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1 IL PENSIERO E LA TEOLOGIA DI SAN PAOLO BENEDETTO XVI Cari fratelli e sorelle, In questa prima Udienza generale del 2009, desidero formulare a tutti voi fervidi auguri per il nuovo anno appena iniziato. Ravviviamo in noi l’impegno di aprire a Cristo la mente ed il cuore, per essere e vivere da veri amici suoi. La sua compagnia farà sì che quest’anno, pur con le sue inevitabili difficoltà, sia un cammino pieno di gioia e di pace. Solo, infatti, se resteremo uniti a Gesù, l’anno nuovo sarà buono e felice. L’impegno di unione con Cristo è l’esempio che ci offre anche san Paolo. Proseguendo le catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a esercitare. In passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto anti-cultuale dell’Apostolo, di una “spiritualizzazione” dell’idea del culto. Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella croce di Cristo una svolta storica, che trasforma e rinnova radi calmente la realtà del culto. Ci sono soprattutto tre testi della Lettera ai Romani nei quali appare questa nuova visione del culto. 1. In Rm 3,25 , dopo aver parlato della “redenzione realizzata da Cristo Gesù”, Paolo continua con una formula per noi misteriosa e dice così: Dio lo “ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue”. Con questa espressione per noi piuttosto strana – “strumento di espiazione” – san Paolo accenna al cosiddetto “propiziatorio” dell’antico tempio, cioè il coperchio dell’arca dell’alleanza, che era pensato come punto di contatto tra Dio e l’uomo, punto della misteriosa presenza di Lui nel mondo degli uomini. Questo “propiziatorio”, nel grande giorno della riconciliazione – “yom kippur” veniva asperso col sangue di animali sacrificati – sangue che simbolicamente portava i peccati dell’anno trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell’abisso della bontà divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita cominciava di nuovo. San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita. Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce. Quindi non è questa una spiritualizzazione di un culto reale, ma al contrario il culto reale, il vero amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e provvi sorio. La croce di Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale, corrispondendo alla realtà di Dio e dell’uomo.

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IL PENSIERO E LA TEOLOGIA DI SAN PAOLO BENEDETTO XVI

Cari fratelli e sorelle,

In questa prima Udienza generale del 2009, desidero formulare a tutti voi fervidi auguri per il nuovo anno appena iniziato. Ravviviamo in noi l’impegno di aprire a Cristo la mente ed il

cuore, per essere e vivere da veri amici suoi. La sua compagnia farà sì che quest’anno, pur con le sue inevitabili difficoltà, sia un cammino pieno di gioia e di pace. Solo, infatti, se resteremo uniti a Gesù, l’anno nuovo sarà buono e felice. L’impegno di unione con Cristo è l’esempio che ci offre anche san Paolo. Proseguendo le catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a esercitare. In passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto anti-cultuale dell’Apostolo,

di una “spiritualizzazione” dell’idea del culto. Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella croce di Cristo una svolta storica, che trasforma e rinnova radicalmente la realtà del culto. Ci sono soprattutto tre testi della Lettera ai Romani nei quali appare questa nuova visione del culto.

1. In Rm 3,25, dopo aver parlato della “redenzione realizzata da Cristo Gesù”, Paolo continua con una formula per noi misteriosa e dice così: Dio lo “ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue”. Con questa espressione per noi piuttosto strana – “strumento di espiazione” – san Paolo accenna al cosiddetto “propiziatorio” dell’antico tempio, cioè il coperchio dell’arca dell’alleanza, che era pensato come punto di contatto tra Dio e l’uomo, punto della misteriosa presenza di Lui nel mondo degli uomini. Questo “propiziatorio”, nel grande giorno della riconciliazione – “yom kippur” – veniva asperso col sangue di animali sacrificati – sangue che simbolicamente portava i peccati dell’anno trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell’abisso della bontà divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita cominciava di nuovo. San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita. Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce. Quindi non è questa una spiritualizzazione di un culto reale, ma al contrario il culto reale, il vero amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e provvisorio. La croce di Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale, corrispondendo alla realtà di Dio e dell’uomo.

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Già prima della distruzione esterna del tempio per Paolo l’era del tempio e del suo culto è finita: Paolo si trova qui in perfetta consonanza con le parole di Gesù, che aveva annunciato la fine del tempio ed annunciato un altro tempio “non fatto da mani d’uomo” – il tempio del suo corpo resuscitato (cfr Mc 14,58; Gv 2,19ss). Questo è il primo testo.

2. Il secondo testo del quale vorrei oggi parlare si trova nel primo versetto del capitolo 12 della Lettera ai Romani. Lo abbiamo ascoltato e lo ripeto ancora: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. In queste parole si verifica un apparente paradosso: mentre il sacrificio esige di norma la morte della vittima, Paolo ne parla invece in rapporto alla vita del cristiano. L'espressione “presentare i vostri corpi”, stante il successivo concetto di sacrificio, assume la sfumatura cultuale di “dare in oblazione, offrire”. L’esortazione a “offrire i corpi” si riferisce all’intera persona; infatti, in Rm 6, 13 egli invita a “presentare voi stessi”. Del resto, l’esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano coincide con l’invito a “glorificare Dio nel vostro corpo” (1 Cor 6,20): si tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana, fatta di visibilità relazionale e percepibile. Un comportamento del genere viene da Paolo qualificato come “sacrificio vivente, santo, gradito a Dio”. È qui che incontriamo appunto il vocabolo “sacrificio”. Nell'uso corrente questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo sgozzamento di un animale, di cui una parte può essere bruciata in onore degli dèi e un'altra parte essere consumata dagli offerenti in un banchetto. Paolo lo applica invece alla vita del cristiano. Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di tre aggettivi. Il primo – “vivente” – esprime una vitalità. Il secondo – “santo” – ricorda l'idea paolina di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – “gradito a Dio” – richiama forse la frequente espressione biblica del sacrificio “in odore di soavità” (cfr Lev 1,13.17; 23,18; 26,31; ecc.). Subito dopo, Paolo definisce così questo nuovo modo di vivere: questo è “il vostro culto spirituale”. I commentatori del testo sanno bene che l'espressione greca (tēn logikēn latreían) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce: “rationabile obsequium”. La stessa parola “rationabile” appare nella prima Preghiera eucaristica, il Canone Romano: in esso si prega che Dio accetti questa offerta come “rationabile”. La consueta traduzione italiana “culto spirituale” non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di quello latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o addirittura solo metaforico, ma di un culto più concreto e realistico – un culto nel quale l’uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente. Questa formula paolina, che ritorna poi nella Preghiera eucaristica romana, è frutto di un lungo sviluppo dell’esperienza religiosa nei secoli antecedenti a Cristo. In tale esperienza si incontrano sviluppi teologici dell’Antico Testamento e correnti del pensiero greco. Vorrei mostrare almeno qualche elemento di questo sviluppo. I Profeti e molti Salmi criticano fortemente i sacrifici cruenti del tempio. Dice per esempio il Salmo 50 (49), in cui è Dio che parla: “Se avessi fame a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode…” (vv 12–14). Nello stesso senso dice il Salmo seguente, 51 (50): “..non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (vv 18s). Nel Libro di Daniele, al tempo della nuova distruzione del tempio da parte del regime ellenistico (II secolo a. C.) troviamo un nuovo passo nella stessa direzione. In mezzo al fuoco – cioè alla persecuzione, alla sofferenza –Azaria prega così: “Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia.

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Potessimo essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori… Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito …” (Dan 3,38ss). Nella distruzione del santuario e del culto, in questa situazione di privazione di ogni segno della presenza di Dio, il credente offre come vero olocausto il cuore contrito – il suo desiderio di Dio. Vediamo uno sviluppo importante, bello, ma con un pericolo. C’è una spiritualizzazione, una moralizzazione del culto: il culto diventa solo cosa del cuore, dello spirito. Ma manca il corpo, manca la comunità. Così si capisce per esempio che il Salmo 51 e anche il Libro di Daniele, nonostante la critica del culto, desiderano il ritorno al tempo dei sacrifici. Ma si tratta di un tempo rinnovato, un sacrificio rinnovato, in una sintesi che ancora non era prevedibile, che ancora non si poteva pensare. Ritorniamo a san Paolo. Egli è erede di questi sviluppi, del desiderio del vero culto, nel quale l’uomo stesso diventi gloria di Dio, adorazione vivente con tutto il suo essere. In questo senso egli dice ai Romani: “Offrite i

vostri corpi come sacrificio vivente…: è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Paolo ripete così quanto aveva già indicato nel capitolo 3: Il tempo dei sacrifici di animali, sacrifici di sostituzione, è finito. È venuto il tempo del vero culto. Ma qui c’è anche il pericolo di un malinteso: si potrebbe facilmente interpretare questo nuovo culto in un senso moralistico: offrendo la nostra vita facciamo noi il vero culto. In questo modo il culto con gli animali sarebbe sostituito dal moralismo: l’uomo stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente non era l’intenzione di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque interpretare questo “culto spirituale, ragionevole”? Paolo suppone sempre che noi siamo divenuti “uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28), che siamo morti nel battesimo (cfr Rm 1) e viviamo adesso con Cristo, per Cristo, in Cristo. In questa unione – e solo così – possiamo divenire in Lui e con Lui “sacrificio vivente”, offrire il “culto vero”. Gli animali sacrificati avrebbero dovuto sostituire l’uomo, il dono di sé dell’uomo, e non potevano. Gesù Cristo,

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nella sua donazione al Padre e a noi, non è una sostituzione, ma porta realmente in sé l’essere umano, le nostre colpe ed il nostro desiderio; ci rappresenta realmente, ci assume in sé. Nella comunione con Cristo, realizzata nella fede e nei sacramenti, diventiamo, nonostante tutte le nostre insufficienze, sacrificio vivente: si realizza il “culto vero”. Questa sintesi sta al fondo del Canone romano in cui si prega affinché questa offerta diventi “rationabile” – che si realizzi il culto spirituale. La Chiesa sa che nella Santissima Eucaristia l’autodonazione di Cristo, il suo sacrificio vero diventa presente. Ma la Chiesa prega che la comunità celebrante sia realmente unita con Cristo, sia trasformata; prega perché noi stessi diventiamo quanto non possiamo essere con le nostre forze: offerta “rationabile” che piace a Dio. Così la Preghiera eucaristica interpreta in modo giusto le parole di san Paolo. Sant’Agostino ha chiarito tutto questo in modo meraviglioso nel 10° libro della sua Città di Dio. Cito solo due frasi. “Questo è il sacrificio dei cristiani: pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo”… “Tutta la comunità (civitas) redenta, cioè la congregazione e la società dei santi, è offerta a Dio mediante il Sommo Sacerdote che ha donato se stesso” (10,6: CCL 47, 27 ss).

3. Alla fine ancora una brevissima parola sul terzo testo della Lettera ai Romani concernente il nuovo culto. San Paolo dice così nel cap. 15: “La grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere “liturgo” di Cristo Gesù per i pagani, di essere sacerdote (hierourgein) del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata nello Spirito

Santo” (15, 15s). Vorrei sottolineare solo due aspetti di questo testo meraviglioso e quanto alla terminologia unica nelle lettere paoline. Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione missionaria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come azione sacerdotale. Annunciare il Vangelo per unire i popoli nella comunione del Cristo risorto è una azione “sacerdotale”. L’apostolo del Vangelo è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sacrificio. E poi il secondo aspetto: la meta

dell’azione missionaria è – così possiamo dire – la liturgia cosmica: che i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, “oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo”. Qui appare l’aspetto dinamico, l’aspetto della speranza nel concetto paolino del culto: l’autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comunione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’Uomo esemplare, uno con Dio, il mondo diventa così come tutti noi lo desideriamo: specchio dell’amore divino. Questo dinamismo è presente sempre nell’Eucaristia – questo dinamismo deve ispirare e formare la nostra vita. E con questo dinamismo cominciamo il nuovo anno. Grazie per la vostra pazienza.

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BENEDETTO XVI

San Paolo

La visione teologica delle Lettere ai Colossesi e agli Efesini

Cari fratelli e sorelle,

tra le Lettere dell'epistolario paolino, ce ne sono due, quelle ai Colossesi e agli Efesini, che in una certa misura si possono considerare gemelle. Infatti, l'una e l'altra hanno dei modi di dire

che si trovano solo in esse, ed è stato calcolato che più di un terzo delle parole della Lettera ai Colossesi si trova anche in quella agli Efesini. Per esempio, mentre in Colossesi si legge letteralmente l'invito a “esortarvi con salmi, inni, canti spirituali, con gratitudine cantando a Dio con i vostri cuori” (Col 3,16), in Efesini si raccomanda ugualmente di “parlare tra di voi con salmi e inni e canti spirituali, cantando e lodando il Signore con il vostro cuore” (Ef 5,19). Potremmo meditare su queste parole: il cuore deve cantare, e così anche la voce, con salmi e inni per entrare nella tradizione della preghiera di tutta la Chiesa dell'Antico e del Nuovo Testamento;

impariamo così ad essere insieme con noi e tra noi, e con Dio. Inoltre, in entrambe le Lettere si trova un cosiddetto “codice domestico”, assente nelle altre Lettere paoline, cioè una serie di raccomandazioni rivolte a mariti e mogli, a genitori e figli, a padroni e schiavi (cfr rispettivamente Col 3,18-4,1 e Ef 5,22-6,9). Più importante ancora è constatare che solo in queste due Lettere è attestato il titolo di “capo”, kefalé, dato a Gesù Cristo. E questo titolo viene impiegato a un doppio livello. In un primo senso, Cristo è inteso come capo della Chiesa (cfr Col 2,18-19 e Ef 4,15-16). Ciò significa due cose: innanzitutto, che egli è il governante, il dirigente, il responsabile che guida la comunità cristiana come suo leader e suo Signore (cfr Col 1,18: “Egli è il capo del corpo, cioè della Chiesa”; e poi l’altro significato è che lui è come la testa che innerva e vivifica tutte le membra del corpo a cui è preposta (infatti, secondo Col2,19 bisogna “tenersi fermi al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione”): cioè non è solo uno che comanda, ma uno che organicamente è connesso con noi, dal quale viene anche la forza di agire in modo retto. In entrambi i casi, la Chiesa è considerata sottoposta a Cristo, sia per seguire la sua superiore conduzione - i comandamenti -, sia anche per accogliere tutti gli influssi vitali che da Lui promanano. I suoi comandamenti non sono solo parole, comandi, ma sono forze vitali che vengono da Lui e ci aiutano. Questa idea è particolarmente sviluppata in Efesini, dove persino i ministeri della Chiesa, invece di essere ricondotti allo Spirito Santo (come 1 Cor 12) sono conferiti dal Cristo risorto: è Lui che “ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri” (4,11). Ed è da Lui che “tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, ... riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità” (4,16). Cristo infatti è tutto teso a “farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5,27). Con questo ci dice che la forza con la quale costruisce la Chiesa, con la quale guida la Chiesa, con la quale dà anche la giusta direzione alla Chiesa, è proprio il suo amore. Quindi il primo significato è Cristo Capo della Chiesa: sia quanto alla conduzione, sia, soprattutto, quanto alla ispirazione e vitalizzazione organica in virtù del suo amore. Poi, in un secondo senso, Cristo è considerato non solo come capo della Chiesa, ma come capo delle potenze celesti e del cosmo intero. Così in Colossesi leggiamo che Cristo “ha privato della loro forza i principati e le potestà e ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale” di Lui (2,15).

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Analogamente in Efesini troviamo scritto che, con la sua risurrezione, Dio pose Cristo “al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro” (1,21). Con queste parole le due Lettere ci consegnano un messaggio altamente positivo e fecondo. Questo: Cristo non ha da temere nessun eventuale concorrente, perché è superiore a ogni qualsivoglia forma di potere che presumesse di umiliare l'uomo. Solo Lui “ci ha amati e ha dato se stesso per noi” (Ef 5,2). Perciò, se siamo uniti a Cristo, non dobbiamo temere nessun nemico e nessuna avversità; ma ciò significa dunque che dobbiamo tenerci ben saldi a Lui, senza allentare la presa! Per il mondo pagano, che credeva in un mondo pieno di spiriti, in gran parte pericolosi e contro i quali bisognava difendersi, appariva come una vera liberazione l'annuncio che Cristo era il solo vincitore e che chi era con Cristo non aveva da temere nessuno. Lo stesso vale anche per il paganesimo di oggi, poiché anche gli attuali seguaci di simili ideologie vedono il mondo pieno di poteri pericolosi. A costoro occorre annunciare che Cristo è il vincitore, così che chi è con Cristo, chi resta unito a Lui, non deve temere niente e nessuno. Mi sembra che questo sia importante anche per noi, che dobbiamo imparare a far fronte a tutte le paure, perchè Lui è sopra ogni dominazione, è il vero Signore del mondo. Addirittura il cosmo intero è sottoposto a Lui, e a Lui converge come al proprio capo. Sono celebri le parole della Lettera agli Efesini, che parla del progetto di Dio di “ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra” (1,10). Analogamente nella Lettera ai Colossesi si legge che “per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili equelle invisibili” (1,16) e che “con il sangue della sua croce ... ha rappacificato le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (1,20). Quindi non c’è, da una parte, il grande mondo materiale e dall'altra questa piccola realtà della storia della nostra terra, il mondo delle persone: tutto è uno in Cristo. Egli è il capo del cosmo; anche il cosmo è creato da Lui, è creato per noi in quanto siamo uniti a Lui. È una visione razionale e personalistica dell'universo. E direi una visione più universalistica di questa non era possibile concepire, ed essa conviene soltanto al Cristo risorto. Cristo è il Pantokrátor, a cui sono sottoposte tutte le cose: il pensiero va appunto al Cristo Pantocratòre, che riempie il catino absidale delle chiese bizantine, a volte raffigurato seduto in alto sul mondo intero o addirittura su di un arcobaleno per indicare la sua equiparazione a Dio stesso, alla cui destra è assiso (cfr Ef 1,20; Col 3,1), e quindi anche la sua ineguagliabile funzione di conduttore dei destini umani. Una visione del genere è concepibile solo da parte della Chiesa, non nel senso che essa voglia indebitamente appropriarsi di ciò che non le spetta, ma in un altro duplice senso: sia in quanto la Chiesa riconosce che in qualche modo Cristo è più grande di lei, dato che la sua signoria si estende anche al di là dei suoi confini, e sia in quanto solo la Chiesa è qualificata come Corpo di Cristo, non il cosmo. Tutto questo significa che noi dobbiamo considerare positivamente le realtà terrene, poiché Cristo le ricapitola in sé, e in pari tempo dobbiamo vivere in pienezza la nostra specifica identità ecclesiale, che è la più omogenea all'identità di Cristo stesso. C'è poi anche un concetto speciale, che è tipico di queste due Lettere, ed è il concetto di “mistero”. Una volta si parla del “mistero della volontà” di Dio (Ef 1,9) e altre volte del “mistero di Cristo” (Ef 3,4; Col 4,3) o addirittura del “mistero di Dio, che è Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza” (Col 3,2-3). Esso sta a significare l'imperscrutabile disegno divino sulle sorti dell'uomo, dei popoli e del mondo. Con questo linguaggio le due Epistole ci dicono che è in Cristo che si trova il compimento di questo mistero. Se siamo con Cristo, anche se non possiamo intellettualmente capire tutto, sappiamo di essere nel nucleo del “mistero” e sulla strada della verità. È Lui nella sua totalità, e non solo in un aspetto della sua persona o in un momento della sua esistenza, che reca in sé la pienezza dell'insondabile piano divino di salvezza. In Lui prende forma quella che viene chiamata “la multiforme sapienza di Dio” (Ef 3,10), poiché in Lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). D'ora in poi, quindi, non è possibile pensare e adorare il beneplacito di Dio, la sua sovrana disposizione, senza confrontarci personalmente con Cristo in persona, in

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cui quel “mistero” si incarna e può essere tangibilmente percepito. Si perviene così a contemplare la “ininvestigabile ricchezza di Cristo” (Ef 3,8), che sta oltre ogni umana comprensione. Non che Dio non abbia lasciato delle impronte del suo passaggio, poiché è Cristo stesso l'orma di Dio, la sua impronta massima; ma ci si rende conto di “quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità” di questo mistero “che sorpassa ogni conoscenza” (Ef 3,18-19). Le mere categorie intellettuali qui risultano insufficienti, e, riconoscendo che molte cose stanno al di là delle nostre capacità razionali, ci si deve affidare alla contemplazione umile e gioiosa non solo della mente ma anche del cuore. I Padri

della Chiesa, del resto, ci dicono che l’amore comprende di più che la sola ragione. Un'ultima parola va detta sul concetto, già accennato sopra, concernente la Chiesa come partner sponsale di Cristo. Nella seconda Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo aveva paragonato la comunità cristiana a una fidanzata, scrivendo così: “Io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2 Cor11,2). La Lettera agli Efesini sviluppa quest’immagine, precisando che la Chiesa non è solo una promessa sposa, ma è la reale sposa di Cristo. Egli, per così dire, se l’è conquistata, e lo ha fatto a prezzo della sua vita: come dice il testo, “ha dato se stesso per lei” (Ef 5,25). Quale dimostrazione d'amore può essere più grande di questa? Ma, in più, egli è preoccupato per la sua bellezza: non solo di quella già acquisita con il battesimo, ma anche di quella che deve crescere ogni giorno grazie ad una vita ineccepibile, “senza ruga né macchia”, nel suo comportamento morale (cfr Ef 5,26-27). Da qui alla comune esperienza del matrimonio cristiano il passo è breve; anzi, non è neppure ben chiaro quale sia per l'autore della Lettera il punto di riferimento iniziale: se sia il rapporto Cristo-Chiesa, alla cui luce pensare l'unione dell'uomo e della donna, oppure se sia il dato esperienziale dell'unione coniugale, alla cui luce pensare il rapporto tra Cristo e la Chiesa. Ma ambedue gli aspetti si illuminano reciprocamente: impariamo che cosa è il matrimonio nella luce della comunione di Cristo e della Chiesa, impariamo come Cristo si unisce a noi pensando al mistero del matrimonio. In ogni caso, la nostra Lettera si pone quasi a metà strada tra il profeta Osea, che indicava il rapporto tra Dio e il suo popolo nei termini di nozze già avvenute (cfr Os 2,4.16.21), e il Veggente dell’Apocalisse, che prospetterà l'incontro escatologico tra la Chiesa e l’Agnello come uno sposalizio gioioso e indefettibile (cfr Ap 19,7-9; 21,9). Ci sarebbe ancora molto da dire, ma mi sembra che, da quanto esposto, già si possa capire che queste due Lettere sono una grande catechesi, dalla quale possiamo imparare non solo come essere buoni cristiani, ma anche come divenire realmente uomini. Se cominciamo a capire che il cosmo è l'impronta di Cristo, impariamo il nostro retto rapporto con il cosmo, con tutti i problemi della conservazione del cosmo. Impariamo a vederlo con la ragione, ma con una ragione mossa dall’amore, e con l’umiltà e il rispetto che consentono di agire in modo retto. E se pensiamo che la Chiesa è il Corpo di Cristo, che Cristo ha dato se stesso per essa, impariamo come vivere con Cristo l'amore reciproco, l'amore che ci unisce a Dio e che ci fa vedere nell'altro l'immagine di Cristo, Cristo stesso. Preghiamo il Signore che ci aiuti a meditare bene la Sacra Scrittura, la sua Parola, e imparare così realmente a vivere bene.

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“Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo ma Cristo vive in me. Questa vita che io vivo nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me”(San Paolo in Galati 2,20)

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In un corpo unico carismi diversificati

Articolo dell’esegeta e specialista in san Paolo: Giuseppe Barbaglio

San Paolo si serve, in modo libero e originale, di una metafora presente anche nel mondo greco-romano per evidenziare la vita interna della Chiesa e la sua relazione fondante con il Signore. In essa i ministeri e i carismi sono concessi ai singoli per l'edificazione dell'intera comunità.

È un'originalità di Paolo comprendere la comunità cristiana come un corpo, metafora presente al-lora nel mondo greco-romano per definire sia l'organizzazione di una città o di uno stato sia l'organicità del cosmo. Egli se ne serve in modo libero per evidenziare, da un lato i rapporti all'interno della "società" ecclesiale («Un solo corpo e molte membra») e dall'altro la relazione fondante con il Signore («Il corpo di Cristo», «un corpo in Cristo»). L'Apostolo ne parla soprattutto in 1 Cor 12 trattando della "dotazione" carismatica della comunità cristiana, in concreto dell'attuazione dei carismi, doni di grazia funzionali alla vita Ecclesiae, quando i credenti di Corinto sono riuniti «in assemblea» (en ekklésia-i, 1Cor 11,18). Subito precisa che è il medesimo Spirito che ripartisce (diairoun) i suoi «doni di grazia» (charismata) tra tutti i credenti, nessuno escluso, in modo che nessuno può dire di possederli tutti e nessuno può sconsolatamente confessare di esserne del tutto privo. «Ci sono ripartizioni di doni di grazia (diaireseis charismatón), ma è lo stesso Spirito» (12,4). Nello stesso tempo ne chiarisce la finalità sociale: «A ognuno però viene data la manifestazione dello Spirito a scopo di utilità (pros to sym-pheron)» (12,7), cioè per la crescita della costruzione (oikodomé) della comunità, come insisterà nel cap. 14: ciascun credente vi è attivato dal carisma dello Spirito. Segue un elenco esemplificativo: parola di sapienza, parola di conoscenza, fede taumaturgica, doni di grazia di guarigioni, operazioni di miracoli, profezia, capacità di discernere gli spiriti, diversi generi di lingue, interpretazione delle lingue.

Ogni membro è necessario

A questo punto (12,12ss) egli fa ricorso alla metafora del corpo umano di cui sottolinea l'unità, «un solo corpo», e parimenti la pluralità delle membra, l'una non senza l'altra, pena la negazione dell'organismo umano che non può essere formato da un solo membro o anche quando le membra sono ridotte ad unum: «Se il piede dicesse: "Poiché non sono mano, non faccio parte del corpo", non per questo non fa parte del corpo; e se l'orecchio dicesse: "Poiché non sono occhio, non faccio parte del corpo", non per questo non fa parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udi-to? Se tutto il corpo fosse udito, dove sarebbe l'odorato?» (12,15-17). Ciò che costituisce un corpo è la pluralità diversificata delle membra (non solo più membra, ma più membra diverse),

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le une bisognose delle altre - dunque complementarità delle membra -, tutte parimenti necessa-rie per il benessere dell'organismo, vigendo nel corpo la legge naturale della mutua solidarietà in rapporto al bisogno di queste o di quelle: è infatti volontà del creatore che «le une debbano prendersi cura delle altre» (12,25). E, accanto alla reciprocità, la legge della condivisione di gioia e sofferenza: «Un membro soffre? Tutte le membra soffrono con lui. Un membro è glorificato? Tutte le membra gioiscono con lui» (12,26). Ed ecco la valenza metaforica del corpo: «Bene, voi siete corpo di Cristo (soma Christou) e membra ciascuno per la sua parte» (12,27). "Voi" sono i credenti di Corinto; "corpo di Cristo" vale della comunità locale e in atto, cioè riunita "in assemblea" (en ekklésia-i: 1Cor 11,18). Più che riferirsi all'ebraico qahal, indicativo delle assemblee del popolo di Dio, mi pare che l'apostolo s'ispiri qui all'exemplum delle ekklésia-i delle città greche, quando i cittadini (i politai, non tutti gli abitanti) si riunivano a deliberare della res publica; lo dimostra il valore locale e "attuale" della ekklésia, piccola comunità del luogo riunita in assemblea. Analogamente vale del gruppo di cristiani di Corinto, o di Tessalonica o delle «Chiese della Galazia». Si noti che il nome più comune usato da Paolo per definire socialmente i convertiti è appunto ekklésia, assemblea in atto dei credenti di questo o di quel luogo. Soltanto che qui è Cristo che la costituisce; di qui il genitivo di specificazione "corpo di Cristo", corpo sociale creato e appartenente a lui, e corpo sociale animato dallo Spirito (12,13: «Noi tutti mediante un solo Spirito fummo battezzati per formare un solo corpo (eis hen

sóma), sia giudei sia greci, sia schiavi sia liberi; e tutti fummo abbeverati di un solo Spirito»). Altri studiosi però ritengono che con l'espressione "corpo di Cristo" l'apostolo indichi non il corpo sociale dei credenti, bensì il corpo personale di Cristo con cui la comunità cristiana si identifica. Nel corpo ecclesiale Paolo menziona quindi la presenza di una plurale diversità di carismatici: anzitutto apostoli, poi profeti, in terzo luogo maestri (didaskaloi), poi miracoli, quindi doni di grazia per compiere guarigioni, prestazioni assistenziali, azioni di

governo (kybernéseis), diversi generi di lingue (12,28). I tre interrogativi retorici conclusivi sottolineano la necessaria plurale diversità, già indicata a proposito dell'organismo umano: «Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Hanno forse tutti doni di grazia per compiere guarigioni? Parlano tutti in lingue? Tutti le interpretano?» (12,29-30). La ri-sposta sottintesa è: no, ma questi doni di grazia sono ripartiti tra i diversi componenti della comunità.

Unità e pluralità Della metafora del corpo l'Apostolo ritorna a parlare nella lettera ai Romani: «Come infatti i n un solo corpo abbiamo molte membra ma non hanno tutte la stessa azione da fare, così noi, molti, siamo un solo corpo in Cristo (hen sóma en Christó-i) e singolarmente presi membra gli uni rispetto agli altri. Abbiamo carismi differenti secondo la grazia che ci è stata data» (12,4-6a). Unità e pluralità diversificata sono di nuovo le due caratteristiche della metafora del corpo; parimenti la costituzione cristologica del corpo ecclesiale è la stessa: i credenti formano un solo

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corpo perché hanno in comune l'essere en Christó-i, l'unione mistica con lui. Segue un elenco di carismi che non combacia del tutto con quello di 1 Cor 12: la profezia, il servizio (diakonia), l'insegnamento (didascalia), il dono dell'esortazione (paraklésis), fare elemosine, governare (proistasthai) la comunità, fare opere di misericordia (eleein). Una notazione particolare merita il carisma del "governo" della comunità, che sotto altro nome è attestato anche in 1 Cor 12; vi ricorre infatti il carisma della kybernésis (v. 28), letteralmente guidare una nave. Paolo si dimostra lontano dal contrapporre carisma a ministero di guida, a ufficio ecclesiale, diremmo noi: per lui anche l'arte di "governo" della comunità è carisma, dono di grazia dello Spirito. Senza dire che per "carisma" egli non intende essenzialmente l'espressione libera e spontanea del soggetto spinto ad agire al di fuori di regole e norme, bensì un dono di grazia funzionale. Nella pluralità diversificata dei carismi, infine, Paolo in qualche modo stila una classifica; in 1Cor 12,31 infatti esorta i suoi interlocutori: «Agognate ai doni di grazia più grandi (ta charismata ta meizona)». All'inizio del cap. 14, riprendendo il tema dei carismi, sviluppa il motivo della superiorità di questo su quello: «Agognate pure ai fenomeni spirituali (pneumatika: carismi estatici), ma di più alla profezia» (14,1). Il criterio gerarchico è di carattere funzionale e insieme ecclesiale: più grande è il carisma più è proficuo alla crescita e maturazione della comunità. In 1 Cor 14 Paolo mette a confronto la "glossolalia", il tipico carisma di parola incomprensibile "parlata" per impellente impulso emotivo al di fuori di ogni controllo della mente, che va momentaneamente "in vacanza", e la profezia qui intesa come parola ispirata dallo Spirito e comprensibile a tutti ipresenti nell'assemblea. Il glossolalo «non ad uomini parla bensì a Dio, perché nessuno intende» (14,2); «chi al contrario profetizza, ad uomini parla», dunque in modo comprensibile (cf v. 9), «producendo edificazione (oikodomé), esortazione e incoraggiamento. Il glossolalo edifica sé stesso; invece il profeta è costruttivo per l'assemblea ecclesiale» (14,3-4). L'Apostolo non teme di ripetersi; è necessario ribadirlo: «Ora vorrei che tutti voi parlaste le lingue, ma di più che profetaste. In realtà, è più grande colui che profetizza di chi parla in lingue, a meno che egli anche non faccia da interprete, perché l'assemblea ecclesiale riceva edificazione (oikodomé)» (14,5). E non esita a mettere in gioco sé stesso: «Ringrazio Dio, io parlo in lingue più di tutti voi, ma in un'assemblea ecclesiale (en ekklésia-i) preferisco dire cinque parole con la mia mente, per istruire (katécheó) anche altri, piuttosto che diecimila parole in lingue» (14,18-19). Il pregio della parola chiara in forma comprensibile consiste nel fatto che può coinvolgere e attivare gli ascoltatori giovando (ophelein) così alla loro maturazione cristiana (14,6); senza comprensione non c'è risposta positiva alla parola, non ci può essere l'amen partecipativo della comunità (14,16). Contesto culturale Un confronto con il suo contesto culturale appare significativo per comprendere meglio l'Apostolo. Tito Livio ci attesta che Menenio Agrippa, per vincere la ribellione dei plebei contro la classe dominante, fece ricorso retoricamente all'exemplum dell'organismo umano, in cui le membra lavorano sì per lo stomaco che non sembra far nulla, ma se smettono di funzionare, anche lo stomaco "sciopera" e così perisce tutto il corpo. Ne segue che la sedizione è esiziale per lo Stato; dunque le classi subalterne stiano sottomesse al Senato della repubblica, ai patrizi (2,32,7-12). In breve, la metafora del corpo legittima il potere con la conseguente dipendenza dei sudditi. Ma ciò è mille miglia lontano dalla metafora paolina che dice uguaglianza carismatica dei membri della comunità, parimenti dotati, per grazia dello Spirito, di capacità costruttive della sua crescita spirituale e reciprocamente solidali. Per questo sembra di poter affermare - come propone uno studioso tedesco - che vi traspare chiaramente una concezione democratica della Chiesa locale.

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Giuseppe Barbaglio

LA FEDE IN S. PAOLO

(Dell’Esegeta Giuseppe Barbaglio) 1) PREMESSE Nell’affrontare un tema paolino così importante, in vista di un approfondimento della nostra fede cristiana, ritengo che una premessa sia necessaria. Essa si articola su tre punti fondamentali: 1º) nel trattare della fede in S. Paolo bisogna assolutamente liberarsi da alcuni presupposti di tipo polemico, che spesso hanno contrapposto i cristiani ai giudei, i cattolici ai protestanti: intendiamo pertanto trattare della fede in S. Paolo seguendo un’interpretazione esegetica piana, il più possibile aderente ai testi, in modo da favorire l’approfondimento spirituale. 2º) In base a ciò credo che il tema della fede non sia una questione teorico-astratta, di cui si possa farne a meno o a cui possiamo dare o non dare la nostra adesione, ma un messaggio esistenziale-religioso che investe la vita di ogni uomo, non un messaggio di altri tempi elaborato da Paolo, ma la testimonianza di un messaggio sempre vivo, sempre attuale che ci tocca personalmente, ci interpella, ci sollecita, ci coinvolge per una decisione essenziale per la nostra vita di credenti e per la vita delle nostre comunità ecclesiali a cui apparteniamo. 3°) Infine, bisogna sottolineare che la fede, nonostante la grande importanza che riveste nel pensiero di Paolo, non è il “cuore”, il “centro” portante della sua teologia e della sua spiritualità; il“centro” è e rimane sempre Cristo: la fede è orientata a lui e fondata su lui, e l’espressione della fede trova la sua completezza e la sua perfezione “nel Cristo Gesù”. Raramente Paolo parla di “fede in Dio” (1Tes 1,8), di “credere in Dio” (Rm 4,8.17: riferiti ad Abramo; 4,24; Gal 3,6: riferito ad Abramo; Col 2,12), di “fede nell’evangelo” (Fil 1,27; 1Tes 2,4), “fede nella verità” (2Tes 2,12-13). Anche queste espressioni hanno senso pieno solo alla luce di Cristo. Paolo pensa tutto, compresa la fede, solo e sempre nella luce di Gesù Cristo, perché “lui Dio ha posto quale espiazione mediante la fede nel suo sangue” (Rom 3,25). La fede cristiana, pertanto, è fede nell’opera salvifica di Dio compiuta “nel Cristo Gesù” e quindi solo chi crede in lui è salvo. 2) “CREDERE IN CRISTO” Tale espressione paolina è densa di significato e ci induce ad una serie di riflessioni stimolanti per la nostra vita cristiana: a) Il dinamismo della fede Il vocabolario paolino della fede, come del resto anche quello neotestamentario, è estremamente dinamico. Ciò è già evidente nel termine “credere”, dato che il verbo in se stesso indica l’azione di una persona che presta fede ad un altro, gli

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dà il suo assenso, si abbandona a lui e in lui. La stessa cosa avviene per il termine greco “pistis”, che noi traduciamo con “fede”. Esso è nella lingua greca un sostantivo astratto di azione e quindi non indica uno stato o una situazione in cui ci si viene a trovare e in cui si rimane fermi o immobili, ma un movimento interno della persona verso qualcuno, una risposta a chi per primo ci hainterpellato, una relazione vitale con qualcuno. Una fede statica è inconcepibile per Paolo, un controsenso. Per lui la fede è movimento, avvenimento salvifico, relazione con qualcuno, vita; un “correre per afferrare Cristo, che prima l’ha afferrato” (Fil 3,12), un “correre verso la meta, per conseguire il premio di quella superna vocazione di Dio in Cristo Gesù” (Fil 3, 14), “un vivere nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), un cominciare per mezzo dello Spirito per arrivare alla perfezione del Cristo Signore (Gal 3,3; Ef 4,13). In breve: per Paolo la fede è vita, e “la mia vita è Cristo” (Fil 1,21). b) Il rapporto personale di fede La formula “in Cristo Gesù”, unita a “credere” e a “fede”, è stata interpretataspesso dagli esegeti come esprimente “l’oggetto della nostra fede”. Tale interpretazione è ambigua, dato che si parla di una persona, del Cristo Gesù, fondamento unico, realtà intima, vita stessa della nostra fede, nostra vita. D’altra parte, anche se possono sembrare quisquilie e ricercatezze da esegeta, non sta scritto “io credo Cristo”, che al massimo indicherebbe il riconoscimento della sua esistenza, e neppure: “io credo a Cristo” (comunque cf. 2Tm 1,12) che indica il ritenere per vero ciò che egli dice e il fidarsi di lui, ma sta scritto: “io credo in Cristo”, in cui la preposizione greca eis indica sempre un movimento verso qualcuno o qualcosa, cioè un entrare in rapporto vitale e personale con il Cristo. “Credere in Cristo Gesù” significa considerare lui come il testimone verace della fede, il fondamento della fede e in conseguenza il seguire lui e le sue vie, l’essere partecipi di lui e del suo cammino verso Dio, e infine essere partecipi della sua vita divina: “Voi conoscete bene la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, il quale si fece povero per voi, pur essendo ricco, per arricchire voi con la sua povertà” (2Cor 8,9). Di più: “credere in Cristo” significa che lo riconosco talmente esistente da entrare in rapporto di intimità e di amicizia con lui, da lasciare che lui operi in me pienamente con la sua potenza salvifica, che “Cristo viva in me e io in lui” (Gal. 2, 20). Agostino l’ha detto con la solita incisività: “Che significa dunque «credere in lui». Credendo amarlo e diventare suoi amici, credendo entrare nella sua intimità e incorporarsi nelle sue membra” (Comm. a Giov., 29,6). c) La professione del Kerygma di fede Tale incontro personale con il Cristo, tale “credere in Cristo Gesù” non è, però, da intendere in senso psicologico o intimistico, ma in senso storico-teologico, precisamente come accettazione di ciò che Gesù è e rappresenta per la fede cristiana, per me che ho creduto in lui e credendo sono entrato in comunione con

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lui. È accettazione del mistero della sua persona divino-umana: “io credo nel Figlio di Dio, nato da donna, nato sotto la legge (Gal. 4,4), che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 1,4; 2,20), “che annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo e diventando simile agli uomini, e umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di Croce” (Fil 2, 6-11). È accettazione della sua missione di “Cristo” con cui Dio ha riconciliato a sé il mondo (2Cor 5,19) e ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà (Ef 1,9). È accettazione soprattutto della sua morte e resurrezione, con cui egli è divenuto Signore dei morti e dei vivi (Rom 14,9; Fil 2,11): “noi crediamo che Gesù è morto e risuscitato” (1Tes 4,14). La fede diviene professione del Kerygma fondamentale dell’esistenza cristiana: “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rom 10,9), sarai unito al mistero di Cristo: “Se dunque siamo morti con Cristo, noi crediamo che vivremo pure con lui ...Pensate che siete morti al peccato e che dovete vivere per Dio in Gesù Cristo” (Rom 6,8-11). La morte e la resurrezione di Gesù sono il mistero centrale della fede: sono il nostro incontro con Cristo morto e risorto per noi, l’incontro determinante e decisivo della nostra esistenza (1Cor 15,14-17). Proprio per questo, esso va proclamato con la bocca e con il cuore (Rom. 10,9), anzi urlato con coraggio dinanzi a tutti: “io credo in Gesù Cristo morto e risorto per me”. d) Aprirsi al futuro di Dio Nella visione dinamica della fede che Paolo ci propone, tale confessione del “Cristo morto e risorto per me” investe e determina tutta l’esistenza del cristiano: il suo passato, il suo presente e soprattutto il suo futuro. La fede investe la totalità del nostro essere personale: Cristo ha salvato tutto l’uomo e tutte le dimensioni spazio-temporali della sua esistenza. Per questo, quando il cristiano professa: “io credo in Gesù Cristo”, egli esprime in primo luogo una convinzione di fede sul suo passato di schiavitù al peccato, alla carne, al mondo, alla morte. Egli grida a tutti: io credo in Cristo che mi ha liberato dal peccato, da questa potenza oscura (Col 1,13), perversa e demoniaca, che afferra le profondità dell’animo umano, rendendolo schiavo dell’egoismo, della cattiveria, dell’impurità, dell’empietà (Rom 7,7-8,4; Gal 5,19-20); dalla carne e dai suoi desideri contrari agli impulsi dello Spirito (Rom 8,3-17; Gal 5,16-26); dalla legge intesa come potenza (1Cor. 15,56) che attualizza e fa regnare il peccato nella carne (Rom 7,7-8; 8,2-3), commina la maledizione (Gal 3, 13), conduce alla morte (Rom 8,2); dal “mondo che sovrasta malvagio” (Gal 1,4; 6,14); dalla morte, l’ultimo nemico (1Cor 15,26). Cristo ci ha liberato, “per vivere per Dio” (Gal 2,19) e perché “la vita regni nei nostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che abita in noi” (Rom 8,2.9-11). In tal modo, il mio presente viene investito dalla fede, divenendo determinazione del mio agire (Col 3,17.23), del mio pensare (Fil 2,1-5; 4,2; Rom 12,16), del mio sentire (Fil 2,5), del mio soffrire (Fil 1,29; Col 1,24; 2Cor 12,10), del mio gioire (Rom 15,13; Gal 5, 22; Fil 3,1; 4,4-7; 1Tes 1,6), del mio gloriarmi (1Cor 1,30; 2Cor 12,5-10), in una parola del mio

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vivere ed esperimentare la storia e il mondo (1Cor 3,22-23). Nella fede il mio presente ha un senso e si apre ad un compimento più grande. L’essere umano si apre al futuro di Dio: la vita diviene possibilità (Fil 1,20b), impegno (2Cor 11,22-29), superamento incessante fino a che comparirà Cristo, vita nostra, per farci partecipi della sua gloria (Col 2,4) e “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28). 3) FEDE E VANGELO Si può affermare, in base a quanto si è detto, che per Paolo le fede non è altro che l’incontrarsi con il Cristo risorto da morte e il testimoniarlo nella propria vita di ogni giorno. In una parola, la fede cristiana si manifesta come accettazione profonda ed esistenziale della resurrezione di Cristo, a tal punto che Paolo può scrivere: “Se Cristo non è risorto, vana è la nostra predicazione, vana anche la nostra fede. Noi risultiamo essere falsi testimoni di Dio, perché abbiamo testimoniato di Dio che egli ha risuscitato Cristo, che invece non è risuscitato, se realmente i morti non risuscitano. Infatti, se i morti non risuscitano, neppure Cristo è risuscitato. Se Cristo non è risuscitato, non vale la vostra fede e così voi siete nei vostri peccati” (1Cor 15,14). Il testo è molto ricco di contenuti: 1º) Paolo sottolinea che, se cade la professione di fede “nel Cristo morto e risorto per noi”, non cade semplicemente un articolo qualsiasi della nostra fede, ma cade tutta la nostra fede, perché viene meno il fondamento su cui essa poggia; 2º) senza “Cristo morto e risorto per noi” la fede sarebbe priva di senso, perché la salvezza non sarebbe avvenuta, anzi sarebbe un’illusione, una immaginazione fuorviante, un equivoco, un mito tra tanti: “saremo i più miserabili di tutti gli uomini” (1Cor 15,19); 3º) non solo la fede cadrebbe, ma anche la predicazione, ad essa strettamente connessa, risulterebbe vana e menzognera, in quanto essa è fondamentalmente annuncio del Vangelo di salvezza: “Cristo è morto e risorto per i nostri peccati”. Tale realtà è molto importante nell’approfondimento spirituale della nostra fede, in quanto ci introduce in alcuni suoi aspetti essenziali: a) La fede nasce dall’ascolto È un’idea su cui Paolo ritorna continuamente nel suo epistolario ed essa ha la stessa risonanza teologica dell’espressione deuteronomistica: “Ascolta, Israele”, che introduce l’antica alleanza tra Dio e il suo popolo per la mediazione di Mosè e dei profeti. In 1Cor 15,11-12, parlando del Kerigma fondamentale della fede (1Cor 15,3-8), Paolo scrive: “È questo che, tanto io che quelli, predichiamo e che voi avete creduto. Se si predica che Cristo è risuscitato da morte, come mai alcuni di voi dicono che non esiste la resurrezione da morte?”. In Gal 3,2.5: “Questo vorrei sapere da voi: lo Spirito l’avete ricevuto in virtù delle opere della

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Legge o in virtù dell’ascolto di fede?” e ancor più chiaramente in Rom 10,14b: “E in che modo crederanno in Colui, del quale non hannosentito parlare? E in che modo ne sentiranno parlare, se non c’è chi predica?’ Esiste, per Paolo, un legame stretto tra predicazione e fede, tra “tradizione” che comunica il Vangelo di Gesù Cristo e la fede che nell’ascolto accoglie tale Vangelo di salvezza. Di tale legame Paolo è convintissimo. Per lui, nella parola dell’Apostolo è il Signore stesso che parla, chiama, ammaestra, introduce nel mistero salvifico di Dio, opera la salvezza (cfr 2Cor 13,3; 1Tes 4,2): “non oserei parlare se non di quello che Cristo operò per mezzo mio, allo scopo di trarre i gentili all’obbedienza, sia con la parola che con le opere mediante la potenza dei miracoli e dei prodigi, in virtù dello Spirito di Dio” (Rom15,18-19); e ai Tessalonicesi scrive: “Rendiamo continue grazie a Dio, perché avendo ricevuto da noi la Parola di Dio nella predicazione, l’accoglieste non come parola di uomini ma, come è veramente, quale Parola di Dio, che anche al presente opera in mezzo a voi che credete” (1Tess 2,13); e ai Galati, difendendo il suo apostolato: “Vi dichiaro apertamente, fratelli, che il Vangelo da me predicato non viene dall’uomo, perché io non l’ho affatto ricevuto né imparato da un uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,11). Soltanto la fede può percepire e percepisce di fatto la parola di Dio nella parola dell’uomo. La fede ode e comprende che la parola di salvezza annunciata non è dell’apostolo che la comunica, ma di Dio che la pronuncia per la salvezza di tutti mediante gli intermediari umani, gli ambasciatori del suo amore: “Per Cristo dunque noi fungiamo da ambasciatori, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Per Cristo vi supplichiamo: riconciliatevi con Dio” (2Cor 5,20). La parola dell’apostolo è, pertanto, la parola di Dio, la parola di Cristo, che chiama tutti gli uomini di tutti i tempi alla salvezza (cr Ef 1,13-14). b) La fede è accoglienza del Vangelo di salvezza La conseguenza è chiara: chi accoglie la parola dell’apostolo, accoglie la parola di Dio, la parola di Cristo, il Vangelo di salvezza. E il Vangelo non è un insegnamento: è Gesù che parla e ammaestra l’uomo in vista del Regno di Dio, della comunione intima con il Padre. Il Vangelo non è un’etica: è Gesù che conduce l’uomo per mezzo del suo Spirito, che produce l’amore, coronamento di ogni altra virtù (Gal 5,22-23). Il Vangelo non è una salvezza misterica: è Gesù che libera, redime, salva l’uomo dalla schiavitù del peccato e in conseguenza da ogni altra schiavitù. Nel Vangelo si è manifestata e si manifesta ‘la potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rom 1,16); si disvela la giustizia di Dio, cioè l’azione salvifica di Dio in Gesù Cristo: “ora si è manifestata la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo per tutti quelli che credono” (Rom3,21). La fede, pertanto, è orientata essenzialmente al Vangelo di salvezza; è accoglienza dell’opera salvatrice, liberatrice e giustificante di Dio compiuta in Gesù Cristo; è accettare Gesù salvatore e lasciarlo operare profondamente ed esistenzialmente in noi. Nella fede Dio chiama l’uomo, lo giustifica e per mezzo di Cristo gli concede la sua grazia e lo rende da peccatore giusto e da schiavo figlio di Dio (Gal 4,3-5): “Coloro che ha chiamati, questi ha pure giustificati,

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coloro poi che ha giustificati, questi pure ha glorificati” (Rom 8,30). c) La fede è obbedienza al vangelo Ma la fede non è un semplice ascolto o un’accoglienza qualsiasi, è soprattutto obbedienza (Rom 1,5; 1,8; 16,19.26; 2Cor 10,5-6 ecc.). In italiano non si può rendere il collegamento della lingua greca tra “fede che ascolta” (akoé) e “fede che obbedisce” (hupakoé), ma il senso è chiaro: la fede è un ascolto accentuato, deciso, che comporta una sottomissione (hupo), una decisione e un impegno per Dio. La fede è una vera conversione dalla disobbedienza alla obbedienza totale e radicale per Dio. In ciò avviene un’assimilazione perfetta a Cristo, una partecipazione non solo al suo essere Figlio, ma anche ai suoi sentimenti più profondi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo, il quale umiliò se stessofacendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di Croce” (Fil 2,5.8). Nell’obbedienza, il cristiano si spoglia di ogni sua sicurezza e di ogni altro riferimento alle possibilità umane, e si affida totalmente a Dio. Il cristiano diviene imitatore perfetto di Gesù, seguace ben disposto ad accettare la follia della croce, “sapienza e potenza di Dio” per coloro che nella fede sono stati chiamati alla salvezza (1Cor 1,17.24-25). Gesù è il suo fondamento, la croce di Gesù la sua gloria (1Cor 1,31; Gal 6,14), la sua imitazione un’accettazione convinta di Gesù e della sua radicale obbedienza amorosa: di fronte al Crocifisso, testimone verace della fede, l’affidarsi a Dio nell’obbedienza acquista un senso di totalità e di definitività. Nella fede, infatti, “portiamo nel nostro corpo la morte di Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nel nostro corpo. Sempre infatti noi che viviamo siamo esposti alla morte per Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale... Avendo lo stesso spirito di fede secondo che è scritto: «Ho creduto, perciò ho parlato», anche noi crediamo e perciò parliamo, sapendo che Colui il quale risuscitò il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù... Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno” (2Cor 4,11-18). 4) LA FEDE, FONDAMENTO DELLA VITA CRISTIANA L’affermazione paolina: “l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno” è un’ulteriore sottolineatura del carattere dinamico della fede. Essa non è solo un atto istantaneo che introduce il credente nella vita cristiana, ma insieme l’inizio e lo sviluppo progressivo (cr Fil 1,25), “di fede in fede” (Rom 1, 17), del vivere continuamente sotto l’azione efficace e salvifica di Dio che giustifica, del nostro “essere e vivere in Cristo”, del nostro “camminare nello Spirito” lasciandoci plasmare dalla sua azione di grazia, in modo da esistere in risposta e come risposta alla sua chiamata. La fede orienta e determina tutta l’esistenza del cristiano nel suo procedere storico, tanto che non c’è alcuna dimensione del suo essere che non sia informata dalla fede, cioè dall’obbedienza a Dio e dall’affidarsi totalmente alla sua grazia. La fede è così il fondamento e “la misura” (Rom 12,3) del vivere, nel continuo confronto con le varie situazioni

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concrete, in modo da realizzare in essa la nostra vera umanità e il nostro essere figli di Dio. a) Il coraggio della fede Pascal, riflettendo proprio sulla fede, l’ha definita “un salto nel buio”, una “scommessa” per Dio. Decidersi per qualcosa o per qualcuno richiede coraggio. Ma ciò può considerarsi valido per gli inizi della fede, quando l’uomo, superata una certa resistenza mentale ed esistenziale, decide di affrontare la meravigliosa avventura con Dio. Parlare, invece, di “coraggio della fede” per chi ha già scelto di “vivere nell’obbedienza della fede” può sembrare fuori luogo. Eppure non è così: per vivere ogni giorno la propria fede in Dio, in Cristo ci vuole coraggio. Esso è richiesto dalla stessa struttura dinamica della fede, in quanto per il credente ogni momento della sua vita è una “decisione per Dio”. Una decisione dell’intelligenza, della volontà, del cuore, costantemente diretti e orientati verso Dio come l’ago della bussola verso il Nord. Per Paolo, tale orientamento è possibile, solo se il cristiano si lascia penetrare e guidare dallo Spirito, la forza meravigliosa e prodigiosa donata al credente (cfr Gal 3,2.5) come fonte della nuova vita e come norma costante e dinamica del suo camminare: “Quanti infatti si lasciano condurre dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rom 8,14). “Quelli che sono secondo lo Spirito, aspirano alle cose dello Spirito ... e ciò a cui tende lo Spirito è vita e pace ... è vita per la giustizia” (Rom 8,5-9). Lo Spirito Santo è pertanto il coraggio della decisione del credente, in quanto lo spinge all’intelligenza della fede nel suo vivere quotidiano: “Noi non abbiamo ricevuto lo Spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, affinché conosciamo le cose che Dio ci ha gratuitamente largite; e di queste parliamo, non con parole suggerite dalla sapienza umana, ma con quelle insegnate dallo Spirito, adattando a uomini spirituali dottrine spirituali” (1Cor 2,12-13); spinge la volontà del credente a camminare in maniera degna di Cristo: “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e concupiscenze. Se viviamo per opera dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5, 24-25), per produrre “il frutto dello Spirito, l’amore” (Gal 5,22-23); spinge il suo cuore ad elevare il grido della sua figliolanza divina: “Ora, poiché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori per gridare: Abba! Padre!” (Gal 4,6). In tale visione, lo Spirito Santo non è soltanto un eccellente maestro di vita, ma anche un operatore e un donatore di vita: è il coraggio della nostra fede, la scintilla vitale e potente che fa scattare la nostra decisione per Dio e per Cristo. Grazie allo Spirito, il credente nasce, cresce e arriva all’uomo perfetto, alla misura della pienezza della maturità di Cristo” (Ef 4,13). b) Fede, sacramenti e comunità La nascita e la crescita del credente per Paolo avvengono nei sacramenti, in particolar modo nel battesimo e nella Eucaristia, sacramenti che presuppongono già “l’accoglienza della parola”, della fede (cfr 1Cor 10,1-4). Fede e sacramenti sono così intimamente legati: essi significano, annunciano e operano la piena

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affermazione della fede, cioè l’annuncio e l’accoglienza della morte e resurrezione di Cristo in vista del nostro “vivere per Dio”. Ciò è evidente nel battesimo, per mezzo del quale il credente entra con Cristo nella sua morte, per morire definitivamente al peccato, e partecipa alla vita del Risorto: “Forse ignorate che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, nella morte di lui siamo stati battezzati? Per mezzo del battesimo siamo stati dunque seppelliti con lui nella morte, affinché, come Cristo risuscitò dai morti per la gloria del Padre, così anche noi camminiamo in novità di vita” (Rom 6,3-4; cfr anche Rom 6,5-11). Si noti, in questo ricchissimo testo, l’insistenza di Paolo sulla morte e resurrezione di Cristo, nucleo centrale della nostra fede, e alla luce di esso l’insistenza ancora sulla conseguenza, sempre connessa con la fede, del “morire e vivere con Cristo”, del “camminare in Cristo”, del “vivere per Dio in Cristo”. Nel battesimo, infatti, il credente “si riveste di Cristo” e diviene “uno in Cristo” (Gal 3,27-28) per vivere da “figlio di Dio” (cfr Gal 3,26-4,7). Una possibilità nuova nasce per il cristiano: muore all’esistenza schiava del peccato, vive nella fede la vita di libertà dei figli di Dio in Cristo e nello Spirito. E non basta: proprio perché ogni credente diviene “uno nel Cristo” in virtù dello Spirito Santo, egli è inserito nel “corpo di Cristo” che è la Chiesa (Col 1,18): “un solo Corpo e un solo Spirito, così come anche siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. Uno solo il Signore, una la fede, uno il battesimo” (Ef 4,4-6). Un cristiano che vive isolato nella propria fede è inconcepibile per Paolo, sarebbe la negazione dell’“essere e vivere in Cristo”: “In realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo” (1Cor 12,13). Simile a quello descritto è il rapporto dell’Eucaristia, sacramento della crescita del credente, con la fede. In 1Cor 11,23-26, Paolo trasmette un “insegnamento del Signore”, che suscita e alimenta la fede, attraverso la parola dell’apostolo: “Io infatti ho ricevuto dal Signore ciò che vi ho trasmesso, cioè che il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese del pane e, avendo reso grazie, lo spezzò e disse: «questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me». Tutte le volte infatti che mangerete di questo pane e berrete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore fino a che egli ritorni” (1Cor 11,23-26). Tre osservazioni importanti per ciò che concerne il nostro tema: 1º) l’eucaristia è “annuncio della morte del Signore fino a che egli ritorni”, in altri termini del Kerygma fondamentale della nostra fede, cioè della morte, resurrezione, ritorno del Signore esaltato e glorioso; 2º) è partecipazione al Corpo e al Sangue di Cristo, cioè alla sua vita di Signore, morto, risorto ed esaltato per noi a gloria di Dio; 3º) è celebrato “in memoria di Gesù”, che non è una semplice evocazione del mistero della sua morte e resurrezione, ma una memoria creatrice e vivificante, che ci fa crescere in lui nell’esistenza quotidiana, in attesa della sua venuta, per renderci partecipi pienamente della sua vita divina. D’altra parte, in 1Cor 10,16-17, anche l’eucaristia non stabilisce solo un rapporto individuale tra il credente e Cristo, ma anche un rapporto tra i credenti fra loro quale membra dell’unico Corpo di Cristo: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse una

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comunione al sangue di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,1617). Così nella fede il Cristo, che si fa nostro cibo e nostra bevanda, ci assorbe in sé, rendendoci “uno in lui”, e ci associa ai fratelli, formando di noi un solo corpo, la Chiesa, comunione di credenti. c) Fede e morale Si è fatto spesso cenno al rapporto intimo che intercorre tra fede e agire credente. Se riprendiamo il discorso non è per ripetere quanto già si è detto, ma per sottolineare qualche nuovo aspetto che emerge da tale rapporto e che può essere utile per l’intelligenza spirituale della fede. In primo luogo, Paolo caratterizza il rapporto “fedemorale” come un “rimanere saldi nella fede, nel Signore” (cfr 1Cor 16,13; Gal 5,1; Fil 1,27; 4,1; 1Tes 3,8). Tale espressione paolina non deve indurci a pensare ad una concezione statica della fede. La fede, per Paolo, è e rimane una realtà decisamente dinamica. Proprio per questo, il “rimanere saldi nella fede” trova un’esemplificazione pratica e dottrinale nell’esempio di Abramo. Egli rimane fedele a Dio nel suo essere e nel suo operare e Dio glielo computa a giustizia (Rom 4,3; Gal 3,6). Egli “rimane saldo in Dio” nella concretezza della sua vita. In tal modo, il “rimanere saldo” non è una semplice attesa della “speranza della giustificazione” (Gal 5,5), anche se in virtù della fede, ma una concreta e attiva realizzazione di questa giustificazione accettando nella propria vita il piano salvifico della promessa di Dio in Cristo, in una fede agente per mezzo della carità (Gal 5,6), in un cammino di fede amorosa che produce gioia, pace, benignità, bontà, fedeltà, dolcezza e temperanza (Gal 5,22-23), in un progressivo e deciso morire alle esigenze della carne (Gal 5,17.24-25) per vivere per Dio nello Spirito. Pertanto, il “rimanere saldi nella fede” si può definire come un’esistenza fondata sulla fede in Cristo, vissuta nella speranza dell’adempimento della promessa di Dio per mezzo dello Spirito, attuata nell’amore secondo la radicalità di Dio espressa nella “legge di Cristo” (Gal 6,2). Con tale espressione Paolo non vuole affatto ristabilire la legge o la giustificazione in virtù delle opere della legge. La giustificazione, la salvezza, la libertà vengono concesse da Dio solo in virtù della fede in Cristo Gesù, ma tale fede non è mai disincarnata dalla realtà. Essa opera (1Tes 1,3; 2Tes 1,11) e spinge il credente ad operare nella carità, unica legge del cristiano. Questi non è individuo senza legge, un fuorilegge, ma uno che ha accettato e lascia operare in sé “la legge di Cristo”, meglio: “la legge che è Cristo”. Non un principio esterno di moralità, ma una persona vivente che lo rende “conforme a sé” (cfr 1Cor 9,21) per mezzo della “legge dello Spirito di vita nel Cristo Gesù”. Non si tratta, pertanto, di rimpiazzare una legge con un’altra, né di compiere questa o quell’altra opera per avere la salvezza, ma di vivere con radicalità, dietro l’esempio di Cristo e sotto la guida dello Spirito, la legge dell’amore, “la legge di Cristo”, che per primo “ci ha amato e ha dato se stesso per noi” (Gal 2,20). “L’opera della fede” (1Tes 1,3; 2Tes 1,11) è l’amore che la anima. Paolo lo afferma chiaramente in Gal 5,6: “ciò che conta è la fede operante/se opera per

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mezzo della carità”. Il principio essenziale della vita cristiana non cambia: è la fede. Ma non una fede qualsiasi o una fede astratta, ma la fede che qualifica se stessa operando per mezzo dell’amore. Così, fede e amore, anche se non si debbono confondere tra loro, non possono essere separate: la fede fonda la nostra esistenza in Cristo, l’amore la rende viva per la potenza dello Spirito santo, sotto la cui guida diveniamo fecondi di ogni opera buona e attendiamo la pienezza della giustificazione di Dio.

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LA PREGHIERA PASTORALE IN SAN PAOLO

del Padre Jean Lévêque

1. Consolidamento e perseveranza

San Paolo, non solo ha evangelizzato con la forza di una parola luminosa e chiara e con la testimonianza apostolica accompagnata da segni e prodigi, - “Certo in mezzo a voi si sono compiuti i segni del vero apostolo, in una pazienza a tutta prova, con segni prodigi e miracoli” (2Cor 12,12) - ma lo ha fatto soprattutto con la forza della preghiera pastorale. Molto spesso, infatti, domanda per i cristiani la forza e la stabilità: “Che il Signore…confermi i vostri cuori affinché siano irreprensibili nella santità davanti a Dio, nostro Padre, al momento della venuta del nostro Signore Gesù con tutti i santi”, “Il Signore vi faccia

crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti, come anche lo siamo verso di voi, per rendere saldi ed irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi” [leggi per intero il passo dalla Bibbia CEI (1Tess 3,12-13)]. Di nuovo, come in 5,23, la parola “irreprensibili” porta un richiamo del Giorno del Signore, che resta il quadro di fondo di tutto lo sforzo cristiano. Secondo Paolo, pregare per i fratelli, è una maniera di “lottare per essi” nelle sue preghiere “perché siate saldi, perfetti e aderenti a tutti i voleri di Dio” (Col 4,12), ”rafforzandovi con ogni energia secondo la potenza della sua gloria, per poter essere forti e pazienti in tutto” (Col 1,11). “Io piego le ginocchia – scrive Paolo – ai cristiani della regione di Efeso, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati del suo Spirito nell’uomo interiore” (Ef 14-16). Il Pastore, nell’ottica di Paolo, annuncia e prega. Senza la preghiera, la parola del pastore rischia di diventare sterile monologo. Perché pregando, il pastore è attraversato dalla forza dello Spirito Santo e allora l’evangelizzazione diviene efficace.

2. Crescita , abbondanza e completamento

I battezzati vivono dunque sotto l’influsso dello Spirito, è una legge di un dinamismo incessante, quella stessa dell’Esodo, [questa legge] ordina oramai tutta la loro esistenza. Agli occhi di Paolo, i cristiani, “radicati nell’amore” non sono tanto fermati ad un livello o ad una fase della vita o di servizio, l’Apostolo ricuserà questo fatalismo, questa rinuncia di bassa derivazione che impedisce di desiderare e di domandare il meglio o il migliore per i fratelli che Dio fa camminare con noi. Testimoni di questo sono i numerosi passaggi di preghiera di Paolo dove ritornano le parole o le idee di crescita, abbondanza e completamento: “..anche noi..non cessiamo di pregare per voi (Col 1, 9) per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera

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buona…(Col 1, 10b). “Il Signore poi, vi faccia crescere ed abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti” (1Tess 3,12). “…preghiamo di continuo per voi, perché il vostro Dio vi renda degni della sua chiamata e porti a compimento con la sua potenza, ogni vostra opera di bene e l’opera della vostra fede” (2Tess 1,11). “E io perciò prego (Fil 1,9) (affinché voi siate) “ricolmi di frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”. (Fil 1,11).

“Sovra- conoscenza” ed interiorità

“E così siate in grado di comprendere con tutti i santi…l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”. (Ef 3,16-19). Nel significato biblico, quando si dice conoscenza si dice esperienza vitale; molto bene Paolo non parla solamente di conoscenza, ma di “sovra-conoscenza”, come per sottolineare che non si tratta di conoscenza puramente intellettuale; e Paolo parla di questa esperienza descrivendola come una entrata progressiva nel “pleroma” (pienezza) di Dio. Paolo la riallaccia fortemente alla storia della salvezza. Così, scrive, nella stessa Lettera agli Efesini: “perché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito (qui una grazia spirituale) di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti” (Ef 1,17ss). L’esperienza di Dio (la sovra-conoscenza) che Paolo domanda comincia dunque dalla grazia della luce [interiore], che poi sboccia in speranza per tutto il mondo e in fiducia in Dio che chiama. Ma Paolo, che insiste tanto sulla possibilità di credere, ne richiama, non meno vigorosamente, le conseguenze, e fa appello al realismo quotidiano della vita in Cristo: “…noi…non cessiamo di pregare per voi…e di chiedere che abbiate una conoscenza piena della sua volontà con ogni sapienza e intelligenza spirituale…crescendo nella conoscenza di Dio.” (Col 1,10). «E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre di più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio ed esser integri ed irreprensibili per il giorno di Cristo » (Fil 1, 9-10. Noi ritroviamo dunque, il tenore [livello] delle preghiere di domanda, uno degli accenti teologici più netti delle Lettere della cattività: il mistero, il progetto di amore di Dio per la riconciliazione universale non soltanto è portato alla conoscenza di tutti i credenti, ma deve essere per ciascuno oggetto di riflessione e di una penetrazione personale grazie alla sapienza che Dio dona; e questa “sovra-conoscenza”, questa esperienza personale del disegno di Dio, condiziona ed arricchisce tutti gli sforzi morali e il lavoro missionario del discepolo di Gesù.

3. Ciò che San Paolo fa (dice ai cristiani di) domandare a Dio

Per completare questi elementi che noi abbiamo tratteggiato delle richieste di Paolo a Dio, è bene ora passare in rassegna le raccomandazioni che egli da ai cristiani concernenti la preghiera di domanda. Prima di tutto le comunità devono sostenersi mutuamente con la preghiera: questa è il segno più vero del loro affetto (2Cor 9,14). A loro spetta anche di sviluppare le loro domande come responsabili di tutti: “Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla,

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con tutta pietà e dignità” (1Tm 2,1). Ma la preghiera di domanda deve divenire anche una abitudine [letteralmente: un riflesso “involontario”] di ogni credente, specialmente quando egli ha lasciato la pace di Dio, quando egli è tentato di chiudersi in una attitudine negativa o in un sentimento di angustia o di disperazione: “Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.” (Fil 4,6) . La preghiera incessante dei fratelli cristiani deve ugualmente prendersi carico dei bisogni di tutti i battezzati e, specialmente, per gli operai del Vangelo: “Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi, e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del Vangelo” (Ef 6, 18-19) Pregare per i testimoni di Cristo è partecipare realmente al lavoro dell’evangelizzazione: “…fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore si diffonda e sia glorificata come lo è anche tra voi” (2Tess 3,1 cfr. 1Tess 5,25). E l’Apostolo è convinto intimamente della necessità e della efficacia di questa preghiera fraterna, sia per la riuscita dei suoi progetti missionari, sia per chiedere l’assistenza di Dio nei pericoli che egli affronta: “Vi esorto perciò fratelli” scrive ai Romani “per il Signore nostro Gesù Cristo e l’amore dello Spirito, a lottare con me nelle preghiere che rivolgete per me a Dio, perché io sia liberato dagli infedeli della Giudea e il mio servizio a Gerusalemme torni gradito a quella comunità” (Rm 15,30-31). O, ancora, ai Corinti: “Da quella morte però egli ci ha liberato (in Asia minore) e ci libererà…grazie alla vostra cooperazione nella preghiera per noi” (2Cor 1,11°) . Ugualmente, al momento della sua cattività romana, Paolo può scrivere a Filemone: “… spero, grazie alle vostre preghiere, di esservi restituito.” (22); e ai Filippesi, parlando loro del suo processo imminente e di certi complotti di falsi fratelli: “So infatti che tutto questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo” (Fil 1,19). Formula magnifica che mette in rilievo nello stesso tempo la libertà imprescrittibile dello Spirito e l’urgenza della preghiera di domanda, nella più pura tradizione di Gesù: “Chiedete e vi sarà dato” (Mt 7,7; cfr Mc 11,24; Luc 11,9-13; Gv 14,13ss: 15,7.16; 16,23-26). - Infine lo Spirito di Gesù resuscitato è presente e agente in tutte le preghiere di un figlio di Dio e compensa (riscatta) con la sua presenza tutte le incapacità di desiderio e a tutte le debolezze della parola dell’uomo: “…lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili, e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio”. “ Forse questo testo di Rm 8, 26, più precisamente tutta la pericope: Rm 8, 16-27, ci veicola le ultime parole di Paolo, apostolo e pastore, sulla preghiera.

Tutto si riassume in un triplice gemito:

1. il gemito della creazione, che accompagna i suoi dolori del parto, fino al momento che sarà associata alla gloria dei figli di Dio. Tuttavia questo pianto del cosmo e della storia non è ancora una preghiera.

2. Il gemito dei credenti, che possiedono le primizie dello Spirito e che attendono il riscatto del loro corpo. E questo gemito dell’uomo è preghiera di speranza.

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3. c’è infine il gemito dello Spirito che viene in aiuto alla nostra debolezza.

Questa debolezza, che segna inevitabilmente la nostra testimonianza e tutte le nostre imprese missionarie, è legata, in profondità, alla nostra condizione peregrinante e alle “sofferenze del momento presente” (Rm 8,18). Essa è sempre finitudine e spesso colpevolezza, in tutti i casi limite per la conoscenza e ferita nella volontà dell’uomo. È questa debolezza che ci rende incapaci di pregare “convenientemente” [traduzione di Rm 8,26], ossia di domandare “secondo i disegni di Dio” [traduzione dalla

Bibbia CEI] (v. 27), “ Quelle cose…mai entrarono nel cuore dell’uomo” (1Cor 2,9) e che, tuttavia, Dio gli prepara. È inoltre questa debolezza che ci fa gemere, e, paradossalmente, lo Spirito Santo ci viene in aiuto gemendo anche Lui. Ma come il gemito umano non interrompe il gemito cosmico, ugualmente il gemito dello Spirito non interrompe il gemito dell’uomo, ma l’accompagna per completarlo e portarlo al suo termine. La nostra impotenza rimane (dimora), ma lo Spirito l’abita e l’orienta verso la gloria, “secondo Dio”; le parole continuano a mancarci per portare a Dio le nostre domande filiali, ma lo Spirito stesso “intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili” (Rm 8, 26). Al di la di tutte le parole. Questa intercessione dello Spirito resta, sì, un gemito, che traversa quello del mondo ed entra in risonanza con il nostro, ma grazie a lui il nostro gemito di debolezza diviene veramente filiale e passa in Dio. Tutte le nostre domande, impotenti e gementi, le nostre molteplici angosce e le nostre ricerche inquiete del Regno confluiscono allora in una semplice aspirazione alla gloria, secondo Dio. E Dio che scruta i cuori legge nei nostri un desiderio che lo Spirito ha fatto suo. Questo che si opera nel profondo delle sofferenze del tempo presente e attraverso il gemito dello Spirito è un misterioso parto alla gloria. Questa è, dunque, la preghiera pastorale di Paolo, nello Spirito Santo che agisce in lui con forza e dolcezza. È un riflesso diretto della sua vita, ma della sua intera vita, la disposizione la quale egli si situa in rapporto a Dio, in rapporto a Cristo e in rapporto alla sua missione personale. La sua preghiera lascia ugualmente trasparire la vita, l’essenza del popolo di Dio, tutta interamente pellegrina, tutta interamente testimone, tutta interamente missionaria, essa fa risalire e emergere nella luce di Dio tutto il vissuto della Chiesa. Ma soprattutto la preghiera di Paolo è uno spazio di accoglienza per la vita [essere] di Dio, per il suo amore che sorpassa tutte le conoscenze, e uno spazio di ascolto per la sua Parola, forza di salvezza per tutti gli uomini. È il luogo della certezza, nella insicurezza stessa di una Chiesa povera e missionaria; è per Paolo il luogo della speranza, quando la “debolezza” è là, la sua, quella di Corinto, quella di Gerusalemme, quella di tutti i fratelli cristiani, tutta quella gravezza che appesantisce, non il cammino di Dio nella storia degli uomini, ma il cammino degli uomini verso il Regno di Dio. È il momento, o lo strato, il più profondo di lui stesso, dove Paolo, gratuitamente, ama, perché egli è sicuro di essere amato: egli sa in chi ha creduto, il Cristo è per lui non più una domanda, ma il Vivente che chiama, che vede e risponde. Paolo al momento e al livello della preghiera si lascia amare da Dio come egli vuole amarlo. egli lascia Dio ridire [ direi proprio ri-dire in senso biblico] in lui il suo amore per il mondo, il suo mistero d’amore che ha un nome: Gesù Cristo.

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“NON SONO PIU’ IO CHE VIVO…” Gal 2,20

La sequela di Paolo come Liturgia della Vita

Alla scuola di Gesù Paolo vive il suo rapporto di ascolto e di sequela come un’esperienza forte di intimità e di amore d’amicizia nei confronti della Persona amica di Gesù.

L’ascolto per Paolo genera la fede (cf Rm 10,17), e questo per lui non è far propria una dottrina oppure speculare su una serie di idee. Non è un puro e semplice processo conoscitivo intellettuale.

Il conoscere dell’esperienza di fede per Paolo coincide ed è il “conoscere” biblico ebraico. Lo “ jada’ ”.

E questo conoscere si caratterizza da una forte esperienza e un forte sentire sponsale ed amicale.

E’ la conoscenza dell’intimità dell’Altro, del pervenire nello spessore più profondo dell’essere dell’altro. E’ un’esperienza di unione, di affettività unitiva, che trasfigura i due in una nuova entità e realtà.

Paolo sintetizza questa conoscenza del Cristo, che lo ha conquistato (cf Fil 3, 12) nel celebre versetto del capitolo 2 della lettera ai Galati, che caratterizza la sua vocazione personale.

Il testo-esperienza di Galati 2,20

Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.

“Sono stato crocifisso con Cristo”

Nella logica del perfetto che Paolo usa (synéstaurōmai): “sono stato crocifisso con Cristo” e rimango “crocifisso con Cristo in ogni mio qui ed ora”.

Essere crocifisso significa entrare nella logica esperienziale di Rom 6, 6-7.

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Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui perché fosse distrutto il corpo del peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto , è ormai libero dal peccato.

Essere crocifisso e rimanere crocifisso diventa allora un cammino di liberazione dal peccato, dal difetto predominante come cammino di cesellatura della nostra coscienza:

“rinnovatevi nello spirito della vostra mente” (Rm 12,2)…!!!

Così possiamo vivere la logica di Ef 4, 20-24. Crocifiggere l’uomo vecchio, significa spogliarsi dell’uomo vecchio:

con la condotta di prima l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera.

Le passioni ingannatrici sono concretizzate nell’elenco di Gal 5, 19-21 (le opere della carne):

Fornicazione Impurità Libertinaggio (v.19) Idolatrie Stregonerie Inimicizie Discordia Gelosie Dissenzi Divioni Fazioni (v.20)

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Invidie Ubriachezze Orge e cose del genere (v.21)

E nell’ottica di Gesù: (Mc 7,20-22)

Quindi soggiunse:”Ciò che esce dall’uomo quello contamina l’uomo”. (v.20)

Dal di dentro (esōthen) dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive:

Fornicazioni Furti Omicidi (v.21) Adulteri cupidigie Malvagità Inganno Impudicizia Invidia Calunnia Superbia Stoltezza (v.22)

Spogliarsi dell’uomo vecchio significa immergersi in un cammino di purificazione e circoncisione del cuore, della mente e della volontà fatto di ascolto della parola che è come una spada a doppio taglio che penetra nelle giunture e nelle midolla (cf Eb 4, 12).

Rivestirsi dell’uomo nuovo significa accogliere l’invito di Paolo ai Col:

Rivestiti come amati di Dio santi e diletti di sentimenti di misericordia, di bontà, di mansuetudine, di pazienza (Col 2,12-13).

Essere crocifisso significa, anche, crocifiggere i propri falsi io in un cammino di libertà libera, liberata e liberante.

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Non c’è bisogno di essere molto esperti in psichiatria, in psicologia per sapere che noi abbiamo la libertà del nostro essere nell’io profondo, nell’ io vero, nel cuore, dove abita la verità della mia speranza che mi fa libero. E allora io mi devo liberare dai miei “io” preconfezionati, dai miei “io” ideali, e dai miei “io” attuali, cioè quelli che io mi fabbrico, e che non sono veri e dai miei ideali che io mi invento e che servo in maniera idolatrica, in maniera quindi di schiavitù. Libertà da questi “io” inventati da me per giungere al vero io profondo, dove abita il Cristo, mia libertà, fonte, principio e fondamento della speranza della mia vocazione.

“Non sono più io che vivo”

“Non sono” significa accettare il paradosso dell’attentato alla partecipazione dell’ ‘Eyeh asher ‘eyeh di Es 3,14.

In At 22,3 Paolo difendendosi a Gerusalemme dice:

“Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaiele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi”

Questo, da una parte significa avere una profonda e vera capacità contemplativa della vita, ma dall’altra parte significa vivere ed incarnare la capacità esistenziale di considerare skýbala (Fil 3,8) tutto il nostro essere e la nostra storia:

Se qualcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo ed essere trovato in lui,non con una mia giustizia

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derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio,basata sulla fede.

Considerare tutte le circoncisioni risposta alla berit1 di Dio sterco.

Considerare la preghiera come combattimento e resa d’amore come Giacobbe sterco2.

Considerare l’avventura del cammino della fraternità ritrovata come sterco3 perché conquistati da Gesù Cristo (Fil 3,12).

Così si passa dall’ Io idolatrico, saccente, arrogante, autonomo, autarchico all’ Io kenotico dello spogliamento e dello svuotamento di Fil 2,6-8:

1 Cf la pagina di Gen 15 dove Dio stipula l’alleanza (karat berît) con Abram secondo il rito nomadico del passare attraverso gli animali uccisi e divisi a metà ed invocando su di sé la morte se non fosse rimasto a questa alleanza. E la pagina di Gen 17 dove Dio chiede ad Abramo il segno della circoncisione come risposta e collaborazione ad un’alleanza bipolare e non solamente unilaterale. 2 Cf la pagina di Gen 32, 23-33 dove Giacobbe per chiedere a Dio la benedizione ingaggia con lui un combattimento nel quale Dio sì benedice Giacobbe cambiandogli il nome in Israele: “Ti chiamerai Israele, perchè hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto”, ma al termine di questo combattimento Giacobbe-Israele lascia lo Iabbok passando a Penuel zoppicando perché Dio lo ha ferito all’anca…!!! 3 La famiglia di Giacobbe, pastore nomade, è numerosa: dieci figli già grandi, avuti dalla prima moglie, Lia. Quando ormai nessuno ci sperava più, anche Rachele, la seconda moglie, dà alla luce Giuseppe. Per il padre egli è il prediletto, lo considera “il figlio del miracolo”, colui che il Signore ha destinato a grandi imprese. Per questo ha per lui attenzioni speciali, che scatenano ben presto la gelosia dei fratelli. Mentre questi portano le greggi al pascolo e si preoccupano degli animali, Giuseppe studia, impara a leggere e a scrivere, ed è trattato con particolare affetto. Segno di questa predilezione è una preziosissima tunica che Rachele ha tessuto per il figlio. L’orgoglio del giovane Giuseppe e i sogni straordinari che abitano le sue notti non migliorano certo i rapporti con i fratelli. Così, gli altri dieci decidono di sbarazzarsi di lui e lo vendono ai mercanti di schiavi, facendo credere a Giacobbe che il figlio sia stato sbranato dalle belve.

Giuseppe giunge in Egitto, come schiavo del primo ministro Potifar: è benvoluto, anche per le tante cose che ha imparato alla scuola di suo padre. La moglie di Potifar si invaghisce di Giuseppe, ma lui si nega alla donna, che inscena un tentativo di violenza e lo fa gettare in carcere.

Qui, il giovane ha modo di mettere a servizio di altri prigionieri il suo dono di interpretare i sogni. Per questo, molto tempo dopo, quando il faraone è tormentato da due sogni terribili, Giuseppe è chiamato a corte. La sua saggezza gli fa conquistare un ruolo di prestigio: sarà l’incaricato della raccolta del grano e delle provviste, in vista di un periodo di carestia, che egli ha predetto grazie ai sogni del Faraone. Con il nuovo nome di Zafnat-Paneach sposa la giovane Asenat. È ormai un egiziano. Per questo quando i suoi fratelli spinti dalla carestia, giungono in Egitto in cerca di grano, non lo riconoscono. Giuseppe li mette alla prova e, avendo visto che il loro cuore è cambiato e sono pentiti del male fatto al fratello, si svela loro e li perdona. LA famiglia del patriarca Giacobbe, ormai anziano, si trasferisce in Egitto e Giuseppe può finalmente riabbracciare suo padre.

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Cristo Gesù pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio. Apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce

Che si fa capacità di rivestirsi dei sentimenti di Cristo, della mente, del cuore, della volontà di Cristo (cf Fil 2,5) ed entrare nel clima della pagina esperienza di Giovanni 13, 1-17.

“ma Cristo vive in me”

Dobbiamo giungere, attraverso questo ascolto profondo e trasfigurante, a vivere un’autentica esperienza di fede , di speranza e di amore che ci permette di vivere un’esperienza spirituale davvero cristificata, in cui il Cristo vive la sua originalità nella mia originalità.

Fabrizio si cristifica, Cristo si “fabrizizza”.

Cosicchè il Cristo:

Vive (Fil 1,21) Pensa (1 Cor 2,16) Opera (Gal 2,20) Ama (2 Cor 5,14) IN ME Vuole (At 22,10) Prega (Rom 8,26-27) Soffre (Fil 1,29) Muore (Gal 2,19b;Rom 6,6) Risuscita (2Cor 5,17)

“Questa vita che io vivo nella carne”

E’ l’esperienza della vita nella carne eucaristica. Non più una vita nella carne di peccato, ma l’invito forte ed appassionato di Paolo alla vita nella carne che diventa la carne dell’offerta del corpo. “Questo è il mio corpo”, come libertà liberata, che si dona per liberare molti nel “più dell’amore”.

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“Divento carne e do me stesso da mangiare” (cf “Date loro voi stessi da mangiare: Mt 14,16) nella logica della prevenzione dell’amore delicato, tenero e raffinato (cf Fil 1,9).

“Che mi ha amato e ha dato se stesso per me”

La cristificazione diventa partecipazione all’essere amore d’amicizia eucaristico: “Non c’è amore più grande di questo dare la vita per gli amici” (Gv 15,13).

Si giunge a donare il proprio “io profondo” nell’ “io profondo” Di Gesù che lo dona ogni momento per me. E’ il cammino dell’esperienza spirituale cristificante come conformazione trasfigurativa e quindi sostitutiva.

Così si entra, attraverso questo ascolto cristificante, nell’Apostolato della vita interiore eucaristica e cristificata.

L’apostolo diviene ed è un ostensorio che contiene Gesù Cristo e spande una luce ineffabile intorno a sé la luce che viene dalla perenne conversione (cf 2 Cor 4, 6).

La Liturgia della vita4: Rm 12,1-2

Con il capitolo 12 ha inizio la parte parenetica della Lettera ai Romani, che delinea l’orizzonte morale, che scaturisce dalla Teologia della Grazia, tracciata e delineata da Paolo nel complesso architettonico dottrinale dei capitoli precedenti.

Il nuovo stile dell’uomo trasfigurato dalla Grazia lo porta a vivere in modo intenso il suo qui ed ora in modo da renderlo quella Liturgia della vita, sacrificio personale ed esistenziale, che si origina nel Battesimo, per la misericordia di Dio, e che permette a tutta la propria esperienza umana e spirituale di essere un riverbero attualizzante e adempiente la volontà di Dio, personalmente, in ogni circostanza concreta.

4 Questo termine inizia a comparire dalla lavoro di R. CORRIVEAU , The Liturgy of Life. A Study of the Ethical Trought of St. Paul in His Letters to the Christ ian Communities , Bruxelles-Paris-Montréal 1970.

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Accogliamo il testo:

1Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. 2Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

Il brano di Romani 12, così caratteristico all’interno della esperienza spirituale di Paolo, ci permette di entrare nel suo rapporto vitale con il Signore, che si svolge e si realizza nella quotidianità della Liturgia della vita.

Paolo con questo testo ci dona la sintesi esistenziale della sua esperienza di uomo che, trasfigurato nel Cristo che vive in lui, ha veramente capito come debba centrare la sua vita sempre più in Lui e raggiungere così il pensiero del suo Gesù, che gli dona il pensiero del Padre e dello Spirito.

L’apostolo ci introduce in questa condivisione ed esortazione con il verbo parakaléo, che oltre ad significare appunto esortare nella sua semantica greca rimanda anche alla realtà del consolare. Sembra dunque che l’invito parenetico di Paolo ad essere Liturgia della vita sia direttamente proporzionale al suo essere consolazione. Diciamo essere consolazione facendo eco a ciò che il Cardinal Carlo Maria Martini afferma riguardo al consolare in Paolo alla luce della riflessione che egli fa riguardo ai primi versetti della seconda Lettera ai Corinzi dove Paolo per ben 10 volte fa riferimento al verbo parakaléo. Il Cardinale fa una sottile e provocante distinzione tra la consolazione intellettuale, affettiva e sostanziale 5: questa ultima è la presenza stessa del Signore nell’intimità del Paolo credente e cristiano, riverbero del non sono più io che vivo ma Cristo vive in me.

Allora l’esortare esistenzialmente non può che essere frutto di questa intima unitiva consolazione sostanziale. Paolo in questo modo può immediatamente esortare i fratelli della comunità di Roma in nome della misericordia di Dio, cioè di quelle viscere paterne e materne di Dio, che egli ha sperimentato e sperimentata nella delicatezza del tocco gratuito e trasfigurativo del Più dell’Amore di Dio stesso. Quella misericordia, che è l’esperienza del dono totale di Dio nella persona e nel vissuto esperienziale di Paolo, che sente nel profondo del suo essere l’operatività

5 Cf C.M.MARTINI, La forza nella debolezza, Casale Monferrato 2000, p.24.

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salvifica, redentiva e trasfigurativa della kenosi di Gesù, che vive in Lui profondamente e lo fa una persona ed una creatura nuova (cf 2Cor5,17).

L’invito di Paolo è di offrire il proprio corpo come sacrificio vivente santo e gradito a Dio. In questo modo l’apostolo chiede di penetrare e di rivestirsi come lui dell’ intelligenza del sacrificio, quella che sa considerare ogni momento della propria vita e della propria esperienza umana e spirituale come un kairòs nel quale vivere pienamente tutta la propria esperienza esistenziale. Già la sapienza contestatrice di Qohelet ricordava che c’è un tempo per tutte le cose. Così facendo proprio l’invito del salmo 90 a saper contare i propri giorni si giunge a quella sapienza del cuore, che permette contemplativamente di gustare ogni momento spazio temporale nella logica sacrificale del rendere e fare sacro quel momento puntuale della vita inserito nella storia sacra della liturgia della vita di ogni credente.

Paolo continua sottolineando che questo sacrificio deve essere santo e gradito a Dio quasi a ricordare che l’esperienza della Liturgia della vita cristificata non può che essere un continuo essere sacrificio di buon odore (cf Ef5,2) di quella cristificazione, che fa il cristiano buon profumo di Cristo (cf 2Cor 2,15) per gli altri in un autentico itinerario e pellegrinaggio di cristificazione cristificante molti.

Così questa dinamica e tensione oblativa e trasfigurativa è quel culto logico, che innestato nella dinamica del Logos, Parola incarnata, mette la tenda nella quotidianità di ogni qui ed ora del cristiano e lo rende luogo di incarnazione continua.

Successivamente nel secondo versetto di questo capitolo 12 Paolo sottolinea quasi le due condizioni per permettere a questa dinamica oblativa della liturgia della vita di giungere al suo fine ultimo e fecondo che è il discernere il dettaglio circostanziato della volontà di Dio nel Cristo che vive cresce e matura nel cristiano fino a raggiungere la sua piena maturità e dire sempre e comunque in questo processo sostitutivo: tutto è compiuto (cf Gv19,30).

La prima condizione è quella di non uniformarsi al mondo cioè di non rivestirsi degli schemi esteriori fallaci e senza interiorità di ogni mondo, nel quale satana può mascherarsi come angelo di luce (cf 2Cor11,14).

Questo è sicuramente un monito provocante e di una sagacia preziosa perché mette il credente in allertata vigilanza sul credere di non poter regolare la propria esperienza spirituale ed unitiva con il Signore su degli stereotopi di falsa religiosità, che possano essere con facilità fatti diventare ed ergersi come nuovi e pericolosi vitelli d’oro. Paolo in questa prospettiva ricorda che “chi crede di stare in piedi guardi di non cadere” (1Cor 10,12).

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In seconda istanza Paolo pone la seconda condizione di trasformare e rinnovare la propria mente, la propria coscienza. In questo caso Paolo usa il verbo greco interessante e provocante metamorphéo, che è il verbo che gli evangelisti Matteo e Marco usano per rendere evidente l’esperienza che Gesù ha vissuto durante la trasfigurazione sul Monte Tabor. L’invito di Paolo è così quello di giungere ad una trasformazione trasfigurativa ontologica della propria mente, che permetta al cristiano di rivestirsi di quell’uomo spirituale che ha il pensiero di Cristo (cf 1Cor 2,15), quello che nel latino della Vulgata risuona come il sensum Christi.

In questo modo l’ itinerario della cristificazione, che Paolo vive e propone, si fa capacità dinamica di essere permanente discernimento della volontà di Dio, che non è un qualcosa di astratto, nebuloso e lontano dalla realtà ma nella esperienza originalissima ed unica di Paolo diventa la scoperta di una realtà precisa, puntuale e circostanziata da discernere ed eleggere che viene ad inserirsi nel cammino di trasformazione ontologica del cristiano, che mangiando e saziandoci di questo cibo, che è appunto la volontà del Padre, come Gesù, si rivolge ed è permanentemente nelle cose del Padre suo perché fa sempre quello che piace al Padre (cf Gv 4,34; Lc2,49;Gv8,29).

Il discernimento come costituente fondamentale della Liturgia della vita, allora, non è una realtà speculativa, ma è un rispondere all’Amore, che chiama alla Sua bontà, al Suo gradimento, alla Sua perfezione.

Essere buono per Paolo, come per tutta la Scrittura, non è il solo bene morale, ma è soprattutto ciò che è conforme alla volontà di Dio. Il bello ed il buono sono solo ciò che è nel cuore e secondo il cuore di Cristo, del Padre, dello Spirito: tutto il resto è uno sprecare tempo, energie e voglia di vivere.

Essere gradito è un continuo invito ad avere sempre più il pensiero di Cristo: il cristiano deve, solo, scegliere come sceglierebbe e sceglie il Gesù che vive in lui: non c’è bisogno di altro!

Essere perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste (cf Mt 5, 48). La perfezione non è altro che essere nel Padre, ragionare come il Padre, come fa Gesù. Il credente si occupa delle cose del Padre, è nel Padre, fa solo quello che piace a lui. Gesù quando pronuncia questo non fa un discorso, che non sta né in cielo né in terra, ma è l’invito-vocazione la vocazione che rivolge a tutti per giungere alla piena maturità di Cristo (cf Ef4,13), e del Cristo che vive in me. In questo modo si può affermare che il cristiano non ha più solamente il pensiero di Cristo, ma ha il pensiero del Padre, cioè vive di quella perfezione, che non è solo fare bene o fare male, dire

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bene o dire male, ma è respirare a pieni polmoni l’unico sogno di Dio, l’unico fine per cui Dio, il Dio Amore vive e canta dall’eternità, che è quello di essere Amore!

Il Più dell’amore ritorna come il vero ed autentico ritornello, che Paolo canta nella sua Liturgia della vita, con i suoi silenzi, con le sue sofferenze, con le sue gioie, con le sue speranze ed è ciò che, con molta amicizia e semplicità, lascia al cristiano di ogni tempo come impegno per scendere continuamente dal monte della trasfigurazione e trasfigurarsi nel suo quotidiano ed in ogni suo quotidiano.

Ecco allora come una Liturgia della vita sempre più permeata dalla dinamica oblativa del Più dell’Amore vitale e trasfigurato permetta a Paolo di integrarsi perfettamente nel dono della grazia di Dio, che lo fa partecipe dello stesso dono totale del Cristo, che vive in lui e che dà tutto se stesso per amore.

La prospettiva spirituale e sapienziale della Liturgia della vita certamente ci proietta nella consapevolezza che la nostra esistenza ha il suo baricentro nella logica dell’essere libertà libere e liberate, che si donano e si spendono nel Più dell’amore per essere sacrificio di soave odore nel Cristo che vive in noi.

Quanto la dimensione oblativa e sacrificale è punto centrale della nostra esperienza e quanto l’intelligenza del sacrificio è la chiave ermeneutica ed il propellente del nostro pellegrinaggio di fede e di sequela nel nostro itinerario di cristificazione per cristificare Molti…?!!!

Nel rispondere con gioia e slancio a questa domanda trasfigurativa chiediamo al Signore che porti a compimento l’opera bella della cristificazione cristificante iniziata in Ognuno di noi. Amen. Alleluja…!!!

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LA TEOLOGIA DI SAN PAOLO

Per conoscere meglio la grande statura teologica di San Paolo cominciamo da questo numero la pubblicazione di riflessioni su alcuni grandi temi teologici, cristologici ed ecclesiologici del suo annunzio. In questo articolo vediamo la grande valenza cristologica della Croce nel suo pensiero.

NON MI VERGOGNO DELLA CROCE DI CRISTO

(di Bruno Maggioni – esegeta-)

La figura di San Paolo, la sua attività, la sua predicazione, la sua robusta riflessione teologica e spirituale riempiono tutto l’orizzonte del primitivo cristianesimo. E’ risaputo che le sue lettere non sono sempre di facile lettura. E i motivi sono diversi: il contesto culturale e religioso nel quale Paolo pensa e scrive, per molti aspetti assai lontani dal nostro; i suoi metodi esegetici, che sono – ovviamente – quelli in uso nelle scuole rabbiniche del suo tempo; la stesa ricchezza della sua riflessione spirituale e teologica, riflessione in evoluzione, che non subito e non sempre trova le forme espressive più chiare e più adatte; infine il suo stesso modo di procedere, vivacissimo, spontaneo, in nessun modo sistematico, impetuoso (afferra un pensiero, poi, lo abbandona, poi vi ritorna). Le

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lettere di Paolo sono per lo più interventi occasionali, in risposta agli interrogativi che man mano sorgevano nelle comunità. La teologia paolina si è formata sotto la spinta dei problemi che di volta in volta emergevano nella comunità. E’ teologia vissuta. Per questo non la si può capire se non si conoscono i problemi pastorali dell’Apostolo. Il teologo e il pastore in Paolo sono una cosa sola. Pur avendo alle spalle una lunga tradizione antico testamentaria, Paolo legge il volto di Dio nell’evento di Gesù Cristo. Qui scopre i tratti della novità che lo sorprende, lo affascina e gli cambia la vita. Per Paolo, Gesù è veramente “l’immagine del Dio invisibile”, come si legge nel grande inno cristologico della Lettera ai Colossesi (1,15), con una precisione che costituisce la tesi principale che questo articolo intende mostrare: secondo Paolo, lo spazio della novità di Dio è il Crocifisso risorto. Che il Crocifisso sia il Signore è la risurrezione che ce lo dice. Ma i tratti “nuovi”, sorprendenti, del volto del Signore si scoprono guardando il Crocifisso. Al centro dell’annunzio di Paolo c’è sempre – e si potrebbe dire unicamente – l’evento Gesù Cristo. E’ questo il contenuto pressoché unico del termine “Vangelo” che egli usa con frequenza. Si legga, a modo di esempio, 1Cor 15,1-11: “Vi rendo noto, fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che a mia volta ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa (Pietro) e quindi ai Dodici. In seguito apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli Apostoli. Ultimo fra tutti anche a me come ad un aborto. Io infatti sono l’infimo degli Apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato Apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per Grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la Grazia di Dio che è con me. Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto”. Il centro dell’annunzio –

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proveniente dalla tradizione apostolica, irrinunciabile, da conservare e tramandare con assoluta fedeltà pena la perdita della salvezza – è sintetizzato in questa formula: “Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture, apparve a Cefa e poi ai Dodici”. E’ questo un annuncio che deve risuonare in tutte le Chiese. Ma Paolo sa che questo annunzio non è privo di conseguenze nei confronti della società e delle sue strutture. Tanto è vero che proprio a partire dal Vangelo, egli si sente autorizzato a denunziare il mondo idolatra e ingiusto che lo circonda. Non lo denunzia perché non cristiano, ma perché è idolatra, immorale e ingiusto. Lo denunzia perché non è umano. Raccontare che Cristo morì non è ancora Vangelo. E’ semplicemente constatare la fine della sua vita terrena. Diventa “Vangelo”, cioè Buona notizia, quando si aggiunge: “per i nostri peccati” e “secondo le Scritture”. La prima specificazione indica il significato salvifico di quella morte. La seconda colloca quella morte nella logica del piano di Dio. La passione non fu evento “inutile” che sarebbe stato meglio non fosse accaduto: ha invece un significato di salvezza. “Per i nostri peccati” significa “a favore di” e “a causa di”: tale è il duplice senso del greco “uper”. Tutti e due i significati sono veri: crocifisso a causa dei nostri peccati. La passione, inoltre, non è un incidente purtroppo accaduto e poi fortunatamente superato, ma un fatto voluto (secondo le Scritture); e non è un’eccezione alla logica di Dio, bensì una sua manifestazione. Davanti a coloro che volevano mettere tra parentesi la Croce, o sminuirne la sua portata e quindi tutta la sua valenza di scandalo e di obbrobrio sia per i greci che per gli ebrei, mettendo più l’accento sul Cristo Risorto, Paolo oppone, senza alcun tentennamento, la croce e Cristo crocifisso come vera parola di sapienza opposta alla sapienza umana e carnale del mondo. Alla comunità di Corinto, troppo incentrata su un’esperienza carismatica del Risorto a discapito della Croce, quasi volendo rompere con essa e con la luce di fallimento che gettava sul Cristo, Paolo oppone la “parola della Croce” (1Cor 1,18) e il Cristo crocifisso (1, 23; 2,2) nella sua concretezza storica, nella sua

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paradossale forza salvifica e nella sua permanenza così egli costringe i corinti a scoprire la “potenza” e la “sapienza” nell’evento stesso della croce e non soltanto nel suo superamento mediante la risurrezione. Paolo sa benissimo che Gesù ora è il Risorto (per questo lo chiama “Cristo”), ma ai Corinzi vuole ricordare che il Risorto è pur sempre il Crocifisso. Lo spartiacque tra coloro che si salvano e coloro che si perdono, e dunque ciò che fa la differenza tra la fede e l’incredulità, è formulato da Paolo in diversi modi: “Parola della croce” (1Cor 1,18), “predicazione” (1,21), “Cristo Crocifiso” (1,22; 2,2) “mistero (2,1). Parole diverse che però si indirizzano verso un unico punto, che è la Croce: essa è infatti, il disegno di Dio nascosto e ora rivelato (“mistero”), la testimonianza dell’amore di Dio, un amore sconfinato, misericordioso e appassionato, la lieta notizia del Vangelo e la salvezza. La via della croce passa attraverso l’evangelizzazzione degli umili e lui con ferma decisione vuole annunziare il Cristo crocifisso in tutta la sua cruda nudità, senza ricorrere a raggiri di parole o badare al prestigio degli uomini, ma predicando alla gente semplice e senza importanza. Ai corinti, in ricerca di perfezione e sapienza, Paolo ricorda che i “perfetti” sono quelli che capiscono – fino in fondo – la stoltezza della croce e ne fanno il criterio di vita. Paolo, perciò, ci prospetta una sapienza cristiana, una teologia, che però non consiste nel sottrarsi alla debolezza della croce, bensì nel capirla fino in fondo. Molte sono le alterazioni: tra l’uomo e Dio, tra uomo e uomo, tra popolo e popolo, tra l’uomo e la natura. Il disegno stesso di Dio è stato alterato e ora la ricomposizione passa attraverso la croce perché essa è l’espressione di un amore che perdona e che trasforma chi ad essa si arrende. E la trasformazione consiste nell’amore di Dio che ci spinge, così che non viviamo più per noi stessi, ma per lui. La riconciliazione tra noi e Dio che avviene mediante la croce, trasforma radicalmente la direzione del nostro essere, supera il nostro egocentrismo. Non elimina, quindi, semplicemente il nostro stato di colpa, ma ci riordina e ci riorienta profondamente in Cristo.

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AVE O CROCE, NOSTRA UNICA SPERANZA!

“A me non avvenga mai di menar vanto se non nella croce del nostro Signore Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo è stato crocifisso per me ed io per il mondo”. (San Paolo)