Il prato fiorito - wikiarte.com · perseguendo la strada di una semplificazione progressiva sul...

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In copertina :Il prato fiorito 60x40 cm 2010

iArt Edizioniprima edizione novembre 2011

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TOMBAPENNELLO E PAROLA

-strumenti di una vocazione-

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Mi piace ripercorrere le note profonde e argute di Stefano Santuari che ha colto gli aspetti depressivi ma non deprimenti dei miei colori: dai neri umori terrosi al “ confronto fraterno” del giallo solare.Un grazie di cuore a Renzo Grandi (già Direttore del Museo Civico Medioevale di Bologna) che per primo ha apprezzato la mia grafica e stimolato in me il desiderio di continuare. Un caro ricordo e un omaggio a Giorgio Celli che ha sentito il mio “piccolo bestiario personale.. come vissuto nel clima liberatorio, e distaccato dell’ironia”. Un omaggio caloroso anche ai suoi gatti. Ringrazio Stefano Bolognini (Presidente dell’I.P.A: Associazione Internazionale di Psicoanalisi), cultore appassionato e profondo di grafica, che generosamente continua ad apprezzare i miei segni ritenuti da Lui “istintivi e pensosi al tempo stesso, senza mai risultare concettuali”.Sono grato ad Alberto Gross che ha ricordato in felice sintesi come in una esposizione totalmente grafica mi sia espresso “in favore della preziosità dell’esperienza frammentaria” definendo il mio segno “economi-co e sostanziale”.Un abbraccio affettuoso a Deborah, Rubens, Valentina e Davide (Galleria Wikiarte di Bologna) che con entusiasmo e molta pazienza hanno sostenuto e organizzato questa mia avventura.

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Ecco una tavolozza che, in apparenza, mette in punizione il colore: gli ocra, i grigi e i neri, i rossi cardinale.

Tedio, melanconia, forse depressione? Certamente lontananza siderale da sofisticate tastiere di retoriche cromatiche.Tutto in Tomba è, palpabilmente, avvolto dal giorno seguente al sabato del villaggio. La minaccia-promessa del <<di-man tristezza e noia>> è qui presente, irrefutabile, un dasein.Eppure il rapporto dell’uomo con i suoi fantasmi, con i suoi incubi, con il suo impossibile, con le sue notturne mostruo-sità, qui, in questi quadri, non è sofferenza ma elaborazione di estreme latitudini.Qui come nel Mito, si mostrano enigmi, si interroga il lutto. Un lutto che non riguarda l’organismo giunto al compimen-to della sua parabola naturale, bensì quello evocato dalla morte che irride alla frenesia spermatozoica. Presupposto di una radicalità abissale, rischio imponente di finzione. Ma, confortante come una mano fraterna , ecco questi neri umori accesi da un movimento d’ironia e di sarcasmo che li doppia e li sdoppia.Ecco che con un’ astuzia leggera li inscatola uno dentro l’altro e l’invita ad alludere.Certamente, il richiamo di Tomba alla fase longhiana <<ricercare ancora e sempre dentro di sé, non fuori di sé>> è essenziale.Ma può essere ancora meglio illuminato da quello di Kandinskij, per il quale base dell’arte è solo una necessità inte-riore, ovvero <<la fedeltà al principio della necessità interiore>>. Così, nel suo dipingere, Tomba sembrerebbe capovolgere il processo analitico della psicoterapia. Infatti, se quest’ul-tima si presenta, complessivamente, come metodico rovesciamento del fenomeno e disvelamento del suo significato secondo, la sua pittura promuove un movimento inverso: raccoglie densità significative e le distribuisce in immagini. Le sue tele centrifugano giocosamente un pletorico scenario di segni e di forze che, in uno scatto di autoironia, rie-scono puntualmente a districarsi dallo spossamento dell’informale (I Cavalieri, Il Tetto, Sisifo 1987). Ora, l’elemento interessante della sua arte non è tanto quello dei codici genetici formali (espressionismo, grafica pubblicitaria, feticci metafisici, ammiccamenti chagalliani, combinatorie pittografiche), quanto il disfarsi dei materiali onirici in chiuse at-mosfere che non impongono, necessariamente, l’interrogazione sul significato.Si tratta, dunque, di puntare sullo scarto della percezione che possa scuotere il mondo secondario e asfissiante dell’ interpretazione, seguendo la difficile scommessa dell’autonomia dell’ immagine, a scapito della conoscenza della medesima. Forse, in Tomba, c’è fin troppo accorta consapevolezza delle sue due “professioni”, quella psicoterapeutica e quella pittorica; esse, sicuramente, non possono integrarsi. La voracità della prima deve rassegnarsi: non si può, al tempo stesso, interrogare la Sfinge e dipingerla.Ci piace immaginare un Edipo pittore silenzioso, intento a scrutare le curve degli occhi dell’animale antropomorfo, la ferocia e la seduttività delle sue labbra, per circoscriverle in una tela, paralizzandolo con i colori e la luce e trasforman-dolo in un puro significante, diverso da tutti gli altri.Rammentando Barthes, ci si potrebbe esprimere così: un po’ di simbolismo conduce alla divinità, l’eccesso di simbo-lismo lo allontana da essa.

Stefano Santuari

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I cavalieri 100x35 cm 2005

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Quando Tomba espose i suoi dipinti per la prima volta, poco più di un anno fa, furono in molti a sorprendersi per la vastità e la tenacia della sua ricerca, e anche per l’irriducibilità a formule acquisite, a una comoda << routine >> vuoi del linguaggio e dei diversi referenti che lo stimolano, vuoi dei sentimenti, degli affetti, delle introspezioni a volte dav-vero molto complesse. Una pittura non accomodante, come è noto agli amici che lo frequentano e sanno del ruolo che essa si prende nella sua vita, anche se condivisa con molti altri interessi e con un’altra attività professionale intensa, impegnativa: questa, a sua volta, pur se all’apparenza tanto lontana, stimola quell’attitudine allo scavo interiore, all’a-nalisi e alla rievocazione che appare così diretta e senza forzature, come di chi ne ha consuetudine e dimestichezza con facilità, con convinzione autentica.Nei disegni ritroviamo ora la stessa ispirazione, alla quale gli strumenti puramente grafici della matita e dell’ inchiostro – o anche, più semplicemente e immediatamente, della biro – conferiscono nitore e lucidità aggiuntivi. Ne converrà il visitatore, del resto già avvertito da alcuni saggi esposti alla mostra dello scorso anno: un’occasione, allora, più com-plessiva e riassuntiva, mentre quella attuale consente un esteso apprezzamento di quel tratto grafico davvero lieve, senza peso e sussiego, che riconosciamo identico da oltre vent’anni, malgrado la forte crescita interna. Lieve anche quando l’intendimento retrospettivo porterebbe a caricare il foglio di significati complessi, di allusioni e rimandi che in altri prenderebbero facilmente la via dell’asserzione perentoria, o della complicazione a oltranza. Tomba sta invece perseguendo la strada di una semplificazione progressiva sul filo di osservazioni dirette, di rievocazioni che non danno a vedere di essere talvolta anche molto sofferte, di congegni surreali senza residui simbolici. Il << vassoio nel torrente >>, un tema su cui è ritornato spesso, anche se nell’arco compresso di poco tempo in questi ultimi anni, ha la grazia e l’assenza di peso di un Dufy o di un primo De Pisis. Sono solo alcune tra le sue molte possibili frequentazioni. Che non escludono il libero esercizio su Matisse e Rembrandt, senza che per questo vada smarrito il segno abituale, come sempre fluido e luminoso. Anche i futuristi sono ripresi con disposizione quasi surreale e una libertà di divertimento, e all’occorrenza, di ironia, che poco o nessun margine lascia a facili professioni di deferenza. Sono cose che già si sape-vano. Ma quel che forse più appassiona in questa occasione soltanto grafica è la capacità di restare fedele alle proprie tematiche e al proprio linguaggio, anche se gli ultimi risultati segnano uno scarto netto rispetto ai fogli più antichi.Non è ora il caso di seguire passo a passo l’evoluzione di un lavoro che conserva una coerenza interna molto forte, andando piuttosto nella direzione della crescita, della concentrazione e spoliazione progressiva, del distacco senza ostentazione dai motivi più urgenti e immediati, dai condizionamenti più diretti della psicologia e degli affetti. Nei pa-esini della Provenza, per far un esempio che mi è particolarmente caro, il segno inizialmente descrittivo e fedele tende – in uno scarto di tempo ridottissimo, forse soltanto di poche ore – a diventare sempre più essenziale, ad allargarsi oltre le consuetudini preordinate della visione in << insulae >>compatte e senza vincoli, assemblate con calma e sicu-rezza sul foglio luminosissimo: un libero reticolo di segni, che talvolta sembra riecheggiare la grazia e l’intenerimento un po’ ironico di certa grafica giapponese, o la libertà mentale di Licini. Un orizzonte vasto, si diceva, tematicamente e linguisticamente: uno stile in cui sedimentano molte esperienze, ma con un filtro che consente di decantarle senza mai renderle banali. Anche in ciò è una ragione di forza della sua grafica e un motivo in più, per noi, di attenderci nuo-ve ricerche e nuovi approfondimenti, sulla strada già da tempo imboccata e percorsa con così intelligente passione.

Renzo Grandi

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Il vassoio nel torrente 30x21 cm 1994

Paesini della Provenza 30x21 cm 2007Rembrandt 30x21 cm 1988

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Non è facile capire quale sia l’intenzione estetica di Roberto Tomba, in parole più povere in che cosa consista e si sveli, il suo progetto. Da un certo punto di vista, si potrebbe pensare che Tomba, in sintonia con alcuni degli artisti più rappresentativi del nostro secolo, quali Klee o ancor meglio Mirò, voglia rivisitare l’universo del disegno infantile, a cogliere quella struttura di fondo che lo sottrae al rispecchiamento, per consegnarlo alle peripezie di un operare tutto mentale, rivolto ai valori e ai simboli. Ma sarebbe troppo semplice. Le sue <<figurine>>, così mi sembra di poterle identificare più propriamente, da incollare in un album immaginario, rimandano al disegno infantile soltanto molto superficialmente, perché, a ben guardarle, possiedono tutta l’economia di un percorso grafico consapevole e, sopra tutto, mentre il bambino, pur giocando con la matita, è serio anzi addirittura serioso, e in altre parole crede in quello che fa, Tomba sconfina sempre in un sorridente sfottò. Mi spiego ancor meglio : il bambino, disegnando, esprime sempre una sua condizione psicologica e, affascinato dal gesto demiurgico di far comparire qualcosa sul foglio, vive la sua avventura grafica emozionalmente , mentre gli animaletti di Tomba si presentano come delle cifre araldiche, si potrebbe quasi dire degli emblemi di un piccolo bestiario personale vis-suto nel clima liberatorio, e distaccato dell’ironia. Queste bestiole non si preoccupano affatto di imitare gli animali veri, sono più simili a degli animali – giocattolo, non topi in carne ed ossa, ma topi di peluche, non galli da pollaio, ma simulacri pieni di segatura. Per cui, se è vero che il nostro disegnatore esercita la professione di chi esplora le profondità della mente umana, la riduzione all’ elementare del suo piccolo zoo privato mi sembra di alludere a una regressione simulata , e insieme sublimata, a un progetto colto sul confine, da un lato dell’arte come gioco, come attività auto compensante, e d’altro lato dell’arte come metamorfosi , come alambicco magico in forza del quale si può trasporre un segno in un sogno, e viceversa.Tomba sembra voler dichiarare che l’atelier del pittore resta sempre una dependance della camera dei giochi, e che la cosiddetta creatività, per quel che possa valer questo termine, non regge affatto lo specchio alla Natura, come suona il celebre aforisma di Amleto, ma si fa beffe di ogni verosimiglianza, non spicca il volo con Pegaso, ma va , se mai, su di un triciclo in rotta di collisione con il mondo. Se il test Rorscharch evoca, attraverso una costel-lazione di macchie di colore, una fantasticheria rilevatrice, uno svelamento onirico, l’album di Tomba è come un Rorscharch economico, non a colori ma in bianco e nero, che sovraintende a una sorta di paranoia critica, chia-mata in causa dall’ambigua semplicità dei suoi animaletti burloni. A riprova, vediamo come talora l’animaletto si trasfigura d’incanto in un volto, o per meglio dire in una maschera, e fanno allora capolino nei disegni i totem, e forse addirittura i tabù. Questo bestiario non sarà , allora, una confessione per immagini? La rimozione, attraverso il disegno, di una analisi interminabile sospesa? Roberto Tomba, ovvero dell’inquietudine.

Giorgio Celli

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Il tricicloGatto (omaggio a Giorgio Celli)

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La poetica di Roberto Tomba è fortemente fondata sul primato della soggettività.La forma assunta dalla rappresentazione del soggetto, nei suoi disegni, risulta infatti relativamente indipendente dal contesto oggettuale che la circonda, non ne è condizionata più di tanto: è piuttosto intrinseca alla natura del soggetto stesso, che concretamente è connotato e mostrato – con lineamenti essenziali- mentre si erge o si piega, si muove o si declina seguendo suoi significativi percorsi interiore trovando nelle scene grafiche un suo destino implicito, che pare essergli inesorabilmente proprio.Sisifo, e gli altri personaggi espressi da questi disegni, sono figure caratterologiche che sembrano obbedire prima di tutto al loro DNA nucleare, ad una loro essenza interna sovra dominata.Anche la rappresentazioni degli oggetti che popolano il suo mondo soggettivo sono profondamente plasmate dal modo in cui egli vive e le rappresenta: e bastano veloci tratti di penna o di pastello, di prima intenzione precon-scia, per definire la qualità e le sorti, perché Tomba va a segno con pochissimi movimenti figurativi, di sostanziale intensità.Poche linee rette e qualche sapiente curvatura, ed ecco comparire con rapidità il soggetto ed i suoi oggetti, e i loro caratteri e destini, con una straordinaria miscela di economicità e di efficacia di tratto, in una linea ideale e trasversale che dalla tradizione del disegno bozzettistico bolognese, passando attraverso il gioco geniale di Mirò, si congiunge senza sforzo alle più raffinate correnti del design colto contemporaneo, inventore dei “loghi”.E se in alcuni personaggi simbolici (un gatto umanizzato alla maniera egizia, un uccellaccio post-traumatico, una coppia di bassotti con zampe/ruote e coda/maniglia trasformati da libere creature in “quasi-giocattoli”) Tomba trasfonde inquietanti rappresentazione di parti de Sé soggettivo, nei paesaggi alla ricerca è più generale, meno legata all’individuo: è ricerca del “minimo comune multiplo” formale che possa consentire la percezione sicura di una realtà complessa (un prato fiorito, un gruppo di case, un profilo di montagne) col minor impiego possibile di segni, con la più sincopata delle Gestalt; non per avarizia, ma per tensione tecnica e filosofica verso il nocciolo di ciò che determina nella nostra mente la rappresentazione delle cose.Chi, come lo scrivente, ama particolarmente il disegno per la sua dimensione di verità artistica essenziale, poco manipolabile con effetti cromatici, trova nei fogli di Roberto Tomba una fonte di sorpresa e di soddisfazione non comuni.Il suo modo di disegnare ci consegna un mondo di oggetti e di piccole scene quotidiane che sono visti con gli occhi della mente e trasmessi direttamente alle mani dell’artista, che qui lavora con il preconscio alla presenza di un Io benevolo o quantomeno tollerante.Sembra che questo Io centrale lo lasci giocare volentieri: come un genitore cui è capitato in sorte un figliolo curio-so, creativo, bizzarro e talentuoso, a volte divertente a volte invece amaro e pensoso.I segni a matita di Tomba sono infatti istintivi e pensosi al tempo stesso, senza mai risultare concettuali: per via di questo percorso interno preconscio che non esclude le parti intellettualmente più evolute dell’artista al lavoro, ma che le rende non protagoniste, compatibili, collaborative, al servizio di una creatività più diretta e interiore, parente del gioco.

Stefano Bolognini

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Sisifo

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Nel rifiuto della grandiosità del panorama vasto, della fastosità eccessiva, in favore della preziosità dell’esperienza artistica frammentaria, risiede il carattere di moderno esteta fatto proprio da Roberto Tomba. I disegni giocano quel sottile equilibrio tra poliedricità ed attenta e misurata cura per la composizione, per il particolare ricercato e minuziosamente inseguito nella sua discreta eleganza. I segni grafici di Tomba si servono dei tratti primitivi – linee, cerchi, curve – per raggiungere la complicata semplicità della forma essenziale; i suoi personaggi – animali dai lineamenti antropomorfi o addirittura metamorfizzati in oggetti – restano a metà tra la satira e la parodia dell’ illustrazione umoristica da una parte, e seduzione filosofica dall’altra, consapevoli della capacità del loro valore simbolico ed allegorico. Ed è proprio quando riunisce abilmente due aspetti differenti del medesimo carattere dell’oggetto rappresentato che il gioco del suo segno economico e sostanziale si fa più scaltrito, vicino alla salda ambiguità classica e moderna insieme della genialità accorta di certi lavori di Klee. Ma ancora di più nella rinuncia al colore c’è l’impegno di una sfida lanciata all’ intelligenza analitica dell’ osservatore, costretto ad astrarre dal primo sguardo d’insieme vicenda narrata e traslato implicito; l’instabile irrequietezza del disegno breve procede verso una deformazione dell’illustrazione classica e l’invenzione di uno stile personale, preparato da un’originalità intellettuale e terminato nel fascino discreto ed intatto della sintesi poetica totale.

Alberto Gross

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BenvenutiSenza titolo

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PENNELLO E PAROLA-strumenti di una vocazione-

In ogni opera d’arte, come nel sogno, si esprime la realizzazione di un desiderio e, più nascosta, la paura del mede-simo. Avremo allora l’emozione di un momento magico ove appaiono fantasmi terrifici e fate incantatrici.Dal caos delle emozioni arcaiche può anche nascere l’ordine e a me sembra che l’arte esprima la ricerca di una integrazione non confusiva.“Sono soddisfatto di me”: questa affermazione veniva giocosamente tradotta da mio padre a me bambino nella se-guente: “sono contento di Io”. Veniva offerta in tal modo la possibilità di trovare dentro di sé una misura giudican-te, libera da debiti e ipoteche, che apra sul presente uno spazio in cui sentirsi realisticamente soddisfatti: accanto all’ istanza impositiva “devi!” e a quella mitigata “dovresti” mio padre mi prospettava una dimensione,”puoi” in cui finalmente l’Io trova la forza di esprimersi e mostrarsi.

Mi appresto dunque a mettere al mondo ciò che è stato fino ad ora in gestazione: posso occuparmi di arte conti-nuando a fare lo psicoterapeuta, posso dipingere sia con il pennello, sia con la parola.

Dalla constatazione della nostra cattiveria nasce un senso di colpa che ci più sommergere, ma se dalla rabbia distruttiva passiamo ad un’aggressività utile a differenziarci, se dalla colpa passiamo alla responsabilità che ci riconduce alla dimensione del possibile, forse riusciamo a vivere con minore angoscia, recando più lieve danno a noi stessi e a chi ci sta accanto.Molte persone depresse, rivivono un atteggiamento della prima infanzia: è cioè naturale che i bambini (ancora piccoli) dipendano interamente dalla madre, ma se dubitano del suo affetto, imparano presto a non recarle mai offesa o irritazione. Questo precoce adattamento alla madre causa la tendenza a identificarsi eccessivamente con gli altri nella vita adulta.In dosi più adeguate e opportune tale capacità sarà impiegata dal futuro terapeuta per ascoltare, capire e prender-si cura di chi soffre psichicamente, così come sarà impiegato dal futuro artista per ricreare, partendo da una realtà insoddisfacente e confusa, mondi più gratificanti, più ordinati e riparati.

ll pittore, davanti alla tela,sembra trovarsi nello stessostato d’animo del paziente

sul lettino: è necessarioaccettare il caos come situazione

temporanea …. Il terrore dell’ignotoè presente in entrambi i casi.

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IL TETTO

Il quadro che potrebbe intitolarsi TETTO TAGLIENTE mi pare che si presti, assieme ai disegni preparatori, ad alcune considerazioni in tema di aggressività. Il tetto infila l’aguzza estremità dentro un polposo albero che ha la forma ed il colore di un viscere: fegato o cuore, colori terrosi, stesure discontinue, la parete della casa si confonde con il cielo, uniche nitide forme appaiono le ombre spigolose e , soprattutto, la lama lucente del tetto puntuto: coltello che separa, cuneo che incide, raggio che trafigge.Emerge forse il coraggio , il fegato appunto, di guardare gli affetti e vederne l’ambivalenza. Tagliare la rotondeggiante cicciuta chioma dell’albero significa allora riconoscere la propria aggressività.

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Osservando questa tela rileggo un antico sogno:Un ladro, fatto di corda arrotolata, squarciava con un coltello la saracinesca e piombava nella stanza dove stavo.

Era la sala da pranzo, nella quale ero stato realmente relegato, dopo un primo periodo trascorso nella camera dei genitori.

Tagliavo la pancia della mamma e vi rientravo? Sembra proprio il desiderio di possedere la madre come un ladro che penetra illecitamente in una stanza. Ma perché tanta violenza? La rabbia, il risentimento e, infine, il desiderio di vendetta per l’esclusione subita esplodono in un aggressione alla coppia genitoriale; in un atmosfera vissuta a monte del conflitto edipico, attacco, ferisco, corrodo: acida e corrosiva doveva essere la gigantesca macchia gial-lastra, mostro informe terrificante che, ancora più piccolo e, questa volta seduto sgomento sul letto dei genitori, vedevo proiettata sulla bianca parete.

Oggi, sulla bianca tela, il “ corrosivo sublimato” si cimenta.Dalla piazzetta riparata tra le case e da quell’albero solitario che mi piacque fotografare, la realtà esterna si trasfi-gura e, attraverso vari passaggi a china, si compenetra coi fantasmi del mondo interno fino alla stesura del colore.

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Secondo Fornari, l’ispirazione più profonda della Commedia di Dante sarebbe da collegare al lutto del poeta, che in-traprende il viaggio nell’oltretomba per ritrovare gli oggetti perduti, gli oggetti d’amore morti

Nel mezzo del cammin di nostra vita….

Smarrimento e dolore: quando mia madre è morta aveva sessantatré anni e io trentatré.Durante l’infanzia mi leggeva talvolta brani della Divina Commedia. Sia perché lei pronunciava “camin” con una emme sola, trasponendolo dal dialetto, sia perché io mi perdevo con la fantasia, avventurandomi oltre la penombra della stanza sui tetti delle case, finivo con il vedermi davanti il camino del fornaio.Mi difendevo dalla paura?

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“(…Una forte impressione attuale risveglia… il ricordo di una esperienza anteriore per lo più risalente all’ infanzia...)”

(Freud)

Dopo aver ascoltato un ciclo di conferenze sull’attività onirica feci un sogno tanto suggestivo da indurmi a dipingereMi trovavo nella casa dove sono nato, a guardare dalla terrazza la città illuminata dalla Luna.Erano con me mia sorella e mia madre.Nel cielo, da destra, apparve uno strano areoplano, quasi un aquilone con code filanti, una specie di cometa.Avanzava come se danzasse, affascinante e inquietante insieme. “Guarda! …Guarda!”Anche mia sorella, come me, era emozionata. Ad un tratto, due navi avanzarono da sinistra verso l’orizzonte diven-tato piatto: al posto delle case ora c’era il mare; il bastimento lungo e basso coi finestrini illuminati veniva raggiunto dalla nave più alta, buia , azzurro grigia. Si trovavano ora entrambe difronte a noi, si sovrapponevano diventando quasi un’unica nave. ”Che bello! Che bello!...ma che cose che vedi!”

IL SOGNO DELLE NAVI

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Freud dice che l’Artista “(…) rappresenta come appagate le sue fantasie di desiderio più personali, ma queste divengo-no opera d’arte soltanto se viene loro impressa una forma diversa che mitighi l’aspetto urtante di questi desideri, ne celi l’origine personale e offra agli altri, rispettando le regole del bello, seducenti premi di piacere”.L’arte viene descritta da Fornari come movimento che “(…) dalla notte entra nella luce del giorno per ritornare nella notte, in una marcia a delfino tra mondo interno e mondo esterno, attività che fa del linguaggio notturno e di quello diurno non due facce della stessa medaglia, ma un continuo succedersi di un gioco a testa e croce, in cui una faccia si presenta quando l’altra si nasconde…” ritornando allora nella notte e cioè al sogno: l’atmosfera è magica... “ che cose che vedi!”. C’è forse il tentativo di ricreare un’atmosfera amata?

Mia madre, mia sorella ed Io siamo sul balcone a guardare la notte. I miei occhi dentro la luna, frugando nel bianco di quella come nel seno materno, cercano un mondo amato e perduto. Attraverso le sequenze del sogno rivivo antiche immagini e antichi desideri: madre e sorella tutte per me , due donne sotto la luna, due navi. Ma le navi si sovrappon-gono e quasi ne appare una sola, alta e possente: vi mostrerò chi comanda! Mio padre non c’è, sono io il padrone della casa. L’aereo giocoso che danza nel cielo, seduttiva cometa dalle mille code, sta per scendere in picchiata, minacciando burrasca sul quel mare così tranquillo.

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L’aggressività insufficientemente elaborata si esprime in modo inadeguato e rischia di appesantire la realizzazione dell’opera d’arte. Ho presente lo stato d’animo in cui nacque la grande tela di Sisifo, rispetto alla quale vari osservatori hanno accusato sensazioni di fastidio, precarietà o sconcerto. Non intendo fare critica d’arte, tanto più nei confronti della mia opera; mi piace tuttavia tentare, un’esplorazione del processo creativo, avendo a disposizione un’esperienza diretta e personale. Penso alla rapidità dell’esecuzione: nell’arco di una giornata completai il quadro; penso alle dimensioni della tela: non avevo eseguito prima di allora qua-dri così grandi. La morte dello scrittore Primo Levi mi spinse a dipingere riprendendo il tema di Sisifo. “Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice“ (Camus).

Lui era impegnato da molti anni nella testimonianza di avvenimenti che temeva ripetibili perché conseguenti all’e-terna distruttività umana; lavorava a scongiurarne il ritorno raccontando ciò che aveva vissuto, cercando di mostrarci quanto sia difficile riconoscere la violenza che è dentro di noi, quanto doloroso il necessario confronto con essa per poter costruire insieme. L’uomo ammette con grande difficoltà la presenza dell’odio in se stessi attribuendola agli altri. Accettare tutto ciò è doloroso, lunga l’elaborazione del lutto, per alcuni impossibile. Immaginavo in lui la disperazione di chi parla inascoltato.

Mi dissi allora: ”se un uomo della sua grandezza ha ceduto totalmente alla melanconia che possiamo fare noi?... che posso fare Io? Non mi bastava il quotidiano aiuto ai pazienti, il tentativo di contenere l’angoscia nell’ascolto; volevo, onnipotente, contrapporre un atto creativo ad un atto di morte. E’ pur vero che senza un poco di questa onnipotenza non si dipinge, come del resto, non si cura. Partii così “all’attacco” di una grande tela

SISIFO

Sisifo 200X130 cm 1987

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IL GATTOAll’inizio della terapia, la paziente, poco più che ventenne, “agiva” pressoché costantemente. Mi attaccava per valuta-re le mie capacità di resistenza, contenimento, pazienza. Sarà una buona madre, sarà un buon padre solido e deciso, come reagirà di fronte alla mia aggressività e confusione? Stracciava le riviste in anticamera e ne faceva palle di carta rotolanti sul tappeto e sui mobili, gettava per terra i cuscini, apriva i cassetti e soprattutto spostava un gatto di ceramica che ora amava, ora dichiarava di odiare ferocemente. Paragonava se stessa a un gatto feroce o a un leone di cui imitava il ruggito. In quel periodo feci un sogno:

Mi trovavo con mia moglie in un negozio di generi alimentari. Entrò un gatto, un piccolo gatto bianco che ferocemen-te mi aggredì al petto e cominciò a mordermi e succhiarmi un capezzolo… cercai di strapparmelo di dosso: ero anche preoccupato per mia moglie perché indossava un vestito leggero che non l’avrebbe protetta. Finalmente, dopo grandi

sforzi, riuscii a staccarlo e a scagliarlo lontano. Ero esausto…

Dopo questo sogno, durante le vacanze natalizie, ripresi con il pennello il tema del gatto. Dico ripresi perché anni prima avevo dipinto un grande gatto fornito di seni femminili e corna, lievemente sornione.Penso che lo staccarmi il gatto dal petto significa finalmente separare il figlio dalla madre, poiché la madre non è inesau-ribile e il figlio non può sempre succhiare, pena l’impossibilità di differenziarsi, crescere, rendersi autonomo. Il sogno, il dipinto recuperato, la paziente che , dopo una pur lunga terapia, si esprime a parole e non più a calci e palle di carta stracciata, mi sembrano rappresentare il passaggio dalla distruttività alla creatività.Ci sono voluti diversi anni per raggiungere, attraverso stesure di colore meditate e sofferte anche nei passaggi tecnici (olio, tempera, acrilico) l’attuale definitiva versione.

Il gatto 80x60 cm 1980

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VERSO IL GRUPPO-Immagini di un percorso-

GLI ARGONAUTIIn una baia dell’Isola d’Elba comparve un mattino una rumorosa nave. Era una nave cisterna che approvvigionava d’acqua quella parte dell’isola frequentata in estate da molti turisti. Ma la sera, col buio, quella nave si trasformava: i fari tremolanti sulle onde, giungevano voci affaccendate e un rullio costante le accompagnava: era già diventata nella mia mente la nave Argo e gli Argonauti facevano tappa in quella baia per ripartire l’indomani verso la Colchide, alla conquista del Vello d’oro. Ebbi in seguito occasione di leggere lo scritto di uno psicoanalista argentino in cui l’autore paragonava il viaggio del piccolo gruppo terapeutico all’impresa degli Argonauti. L’equipaggio è condotto da Giasone, un capitano che cerca di raggiungere un obiettivo prestabilito così come il conduttore del gruppo. In tal caso il “Vello d’oro” potrebbe essere sostituito dal “compito”: nel gruppo psicoterapeutico il compito consiste nell’esplicitare ciò che è nascosto, attraverso un percorso “a spirale” che ritroviamo nelle relazioni dialettiche. Mentre il cerchio è circolo vizioso, la spirale è circolarità virtuosa, perché ogni giro porta, anche se di pochissimo, su un nuovo piano rispetto a quello precedente, per cui si ha uno spostamento di prospettiva che produce, per passaggi a volte impercettibili, una variazione di visuale.

Come sulla nave Argo, nel gruppo si formano sottogruppi in competizione tra loro e la funzione del conduttore è quella di rendere possibile una rotazione delle leaderships e non il loro annullamento. A volte succede che durante il viaggio. Il quale, pur condiviso con altri è sempre un viaggio all’interno di se stessi, qualcuno si distragga o si smarri-sca, come alcuni uomini di Giasone sedotti e trattenuti nell’isola di Lemno abitata da donne; qualcuno sfugge così al proprio compito e, non solo manifesta aggressività, la cui presenza è comunque auspicabile che si riveli, ma cerca di disturbare o distruggere il lavoro che altri faticosamente portano avanti.

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L’ORCHESTRAUn Contrabbasso, un Violoncello e due Violini: quattro suonatori in abito scuro e coda di rondine si disponevano su un palcoscenico improvvisato in un giardinetto pubblico; in alto, una scritta luminosa informativa: “Teatro Regio di Torino”. In realtà mi trovavo in Calabria, sulla costa Ionica, una serata dolce e pigra. Davanti all’ orchestra, alcuni turisti, donne col passeggino e monelli del luogo. Su quel palcoscenico mancava però il direttore d’orchestra e gli orchestrali procede-vano disarmonici; rari i passaggi nei quali apprezzare un raggiunto affiatamento. Immagino allora un’orchestra in via di formazione: occorre un direttore … Conduttore di gruppo. Spesso il gruppo è sta-to paragonato a un’orchestra e il suo conduttore al direttore. Immagino che il direttore cerchi di ottenere una sintonia tra i vari orchestrali facendoli provare e riprovare, insieme e isolatamente, indicando modifiche, fino ad ottenere un effetto di armonia, fino a quando cioè, l’insieme degli strumenti produce un risultato al quale tutti concorrono senza sovrastarsi; quando uno strumento è in primo piano, gli altri sostengono e accompagnano; a volte due o più strumenti interloquiscono; tutti insieme fondono i suoni dei vari strumenti in un’unica armonia che li trascende singolarmente, ma che ognuno contribuisce a creare. A questo punto il direttore può anche lentamente dileguare: non c’è più bisogno dei suoi suggerimenti; tenendo lui come riferimento, gli orchestrali hanno raggiunto la capacità di lavorare insieme ar-moniosamente, quasi avessero interiorizzato ognuno il significato che il direttore rappresenta.E’ stato detto che il buon conduttore di gruppo si scava lentamente la fossa, quasi per scomparire a far si che il gruppo, guadagnandoci in spontaneità e più libera espressione di sé, si dimentichi di lui.

Gli orchestrali

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Gli orchestrali con direttore

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Opere pittoriche

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Il gatto 90x70 cm 2011

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Il prato fiorito 60x40 cm 2010.COPERTINA

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Il giardino 60x60 cm 2010

31

Montagne 60x60 cm 2010

32

Me ne vado 60x60 cm 2010

33

Lanterna magica 60x60 cm 2010

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I suonatori 60x60 cm 2008

35

Il cielo stellato 60x60 cm 2008

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Gli Argonauti 100x60 cm 2008

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Gli Argonauti 100x60 cm 2006

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Il pendolo 130x80 cm 2004

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Il sogno delle navi 35x48 cm 1990

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Il camino del fornaio 29x24 cm 1990

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A riveder le stelle 20x20 cm 2011 Attesa 20x20 cm 2011

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Il cane presuntuoso 20x20 cm 2011 Il topo 20x20 cm 2011

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Panchina 20x20 cm 2011 Tra i piccioni 20x20 cm 2011

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Sono nato il 6 Novembre 1945 a Bologna, dove tuttora vivo e lavoro. All’età di sei anni – forse meno – tre acquerelli. Eseguiti sotto lo sguardo esperto di una cugina oggi ceramista e bravo incisore, ebbero successo in famiglia e tra gli amici dei miei genitori. Non se ne parlò più e mi ritrovai, alle scuole medie, un pessimo scolaro in disegno. Per fortu-na al Liceo classico non c’era l’ora di disegno e ripresi così i pennelli per mio conto, quasi esercitandomi in una sorta di linguaggio complementare, una modalità espressiva integrante, divenuta col tempo indispensabile per comunicare <<le regioni del cuore>>, per trasmettere con maggiore scioltezza gli stati d’animo più difficili da esprimere. Lo scultore Cleto Tomba, cugino di mio padre, mi veniva spesso citato ad esempio; qualcuno lo diceva scultore delle piccole cose: suggerisco ai Bolognesi di dare un occhiata, la Domenica, alle otto formelle in bronzo sulla porta della Banca del Mon-te, oggi Unicredit Banca, in via Indipendenza. Cleto divenne per me l’artista artigiano, il paziente e tenace Sisifo che continua, però con ironia e consapevolezza, a trascinare e spingere il proprio <<sasso>>. <<Dovresti fare delle statuine anche tu>>diceva mia madre. Dato che i figli crescono anche perché disobbediscono ai genitori, ripresi a dipingere …. A intervalli si intende, perché decisi di fare il medico e poi lo psichiatra e infine lo psicoterapeuta, che appunto di quel-le famose <<ragioni del cuore>> si occupa e di quelle <<teste>> alle quali mio padre cappellaio invece provvedeva attraverso berretti e cappelli. Dopo i vent’anni mi feci coraggio e sottoposi al giudizio di una giuria di esperti un mio <<Crocefisso>> e un <<Interno di chiesa>> per l’ottava biennale di arte sacra organizzata a Bologna. I frati dell’Anto-niano bocciarono i due quadri senza pietà e credo oggi che avessero ragione . In questi ultimi dieci anni ho ripreso a dipingere con maggior lena. Non spetta a me parlare del mio stile, dei miei colori, di eventuali suggestioni; cedo ai critici questo compito. Ricordo solo quanto scriveva Roberto Longhi in una presentazione al catalogo di una mostra di Giorgio Morandi nel 1945: l’invito a <<ricercare ancora e sempre dentro di sé, non fuori di sé>>, che conferma l’inte-grazione delle mie due vocazioni, psicoterapeutica e pittorica. Attratto da libri, insetti, poesia, corpo umano e politica, dopo un confronto con ciò che avrei chiamato “le ragioni del cuore”, mi sono ritrovato nello stesso tempo a medita-re e medicare. Medico, ho rincorso avidamente il collegamento fra psiche e soma. Dopo una formazione psicoanali-tica individuale sono approdato alla “gruppo analisi”, accorgendomi che il gruppo ci fa vivere l’atmosfera di un teatro dialogante dove i molteplici ruoli cristallizzati nel tempo provano il piacere e la sofferenza di continui spostamenti: nel gruppo l’individuo è portato a confrontarsi con diverse parti di sé, comprese quelle ignote. Egli si sen-te così frammentato e costretto a rivedere la propria identità, accorgendosi che essa non fu acquisizione de-finita una volta per tutte, bensì si struttura nel confronto guadagnando la possibilità di prospettive nuove. Passando all’interesse per il gruppo, decisi di mettermi in gioco come pittore. Da tempo avevo cominciato a usare i pennelli, esercitandomi in una sorta di linguaggio complementare, modalità espressiva integrante divenuta col tempo indispensabile per esprimere gli stati d’animo più diffi-cili da trasmettere. Disegno e pittura, compagni di viaggio, sono divenuti strumento necessario per fissa-re i passaggi di una faticosa crescita. Dopo diversi anni di pittura solitaria, sono uscito dalla nicchia nevrotica osando esporre le mie opere in mostre anche collettive.

Note Biografiche

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FiereArtePadova con Galleria “WIKIARTE” Padova, 2011

Esposizioni personaliGalleria “WIKIARTE” Bologna, 2011Martin Pescatore Bologna, 2011Galleria “DE MARCHI” Bologna, 2007Arte BILLI Arte Bologna, 2006Centro Culturale Villa Paradiso Bologna, 1999Galleria “L’ARIETE” Bologna, 1996Galleria “SAN PAOLO” Bologna, 1995Galleria “SANT’ISAIA” Bologna, 1994

Esposizioni collettiveGalleria “WIKIARTE” Bologna, 2011 Spazio Capo di Lucca Bologna, 2011 Galerie de l’Europe Paris, 2011 Officine Artistiche Bologna, 2010 Centro Nature Bologna, 2010Galleria “DE MARCHI” Bologna, 2009 Galerie de l’Europe Paris, 2008 Art Art Monzuno, 2007Mostra dei medici pittori Bologna, 1997Concorso di grafica e scultura “città di Modena” Modena, 1994,1998,2000,2003Concorso-mostra nazionale di pittura A.S.L.A.I. Brescia, 1994

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Roberto Tombamail: [email protected]

Tel. 051/548613

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Galleria di riferimentoGalleria Wikiarte Via San Felice 18 40122 Bologna

Tel e fax 051/5882723 mail: [email protected] sito: www.wikiarte.com

Graficawww.virtualstudios.it

FotoDeborah Petroni