Il Pensiero Sociale della Chiesa

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Il pensiero sociale della Chiesa Da Leone XIII a Benedetto XVI

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SOME IDEAS ABOUT SOCIAL ECCLESIAL THINKING

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Il pensiero sociale della ChiesaDa Leone XIII a Benedetto XVI

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Caratteristiche generali del pensiero sociale

L’allocuzione “dottrina sociale” risale a Pio XI, che la usa nella lettera enciclica Quadragesimo anno (15 maggio 1931).

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Caratteristiche generali del pensiero sociale

Pio XII parlerà di “dottrina sociale cattolica”, nel 1941, e di “dottrina sociale della Chiesa” (DSC), nel 1950. Da quel momento la dizione “dottrina sociale della Chiesa” designa il corpo dottrinale riguardante temi di rilevanza sociale, che a partire dalla prima Enciclica sociale, la Rerum Novarum di Leone XIII (15 maggio 1891), si è sviluppata nella Chiesa attraverso il Magistero dei Romani Pontefici e dei Vescovi, in comunione con essi.

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Caratteristiche generali del pensiero sociale

Nella lettera apostolica Octogesima adveniens (1971) supera il concetto di DSC e distingue diversi socialismi:Aspirazione ad una società economica più giusta: valido (n. 31)Aspirazione politica rivoluzionaria. Discutibile;Ideologia materialistica: inammissibile

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La dottrina sociale della Chiesa non è una «terza via» tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. Non è neppure un'ideologia, ma l'accurata formulazione dei risultati di un'attenta riflessione sulle complesse realtà dell'esistenza dell'uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell'insegnamento del Vangelo sull'uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il comportamento cristiano. Essa appartiene, perciò, non al campo dell'ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale (SRS, 41)

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Caratteristiche generali del pensiero sociale

DSC come teologia morale con un forte

ancoraggio trinitario

Il pensiero moderno ha smarrito il nesso soggetto-persona e si arrovella spesso con affanno attorno al tema della composizione io-noi, individuo-società.

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Caratteristiche generali del pensiero sociale

Giovanni Paolo II spiega che l’uomo non può rinunciare a essere se stesso (verità dell’identità) e non può essere se stesso da solo (verità della relazione).

L’appartenenza alla famiglia degli uomini, attraverso la mediazione della famiglia parentale porta inevitabilmente al riconoscimento del vincolo irriducibile che lega ogni persona a Dio, nel momento in cui Cristo “svela l’uomo all’uomo” (Gaudium et Spes n.22).

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Un po’ di storia

Alla fine degli anni ’60, una parte rilevante della teologia cattolica ha cantato il de profundis alla Dottrina sociale ritenendola una ideologia della terza via superata e inapplicabile e chiamando i cristiani a una scelta di campo tra capitalismo e socialismo.

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Il Discorso di Puebla del 1979, nell’ambito della seconda Assemblea dell’episcopato latino-americana, il Discorso all’Episcopato Italiano del 1985 a Loreto, le potenti parole delle tre Encicliche Sociali, Laborem exercens (1981), Sollicitudo rei sociali (1987) e Centesimus annus (1991) numerosi discorsi tenuti a tutte le latitudini hanno fatto di Giovanni Paolo II il Papa della riscoperta della Dottrina Sociale della Chiesa (DSC).

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E non solo di una DSC proclamata ma di una DSC all’opera nelle grandi trasformazioni sociali che hanno attraversato gli ultimi decenni: dalla fine della guerra fredda, al crollo del comunismo sovietico, dal dinamismo della Chiesa latino-americana, all’affermazione della libertà religiosa, al dialogo interreligioso, al mea culpa giubilare, alle straordinarie giornate della gioventù, alla difesa incrollabile dei diritti negati dei poveri del mondo.

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È bene ricordarsi sempre «che la dottrina sociale è della Chiesa, perché la

Chiesa è il soggetto che la elabora, la diffonde e la insegna. Essa non è

prerogativa di una componente del corpo ecclesiale, ma della comunità

intera» (Compendio, 79)

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Poiché i cristiani sono simpatici quando fanno volontariato e si occupano dei poveri e risultano antipatici quando parlano di famiglia naturale, divorzio, aborto, eutanasia, cellule staminali, clonazione, allora – potremmo essere tentai di concludere “è meglio accontentarsi di fare la carità senza parlare della verità”.

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La Dottrina sociale della Chiesa guarda il cielo e abbraccia la terra. Il Vangelo genera solidarietà, ma la Chiesa non è la croce rossa. I cattolici non si limitano al servizio della carità.

La presenza sociale è sale (“nel mondo”) e luce (“ma non del mondo”). Se noi cattolici conosciamo solo le parole del mondo saremo omologati e irrilevanti.

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Senza primato della vita spirituale non esiste presenza sociale. Una nuova presenza dei cattolici nella vita sociale e politica non si improvvisa, ma si prepara lentamente in un cammino di formazione interiore, spirituale e sociale.

Nelle scuole, nelle parrocchie, negli oratori, nei gruppi di volontariato, nelle associazioni e nei movimenti c’è carenza di formazione al pensiero sociale

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I pronunciamenti magisteriali

Leone XIII, Rerum Novarum (15 maggio 1891) Pio XI, Quadragesimo anno (15 maggio 1929) Divini Redemptoris (19 marzo 1937) Pio XII, Discorso di Pentecoste (1 giugno 1941) Giovanni XXIII, Mater et Magistra (15 maggio 1961) Pacem in terris (11 aprile 1963) Paolo VI, Populorum progressio (26 marzo 1967) Octogesima adveniens (14 maggio 1971) Giovanni Paolo II, Conferenza Puebla (27 gen./13 feb 1979)

Discorso a Terni (19 marzo 1981) Laborem exercens (14 settembre 1981) Sollicitudo Rei socialis (30 dicembre 1987) Centesimus annus (1 maggio 1991)

Benedetto XVI, Caritas in veritate (29 giugno 2009)

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Per la prima  volta, un Papa prende coscienza della radicale ingiustizia di cui sono vittime gli operai della nuova società industriale, che vede in poche mani accumulata la ricchezza mentre è largamente estesa la povertà. I proletari, infatti, sono per la maggior parte indegnamente ridotti ad assai misere condizioni… soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni. Un piccolissimo numero di straricchi, si afferma, hanno imposto  all’infinita moltitudine de’ proletari un giogo poco men che servile. Per Leone XIII questa situazione è “ingiusta”; si tratta di “un disordine” che dev’esser sanato.

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GIUSTO SALARIO Il quantitativo della mercede non dev’essere “inferiore” al sostentamento dell’operaio. Se questi per necessità, o per timore del peggio, accetta patti più duri imposti dal proprietario, questo è subire una violenza contro la quale la giustizia protesta. Perciò, affinché si abbia un giusto salario, non basta che ci sia accordo tra padrone e operaio, data la condizione d’inferiorità in cui questi si trova. È necessario che l’operaio riceva un salario sufficiente a mantenere se stesso e la sua famiglia in una tal quale agiatezza. Parlando dei “doveri” dei capitalisti e dei padroni, Leone XIII così li enumera: Non tenere gli operai in luogo di schiavi; rispettare in essi la dignità dell’umana persona, nobilitata dal carattere cristiano. Poi soggiunge, agli occhi della ragione e della fede non è il lavoro che degrada l’uomo, ma anzi lo nobilita consentendogli di campare onestamente la vita: quello che veramente è indegno dell’uomo è di abusarne come di cosa a scopo di guadagno.

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INTERVENTO STATALESino ad allora lo Stato doveva astenersi da ogni intervento per non condizionare la libertà di tutti i soggetti economici. Contro questa visione, Leone XIII sostiene che lo Stato deve intervenire  nella questione sociale perché ciò fa parte del bene comune, e provvedere al bene comune è  officio e competenza dello Stato, che deve curarsi di “tutti” i cittadini, dei proletari non meno che dei ricchi. È stretto dovere dello Stato – si rimarca anzi – prendersi la dovuta cura del benessere degli operai.

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La “questione operaia” su cui aveva preso posizione la Rerum novarum, era diventata ormai la “questione del sistema economico capitalista” (e del suo confronto col sistema instaurato dal comunismo in Russia). E fu questa la “questione” complessa, dai forti aspetti ideologici, che venne affrontata da papa Ratti, primo ad usare l’espressione “dottrina sociale” (per esteso “dottrina sulla questione sociale ed economica”).

Dopo la Rerum Novarum, lo scenario sociale è denso di eventi sociali epocali: la fondazione del partito laburista in Inghilterra (James Keir Hardie, 1856-1915), la Confédération Genéral du Travail in Francia, la rivoluzione bolscevica di Lenin e quella cinese di Mao, il partito National socialista dei lavoratori tedeschi di Hitler, quello National fascista di Mussolini, quello comunista di Gramsci…   

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Anche papa Ratti è favorevole all’associazionismo operaio: “quando in parecchie nazioni i pubblici poteri, totalmente asserviti al liberalismo, poco favorivano, anzi avversavano apertamente le associazioni di operai, e mentre riconoscevano consimili associazioni di altre classi e le proteggevano, con ingiustizia esosa negavano il diritto naturale di associarsi  proprio a quelli che più ne avevano bisogno per difendersi dallo sfruttamento dei potenti. Né mancava fra gli stessi cattolici, si duole Pio XI, chi mettesse in sospetto i tentativi di formare tali organizzazioni, quasi fossero impregnate di un certo spirito socialistico o sovversivo”

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Leone XIII, ricorda la Quadragesimo anno, ha “difeso gagliardamente il diritto di proprietà contro gli errori dei socialisti del suo tempo”. Tuttavia il suo magistero ha anche messo in luce la doppia natura della proprietà: individuale (per il sostentamento di ciascuno e della famiglia) e sociale (perché i beni della terra servono al bene comune di tutti). Dimenticando l’aspetto sociale si cade nell’individualismo liberale; dimenticando l’aspetto individuale nel collettivismo. La questione della proprietà è innanzitutto una questione di giustizia. Però non è la giustizia, bensì la carità a esigere che i proprietari usino dei loro beni a vantaggio di tutti. Lo Stato può entro certi limiti prendere misure perché la proprietà sia ben usata, ma non può usare “arbitrariamente” di tale diritto che lo stesso Stato “non può sopprimere”.

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PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÁ

Siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare”. In sostanza, i privati devono essere lasciati liberi di fare quanto con le loro forze riescono a fare; solo dove le forze dei privati non bastano, potrà e dovrà intervenire lo Stato. L’applicazione del principio non indebolirà, ma anzi rafforzerà l’autorità dello Stato che, libero “da pesi non propri”, potrà intervenire con direttive generali sull’economia.

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LA QUESTIONE “CAPITALISMO”Spietata la critica di Pio XI al “capitalismo” del tempo, alla concentrazione della ricchezza “che ferisce gli occhi”, all’accumularsi di un “enorme potere economico dispotico in mano di pochi”. E questi, sovente, “neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale”. Dunque, padroni non di beni o imprese, ma solo “padroni di denaro”. Il Papa intuisce le conseguenze estreme dell’internazionalizzazione dei mercati finanziari.

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LA QUESTIONE “CAPITALISMO” La concentrazione di risorse nelle mani di pochi scatena lotte per il dominio mondiale che determinano due fenomeni diversi: da un lato, il nazionalismo o anche l’imperialismo economico; dall’altro, non meno funesto ed esecrabile, l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro. La Quadragesimo è infine attenta alle trasformazioni nel socialismo, che ora si è diviso in due partiti principali, “fra loro inimicissimi”: il comunismo, che persegue “la lotta di classe più accanita e l’abolizione assoluta della proprietà privata”; e un altro partito che ha conservato “il nome di socialismo” e professa un programma graduale di riforme a favore degli operai.

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9. – La dottrina che il comunismo nasconde sotto apparenze talvolta così seducenti, in sostanza oggi si fonda sui princìpi già predicati da C. Marx del materialismo dialettico e del materialismo storico, di cui i teorici del bolscevismo pretendono possedere l’unica genuina interpretazione. Questa dottrina insegna che esiste una sola realtà, la materia, con le sue forze cieche, la quale evolvendosi diventa pianta, animale, uomo. Anche la società umana non ha altro che un’apparenza e una forma della materia che si evolve nel detto modo, e per ineluttabile necessità tende, in un perpetuo conflitto delle forze, verso la sintesi finale: una società senza classi.

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9. – In tale dottrina, com’è evidente, non vi è posto per l’idea di Dio, non esiste differenza fra spirito e materia, né tra anima e corpo; non si dà sopravvivenza dell’anima dopo la morte, e quindi nessuna speranza in un’altra vita. Insistendo sull’aspetto dialettico del loro materialismo, i comunisti pretendono che il conflitto, che porta il mondo verso la sintesi finale, può essere accelerato dagli uomini. Quindi si sforzano di rendere più acuti gli antagonismi che sorgono fra le diverse classi della società; e la lotta di classe, con i suoi odi e le sue distruzioni, prende l’aspetto d’una crociata per il progresso dell’umanità. Invece, tutte le forze, quali che esse siano, che resistono a quelle violenze sistematiche, debbono essere annientate come nemiche del genere umano.

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Pio XII, Radiomessaggio di Pentecoste (1941)Il 13 giugno 1943, Pentecoste, Pio XII riceveva 25 mila operai giunti da tutt’Italia e rivolse loro un discorso in cui esaltava la dignità del lavoro  e la dottrina sociale della Chiesa contro “i falsi profeti che dicono bene al male e male al bene, e, vantandosi amici del popolo, non consentono tra capitale e lavoro e tra datori di lavoro ed operai quelle mutue intese che mantengono e promuovono la concordia sociale per il progresso e l’utilità comune”. Ed aggiungeva il Papa: “Una propaganda di spirito antireligioso va spargendo in mezzo al popolo, soprattutto nel ceto operaio, che il Papa ha voluto la guerra, che il Papa mantiene la guerra e fornisce il denaro per continuarla. Mai forse non fu lanciata una calunnia più mostruosa e assurda di questa! …Nessuno più di noi si è insistentemente opposto, in tutti i modi consentiti, allo scatenarsi e poi al proseguire della guerra. Nessuno più di noi ha continuamente invocato: pace, pace, pace!”.

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Pio XII, Radiomessaggio di Pentecoste (1941)Mosso dalla convinzione profonda che alla Chiesa compete non solo il diritto, ma ancora il dovere di pronunziare una parola autorevole sulle questioni sociali, Leone XIII diresse al mondo il suo messaggio. Non già che egli intendesse di stabilire norme sul lato puramente pratico, diremmo quasi tecnico, della costituzione sociale; perché ben sapeva e gli era evidente - e il nostro predecessore di s. m. Pio XI lo ha dichiarato or è un decennio nella sua enciclica commemorativa Quadragesimo anno - che la Chiesa non si attribuisce tale missione. Nell'ambito generale del lavoro, allo sviluppo sano e responsabile di tutte le energie fisiche e spirituali degl'individui e alle loro libere organizzazioni si apre un vastissimo campo di azione multiforme, dove il pubblico potere interviene con una sua azione integrativa e ordinativa, prima per mezzo delle corporazioni locali e professionali, e infine per forza dello Stato stesso, la cui superiore e moderatrice autorità sociale ha l'importante ufficio di prevenire i perturbamenti di equilibrio economico sorgenti dalla pluralità e dai contrasti degli egoismi concorrenti, individuali e collettivi.

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Per il 70° anniversario della “Rerum novarum”, nel maggio 1961, le Acli avevano organizzato un grande pellegrinaggio a Roma. Alla marea di lavoratori cristiani Giovanni XXIII  riservò una  grande sorpresa. L’annuncio di una nuova enciclica sociale, la “Mater et magistra”

Con la Mater et magistra il Papa si propone, in piena crisi della civiltà industriale, di aprire orizzonti nuovi all’impegno sociale dei cattolici. Ma non vuole farlo senza collegarsi al documento di Leone XIII – da lui definito “somma del cattolicesimo in campo socio/economico” – e partendo dal quale intende “enucleare ulteriormente il pensiero della Chiesa in ordine ai nuovi e più importanti problemi del momento”.

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Mai un documento pontificio aveva conosciuto, nel mondo intero, un interessamento così attivo e una diffusione tanto ampia. Tutto ciò si spiega con il contenuto e il tono dell’enciclica. Innanzitutto per la sua intelligibilità: abbandonando lo stile solenne e un linguaggio troppo astratto, il Papa parlava in forma popolare per rendere il suo insegnamento accessibile a tutti. Poi per la sua serenità e il suo spirito ecumenico: in nessun punto del testo si trovano condanne di altri sistemi, fatta eccezione per l’ateismo militante e persecutore. Infine, la Mater et Magistra affrontava chiaramente e francamente i problemi più ardui con la sollecitudine pastorale del “Papa buono”, senza però  diminuire la ricchezza dottrinale del documento.

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A guisa d’introduzione, Giovanni XXIII ricorda “la duplice missione di dare” assegnata alla Chiesa: insegnare e praticare la carità. La sua missione sociale, inaugurata da Cristo e da essa continuata, ne è l’adempimento. Con una lucida visione del progresso dei tempi, Papa Roncalli si sofferma sui problemi tradizionali visti però nel loro aspetto nuovo: i rapporti tra l’iniziativa privata e l’intervento dello Stato in campo economico; il moltiplicarsi dei rapporti sociali; la “socializzazione”; i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori; il diritto di proprietà.

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Tra i problemi nuovi ne vengono evidenziati tre in particolare: l’agricoltura che, rispetto agli altri settori della vita economica, è sottosviluppata; l’esistenza in seno alle nazioni di regioni insufficientemente sviluppate; i problemi politico- ideologici all’origine degli squilibri tra le nazioni ricche e le  popolazioni in via di sviluppo con la loro esplosione demografica. Giustizia e carità, afferma il Papa, sono i fondamenti morali  di ogni vita sociale. C’è chi crede che i trionfi della scienza e della tecnica siano sufficienti per assicurare il più alto grado di civiltà. Al contrario, “la verità invece è  che gli stessi progressi scientifico-tecnici pongono problemi umani a dimensioni mondiali, che si possono risolvere soltanto nella luce di una sincera ed  operosa fede in Dio”, fondamento dell’ordine morale. E la “tragica esperienza che le forze gigantesche messe a disposizione della tecnica possono essere utilizzate tanto per finalità costruttive che per la distruzione, mette in evidenza la prevalente importanza dei valori spirituali, affinché anche il progresso scientifico-tecnico conservi il suo carattere essenzialmente strumentale”.

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29. Nel radiomessaggio il grande Pontefice rivendica alla Chiesa "la inoppugnabile competenza di giudicare se le basi di un dato ordinamento sociale siano in accordo con l’ordine immutabile che Dio creatore e redentore ha manifestato per mezzo del diritto naturale della rivelazione[15]; riafferma la perenne vitalità degli insegnamenti dell’enciclica Rerum novarum e la loro inesauribile fecondità; e coglie l’occasione "per dare ulteriori principi direttivi morali sopra tre valori fondamentali della vita sociale ed economica; i tre valori fondamentali che si intrecciano, si saldano, si aiutano a vicenda sono: l’uso dei beni materiali, il lavoro, la famiglia" [16].

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L’accoglienza grande riservata in ogni parte del pianeta al documento, in fondo, è stata un grande atto di fede nell’amore della Chiesa  per l’uomo e nella sincerità del contributo che essa offre al mondo a realizzarsi. Nel testo non mancano indicazioni assai concrete, talvolta addirittura “tecniche”. Non sta però in esse il contributo primario specifico che la Chiesa dà allo sviluppo e alla pace dei popoli. “Esperta in umanità – scrive Paolo VI – la Chiesa, lungi dal pretendere minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati […] in comunione con le migliori aspirazioni degli uomini, e soffrendo di vederle insoddisfatte, desidera aiutarle a raggiungere la loro piena fioritura e, a questo fine, offre loro ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità”.

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Il messaggio morale della Populorum progressio è molto semplice e chiaro: “Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere  sviluppo autentico, deve essere integrale, vale a dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Noi non accettiamo di separare – afferma Paolo VI – l’economico dall’umano”. “Non v’è umanesimo vero – soggiunge –  se non aperto verso l’Assoluto”. Partendo da questo presupposto, tutta l’enciclica si trasforma in un richiamo vigoroso ai valori fondamentali della dignità dell’uomo, della giustizia sociale nell’uso dei beni, della solidarietà e della fraternità universale, per arrivare alla “promozione di un mondo più umano per tutti, senza che il progresso degli uni costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri”.

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Richiamando sinteticamente i dati del sottosviluppo, “la cui gravità non può sfuggire a nessuno”, Papa Montini parla di uno “stato di marasma” in cui “si fa più violenta la tentazione di lasciarsi pericolosamente trascinare  verso messianismi carichi di promesse, ma fabbricatori di illusioni. Chi non vede – chiede – i pericoli che ne derivano, di reazioni popolari violente, di agitazioni insurrezionali e di scivolamenti verso le ideologie totalitarie?”. Paolo VI stigmatizza esplicitamente la concezione economica comunista, là dove denuncia il “pericolo di una collettivizzazione integrale o d’una pianificazione arbitraria che, negatrici di libertà come sono, escluderebbero l’esercizio dei diritti fondamentali della persona umana”.

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E ancora: “Il cristiano non può ammettere una dottrina che suppone una filosofia materialista o atea”. Il Papa non esita a pronunciare giudizi duri sul passato. Elenca con fermezza e coraggio le ingiustizie, chiamandole ciascuna con il proprio nome: “egoismo”, “capitalismo”, “neocolonialismo”, “nazionalismo”, “razzismo”, ecc. Evoca con precisione i “misfatti di un certo colonialismo”: “le potenze colonizzatrici hanno spesso perseguito soltanto il loro interesse, la loro potenza”. Denuncia gli “abusi” di un “certo capitalismo”, definito “nefasto sistema” perché “considerava il profitto come motivo essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali”. Si tratta, come si vede, di giudizi morali che la Chiesa, custode della morale e dei diritti della persona, ha il dovere, e il diritto, di pronunciare anche su cose che riguardano l’ordine politico ed economico.

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L’enciclica si sofferma poi sulla proprietà privata per asserire con chiarezzache essa “non costituisce per alcuno un diritto incondizionato ed assoluto”. “Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno quando gli altri mancano del necessario. In una parola, il diritto di proprietà non deve mai esercitarsi a detrimento dell’utilità comune”.  Come applicazioni concrete di questo principio si richiamano il dovere di dare il superfluo a chi non ha, la legittimità dell’esproprio in taluni casi, il dovere dei contributi fiscali, l’immoralità del trasferimento di capitali all’estero ad esclusivo vantaggio personale.

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Eco particolare suscitarono le parole dell’enciclica sui temi della violenza e della rivoluzione. Le riportiamo per esteso: “Si danno, certo, situazioni la cui ingiustizia grida verso il cielo. Quando popolazioni intere, sprovviste del necessario, vivono in uno stato di dipendenza tale da impedir loro qualsiasi iniziativa e responsabilità…, grande è la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie alla dignità umana. E tuttavia sappiamo che l’insurrezione rivoluzionaria  - salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata, che attentasse gravemente ai diritti fondamentali della persona e nocesse in modo pericoloso al bene comune del paese – è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri  e provoca nuove rovine. Non si può combattere un male reale a prezzo di un male più grande”.

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Le esortazioni accorate di papa Montini nella sua importante enciclica sociale non sono passate di moda. “Bisogna affrettarsi”. “E’ in gioco la vita stessa dei poveri, la pace civile nei paesi in via di sviluppo e la pace nel mondo”. “Vogliano i responsabili ascoltarci, prima che sia troppo tardi”. Diversamente susciteranno “il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili”. Più di otto lustri sono passati da quando Paolo VI scriveva la Populorum progressio, ma tuttora risuonano vive e attuali, in tutta la loro drammatica verità, le esortazioni pressanti del Papa, l’arditezza delle sue proposte, il suo richiamo forte e chiaro alla funzione della Chiesa di coscienza critica della società.  

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 LO SVILUPPO E GLI SPRECHI “Lo sviluppo integrale dell’uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità”, afferma l’enciclica. “Il dovere di solidarietà che vige per le persone vale anche per i popoli. Le nazioni sviluppate hanno l’urgentissimo dovere di aiutare le nazioni in via di sviluppo… Se è normale che una popolazione sia la prima beneficiaria dei doni che le ha fatto la provvidenza, nessun popolo può, per questo, pretendere di riservare a suo esclusivo uso le ricchezze di cui dispone. Di fronte alla crescente indigenza dei Paesi in via di sviluppo, si deve considerare come normale che un Paese evoluto consacri una parte della sua produzione al soddisfacimento dei loro bisogni”.

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 Papa Montini ribadisce che “il superfluo dei paesi ricchi deve servire ai paesi poveri. La regola che valeva un tempo in favore dei più vicini deve essere applicato oggi alla totalità dei bisognosi del mondo”. Altrimenti “l’avarizia inveterata” dei ricchi “non potrà che suscitare la reazione”, violenta, dei meno fortunati. Paolo VI condanna pure “gli sperperi” di alcune nazioni: “Quando tanti popoli hanno fame, quando tante famiglie soffrono la miseria, quando tanti uomini vivono immersi nell’ignoranza, ogni sperpero pubblico o privato, ogni spesa fatta per ostentazione nazionale, ogni corsa estenuante agli armamenti, diventa uno scandalo intollerabile. E noi abbiamo il dovere di denunciarlo”.

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 nazionalismo e razzismo

 Tra gli ostacoli che si oppongono all’edificazione di un mondo più giusto, l’enciclica addita nazionalismo e razzismo. “È naturale – osserva il pontefice – che comunità da poco pervenute all’indipendenza politica siano gelose di una unità nazionale ancora fragile, e si preoccupino di proteggerla. E’ pure normale che le nazioni di vecchia cultura siano fiere del patrimonio che hanno avuto in retaggio dalla loro storia. Ma tali sentimenti legittimi devono essere sublimati dalla carità universale che abbraccia tutti i membri della famiglia umana. Il nazionalismo isola i popoli contro il loro vero bene; e risulterebbe particolarmente dannoso là dove la fragilità delle economie nazionali esige invece la messa in comune degli sforzi, delle conoscenze e dei mezzi finanziari onde realizzare i programmi di sviluppo”.

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 Il razzismo, osserva Paolo VI, “non è appannaggio esclusivo delle nazioni giova-ni, dove si dissimula talvolta sotto il velo delle rivalità di clan e di partiti politici, con grande pregiudizio della giustizia e mettendo a repentaglio la pace civile. Durante l’era coloniale – ricorda il Papa – ha spesso imperversato tra coloni e indigeni, creando ostacoli alla comprensione reciproca e provocando rancori che sono la conseguenza di vere ingiustizie”. Il razzismo costituisce altresì “un ostacolo alla collaborazione tra nazioni sfavorite e un fermento generatore di divisione e di odio nel seno stesso degli Stati, quando, in spregio dei diritti imprescrittibili della persona, individui e famiglie si vedono ingiustamente sottoposti a un regime d’eccezione, a causa della loro razza o del loro colore”.

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Il Papa si dice afflitto da una situazione generale “così gravida di minacce per l’avvenire”. Tuttavia conserva la speranza che un bisogno più sentito di collaborazione, un sentimento più acuto della solidarietà finiranno con l’aver la meglio sulle incomprensioni e gli egoismi. “Proprio a questo bisogna arrivare. La solidarietà mondiale, sempre più efficiente, deve consentire a tutti i popoli di divenire essi stessi gli artefici del loro destino”. Se il passato è stato troppo contrassegnato da rapporti di forza tra nazione e nazione, “venga finalmente il giorno – è l’auspicio dell’enciclica – in cui le relazioni internazionali portino il segno del rispetto, dell’amicizia, dell’interdipendenza nella collaborazione”. Paolo VI sa bene che il problema dello sviluppo è in primo luogo una questione di “riconversione” di sistemi e strutture. Occorre quindi riconvertire le economie di guerra, che dominano le nazioni più potenti, in economie di pace; occorre riconvertire le strutture produttive finalizzate al profitto e al superfluo, orientandole invece al bene comune e alle necessità dei poveri.

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Il documento pontificio incoraggia quindi gli esperti e i responsabili a escogitare soluzioni che siano valide a lungo termine. Di qui l’insistenza sulla necessità della formazione culturale e dell’alfabetizzazione. Ma soprattutto papa Montini si prefigge d’incidere immediatamente sulla realtà. È una preoccupazione che ritorna di continuo nelle sue parole e aiuta a comprendere il tono d’affanno, quasi d’angoscia, delle sue ammonizioni. A suo avviso è necessario agire subito: “La situazione attuale dev’essere affrontata coraggiosamente e le ingiustizie che essa comporta, combattute e vinte. Lo sviluppo – incalza – esige delle trasformazioni audaci, profondamente innovatrici. Riforme urgenti devono essere intraprese senza indugio”. Urgono dei “cambiamenti”, sono “indispensabili” riforme profonde.  Ma è proprio la consapevolezza dell’urgenza che induce il Papa a parlare di “gradualità” delle prime riforme per evitare il caos. “Bisogna che l’opera da svolgere progredisca armonicamente, pena la rottura di equilibri indispensabili. Una riforma agraria improvvisata può fallire il suo scopo. Una industrializzazione precipitosa può dissestare strutture ancora necessarie e generare miserie sociali”.

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A metà maggio del 1971 si compivano ottant’anni dalla pubblicazione della Rerum novarum, l’enciclica sociale che per la prima volta aveva affrontato quella che allora si chiamava “la questione operaia”. E Paolo VI volle ricordare l’anniversario del grande documento di Leone XIII con una lettera apostolica, l’Octogesima adveniens, in risposta “ai nuovi bisogni di un mondo in trasformazione”. Il fatto che Papa Montini, anziché usare la formula tradizionale dell’enciclica, abbia preferito optare per una lettera apostolica, nulla toglie al contenuto dottrinale del testo né gli conferisce importanza minore. Fin dal primo paragrafo, Paolo VI si rivolge, infatti, a tutta la Chiesa e a tutti gli uomini: “Da ogni parte sale un’aspirazione a maggior giustizia e si alza il desiderio di una pace meglio assicurata, in un mutuo rispetto tra gli uomini e i popoli”. Sin dal suo apparire l’Octogesima appare un deciso passo avanti nello sviluppo del pensiero sociale della Chiesa. La sua grande novità è che acquisisce in modo definitivo al pensiero del magistero alcune tesi di grande importanza dottrinale e pratica. In primis, il superamento della concezione classica di “dottrina sociale della Chiesa” qual era intesa tradizionalmente.

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L’Octogesima parte dalle diverse situazioni dei cristiani nei vari Stati: alcuni sono “tentati da soluzioni radicali e violente”, altri “senza rendersi conto delle ingiustizie, si sforzano di prolungare la situazione presente”; altri ancora “si lasciano sedurre da ideologie rivoluzionarie”. È a questo punto che Paolo VI compie la sua nuova e inaspettata rilettura della Dottrina Sociale della Chiesa, rilettura che segnerà un modo diverso e più responsabile di affrontare i problemi sociali da parte delle Chiese locali. Da quel momento, d’altronde, il Papa non utilizzerà più il termine Dottrina, ma parlerà di insegnamento sociale della Chiesa: “Di fronte a situazioni tanto diverse – spiega – ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale”.

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Papa Montini distingue tre momenti. Il primo è la rilevazione storica e sociologica dei dati, dalla quale deve partire l’elaborazione dell’insegnamento sociale della Chiesa: “Spetta alle comunità cristiane – afferma testualmente – analizzare obiettivamente la situazione del loro Paese”. Il secondo è quello dell’interpretazione oggettiva dei dati emersi alla luce dei valori cristiani e dell’insegnamento del magistero: si tratta di “chiarire” la situazione del proprio Paese alla luce delle “parole immutabili del Vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell’insegnamento sociale della Chiesa”. Il terzo momento è quello operativo e consiste “nell’individuare le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche”.

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Accanto al potere economico si va così affermando, sino a sopravanzarlo, un “nuovo potere” con conseguenze disumane sulla vita personale, familiare e comunitaria: “Utilizzando gli strumenti moderni della pubblicità, una competizione senza limiti lancia instancabilmente nuovi prodotti e cerca di attirare i consumatori. Vasti strati di popolazione non riescono ancora a soddisfare i loro bisogni primari, eppure ci si sforza di crearne di superflui…”. Nascono “nuovi proletariati” che si sostituiscono anche sociologicamente al proletariato industriale. Nascono i “nuovi poveri” della società opulenta: delinquenti, drogati, disadattati, anziani, emarginati d’ogni tipo; si parla anche di “rispetto privilegiato dei poveri”.

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Si moltiplica la promiscuità degli alloggi popolari. Si ingigantisce la difficoltà del dialogo fra le generazioni, che minaccia di superare la violenza della lotta tra le classi dell’era industriale. Crescono le forme di discriminazione razziale, culturale, religiosa. Restano irrisolti i problemi della donna: “è grave dovere dei responsabili far cessare la discriminazione effettiva della donna…”. L’Octogesima si sofferma con particolare preoccupazione sui mezzi di comunicazione sociale, nuovo e potente strumento di penetrazione nel tessuto sociale.  La loro influenza “si ripercuote nei confronti dell’esercizio delle libertà individuali, tanto nel settore politico e ideologico quanto nella vita sociale, economica e culturale”. I mass media rappresentano per il Papa “un nuovo potere” e hanno “gravi responsabilità in rapporto alla verità dell’informazione che diffondono, ai bisogni e alle reazioni che fanno sorgere, ai valori che propongono”.            

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Paolo Vi ribadisce nel 1971 “l’obbligo” del cristiano “di partecipare alla ricerca e all’organizzazione e alla vita della società politica”. Ma “poiché l’azione politica deve poggiare su un progetto di società (che sia) coerente nei suoi mezzi concreti e nella sua ispirazione”, egli dovrà affrontare il confronto con le ideologie, cioè con quelle “concezioni totali della vocazione dell’uomo e delle sue diverse espressioni sociali”. Ma quale criterio seguire per giudicare il valore delle ideologie? E’ ovvio – dice Papa Montini – che il cristiano che vuole vivere la sua fede in un’azione politica, non può, senza contraddirsi, dare la propria  adesione a sistemi ideologici “che si oppongono radicalmente  o su punti essenziali, alla sua fede e alla sua concezione dell’uomo”. Perciò Paolo VI ribadisce chiaramente il “no” di tutte le encicliche sociali precedenti all’ideologia marxista e a quella liberale, sia pur rinnovate storicamente. Il cristiano dunque non potrà aderire “né all’ideologia marxista, al suo materialismo ateo, alla sua dialettica di violenza”, né a quell’ideologia liberale “che ritiene di esaltare la libertà individuale sottraendola a ogni limite”.

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La fede cristiana si pone, insomma, al di sopra e talvolta all’opposto delle ideologie. È qui interessante notare come l’Octogesima accenni a un certo “regresso delle ideologie” in quegli anni, regresso che potrebbe rappresentare un terreno favorevole a un’apertura verso la trascendenza concreta del cristianesimo, ma potrebbe anche indicare “uno slittamento più accentuato verso un nuovo positivismo”, cioè verso “l’ideologia onnipresente del progresso scientifico e tecnologico”. Dopo aver definito la politica “una maniera esigente di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri”, il Papa si sofferma sui “movimenti storici concreti usciti dalle ideologie e, per un verso, distinti da esse”.

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Paolo VI richiama, al riguardo, la magistrale lezione di Giovanni XXIII, che, nella Pacem in terris, operò una distinzione tra “false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’uomo” e “i movimenti storici con finalità economiche, sociali, culturali e politiche”. “Le dottrine”, aveva sottolineato Papa Roncalli, “una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse, mentre i movimenti, agendo sulle situazioni storiche incessantemente evolventesi, non possono non subirne gli influssi e sono soggetti, quindi, a mutamenti anche profondi”. Una simile affermazione della Pacem in terris aveva provocato un certo scandalo in parte del mondo cattolico che aveva finito per ignorare l’intera enciclica giovannea. Mentre Paolo VI la recupera proprio nel suo passaggio più contestato.

Paolo VI richiama, al riguardo, la magistrale lezione di Giovanni XXIII, che, nella Pacem in terris, operò una distinzione tra “false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’uomo” e “i movimenti storici con finalità economiche, sociali, culturali e politiche”. “Le dottrine”, aveva sottolineato Papa Roncalli, “una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse, mentre i movimenti, agendo sulle situazioni storiche incessantemente evolventesi, non possono non subirne gli influssi e sono soggetti, quindi, a mutamenti anche profondi”. Una simile affermazione della Pacem in terris aveva provocato un certo scandalo in parte del mondo cattolico che aveva finito per ignorare l’intera enciclica giovannea. Mentre Paolo VI la recupera proprio nel suo passaggio più contestato.

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Il liberalismoIn questo quadro viene passato sotto lente d’ingrandimento dalla Octogesima adveniens anche il rinnovamento dell’ideologia liberale con l’invito ai cristiani a non “idealizzare il liberalismo… perché è un’affermazione erronea dell’autonomia dell’individuo nella sua attività, nelle sue motivazioni, nell’esercizio della sua libertà”. Perciò il cristiano deve impegnarsi in ogni circostanza al “discernimento”, attingendo “alle sorgenti della sua fede e nell’insegnamento della Chiesa i principi e i criteri opportuni per evitare di lasciarsi sedurre e poi rinchiudere in un sistema, i cui limiti e il cui totalitarismo rischiano di apparirgli troppo tardi se egli non li ravvisa nelle loro radici”. In tal modo il cristiano è aiutato a comprendere “le debolezze”delle ideologie.

Il liberalismoIn questo quadro viene passato sotto lente d’ingrandimento dalla Octogesima adveniens anche il rinnovamento dell’ideologia liberale con l’invito ai cristiani a non “idealizzare il liberalismo… perché è un’affermazione erronea dell’autonomia dell’individuo nella sua attività, nelle sue motivazioni, nell’esercizio della sua libertà”. Perciò il cristiano deve impegnarsi in ogni circostanza al “discernimento”, attingendo “alle sorgenti della sua fede e nell’insegnamento della Chiesa i principi e i criteri opportuni per evitare di lasciarsi sedurre e poi rinchiudere in un sistema, i cui limiti e il cui totalitarismo rischiano di apparirgli troppo tardi se egli non li ravvisa nelle loro radici”. In tal modo il cristiano è aiutato a comprendere “le debolezze”delle ideologie.

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“Socialismo democratico, capitalismo tecnocratico, democrazia autoritaria – afferma Paolo VI – manifestano il grande problema umano della convivenza nella giustizia e nell’uguaglianza. In realtà, come potrebbero essi sfuggire – chiede il Papa – al materialismo, all’egoismo e alla violenza che fatalmente le accompagnano?”. Particolare interesse riveste quel che l’Octogesima dice sulle varie correnti socialiste. Si sottolinea innanzitutto l’ambiguità del termine “socialismo”: “Secondo i continenti e le culture (esso) assume forme diverse sotto uno stesso vocabolo”. Non v’è dubbio poi che in molti casi il socialismo “è stato e resta ispirato da ideologie incompatibili con la fede”. Chiaro il riferimento ai socialismi arroccati su posizioni marx-leniniste. Ma che dire delle varie forme di socialismo democratico che adesso rifiutano il marxismo delle origini? L’Octogesima distingue tra vari livelli. Una valutazione prudente del diverso legame concreto che, secondo le circostanze di tempo e di luogo, si riscontra tra ideologia socialista (non accettabile come visione totale ed autonoma dell’uomo), concrete realizzazioni storiche del socialismo (soggette a mutamenti profondi, quindi anche accettabili) e la lodevole aspirazione a una giustizia maggiore, “permetterà ai cristiani di precisare il grado di impegno possibile in questa direzione, una volta assicurati i valori soprattutto di libertà, di responsabilità e di apertura allo spirituale che garantiscono lo sviluppo integrale dell’uomo”.

“Socialismo democratico, capitalismo tecnocratico, democrazia autoritaria – afferma Paolo VI – manifestano il grande problema umano della convivenza nella giustizia e nell’uguaglianza. In realtà, come potrebbero essi sfuggire – chiede il Papa – al materialismo, all’egoismo e alla violenza che fatalmente le accompagnano?”. Particolare interesse riveste quel che l’Octogesima dice sulle varie correnti socialiste. Si sottolinea innanzitutto l’ambiguità del termine “socialismo”: “Secondo i continenti e le culture (esso) assume forme diverse sotto uno stesso vocabolo”. Non v’è dubbio poi che in molti casi il socialismo “è stato e resta ispirato da ideologie incompatibili con la fede”. Chiaro il riferimento ai socialismi arroccati su posizioni marx-leniniste. Ma che dire delle varie forme di socialismo democratico che adesso rifiutano il marxismo delle origini? L’Octogesima distingue tra vari livelli. Una valutazione prudente del diverso legame concreto che, secondo le circostanze di tempo e di luogo, si riscontra tra ideologia socialista (non accettabile come visione totale ed autonoma dell’uomo), concrete realizzazioni storiche del socialismo (soggette a mutamenti profondi, quindi anche accettabili) e la lodevole aspirazione a una giustizia maggiore, “permetterà ai cristiani di precisare il grado di impegno possibile in questa direzione, una volta assicurati i valori soprattutto di libertà, di responsabilità e di apertura allo spirituale che garantiscono lo sviluppo integrale dell’uomo”.

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Più che un’enciclica sociale nel senso tradizionale del termine, Giovanni Paolo II ci ha dato una meditazione teologica e filosofica sul lavoro umano. Il Papa non scrive “per raccogliere e ripetere ciò che è già contenuto nell’insegnamento della Chiesa”, né ciò che è maturato nella riflessione delle diverse correnti del pensiero sociale cristiano. Ma “per mettere in risalto – forse più di quanto sia stato compiuto finora – il fatto che il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale”. Giovanni Paolo II non si preoccupa di fare analisi di natura tecnica o storica, ma si mantiene rigorosamente sul piano dei valori e degli orientamenti etico-religiosi.

Più che un’enciclica sociale nel senso tradizionale del termine, Giovanni Paolo II ci ha dato una meditazione teologica e filosofica sul lavoro umano. Il Papa non scrive “per raccogliere e ripetere ciò che è già contenuto nell’insegnamento della Chiesa”, né ciò che è maturato nella riflessione delle diverse correnti del pensiero sociale cristiano. Ma “per mettere in risalto – forse più di quanto sia stato compiuto finora – il fatto che il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale”. Giovanni Paolo II non si preoccupa di fare analisi di natura tecnica o storica, ma si mantiene rigorosamente sul piano dei valori e degli orientamenti etico-religiosi.

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“Non spetta alla Chiesa – afferma – analizzare scientificamente” i cambiamenti sociali; essa invece ritiene suo compito “contribuire a orientare questi cambiamenti, perché si avveri un autentico progresso dell’uomo e della società”. L’enciclica, redatta personalmente da papa Wojtyla, si sofferma quindi sui “fattori di portata generale” del cambiamento tra la prima e la nuova rivoluzione postindustriale: “l’introduzione generalizzata dell’automazione in molti campi della produzione; l’aumento del prezzo dell’energia e delle materie di base; la crescente presa di coscienza della limitatezza  del patrimonio naturale e del suo insopportabile inquinamento; l’emergere sulla scena politica  dei popoli che, dopo secoli di soggezione, richiedono il loro legittimo posto  tra le nazioni e nelle decisioni internazionali”. Purtroppo – aggiunge il Papa – i cambiamenti “potranno significare per milioni di lavoratori qualificati la disoccupazione”.

“Non spetta alla Chiesa – afferma – analizzare scientificamente” i cambiamenti sociali; essa invece ritiene suo compito “contribuire a orientare questi cambiamenti, perché si avveri un autentico progresso dell’uomo e della società”. L’enciclica, redatta personalmente da papa Wojtyla, si sofferma quindi sui “fattori di portata generale” del cambiamento tra la prima e la nuova rivoluzione postindustriale: “l’introduzione generalizzata dell’automazione in molti campi della produzione; l’aumento del prezzo dell’energia e delle materie di base; la crescente presa di coscienza della limitatezza  del patrimonio naturale e del suo insopportabile inquinamento; l’emergere sulla scena politica  dei popoli che, dopo secoli di soggezione, richiedono il loro legittimo posto  tra le nazioni e nelle decisioni internazionali”. Purtroppo – aggiunge il Papa – i cambiamenti “potranno significare per milioni di lavoratori qualificati la disoccupazione”.

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“Il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non è prima di tutto il genere di lavoro che si compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una persona. Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non nella dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva… Il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro”. Giovanni Paolo II fa qui una distinzione essenziale tra “lavoro in senso oggettivo” e “lavoro in senso soggettivo”.  Il primo indica l’insieme di attività, risorse, strumenti dei quali l’uomo si serve. È questo l’aspetto obiettivo e contingente del lavoro umano, che cambia da un’epoca all’altra in seguito alle trasformazioni tecniche, culturali e sociali. Il “lavoro in senso soggettivo”, invece, è l’uomo stesso con la sua dignità trascendente: “Come persona l’uomo è soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità”.

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L’errore del capitalismo primitivo – sottolinea l’enciclica – fu di aver invertito il corretto rapporto tra uomo e lavoro, trattando l’uomo “come uno strumento di produzione”. Provocò così “una giusta reazione sociale”: gli “uomini del lavoro” si unirono tra loro per rivendicare la propria dignità contro la sopraffazione e lo sfruttamento. Il Papa riconosce in modo esplicito la legittimità e il valore della reazione del movimento operaio: “L’appello alla solidarietà e all’azione comune aveva un suo importante valore. Era la reazione contro la degradazione dell’uomo come soggetto del lavoro, e contro l’inaudito, concomitante, sfruttamento nel campo dei guadagni, delle condizioni di lavoro e di previdenza per la persona del lavoratore. Tale reazione ha riunito il mondo operaio in una comunità caratterizzata da una grande solidarietà… Bisogna francamente riconoscere – conclude Giovanni Paolo II – che fu giustificata dal punto di vista della morale sociale”.

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In merito ai diritti dei lavoratori, l’enciclica richiama che il lavoro è per l’uomo non soltanto un diritto, ma anche ubbidienza a Dio e contributo alla costruzione dell’umanità, partendo dalla famiglia. “L’uomo deve lavorare per riguardo al prossimo, specialmente per riguardo alla propria famiglia, ma anche alla società alla quale appartiene, alla nazione della quale è figlio o figlia, all’intera famiglia umana di cui è membro, essendo erede  di generazioni e insieme co/artefice del futuro di coloro che verranno dopo di  lui nel succedersi della storia”. La Laborem exercens si sofferma soprattutto sul diritto di avere un lavoro. Di fronte alla piaga della disoccupazione l’enciclica parla di dovere per i pubblici poteri “di corrispondere le convenienti sovvenzioni, indispensabili per la sussistenza dei disoccupati e delle famiglie”. Si invoca poi “ il principio dell’uso comune dei beni”. Si dice ancora che l’antidoto alla disoccupazione è “una pianificazione globale… e questa sollecitudine globale grava sulle spalle dello Stato”.

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LABOREM EXERCENS (1981)LABOREM EXERCENS (1981)

Si dice ancora che l’antidoto alla disoccupazione è “una pianificazione globale… e questa sollecitudine globale grava sulle spalle dello Stato”. Pur salvaguardando i diritti sovrani di ogni Stato, la reciproca dipendenza sollecita la “collaborazione internazionale”, superando “urtanti differenze che sono ingiuste e atte a provocare anche violente reazioni”. Il Papa ripete la dottrina sul diritto dei lavoratori al “giusto salario”, aggiungendo che ciò “diventa in ogni caso la concreta verifica della giustizia di tutto il sistema socio-economico”. Precisa che una giusta remunerazione per il lavoro della persona adulta, che ha responsabilità di famiglia, è quella che sarà sufficiente per fondare e mantenere degnamente una famiglia ed assicurarne il futuro”.

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Giovanni Paolo II definisce i sindacati “un indispensabile elemento della vita sociale. Sì – afferma – essi sono un esponente della lotta per la giustizia sociale… Tuttavia questa “lotta” deve essere vista come un normale adoperarsi “per” il giusto bene; non è una lotta “contro” gli altri”. Perciò le richieste sindacali “non possono trasformarsi in una specie di “egoismo” di gruppo o di classe; e se l’attività sindacale non può non avere una dimensione “politica” nel senso più ampio di “sollecitudine” per il bene comune”, essa però non potrà mai confondersi con la “politica” nel senso più comune del termine. Infatti, i sindacati “non hanno il carattere di partiti politici che lottano per il potere, e non dovrebbero neppure essere sottoposti alle decisioni dei partiti politici  o avere dei legami troppo stretti con essi”. Infine, quanto al diritto di sciopero, legittimo nei giusti limiti, esso mantiene la sua natura di “mezzo estremo” del quale non si può abusare “specialmente per giuochi politici”.

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L‘enciclica comunica l’esigenza di stabilire nuovi principi per regolare i rapporti tra i popoli in un mondo sempre più globalizzato, sempre più interdipendente, ma, proprio per questo, sempre più esposto al rischio di universalizzare anche le povertà, le ingiustizie. Tutto questo confluì nella seconda enciclica sociale di Giovanni Paolo II, la Sollicitudo rei socialissione del ventesimo anniversario della Populorum progressio di Paolo VI. Il documento del Papa viaggiatore denunciava il fallimento dei diversi progetti di sviluppo nel Terzo Mondo, e la crescente forbice tra un Nord sempre più ricco e un Sud sempre più povero. Di qui il rilancio, da parte del Pontefice, dell’obiettivo di una cooperazione tra i popoli secondo una vera solidarietà, condannando non solo le ideologie e i diversi imperialismi, ma anche le nuove e più sofisticate forme di neocolonialismo

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Prima constatazione negativa: la persistenza e l’allargamento del fossato fra il Nord e il Sud del mondo. L’analisi delle carenze è molto precisa: “A guardare la gamma dei vari settori, produzione e distribuzione dei viveri, igiene, salute e abitazione, disponibilità di acqua potabile, condizioni di lavoro, specie femminile, durata della vita e altri indici economici e sociali, il quadro generale risulta deludente”. Anzi, “si è verificata in questi anni una diversa velocità di accelerazione, che porta ad allargare le distanze; così i paesi in via di sviluppo, specie i più poveri, vengono a trovarsi in una situazione di gravissimo ritardo”. L’enciclica ricorda, a questo punto, anche “le differenze di cultura e dei sistemi di valore fra i vari gruppi della popolazione, che non sempre coincidono col grado di sviluppo economico, ma che contribuiscono a creare distanze”.

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Il Papa cita altri indici negativi del sottosviluppo, oltre a quelli economici e sociali. In primo luogo quelli culturali, “egualmente negativi, anzi ancor più preoccupanti” come l’analfabetismo, la difficoltà o impossibilità di accedere a livelli superiori d’istruzione, l’incapacità di partecipare alla costruzione della propria Nazione, le diverse forme di sfruttamento e di oppressione economica, sociale, politica e anche religiosa della persona umana e dei suoi diritti, le discriminazioni di ogni tipo, “specialmente quella più odiosa fondata sulla discriminazione razziale”. Qui c’è un richiamo della Sollicitudo a non usurpare il ruolo di “guida unica” da parte di nessun gruppo sociale e neppure di un partito; un richiamo esplicito alle molte dittature del ventesimo secolo, non ancora terminate in molti Stati.

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I parziali successi di alcune iniziative per lo sviluppo non possono offuscare il sostanziale aggravamento del sottosviluppo, dipeso da “meccanismi perversi” che, “benché manovrati dalla volontà degli uomini, funzionano spesso in maniera quasi automatica”. Questi meccanismi perversi, per l’interdipendenza fra mondi, provocano effetti negativi anche nei paesi ricchi. Ne vengono ricordati diversi.

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Il primo è la “crisi degli alloggi”: “la mancanza di abitazioni è da considerare segno e sintesi di tutta una serie di insufficienze economiche sociali, culturali o semplicemente umane e, tenuto conto dell’estensione del fenomeno, non dovrebbe essere difficile convincersi di quanto siamo lontani dall’autentico sviluppo”. Tra gli altri indici negativi l’enciclica rammenta naturalmente la disoccupazione e la sottoccupazione, anche nei paesi di grande sviluppo economico. Un altro grave fenomeno è lo smisurato e “intollerabile” debito pubblico dei paesi sottosviluppati. La grande offerta di abbondanti capitali disponibili perché venissero investiti in attività per lo sviluppo, “cambiate le circostanze, hanno costituito un congegno controproducente, un freno e un’accentuazione del sottosviluppo”.

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Ad avviso di Giovanni Paolo II, le cause politiche del ritardo, nel processo di sviluppo dei popoli, si riassumono in particolare nella divisione del mondo tra Est e Ovest, divisione che diventa contrapposizione ideologica: capitalismo liberista contro collettivismo marxista. Era inevitabile che la contrapposizione divenisse anche contrapposizione militare. Al tempo in cui veniva scritta la Sollicitudo, si temevano ancora guerre tra blocchi anche se esistevano spiragli di speranza.

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La Chiesa è critica sia nei confronti del capitalismo liberista sia del collettivismo marxista. Contro il pericolo di neocolonialismi viene valorizzato il “Movimento internazionale dei paesi non allineati”. Si sottolinea con forza che le nuove forme di colonialismo ritardano lo sviluppo dei paesi più poveri, ignorati dai mezzi di comunicazione sociale, nell’ingranaggio dei due blocchi contrapposti che conservano sempre tendenze all’imperialismo, paralizzati dalla preoccupazione “ingigantita da motivi di sicurezza che mortifica lo slancio di cooperazione solidale tra tutti per il bene comune del genere umano”. “Un cambiamento nei due blocchi potrebbe riconvertire le risorse e gli investimenti destinati agli armamenti per alleviare la miseria delle popolazioni indigenti”. Di qui l’affermazione che una funzione di guida tra le nazioni si può giustificare solo con la volontà di contribuire al bene comune di tutti i popoli.

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La panoramica dell’enciclica sul mondo di quel tempo si conclude con la denuncia di tre “piaghe”: a) il commercio indiscriminato delle armi che trova la possibilità di “una quasi assoluta libertà di circolazione nelle varie parti del mondo a differenza degli aiuti economici e dei piani di sviluppo che si imbattono nell’ostacolo di barriere ideologiche insuperabili, di barriere tariffarie e di mercato”; b) i milioni di profughi che “per guerre, calamità naturali, persecuzioni e discriminazioni di ogni tipo… non riescono a trovare più un focolare”; c) il terrorismo che non è mai giustificabile. A queste tre piaghe l’enciclica aggiunge che un concetto errato e perverso di sviluppo umano nelle campagne “sistematiche” contro la natalità porta “le popolazioni più povere a subire maltrattamenti”.

La panoramica dell’enciclica sul mondo di quel tempo si conclude con la denuncia di tre “piaghe”: a) il commercio indiscriminato delle armi che trova la possibilità di “una quasi assoluta libertà di circolazione nelle varie parti del mondo a differenza degli aiuti economici e dei piani di sviluppo che si imbattono nell’ostacolo di barriere ideologiche insuperabili, di barriere tariffarie e di mercato”; b) i milioni di profughi che “per guerre, calamità naturali, persecuzioni e discriminazioni di ogni tipo… non riescono a trovare più un focolare”; c) il terrorismo che non è mai giustificabile. A queste tre piaghe l’enciclica aggiunge che un concetto errato e perverso di sviluppo umano nelle campagne “sistematiche” contro la natalità porta “le popolazioni più povere a subire maltrattamenti”.

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Nelle pagine della Sollicitudo, per la prima volta in un documento pontificio, si parla di vere e proprie “strutture di peccato”. Con molta chiarezza viene detto che il motivo primo del mancato sviluppo non è di natura soltanto economica, ma è “l’assenza di una efficace volontà politica… Vanno individuate perciò le cause di ordine morale che, sul piano del comportamento delle persone responsabili, interferiscono per frenare il corso dello sviluppo e ne impediscono il pieno raggiungimento”.

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Si parla pure, così, di un “mondo sottomesso a strutture di peccato…Sono la somma dei fattori negativi che agiscono in senso contrario a una vera coscienza del bene comune universale e all’esigenza di favorirlo”. “Peccato e strutture di peccato”, scrive il Papa, “sono categorie che non sono spesso applicate alla situazione del mondo contemporaneo. Le strutture di peccato si radicano nel peccato personale e, quindi, son sempre collegate ad atti concreti delle persone che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere”. La brama esclusiva del profitto e la sete del potere sono, ad ogni livello, gli aspetti negativi più caratteristici. Anche se separabili, sono “indissolubilmente uniti…e vi possono essere coinvolti non solo gli individui ma anche le nazioni e i blocchi”. Solo la solidarietà umana e cristiana, ribadisce con convinzione Giovanni Paolo II, può vincere le “strutture di peccato”.

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Cent’anni dalla Rerum novarum di Papa Leone che viene considerata, a pieno titolo, la”Magna Charta” dell’insegnamento sociale della Chiesa. Per commemorare la ricorrenza, il 1° maggio Giovanni Paolo II pubblica un’enciclica altrettanto impegnativa, la Centesimus annus.

La Centesimus annus è nata per mostrare la fecondità e attualizzare i grandi principi della Rerum Novarum all’indomani dei fatti del 1989, con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione del blocco sovietico. È l’occasione per un chiarimento definitivo su questioni che erano state centrali in tutto il secolo ventesimo. Le questioni erano quelle costituite dall’errore fondamentale insito nella concezione comunista e nel sistema di potere da esso creato e, contemporaneamente, dalle sempre più manifeste carenze e disfunzioni del sistema capitalistico.

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Rileggere, a cent’anni di distanza, la Rerum sarebbe un’esercitazione accademica, se non fosse un invito ad affrontare, alla luce dei principi leoniani, le “cose nuove” del tempo presente e, insieme, “a guardare al futuro”. Gli avvenimenti del 1989/90 mostrano quanto Leone XIII fosse stato preveggente nella sua critica radicale al “socialismo”, intuendo “con chiarezza il male di una soluzione che, sotto l’apparenza di un’inversione delle posizioni di poveri e ricchi, andava in realtà a detrimento di quegli stessi che si riprometteva di aiutare”. Oggi è possibile costatare che “l’errore fondamentale del socialismo è di carattere antropologico”, poiché esso riduce l’uomo “a una serie di relazioni sociali e scompare il concetto di persona come soggetto autonomo di decisione morale”. Concezione, questa, che ha la sua “prima causa” nell’ateismo, da cui “scaturisce la lotta di classe” e conduce a un “errore di più vasta portata”, che consiste “in una concezione della libertà umana che la sottrae all’obbedienza della verità e, quindi, anche al dovere di rispettare i diritti degli altri uomini”.

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Il 1989 non rappresenta solo la fine di un’epoca dominata da un sistema ideologico, politico ed economico, ateo e oppressivo. Mostrando anche quale sia la via per la soluzione dei problemi sociali che vanno “risolti col metodo del dialogo e della solidarietà, anziché con la lotta per la distruzione dell’avversario e con la guerra”. Infatti, secondo Giovanni Paolo II, i regimi marxisti sono caduti sì per l’inefficienza del sistema economico e per la violazione dei diritti umani, ma alla loro caduta si è arrivati “quasi dappertutto mediante una lotta pacifica che fa uso solo delle armi della verità e della giustizia”. Così gli “avvenimenti del 1989 offrono un esempio del successo della volontà di negoziato e dello spirito evangelico contro un avversario deciso a non lasciarsi vincolare dai principi morali”. Essi hanno, dunque, “un’importanza universale, perché ne discendono conseguenze positive e negative che interessano tutta la famiglia umana”, in particolare “i paesi del Terzo Mondo che sono alla ricerca della loro via di sviluppo”.

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Ma, afferma Papa Wojtyla, “la crisi del marxismo non elimina nel mondo le situazioni di ingiustizia e di oppressione, da cui il marxismo stesso, strumentalizzandole, traeva alimento”. Se il marxismo è fallito, i problemi d’ingiustizia e oppressione che voleva risolvere restano e diventano sempre più drammatici. Potrà risolverli il sistema che oggi appare “vincente” cioè il sistema capitalistico? Risponde Giovanni Paolo II: “È inaccettabile l’affermazione che la sconfitta del cosiddetto “socialismo reale” lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica”.

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La Chiesa ammette e difende la proprietà privata come strumento della libertà della persona, ma ribadisce che essa ha per sua natura una “funzione sociale” per il fatto che i beni della terra sono “primariamente” destinati a tutti gli uomini. Per la Chiesa, perciò, “la moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona che si esprime in campo economico come in tanti altri campi”. Tuttavia non si possono non denunciare i rischi di sfruttamento e di emarginazione delle fasce più deboli che tale sistema comporta, poiché la massima parte degli uomini non dispone degli strumenti che consentono di entrare in modo effettivo all’interno di un sistema di impresa. Così, “nonostante i grandi mutamenti avvenuti nelle società più avanzate, le carenze umane del capitalismo, con conseguente dominio delle cose sugli uomini, sono tutt’altro che scomparse”.

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Richiama l’attenzione su una nuova forma di proprietà, che “riveste un’importanza non inferiore a quella della terra: è la proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere; su questo tipo di proprietà si fonda la ricchezza delle nazioni industrializzate molto più che su quella delle risorse naturali”. La “moderna economia d’impresa” ci mette di fronte a ciò che conta veramente oggi. “Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e più tardi il capitale inteso come massa di macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l’uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere scientifico, la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e soddisfare il bisogno dell’altro”. L’enciclica richiama poi rischi e limiti: la maggioranza delle persone non ha strumenti per “entrare in modo effettivo ed umanamente degno all’interno di un sistema d’impresa”. Esistono così “molti membri, forse la maggioranza” sfruttati o emarginati e contesti di povertà drammatica nella città del Terzo Mondo.

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“Anzi, per i poveri, alla mancanza di beni materiali si è aggiunta quella del sapere e della conoscenza, che impedisce loro di uscire dallo stato di umiliante subordinazione”. Il Terzo Mondo soffre di miseria e chiede di ottenere “un equo accesso” al mercato internazionale. L’enciclica ricorda pure che aspetti tipici del Terzo Mondo si ritrovano anche nelle povertà dei paesi industrializzati, al cosiddetto Quarto Mondo.

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Giovanni Paolo II attira l’attenzione sui problemi specifici e sulle minacce delle “economie più avanzate”, puntando il dito sul diffondersi del “fenomeno del consumismo”. Se non si fa riferimento “all’immagine integrale dell’uomo” e ci si rivolge “direttamente ai suoi istinti”, “si possono creare abitudini di consumo e stili di vita oggettivamente illeciti e spesso dannosi per la sia salute fisica e spirituale. Il sistema economico non possiede al suo interno criteri che consentono di distinguere correttamente… È, perciò, necessaria e urgente una grande opera educativa e culturale”. Se si vuole un segnale traumatizzante di eccesso di consumismo, “un esempio vistoso di consumo superficiale è quello della droga”. Nel ricordare poi la necessità di una sana concezione etica della vita e del lavoro, il pontefice precisa che “non è male desiderare di vivere meglio, ma è sbagliato lo stile di vita… quando è orientato all’avere e non all’essere e vuole avere di più non per essere di più, ma per consumare l’esistenza in un godimento fine a se steso”.

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La Centesimus non trascura il problema ecologico, che sta diventando sempre più un tema presente nella riflessione della Chiesa. Il tema riporta alla vocazione dell’uomo nel mondo, che è quella di “originaria donazione delle cose da parte di Dio”. Se lo dimentica, “egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà… Si sostituisce a Dio e così finisce con il provocare la ribellione della natura”.

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Esiste anche “un ecologia umana” che va salvaguardata, la cui prima e fondamentale struttura è “la famiglia, santuario della vita”. Di qui i richiami pontifici per la difesa della vita contro l’aborto e le “campagne sistematiche contro la natalità”. È compito dello Stato “provvedere alla difesa e alla tutela di quei beni collettivi, come l’ambiente maturale e l’ambiente umano, la cui salvaguardia non può essere assicurata dai semplici meccanismi di mercato”. Un ostacolo alla crescita dei propri bisogni e del loro soddisfacimento “secondo una giusta gerarchia”, “può venire dalla manipolazione operata da quei mezzi di comunicazione di massa che impongono, con la forza di una ben orchestrata insistenza, mode e movimenti di opinioni senza che sia possibile sottoporli a una disamina critica”.  

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Si riafferma che uno stato va organizzato “secondo i tre poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario” per proteggere la libertà di tutti. È, questo, il principio dello stato di diritto nel quale “è sovrana la legge e non la volontà arbitraria degli uomini”. Il totalitarismo invece trova le sue radici nella negazione della “verità oggettiva, trascendente”. “Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forze del potere ciascuno tende ad utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone, per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo dei diritti dell’altro”. Il totalitarismo “non può tollerare che sia affermato un criterio oggettivo del bene e del male oltre la volontà dei governanti…e quindi, difendendo la propria libertà, la Chiesa difende la persona che deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini

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La difesa della “democrazia” che la Chiesa “apprezza”, comporta la risposta ad una pericolosa obiezione di infedeltà e ambiguità. “Oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo ed il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti sono convinti di conoscere la verità ed aderiscono  con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici”.  

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Parlando di cattolici e politica, il Papa tranquillizza l’opinione pubblica, sottolineando che la Chiesa è attenta ai pericoli del fanatismo e del fondamentalismo. “Non è di questo tipo la verità cristiana. Non essendo ideologica, la fede cristiana non presume di imprigionare in un rigido schema la cangiante realtà socio-politica e riconosce che la vita dell’uomo si realizza nella storia in condizioni diverse. La Chiesa pertanto, riaffermando costantemente la trascendente dignità della persona, ha come suo metodo il rispetto della libertà”. In altri termini si pone dunque il problema della laicità nella politica.

Parlando di cattolici e politica, il Papa tranquillizza l’opinione pubblica, sottolineando che la Chiesa è attenta ai pericoli del fanatismo e del fondamentalismo. “Non è di questo tipo la verità cristiana. Non essendo ideologica, la fede cristiana non presume di imprigionare in un rigido schema la cangiante realtà socio-politica e riconosce che la vita dell’uomo si realizza nella storia in condizioni diverse. La Chiesa pertanto, riaffermando costantemente la trascendente dignità della persona, ha come suo metodo il rispetto della libertà”. In altri termini si pone dunque il problema della laicità nella politica.

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Dopo il crollo dei totalitarismi e l’affermarsi della democrazia, è necessario esaminare le domande che si levano dalla società e vanno rilette con criteri di giustizia e moralità “e non secondo la forza elettorale”. “La Chiesa – si legge nell’enciclica – rispetta “la legittima autonomia dell’ordine democratico” e “non ha titolo per esprimere preferenze per l’una o l’altra soluzione”. In economia, invece, la prima responsabilità non è dello Stato, bensì dei singoli e dei diversi gruppi e associazioni in cui si articola la società. “E non potrebbe lo Stato assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini senza irreggimentare l’intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli”.

Dopo il crollo dei totalitarismi e l’affermarsi della democrazia, è necessario esaminare le domande che si levano dalla società e vanno rilette con criteri di giustizia e moralità “e non secondo la forza elettorale”. “La Chiesa – si legge nell’enciclica – rispetta “la legittima autonomia dell’ordine democratico” e “non ha titolo per esprimere preferenze per l’una o l’altra soluzione”. In economia, invece, la prima responsabilità non è dello Stato, bensì dei singoli e dei diversi gruppi e associazioni in cui si articola la società. “E non potrebbe lo Stato assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini senza irreggimentare l’intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli”.

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Era nelle intenzioni del santo padre Benedetto XVI commemorare solennemente il quarantesimo anniversario dell’enciclica Populorum Progressio, donata alla Chiesa e al mondo da papa Paolo VI il 26 marzo 1967, mediante la pubblicazione di una nuova enciclica. Vari motivi hanno fatto sì che la grande lettera Caritas in veritate, recasse la data del 29 giugno 2009 e venisse resa pubblica il successivo sette luglio, proprio alla vigilia dei lavori del G8 svoltisi a L’Aquila e hanno visto radunati i maggiori leader politici del mondo.

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L’enciclica, la terza del pontificato ratzingeriano, si presenta come un testo fecondo e complesso, ricco di numerosi insegnamenti e sollecitazioni, della cui totalità sarebbe ovviamente impossibile rendere conto. “Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. Di fronte agli enormi problemi dello sviluppo dei popoli che quasi ci spingono allo sconforto e alla resa, ci viene in aiuto la parola del Signore… Di fronte alla vastità del lavoro da compiere, siamo sostenuti dalla fede nella presenza di Dio… Solo se pensiamo di essere chiamati in quanto singoli e in quanto comunità a far parte della famiglia di Dio come suoi figli, saremo anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale.

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La maggior forza a servizio dello sviluppo è quindi un umanesimo cristiano, che ravvivi la carità e si faccia guidare dalla verità”. Il cuore dell’insegnamento sociale della Chiesa, che Benedetto XVI riafferma con forza, non è rappresentato da una dottrina politica o economica, ma dall’annuncio chiaro e forte che l’unica salvezza, anche per ciò che concerne la vita della società, proviene da Cristo. Soltanto la luce del Vangelo è in grado di illuminare la strada verso un ordine mondiale più giusto; soltanto l’umanesimo cristiano, quello cioè “aperto all’Assoluto, può guidarci nella promozione e realizzazione di forme di vita sociale e civile – nell’ambito delle strutture, delle istituzioni, della cultura, dell’ethos - salvaguardandoci dal rischio di cadere prigionieri delle mode del momento” (78).

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Solamente alla luce della rivelazione evangelica e dell’antropologia cristiana è possibile fornire alcune indicazioni utili per uscire dalla crisi profonda che attanaglia l’umanità: i vari capitoli della Caritas in veritate testimoniano proprio questa solida certezza e gli insegnamenti in essi contenuti sono pienamente comprensibili soltanto sulla base di una lettura autenticamente cristiana della storia dell’umanità e delle vicende del mondo. Molto rilevante appare a questo riguardo, lo stretto legame che il Pontefice stabilisce fra l’intelligenza e l’amore (30): il cristiano sa che la soluzione dei problemi non può essere affidata esclusivamente alle capacità intellettuali dell’uomo, perché soltanto chi ama è davvero in grado di aprire orizzonti concreti di speranza; la scienza, la politica, l’economia, la tecnica sono importantissime, ma rimarrebbero impotenti se non fossero vivificate dall’amore. Allo stesso modo, la sapienza cristiana ci dice che un’economia autoreferenziale e sorda ai richiami dell’etica finisce per dar luogo a ingiustizie gravissime.

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E ancora: “Occorre che nel mercato si aprano spazi per attività economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza perciò stesso rinunciare a produrre valore economico” (37). C’è bisogno anche “di opere che rechino impresso lo spirito del dono” (ib) senza contropartita. Tutto questo risulta chiaro se ci lasciamo illuminare dall’annuncio cristiano: ecco perché non si dà carità senza verità, ecco perché non esiste progresso in assenza di moralità e di responsabilità. Ciò appare evidente quando si prende in considerazione la realtà dello sviluppo tecnologico.

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La tecnica – afferma il Pontefice – è caratterizzata da un’ineliminabile ambiguità, e se non viene guidata e gestita da uomini altamente responsabili e attenti ai grandi valori etici, si trasforma in una minaccia piuttosto che in un’opportunità. Di qui la convinzione espressa con forza da Benedetto XVI: “Lo sviluppo deve comprendere una crescita spirituale oltre che materiale” (76), perché se rimaniamo ancorati a una visione meramente materialistica dell’uomo e degli avvenimenti che lo riguardano finiremo con il generare situazioni di squilibrio e di ingiustizia. Le moderne ideologie, seppur secondo prospettive diverse, sono accomunate da un riduzionismo materialista che non riesce a cogliere la dimensione spirituale e aperta alla trascendenza che contraddistingue l’essere umano, creato da Dio e – per dirla con sant’Agostino – chiamato all’incontro con Lui. Affermare la verità cristiana significa compiere la più alta opera di carità.

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Già la Centesimus Annus indicava delle vie, peraltro condivise da quanti propongono una visione umanizzante dei processi economici fissare obiettivi che siano simultaneamente di valore economico e di valore antropologico, ma che siano, soprattutto, concretamente realizzabili. In altri termini gli obiettivi, affinché siano veri e carismatici (cioè significativi nel fine ultimo e "donanti", più che "facenti"), dovranno essere, nel futuro più prossimo ed immediato, pianificati in termini di risultato economico e di significato umano e che non siano irraggiungibili. Si propone, insomma, una sorta di "contratto implicito nell'umanità e per l'umanità“.

Già la Centesimus Annus indicava delle vie, peraltro condivise da quanti propongono una visione umanizzante dei processi economici fissare obiettivi che siano simultaneamente di valore economico e di valore antropologico, ma che siano, soprattutto, concretamente realizzabili. In altri termini gli obiettivi, affinché siano veri e carismatici (cioè significativi nel fine ultimo e "donanti", più che "facenti"), dovranno essere, nel futuro più prossimo ed immediato, pianificati in termini di risultato economico e di significato umano e che non siano irraggiungibili. Si propone, insomma, una sorta di "contratto implicito nell'umanità e per l'umanità“.

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Le proposte della Caritas in veritate potranno quindi essere accettate e trovare realizzazione anche nei periodi successivi alla crisi attuale se si riconoscerà che esse corrispondono a un concreto interesse generale e individuale. Ci si deve cioè convincere che l'etica in economia produce risultati migliori. E ciò non è affatto impossibile se si regola la competizione sleale. Non è difficile dimostrare che l'etica applicata produce maggiore ricchezza, che è persino un vantaggio competitivo, che realizza risultati più sostenibili nel tempo. Il comportamento etico implica costi minori — si pensi solo a quelli di controllo — e permette di creare valore crescente grazie alla trasparenza e alla fiducia che a loro volta producono più certezze e meno rischi.

Le proposte della Caritas in veritate potranno quindi essere accettate e trovare realizzazione anche nei periodi successivi alla crisi attuale se si riconoscerà che esse corrispondono a un concreto interesse generale e individuale. Ci si deve cioè convincere che l'etica in economia produce risultati migliori. E ciò non è affatto impossibile se si regola la competizione sleale. Non è difficile dimostrare che l'etica applicata produce maggiore ricchezza, che è persino un vantaggio competitivo, che realizza risultati più sostenibili nel tempo. Il comportamento etico implica costi minori — si pensi solo a quelli di controllo — e permette di creare valore crescente grazie alla trasparenza e alla fiducia che a loro volta producono più certezze e meno rischi.

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Qualcuno diffonde ancora l'idea che la civilizzazione dell'economia — l'applicazione cioè di principi etici alle attività economiche — significhi minore produzione di ricchezza, rallentamento del processo economico, meno vantaggi competitivi e una scarsa attenzione alla misurazione dei risultati in base al profitto. In realtà è vero il contrario.È la mancanza di etica a produrre rischi di distruzione di ricchezza, e la storia della crisi attuale non dovrebbe lasciare dubbi in proposito. È lo spreco di risorse a generare perdite per la comunità. È lo sviluppo truccato a innescare diseconomie e ingiustizie. È l'asservimento del cittadino agli esclusivi bisogni dello Stato a dare vita alla debolezza e alla conseguente sfiducia verso le istituzioni.

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Compendio della dottrina sociale della Chiesa

Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, promulgato il 25 ottobre 2004, dal Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, è una raccolta elaborata per esporre in maniera sintetica, ma esauriente, l’insegnamento sociale della Chiesa. È una elaborazione sistematica che interpreta tutto il percorso compiuto dal Magistero sociale ed è offerta a tutti gli uomini per aiutarli ad orientarsi nella complessità del vivere.

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Il testo del Compendio si compone dell’introduzione, di tre parti e di una conclusione. L’introduzione ci prospetta l’impegno per “Un umanesimo integrale e solidale” (nn. 1-19) e ci presenta una Chiesa che «cammina insieme a tutta l’umanità lungo le strade della storia» (n. 18).La parte prima si sofferma sulla dimensione teologica, offre cioè i principi fondamentali «sia per interpretare che per risolvere gli attuali problemi della convivenza umana» (Centesimus annus, 55).

Il testo del Compendio si compone dell’introduzione, di tre parti e di una conclusione. L’introduzione ci prospetta l’impegno per “Un umanesimo integrale e solidale” (nn. 1-19) e ci presenta una Chiesa che «cammina insieme a tutta l’umanità lungo le strade della storia» (n. 18).La parte prima si sofferma sulla dimensione teologica, offre cioè i principi fondamentali «sia per interpretare che per risolvere gli attuali problemi della convivenza umana» (Centesimus annus, 55).

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Nei quattro capitoli trovano sviluppo: 1. “Il disegno di amore di Dio per l’umanità” (nn. 20-59) attraverso la visione del volto di Dio, che «risplende in pienezza nel volto di Gesù Cristo crocifisso e risorto» (n. 31); 2. “Missione della Chiesa e dottrina sociale” (nn. 60-104) rapporto illuminato da una Chiesa che «è tra gli uomini la tenda della compagnia di Dio» (n. 60); 3. “La persona umana e i suoi diritti” (nn. 105-159) riflessione fondata sulla Chiesa che «indica e intende percorrere la via dell’umanità» (n. 105), dal momento in cui il Figlio di Dio si è incarnato e si è fatto uomo, Dio ha detto la sua passione per l’uomo e la Chiesa non può che fare altrettanto; 4. “I principi della dottrina sociale della Chiesa” (nn. 160-208) ci ricorda che «il fine della vita sociale è il bene comune storicamente realizzabile» (n. 168), non le utopie, ma progetti che rispettano la persona, il bene comune, la solidarietà e la sussidiarietà.

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La parte seconda presenta la dottrina sociale come «strumento di evangelizzazione» (Centesimus annus, 54) ed è composta da sette capitoli, ognuno dei quali si apre con un excursus biblico: 5. “La famiglia cellula vitale della società” (nn. 209-254) ridadisce che «senza famiglie forti nella comunione e stabili nell’impegno, i popoli si indeboliscono» (n. 213);6. “Il lavoro umano” (nn. 255-322) indica la persona come «il metro della dignità del lavoro (n. 271), l’attenzione alla dignità della persona fa scaturire un lavoro decente (cfr CV 63);7. “La vita economica” (nn. 323-376) ribadisce come solo «una finanza pubblica equa, efficiente, efficace, produce effetti virtuosi sull’economia» (n. 355);

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8. “La comunità politica” (nn. 377-427) si basa sul l’asserto che «l’uomo è una persona, non solo un individuo» (n. 391);9. “La comunità internazionale” (nn. 428-450) è fondata su «verità, giustizia, solidarietà, libertà» (n. 434), quattro pilastri per un’autentica convivenza tra le nazioni.10. “Salvaguardare l’ambiente” (nn. 451-487) è custodire il mondo «come traccia di Dio, luogo nel quale si disvela la Sua potenza creatrice, provvidente e redentrice» (n. 487)11. “La promozione della pace” (nn. 488-520) ci ricorda l’eterna verità: «al centro del “Vangelo della pace” (Ef 6,15) resta il mistero della croce» (n. 493), costruire la pace non è fare solo marce, ma anzitutto cercare Dio, Signore della pace, ed essere in pace con se stessi, il prossimo, il creato.

8. “La comunità politica” (nn. 377-427) si basa sul l’asserto che «l’uomo è una persona, non solo un individuo» (n. 391);9. “La comunità internazionale” (nn. 428-450) è fondata su «verità, giustizia, solidarietà, libertà» (n. 434), quattro pilastri per un’autentica convivenza tra le nazioni.10. “Salvaguardare l’ambiente” (nn. 451-487) è custodire il mondo «come traccia di Dio, luogo nel quale si disvela la Sua potenza creatrice, provvidente e redentrice» (n. 487)11. “La promozione della pace” (nn. 488-520) ci ricorda l’eterna verità: «al centro del “Vangelo della pace” (Ef 6,15) resta il mistero della croce» (n. 493), costruire la pace non è fare solo marce, ma anzitutto cercare Dio, Signore della pace, ed essere in pace con se stessi, il prossimo, il creato.

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Nella parte terza si approfondisce il messaggio sociale del Vangelo come «fondazione e motivazione per l’azione» (Centesimus annus, 57). Nell’unico capitolo “Dottrina sociale e azione ecclesiale” (nn. 521-574), a partire dall’affermazione che «Dio in Gesù Cristo salva ogni uomo e tutto l’universo» (n. 526) si parla anche dell’impegno dei fedeli laici: «È compito proprio del fedele laico annunciare il Vangelo con un’esemplare testimonianza di vita, radicata in Cristo e vissuta nelle realtà temporali: famiglia; impegno professionale nell’ambito del lavoro, della cultura, della scienza e della ricerca; esercizio delle responsabilità sociali, economiche, politiche» (n. 543).

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La conclusione è “Per una civiltà dell’amore” (nn. 575-583) con l’auspicio che «la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana familiare e sociale» (n. 579). Il Compendio si chiude con una preghiera di Santa Teresa di Gesù Bambino: «Alla sera di questa vita comparirò davanti a te con le mani vuote. Possa Tu rivestirmi con la Tua giustizia e quindi ricevere dal Tuo amore l’eterno possesso di te stesso» (n. 583). Quindi il Compendio si apre con l’affresco di una Chiesa pellegrina e si conclude con la Chiesa dei santi che continua a pregare il Signore perché il Signore riempia queste nostre mani vuote della sua giustizia e del suo amore.

La conclusione è “Per una civiltà dell’amore” (nn. 575-583) con l’auspicio che «la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana familiare e sociale» (n. 579). Il Compendio si chiude con una preghiera di Santa Teresa di Gesù Bambino: «Alla sera di questa vita comparirò davanti a te con le mani vuote. Possa Tu rivestirmi con la Tua giustizia e quindi ricevere dal Tuo amore l’eterno possesso di te stesso» (n. 583). Quindi il Compendio si apre con l’affresco di una Chiesa pellegrina e si conclude con la Chiesa dei santi che continua a pregare il Signore perché il Signore riempia queste nostre mani vuote della sua giustizia e del suo amore.