Il parcheggio di notte

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Il parcheggio di notte racconti di natale 2012

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Racconto di natale 2012

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Il parcheggiodi notte

racconti di natale 2012

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Il Parcheggio di notteLa linea di mezzeria corre decisa verso la fine o l’inizio di ogni

percorso. Il più delle volte è tratteggiata, un’alternanza di bian-chi e neri, un pianoforte steso sulla pancia del mondo. Interrotta, spezzata e proprio per questo segno, per chi la costeggia, di velo-cità. Consente il sorpasso, libera dalla gabbia isolata delle corsie. Ricorda un po’ la vita - pensò Golf - mentre i fari ne illuminavano il ritmo. La linea di mezzeria è un metronomo, incessante, sempre uguale a se stesso, che si adatta alle salite e alle discese, che de-finisce spazi e scandisce cambi di direzione. In mezzo alle strade si affaccia protagonista, non tira né di qua né di là, non sbilancia. È la certezza esatta di trovarla nel mezzo, nel suo inequivocabile equilibrio di prima e dopo, che convince il guidatore a riporvi fi-ducia.Golf conosceva bene il significato della segnaletica, più di una

volta il vecchio Maggiolone gli aveva ripetuto di prestarci atten-zione, di non sottovalutare i triangoli e di rispettare le zebre. Sape-va anche che, dopo ogni lungo tratto di linea spezzata, compare inesorabile quella continua, spesso in prossimità di curve perico-lose, dove i freni mordono rallentando la corsa. La linea continua rinchiude le sfuriate della velocità nella carreggiata e, se doppia, incute addirittura timore.Dopo quell’ultima curva, Golf avrebbe trovato riposo. Ad atten-

derlo i suoi compagni del Parcheggio e una lunga notte di brina, che ancora una volta avrebbe messo a dura prova le energie della batteria.I fari illuminarono il cartello della stazione. Questione di un cen-

tinaio di metri e comparve la nuova asta semovente dell’accesso con tessera. Le sue brillanti luci al led rendevano spigliato il fred-do e precoce respiro dell’inverno.Una lenta manovra in prima, quindi due aggiustamenti a mar-

cia indietro. Poi il rumore dei passi, veloci di ritardo, andò via via sbiadendo. Il Parcheggio parve tenere il fiato. Quando furono certe di es-

sere sole, le automobili presero a salutarsi. Ogni sera lo stesso amichevole appello: «Ehi, dov’è Peugeot? Tutto bene Mini? Fi-

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nalmente sei tornato Golf. Rolls, non ho ancora capito che ci fai qui, ma sono contento che anche questa notte la passi con noi». Quindi, bisbigliando, quella voce baritonale si rivolgeva imman-cabilmente ad ApePiaggio: «Avere fra noi uno dei quartieri alti fa sempre comodo. Se i furfanti vengono a farci visita si interessano prima a lui e lasciano in pace noialtri, uhm. E poi è simpatico, non si dà per niente arie da super-bollo». A parlare, sempre per primo, era Amsa, il grande e vecchio ca-

mion della nettezza urbana che sostava nel Parcheggio da più di 10 anni. Un veterano a cui era riservato il posto vicino al caseg-giato. Da lì scappava qualche brandello di calore utile per preser-vare i vetri dal fastidioso ghiaccio.Quella sera era una sera importante. Il Natale si avvicinava. Le

autoradio avevano intercettato qualche pubblicità di panettone, segno inequivocabile della festa. Suv giurava che nel suo baule, proprio il pomeriggio prima, erano transitati dei pacchi avvolti in carta da regalo e chiusi con un fiocco cosparso di brillantini (che, con suo enorme disappunto, si erano sparsi su tutti i tappetini dell’auto, persino sulla ruota di scorta). Quella era la sera delle luminarie. A breve si sarebbero accese in

sequenza. Ford, dotato di un computer di bordo di ultima gene-razione, ricordava perfettamente quanto accaduto l’anno prece-dente: prima le vetrine dei negozi avrebbero dato vita a una danza di lucine bianche, quindi l’aria fra i lampioni sarebbe esplosa in un bagliore di centinaia di luci gialle. Cascate ad arco che avrebbe-ro disegnato un’allegra quinta di stelle fino alla stazione. Infine, la stazione stessa avrebbe preso forma nella notte: i profili delle finestre, la sagoma del tetto, la navata dell’ingresso. Tutto si sa-rebbe colorato di vibrazioni luminose e splendenti.L’attesa era altissima, soprattutto fra le due giovani Cinquecen-

to parcheggiate in prima fila. Loro quello spettacolo, di cui tanto avevano sentito parlare, non lo avevano ancora mai visto.Verso le 22 la Station Wagon scandì il conto alla rovescia. Giun-

se a zero e... il Parcheggio sprofondò nel buio. Non solo delle luminarie non vi fu traccia, ma svanì pure la luce dei lampioni che, come guidati da un direttore d’orchestra, chiusero all’unisono il coro di luce. Anche le case piombarono nell’oscurità.

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Rimasero tutti delusi, qualcuno si spaventò, altri dopo qualche minuto di incertezza presero sonno. Molti bisbigliarono teorie di black out; il gruppo delle Jeep osò battute sguaiate e fuori luogo; per alcuni rimase la curiosità di sapere cosa fosse accaduto. Le risposte giunsero il giorno seguente con l’arrivo di Bmw nel

Parcheggio. La Berlina, come la chiamavano gli amici, era un auto modernissima: frenava da sola di fronte al pericolo ed aveva im-parato a leggere i cartelli stradali. «Ragazzi - disse con il minimo dei giri motore - ho letto l’ordinanza del Sindaco appesa fuori dal Parcheggio. A causa della crisi, niente luminarie quest’anno e la luce, nelle strade come nelle case, verrà spenta alle 10 di ogni sera, Natale compreso».«Non ci posso credere», fu il commento più diffuso. Qualcuno

si fece prendere dalla rabbia: «Maledetta crisi! Non solo mi tocca respirare tutto il giorno il fumo delle Euro 2 che non vengono rot-tamate, ora debbo pure rinunciare alla festa di Natale e acconten-tarmi di quelle monotone frecce come unica luce intermittente». «Non siamo frecce, siamo indicatori di direzione», squittì una voce sommessa e scocciata da sotto il cofano.Il più aggressivo fu Carroattrezzi: «Non ne posso più di traspor-

tare ogni giorno auto rotte, che sgocciolano sulla mia carrozzeria olio e liquido di raffreddamento, solo perché i proprietari non han-no soldi per far loro la giusta manutenzione. Da domani lascio tutti per strada e penso ai fatti miei».Dopo una settimana di buio totale Amsa era seriamente preoc-

cupato. In tutti quegli anni non aveva mai udito un tale silenzio nel Parcheggio. Neppure i fastidiosi Motorini avevano voglia di disturbare con il chiasso delle loro marmitte.Non si poteva continuare così: che gli uomini andassero pure

avanti a risparmiare, a chiudersi in casa, a non fare più di 10 Euro di benzina alla volta - rinunciando al pieno che tanto faceva felici le auto... Loro non si sarebbero arresi, avrebbero trovato il modo di sorridere di nuovo. Giorno dopo giorno, tra lo spinterogeno e la centralina di Amsa,

si fece largo un piano.Adagio arrivò la vigilia di Natale, un peso quasi insostenibile per

chi attende la festa pur sapendo di non poterla assaporare. L’o-

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spite è presente, ma non parla, non abbraccia, non condivide.A quel punto il vecchio Amsa prese in mano la situazione ed ini-

ziò a dirigere i suoi compagni di sosta.Non avevano bisogno delle luminarie per far festa, disse al grup-

po disposto a lisca di pesce. Potevano trovare in se stessi tutto quello che serviva per gioire. Anche loro avevano delle luci, basta-va solo usarle non più per servire unicamente la marcia di altri, ma per mostrare anche la propria bellezza.AutostradePerL’Italia fu incaricato di tracciare una linea a forma

di albero di Natale, con il suo spruzza vernice, proprio al centro del Parcheggio. PoliziaMunicipale, con i suoi lampeggianti blu e il suo senso dell’ordine, guidò ogni auto al posto giusto. Quando anche Tir riuscì a far manovra, tutto fu pronto. Un potente colpo di clacson, suonato da Hammer, diede il via. Nel buio viscerale di quel difficile e triste inverno, nel tempo del

protratto sospiro della crisi, in quel Parcheggio, prese vita uno stupefacente ed inatteso albero di Natale. Dapprima le luci di po-sizione bucarono lievi la nebbia; quindi presero a pulsare i ros-si e gli arancio degli stop. L’alternanza delle luci bianche della retromarcia e l’intensità degli abbaglianti spiazzò le ultime ma-linconiche ombre. I lampeggianti gialli di Carroattrezzi parvero la stella cometa che lambisce la cima dell’albero, mentre le frecce irrefrenabili dei Motorini scoppiettavano come fuochi d’artificio. Il tocco finale lo regalò Spargisale: una pioggia simile a neve scop-piò nell’aria.L’effetto e la sorpresa furono di incredibile bellezza. Dalle case,

volti allegri si affacciarono sul piazzale e pian piano il Parcheggio di notte si riempì di festa.Fu il Natale più strano che si fosse mai visto, un gesto di impal-

pabile e creativo risveglio.

Enrico Martinelli

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La storia di una principessa

C’era una volta una principessa con una madre molto buona, ma il suo papà era un po’ cattivo e quindi sgridava sempre la figlia di nome Elisa. Ma un bel giorno un principe venne a sapere di questa principessa Elisa, e arrivò al castello.Ma in quel momento la principessa Elisa uscì dal castello e il

principe si nascose dietro un cespuglio. La principessa Elisa era uscita per raccogliere un mazzo di fiori. Erano le rose per la mamma che si era ammalata, ma il papà che non gli importava né della mamma e neanche della figlia, se ne andò di casa.Il principe in quel momento uscì dal nascondiglio e chiese alla

principessa se volevano diventare amici e lei disse di sì.Poi presero la mamma che era guarita e andarono a cercare il

papà. Lo trovarono fermo a un bar e la principessa lo abbracciò. Il papà capì che si era comportato male e quindi vissero felici e contenti.

Chiara Matilde Martinelli

La SperanzaTratto da “Lettere della Speranza” di don Primo Mazzolari

Quando il mare è in tempesta, si ammainano le vele e si gettano le ancore in un porto sicuro. Se il fondo tiene, si resta lì ad aspet-tare di vedere la fine della tempesta. L’àncora è il simbolo di quel dono del cielo che porta il nome di speranza e che, insieme alla Fede e all’Amore, è la sostanza di un altro dono - non meno divino - che è la Vita. Sono molti coloro che confondono la speranza con l’istinto di

vivere e credono così di aver detto tutto. Non si chiedono nep-pure chi può avere seminato in una creatura fragile e finita come

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l’uomo, un istinto così tenace che va oltre la morte e ne acqueta l’orrore. A quale voce risponde, la Speranza? A quale mano si affida?

Alla ragione o al cuore? La Speranza è un’illusione che ci copre gli occhi per non farci vedere l’inesorabile rovina delle nostre cose più care, oppure ce li tiene aperti perché vediamo meglio e più avanti?Il fatto è questo ed è un grande mistero: sento che qualcosa di

mio, qualcosa di davvero prezioso, non può essere travolto da nessuna tempesta. Qualche cosa di mio, simile ad un’arca, gal-leggia sulle acque come nei giorni del diluvio. Le stesse acque che sommergono ciò che deve perire in me, salvano ciò che deve essere salvato. La Speranza allora mi restituisce ciò che è davvero mio e che

non posso perdere senza perdermi: ciò che veramente mi appar-tiene. La Speranza vede la spiga quando i miei occhi di carne non vedono che il seme che marcisce. Cede la foglia, quando è pronta la nuova gemma: cede il frutto e cerca la terra per nascondersi quando i suoi semi sono maturi. Si cede alla Speranza come si cede alla vita, come si cede a Dio, perché non si può vivere dav-vero senza Speranza, come non si può vivere senza Dio. Sant’Agostino lo dice benissimo: “Nemo autem potest disperare

qui diligit”,...”Chi ama non può disperare”. Tutte le speranze, anche le più tenui, le più fragili, perfino i sogni

e le illusioni, appartengono alla Speranza e vengono da Dio. E a Natale è questa la nostra Speranza, unica e vera: il Figlio

di Dio, facendosi uomo, ha legato la sua sorte alla nostra. Egli, per tornare all’immagine delle acque agitate, prende posto sulla nostra barca e ne condivide le vicende, gli sballottamenti, i rischi. A Natale il Salvatore è nella mangiatoia per salire un giorno sulla

barca dei discepoli, per stare con noi.

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