Il Panno Blu

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Questo volume è stato realizzato dall’Istituto di Biometeoro-logia del Consiglio Nazionale delle Ricerche nell’ambito del progetto “Nuove forme di occupazione e orientamento nei territori rurali” finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Po-litiche Sociali, Direzione Generale per le Politiche per l’Orien-tamento e la Formazione.

RESPONSABILE DEL PROGETTO

Giampiero Maracchi

COORDINAMENTO

Francesco CannataFrancesca Camilli

GRUPPO DI LAVORO

Elisabetta BressanLucia CherubiniElena PagliarinoAntonio RaschiChiara Screti

www.progettorientamento.it

© 2005 BY MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI

© 2005 BY CNR-IBIMET

ISBN 88-901460-2-8

IDEAZIONE COORDINAMENTO E REALIZZAZIONE DEL PROGETTO EDITORIALE

Giampiero MaracchiFrancesca CamilliChiara Screti

REALIZZAZIONE EDITORIALE

EDIFIR-EDIZIONI FIRENZE

www.edifir.itResponsabile del progetto editorialeSimone GismondiResponsabile editorialeMassimo Piccione

GRAFICA DI COPERTINA

Serenella Bruni per Fotoset

PROGETTO GRAFICO

Fabrizio Bagatti

SUPERVISIONE DELL’ATTIVITÀ EDITORIALE

Vera MarincioniManuela MiggianiAntonio NappiDirezione Generale per le Politiche per l’Orientamento e la Formazione, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali

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PresentazioneVera Marincioni 7

PrefazioneRoberto Mariottini e Maddalena Senesi 9

IntroduzioneGiampiero Maracchi 11

PARTE PRIMA. IL PANNO CASENTINO 13

Cenni storici, luoghi e testimonianze intorno alla lavorazione della lana in Casentino Andrea Rossi 15

Premessa 15La lavorazione della lana nel periodo preindustriale 15 Il ciclo di lavorazione nel periodo preindustriale 17La lavorazione della lana nel periodo industriale 25 Il ciclo di lavorazione nel periodo industriale 26Breve storia del tessuto casentino dal Medioevo ad oggi 27 Alla scoperta dell’arte della lana in Casentino Un itinerario tra archeologia industriale, luoghi e testimonianze 28Glossario 36Bibliografia 36

PARTE SECONDA. LA PIANTA BLU 37

PresentazioneBenito Carletti 39Il guado: antica coltura della Valtiberina

Donatella Zanchi Santioni 40Isatis tinctoria o guado 40La coltivazione e la lavorazione nel passato 40La tintura nel passato 42Dal XIII al XVII secolo 43Il XIX e il XX secolo 44

Blu pastello: jeans e altro… Maria Inferrera e Andreina Crispoltoni 46Le origini e la progettualità 46 Le opere di Piero della Francesca 48 Il percorso 50La tecnica e la sua storia 51 Trattamento di tintura 53Appendice. Dalle foglie del guado (Isatis tinctoria) all’indaco (indigotina)Giorgio Cestelli e Miriam Ricci 55Bibliografia 57

PARTE TERZA. IL PANNO BLU 59

PresentazioneDomenico Massaro e Brunella Matarrese 61Un viaggio nel blu Maria Inferrera e Andreina Crispoltoni 61Dalla scuola al territorio, la storia di

un’esperienza didattica per un prodotto “innovativamente” tradizionale

Francesca Camilli e Chiara Screti 62Conoscere e comunicare il territorio 62 La proposta di “Valorizzazione del panno casentino” ai ragazzi dell’ITC 62 Mettersi nei “panni” dei ragazzi 63 La proposta del tema di ricerca ai ragazzi dell’ISA di Sansepolcro e l’unione di intenti delle politiche delle due Comunità Montane 64 L’organizzazione delle attività con la classe dell’ITC 64Il percorso dei ragazzi della IVB. La realtà storica ed economica del tessile in Casentino 66 La prova di colorazione a Sansepolcro 68 I risultati della colorazione 69 I prodotti 71Riflessioni 71 Le possibilità future del prodotto 73 Un evento espositivo a conclusione dei lavori 76Bibliografia 77

INDICE

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PRESENTAZIONE

In un periodo storico dell’umanità in cui si parla di globalizzazione economico-finanziaria, presentare

un’attività produttiva particolare legata, tra l’altro, ad uno specifico territorio potrebbe sembrare una contraddizione.A nostro giudizio non è così.La ricerca “Nuove forme di occupazione e di orientamento nei territori rurali”, promossa e realizzata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in collaborazione con il CNR-IBIMET, ha lo scopo di valorizzare le caratteristiche economico-produttive di determinate aree del nostro paese, al fine di creare nuovi orizzonti per specifiche produzioni manifatturiere e agricole di qualità e per la produzione dell’artigianato artistico.La sfida, che è alla base di tutto ciò, è quella di sostenere e valorizzare le risorse locali.Il recupero della coltivazione del guado e l’utilizzo dell’indaco da esso ricavato, di grande rilievo per la tradizione locale e la produzione del tessuto casentino, possono costituire un importante volano di sviluppo, integrando l’attività agricola con altre attività di tipo artigianale e permettendo, quindi, di avere delle ripercussioni positive sull’occupazione.Questa volontà di rivalutazione s’inserisce nella prospettiva di recuperare intere filiere produttive, che devono necessariamente essere inserite nel proprio territorio: al di fuori di esso non avrebbero significato.Le aree di studio della ricerca, Valsugana, Casentino-Valtiberina e Fortore-Alto Tammaro, costituiscono il banco di prova del modello della ricerca, con l’obiettivo di utilizzare tale modello in altre aree geografiche aventi caratteristiche similari.

Questo volume, oltre a presentare la metodologia e i risultati della ricerca inerente la coltivazione del guado e la produzione dell’indaco, vuole essere nello stesso tempo uno sprone per le istituzioni e popolazioni locali a riscoprire il proprio patrimonio economico-produttivo.Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la ricerca “Nuove forme di occupazione e di orientamento nei territori rurali” non solo ha voluto evidenziare l’importanza di recuperare e valorizzare le risorse presenti in determinati territori, ma, a tal fine, ha voluto anche sottolineare la necessità di creare un sempre più stretto rapporto tra mondo della ricerca, mondo della scuola e mondo delle imprese.Infatti, “Il panno blu”, oltre alla peculiarità cromatica che lo caratterizza, unisce la storia tradizionale e di grande qualità della lavorazione della lana in Casentino all’opera di integrazione proposta nell’ambito delle attività progettuali svolte dal CNR-IBIMET in collaborazione con le scuole superiori delle aree geografiche oggetto di studio, con l’obiettivo di avvicinare i giovani alle produzioni tipiche locali e alle imprese.Sperimentare la tintura del panno casentino con il guado della Valtiberina ha sollecitato, tra l’altro, alcune realtà imprenditoriali locali a valutare la nascita di un prodotto alternativo e ha stimolato la curiosità dei ragazzi a guardare alla tradizione in modo nuovo.

Vera MarincioniDirezione Generale per le Politiche

per l’Orientamento e la Formazione

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Storia, tradizioni agricole ed artigiane di grande valore culturale, scuola e ricerca: questi sono i cardini sui

quali è stato realizzato questo libro che raccoglie espe-rienze diverse percorse da un filo conduttore comune.Tale filo è quello che ha portato all’idea di sperimentare la tintura del panno casentino con l’indaco ricavato dal guado della Valtiberina, un’idea sviluppatasi nell’ambito del progetto “Nuove forme di occupazione e orienta-mento nei territori rurali” che, coinvolgendo due Istituti di Istruzione Superiore, ha dato vita ad un lavoro intorno al quale si è creata una forte unità di intenti tra enti ed istituzioni locali.Le Comunità Montana del Casentino e della Valtiberina Toscana hanno sostenuto con grande interesse questa sperimentazione e hanno partecipato con piacere alla realizzazione di questo volume che rappresenta una oc-casione concreta per far conoscere alcune delle risorse produttive di più alto valore culturale per i due territori.È altresì di grande importanza considerare come questa esperienza abbia gettato le basi per l’evoluzione di lega-mi proficui non solo, per le politiche dei due territori, ma anche per le loro economie.Tali legami, individuabili a diversi livelli, meritano alcune riflessioni.La coltivazione del guado di grande rilievo per le tradi-zioni locali e la produzione del tessuto casentino, può far riflettere sulla necessità di individuare un grande poten-ziale di sviluppo economico nell’integrazione fra attività agricole ed altre attività locali di tipo artigianale in due territori che hanno sistemi produttivi caratterizzati da una forte identità storica e territoriale.Un sistema produttivo locale costituto da imprese agri-cole e non agricole che interagiscano tra loro costituisce, infatti, un punto di forza per quelle politiche di integra-zione economica e di coesione sociale che, nel rispetto della conservazione e riproduzione degli equilibri natu-rali, possono promuovere una qualità totale dei territori, dal punto di vista della loro promozione verso l’esterno e da quello della vivibilità per i residenti.

Le aree del Casentino e della Valtiberina Toscana, indi-viduate come distretto moda tessile della Provincia di Arezzo, secondo l’Osservatorio della moda - Sintesi del rapporto 2003, appaiono più un insieme di subsistemi produttivi locali autonomi con specificità difficilmente leggibili in un unico insieme unitario (poiché fortemente specializzati in produzioni di tipo tradizionale).È per questo che si deve fare in modo che le specificità locali possano essere un punto di vantaggio.In questo senso, dunque, è necessario valorizzare e raf-forzare l’identità del territorio, allo stesso tempo spe-cializzandolo, attraverso sperimentazioni ed applicazioni che concorrono a rendere più forti i territori ed a creare strategie ed obiettivi comuni in un’ottica distrettuale.Se, come afferma il rapporto sopra citato, nel distretto moda tessile aretino emerge la difficoltà a sviluppare una progettualità non solo, a livello di singola impresa ma, soprattutto, a livello sovraordinato di complessivo sistema locale, è proprio nell’individuazione delle stra-tegie e degli obiettivi comuni che può essere trovata una soluzione.E, se ancora risulta insufficiente il livello di innovazione, ed, in particolare la persistente difficoltà a far comuni-care il sapere concreto detenuto dalle imprese con le conoscenze scientifiche astratte tipiche del mondo della ricerca, questa esperienza che ha visto operare insieme un ente di ricerca, l’istituzione scolastica e l’impresa, ha gettato il seme per la nascita di una progettualità che come rappresentanti dagli enti locali sosteniamo for-temente con l’auspicio che le imprese del Casentino e della Valtiberina Toscana possano adottarla e svilupparla rendendola uno strumento di crescita di insieme dei due territori.

Roberto MariottiniPresidente della Comunità Montana Casentino

Maddalena SenesiPresidente della Comunità Montana Valtiberina Toscana

PREFAZIONE

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L’inizio del terzo millennio si caratterizza per tre aspetti totalmente nuovi che caratterizzeranno tutto il secolo: la globalizzazione dell’economia, l’impatto dell’uomo sull’ambiente del pianeta, lo spostamento di masse di emigranti portatori di culture e di stili di vita profondamente diversi da quelli dei paesi che li accolgono.Gli schemi organizzativi, gli assetti sociali e politici, le regole che si sono affermati dalla rivoluzione francese in poi e che negli ultimi due secoli hanno permesso un progresso economico e sociale dei paesi industrializzati mai visto in precedenza, ne usciranno profondamente modificati e con questi probabilmente i valori che ne sono alla base.In questo contesto è necessario effettuare uno sforzo di fantasia e di lungimiranza per prepararsi a questi cambiamenti epocali ed evitare che quanto di positivo è stato acquisito nell’ultimo secolo in termini di benessere e di coscienza individuale e collettiva, venga rapidamente perso.La globalizzazione economica comporta che la produzione manifatturiera di prodotti di prima necessità, di largo consumo e di bassa qualità come abbigliamento, arredamento, prodotti alimentari, oggetti di uso comune domestico, elettronica, mezzi di trasporto, ecc., vada a collocarsi nelle aree dove il costo della mano d’opera è minore.Ciò, peraltro, apre una prospettiva nuova sia per le produzioni manifatturiere ed agricole di qualità e/o di nicchia opportunamente controllate e certificate, sia per la produzione dell’artigianato artistico.Si apre così la prospettiva per un nuovo tipo di manifatturiero non legato più soltanto alla produzione di grandi quantità ma, piuttosto, a prodotti con particolari caratteristiche.Tra questi, i prodotti come le fibre ed i coloranti naturali fanno parte di una politica di recupero

di intere filiere che non avrebbero significato se estraniate dal territorio, dalla sue identità e dalle sue caratteristiche: tali politiche mirano ad arrivare al prodotto finito tenendo conto, non solo, di possibili nuovi orientamenti dei consumatori, ma anche degli aspetti relativi alla conservazione dell’ambiente ed alla promozione delle attività artigianali.Il desiderio innato nell’uomo di distinguersi dagli altri in termini di status sociale, infatti, porterà a rivalutare le produzioni particolari, gli oggetti unici o in piccole serie: in poche parole ravviverà il desiderio della personalizzazione.Caratteristiche di questo tipo di produzione saranno la qualità dei materiali, le tecniche di esecuzione, il design. A questo si deve aggiungere il riferimento alla storia ed alla identità di un territorio che diviene, in un momento di contatto talvolta problematico con altre civiltà, un elemento aggiuntivo di valore, come è già evidente nelle produzioni alimentari di qualità.L’insieme di tutto ciò si inserisce in un contesto più ampio che riguarda vari aspetti come, ad esempio, una visione nuova e lungimirante del rapporto fra economia del turismo e gestione dei centri storici da vedersi come uno strumento di diffusione e di promozione delle attività dell’artigianato artistico e delle identità locali.È in questo quadro che si inserisce l’attività di ricerca e di promozione svolta per conto del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali in collaborazione con gli istituti di istruzione e gli enti locali dei territori.

Giampiero MaracchiDirettore dell’Istituto di Biometeorologia

Consiglio Nazionale delle Ricerche

INTRODUZIONE

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parte prima

IL PANNO CASENTINO

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Premessa

L’Ecomuseo del Casentino, progetto promosso dalla Comunità Montana del Casentino, è costituito da una

rete di piccoli spazi espositivi, diffusi nella Valle, a stretto contatto con le varie comunità locali. Le varie “antenne” tematiche hanno ruoli e caratteristiche che suggeriscono anche tempi, spazi e modalità di fruizione diversificate. Rac-cogliere, documentare, conservare, interpretare, mettere a confronto, comunicare, educare, sono alcune delle funzioni esplicitate dalle strutture tutte concorrenti, tuttavia, al rag-giungimento della medesima missione: la tutela e la valoriz-

zazione del patrimonio territoriale nelle sue componenti ambientali, storico-culturali, produttive ed etnografiche. Un particolare strumento di conoscenza ed interpretazio-ne delle tematiche dell’ecomuseo è rappresentato anche dal documento audiovisivo, fruibile all’interno delle BAN-CHE DELLA MEMORIA, presenti presso alcuni siti ecomuseali, che rappresentano un utile complemento alla visita.Il testo presentato rappresenta una sintesi del quaderno didattico “Sul Filo della Lana”pubblicato nell’ambito del progetto Ecomuseo del Casentino a cura di Andrea Ros-si. Alcune informazioni sono tratte dal libro di P.L. Della Bordella, L’Arte della lana in Casentino, che rappresenta tutt’oggi l’opera di riferimento sull’argomento in ambito casentinese.

La lavorazione della lana nel periodo preindustriale

La lavorazione della lana in Casentino ha origini antichis-sime: è documentata sin dal periodo romano come testi-moniano i ritrovamenti di alcuni reperti (pesi per telaio verticale, fuseruole e forbici) risalenti al I o II sec. d.C., rinvenuti dal Gruppo Archeologico Casentinese.I prati, i boschi ed i torrenti, le principali risorse naturali del Casentino, costituirono le premesse insostituibili per la nascita e lo sviluppo della lavorazione laniera. L’acqua, in particolare, era essenziale non solo per lavare e tinge-re i velli, ma per le varie fasi della lavorazione del filato. Infatti, l’energia che alimentava le “macchine” per sodare i panni e per la macinazione delle sostanze coloranti, era di origine idraulica.

1. Particolare della formella relativa all’arte della tessitura. Firenze, Campanile di Giotto

Cenni storici, luoghi e testimonianze intorno alla lavorazione della lana in Casentino

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I principali stabilimenti lanieri nacquero e si svilupparo-no, quindi, lungo le valli trasversali all’Arno, caratterizzate dalla presenza di torrenti con una portata d’acqua piut-tosto costante: in primo luogo le valli dello Staggia, del Solano e dell’Archiano.Altro elemento importante alle origini dell’attività laniera casentinese, fu la presenza dei monaci eremiti, organizzati nei rispettivi complessi, che introdussero, per far fronte alla rigidità del clima, l’attività dell’intreccio, nel loro stile di vita.Le prime notizie documentate relative all’esistenza di un’at-tività laniera risalgono alla metà del XIV secolo, e fanno ri-ferimento all’esistenza di gualchiere per purgare i panni, già esistenti da tempo ed ubicate nella valle del Solano. I primi tentativi proto-imprenditoriali, invece, finalizzati alla crea-zione di “lanifici” intesi come concentrazione di “purghi, gualchiere, macini per le galle e tinte” risalgono ai primi del XVI secolo, proprio in coincidenza con una crisi dell’arte della lana cittadina causata dalla mancanza di materia prima.

In Casentino, al contrario, per l’abbondanza di lana, si ebbe un allargamento del mercato, pur nei limiti delle regole im-poste dalla Corporazione Fiorentina dell’Arte della Lana.Uno statuto fiorentino del 1535, estende a tutto il vicaria-to casentinese l’esenzione al divieto di commerciare panni di lana; si aggiungeva, tuttavia, la condizione che non co-stassero più di soldi tre e denari dieci a braccio. In questo modo si sottolineava in pratica il primato qualitativo della città, lasciando al contado la produzione di panni lana più grossolani e scadenti che non potessero entrare in con-correnza con la produzione dei lanaioli fiorentini.In Casentino, a causa anche delle leggi discriminanti prima citate, non si riuscì fino al settecento ad organizzarsi ad un livello imprenditoriale e commerciale apprezzabile.Finalmente nel 1738 il granduca Francesco III di Lorena, libe-ralizzò la manifattura di panni di qualsiasi genere a tutto lo stato dando così avvio ad un nuovo capitolo per l’attività la-niera casentinese che raggiunse il suo apice nel XIX secolo.

La corporazione fiorentina dell’arte della lana

La prima forma di attività laniera fiorita in Toscana fu quella chiamata, in Firenze, di Calimala, relativa al raffinamento del panno forestiero, generalmente pro-veniente dalla Francia. I “panni francesi, fiamminghi, in-glesi”, acquistati alla fiera dello Champagne erano in finezza e morbidezza, grazie alle particolari proprietà della lana, molto superiori a quelli italiani. L’arte di Ca-limala si sviluppò nel capoluogo toscano tra l’XI e il XII secolo, precedendo la corporazione dell’arte della lana vera e propria che invece si occupava dell’intero ciclo di lavorazione che si dette e i suoi statuti solo tra il 1317 e il 1319. Durante il XIV secolo le corporazioni delle arti e dei mestieri, e quella della lana in partico-lare, divennero i motori primi della vita economico-politica ed artistica della città. Esisteva, all’interno della struttura associativa, una regola gerarchica articolata in tre classi: i lanaioli (i ricchi imprenditori che dirige-vano l’arte); i membri minori tra cui: tintori, conciatori

gualchierai e rifinitori (a cui era concessa una parteci-pazione all’amministrazione della Corporazione); i pre-statori d’opera (tessitori, scardassieri, filatori, battilana, lanini, stamini …) esclusi da ogni fase decisionale.La sorveglianza delle corporazioni sugli affiliativi e sui manufatti prodotti era strettissima al fine di mantenere alta la qualità e di impedire ogni forma di concorrenza.Il Casentino, oltre agli inevitabili contatti commerciali con i lanaioli fiorentini ha conosciuto il potere della corporazione laniera attraverso due episodi significati-vi per la storia della valle:– quali gestori della foresta dell’Opera del Duomo– quali tutori presso il Santuario della Verna a fianco

degli osservanti durante la diatriba tra le diverse fazioni. La loro presenza è tutt’ora documentata dai caratteristici stemmi raffiguranti l’Agnus Dei.

Il medesimo stemma lo si ritrova in corrispondenza di castelli e di palazzi casentinesi, fatto apporre dai vicari inviati dal Governo Fiorentino appartenenti alla corpo-razione dell’Arte della Lana.

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Il ciclo di lavorazione nel periodo preindustriale

Il ciclo della lana è l’insieme delle operazioni che dalla tosatura, attraverso vari passaggi, giunge fino alla messa a punto del panno-lana. In età pre-industriale, era un ciclo “diffuso” sul territorio, tale da coinvolgere luoghi e sa-pienze diverse riconnessi insieme come momenti di uno stesso processo.Ogni operazione assumeva un ruolo ben specifico in rap-porto alle risorse (umane e naturali) presenti nel territo-rio. Il ciclo della lana aveva inizio in alta quota, in montagna, dove vi erano pascoli più estesi e greggi più numerose. Ogni primavera si procedeva alla tosatura delle pecore, da parte degli stessi pastori o tramite opportune maestranze.La lana veniva poi portata alla bottega del lanaiolo (o impannatore) il centro organizzativo dell’Arte.Una volta giunta in bottega la lana, dopo essere stata lavata, era sottoposta alla cardatura in modo da disporre le fibre in parallelo per renderle più idonee alla opera-zione successiva della filatura.I mazzi erano consegnati a domicilio da apposite figure (stamini per le fibre di trama, lanini per le fibre di ordito) non solo nei borghi, ma anche nelle colline circostanti.Una volta rientrato il filato nella bottega, sotto forma di matasse o cannelli, si procedeva alle operazioni prelimi-nari alla tessitura: la preparazione dell’ordito e l’ avvolgi-mento del filo attorno al subbio, oltre alla predisposizio-ne delle spolette per la trama.La tessitura vera e propria si praticava soprattutto nei borghi e in alcuni casi nella bottega stessa.Una volta pulito e rammendato, il tessuto era portato presso le gualchiere per essere sottoposto alle operazio-ni di purgatura e sodatura con opportune sostanze sgras-santi, tra cui il ranno o la terra da purgo.

Si poteva procedere a questo punto alla tintura del pan-no lana (qualora non fosse stato effettuato preceden-temente in fiocco o sul filato) servendosi per lo più di sostanze tintorie di origine vegetale.In seguito, per dare alla lana una rifinitura più morbida, lucente ed uniforme si passava alle operazioni di finissag-gio tra cui la garzatura e la cimatura.Il tessuto ancora umido, poi, veniva steso all’aperto per l’asciugatura ai tiratoi; infine si procedeva alla pressatura ed al confezionamento del prodotto.Ripercorriamo da vicino i vari momenti del ciclo di la-vorazione.

La tosaturaCon tale operazione, effettuata in primavera, in corrispon-denza della stagione calda, viene asportato il vello di lana dalla pecora. Un tempo il procedimento era effettuato per mezzo di grosse forbici dette anche cesoie e successiva-mente con le forbici a pettine manuali o elettriche.I forbicioni in metallo dalla caratteristica forma arcaica sono strumenti che con pochissime variazioni ritrovia-mo dai Romani, al Medioevo sino ad oggi.Il lavoro veniva svolto presso le “vergherie” dove si radu-navano i greggi durante la transumanza o presso gli ovili veri e propri.L’operazione della tosatura era effettuato dai tosini, mae-stranze specializzate nell’attività della tosatura, che ge-neralmente operavano in squadre itineranti seguendo itinerari prestabiliti.Esistevano in passato intere frazioni “specializzate” in questo tipo di attività. Fino a pochi anni fa erano presenti squadre di tosini ancora attive nei paesi di Garliano, nel comune di Castel San Niccolò e di Pontenano nel co-mune di Talla.

Cenni storici, luoghi e testimonianze intorno alla lavorazione della lana in Casentino

L’allevamento ovino in Casentino

L’allevamento ovino ha rappresentato da sempre una delle risorse primarie della valle, costituendo una del-

le premesse insostituibili allo sviluppo dell’arte della lana. La cura delle greggi era sicuramente già presente in epoca etrusco-romana, nella quale furono tracciate alcune direttrici di transumanza per lo spostamento

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stagionale delle greggi. Durante il Medioevo abbiamo notizia di numerosi capi di ovini proprietà delle poten-ze feudali locali: i conti Guidi, ma anche gli Umbertini, i Tarlati e i monaci camaldolesi, proprietari, al contempo dei vari opifici tessili della zona. Tale situazione perdurò fino alla fine del XVIII secolo quando, grazie alle nuo-ve leggi promulgate dal governo dei Lorena, si attuò il frazionamento delle proprietà terriere consentendo una maggiore distribuzione del patrimonio fondiario e quindi lo sviluppo dei piccoli allevamenti di pecore.La pastorizia in tutto il periodo pre-industriale, infatti, veniva praticata in maniera diffusa, da parte delle comu-nità di montagna, anche come forma di auto-consumo o di integrazione al reddito. Essa consentiva la disponibilità di prodotti quali il latte e la lana utili per la produzione di formaggio e affini e per la manifattura domestica di indumenti destinati ai componenti della famiglia.Spesso in corrispondenza dei piccoli insediamenti di alta quota era praticato, sino alla metà del secolo scor-so, l’uso della “vicenda”, attraverso il quale, le piccole greggi del paese erano riunite e condotte, dalla mattina alla sera, presso le pasture collettive della comunità, seguendo consuetudini antichissime di usi civici dei bo-schi e dei pascoli.Un particolare impulso all’allevamento ovino, anche in Casentino, si ebbe nei primi anni del XIX secolo, grazie all’introduzione di arieti di razza merinos che portarono ad un notevole miglioramento nella qualità delle lane sempre più richieste anche dalle manifatture tessili locali.L’incremento delle greggi, che raggiunse il suo apice nella prima metà dell’Ottocento, con un numero com-plessivo di ovini stimato intorno ai 70.000 capi (Zuc-

cagni Orlandini), il più alto della Toscana se rapportato all’unità di superficie, insieme ad una spinta cerealicola, spesso praticate ai danni del bosco, portò ad un au-mento del degrado ambientale già iniziato con i disbo-scamenti incontrollati della fine del XVIII secolo.La bassa produzione di foraggi e la scarsa qualità dei “sodi”, problemi endemici per l’agricoltura casentinese, stimolarono ulteriormente la pratica della transuman-za verso le ubertose pasture maremmane che, a cavallo tra Settecento e Ottocento, assunse grande importan-za attraverso la costituzione di imprese armentizie.Un segnale in contro tendenza fu dato intorno al 1840 dall’ispettore granducale Karl Simon che, dissodando terreni non forestati, con coltivazioni a rotazione di patate, rape, grano e bolognino, dimostrò che era pos-sibile riuscire a svernare un branco di pecore senza ricorrere a migrazioni. Egli introdusse montoni meri-nos a partire dal 1841, ottenendo meticce morette, la cui lana era ricercatissima, anche per il colore, per la manifattura dei panni frateschi.L’allevamento ovino ha conosciuto notevole fortuna sino agli anni Trenta del XX secolo, per poi diminuire vertiginosamente in seguito all’esodo dalla montagna verificatosi nel Dopoguerra.

Nota: La pratica della transumanza e dell’allevamento ovino trovano un particolare approfondimento all’interno della rete ecomuseale presso il CENTRO DI DOCUMENTAZIONE DELLA CULTURA RURALE DI CASTEL FOCOGNANO con alcune sezioni dedicate alla lavorazione del latte e della lana e presso la COLLEZIONE RURALE CASA ROSSI dove sono conservati attrezzi ed oggetti legati anche alla transumanza provenienti per lo più dalla Valle dell’Archiano.

La transumanza: storie e caratteristiche

Il fenomeno della transumanza, lo spostamento stagio-nale delle greggi al mutare delle condizioni dei pascoli,

costituisce un aspetto che ha interessato ampie zone del Mediterraneo da tempi antichissimi fino alla prima metà del XX secolo. Per la Toscana, e il Casentino in particolare, possiamo parlare soprattutto di transu-

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Cenni storici, luoghi e testimonianze intorno alla lavorazione della lana in Casentino

manza discendente, o inversa, effettuata cioè dai monti alla pianura. Si ha notizia tuttavia, anche se in misura minore, di un tipo di transumanza ascendente, detta anche monticazione, per la quale le greggi degli alleva-tori di pianura venivano condotte nei pascoli casenti-nesi di alta quota durante la stagione estiva.Fin dal XIV secolo sono documentati branchi di pecore, appartenenti ai conti Guidi, che dal Casentino, si spo-stavano in Maremma durante l’inverno ripercorrendo antichi tracciati di probabile origine etrusco-romana.Il motivo principale degli spostamenti stagionali, per gli allevatori del Casentino, è da ricercare sicuramen-te nella scarsa base foraggiera per il nutrimento delle bestie.I compilatori del Calendario Casentinese del 1839 pur riconoscendo che «… la causa costante delle emigra-zioni è riposta nelle particolari condizioni delle pro-vince, le quali per ostilità del clima o per la magrezza del suolo non producono abbastanza onde alimentare i propri abitanti», in più occasioni ribadiscono la loro contrarietà per la pratica della transumanza. Sostengo-no infatti che se i pastori casentinesi «si dessero a con-siderare le spese dei lunghi viaggi, le giornate perdute nell’accesso e recesso delle Maremme; i patti durissimi a cui si assoggettano… le spese di malattie ed altri casi imprevisti ai quali vanno soggetti, si accorgerebbero ben presto esser passivo lo spatriare, anziché utile». Lo stesso degrado ambientale viene in qualche modo connesso a questa pratica: «la troppo diuturna per-manenza nella Maremma è pregiudiciale all’agricoltura montana, poiché le faccende si fanno tardi e troppo in fretta … Al loro ritorno si dissodano le pasture, si at-terrano le boscaglie per ridursi a sementa senza ordine senza intelligenza … ed in poco tempo si vedono i loro campi ridotti a nude scogliere …».Fino ai primi decenni del secolo scorso, tuttavia, le greggi casentinesi hanno continuato ad effettuare le loro migrazioni stagionali. Nei mesi di settembre ed

ottobre si effettuavano i preparativi per la partenza. Gli allevatori affidavano le greggi al capo pastore tran-sumante, detto vergaio che, con l’aiuto di vari garzoni diveniva il responsabile per il viaggio e per tutta la du-rata della permanenza in Maremma. Il vergaio gestiva di solito una masseria composta dai 5 ai 30 branchi con un numero di ovini che oscillava dai 1500 ai 9000 capi. Una buona parte del bestiame era tenuto “a soccida”, per cui il proprietario concedeva il gregge ad un altro pastore che forniva la forza lavoro e con il quale divi-deva a metà il profitto.I branchi transumanti, subirono un sensibile incremen-to a partire dalla fine del XVIII secolo in seguito alla liberalizzazione dei disboscamenti ed al conseguente aumento dei pascoli. Le pecore, che si spostavano lun-go percorsi appositi ai lati dei quali correvano strisce erbose larghe circa 14 metri, non potevano percorrere meno di 5 miglia al giorno. La sosta veniva effettua-ta spesso presso alcune case coloniche nelle quali si chiedeva ospitalità ai contadini in cambio di prodotti in natura. Le pecore venivano rinchiuse in recinti formate da reti sostenute su pali piantati nel terreno per mezzo di magli in legno.Il percorso, in ogni caso, era sempre pianificato prima della partenza, quando si dovevano iniziare le pratiche per le varie autorizzazioni che prevedevano conteggi delle pecore presso gli uffici doganali e il pagamento di diverse gabelle.Ad esempio, durante il viaggio di andata i pastori del-l’Alto Casentino, erano obbligati ad un primo conteg-gio e relativo pagamento presso la Calla di Rignano sul-l’Arno alla quale si aggiungeva un ulteriore pagamento per la concessione della fida una volta giunti alla Calla di Paganico. Al ritorno dovevano percorrere a ritroso lo stesso itinerario che prevedeva una nuova sosta a Paganico e un nuovo conteggio dal quale doveva ri-sultare un incremento del bestiame di almeno il 25% attraverso la nascita degli agnelli durante l’inverno. A

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La figura del lanaioloLa bottega del lanaiolo costituiva il vero centro organiz-zativo dell’intero ciclo di lavorazione.Il lanaiolo rappresentava, infatti, la “cerniera” indispen-sabile per un insieme di operazioni: dai contatti con gli allevatori di ovini per il rifornimento della lana, alla con-segna a domicilio dei mazzi di lana da filare o dei subbi con l’ordito per la tessitura. Egli presiedeva, per mezzo di lavoranti appositi, ad una serie di operazioni tra le quali: la lavatura, la battitura, la cimatura, la garzatura, la pressa-tura, ecc.; controllava l’esecuzione presso terzi (qualora non fosse stato proprietario diretto) delle operazioni di tintura, gualcatura, molitura di sostanze coloranti.Provvedeva, infine, alla commercializzazione del tessuto.

La cardaturaQuesta operazione serviva a districare la lana, in modo che le fibre risultassero parallele e facilitassero la succes-siva operazione della filatura.Una volta giunta nella bottega, la lana era sottoposta ad un primo lavaggio. Dopo di ciò era posta sopra un graticcio dove con l’aiuto di bastoni veniva battuta per “aprirla”; infine, veniva oliata. A questo punto si passava alla cardatura dove le fibre di lana per mezzo di tavolette con denti metallici usati in coppia uno sopra l’altro con movimenti opposti, erano rese parallele.Anticamente per tale operazione erano usati i cardi (da qui la derivazione del nome) che furono ben presto so-stituiti da pettini metallici, per le lane più fini, e dagli scar-dassi per la manifattura delle fibre ordinarie che poteva-no consistere in due semplici tavolette o in un cavalletto munito di pettini fissi sui quali era fatto passare il pettine manuale. Altri strumenti potevano essere caratterizzati

da un pettine basculante, il cardatore. Le fibre lunghe ser-vivano per ottenere il filato dell’ordito, mentre le fibre corte venivano adoperate per ottenere il filo di trama.

La filaturaPer mezzo della filatura si torcevano le fibre di lana per ottenere un filo continuo ed omogeneo.Attraverso l’uso delle mani e di strumenti appositi, quali il fuso e la rocca o il filatoio a pedale, si riduceva la lana in filo avvolgendolo intorno al fuso o al rocchetto del filatoio. Ottenuto il filato si passava alla formazione delle matasse; tale operazione era detta annaspatura, dal nome dello strumento utilizzato detto aspo semplice o rotan-te. La filatura veniva svolta per lo più a domicilio, dalle donne, presso i nuclei abitati ubicati nelle colline e nelle montagne intorno alla bottega del lanaiolo.Il compenso per il lavoro della filatrice era molto basso, spesso effettuato in natura. Le lavoratrici per rivalersi degli abusi dei lanaioli frodavano e si appropriavano di parte del filato, sostituendo il peso del filo sottratto, umi-dificando quello restituito.Antiche iconografie ci documentano come l’operazione della filatura fosse già in uso nelle civiltà precristiane, dapprima attraverso l’utilizzo delle mani e delle gambe, poi attraverso l’ausilio di strumenti quali la rocca ed il fuso, la cui forma è rimasta immutata nel tempo.Verso la fine del XIII secolo fu introdotta la prima mec-canizzazione della filatura, il mulinello: il fuso veniva fatto ruotare per mezzo di una puleggia a corda mossa a mano, in modo che si potesse avere la torsione e l’avvolgimento contemporaneamente. Nel XV secolo apparve il filatoio ad alette azionato con pedali o a mano che permetteva un lavoro continuo.

Rignano infine, si dovevano sottoporre ad un nuovo conteggio e ad una nuova tassa.Compiuto il viaggio di andata e una volta giunti in Ma-remma, gli allevatori costruivano delle capanne per mezzo di pali, canne palustri e scope. La masseria si

componeva di diversi alloggi organizzati gerarchica-mente: all’alloggio del vergaio, di solito circolare con copertura conica all’interno del quale si effettuava la lavorazione del latte, si affiancavano quelle degli altri pastori oltre ai vari ricoveri per gli animali.

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La tessituraL’operazione del tessere, in maniera schematica, consiste nell’intrecciare una serie di fili paralleli che costituisco-no l’ordito, con un filo a questi perpendicolare, detto trama.Le matasse di filo ottenute con l’aspo, lavate ed asciugate erano poste sull’arcolaio, per la preparazione delle rocche (orditura) e di piccoli fusi chiamati anche cannelli per la spola del telaio (trama).Una delle operazioni preliminari era anche l’orditura at-traverso la quale si avvolgevano i fili intorno al subbio. In seguito, si passava al processo della tessitura vera e propria nel quale, attraverso il movimento dei licci ab-bassati e alzati alternativamente dopo il passaggio della navetta recante il filo di trama, si arrivava alla definizione del tessuto.Per effettuare la tessitura, in Casentino, era usato il telaio orizzontale di diverse dimensioni e, a seconda

delle esigenze, si potevano distinguere: il telaio per tessuti o il telaietto per bordure con larghezze molto più ridotte.Generalmente questa era un’arte femminile che le donne praticavano presso la propria abitazione (spesso anche all’interno delle stalle essendo il luogo più caldo della casa), sia per uso familiare che per conto terzi.

La sodaturaIl tessuto di lana, una volta tolto dal telaio, controllato e riparato da eventuali difetti, veniva lavato, per elimi-nare le sostanze untuose usate per la filatura e quelle collose usate per la tessitura. La lavatura si effettuava in acqua bollente e sapone, con l’aggiunta di urina fermen-tata e lisciva, poi immerso nell’acqua fredda e strizzato. Seguiva poi la purgatura vera e propria effettuata con terra da purgo o da follare, chiamata argilla smectica, un silicato di alluminio idrato più alcali che aveva proprietà sgrassanti. Questa operazione veniva effettuata in ge-nere insieme alla follatura o sodatura all’interno delle

2. La filatura con rocca e fuso ancora in uso in Casentino fino ad alcuni decenni fa (foto A. Rossi)

3. La tessitura con antichi telai manuali praticata ancora nel comune di Poppi (foto A. Rossi)

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gualchiere, macchine idrauliche, dove i panni-lana una volta sistemati all’interno di cassoni detti pile, erano colpiti da grossi martelli in legno detti pestelli sollevati alternativamente da un albero a camme collegato ad una ruota idraulica.Anticamente, fin verso il X secolo, la follatura nella quale si provocava l’infeltrimento del tessuto, per renderlo più spesso (sodo), veniva effettuata dai “fulloni” (in latino ‘la-vatori di panni’) i quali, immersi dentro grossi recipienti,

premevano con i piedi e con i pestelli a mano il tessuto collocato nella tinozza.

La gualchieraAlla base del meccanismo della gualchiera vi è l’uso del-l’acqua quale forza motrice. Numerosi sono gli opifici (documentati in Casentino e ubicati per lo più lungo gli affluenti dell’Arno) che venivano utilizzati per la sodatu-ra dei panni.

Gualchiere del medio e alto Casentino

Nella Carta Idrografica del 1883, riferita al medio e alto Casentino, le gualchiere sono ormai ridotte a poche unità, una lungo il Solano presso il ponte di Strada e due nei pressi di Bibbiena. In realtà la loro consistenza numerica in passato era molto rilevante, in particola-re durante il secolo XVIII. Presso il torrente Staggia da Papiano a Stia si hanno notizie dal XVI secolo di alcu-ne gualchiere ubicate nella località omonima (oggi “La Tintoria”) gestite dalla famiglia Simonetti. Nel Sette-cento a questa subentra la famiglia Ricci che alla fine del secolo risulta proprietaria di cinque gualchiere e tre tintorie. Sarà questa la stessa famiglia che in pochi anni, attraverso una riorganizzazione complessiva del-l’attività laniera, darà vita al complesso del Lanificio di Stia. Presso il Ponte d’Arno a Pratovecchio è ac-certata una gualchiera e alla fine del XIX secolo sarà organizzata una manifattura di panni lana, all’interno del Casone Rontani. È, tuttavia, lungo il torrente Sola-no che si ebbe la maggiore concentrazione di questi opifici. Sono attestate alcune gualchiere a partire dal XIV secolo. L’arte del gualcare divenne una sorta di specializzazione per le comunità della zona; ancora nel XIX secolo i lavori più comuni delle donne sono il filare e il tessere e quelli degli uomini il fabbricare gualchiere da panni. In particolare dai Libri d’Estimo della Comunità di Vado dei primi anni del Settecento, sono documentate «… due gualchiere alle gualchiere

4. Il percorso del Berignolo di Soci, con gli opifici idraulici (Archivio di Stato di Arezzo, Catasto Granducale, prima metà del XIX secolo)

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di Casa Ricciolino poco più a monte del Borgo di Strada , … alla Ruota una casa con quattro stanze ad uso di gualchiera e due tiratoi, … alla Casina sopra Prato una casa con cinque stanze ad uso di due gual-chiere, … all’Anciolina [alla confluenza del torrente Scheggia con il Solano] una gualchiera e un mulino a due palmenti». Altri impianti dediti alla follatura della lana sono inoltre documentati ai piedi del castello di Battifolle, lungo lo Scheggia; nella località ancora oggi denominata “Le Gualchiere”; ed infine nel borgo di Pagliericcio dove dal XVII secolo è attestata l’attività della famiglia Grifoni che, con continuità, si dedicherà alla manifattura laniera. A partire dal XIV secolo, nei pressi di Soci, grazie alle acque del Berignolo, il canale derivato dal torrente Archiano, i monaci Camaldolesi alimentavano una gualchiera presso il molino di Soci.

Alla fine del XVII secolo due gualchiere risultano af-fittate dalla famiglia Grifagni che, insieme alla famiglia Franceschi di Partina, si dedica all’arte della lana fino alla metà del XVIII secolo. La gualchiera ubicata più a monte rispetto al paese di Soci, trasformata in mulino nel XIX secolo, conserva ancora il toponimo origina-rio: Mulino delle Gualchiere. Alla metà del XIX secolo la famiglia Ricci di Stia compra definitivamente gli opi-fici idraulici dalla Congregazione Camaldolese dando una svolta alla produzione laniera locale, operazione continuata anche dal nipote Sisto Bocci attraverso la costruzione del Lanificio di Soci e della Fabbrichina di Partina. In corrispondenza del paese di Rassina, infine, la famiglia Rassinesi alla metà del Settecento gestisce quattro gualchiere. In seguito, l’attività laniera cede il passo a quella della seta.

La ruota mossa dall’acqua del canale, fa ruotare su se stesso l’albero a camme; le alette imprimono movimen-to, in modo alternato, ai dei martelli che schiacciano continuamente il tessuto contenuto in una cassa o pila, di solito costruita in legno di quercia. Da una enciclopedia del secolo scorso apprendiamo che:

«la gualchiera è una macchina che serve a sodare i panni, e cangia in pannolana un tessuto di lana. L’ufficio della gualchiera è di battere in varie guise il tessuto già lavato e digrassato, e di ridurlo in dimensioni assai più piccole di quelle che aveva prima. Per quest’operazione il tessuto diviene compatto, morbido e flessibile tanto più, quanto meglio è guidata la sodatura, e si riduce a quella finezza che osserviamo nei panni del commercio [...] varie specie di gualchiere furono dai mecca-nici immaginate; quella più comunemente usata consiste in un ordigno di magli che nel loro mo-

vimento prodotto da una ruota idraulica o dal-la forza del vapore follano i tessuti dentro una cassa».

La tinturaAttraverso questa operazione si interveniva sul colore naturale del tessuto o del filato.Prima della operazione di tintura vera e propria, il tessu-to era sottoposto alla mordenzatura con cui si predispo-neva la fibra ad un miglior assorbimento del colore. La sostanza più adoperata, a questo proposito, era l’allume di potassio. Successivamente il tessuto veniva immer-so con il colorante in vasche di rame chiamate vagelli. Questi erano disposti sopra o dentro strutture di pietra aventi apertura alla base, dove veniva acceso il fuoco per poter far bollire la pezza nel colore (Fig. 5).La fibra veniva girata continuamente con bastoni, in modo da rendere uniforme la tintura; tolto dal vagel-lo, il tessuto veniva sciacquato con l’acqua corrente dei torrenti per eliminare il colore in eccesso. I coloranti

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naturali ed in particolare le sostanze coloranti di origine ve-getale furono le uniche sostanze tintorie adoperate fino alla metà del secolo scorso. Alcuni documenti riferiti al territorio casentinese riportano la dicitura “mulini da galle”, impianti destinati alla molitura delle escrescenze, dette appunto galle, che si formano su alcune parti della pianta, in seguito alla puntura che alcuni insetti vi fanno per deporvi le uova. Le galle migliori per ottenere il co-lorante sono le galle di quercia che contengono un’alta percentuale di tannino. I colori che si ottengono sono il grigio scuro e il nero.

La garzatura, la cimatura e l’asciugatura ai tiratoiLa garzatura, chiamata anche cardatura (dal nome della pianta utilizzata), era in uso anche presso i Romani che adoperavano, a tale scopo, le pelli degli istrici. La difficoltà di reperire tali animali portò alla creazione di pettini di ferro. Le macchine per garzare vennero introdotte già nel XV secolo; le più antiche illustrazioni di tali macchine, sono rappresentate negli schizzi di Leonardo del 1490. Queste macchine erano e sono tutt’oggi costituite da uno o più rulli coperti di cardi sopra i quali veniva fatta

scivolare la stoffa. Alla fine del XIX secolo, si cercò di sostituire il cardo di origine naturale (Dispecus fullononi) con uno artificiale, fabbricando cilindri con punte di me-tallo. L’operazione, effettuata per rendere più morbido e lucente il tessuto alzando le filze più brevi del filato, poteva essere svolta anche dopo la follatura.La pezza bagnata svolta su due pertiche orizzontali, veniva lavorata strisciando sul tessuto un telaietto di legno provvisto di manico, dove erano fissate le teste della pianta di cardo. Questa pianta, detta anche cardo

dei lanaioli appartiene alla famiglia delle dispacacee e la testa del cardo, il capolino, è usato nel ciclo dei panni di lana e di lino. Fino ad alcuni anni fa il cardo era prodot-to anche in Casentino. Dalla metà del XIX secolo ad opera di Sisto Bocci (proprietario del lanificio di Soci) si importarono semi francesi per migliorarne la qualità aumentando la dimensione e la resistenza del capolino stesso. Presso la collezione “Casa Rossi” di Soci e presso

5. Vasca per tintura con sottostante fornello a legna. Ponte a Poppi, ex Lanificio Cecconi

6. Il cardo del lanaiolo

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la mostra permanente sullo storico lanificio a Stia sono tuttora conservati alcuni cardi utilizzati nella lavorazione laniera.Una delle ultime fasi di lavorazione a cui era sotto-posto il tessuto, era rappresentata dall’asciugatura e dalla stiratura, indispensabili per portare la pezza alla lunghezza desiderata sfruttando la sua elasticità. A questo scopo venivano utilizzati appositi telai in legno detti tiratoi. Il panno lana veniva steso all’aper-to appendendo la parte superiore della pezza all’asta orizzontale per mezzo di appositi ganci. Dopodiché, il tessuto fissato nella parte inferiore su un apposito bastone, tenuto in tensione, veniva portato alla lun-ghezza desiderata spostando l’asse inferiore verso il basso servendosi dei fori presenti sui due montanti verticali. I tiratoi, la cui forma è rimasta praticamente immutata dal Medioevo al secolo scorso, erano si-stemati solitamente nei pressi delle gualchiere, ed, in seguito, dei lanifici, come risulta anche da diverse de-scrizioni d’epoca.Nei pressi del lanificio Grifoni a Pagliericcio, nel Comu-ne di Castel San Niccolò, esiste una collina con terrazzi sostenuti da muri a secco dove possono ancora essere osservati alcuni tiratoi in metallo utilizzati nel secolo scorso.

La lavorazione della lana nel periodo industriale

Il passaggio dal periodo preindustriale a quello proto-industriale e poi più propriamente industriale è segnato, anche per il settore laniero, dall’accentramento in uno stesso luogo delle varie fasi di lavorazione e dalla defini-zione di spazi di lavoro adeguati per accogliere il concen-tramento di macchinari e lavoranti.Tale trapasso avvenne, come ben si può comprendere, gradualmente. Infatti, ancora nel 1811, i funzionari inca-ricati di stendere un censimento sulla produzione indu-striale in Casentino, si lamentavano di come le operazio-ni di filatura si svolgessero ancora con sistemi arretrati e

come i panni di lana venissero fabbricati per la maggior parte nelle case dei contadini, denunciando il limite co-stituito dall’incapacità di superare lo stadio della produ-zione a domicilio.Nella prima valle dell’Arno, segnali definitivi in direzione industriale per il comparto tessile sembrano verificarsi verso la metà del XIX secolo, periodo nel quale alla ces-sazione dei piccoli centri produttivi distribuiti nella valle, fa riscontro il decollo di alcune situazioni particolari (Stia e Soci in primo luogo).Con le sue fabbriche accentrate (che sostituivano i vec-chi opifici ubicati lungo il torrente Staggia) il paese di Stia divenne, proprio allora, il centro di un processo di modernizzazione dell’industria della lana casentinese.Nel giro di pochi anni a partire dal 1830, data probabile della prima introduzione di macchine tessili moderne in Casentino, Stia divenne la punta di diamante dell’indu-stria laniera Toscana.Così si esprimeva significativamente il Calendario Ca-sentinese per l’anno 1840, parlando di questa comunità: «… ecco il solo paese della provincia ove il tuo animo si apre a un conforto, perché così vede le forze della na-tura chiamate dall’arte a contribuire all’industria di una intiera popolazione».Il primo esempio di “lanificio moderno” con macchine e 260 operai fu la fabbrica di Marco Ricci, discendente di una famiglia di lanaioli che tra il Settecento e l’Ottocento si era impadronita di tutti gli insediamenti lanieri lungo il torrente Staggia.Nel momento di massimo impiego nella fabbrica Ricci localizzata nel paese di Stia, chiamato anche la “Piccola Manchester della Toscana”, lavoravano circa 500 operai fra uomini, donne e bambini.Data la povertà della restante economia della valle, il lanificio costituiva una fonte di ricchezza per tutta la popolazione casentinese che direttamente o indiretta-mente gravitava intorno all’industria tessile: dai pastori, ai barrocciai, dai commercianti, ai piccoli negozianti.Si era assistito in pratica, in Casentino, proprio verso la metà dell’Ottocento, ad una piccola rivoluzione indu-

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striale che si andò diffondendo e radicando sulle preesi-stenti tradizioni locali di Stia, in primo luogo, ma anche di Bibbiena, Pratovecchio e Soci, dove un altro pioniere dell’industria tessile casentinese, Giuseppe Bocci, ristrut-turò le vecchie gualchiere, già proprietà dei monaci Ca-maldolesi, per farne una fabbrica più moderna.Un contributo decisivo allo sviluppo dell’arte della lana, attraverso una riqualificazione delle razze ovine casenti-nesi, lo si deve a Carlo Siemoni amministratore e ispet-tore granducale delle Foreste Casentinesi.Il Casentino, tuttavia, rimaneva ancora lontano dalle grandi vie commerciali moderne, basti pensare che le due grandi arterie verso Firenze attraverso la Consu-ma e verso Arezzo, furono realizzate solo verso la metà dell’Ottocento, e che i trasporti erano affidati esclusiva-mente ai barrocciai.Tra la fine del XIX secolo e la Prima Guerra Mondiale si assistette al periodo d’oro di tale attività; nel 1888, fu attivata la linea ferroviaria Arezzo-Stia, mentre il mer-cato nazionale in crescita e le esigenze della nazione da poco riunita, rappresentarono un incentivo per i lanifi-ci casentinesi specializzati in panni-lana e forniture per l’esercito.Dopo la crisi del primo Dopoguerra, il lanificio accentra-to nel Casentino sembrò riprendersi.La politica del fascismo e le sue manie bellicistiche favori-rono la ripresa dell’industria tessile casentinese la cui pro-sperità ci è confermata dalla visita di alcuni uomini illustri.La crisi del secondo Dopoguerra che colpì tutto il set-tore laniero, ebbe effetti gravissimi anche in questa valle. Molti degli antichi lanifici della vallata dovettero chiudere e molti casentinesi emigrarono verso le grandi città in cerca di migliori condizioni di vita.

Il ciclo di lavorazione nel periodo industriale

Per il periodo industriale il ciclo di lavorazione della lana ripercorre, in sostanza, le medesime operazioni di quello pre-industriale, pur con le evidenti differenze dal punto di vista tecnico. Alla base del ciclo produttivo resta sem-

pre la fondamentale divisione delle lane merinos, incro-ciate e ordinarie che, in senso lato, vengono nell’industria così impiegate: le prime per la fabbricazione dei pettinati, le seconde per pettinati o cardati e le terze per tappeti, panni e materassi. Nell’industria laniera, in particolare tessile, ci sono due procedimenti diversi e ben distinti di lavorazione: il procedimento pettinato ed il procedi-mento cardato. La distinzione riguarda particolarmente le operazioni che precedono la filatura.

Il procedimento pettinatoLe operazioni sono le seguenti.L’apertura: mediante una macchina detta “lupo apritore” la lana viene leggermente sgrovigliata e liberata dalle im-purità più grossolane. La lavatura: la lana passa in quattro vasche contenenti acqua calda con soda, potassa e sapo-ne per la sgrassatura. La cardatura: attraverso le macchine cardatrici la lana è trasformata da fiocchi e nodi in velo, quindi avvolta in grossi rotoli. La pettinatura: ha il compito di liberare il nastro da tutte le impurità, dai grovigli. Stiro e preparazione alla filatura: mediante una lunga serie di passaggi sugli stiratoi il nastro è tirato, allungato e ridot-to di diametro.

Il procedimento cardatoPer quanto riguarda il procedimento cardato le opera-zioni sono le seguenti.La mischia: data la varietà di lane impiegate, la preparazio-ne delle mischie o impasti ha particolare importanza in questo procedimento.Il carbonizzo: le lane per cardato, sia vergini che rigenera-te, ossia provenienti dagli stracci, sono talvolta così im-pregnate di scorie vegetali che non solo possono com-promettere la bontà del manufatto, ma anche la stessa lavorazione meccanica e la tintura: è, pertanto, neces-sario eliminarle e ciò si ottiene con un bagno di acido solforico o cloridrico.La cardatura: non è fatta su una sola cardatrice ma viene prolungata su tre carde per ottenere un maggior effetto di miscela delle lane e di sgrovigliamento delle fibre. In secon-

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do luogo il velo passa disteso ad un’altra macchina detta divisore, che lo divide in tante strisce successivamente tra-sformate in stoppini o lucignoli pronti per la filatura.

La filaturaGli stoppini, sia di pettinato che di cardato, vengono portati ai filatoi, sui quali, mediante il giro vorticoso di numerosi fusi allineati su appositi banchi o carrelli mo-bili, ricevono la torsione voluta e si trasformano in filati semplici. Dai due diversi procedimenti di lavorazione si ottengono due tipi differenti di filato: il filato pettinato che risulta accuratamente definito, compatto e sottile, e il filato cardato che appare come un complesso di fibre lunghe e corte giacenti in direzioni diverse in un insieme soffice e rigonfio.

Le operazioni propedeutiche alla tessituraLa tessitura vera e propria è preceduta da alcune ope-razioni preparatorie delle quali ricordiamo le più impor-tanti.Orditura: ossia la preparazione dei fili d’ordito, dall’ordi-toio i fili vengono successivamente avvolti sui subbi o rulli dei telai.Allicciatura o rimettaggio: i fili d’ordito vengono passati uno per uno attraverso le maglie dei licci che hanno il compito di alzare e abbassare i fili d’ordito in serie al-terne per aprire il passo alla navetta o spola che porta la trama e dà origine al tessuto.

TessituraConsiste essenzialmente nell’intrecciare opportunamen-te i fili di trama con i fili d’ordito. Tale operazione viene eseguita automaticamente dal telaio meccanico median-te il movimento simultaneo delle sue varie parti e cioè, dei subbi, dei licci, delle navette e del pettine battente che avvicina le trame.

RifinituraDopo la tessitura tutte le stoffe vengono sottoposte a una serie di operazioni di rifinitura, secondo le fibre di

cui sono composte e gli usi a cui sono destinati.Rammendo: ogni tessuto all’uscita del telaio ha sempre qualche difetto, è necessario quindi ripararlo con il ram-mendo invisibile.Lavatura: è un’operazione per togliere lo sporco causato dalle macchine.Follatura: è un’operazione alla quale vanno sottoposti specialmente i tessuti cardati di lana, per farli ispessire e renderli più compatti e forti.Garzatura: con garzi naturali o d’acciaio a punte sottilis-sime si solleva una folta peluria sulla superficie di certe stoffe.Cimatura: è il taglio rasato delle fibre alla superficie dei tessuti per renderli lucenti e lisci, oppure il taglio ad una certa altezza nei tessuti cardati.Calandratura: chiamata anche pressatura delle stoffe per mezzo di rulli.Pressatura: è di solito l’ultimo tocco che si dà alle stoffe per conferire loro quell’aspetto ora liscio e lucente, ora morbido e soffice.

TinturaLa tintura può essere eseguita durante le varie fasi della lavorazione e cioè: dopo la lavatura o il candeggio delle fibre corte e si dice tintura in fiocco; dopo la pettinatura e si dice tintura in nastro pettinato; dopo la filatura si dice tintura in filato, infine dopo la tessitura si dice tintura in pezza.

Breve storia del tessuto casentino dal Medioevo ad oggi

Caratteristico per essere “grosso, resistente, ispido, roz-zo” e così “sodo” da essere impermeabile, questo tipo di tessuto si rivelò molto resistente e duraturo e per questo molto apprezzato. Le prime notizie risalgono al Medioevo. Per diversi secoli, il panno, dalla consistenza e dal colore simile ai sai francescani, fu usato ad esem-pio dai pastori, dai boscaioli, dai braccianti, dai barrocciai, diventando così tipico della zona. La lana utilizzata era quella delle pecore locali, ordinaria, di poco valore e la

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produzione del tessuto era inizialmente a livello familia-re. Volendo fare un rapido excursus storico di questo rinomato panno, possiamo partire dalla metà del XVI secolo, allorquando i lanaioli casentinesi riuscirono ad aumentare la qualità dei loro panni, tanto da allarmare la corporazione fiorentina. Quest’ultima, affinché questi non fossero scambiati per prodotti cittadini, impose che vi fosse apposto un marchio ed una cordellina in modo da rendere palese la loro provenienza.Il 5 agosto del 1579 i Conservatori dell’Arte della Lana di Firenze deliberarono: «… per l’avvenire tutti i panni (che) si lavoreranno in Casentino, di maggior valuta di lire due per infino lire tre e soldi dieci il braccio, anche (se) si mandassino fora di quel vicariato per il dominio fiorentino com’è loro permesso … fussin marchiati con un marchio con l’insegna della pecora da una banda, e dall’altra un lione rampante sigillo di detto vicariato». Un frammento di tale sigillo, rinvenuto durante dei restauri, era conservato presso il castello di San Niccolò prima del suo furto nell’estate del ’97.Da alcune inchieste promosse nel Settecento sappiamo che la fabbricazione del Panno Casentino rappresentava il 35% circa della produzione complessiva della vallata.

Esso era caratterizzato da un’altezza di centimetri 87,5, peso a metro lineare di grammi 582, consistenza ideale per pastrani, giubboni e mantelle. Con l’espansione del commercio della lana e l’industrializzazione, il tessuto si affermò in forma diversa: alle caratteristiche originali si aggiunsero il colore e il ricciolo. Il colore che divenne simbolo del tessuto fu un misto tra rosso e arancione; mentre il ricciolo divenne il segno di distinzione tra gli altri tessuti. Il colore che la tradizione popolare vuole originato da un errore di tintura, fu molto probabilmente il risultato di un trattamento effettuato per aumentare le caratteristiche di impermeabilità, usando un nuovo pro-dotto chimico (alizarina WB o WR).La coperta dei barrocciai da questo colore sgargiante si trasformò presto in cappotti fino a diventare il colore caratteristico dei panni di questa valle. All’arancione fu accostato il colore verde smeraldo, inizialmente usato come fodera e che successivamente si impose come l’altro colore per eccellenza. Il ricciolo, il risultato di un procedimento particolare di finissaggio, era ottenuto at-traverso l’impiego di una macchina di origine francese: la ratinatrice, documentata dal 1918 presso il lanificio di Stia proveniente da una ditta tedesca.

Carta d’identità del tessuto casentino

Nascita: le sue origini risalgono al Medioevo. In questo pe-riodo veniva prodotto un panno grosso e pesante, lo stesso usato anche per i sai dei monaci. Dalla seconda metà del-l’Ottocento il panno si venne progressivamente definendo con le caratteristiche ed i colori che vediamo oggi.Aspetto: superficie caratterizzata da una rifinitura “a riccio-lo” data da un particolare trattamento detto ratinatura.

Colore: arancio e verde smeraldo (ultimamente tuttavia la gamma si è allargata a molti altri colori).Caratteristiche: spesso, caldo, impermeabile.Capi prodotti: l’indumento più caratteristico è rappre-sentato dal cappotto da uomo (anticamente rifinito con un collo di volpe). Ultimamente la gamma si è mol-to allargata spaziando fino alla realizzazione di accesso-ri per abbigliamento.

Alla scoperta dell’arte della lana in Casentino. Un itinerario tra archeologia industriale, luoghi e testimonianze

La Valle dello StaggiaL’itinerario ideale lungo la Valle dello Staggia parte da una

piazza, che in maniera diretta ci parla della tradizione laniera a Stia: Piazza Mazzini.Questo spazio, con le quinte di edifici che la chiudono su tre lati, infatti, insieme allo stesso Teatro Comunale e al casone ubicato in via Matteotti, sono stati pianificati e costruiti dalla Società del Lanificio di Stia. Tali episodi,

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7-8. Due cappotti d’epoca in tessuto casentino conservati presso la Mostra permanente sullo storico lanificio di Stia

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9. Veduta dello storico lanificio di Stia

collocabili nel clima filantropico tipico dell’Ottocento, furono pensati per rispondere alle esigenze degli ope-rai impegnati nei vari reparti dello stabilimento tessile. Interventi che ci riportano alla mente i quartieri sorti in prossimità delle grandi industrie del Nord Italia ed Europa e che ancora una volta, sembrano giustificare il soprannome di “piccola Manchester” avanzato da qual-cuno per Stia.Le costruzioni di piazza Mazzini furono iniziate nel 1872 ed inaugurate il 1° gennaio del 1880. Lo spazio antistan-te ai nuovi edifici ospitò nei primi tempi un campo da calcio, da qui l’appellativo “al Gioco” tutt’ora usato da-gli stiani. Attraversato il torrente Staggia giungiamo nel centro storico fino a Piazza Tanucci, l’antico mercatale di Stia nato ai piedi del castello di Porciano. Sotto gli antichi portici della piazza sono documentate, durante il secolo XVII, numerose botteghe dedite all’arte della lana. Attraverso il Vicolo dei Berignoli a cui si accede nei pressi della fontana che ci riporta alla mente la serie dei piccoli canali destinati un tempo ad alimentare i nume-rosi opifici idraulici del paese, giungiamo nei pressi del torrente Staggia in corrispondenza del complesso del lanificio.

Il lanificio di StiaIl lanificio è situato tra il torrente Staggia e la soprastante S.S. 310 del Bidente, in una zona leggermente periferica rispetto al paese di Stia.È un complesso di grandi dimensioni costituito da più edifici a due e a tre piani in pietra con rifiniture in mat-toni. L’insieme possiede caratteristiche e particolari costruttivi piuttosto omogenei riferibili al contesto ar-chitettonico/produttivo ottocentesco ad eccezione della parte più a nord di più recente realizzazione.Il nucleo più importante del complesso è il fabbricato di testata in via Giovanni Sartori che si allunga parallela-mente allo Staggia, dal quale si diparte, ortogonalmente, un altro edificio più corto situato nello spiazzo dell’an-sa dello Staggia realizzato verso la metà del XIX secolo. Dietro questo complesso è situato un lungo fabbricato, costruito a cavallo tra Ottocento e Novecento; la coper-tura a terrazza, era una volta usata per l’asciugatura delle pezze. L’interno è formato da un unico spazio segnato al centro da un allineamento di pilastrini in ghisa: la vecchia ciminiera è stata in parte ridotta.Il complesso ha ospitato fino a pochi anni fa l’attività del lanificio di Stia, nato come società anonima nel 1852 sot-

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to la guida di Marco Ricci, anello di una dinastia familiare che ebbe in Adamo Ricci uno dei maggiori protagonisti.La società specializzata nella produzione di articoli di vasta diffusione come i tradizionali “Panni Casentino” bicolori, conobbe un periodo di grande sviluppo nella seconda metà dell’Ottocento. Infatti in questo periodo si assiste alla graduale costruzione dei grandi edifici che costituiscono il nucleo più importante del lanificio. Ma è nei primi anni del Novecento che lo stabilimento di-retto da G. Sartori (chiamato appositamente dal Veneto) assume il suo aspetto attuale, con la creazione di nuovi edifici e con la ristrutturazione di quelli esistenti ai quali viene dato un assetto omogeneo. Nel 1909 viene co-struita la tintoria, mentre nel 1898 era già stato allestito dietro l’intero complesso un lungo fabbricato destinato alla rifinitura dei tessuti con accanto la lunga ciminiera in cotto che costituisce l’elemento più alto del complesso. In quegli anni il lanificio contava 500 operai tra uomini, donne e bambini e grandi erano le forniture per i cor-pi delle forze armate. Interessanti erano pure le solu-zioni tecniche messe a punto per la produzione, infatti alla tradizionale forma di approvvigionamento di energia idroelettrica (l’acqua dello Staggia incanalata in un lungo berignale, azionava per caduta due turbine idrauliche) si erano affiancate due caldaie a vapore.Nel 1939, dopo alcune piccole modifiche all’edificio, la produzione entrò in crisi: nel 1957 lo stabilimento venne affittato e nel 1959 venduto ad un industriale di Prato che vi importò il metodo di lavorazione “pratese” a ciclo incompleto con trattamento di lana rigenerata. Ultima e non felice modifica, la realizzazione nel 1975 di un nuovo capannone prefabbricato in cemento. Infine, alcuni locali vennero affittati ad imprese tessili artigianali del luogo, fino a quando non si arrivò alla cessazione della produ-zione avvenuta nel 1985.In alcuni locali ubicati al primo piano è presente una mo-stra documentaria sullo storico lanificio, con documenti, foto d’epoca ed alcuni oggetti significativi. Attualmente il nucleo storico del lanificio risulta proprietà della fon-dazione “Luigi Lombard” che ha in progetto il recupero

strutturale del complesso con destinazione ed attività museali e culturali. All’interno del complesso del lanificio, sulle sponde del torrente Staggia, è presente la “Fabbrica Beni”, un fabbricato che nelle stesse caratteristiche co-struttive denuncia la sua preesistenza rispetto alle archi-tetture del lanificio stesso.

La Fabbrica BeniLa “Fabbrica Beni” è costituita da un edificio a tre piani di grandi dimensioni. Si possono distinguere due parti corrispondenti a due fasi costruttive diverse: quella più prossima allo Staggia anteriore al 1825, con le caratteri-stiche finestre a sesto ribassato e la parte che si attesta tramite passaggi pensili al resto del complesso, risalente alla seconda metà del XIX secolo.In una deliberazione della comunità di Stia del 24 Luglio 1744, fu deciso di vendere a Francesco Piccioli, i sassi e le muraglie del vicino mulino del Sasso (dove nel XVIII se-colo è documentata anche una gualchiera) per la costru-zione di una fabbrica da adibire a cartiera sulle sponde dello Staggia. Nel 1825 l’immobile fu acquistato da Ales-sandro Beni, esponente di una famiglia di imprenditori terrieri della zona, che vi impiantò una attività tessile. Egli comprò dall’estero alcune macchine installandole nello stabile. La produzione in breve tempo raggiunse notevoli livelli qualitativi tanto che dal «Giornale del commercio» di Firenze del 1839 sappiamo che «le casimirre di diverse qualità, cioè a righe di diversi colori, a cordellone, a spina ecc. (…) della fabbrica dei signori Beni di Stia, sono fab-bricati così bene da stare alla pari con quelle estere …». Nel 1870 Adamo Ricci acquistò la fabbrica Beni riorga-nizzandovi l’intero ciclo di lavorazione distribuendolo negli opifici già esistenti. In questo periodo la fabbrica fu ampliata assumendo l’aspetto attuale con due grandi lucernari in copertura oggi non più esistenti.Dal lanificio, saliamo verso via Sartori, segnata dal volume dall’omonimo “Casone”, presso il quale erano presen-ti numerosi tiratoi per l’asciugatura dei panni-lana. Nei pressi di questo edificio passa ancora oggi, come un tem-po, un condotto che porta l’acqua, da una soprastante

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vasca di carico, fino al lanificio ad alimentare una turbina idraulica. Giunti sulla statale Stia-Londa, scendiamo fino al ponte sul torrente Staggia presso il quale è ubicato l’antico complesso de La Tintoria. Il corso del torrente in questo tratto è interrotto due volte da dighe in muratu-ra (Diga Beni e Diga Ricci) in corrispondenza delle quali un tempo si dipartivano alcune gore.

TintoriaLa costruzione si inserisce tra il torrente Staggia e il pen-dio della collina soprastante. L’edificio principale è a tre piani, gli altri a un piano; alcuni hanno subito degli am-pliamenti e delle sopraelevazioni successive al 1940. Le murature sono in parte in vista e in parte intonacate. Di notevole interesse a lato del complesso, lungo il torrente Staggia, l’imponente ponte canale sorretto da 18 arcate alte 12 metri, attualmente in precarie condizioni.La località La Tintoria, era anticamente chiamata “alle gualchiere” fino alla fine del Settecento (1798), quando la famiglia Ricci acquistò tutte le gualchiere e le tintorie della zona allestendo la più organizzata tintoria del Ca-sentino e un reparto per il finissaggio per i tessuti.Una grossa frana nel 1844 rese inutilizzabile l’edificio che fu abbandonato in quanto furono compromessi i canali che portavano acqua alla fabbrica. L’edificio abbandona-to da anni, venne acquistato nel 1858 da Carlo Siemoni (l’ispettore forestale inviato dal granduca per risollevare le sorti della foresta casentinese) che in un primo mo-mento vi impiantò una fabbrica di cristalli come quella che possedeva alla Lama di Badia Prataglia. Tra il 1861 e dil 1865 egli ripristinò la forza idraulica nell’opificio costruendo il ponte canale che bloccò definitivamente gli smottamenti della zona. Quindi, vi impiantò una ruota idraulica che dava movimento anche alle macchine del lanificio, ubicato poco più a valle. La ruota costruita dalla ditta Hollinger di Sant’Andrea a Rovezzano, era tutta di legno e prendeva movimento dalla caduta dell’acqua che «la feriva dal di sopra», sviluppando energia pari a qua-ranta cavalli. La tintoria venne affittata dal 1873 ai Ricci, proprietari del lanificio di Stia, che ne presero possesso

nel 1878 alla morte del Siemoni riorganizzandovi le la-vorazioni per il finissaggio dei tessuti. L’opificio segue da questo momento le vicende del lanificio e negli ultimi anni del 1800 subisce degli adeguamenti con l’allunga-mento del vecchio berignale della tintoria e la costruzio-ne di nuovi fabbricati.

Fabbrichina di PapianoTornati sulla strada principale verso il Passo della Calla, costeggiata prima a destra e poi a sinistra dall’antico ca-nale, giungiamo fino alla località di “Casa Giani”, nel paese di Papiano, dove sono visibili i ruderi della “Fabbrichina”.In questa località tra il 1844 e il 1846 fu costruito da Marco Ricci un opificio per sodare i panni, al fine di so-stituire l’attività delle gualchiere ubicate più a valle rese inattive per i continui smottamenti del terreno. Nel 1858 è descritto il complesso formato da una stanza ad uso di gualchiera, con bottaccio, un fabbricato per il depo-sito della cenere (per il ranno) ed un magazzino per il legname. Sempre nel 1858 il fabbricato fu comprato da una famiglia austriaca che, a sua volta, lo affittò ai Boc-ci, imprenditori lanieri di Soci. Nel 1881 la Fabbrichina tornò proprietà dei Ricci. Adamo Ricci organizzò una società operaia tra i lavoratori del paese di Papiano, alla quale nel 1882 fu assegnata la medaglia di bronzo durante l’Esposizione Industriale di Arezzo. In seguito, l’opificio fu trasformato in magazzino per la cernita e la stracciatura dell’indumento di lana usato per realizzare la così detta lana meccanica o rigenerata. Nel 1849 passò alla società omonima del lanificio di Stia e nel 1901 ai Batisti, proprie-tari della cartiera di Papiano. Nel 1906 il luogo fu definiti-vamente abbandonato come sede di attività produttiva.Poco sopra seguendo la gora, è visibile il complesso della cartiera, oggi ristrutturato. L’itinerario si può concludere poco più a monte con le opere di presa dal torrente realiz-zate per addurre l’acqua verso gli opifici ubicati più a valle.

La Valle del SolanoLungo il torrente Solano, grazie all’abbondante portata d’acqua, furono realizzati a partire dal Medioevo, nume-

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rose gualchiere destinate alla “sodatura” dei panni-lana. Nei pressi di Rifiglio, un piccolo gruppo di case porta tutt’oggi il nome di “Le Gualchiere”, a testimonianza del-l’antica attività. L’episodio più significativo è tuttavia rap-presentato dal lanificio Grifoni ubicato presso il borgo di Pagliericcio. Accanto all’ex lanificio è posto l’edificio della vecchia tintoria. Le costruzioni sono immediatamente a ridosso di una bassa collina nelle vicinanze del torrente Solano. La pianta è di forma irregolare, il piano terra è costituito da un unico grande vano destinato un tempo alla cardatura, mentre il primo piano che si affaccia sulla strada principale, era occupato dal reparto tessitura. Al-l’edificio arrivava un tempo un berignolo, lo stesso che ali-mentava ed alimenta tutt’ora il Molinvecchio, ubicato più a monte. Una volta giunta nei pressi del lanificio l’acqua veniva raccolta in un bottaccio, tutt’ora visibile, dove una chiusa in legno regolabile attraverso una vite metallica (ancora presente) ne modulava il livello. L’acqua veniva a questo punto convogliata per mezzo di grossi tubi me-tallici prima in una vasca circolare in muratura (di cui ri-mangono tracce) per le operazioni di lavatura e poi sulle pale di una turbina per dare movimento alle macchine. A questo punto l’acqua, per mezzo di un opportuno canale interrato, tornava nel Solano.Nella collina che sovrasta il piccolo borgo è stato co-struito, nel corso del tempo, un sistema di terrazza-menti. Sugli esigui spazi ricavati dal pendio era stesa la lana ad asciugare sul lastricato dopo la lavatura. Nello stesso luogo erano ubicati i tiratoi, tutt’ora eccezional-mente presenti in parte, per l’asciugatura delle pezze. La famiglia Grifoni è documentata a Pagliericcio sin dal XVII secolo. Alla fine del Settecento era proprietaria di due gualchiere con attigui tiratoi. L’attività laniera era inte-ramente gestita dalla famiglia e ancora nel 1873 aveva la consistenza di un opificio familiare anche se provvisto di tutta l’attrezzatura necessaria per l’attivazione comple-ta del ciclo tessile. L’attività continuò dopo un rovinoso incendio nel 1888 che distrusse la fabbrica della quale rimangono in piedi solo le mura. Il numero degli operai occupati non superò mai le venti unità e la lavorazione

si mantenne sempre a carattere artigianale. La produzio-ne era caratterizzata dall’utilizzo esclusivo di lane nuove. I panni prodotti erano destinati in primo luogo a con-venti e complessi religiosi. Durante la Seconda Guerra Mondiale il lanificio venne in parte distrutto e quindi ri-costruito con alcune modifiche e ampliamenti; nel 1975 cessa l’attività e vengono venduti i macchinari.

Lungo le acque dell’Arno. Il Lanificio BertiIl complesso è ubicato nei pressi del centro storico del paese di Pratovecchio, lungo l’antica via Fiorentina, in vi-cinanza del ponte sull’Arno e dell’antico monastero delle monache camaldolesi. È un complesso di medie dimen-sioni con pianta ad “U” irregolare, il lato più lungo che si protende oltre il corpo principale si attesta su Via Fio-rentina. Il corpo di fabbrica principale è una costruzione ad un piano in corrispondenza del piazzale interno e a due piani lungo l’Arno, con la parte inferiore semi-in-terrata caratterizzata da una interessante copertura con volta in muratura.Il complesso ha un piazzale di sua pertinenza dove anti-camente erano ubicati i tiratoi per l’asciugatura dei panni lana. Come in molti edifici industriali del periodo ci sono aperture archivoltate con archi a sesto ribassato e corni-ci in mattoni che riquadrano porte e finestre.Degno di nota è l’antico berignolo in muratura, in buo-no stato di conservazione, che corre parallelo alla torre Nardi Berti prima ed al muro del convento camaldolese poi, fino alla pescaia sull’Arno. Attualmente il vecchio la-nificio è stato ristrutturato internamente per accogliere alcune attività produttive.Il lanificio venne costruito nel 1916 da Adriano Berti che aveva già un’attività laniera a Pratovecchio nel Casone Rontani, tutt’ora presente sul lato opposto di Via Fioren-tina. L’acquisto di nuovi macchinari impose la costruzio-ne di un nuovo lanificio (nei pressi del Casone) con una tipologia architettonica e spazi di lavoro più consoni. La gestione dell’attività continuò con i figli di Adriano Berti che iniziarono una produzione più qualificata specializza-ta in “panni blu e carta zucchero per l’aviazione” e filati

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ritorti; in particolare il lanificio divenne rinomato per la produzione del panno casentino. La brillantezza dei co-lori ottenuti attraverso un procedimento artigianale di tintura era effettuato nella piccola costruzione, di fronte al Casone, adibita a tintoria, andata distrutta in seguito alla Seconda Guerra Mondiale. L’opificio rimase in atti-vità fino al 1960, anno in cui iniziò la crisi del settore tessile che determinò la chiusura di numerosi lanifici in Casentino.

La valle dell’ArchianoL’itinerario “sul filo di lana” lungo la valle dell’Archiano, inizia nei pressi di Soci con il complesso del Lanificio, per poi continuare, approssimativamente lungo il percorso dell’antico berignolo attraverso il Mulino delle Gualchiere, il palazzo fattoria della Mausolea, fino alle opere di presa nei pressi di Partina e alle centrali elettriche ubicate più a monte.

Lanificio di SociIl complesso è ubicato lungo la S.R. Umbro-Casentinese, nei pressi del centro storico del paese di Soci, nel comu-ne di Bibbiena. Recentemente, in seguito a lavori di re-cupero, sono stati ristrutturati alcuni edifici, attualmente destinati ad usi commerciali e produttivi, che hanno tut-tavia conservato molte delle caratteristiche originarie. Infatti, sono ancora presenti esternamente i marcapia-ni, le cornici, le rifiniture in cotto e le ampie finestre, mentre internamente è stata rispettata la distribuzione degli ambienti insieme alla salvaguardia di alcuni elementi strutturali.Le origini della lavorazione laniera a Soci sono da at-tribuire alla presenza della Congregazione dei monaci camaldolesi che sin dal XIV secolo avevano impiantato delle gualchiere derivando l’acqua dall’Archiano.Agli inizi del XIX secolo Pietro Ricci, proprietario del la-nificio di Stia, si trasferisce a Soci dove affitta dai monaci le due gualchiere del Molino di Soci. Nel 1844, Paolo Ric-ci, figlio di Pietro, acquista «… gualchiera, casa, tiratoio e tintoria di Soci … per 1600 scudi» riorganizzando l’atti-

vità laniera, in seguito ampliata ed ammodernata dal ni-pote Giuseppe Bocci. Questi nel 1882, per razionalizzare la produzione di panni, costruisce la Fabbrichina di Partina, per la purgatura e la follatura dei panni che, fino ad allora, venivano effettuate nella Fabbrichina di Papiano. Altri am-pliamenti vengono effettuati dallo stesso figlio Sisto Boc-ci, il quale trasformò il lanificio in uno degli stabilimenti più competitivi a livello nazionale. Dopo la sua morte, in seguito ad un incendio alcuni edifici vengono distrutti. Nel 1918 viene rilevato da Giovan Battista Bianchi che apportò nuove modifiche e ammodernamenti. In seguito alla crisi del 1929, lo stabile viene messo in liquidazio-ne per poi passare in gestione alla Società Lanificio del Casentino che aggiorna il macchinario e la presa d’ac-qua alla centrale idroelettrica. Attualmente, alcuni stabili dell’antico complesso sono ancora destinati ad attività tessili.

Mulino delle GualchiereIl mulino delle Gualchiere è ubicato nei pressi del paese di Soci, nel comune di Bibbiena, poco distante dal palaz-zo-fattoria della Mausolea, proprietà della Congregazio-ne Camaldolese a cui lo stesso mulino appartiene.L’impianto è annesso al podere omonimo, nominato nei documenti anche con il toponimo di Poggiale o Gualtiere, proprietà dei monaci camaldolesi almeno dal XVI secolo.La località deriva il suo nome dalla presenza di un opificio per la follatura della lana, documentato dalla fine del XVII secolo. Allo stesso secolo risale, tra l’altro, uno stemma con l’Emblema Camaldolese, ubicato sopra il portone di ingresso. Nel Libro d’Estimo di Soci del 1709 troviamo: «… uno stanzone per uso di gualtiera con due pile e tutti i suoi fornimenti per gualcare …».La stessa destinazione la troviamo nel Catasto granducale del 1833. Nei cinquanta anni successivi avvenne la defini-tiva trasformazione in mulino, come ci testimonia la Carta Idrografica del 1883. Il mulino, dotato di ben quattro im-pianti di molitura (tutt’ora presenti) era alimentato dalle acque del Berignale di Soci, le cui opere di intercettazione erano ubicate nei pressi di Partina. È rimasto attivo fino

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ai primi anni Settanta. Successivamente, la portata d’ac-qua è stata utilizzata per alimentare una turbina idraulica per la produzione di energia elettrica tutt’ora presente. A monte dell’abitato di Partina, sono ancora in buono stato di conservazione due opifici idraulici che oggi ac-colgono due centrali idroelettriche, un tempo rispetti-vamente adibiti alla follatura dei panni e alla produzione di energia. Furono realizzati tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo per far fronte alle necessità della fiorente industria laniera.

Centrale idroelettrica “La Fabbrichina”L’edificio è ubicato a monte del paese di Partina, tra la strada diretta al Passo dei Mandrioli ed il torrente Ar-chiano.L’edificio si sviluppa su due piani: quello inferiore che ac-coglie i macchinari della centrale e quello superiore adi-bito ad abitazione. La “Fabbrichina” venne costruita nel 1882 da Sisto Bocci, come ci conferma una data ancora presente, per la purgatura e follatura dei panni lana del Lanificio di Soci. Prima della sua costruzione i panni ve-nivano trasportati alla Fabbrichina di Papiano nel comune di Stia per essere sottoposti alle medesime operazioni. Questa costruzione doveva rappresentare il primo nu-cleo del nuovo lanificio che nelle intenzioni del Bocci avrebbe così sostituito quello nei pressi del paese di Soci. Le difficoltà nelle acquisizioni dei terreni in tale zona, lo fecero in seguito persistere nelle trattative con i monaci camaldolesi. In questo opificio, azionate per mezzo di una ruota Gi-rard, furono installate quattro folle, purgapanni, spremito-ri e due sfilacciatrici per la trasformazione degli stracci in lana meccanica. In seguito, nel 1925, con lo sviluppo del complesso laniero di Soci, la Fabbrichina venne trasfor-mata in centrale idroelettrica. Nel 1932 il nuovo proprie-tario del lanificio costruì una nuova presa d’acqua per aumentare la portata del berignolo. Nel 1944 fu danneg-giata dai soldati tedeschi e ristrutturata nel 1948 con il posizionamento di una nuova turbina idraulica Kaplan.

Nel 1950, in seguito alla crisi del lanificio di Soci, anche la centrale viene chiusa. Ha ripreso la sua attività nel 1982, grazie ad alcuni privati che tutt’ora producono energia elettrica per l’Enel.

Centrale idroelettrica di PartinaL’edificio è ubicato a monte del paese di Partina, alla si-nistra del torrente Archiano. La centrale fu costruita nel 1906, da Sisto Bocci, proprietario del lanificio di Soci, attraverso la realizzazione di una canalizzazione in le-gno che risaliva il torrente per circa due chilometri fino all’opera di presa. L’acqua, convogliata in una condotta forzata, con un salto di 54 metri andava ad alimentare due turbine che sviluppavano energia sufficiente per tut-ti i macchinari del lanificio di Soci. Durante la Seconda Guerra Mondiale, i tedeschi fecero saltare la condotta causandone l’inattività. Nel 1982 il canale è stato sosti-tuito con una condotta moderna e la centrale ha ripreso a funzionare.

Andrea RossiComunità Montana del Casentino - Servizio CRED

Progetto Ecomuseo del Casentino

10. La vasca di carico del Molino delle Gualchiere, Soci (Bibbiena)

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IL PANNO CASENTINO

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Glossario

Armatura: modo in cui in un tessuto i fili dell’ordito si incrocia-no con quelli della trama. Le armature fondamentali sono: la tela, la saia, il raso.

Aspo o Annaspo: attrezzo formato da un bastone sul quale si inseriscono due corti legni trasversali usato per confezionare le matasse.

Cannelli: piccole sezioni di canna palustre, cave internamente, intorno alle quali veniva avvolto il filato.

Fuseruola: anelli in cotto inseriti in bastoni di legno a formare rudimentali strumenti utilizzati nelle operazioni di filatura del-la lana nel periodo romano.

Fuso: attrezzo in legno usato per le operazioni di filatura della lana o di altre fibre tessili.

Liccio: elemento del telaio che serve ad alzare ed abbassare al-ternativamente i fili di ordito per formare i passi in cui inserire i fili di trama.

Macini per galle: mulini addetti alla macinatura di sostanze co-loranti quali le galle di quercia.

Mordenzatura: operazione effettuata in corrispondenza della tintura per facilitare l’assorbimento e la permanenza del co-lore sul tessuto.

Navetta: accessorio del telaio che ha il compito di introdurre la trama (avvolta intorno ad un cannello inserito nella stessa) tra i fili di ordito.

Ordito: fili longitudinali di un tessuto che in un telaio sono tesi tra i due subbi.

Orditura: operazione propedeutica alla tessitura.

Rocca o Canocchia: bastone in legno con particolari asticelle in legno (“stegole”) poste su una estremità, atte a contenere il vello di lana da sottoporre alla filatura.

Subbio: cilindro su cui si avvolge l’ordito (subbio posteriore) o il tessuto (subbio anteriore).

Trama: fili trasversali di un tessuto che vengono introdotti con una navetta tra i fili di ordito durante la tessitura.

Bibliografia

Testi di carattere generaleIl costume al tempo di Pico e Lorenzo il Magnifico, Milano, 1994D. DIDEROT-J. LE ROND D’ALEMBERT, L’Encyclopedie, Parigi, 1751-81Cultura e strumenti del lavoro. La ruota idraulica. “I pestelli”, Bre-scia, 1989P. SCHEUERMIER, Il lavoro dei contadini, Milano, 1980

Testi di interesse localeCalendario Casentinese per l’anno 1837, AREZZO, 1837Calendario Casentinese per l’anno 1838, Arezzo, 1838Calendario Casentinese per l’anno 1839, Firenze, 1839Calendario Casentinese per l’anno 1840, Arezzo, 1840Calendario Casentinese per l’anno 1841, Arezzo, 1841P. L. DELLA BORDELLA, L’Arte della lana in Casentino, Cortona, 1984GRUPPO ARCHEOLOGICO CASENTINESE (a cura di), Profilo di una valle attraverso l’archeologia, Poppi, 1999

Immagini del Casentino, Lo spirito di una Valle, Firenze, 1988F. MARIOTTI, Storia del Lanificio antico e moderno, Torino, 1864E. NOYES, Il Casentino e la sua storia, Londra, 1905M. RENGO, Oggetti e funzioni, Firenze, 1992E. REPETTI, Dizionario Geografico, Fisico e Storico della Toscana, Firenze, 1833-1846A. SILVESTRINI (a cura di), Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena. Rela-zioni sul governo della Toscana. 1789, Firenze, 1969I. TOGNARINI-C. NASSINI, Il Casentino nell’età moderna e contem-poranea, in Il Casentino, Firenze, 1995, pp. 69-86L’Uomo il Fiume, la sua valle. Arno-Casentino, Arezzo, 1985

Materiale audiovisivoÈ possibile reperire materiale video relativo ad alcune fasi del ciclo della lana (tosatura, filatura e tessitura manuale) oltre ad interviste e varie testimonianze orali (ex operaie delle industrie tessili di Stia e di Soci) presso “La Banca della Memoria” del Centro Risorse Educative e Didattiche della Co-munità Montana del Casentino.

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parte seconda

LA PIANTA BLU

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Presentazione

L’istituto Statale d’Arte “G. Giovagnoli” di Sansepolcro, protagonista eccellente di significative e qualificanti

iniziative culturali collegate alle attività ed alla storia del suo territorio, ha progettato un affascinante e intrigante percorso didattico dedicato al guado, in collaborazione con la Comunità Montana Valtiberina Toscana.Il guado (Isatis tinctoria), pianta perenne delle crocifere ed il colorante azzurro ricavato da essa, hanno origini anti-chissime: era conosciuto ed usato dai popoli del bacino del Mediterraneo e da quelli dell’Europa del Nord.La coltivazione della pianta era praticata anche in Val-tiberina dai tempi di Plinio il Giovane e continuò fino alla prima metà del Seicento (con una ripresa durante la dominazione napoleonica). Il guado prodotto nella zona toscana e umbra era pregiato e molto richiesto; divenne così un’importante fonte di ricchezza. La storia del guado è, quindi, fortemente legata alla cultu-ra, all’arte, all’architettura e all’economia della vallata. Da qui il complesso itinerario didattico, ideato dalla sezione di Tessitura e Stampa dell’Istituto d’Arte all’interno del più ampio progetto, voluto dalla Comunità Montana, dal titolo Leader II n. 20 - Valle ecologica, che ha visto impe-gnati insegnanti e studenti, durante il corso di tre anni scolastici.Tale percorso si è articolato in varie fasi: a) lo studio del guado in tutte le sue caratteristiche, compresa estrazio-ne e possibilità tintorie; b) l’acquisizione della storia della pianta e l’analisi delle opere di Piero della Francesca per il recupero del materiale iconografico e dei vari motivi de-corativi da utilizzare nella progettazione dei tessuti e degli abiti; c) la realizzazione dei tessuti con filati tinti a guado e con tinture preparate con la tecnica del maltinto, destinati alla realizzazione della collezione di abiti e jeans.

Varie manifestazioni sono state dedicate al guado dal 2001 al 2005. Tra queste la manifestazione “Così com’è, i colori della natura” che si è tenuta a Sansepolcro dal 4 al 6 maggio 2002, ha previsto una serie di eventi ai quali l’Istituto d’Arte ha partecipato attivamente; tra questi il convegno “Il guado e i colori naturali: prodotti di nic-chia ad alto valore aggiunto per gli ecosistemi collinari”, presso il teatro del Collegio Regina Elena, in cui i docenti della scuola coinvolti nel progetto hanno relazionato sui vari aspetti del lavoro svolto, assieme a studiosi, pro-venienti dall’Università di Pisa e del Museo del Tessuto di Prato o a operatori impegnati nell’ambito del tessile ecologico.Preme ricordare, in particolare, le mostre “Blu pastel-lo: jeans e altro …” e “Un tuffo nel blu” realizzate tra il 2001 e il 2004 presso l’Auditorium di Santa Chiara e nate dall’incontro tra un tessuto e un colore, jeans e gua-do, ma dedicata anche ad altri abiti che ripetono motivi decorativi e colori, i “blu” pierfrancescani.Dall’esperienza della mostra si è ispirata e articolata la stesura del capitolo di questo volume La pianta blu a te-stimonianza di come l’Istituto abbia saputo unire storia, tradizioni, uso di materie diverse e capacità progettuale in un lavoro di insieme la cui ispirazione ben si fonde con l’iniziativa di tintura del panno casentino col guado della Valtiberina.Si ringraziano tutti coloro che hanno collaborato all’ini-ziativa, in particolare la Comunità Montana Valtiberina Toscana.

Benito CarlettiPreside dell’Istituto Statale d’Arte

“G. Giovagnoli”, Sansepolcro

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LA PIANTA BLU

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Isatis tinctoria o guado

Argomento di questo breve sunto è la coltivazione di una pianta tintoria, l’Isatis tinctoria comunemente chia-mata “guado”, appartenente alla famiglia delle crucifere da cui in passato veniva estratta una sostanza con la quale si tingevano di azzurro filati e tessuti. Il termine di guado, dal gallico glastum indicava sia la pianta sia la sostanza tintoria che da questa veniva estratta.La Isatis tinctoria è una pianta biennale che nel primo anno di vita accestisce producendo abbondante foglia-me, nel secondo si sviluppa in altezza fino a 80-100 cm ramificandosi in ricche pannocchie gialle che, dopo ab-bondante fioritura, producono un seme nero violaceo la cui maturazione coincide con l’essiccazione della pianta medesima.Il fiore ha una corolla dialipetala regolare: quattro piccoli petali gialli disposti a croce lunghi 2-3 mm e quattro se-pali. Le foglie restano verdi anche durante l’inverno ed il frutto indeiscente e bislungo, possiede un solo minusco-lo seme.La pianta originaria dell’Asia minore è spontanea in Eu-ropa, nell’Africa settentrionale ed in Oriente. Data la sua facilità di ambientazione, il guado può essere coltivato in molte località: dalla zona dell’ulivo a quella del faggio, a quote varianti da 400/600 a 900/1000 metri. In una accurata descrizione ottocentesca si legge «quantunque il guado cresca spontaneamente nel suolo più ingrato, torna tuttavia utile, allorché uno si proponga di estrarre

la sostanza colorante, seminarlo in terra sostanziosa e profonda, né argillosa né troppo umida». 1

La coltivazione e la lavorazione nel passato

Pianta rustica, dunque di facile coltura, il guado cresce in terreni diversi (sebbene preferisca quelli argillosi) e si adatta a vari climi, ma vuole buoni lavori e frequen-

1 Dizionario classico di storia naturale, Venezia, Girolamo Tasso Ed., 1836, vol. VIII, p. 391.

Il guado: antica coltura della Valtiberina

1. Isatis tinctoria o guado

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ti sarchiature a mano nel primo periodo della sua vita; inoltre, richiede che il terreno venga arato in profondità e concimato convenientemente.Per vari secoli in Valtiberina è stata praticata la coltura del guado in terreni di fondovalle ma anche in terreni di collina e bassa montagna. Durante la stagione invernale si provvedeva a preparare i terreni, la semina veniva poi

effettuata nel mese di gennaio o febbraio. Verso la metà di maggio si poteva effettuare la prima raccolta e, ad in-tervalli di venti giorni circa, si potevano ottenere dalla stessa pianta fino a cinque o sei raccolti in una annata.Le foglie, da cui veniva estratta la materia colorante, era-no portate in frantoi dove venivano macerate e ridotte in poltiglia da una macina di dimensioni maggiori rispetto 2.. Matasse di lino tinte col guado

3. Isatis tinctoria, stampa botanica

La macina

La ruota della macina raggiungeva lo spessore di 40-50 cm, il diametro di 2 metri ed il peso di 30 quintali circa. Il mulino del guado era composto da una base fissa o letto ricavata da un solo masso di pietra canalizza-ta a raggiera rozzamente sbozzata e da una macina in piedi o ruotante, anch’essa monolitica con scanalature parallele, che girava attorno ad un’asta a bandiera e prendeva la forza di rotazione da un animale alla stanga. Le macine da guado potevano essere poste ovunque

anche ai margini dei campi e nate come macine da gua-do, con la cessazione di questa coltivazione, divennero inutili ed ingombranti. Per la difficoltà di spostamen-to molte macine vennero interrate sul posto, come la macina ruotante semi interrata trovata nei pressi di Sigliano, altre utilizzate come robusti supporti a grandi croci, erano poste nei bivi o nei pressi di chiese come quella posta a fianco della chiesa di Baldignano comune di Pieve Santo Stefano. Un esemplare molto bello e raro di macina da guado di base si trova in località San Lazzaro nel comune di Sansepolcro.

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a quella delle olive. Dopo essere state macinate le foglie venivano lasciate a riposo in recipienti appositi per con-sentire il deposito della parte più acquosa ed una totale macerazione. Trascorsi alcuni giorni il prodotto veniva ri-dotto in palle o pani che erano messi ad essiccare sopra a dei graticci affinché l’aria circolasse bene e li prosciu-gasse debitamente. Il prodotto veniva, quindi, venduto ai mercanti che, immagazzinandolo, provvedevano ad altre operazioni per poterlo ben commercializzare. A questo punto aveva inizio il delicato processo di tintura.

La tintura nel passato

Va ricordato che fin dall’antichità l’uomo ha usato per tingere tessuti, sostanze naturali che riusciva ad estrar-re da animali e piante e che, fino alla seconda metà del secolo XIX queste sono state le uniche sostanze adat-te allo scopo: di difficile estrazione e lavorazione, infatti, erano ritenute pertanto assai rare e preziose.L’indaco naturale, termine con cui è anche definito il gua-do, è un colorante pregiato detto “al tino” recipiente nel quale si effettuava l’operazione della tintura.Il contenuto di indigotina nella pianta di guado risultava relativamente scarso e, quindi, a partire dal XVI secolo, il guado è stato sempre più sostituito dall’indaco prove-niente dall’India.Il guado, coltivato nell’antico Egitto, in Mesopotamia, in Pa-lestina, in Siria, era utilizzato non solo come colorante per i tessuti ma anche come cosmetico per il corpo. Reperti archeologici del I secolo a.C. riguardanti il guado sono stati rinvenuti presso il popolo germanico. Semi di guado sono stati trovati nella nave sepolcro di Oseberg in Norvegia 2 e testimoniano, oltre ad una diffusione piuttosto rilevante, che il guado fosse all’epoca merce di scambio.

In epoca successiva, verso l’anno Mille, vari fattori con-tribuirono ad accelerare in modo rilevante la produzione di guado e la diffusione della coltivazione. Fra questi mo-tivi sono da citare un significativo sviluppo demografico che determinò l’espansione agricola con l’ampliamento dell’area coltivata ed i progressi apportati nelle tecniche di coltivazione con l’introduzione della pratica della ro-tazione, nonché i miglioramenti significativi applicati agli strumenti agricoli, in particolare, all’aratro.Ulteriore importante riscoperta fu il mulino, meccanismo già conosciuto in epoca romana ma mai messo totalmen-te a frutto per la facile disponibilità di manodopera a basso costo rappresentata dagli schiavi. Fu soprattutto il mulino ad acqua che svolse un ruolo di primo piano nella trasformazione dei modi di produzione, in quanto la sua forza poteva tradursi in altri tipi di moto tali da consentire molte utilizzazioni.Il mulino fu usato nella lavorazione del ferro, in quel-la del legname da costruzione, nella nascente industria della carta e in una delle più importanti operazioni della industria tessile, come ad esempio la follatura (battitura del panno) che conferiva al tessuto compattezza, morbi-dezza ed uniformità.Tale innovazione contribuì, in modo assai rilevante, allo sviluppo del settore tessile che da allora ebbe un ruolo di guida nell’industria europea anche per l’introduzione di migliorie apportate nelle precedenti operazioni, quali l’applicazione nel telaio del pedale e l’aggiunta della ruo-ta per la filatura, migliorie che resero più rapide le due operazioni facilitando la lavorazione. L’industria tessile si diffuse rapidamente in gran parte delle regioni europee e con essa anche la coltivazione del guado la cui produ-zione ebbe un notevole e rapido incremento. Vaste aree coltivate a guado erano presenti in Turingia, nel basso Reno, in Normandia, nella Linguadoca.

2 Nel 1904 fu scoperto nel fiordo di Oslo un gran tumulo fune-rario costituente il sepolcro della regina Asa vissuta fra l’800 e 850 d.C. I ricchi doni rinvenuti vicino alla regina (fusi, paioli, semi di piante coloranti come il guado e la robbia) testimoniano le

occupazioni regali. Fra i compiti della regina rientravano la fab-bricazione dei tessuti, dalla filatura della lana, che veniva poi tinta alla tessitura (G. SCHNEIDER, Tingere con la natura, Milano, Ottaviano ed., 1981, p. 16).

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In Italia le località maggiormente inte-ressate alla coltivazione della pianta tintoria furono il Piemonte, la Tosca-na, le Marche e l’Umbria. L’area fra le Marche e la Toscana fu considerata una delle zone di maggiore produzione. In particolare il guado coltivato in Valtibe-rina era considerato fra i più pregiati e ricercati del mercato e, di conseguenza, suscitava l’interesse di potenze vicine, attratte dai vantaggi economici che la coltura e la commercializzazione del prodotto potevano procurare.

Dal XIII al XVII secolo

Per almeno cinque secoli, dal XIII al XVII, la pianta coltivata in Valtiberina, è stata la protagonista di tutto il terri-torio avendone determinato la storia economica e giuridica. La produzione del guado come materia colorante era collegata, nella zona, con la tessitura di panni grezzi.A Sansepolcro e nella sua campagna si tesseva per lunga tradizione; si trattava però di panni grezzi che venivano poi rassodati e raffinati a Firenze o in altre città prima che i fiorentini avessero il dominio della valle del Tevere. Anche questi panni erano una indubbia fonte di guadagno e si desume che la società

dell’epoca cercasse di realizzare buona qualità codificando un costume che è ampiamente testimoniato dai documen-ti statutari del periodo malatestiano e di quello mediceo. 3Gli imprenditori di guado, spesso, sono anche lanaioli e l’impresa del guado e dei panni coinvolse le famiglie più impor-tanti di Sansepolcro che, già proprietari terrieri, si dedicarono alla coltivazione e alla lavorazione della pianta, stimolate da tutti gli aspetti positivi di una attività produttiva e commerciale. Fra le famiglie che si dedicarono a questa coltura sono da citare i Gherardi, i Pichi, i Palamidessi ed in particolare i France-schi. Lo stesso Piero della Francesca si dedicò a questa attività fonte primaria di sostentamento e di ricchezza.Per oltre quattro secoli il guado fu la coltura più estesa della Valtiberina, ma ad una prima florida situazione economica seguì una lenta, ma continua riduzione della coltura dovuta a vicende storiche e politiche culminata nel tentativo falli-to di estrarre l’indaco dal guado e nella chiusura della scuola creata, a tal fine a Sansepolcro, in epoca napoleonica.

Il XIX e il XX secolo

Durante i secoli XIX e XX la coltura era stata del tutto abbandonata nono-

3 Negli statuti municipali di Sansepolcro si parla più volte di tessito-ri, di lanaioli, di guadaioli, della loro attività e del modo di svolgerla quasi sulla linea di un codice comportamentale. Il legislatore sotto-linea sempre l’obbligo di fornire un prodotto che offra le migliori garanzie e per questo enuncia tutta una serie di provvedimenti di-sciplinari che prevedono anche l’applicazione di pene corporali per quei guadaioli che panificano il guado avanzato dell’anno preceden-

te o che non rispettano la misura stabilita dalla scodella del comune o che raccolgono guado oltre il termine stabilito del 20 ottobre o che, per produrre in fretta, operano senza la dovuta attenzione. Allo stesso tempo però gli statuti garantiscono alcuni privilegi ai lanaioli e guadaioli, in particolare il diritto di accesso alle più alte cariche pubbliche a dimostrazione che tali attività erano fra le più importanti.

5. Tintori di guado

4. Il sarchiatore di guado

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stante la pianta avesse continuato a crescere spontanea-mente ai margini dei campi, inselvatichita e dimenticata dalla gente del luogo interessata ad altre colture, in par-ticolare a quella del tabacco introdotta nel Cinquecento e felicemente praticata all’inizio del XX secolo.Un nuovo interesse nei confronti del guado si è registra-to negli ultimi anni a causa della crisi dell’industria che ha creato un folto numero di disoccupati i quali hanno tentato varie attività cercando anche di recuperare ciò che la tradizione ancora offre.

Comuni, Comunità Montane, Province, appoggiano que-sti tentativi di recupero della tradizione e propongono progetti allo scopo di incrementare alcune attività e di creare nuovi posti di lavoro facendo leva sulle risorse del luogo e del territorio.Il guado, elemento importante e specifico dell’alta valle del Tevere, in passato il prodotto più rilevante nello sviluppo commerciale e nell’attività manifattu-riera del territorio, torna ad essere, dunque, al cen-tro dell’interesse di enti pubblici e privati e potrebbe

Il guado in epoca napoleonica

Una temporanea ripresa della coltura del guado si ebbe in epoca napoleonica, quando per il blocco con-tinentale contro l’Inghilterra vennero a mancare nel commercio tutte le materie esotiche e fra queste an-che l’Indigofera tinctoria o Indaco. Il governo francese fu costretto a procurarsi in loco i vari prodotti di cui era rimasto privo. Attraverso le risposte che i “Mai-re” avevano fornito ai “questionnaire” della Prefettura sull’agricoltura della Valle, si venne a sapere che la col-tura del guado a Sansepolcro era antichissima quindi risultava coltura sperimentata e consolidata. Sulla base di queste indicazioni, il decreto imperiale del 25 mar-zo 1811, che istituiva in tutto l’impero quattro scuole sperimentali, ne localizzava una in Valtiberina, a Sanse-polcro. Il ministro francese delle manifatture affidò alle cure del prefetto dell’Arno la sorveglianza sulla stes-sa istituzione seguendone l’impianto e le varie fasi di sviluppo e non lesinandone i mezzi per la dotazione della scuola posta nei locali dell’ex convento di San Francesco: in questi locali oggi è posto l’Istituto Sta-tale d’Arte “G. Giovagnoli” di Sansepolcro. L’orto del convento doveva servire da campo sperimentale per le esercitazioni pratiche onde consentire agli alunni di osservare da vicino le varie fasi della coltivazione. La direzione della scuola sperimentale venne affidata al dottor Gaetano Cioni, professore di chimica speri-

mentale nell’Università di Pisa ed esperto ricercatore. In seguito le scuole sperimentali vennero trasformate in “indigoterie” (‘Laboratori di estrazione del materiale corrente’) e quella di Sansepolcro fu trasferita a Firen-ze, dove si riunì con l’officina per l’estrazione dell’inda-co con la definizione di Indigoteria imperiale, così come quella di Tolosa e Torino. Dobbiamo però dire che il procedimento per l’estrazione dell’indaco dal guado, effettuato nella scuola di Sansepolcro, si differenziava totalmente dal quattrocentesco procedimento tinto-rio, essendo trascorsi ben quattro secoli di progresso scientifico e tecnologico: le foglie ad esempio, si face-vano fermentare nell’acqua e non erano più triturate; dalla fermentazione di un quintale di foglie si potevano estrarre fino a sei chili di indaco. Si pensava già di isti-tuire a Sansepolcro una grandiosa fabbrica; alcuni pro-prietari terrieri avevano messo a disposizione le loro terre per la coltura del guado e il prefetto dell’Arno avrebbe dovuto dare inizio ai lavori della strada per Arezzo attraverso la valle del Cerfone, come stabiliva il decreto imperiale del 4 gennaio 1809, per agevola-re le comunicazioni fra il Mediterraneo e l’Adriatico, quando la caduta di Napoleone travolse il suo Impero e questo progetto. La scuola di guado di Sansepolcro fu chiusa e la produzione dell’indaco divenne un discor-so superato, mentre ancora oggi si lavora al progetto della strada sul torrente Cerfone, per unire il Tirreno all’Adriatico.

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contribuire a risolvere alcuni problemi della Valtibe-rina.Fra i tanti progetti proposti il “Progetto guado” nato dal-l’iniziativa della Comunità Montana della Valtiberina To-scana, è stato finalizzato al recupero culturale e sociale di almeno cinquecento anni di storia legata alla produzione e lavorazione del guado. A questo progetto hanno aderi-to anche le scuole della vallata attuando una coltivazione sperimentale di guado, estraendo da questo il colorante e tingendo vari tipi di tessuto con cui hanno realizzato abiti ed altri indumenti.Si auspica con questo progetto, di poter realizzare un la-boratorio per l’estrazione e l’utilizzazione della materia colorante, di costituire un centro divulgativo di informa-zione e realizzare stage per la tintura naturale e di creare nuove motivazioni per il turismo.

Donatella Zanchi SantioniIstituto Statale d’Arte “G. Giovagnoli”, Sansepolcro6. Ingrandimento del bagno di tintura

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Le origini e la progettualità

Succede che chi si interessa di moda come noi, a livello amatoriale, senza scopo di lucro o di fama, ma solo per didattica, dopo una ventennale esperienza nel settore, riesca a sentire e a prevedere gli spostamenti di gusto e gli indirizzi della moda: il trend.Quando alcuni anni fa la Comunità Montana Valtiberina Toscana, ha proposto all’Istituto d’Arte di Sansepolcro, di partecipare al progetto Leader 2, con la sezione di Tes-situra e Stampa serigrafica, abbiamo pensato, come inse-gnanti della sezione, che l’idea migliore per rivalutare il guado come colorante, fosse quello di ritornare alle sue origini e alle sue applicazioni più famose nel corso della storia: tra queste emerge la nascita del denim o jeans.

In un momento che ancora non lasciava presagire un ri-torno del jeans nel mondo della moda, abbiamo pensato, dunque, ad una nostra collezione, di capi in jeans e altri da realizzarsi con tessuti e filati tinti a guado, e poiché Sansepolcro è la patria di Piero della Francesca (figlio di un grosso commerciante di guado), perché non ispirarsi alle sue opere?Ci è sembrato interessante, dunque, rimettere insieme tre elementi fondamentali della storia locale e nazionale del guado: Piero-guado-jeans.Questi elementi di grande valore culturale formano la “triade” che ha consentito un grande gioco di squadra. Ne è nata una collezione, che man mano che progrediva, sorprendeva per il suo risultato finale.

Blu e jeans

Il jeans o denim nasce dall’incontro tra un tessuto, nel-lo specifico una saia di cotone ed un colore: il guado o l’indaco. La saia di cotone, quasi sempre di colore bianco o candeggiato, tessuto destinato ad una clien-tela popolare perché conveniente, diviene, quindi, di largo uso quotidiano.Il bianco è però una tinta che si sporca con facilità, e poiché la tintura in genere comporta una spesa in più, nel corso dei secoli si è verificato l’utilizzo di beige e bruni naturali, verdastri, grigio fango e giallini, che i tin-tori, soprattutto del Settecento, estraevano con facilità da piante comuni, economizzando sulle tinture.

Dalla storia del costume popolare si evidenzia, però, che al bianco sempre più spesso, si sostituisce negli abiti da lavoro il colore azzurro, colore molto costoso nelle tonalità più scure, usato soprattutto nell’abbiglia-mento aristocratico.I tintori di azzurro, chiamati guadaioli, avevano, addirit-tura, una corporazione a parte, poiché il metodo di co-lorazione era diverso da tutte le altre forme di tintura, e il costo della materia prima era superiore alle altre. In realtà, i panni blu scuro erano i più costosi perché necessitavano più di un bagno; quelli azzurri erano il risultato di immersioni a tini quasi esauriti, a fine la-vorazione, e venivano usati per gli abiti da lavoro del popolo che si accontentava dei toni più chiari e sfumati

Blu pastello: jeans e altro …

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degli azzurri pallidi che corrispondono a tutte le mo-derne sfumature del jeans stone-washed e “alato” (‘tipo di lavaggio sfumato’)/super-lavato.Solo dopo il 1510, a seguito delle grandi scoperte e del-l’instaurarsi degli imperi coloniali da parte delle gran-di potenze occidentali, l’indaco arriva in Europa ad un costo più basso ed in quantità tali da soppiantare quasi completamente l’uso del guado indigeno. Quando nel 1869 Schutzenberger rivoluziona la tintura all’indaco naturale con il tino all’idrosolfito di soda e con la soda caustica ed, a fine secolo, viene adottato l’indaco sinte-tico, si sviluppa a livello industriale quell’enorme pro-duzione di tessuto azzurro da cui si imporrà in modo vero e proprio il jeans. L’uso del jeans rappresenterà nel tempo un fenomeno di massa e soprattutto, un im-portante fenomeno di contestazione e rottura nei con-fronti della società, della cultura e quindi anche della moda diventando simbolo e personificazione di un’era.I jeans sono realizzati in denim, un tessuto in saia 2:2, con un intreccio incrociato obliquo. La saia era uno dei tessuti più popolari destinati a molteplici usi.L’origine vera e propria del denim è a Nimes, città dalla quale il tessuto partiva per essere commerciato anche at-traverso Genova, come tessuto destinato alla costruzione di vele per navi e di teloni di copertura per carri, o ad altri scopi, poiché era molto resistente ed economico.È dalla città italiana che nasce il nome di “tela di Ge-nes”, che in francese significa Genova e che con un adattamento fonetico in America diventa “jeans”.Si hanno notizie, addirittura, di pezze di questa tela comprate a New York verso i primi dell’Ottocento periodo in cui Lévi-Strauss inizia ad utilizzare proprio questo tessuto. Egli, infatti, esaurite le scorte di teli da carro o da vela color marrone per la produzione di pantaloni, comincia a far rifornimento di denim ed, alla fine dell’Ottocento, il tessuto jeans grazie alle sue ca-ratteristiche di resistenza ed al costo ridotto, diventa in America sinonimo di pantalone.

Friedman nel suo libro Histoire du blue jeans afferma «Esso invecchia integrando in sé il cambiamento del-l’età, impregnandolo di avventura, della vita di chi lo indossa. Ogni lavaggio è una pagina girata, il tempo vi scrive la sua memoria su un fondo sempre più pallido».Dapprima come abbigliamento dei cercatori d’oro, dei minatori o degli operai che costruiscono la ferrovia negli stati dell’Ovest americano, è simbolo dell’abbiglia-mento western; infatti, sia gli agricoltori che i cowboy, li indossanno per lavoro e per riposo. A poco a poco il jeans perde la sua caratteristica di indumento da lavoro per assumere quella di capo per il tempo libero, restan-do però, immutato nella sua struttura. Tre sono i grandi marchi che lo producono in America: Levi’s, Wrangler e Lee che si specializzano in tute da lavoro ed uniformi.Con gli anni Cinquanta, il jeans entra nel mondo del ci-nema con James Dean e Marlon Brando rappresentanti della “gioventù bruciata e selvaggia” e, di conseguenza, in quello dei giovani, che lo assumono come una vera e propria divisa, come elemento di controcultura e con-testazione vera e propria, non solo in America. Anche il movimento femminista un po’ di anni più tardi lo assumerà come elemento di contestazione della diffe-renza tra i sessi.Per tutto il Dopoguerra il jeans entra in Europa attra-verso il mercato nero. Grazie ad Elio Fiorucci viene importato in Italia con i marchi americani ed in seguito prodotto proprio con marchio dello stilista. Gli hippy, addirittura, creano un nuovo modo di portarlo: ricama-to, borchiato, dipinto, sfrangiato e rattoppato, a zampa d’elefante; da allora in poi con il jeans si fa tutto: borse scarpe, abiti, gonne, short, bikini.Nel corso degli anni, il jeans perde la sua connotazio-ne tipicamente giovanile per essere indossato da ampie fasce di età. Come afferma Paul Rica-Lévy: «Si può cita-re un altro indumento che, senza alcun cambiamento o quasi, abbia vestito, veste ancora, o potrebbe vestire la quasi totalità degli esseri umani, indipendentemente

Blu pastello: jeans e altro …

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dall’età, dal sesso, dalla professione, dall’ambiente, dal reddito e perfino dall’ideologia?». Per la prima volta un abito, nello specifico un pantalone, diviene seconda pelle e assume un valore di totem, di indumento simbolo.Daniel Friedman scrive a questo proposito, che il jeans ha rappresentato l’emblema del rito di passaggio; men-tre Paul Yonnet si chiede come può essere definito con-fortevole, un indumento così pieno di inconvenienti: è costruito con un tessuto grossolano, al primo lavaggio si restringe, stinge in maniera disuniforme, costringe, stringe il cavallo comprimendo gli organi genitali.Eppure, un indumento con queste caratteristiche di-venta universale. Sono proprio i suoi difetti che lo rendono interessante e ricercato: questa seconda pelle che costringe mettendo in evidenza le forme anato-miche sia maschili sia femminili, il suo scolorire nelle parti che sensualmente mette in evidenza, ne fanno un capo di abbigliamento dalla forte valenza sensuale, un oggetto di richiamo sessuale.In definitiva, il jeans è una corazza al contempo pro-tettiva e quasi trasparente che permette di leggere il

corpo sottostante e in alcuni casi di apportare del-le modifiche, migliorando l’aspetto di chi lo indossa. Puntuale a questo proposito, la definizione che ne da Richard Hamilton nel 1957: «Popolare effimero facile da buttare di basso costo prodotto di massa rivolto ai giovani spiritoso sexy appariscente clamoroso grosso affare», mentre Camilla Cederna sull’Espresso com-menta: «Una cosa è certa, sui jeans non tramonterà mai il sole».Negli ultimi vent’anni, il jeans ha perso la sua caratte-ristica di “antimoda”, molti sono gli stilisti o le grandi firme che lo hanno incluso a pieno titolo nelle loro collezioni, facendone un capo di stile classico, non più un casual, com’era di moda negli anni Settanta.Ultimamente, il jeans non aveva suscitato grandi clamo-ri, viveva ai margini delle collezioni; ma nel carosello dei revival, sta ritrovando una sua collocazione.Il jeans non sarà più rigorosamente blu,in tinta unita e andrà a costruire capi dalle molteplici forme; rimarrà l’idea del jeans come linea, ma i tessuti non saranno sempre e solo tele o saie.

Le opere di Piero della Francesca

Piero, di certo, non dipinse gli abiti dei suoi personaggi con il guado, ma non si può non accorgersi di come fos-se pienamente “coinvolto” da questo colore.I suoi azzurri dimostrano che ben conosceva i tessuti tinti: un esempio per tutti è costituito dall’abito della Madonna del Parto che mostra in maniera evidente di essere stato tinto a guado.Chi frequenta questo tipo di tintura, riconosce benissimo tutte le sue possibili sfumature. È successo, addirittura, che le allieve, per riproporre l’indaco sugli abiti da loro progettati, al momento di dare il colore alle immagini sul foglio, qualsiasi fosse la tecnica utilizzata per renderlo

7. Piero della Francesca, Madonna del parto

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in maniera verosimile, non potessero accontentarsi dei colori già composti.Per raggiungere la vera tonalità, nella composizione del colore oltre all’azzurro e ad una minima parte di bianco, è stato necessario, in ogni caso, aggiungere una piccola

parte di giallo che conferisce la giusta gradazione, come se nel procedimento della tintura restasse un ricordo del colore di partenza. Il tessuto, infatti, è immerso in un bagno che risulta di colore giallo, prima di raggiungere la giusta colorazione attraverso l’ossidazione.Dalle indagini sulle opere di Piero, le allieve hanno rica-vato elementi fondamentali per le decorazioni e le linee essenziali degli abiti. Così facendo, anche i nuovi abiti ri-sultano impregnati di quell’arte, con una trasposizione in chiave moderna di elementi di grande dignità culturale, che li rendono unici nel loro genere.Se non si conoscessero i riferimenti di partenza alle ope-re di Piero, infatti, si potrebbe pensare che l’ispirazione sia nata da motivi attuali quali i tribali o altro, ma la cosa più sorprendente sta nell’aver reso in maniera nuova e molto attuale, motivi classici, ampiamente storicizzati.L’aver realizzato tali motivi con tecniche sia antiche, come la tessitura, che moderne come la serigrafia, ha infuso loro nuova linfa vitale. Nel percorso progettuale

8. Bozzetti per la realizzazione di abiti, Mostra “Blu pastello: jeans e altro”

Blu pastello: jeans e altro …

9. Tessuto colorato di verde dopo il bagno

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che dall’ispirazione giunge alla realizzazione definitiva, il linguaggio iconografico si è evoluto dalla rappresentazio-ne del reale all’astrazione degli elementi fondamentali, secondo un percorso mentale effettuato dalle allieve sotto l’attenta guida delle insegnanti.

Il percorso

È proprio questo lo scopo che la scuola in particolare l’Istituto Statale d’Arte “G. Giovagnoli” di Sansepolcro si è proposto come fondamentale attraverso questo la-

voro: dotare gli allievi di una grande elasticità mentale che oggi viene sfruttata per la risoluzione di problemi progettuali, ma che domani nella vita di tutti i giorni, per-metterà loro di tenersi sempre più al passo coi tempi. Non esiste più oggi, infatti, la possibilità di un unico la-voro; tutto si evolve e bisogna sapersi adeguare ai tempi, alle tecnologie, alle diverse esigenze. Se una scuola oltre ad una curata professionalità culturalmente supportata sa offrire questo, può dire di aver adempiuto a pieno al suo compito.In un tempo in cui si allunga l’obbligo scolastico e si af-fianca quello formativo, è probabile che, la realizzazione

10-11. Bozzetti per la realizzazione di abiti, Mostra “Blu pastello. Jeans e altro”

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di un lavoro come “Blu pastello: jeans e altro …” svolto in partenariato con altre realtà o enti, per conto della Comunità Montana Valtiberina Toscana, permetta di ve-dere le possibili vie percorribili nell’attuazione di quelle riforme, che molto spesso calate dall’alto rispondono, tuttavia, alle effettive esigenze dell’odierna realtà lavora-tiva europea.

[M.I.]

La tecnica e la sua storia

Il guado ha origini antichissime. Reperti archeologici at-testano che l’uomo già nell’epoca Neolitica quando da nomade si organizza in società stanziali e costruisce vil-

laggi, sviluppa oltre all’arte della filatura e della tessitura anche quella della tintura; la robbia, il guado e l’uva ursina erano usati per tingere e, probabilmente, venivano colti-vati proprio per questa utilizzazione. Si sono trovate, nei resti dei villaggi neolitici, anche tracce di un colore verde, ricavato da azzurro di guado e giallo di uva ursina, che rivela tecniche abbastanza avanzate e una buona cono-scenza dell’arte della tintura.Anche i greci e i romani usavano molto il pastello per tingere in azzurro, tuttavia, sembra che lo usassero solo come pigmento, in applicazione pastosa su un supporto,

e non in tintura propriamente legata alla fibra tessile. La raccolta del prodotto è durata per molto tempo, finché non arrivò l’indaco dall’oriente, l’unica pianta capace di dare quella tinta che nel Medioevo e nel Rinascimento il guado riusciva a dare.L’indaco che si estrae dalle foglie di guado è insolubile. Ciò vuol dire che se, una volta polverizzato, lo si mischia con acqua e in questo miscuglio si immerge una fibra tessile, non succede nulla: si estrae dal bagno un filo o un tessuto imbrattato di polvere azzurra, ma assolutamente non tinto. Per tingere effettivamente il filo o il tessuto in maniera solida e durevole, bisogna poterlo impregnare di indaco ridotto alla sua forma solubile e incolore.Tutte le varianti storiche ed etnologiche delle vasche di indaco hanno sempre lo stesso scopo. Una volta por-

tata a termine l’impregnazione, si manifesta la magia dell’indaco: all’uscita della vasca, sotto l’azione dell’os-sigeno dell’aria, l’indaco precipita nuovamente sotto la sua forma colorata all’interno stesso della fibra tessile che, inzuppata di liquido giallo si colora di verde a vi-sta d’occhio ed assume, quindi, un colore azzurro tanto più intenso quanto più indaco è stato messo nella vasca.

Blu pastello: jeans e altro …

12. Macina di guado: base

13. Tessuto tinto col guado prima della fase di ossidazione

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Ammolli successivi permettono ancora di ottenere un azzurro sempre più scuro, per sovrapposizione di strati di colore.Contrariamente a ciò che avviene per le tinture in rosso e per la maggior parte delle altre tinture, non si tratta quindi di una tintura dovuta a un legame chimico tra il colorante e la fibra, o tra il colorante, il mordente e la fibra, ma di un fenomeno meccanico di precipitazione del colorante nel cuore del tessile. In effetti la tempe-ratura del bagno di tintura non ha bisogno di superare i 70/75 °C.La grande competenza richiesta per questa “tintura a ri-schio”, il rischio d’insuccesso e di spreco di un colorante costoso e di tessuto, spiega il notevole interesse susci-tato durante i due secoli scorsi, da ogni nuovo metodo

di dissoluzione dell’indaco e dalle prime tinture azzurre con coloranti di sintesi. Nel 1869, infatti, Schutzenber-ger perfeziona l’arte della tintura al tino all’idrosolfito di soda, metodo che sarà adottato definitivamente anche per l’indaco sintetico, che compare sul mercato alla fine del secolo, quando nel 1887 il chimico tedesco Adolf von Baeyer scoprì il metodo di sintesi dell’indaco artificiale.Nel progetto triennale, nell’ambito del programma Lea-der II, il nostro compito era quello di sperimentare le capacità tintorie dell’indaco estratto dal guado. Questa sperimentazione si è articolata in due tempi.Dapprima è stata realizzata una campionatura di tessu-ti (cotone, lana, seta) per immersioni successive e per esaurimento destinati al monitoraggio presso l’Univer-sità di Pisa; poi sono state effettuate tinture di filati e tessuti in pezze in grande quantità, destinati alla tessitura e alla confezione di abiti.Prima di procedere alla tintura vera e propria i tessuti e i filati destinati alla tintura, sono stati sottoposti alle operazioni di purga. Tale operazione consiste nel sotto-porre i filati e i tessuti naturali alla bollitura su recipiente aperto con soluzione acquosa contenente soda causti-ca e soda solvay ed un prodotto detergente sintetico. La purga ha lo scopo di eliminare dalle fibre di cotone, lana e seta, le impurità naturali e di lavorazione. La soda caustica (idrossido di sodio) e la soda solvay (carbonato di sodio) hanno il compito di saponificare e di emulsio-nare i grassi trasformando le sostanze insolubili in H2O, in prodotti solubili. Il detergente sintetico emulsiona lo sporco e lo mantiene in sospensione impedendo così che si depositi nuovamente sulla fibra; con il suo potere imbibente facilita, inoltre, la penetrazione delle sostanze alcaline nell’interno della fibra stessa. Durante l’opera-zione di purga si deve fare bene attenzione affinché i filati e i tessuti trattati siano sempre completamente immersi nel bagno onde evitare la formazione di ossicellulosa con conseguente indebolimento delle fibre.Successivamente alla purga si effettua la tintura con pro-cedimento al tino di filati e tessuti in fibre naturali.

14. Tessuto durante la fase di ossidazione: il colore da verde vira a blu

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Trattamento di tintura

I tessuti, i foulard e le maglie esposti nella mostra “Blu pastello: jeans e altro ...” sono stati realizzati col metodo del “maltinto”, una sorta di Batik primitivo, che consiste nella realizzazione di strani motivi decorativi da comporre attraverso diversi tipi di legature effettuate con lo spago.I filati tinti a guado sono stati usati per orditi montati su macchine tralicci per la realizzazione di scozzesi nelle varie sfumature di guado, dal blu al celeste; su te-lai jacquard 200/400 per la realizzazione di tessuti con la tecnica del broccato per trama con motivi decora-tivi ispirati al Rinascimento e a Piero della Francesca, tra i quali spicca il motivo a “melograna” della mani-

Blu pastello: jeans e altro …

15. Tessuto colorato col metodo del maltinto.

16. Tessuto realizzato con filati tinti col guado

Ricetta per purga in recipiente aperto

5 litri di acqua2-3 % di soda caustica (idrossido di sodio)1-2 % di soda solvay (carbonato di sodio)2-4 % di detergente sinteticotempo di bollitura da 2 a 6 oreTerminata l’operazione di purga i tessuti devono es-sere sciacquati a fondo prima con acqua calda e poi fredda.

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ca della Battista Sforza, ricostruito filologicamente in occasione delle manifestazioni del 1992 in omaggio a Piero della Francesca. Sugli stessi telai sono stati rea-lizzati tessuti jeans con “armatura saia” ad effetto di ordito, con andamento obliquo da destra a sinistra e prodotto con filato a forte torsione. È stato tinto solo il filo di ordito che, sostituendo l’armatura alla trama,

resta del suo colore naturale écru. La caratteristica specifica della tintura è che nei bagni di indaco la tinta resta solo all’esterno del filo, mentre l’interno resta bianco; questo, tra l’altro, è il metodo per realizzare il graduale effetto slavato e d’usura caratteristico del jeans.

[A.C.]

18. Piero della Francesca, Battista Sforza 17. Momento della sfilata, Mostra “Blu pastello: jeans e altro”

Maria Inferrera e Andreina CrispoltoniIstituto Statale d’Arte “G. Giovagnoli”, Sansepolcro

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Le prove di estrazione dell’indigotina dalle foglie di diver-se varietà di guado (Isatis tinctoria) rientrano nell’ambito del progetto Leader II, intervento n° 20 “Valle ecologica – Centri di diffusione per tecniche di coltivazione biologi-ca”. Tale intervento ha portato allo sviluppo del progetto “Guado”, coinvolgendo, oltre alla Comunità Montana, il Comune di Monterchi, l’Agenzia Regionale ARSIA, l’Uni-versità degli Studi di Pisa, l’IPSAA “A.M. Camaiti” di Pieve Santo Stefano e l’ISA “G. Giovagnoli” di Sansepolcro.Le prove, effettuate tra luglio e novembre 2000 nella sede distaccata della Comunità Montana Valtiberina Toscana di Pieve Santo Stefano, fanno seguito alle esperienze fatte nel periodo agosto-ottobre 1999 da un’operatrice sem-pre per conto della stessa Comunità Montana, e docu-mentate con relazione.Nel secondo anno di sperimentazione si è inteso lavo-rare su quantità maggiori di materia prima (provenienti da coltivazioni fatte da privati della zona e dall’IPSAA di Pieve Santo Stefano) e standardizzare le operazioni, in modo da rendere il ciclo di lavorazione facilmente ripro-ducibile, senza l’uso di attrezzature particolari; inoltre si è ipotizzato di confrontare la resa in pigmento delle diverse varietà coltivate. Sono state fatte anche due pro-ve per valutare la possibilità di separare il prodotto per centrifugazione. Contatti avuti con il professor France-sco Chimienti, docente di Chimica dell’ITIS “G. Galilei” di Arezzo, hanno permesso di effettuare l’analisi qualitativa e quantitativa, per via spettrofotometrica dei campioni estratti nell’anno 2000.Negli anni successivi la sperimentazione è proseguita con l’utilizzazione di quantità maggiori di guado coltivato da agricoltori della Valtiberina coinvolti nel progetto.

Analisi dei campioni

Campioni dell’indaco grezzo ottenuto dalle estrazioni effettuate sono stati sottoposti, usando uno spettrofo-tometro visibile-UV, ad analisi qualitativa e quantitativa e confrontati con indaco di sintesi (reagente puro per analisi della Carlo Erba). Come riportato nella relazione sullo studio condotto dal professor Francesco Chimienti con la classe 5° Chimici dell’ITIS “G. Galilei” di Arezzo, la percentuale di indigotina va da 3,6 a 1,7 ed il grado di purezza del prodotto varia da un’estrazione all’altra.

Prove di tintura di stoffe e di filati con l’indaco estratto dal guado

Aspetti teoriciIl pigmento blu indaco (indigotina) è il capostipite della famiglia degli indigoidi; esso ha formula bruta C16H10N2O2, ha peso molecolare 262 u.m.a. e densità d = 1,35 gr/cm3.Allo stato puro si presenta come polvere cristallina di colore azzurro scuro; è insolubile in acqua, alcol ed etere; è solubile a caldo in anilina, cloroformio e nitrobenzene.Molto stabile agli acidi e al calore (si decompone a 392 °C) è meno stabile agli alcali; è il colorante organico più importante per l’ottima qualità delle sue tinture e per la solidità ai lavaggi e alla luce.Quando viene usato per tingere i filati o i tessuti, l’inda-co deve essere trasformato in una forma giallastra solubile (leucoindaco), capace di impregnare le fibre immerse nel bagno di tintura e di fissarsi ad esse. Successivamente il leu-coindaco viene riossidato ad indigotina (e quindi riprecipita) nelle fibre per esposizione all’aria. Il filato (o il tessuto) tinto

Appendice. Dalle foglie del guado all’indaco

AppendiceDalle foglie del guado (Isatis tinctoria) all’indaco (indigotina)

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viene fatto asciugare, poi viene lavato con acqua e aceto per neutralizzarne la basicità (dato che il bagno di tintura è nettamente alcalino) e per fissare il colorante; infine si lava con sapone neutro e si risciacqua con acqua.Dato che in passato la riduzione dell’indaco avveniva in tini di fermentazione, il sistema di tintura viene detto “al tino” e gli indigoidi sono classificati come coloranti al tino.Da tempo come composto riducente si usa l’idrosolfito (o ditionito) sodico, Na2S2O4 in ambiente basico dovuto alla soda caustica, NaOH.Il ditionito si ossida a idrogenosolfito (o bisolfito) produ-cendo idrogeno riducente:

Na2S2O4 + H2O —> 2Na HSO3 + 2H.

L’idrogeno atomico riduce i carbonili (C=O) presenti nella molecola dell’indigotina a funzioni alcoliche (C–OH); queste, in presenza di NaOH, danno i corrispondenti sali sodici:

2 >C=O + 2H —> 2 >C–OH2 >C–OH + 2NaOH —> 2 >C–O-Na+ + H2O.

In ambiente basico l’idrogenosolfito, a sua volta, si tra-sforma in solfito di sodio, Na2SO3.In base a quanto detto, il rapporto stechiometrico di rea-zione in massa tra ditionito e indaco vale circa 1,3:1 gr/gr.In realtà si impiegano quantità di ditionito maggiori (nella ricetta di riferimento si prevede un rapporto ditionito/indaco 4:1 gr/gr), perché un’alta percentuale di ditionito viene distrutta dalla decomposizione termica e dall’azione ossidante dell’ossigeno atmosferico. È per questo motivo che il bagno di tintura deve essere agitato il meno possibi-le e la temperatura non deve essere troppo elevata.

Aspetti sperimentaliNel laboratorio di tintura e stampa dell’ISA di Sansepolcro (anche in occasione delle mostre realizzate nel settembre 2000 a Sansepolcro e nel novembre 2000 a Città di Ca-stello) sono state fatte, con l’aiuto delle insegnanti di Pro-gettazione e di Laboratorio della sezione Tessitura, prove dimostrative e tinture di filati e di tessuti (lino, cotone, lana e seta), seguendo una ricetta ed un procedimento riporta-

ti nel volume La tintura naturale di Maria Elda Salice ed uti-lizzando l’indaco estratto nelle sperimentazioni effettuate per la Comunità Montana negli anni 1999 e 2000.Secondo questo metodo l’indigotina viene ridotta a sale sodico del leucoindaco usando ditionito di sodio (Na2S2O4) in ambiente nettamente basico, mantenendo il bagno tra i 60 °C e i 70 °C (non si devono mai superare i 75 °C).La ricetta sopra citata prevede l’uso di indaco, soda cau-stica e ditionito nel rapporto (in peso) 1:2:4; il pigmento in polvere (proveniente da estrazione ed essiccamento) viene pesato, trasferito in un recipiente di acciaio inox (o di acciaio smaltato) e stemperato con un po’ di acqua calda, mescolando con una bacchetta di vetro; ottenu-ta una pasta densa, si aggiunge metà della soluzione di NaOH preparata a parte (circa 1 grammo di soda ogni 10 cc), si mescola adagio, si aggiunge la metà del ditionito necessario e si diluisce con acqua calda (il volume rag-giunto dovrà essere di 1 litro ogni 15 grammi di pigmen-to); si scalda moderatamente, facendo attenzione a non superare i 75 °C.Per reazione con il riducente, la sospensione blu si de-colora, trasformandosi in una miscela giallastra (se il pig-mento non è stato sottoposto a lavaggio per allontanare i pigmenti fogliari idrosolubili, la soluzione è verdastra). Si lascia riposare il tutto per circa 20 minuti, quindi si aggiunge il resto del ditionito mescolando adagio e con-trollando la temperatura del liquido.

Materiale occorrente

contenitore di acciaio inox o di acciaio smaltatopiastra elettrica riscaldantebilancia con sensibilità dell’ordine di 0,1 grspatola di acciaio con cucchiaio2 bacchette di vetro1 o più mestoli di legno2 o 3 becher graduatitermometro a mercurioditionito (o idrosolfito) di sodiosoda caustica commercialeindaco in polvere

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lI bagno di tintura è pronto e vi si possono immergere tessuti e filati precedentemente purgati e risciacquati (la ricetta originale prevede la tintura di 100 grammi di filato o di tessuto ogni 15 grammi di pigmento); si la-scia a bagno per qualche minuto, poi si estrae, si strizza dolcemente e si mette ad asciugare: il filato (o tessuto) appena estratto è giallo-verde, poi rapidamente diventa verde e infine blu. Se si desidera una colorazione più intensa, si ripete il bagno. Una volta fatto asciugare, si sciacqua con acqua e aceto, si lava con sapone neutro e si risciacqua bene.

Conclusioni

I risultati ottenuti non sono uniformi, dato che l’intensità

della colorazione dipende dalla percentuale di indigotina presente nei campioni usati. Comunque, si è osservato che il lino e il cotone hanno una buona affinità per il co-lorante, la lana prende molto bene il colore; anche la seta che deve stare a bagno per tempi più brevi (altrimenti viene danneggiata dall’ambiente fortemente alcalino), rivela una buona affinità. Nelle prove effettuate la capa-cità tintoria della soluzione madre è risultata maggiore di quella riportata nella documentazione consultata. Può essere interessante sperimentare sistemi di tintura che non richiedano l’uso di alcali forti concentrati.

Bibliografia

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Appendice. Dalle foglie del guado all’indaco

La mostra “Blu pastello: jeans e altro” è stata realizzata su pro-getto della Sezione Arte e Restauro del Tessuto e del Ricamo del-l’Istituto Statale d’Arte “G. Giovagnoli” di Sansepolcroprof. Maria Inferrera, prof. Andreina Crispoltoni, prof. Gior-gio Cestelli, prof. Miriam Ricci, ass. tecnico Antonella ValeriPresidenza: prof. Benito Carletti; Segreteria: Lucilla SantiClasse 4BT: Anna Alberi, Sara Buschi, Daila Castellani, Debora Chiapponi, Erica Falcinelli, Valentina Fiori, Alice Galli, Martina Giu-

bilei, Gloria Lucaccioni, Elena Maggini, Antea Mazzoni, Michela Milli, Marika Neri, Francesca Pescari, Lucia Picchi, Gloria Piccioloni, Lisa Pigolotti, Loriana Rodà, Patrik Stewardson, Stefania Tacchini.Classe 5B: Cinzia Biagioli, Elena Bianchi, Susanna Bigi, Sere-na Bracchini, Serena Bracci, Susanna Campana, Viola Cangi, Valentina Cardinali, Loredana De Salvo, Sara Fabrizi, Ilenia Finocchi, Monica Giannelli, Letizia Lumachi, Sara Marconcini, Martina Meozzi, Chiara Piccini, Ilaria Rubini, Elisa Volpi

Giorgio Cestelli e Miriam RicciIstituto Statale d’Arte “G. Giovagnoli”, Sansepolcro

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parte terza

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Presentazione

La partecipazione al progetto di ricerca “Nuove forme di occupazione e orientamento nei territori rurali” ci

ha offerto la possibilità di riflettere su come la capacità di studiare un territorio, per conoscerne e comprenderne l’identità, possa diventare, da educazione ambientale ed educazione per lo sviluppo sostenibile, un’occasione di educazione all’orientamento, inteso come processo di elaborazione del proprio progetto di lavoro in una realtà territoriale.Senza la crescita della consapevolezza del proprio ter-ritorio, nelle sue tradizioni e nelle sue prospettive, ogni intervento politico teso allo sviluppo perde efficacia, non trovando nella comunità, e soprattutto nei giovani, la capacità di comprendere, di reagire correttamente e di esprimere la propria partecipazione.È quindi necessario che le esperienze e le conoscenze maturate nel corso di generazioni siano viste dai gio-vani non solo, come un’eredità museale, ma nelle loro potenzialità di sviluppo della realtà locale, cosicché la co-noscenza del proprio paese sia anche una preparazione al futuro.

La proposta di fare approfondire agli studenti una delle attività produttive presenti nel territorio è venuta incon-tro alla possibilità di concretizzare le nozioni astratte di marketing presenti nel programma di Economia Azienda-le della classe IVB.Il risultato più importante della ricerca, oltre a quello di avervi partecipato insieme all’ISA “G. Giovagnoli” di San-sepolcro e all’integrazione di due esperienze didattiche diverse, è stato per noi vedere i nostri studenti lavorare in modo autonomo, con una motivazione ed un interesse personali non finalizzati al profitto scolastico, ma alla rea-lizzazione di un lavoro di cui poter essere orgogliosi.Esporre il proprio lavoro lo scorso 21 maggio 2005 in un incontro aperto a tutta la popolazione, e a cui hanno partecipato associazioni che si occupano della valorizza-zione dei prodotti tipici, è stato per noi un ulteriore ele-mento di soddisfazione a termine di un percorso in cui i ragazzi sembrano aver maturato una diversa consapevo-lezza delle potenzialità del territorio in cui sono nati.

Domenico Massaropreside dell’ITC “L. Einaudi”, Poppi

Brunella Matarrese,docente di economia aziendale ITC “L. Einaudi”, Poppi

Un viaggio nel blu

Il binomio panno-guado sviluppato nell’ambito del pro-getto “Nuove forme di occupazione e orientamento

nei territori rurali” si è rivelato in tutta il suo significato dando vita ad una moderna rivisitazione e utilizzo, nel campo della moda e dell’arredamento, di un prodotto dalla forte valenza espressiva, da un lato, e dalla notevole possibilità commerciale, dall’altro.Due importanti manifestazioni sono state il risultato tangibile di tutto il percorso lavorativo del progetto, la prima a Firenze nell’ambito della Mostra Internaziona-le dell’Artigianato, e la seconda a Poppi che ha visto la preziosa collaborazione di una ditta tessile di Stia che

non solo ha fornito il panno casentino per il processo di tintura, ma ha messo a disposizione l’archivio storico, il Museo, i propri stabilimenti. Ciò ha consentito di portare a conoscenza delle classi coinvolte nel progetto, il par-ticolare tipo di lavorazione utilizzato nella produzione del panno.Gli allievi hanno partecipato con estremo interesse al-l’articolazione di tutto il lavoro progettando e realizzan-do in prima persona prototipi che hanno contribuito alla valorizzazione di questo prezioso tessuto.

Maria Inferrera e Andreina Crispoltonidocenti di Arte e Restauro del Tessuto e del Ricamo

ISA “G. Giovagnoli”, Sansepolcro

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Conoscere e comunicare il territorio

Il lavoro che presentiamo nasce da un’esperienza didat-tica sviluppata nell’ambito della collaborazione con due Istituti Superiori, l’Istituto Tecnico Commerciale “L. Ei-naudi” di Poppi e l’Istituto Statale d’Arte “G. Giovagnoli” di Sansepolcro, due comuni che si trovano, rispettiva-mente, nelle comunità montane del Casentino e della Valtiberina Toscana, aree di ricerca del progetto “Nuove forme di occupazione e orientamento nei territori ru-rali”.“Conoscere&Comunicare il territorio” è il titolo con cui abbiamo identificato le attività di comunicazione della seconda annualità del progetto all’interno della quale si è sviluppata questa esperienza didattica.Gli obiettivi di “Conoscere&Comunicare il territorio” erano quelli di fare conoscere e comunicare alle popo-lazioni le risorse economiche e produttive, reali e po-tenziali, tipiche dei territori a vocazione rurale; questi sono stati i riferimenti che ci hanno guidato nel percorso intrapreso con le scuole.Le attività coordinate dal CNR-Ibimet, hanno avuto inizio sin dall’estate del 2004 quando abbiamo proposto ai pre-sidi e ai docenti di alcune scuole superiori di approfondi-re temi inerenti lo sviluppo rurale che riguardassero più da vicino la valorizzazione di prodotti e/o attività tipiche tradizionali del Casentino e della Valtiberina Toscana.Tali proposte di ricerca si basavano sulle analisi svolte nella prima annualità del progetto nelle aree oggetto di studio, ed avevano l’obiettivo di coinvolgere i ragazzi del-le scuole superiori in un’opera di conoscenza diretta di

quelle forme di sapere materiale e immateriale che fanno parte della cultura del territorio in cui essi vivono.All’inizio dell’anno scolastico 2004-2005, dunque, sono stati prospettati ad alcune classi dell’Istituto Tecnico Commerciale “L. Einaudi”, diversi progetti di valorizza-zione di prodotti e/o attività tipiche che fossero poten-zialmente interessanti per i territori in questione da un punto di vista economico, sociale e culturale.Dalla proposta di studio sulla valorizzazione del panno casentino ha avuto origine il lavoro sul panno blu.

La proposta di “Valorizzazione del panno casentino”ai ragazzi dell’ITC

L’arte della lana in Casentino, oltre ad avere radici an-tichissime, è anche un settore di notevole importanza economica, essendo stata per moltissimi anni la principa-le risorsa del territorio.La peculiare ricchezza che il tessile ha rappresentato nel-la storia di questa vallata (evidente in prodotti ed attività ancora esistenti), ha gettato le basi per lo studio di un settore oggi collocabile, però, in una fase critica del ciclo di vita del prodotto. L’obiettivo, pertanto, era quello di far approfondire e riscoprire ai ragazzi le potenzialità di un settore che, se a loro oggi è praticamente estraneo, non lo era di certo ai loro nonni che, invece, riconosce-vano ad esso parte dei meriti per la fiorente economia del Casentino.Sebbene, dunque, animati dalle migliori intenzioni e dal-la volontà di far conoscere il valore di una produzione tipica di pregio e di sicuro potenziale di crescita econo-

Dalla scuola al territorio, la storia di un’esperienza didattica per un prodotto “innovativamente” tradizionale

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mica, non possiamo nascondere le difficoltà incontrate in un primo momento. Scarso, infatti, di fronte alla nostra proposta, si mostrava l’entusiasmo dei ragazzi, che espri-mevano dubbi e perplessità in merito ad un prodotto che esercitava su di loro (almeno apparentemente) un interesse limitato.Il panno casentino sembrava rappresentare ai loro occhi l’idea di un oggetto un po’ vecchio, ritenuto (erronea-mente) fuori moda, percepito come fuori dal tempo; un oggetto che pareva appartenere ad un’epoca passata, forse morta, comunque, sorpassata.È da notare che tale percezione del panno era legata, pe-raltro, ad una forte consapevolezza da parte dei ragazzi della crisi della realtà economica del tessile casentinese, in particolare, di quella del distretto di Soci.

È indubbio, quindi, che tali “difficoltà” abbiano rappre-sentato una sfida al nostro lavoro e, di certo, una pro-vocazione comunque positiva, che ci ha spinto a cercare soluzioni e metodi “alternativi” per far avvicinare i ragaz-zi al tema.

Mettersi nei “panni” dei ragazzi

Così, dopo una breve esposizione di informazioni gene-rali sul panno, si è cercato di capire che cosa potesse rap-presentare l’innovazione di un tessuto nell’immaginario dei ragazzi. Ovviamente, questo non poteva comportare il dover inventare qualcosa di fantasioso e di completa-mente estraneo alla realtà e agli interessi economici dei territorio.

1. Cappotto realizzato con tessuto casentino, Mostra permanente Lanificio Stia

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2. Campionario

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Da una parte, quindi, si presentava la necessità che gli studenti immaginassero un’idea nuova per un pro-dotto “originale”, dall’altra, si doveva pensare alla pos-sibilità di fare qualcosa di realmente proponibile sul mercato.Una colorazione del panno realizzata con un colorante naturale, da aggiungere alle tradizionali tinture arancione e verde (anche se le varianti cromatiche già sono appli-cate al panno casentino con coloranti chimici), poteva rappresentare un’idea alternativa; insieme a questo, si prospettava anche la possibilità di lanciare l’idea di un prodotto che avesse maggiore compatibilità con l’am-biente.

La proposta del tema di ricerca ai ragazzi dell’ISA di Sanse-polcro e l’unione di intenti delle politiche delle due Comunità Montane

Da tutto ciò è nata l’idea di sperimentare una versio-ne alternativa del panno che fosse non solo un’innova-zione cromatica e, laddove se ne fossero presentate le possibilità, formale (legata a nuove fantasie di tessuto), ma che racchiudesse in sé quegli aspetti di qualità del prodotto, attualmente percepiti importanti dal mercato per la tutela dell’ambiente e del benessere della per-sona.Dunque, i contatti con la Comunità Montana della Val-tiberina Toscana che da cinque anni cura il progetto “La pianta blu” dedicato al ripristino e alla coltivazione del-la pianta del guado per la produzione di indaco, hanno dato origine ad un’occasione vincente per proporre in modo concreto qualcosa di innovativo all’insegna della tradizione.Per questo, si è cercato di gettare le basi per la co-stituzione di una solida unione di intenti tra le due comunità montane, il nostro istituto di ricerca, due Istituti di Istruzione Superiore (quali enti pubblici) ed un soggetto privato, un’azienda tessile di Stia che ha mostrato ampia disponibilità a prendere parte a que-

sta prima iniziativa di tintura con una forte sensibilità nei confronti del territorio e con un atteggiamento di apertura alla novità.Inoltre, non è secondario rilevare l’opportunità pre-sentatasi con questo lavoro che, nato in una dimen-sione didattica, ha unito due progetti di promozione del territorio facendo leva sul senso di identità di due aree geograficamente e storicamente legate che pre-sentano rilevanti potenzialità di sviluppo da sostenersi con uno scambio reciproco e complementare di espe-rienze.Ciò acquista un significato tanto più interessante e di rilievo politico, se si considera che il Casentino e la Valti-berina costituiscono il distretto moda-tessile della pro-vincia di Arezzo.Altro punto di forza è stata anche la possibilità di por-tare ad obiettivi comuni studenti che frequentano scuo-le di diverso indirizzo nei due territori. Ciò è accaduto all’insegna della interdisciplinarietà e della necessità di mettere in discussione competenze varie e molteplici per lo sviluppo quanto più completo dell’iniziativa.

L’organizzazione delle attività con la classe dell’ITC

Dopo la presentazione in classe del progetto sono stati discussi insieme ai ragazzi, la metodologia, i tempi di svol-gimento ed il programma dei lavori secondo uno schema generale che comprendeva:– la ricerca bibliografica sul settore;– la programmazione della visita ad una o più imprese

del settore;– la scelta e la costruzione degli strumenti di indagi-

ne da sottoporre ai soggetti prescelti (ad esempio: questionari per la raccolta di dati, elaborazione della traccia per interviste, ecc.);

– la scelta e la costruzione di strumenti per l’analisi e l’esposizione dei risultati.

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Sin dall’inizio è stato importante dar vita ad una collabo-razione che facesse sentire il più possibile i ragazzi parte attiva dell’iniziativa; ciò è stato facilitato con la forma-zione di un gruppo di lavoro e la suddivisione dei ruoli, passaggi questi che hanno permesso di responsabilizzare ogni studente per il ruolo assunto nell’ambito del lavoro da svolgere.In particolare, si è deciso di nominare un coordinatore di gruppo responsabile dei contatti con l’Ibimet e delle comunicazioni relative ai lavori in corso (tramite fax e/o posta elettronica) compresi i verbali di ogni singolo in-contro (in classe o in sede di visita aziendale).Una scheda con le fasi di ricerca è stata redatta e con-segnata agli studenti. Per ognuna di queste, oltre al nome del responsabile delle attività si potevano anno-tare appunti sullo stato dell’arte delle attività in corso. La scheda aveva la funzione di agevolare la gestione del-le interviste (ruolo dell’intervistatore, del fotografo o del segretario) durante le visite aziendali e/o eventuali incontri con esperti ed evitare, così, la sovrapposizione di ruoli.I ragazzi dell’ITC hanno iniziato il lavoro svolgendo,una ricerca bibliografica sul tessile casentinese (in particolare

Organizzazione delle attività

Al fine di illustrare quanto sia stato importante per il progetto il forte coinvolgimento dei ragazzi nel lavoro, si riporta in dettaglio lo schema di organizzazione delle attività:

✒ storia del prodotto e delle tradizioni legate ai pro-cessi produttivi e all’economia del territorio;

✒ elaborazione di una traccia di intervista da sotto-porre ad un imprenditore del settore;

✒ visita della classe IVB ITC a due lanifici del Casenti-no ed interviste realizzate dai ragazzi;

✒ visita della classe III ISA ad un lanificio del Casen-tino;

✒ visita della classe IVB ITC all’ISA per prova colora-zione guado;

✒ indagine telefonica della IVB ITC;✒ realizzazione e raccolta di materiale iconografico;✒ analisi economica: distribuzione e commercializza-

zione, promozione e comunicazione del panno del Casentino;

✒ punti di forza e di debolezza della produzione, della promozione e della commercializzazione;

✒ proposte innovazione del prodotto panno del Ca-sentino;

✒ proposte e idee per comunicare e valorizzare il prodotto nel territorio;

✒ proposte e idee per comunicare il prodotto al di fuori del territorio.

3. Torrente

Dalla scuola al territorio. La storia di un’esperienza didattica

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sul panno casentino) e sulle principali tappe della storia dello storico lanificio di Stia.Col supporto di questo materiale, è stato poi progettato e realizzato dai ragazzi un questionario da sottoporre ai titolari delle aziende da intervistare.Le interviste sono state realizzate con l’obiettivo di analizzare ancora più a fondo la domanda, l’offerta del prodotto ed i canali di comunicazione e commercializ-zazione, nonché gli aspetti che riguardano le prospettive dell’imprenditore.

Il percorso dei ragazzi della IVBLa realtà storica ed economica del tessile in Casentino

Lo sviluppo dell’Arte della lana in Casentino fu favo-rito dalle caratteristiche naturali e ambientali della vallata come: l’abbondanza di acque che, oltre a facili-tare alcune fasi della lavorazione (lavaggio, purgatura, tintura), rappresentava una preziosa fonte di energia per alimentare le macchine tessili (gualchiere in pri-mo luogo); la facilità di approvvigionamento del legname usato come combustibile nelle fasi di tintura e per la preparazione di alcune sostanze come il “ranno” usa-to per la “purgatura” della lana; la presenza di numerose greggi che offrivano una notevole quantità di lana che, se pur ordinaria e scadente, era reperibile in loco a prezzi modici.Già le popolazioni etrusche, come testimoniano alcuni documenti, si dedicavano alla pastorizia attraverso la pra-tica della transumanza. Il periodo romano, invece, è do-cumentato dal ritrovamento di alcuni reperti quali pesi in cotto appartenenti ad un telaio verticale, girelli per fusi e forbici usate molto probabilmente per la tosatura delle pecore.Nel Medioevo la tecnica dell’intreccio e della tessitura ricevette un particolare impulso grazie anche alle co-munità di religiosi che fin dai primi anni dell’XI secolo popolarono le montagne casentinesi.

Dal XIV secolo in poi la lavorazione della lana rappresen-tò in Casentino una delle attività primarie a giudicare dai documenti pervenutici e dal progressivo interesse mo-strato dalla potente corporazione dell’Arte della Lana di Firenze per i produttori locali.Le prime forme organizzate di produzione risalgono al XVI secolo, allorquando si trovano citati nei documenti concentrazioni di «purghi, gualchiere, macini per le galle e tinte», cioè di attrezzature e maestranze in grado di gestire l’intero ciclo lavorativo.Nel XIX secolo si assiste ad un notevole sviluppo del settore tanto da diventare attività primaria per alcune località della valle. I lanifici di Stia e Soci, ad esempio, rappresentarono importanti occasioni di sviluppo eco-nomico e sociale. Proprio in questo periodo fu messo a punto il “tessuto casentino” divenuto, in seguito, l’emblema stesso della produzione tessile casentinese.Una data importantissima nello sviluppo di Stia è senza dubbio rappresentata dal 1840, anno in cui il paese iniziò una grandissima fase di sviluppo dovuta alla lavorazione della lana. Tale lavorazione portò il comune ad essere centro pro-duttivo del settore, in particolare grazie al famoso e co-loratissimo “panno casentino”, garantendo così benesse-re, e soprattutto un futuro ai suoi abitanti. Agli inizi del Novecento il lanificio di Stia già vantava quasi 500 tra operai ed impiegati.Nel 1956 anno in cui i Lombard vendettero l’azienda ai pratesi, si contavano 375 operai oltre a tutto l’indotto esterno formato da persone che eseguivano a casa gran parte delle fasi di lavorazione.Nella Tabella 1 sono riportate le variazioni dal 1961 al 2001 del numero delle industrie tessili e del numero di addetti a Stia.

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Tabella 1. Andamento dell’industria tessile a Stia (1961-2001). Dati ISTAT

STIA 1961 ImpreseUnità localiTotale Con forza motriceN Addetti N potenza utilizzabile HP

Industrie della lana 38 42 172 39 383

Industrie delle fibre dure e tessili varie 5 5 23

Industrie del vestiario e dell’abbigliamento 17 14 25

STIA 1971 ImpreseUnità localiTotale Di cui artigiane UL Addetti UL Addetti

Industrie tessili 54 54 191 52 107

STIA 1981 ImpreseUnità localiTotale Di cui artigiane UL Addetti UL Addetti

Industrie tessili 26 29 126 22 34

STIA 1991

Industrie tessili UL Addetti

10 37

STIA 2001

Industrie tessili UL Addetti

3 9

Negli anni Novanta in Casentino, nonostante un sostan-ziale calo nel numero degli addetti (e ciò in presenza di una situazione italiana generalizzata di crisi con evidenti indicazioni di declino del settore) il tessile è riuscito a conservare una posizione preminente.Ciò è stato favorito anche dalla continuazione del pro-cesso di ristrutturazione del settore che ha visto attiva-re strategie di innovazione tecnologica e modernizza-zione della produzione, in primis, nell’impresa di maggior rilievo, la cooperativa tessile di Soci fondata nel 1848 da Giuseppe Bocci.

Oggi il tessuto casentino continua ad essere prodotto, anche se in quantità ridotta, in alcune fabbriche casen-tinesi di Soci e di Stia. Ai tradizionali cappotti con colli di volpe si sono aggiunti altri capi di abbigliamento e accessori realizzati con questo tessuto.Parallelamente a questo tipo di produzione evolutasi, con il tempo, in una dimensione industriale, si è mante-nuta anche un’attività tessile caratterizzata da modalità di produzione prettamente artigianali tipiche del perio-do pre-industriale. Questa realtà rappresenta oggi un settore economicamente marginale (praticato per lo

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più da donne anziane) anche se di notevole interesse in termini di conservazione di tecniche tradizionali ormai in via di estinzione. I procedimenti lavorativi e gli strumenti utilizzati sono quelli tradizionali: telai orizzontali in legno (spesso ri-salenti in alcune parti ai secoli XVIII-XIX), orditoi, spo-lettatrici, cannelli, navette, arcolai. La materia prima è costituita per lo più da filati di lana pregiata lavorati industrialmente (tranne rarissimi casi in cui viene for-nita direttamente dal committente lana locale filata a mano).Le tipologie di manufatti ed i relativi motivi decora-tivi tradizionali si sono per lo più progressivamente persi, o modificati, sotto la pressione delle richieste di mercato che, se pur non in maniera prepotente, hanno tuttavia condizionato anche questo tipo di produzione.Interessanti sono le tendenze verso forme di artigianato artistico sempre più specializzate, in grado di interessare anche le nuove generazioni formate presso istituti arti-stici.Importanti sono le rassegne sul settore come “Sul Filo della Lana” organizzata nel 1996 e nel 1998 dal comune di Stia con esposizioni, mostre ed iniziative culturali e commerciali dedicate a questo settore.

La prova di colorazione a Sansepolcro

Alla prova di colorazione del tessuto con l’indaco realiz-zata dai docenti e dagli studenti della classe III Moda e Restauro del tessuto e del ricamo dell’Istituto d’arte di San Sepolcro hanno assistito i ragazzi e la docente della IVB dell’ITC di Poppi ed il signor Claudio Grisolini del-l’azienda di Stia che ha gentilmente offerto il tessuto.La prova di tintura è stata fatta utilizzando delle pezze di tessuto grezzo.Le pezze sono state ridotte alle dimensioni ottimali per la colorazione.I composti utilizzati per la colorazione sono:

✓ Idrosolfito;✓ Soda caustica;✓ Cristalli di guado.

I tre composti sono stati accuratamente pesati e mesco-lati insieme per ottenere un’unica miscela.L’indaco in polvere viene impastato con poca acqua, di-luito con una soluzione di soda caustica e fatto reagire riscaldando leggermente con una soluzione acquosa di idrosolfito di sodio, finché da azzurro scuro diventa gial-lastro.

4-6. Preparazione del panno casentino per la tintura col guado

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Ottenuto il bagno di tintura si possono immergere i tes-suti da tingere. Il tempo di immersione è di circa 20 minutiIl processo di ossidazione si ha con l’esposizione all’aria del tessuto che da verde diventa blu.

I risultati della colorazione

Alla prima prova di tintura (primo bagno), il tessuto si presenta alquanto debole quasi che durante l’immer-sione si sia cotto eccessivamente procurando così un indebolimento così forte del filato da renderlo quasi

una fibra in decomposizione. Il problema deve essere probabilmente attribuito all’impiego troppo marcato di sostanze solventi che ha così danneggiato la resistenza e l’elasticità del filato. Anche il colore blu risulta troppo scuro rispetto al normale colore.La seconda prova di tintura (secondo bagno), invece, è ri-sultata più idonea: la fibra non è stata aggredita e ha man-tenuto le sue caratteristiche di resistenza ed elasticità.Il colore risulta molto bello, e brillante. Con la terza prova di tintura (terzo bagno), il blu risulta molto attenuato e la stoffa non presenta nessun danno sia a livello di resi-stenza che di elasticità.

7-9. Preparazione del bagno di tintura

10-12. Immersione nel bagno di tintura

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I risultati di questa prima esperienza di colorazione del panno casentino col guado della Valtiberina sono molto incoraggianti.

È necessario, però, che siano realizzate altre prove e sia-no studiati altri metodi che riescano a fissare il colore in maniera definitiva.

14-15. Tessuto casentino rifinito

13. Pezze di tessuto casentino tinte con due diversi bagni, dopo la fase di ossidazione

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I prodotti

Con il panno tinto con il guado gli studenti del-l’Istituto d’Arte “G. Giovagnoli” di Sansepolcro hanno progettato e realizzato alcune creazioni (Figg. 16-18).

Riflessioni

Una sintesi delle informazioni ricavate dalle in-terviste a due aziende del Casentino produttrici di panno casentino permettono di definire un quadro generale, seppur non completo e detta-gliato, delle reali potenzialità di sviluppo di questo tessuto.

16-18. Manufatti di tessuto casentino realizzati dagli studenti dell’Istituto Statale d’Arte “G. Giovagnoli” di Sansepolcro

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Risulta che il colore più venduto sia l’arancio e che non vengano usate tinte naturali, anche se è stata espressa l’intenzione di usarle in futuro.Le numerose ed articolate fasi di produzione del panno che seguono fedelmente la tradizione, fanno sì che i costi del prodotto finito siano abbastanza elevati e tali da venire incontro alla domanda di una clientela appar-tenente ad una fascia medio-alta. Il prodotto, dunque, è definibile come un prodotto di nicchia destinato ad un mercato particolare che guarda alla qualità ed alla tradizione.

A questo proposito, si è indagato sulla possibilità di ri-volgersi ad un’ulteriore nicchia di mercato attento a tessuti ed indumenti anallergici ed è stato affermato dagli imprenditori intervistati di non aver mai consi-derato tale possibilità. Sperimentare una tinta naturale, dunque, andrebbe incontro anche alla possibilità di sod-disfare le richieste di un mercato attento al benessere della persona.Infatti, il panno casentino, stoffa calda, di pura lana, soffice e vaporosa famosa per i suoi riccioli che formano un doppio strato e permettono al tessuto un perfetto isola-

19. Abiti realizzati con tessuto casentino nei colori tipici

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mento termico ed una efficiente impermeabilità (mante-nendo però al tempo stesso la traspirazione della pelle), ha tutte le carte in regola per poter attrarre l’attenzione di una fascia di potenziali clienti per i quali la funzionalità dei tessuti, legata alle esigenze del benessere della perso-na, può diventare una scelta prioritaria di acquisto.Per quanto riguarda la pubblicità dei prodotti, questa avviene per passaparola, ma altri canali usati sono quo-tidiani, riviste e guide. La vendita di tessuti e confezioni (soprattutto la vendita diretta) è attuata anche presso mostre di settore e manifestazioni.Le due imprese intervistate puntano all’innovazione a livello di produzione, amministrazione ed immagine del prodotto.Per quanto riguarda la vendita, nel caso di una delle due ditte, l’80% avviene a Stia ed il 20% presso negozi o su internet.

Questa alta percentuale di vendita in loco induce a riflet-tere (nel caso della ditta in questione) sul significato di “territorio” come valore aggiunto. Che la gran parte del-la vendita venga mantenuta in loco è, di fatto, un fattore importante per non allontanare il prodotto dal suo ter-ritorio di origine e non renderlo estraneo al “tessuto” sociale e culturale in cui nasce. Ciò è tanto più impor-tante nella misura in cui si considera che ciò potrebbe concorrere alla perdita dell’identità locale.Peraltro, questa azienda manifesta una forte dedizione alla cura degli aspetti storico-culturali e ambientali del territorio: questi costituiscono, infatti, l’identità del pro-dotto e ne definiscono anche la forza di un’immagine determinante nella fase di vendita.Le particolari attività di recupero e studio di materiale storico sull’impianto industriale del lanificio, raccolto ed allestito in un museo privato creato presso alcuni locali della ditta, costituisce, indubbiamente, un punto di forza ed un valore aggiunto sia al prodotto che al territorio, tanto che il museo verrà a far parte della rete territo-riale del progetto Ecomuseo coordinato dalla Comunità Montana del Casentino.Allo stesso modo, è da evidenziare il legame della strut-tura aziendale con gli elementi della natura che la circon-da. Ne è un esempio la presenza dell’acqua del torrente Staggia sfruttata come potenza idraulica e utilizzata nella lavorazione del tessuto. Dunque, la felice collocazione “storica” e geografica dell’edificio dovrebbe essere uti-lizzata nel migliore dei modi per creare una cornice che renda le condizioni di vendita al pubblico ancora più gra-devoli e attraenti.

Le possibilità future del prodotto

Tingere il panno con un blu “antico” le cui nuance possa-no illuminare e impreziosire il tessuto casentino, sembra suscitare una notevole curiosità ed interesse nel pubbli-co e negli imprenditori.Ne è stata prova la realizzazione di alcuni manufatti e pezze tinte col guado esposti alla mostra dell’artigiana-

20. Panno casentino tinto col guado

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21. Tailleur realizzato con tessuto casentino tinto col guado

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to che si è tenuta alla Fortezza da Basso (22 aprile-1° maggio 2005), all’evento “Amicomuseo” tenutosi a Stia lo scorso 30 aprile e alla mostra dei lavori realizzati dai ragazzi il 21 maggio 2005 all’ITC “L. Einaudi” di Poppi.La tendenza che si sta attualmente manifestando nei confronti di un recupero di forme di artigianato artistico, rende interessante porre l’accento anche sul recupero e la salvaguardia di tutte quelle forme di sapere artigianale che, economicamente marginali, sono tuttavia presenti nei territori del Casentino e della Valtiberina Toscana. Infatti, come precedentemente rilevato, in Casentino si sono andate perdendo nel tempo o si sono modificate le tipologie di manufatti ed i relativi motivi decorativi tradizionali.Si potrebbe parlare di fare di tale recupero, insieme alla proposta di un “panno blu”, un’opera di innovazione.Proseguire la sperimentazione di tintura del guado si ri-

velerebbe interessante, dunque, per gli sviluppi futuri di una linea naturale e alternativa di prodotti realizzati con il panno casentino.Riteniamo importante, a questo riguardo, la disponibilità degli imprenditori dei territori a partecipare alla con-tinuazione di queste prove di tintura che, ovviamente, devono essere ripetute, ampliate e migliorate.Riteniamo, altresì, decisivo il ruolo degli enti locali nel mantenere vivo il territorio attraverso la promozione di tutte quelle iniziative che incoraggino e sostengano la conoscenza tra le popolazioni di prodotti tradiziona-li (è sorprendente, a questo proposito, come risulta da alcune delle interviste telefoniche realizzate dai ragazzi dell’ITC, che persino alcune persone del Casentino non conoscano il tessuto casentino).Indispensabile è, dunque, il sostegno degli stessi enti a tutte le iniziative di educazione e didattica nelle scuo-le e alla salvaguardia di quelle reti sociali attraverso le

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22. Poster “Il panno blu”

23. Poster “Il panno casentino”

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quali comunicare e promuovere il valore della cultura del territorio e far sì che le popolazioni locali, oltre a conoscerne la storia, lo percepiscano come proprio e ne facciano strumento di identità.Riteniamo essenziale per lo sviluppo ed il successo di questa iniziativa l’unione delle forze tra realtà produtti-ve e politiche delle due comunità montane, e la ricerca di strumenti atti a sollecitare e sostenere anche tutte quel-le operazioni culturali per la salvaguardia di un’economia “innovativamente” tradizionale.

Un evento espositivo a conclusione dei lavori

Il lavoro svolto dagli studenti è stato presentato duran-te l’evento che ha avuto luogo il 21 maggio 2005 pres-so l’Istituto Tecnico Commerciale “L. Einaudi” a Poppi, nell’ambito dell’iniziativa “Conoscere&Comunicare il territorio” nella quale sono stati illustrati vari lavori sui mestieri ed i prodotti del territorio.Due poster sono stati dedicati al lavoro sul panno e alla prova di colorazione col guado.

Tale occasione che ha visti riuniti insegnanti delle scuo-le, studenti, famiglie e rappresentanti degli enti locali, ha reso evidente la necessità di proseguire questa opera di conoscenza con la quale i giovani, attivamente coinvolti, si sentono parte integrante della vita del territorio e del-le iniziative in esso promosse.Non è automatico pensare o prevedere che il suc-cesso di questa attività orienti i ragazzi al termine del loro percorso scolastico, verso quelle forme di oc-cupazione che riguardano così da vicino un ambiente rurale.Crediamo, tuttavia, in maniera molto semplice, che que-sta esperienza breve ma ricca di riflessi significativi per il Casentino e la Valtiberina Toscana, abbia accompagnato un gruppo di ragazzi in un percorso di acquisizione di sapere e di consapevolezza della realtà storica ed econo-mica della loro terra tale che essi possono, al termine di questo lavoro, vedere, toccare, assaporare, criticare con un senso di partecipazione e di attenzione diverso da quell’atteggiamento di dubbio ed incertezza mostrato all’inizio del lavoro.

24. Esposizione dei poster e dei lavori realizzati dagli studenti dell’Istituto Tecnico per il Commercio “L. Einaudi” di Poppi e dell’Istituto Statale d’Arte “G. Giovagnoli” di Sansepolcro, Poppi 21 maggio 2005

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Confortati, dunque, dall’interesse che i docenti e gli stu-denti hanno mostrato nei confronti di questa iniziativa, auspichiamo sinceramente, insieme al loro sostegno e a quello degli enti preposti, il proseguimento di questo genere di attività che concorrono a costruire un humus

fertile alla creazione di quei presupposti culturali che, orientando verso nuove forme di occupazione, rendano vivi i territori rurali.

Francesca Camilli e Chiara ScretiCNR - Ibimet

Hanno partecipato al progetto:La classe IVB, Istituto Tecnico Commerciale “L. Einaudi” di PoppiGianni Alunno, Daniele Beoni, Nicola Francioni, Sara Goretti, Elisa Guerrini, Antonella Maringolo, Andrea Orlandi, Antonella Palombi, Valentina Pecorini, Veronica Renzetti, Francesco Ristori, Sara Rossi, Serena Seppi, Kabir Tasnova, Alessandro TocchiLa classe III Arte e Restauro del Tessuto del Ricamo, Istituto Statale d’Arte “G. Giovagnoli” di SansepolcroFederico Barna, Marta Bini, Sara Cesari, Silvia Duchi, Flavia Flavi, Veronica Minisgallo, Giulia Risaliti, Cecilia Rometti, Cristina Savini, Ninya Viviane Schurmman, Ila-ria Urci

Si ringraziano:I prof. Domenico Massaro, Brunella Matarrese, Paolo Sisti, Luciana Ferri, Serena Batisti e Sandra Dragoni del-

l’Istituto Tecnico Commerciale “L. Einaudi”; Cinzia Ber-gamaschi e Maria Antonietta Falco del Liceo Scientifico “G. Galilei” di Poppi.I prof. Benito Carletti, Maria Inferrera, Andreina Cri-spoltoni, Giorgio Cestelli, Miriam Ricci dell’Istituto Sta-tale d’Arte “G. Giovagnoli” di Sansepolcro.Andrea Rossi CRED, Comunità Montana CasentinoCarlo Ligi, Comunità Montana Valtiberina ToscanaMaria Luisa Maffucci, Comunità Montana Valtiberina To-scanaGabriele e Claudio GrisoliniMassimo Savelli e Paolo UgoliniLe prove di tintura sono state realizzate con tessuto gentilmente offerto dalla ditta Tessilnova di Stia.Un ringraziamento particolare a Luciano Massetti per la realizzazione delle foto del panno blu pubblicate in questo capitolo.

Bibliografia

F. NICCOLINI, Sviluppo dell’attività laniera a Soci”, edizione Frusta, s.l., 1995P.L. DELLA BORDELLA, L’arte della lana in Casentino. Storia dei lanifici, Grafiche Calosci, Cortona, 1996A. ROSSI-COMUNITÀ MONTANA DEL CASENTINO-SERVIZIO CRED-PROGETTO ECOMUSEO DEL CASENTINO, Cenni storici, luoghi e testimonianze intorno alla lavorazione della lana in Casentino, Comunità Montana del Casentino, Poppi, 2001

G. GRISOLINI, La Nascita e lo Sviluppo della Tessilnova, s.e., Stia, 2002Lanificio di Soci e partecipazione femminile: le donne raccontano, a cura di L. CIPRIANI, Comune di Bibbiena, Bibbiena, 2004www.coopfirenze.it/info/art_364.htmwww.comune.stia.ar.it/turismo/musei/lana/lana2.asp http://www.tessilnova.com/e_commerce/index.jsphttp://brunelleschi.imss.fi.it/ist/luogo/lanificioricci.html

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Finito di stampare in Italia nel mese di dicembre 2005da Tipografia La Marina - Calenzano (Firenze)

per conto di EDIFIR-Edizioni Firenze

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