolare ciò sarebbe risultato del progressivo scomparire delle cosiddette leggine parlamentari, vale a dire dei provvedimenti di scarsa rilevanza, che nel pieno della prima Repubblica sembravano caratterizzare il processo legislativo del Parlamento italiano. Tuttavia, accanto al calo del numero di leggi parlamentari, è la considerazione della loro natura a far percepire un quadro di sostanziale svalutazione della produzione normativa ordinaria. Resta altissima la quota di leggi che derivano dalla conversione dei decreti legge, dalla ratifica di trattati internazionali, e quelle a corso obbligatorio come le leggi annuali. La legislazione che trae origine dall'oggetti di legge ordinaria acquista invece una dimensione sempre più esigua lo si analizza, inoltre, con più attenzione il contenuto della legislazione negli ultimi anni si può nutrire qualche dubbio sulla natura non più micro-sezionale dei provvedimenti prodotti. La 16ª legislatura ha mostrato una chiara prevalenza distributiva, rivolgendosi alla concessione di benefici su base particolaristica. Un discreto numero di provvedimenti si dedica interventi micro-costitutivi, che vanno dalla formazione al cambio di denominazione competenza di commissioni parlamentari. Talvolta le leggi possono divenire così specifiche da stimolare la dizione di leggi ad personam, come nel caso delle norme salva-premier volte a incidere sui processi penali che coinvolgono Silvio Berlusconi. Governare senza Parlamento. La realizzazione del progetto maggioritario nel nostro paese ha mostrato la propria fragilità in uno dei suoi pilastri: la formazione di ampie maggioranze parlamentari a compatto supporto del governo. Appare sempre più difficile garantirsi la fedeltà dei parlamentari ad un progetto coalizionale. I dati relativi al comportamento dei membri del parlamento rivelano un sempre più elevato numero di azioni individuali, in fase sia di presentazione che di emendamento delle leggi. In questo contesto il governo cerca, quando può, di evitare il confronto parlamentare, e la vischiosità di un procedimento rallentato e aperto alle imboscate dei singoli membri dell'assemblea. Il Parlamento smarrisce il suo ruolo di attore predominante e si registra un ulteriore dislocazione del baricentro decisionale verso il governo. Si riscontra un processo di svalutazione della legge ordinaria come strumento principale di normazione. Risulta piuttosto frequente l'adozione di leggi provvedimento con una ristretta platea dei beneficiari o che rispondono a necessità di mera organizzazione istituzionale. Le poche leggi proclamate non sembrano, dunque, costituire un mezzo per la realizzazione del programma politico dell'esecutivo, e perdono quei tratti di astrattezza e di recettività generale che una lunga tradizione costituzionale ha strettamente associato al concetto di legge. L'autonomia dei nuovi esecutivi personalizzati può costituire

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però un importante premessa della loro vulnerabilità, se si considera che mentre il leader è più indipendente dai partiti, anche parlamentari possono sentirsi svincolati da una comune piattaforma politica. In un tempo di aspettative crescenti per il suo ruolo, il premio potrebbe allora sperimentare quanto è difficile governare senza il Parlamento.

Conclusioni.In Italia il premier è diviso, sospeso tra due diverse forme di personalizzazione: l'una che ha favorito l'emergere del governo monocratico; l'altra che invece provoca la frammentazione dell'assemblea parlamentare e in particolare la fragilità della maggioranza.1) grazie alla prima forma di personalizzazione i presidenti hanno conquistato una nuova centralità, prima di tutto nei processi di acquisizione del consenso. Con il declino degli attori collettivi di intermediazione politica, i leader si sono affermati come centri di identificazione e appartenenza, divenendo rilevanti è quasi indispensabili ai fini della vittoria elettorale. Anche se dal punto di vista formale non si introduce l'elezione diretta del capo del governo, in concreto quest'ultimo sembra guadagnare una sorta di investitura popolare. La personalizzazione di natura plebiscitaria importanti conseguenze sull'attività di governo. Agisce, si vuol dire, come forza centripeta, valorizzando il potere monocratico come cuore dell'indirizzo politico. Dopo la ferita della dittatura fascista sembravano escluse nel nostro paese le ipotesi di presidenzialismo, tuttavia, negli ultimi anni si è assistito ad una brusca inversione di tendenza, sia politica che culturale. Senza che si affrontasse il nodo della riforma organica della costituzione, la centralità del leader nel nostro sistema politico è stata incoraggiata da alcune importanti micro-riforme incrementali: dagli interventi sull'amministrazione dello Stato alle nuove disposizioni elettorali, fino alle modifiche ha i regolamenti parlamentari, sono stati diversi gli elementi a sostenere il processo di rafforzamento del governo e del suo leader. Per quanto riguarda gli equilibri interni all'esecutivo, inoltre, il premier è divenuto il baricentro della compagine ministeriale, che è chiamato a formare e a indirizzare verso la realizzazione del proprio programma.2) La seconda forma di personalizzazione si sviluppa invece all'interno del Parlamento, dove conduce alla formazione di partitini personali e alla esasperazione dell'individualismo. I parlamentari si sentono artefici delle proprie fortune elettorali, sviluppando relazioni dirette con la propria base elettorale in campagna elettorale. Una volta eletti, inoltre, ricorrono spesso comportamenti opportunistici, in modo da rafforzare la propria posizione le possibilità di rielezione. Le scelte individuali sembrano prendere il sopravvento sulla fedeltà che lega i membri del Parlamento al partito di appartenenza, e contribuiscono alla destrutturazione del quadro della rappresentanza. I dati sulla frammentazione dell'assemblea elettiva nel nostro paese sono impietosi: basta considerare numero di gruppi parlamentari per accorgersi di come l'avvento della seconda Repubblica non faccia rilevare una sua riduzione. Anzi proprio in legislature recenti si segnalano alcuni record per la moltiplicazione delle articolazioni interne al Parlamento. Segnalano, inoltre, la spregiudicatezza dei singoli parlamentari i dati sulla transfughismo che ha assunto dimensioni eclatanti. Se prima era poco frequente, l'eletto sente ora di rispondere ad un mandato espresso direttamente dagli elettori e quindi, su questa base, scopre una nuova indipendenza dal partito di riferimento. Anche alcuni osservatori stranieri hanno considerato le camere italiane come uno dei casi più eclatanti di alta incidenza del party switching, sullo scenario internazionale, che si manifesta come espressione dell'ambizione individuale più che sotto forma di movimento di gruppo di parlamentari da un partito all'altro. Anche le nuove regole elettorali hanno contribuito a tratteggiare questo scenario: il maggioritario divide, per definizione, l'elettorato in una maggioranza in un opposi ione, spingendo la creazione di cartelli elettorali

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utili per ottenere più voti degli avversari. L'entrata in vigore della disciplina elettorale del 2005 presentava diverse novità, ma alimentava per altre vie la logica della frantumazione dei partiti. La soglia di sbarramento del 4% viene abbassata per le coalizioni al 3% al Senato 2% alla camera. Si rende conveniente, inoltre, la creazione di larghissime maggioranze per la presenza di un consistente premio di maggioranza, con il voto dei piccoli partiti, anche quelli che fuori dalla coalizione non avrebbero superato la soglia, a divenire molto spesso indispensabile per vincere le elezioni. Ciò ha fatto in modo che partito da di una rappresentanza esigua potessero poi avanzare richieste non proporzionate al loro peso elettorale. Infine un terzo fattore sembra contraddire la logica della coalizione: il voto di lista bloccato affida i partiti pieni poteri per determinare le candidature, riaffermandone il primato sulla coalizione. A importanti incentivi alla coesione della coalizione subentrano dunque altri significativi fattori che svuotano dall'interno la forza istituzionale della stessa. Bisogna anche ricordare dei regolamenti delle camere contengono ancora alcuni incentivi alla disaggregazione delle coalizioni i numerosi gruppi parlamentari: in corso di legislatura, infatti, la moltiplicazione dei raggruppamenti, oltre che essere dettata dalla ricerca di maggiore identità e visibilità e incentivata anche dalle regole che privilegiano criteri distribuzione delle risorse logistico-finanziarie più vantaggiose ai gruppi minori. Anche la personalizzazione parlamentare presenta importanti conseguenze dal punto di vista dell'attività di governo, agendo rispetto a queste come forza centrifuga. La ricerca di visibilità da parte dei parlamentari si rende manifesta con l'aumento dell'azione adottate in autonomia dal gruppo se però si guarda al tasso di approvazione di tali proposte ci si accorge che solo una quota minima di esse conclude l'iter legislativo. I membri dell'assemblea presentano sempre più proposte solo per fini simbolici ed espressivi, visto le poche ciance di trovare successo. La frammentazione anche alla base delle frequenti fughe dell'esecutivo dal Parlamento, proprio quando si allargano le basi di legittimità del primo ministro e si rafforzano i suoi strumenti operativi, diviene infatti problematico per il capo del governo compiere scelte di indirizzo politico ricercando una sponda istituzionale in una maggioranza poco guisa, aperta la contrattazione particolaristica e alla logica del micro accordo. Per superare veti incrociati presenti in assemblea, il governo utilizza sempre più gli strumenti della normazione autonoma, qui si rivolge con grande spregiudicatezza formale e in un ampio ventaglio di materie. La constatazione del progressivo rafforzamento degli esecutivi personalizzati si associa spesso alle preoccupazioni per il declino dell'organo parlamentare come cuore della democrazia: man mano che i vecchi attori di intermediazione di massa sembrano cedere il passo ad una leadership e che raccolga la propria legittimità a governare direttamente dalla base elettorale, sembra che le camere restino a guardare spettatrici inattive dell'azione politica svolta in alcuni luoghi. Da sempre l'urgenza decisionale degli esecutivi è sembrata collidere con il modus agendi assembleare, fatto di lentezza, mediazione talvolta confusione. Sono tanti e di innegabile rilevanza i capitoli sul tema dell'abuso dell'azione governativa, tuttavia le evidenze empiriche raccolte in questo volume ritraggono le difficoltà del leader a trovare nella propria maggioranza parlamentare un veicolo per la realizzazione del proprio programma politico. In assemblea il premier deve fare i conti con la debolezza dei partiti nella loro, sempre più irriducibile, frammentazione, non facilmente sanabile con le facili formule dell'ingegneria elettorale. Il premier, dunque, è diviso, tra le spinte che lo consacrano a motore dell'attività governativa, i concreti limiti posti al suo operare. Dopo aver incassato maggiore legittimità con un voto quasi diretto, e costituito un circuito di comunicazione con i cittadini, il leader può ritrovarsi con le armi spuntate dal punto di vista della realizzazione del suo programma. Secondo un apparente paradosso, in questa epoca segnata dal passaggio del primato dei partiti alla centralità del leader, il capo del governo trova nella personalizzazione e nella divisione parlamentare il proprio limite di azione, ma anche la spinta-necessità alla sua inarrestabile espansione.

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