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Rassegna bibliografica Il mito della ‘capitale morale’ tra politica e letteratura di Massimo Legnani Tra gli esiti più positivi della recente storio- grafia sullTtalia contemporanea va certo an- noverato il progressivo articolarsi ed arric- chirsi delle ricerche sulle culture della indu- strializzazione /modernizzazione. Gli stessi termini di industrializzazione e modernizza- zione, frequentemente confinati in un limbo di misurazione puramente quantitative o ap- piattiti su troppo elementari semplificazioni sociologiche, tendono ad assumere una più duttile capacità di concettualizzazione. In estrema sintesi, si può dire che ad un ciclo di studi spesso contraddistinto dalla denuncia delle ‘assenze’ (ovvero dei ‘vuoti’ che rendo- no la vicenda italiana radicalmente diversa dall’inglese o dalla francese o dalla tedesca) sembra subentrare una fase di studi più im- pegnata a individuare le ‘presenze’, il deli- nearsi dei concreti caratteri nazionali, a valu- tarli nella loro genesi interna non meno che attraverso i necessari raffronti con il quadro europeo. Così è per il tema, di rilievo centra- le, della cultura industrialista nelle sue varie latitudini — e si pensi, tra gli altri, ai contri- buti di Lanaro e Castronovo —, così per l’analisi degli impatti ideologici provocati dal profilarsi dell’urbanesimo e della società di massa. In quest’ultimo caso il riferimento va anzitutto alla storia letteraria intesa nella accezione più larga, quale emerge, ad esem- pio, dagli apporti di Asor Rosa, Madrignani, Portinari, Spinazzola. Il saggio di Giovanna Rosa, Il mito della capitale morale. Letteratura e pubblicistica a Milano fra Otto e Novecento (Milano, Co- munità, 1982, pp. 320, lire 18.000) si inseri- sce appieno nella storiografia degli intellet- tuali portandovi i risultati di una ricerca si- stematica e largamente originale. L’invito, tante volte ripetuto, ad una ricostruzione della realtà postunitaria (culturale non meno che sociale e politica) da condurre attraverso la molteplicità e distinzione degli osservatori regionali, trova nel discorso su Milano un campo di verifica particolarmente esempla- re. Il dato strutturale è indiscutibile. Se per altre parti del nuovo regno il ‘localismo’ ri- veste segni prevalentemente conservativi, Milano vive invece il proprio ruolo di metro- poli incipiente come travagliata — e spesso, 10 vedremo, contraddittoria — conciliazione tra particolarismo geloso e rivendicazione ostentata di una funzione guida nel contesto nazionale. Come ha osservato Spinazzola, “l’unico mito ideologico serio, non retorica- mente fittizio, elaborato dalla borghesia ita- liana dopo l’Unità è stato il mito di Milano, 11mito della capitale morale" (V. Spinazzola, La “capitale morale”. Cultura milanese e mi- tologia urbana, in “Belfagor”, 1981, fase. 3, pp. 317-327). L’indagine di Giovanna Rosa è propriamente dedicata ad investigare le com- ponenti e le oscillazioni di questo mito se- gnandone il dipanarsi sul filo del concorso che alla sua propagazione/contestazione dettero alcune figure intellettuali: narratori, polemisti, giornalisti. È anzi indispensabile, per comprendere l’architettura del libro, te- Italia contemporanea”, marzo 1984, fase. 154

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Rassegna bibliografica

Il mito della ‘capitale morale’ tra politica e letteratura

di Massimo Legnani

Tra gli esiti più positivi della recente storio­grafia sullTtalia contemporanea va certo an­noverato il progressivo articolarsi ed arric­chirsi delle ricerche sulle culture della indu­strializzazione /modernizzazione. Gli stessi termini di industrializzazione e modernizza­zione, frequentemente confinati in un limbo di misurazione puramente quantitative o ap­piattiti su troppo elementari semplificazioni sociologiche, tendono ad assumere una più duttile capacità di concettualizzazione. In estrema sintesi, si può dire che ad un ciclo di studi spesso contraddistinto dalla denuncia delle ‘assenze’ (ovvero dei ‘vuoti’ che rendo­no la vicenda italiana radicalmente diversa dall’inglese o dalla francese o dalla tedesca) sembra subentrare una fase di studi più im­pegnata a individuare le ‘presenze’, il deli­nearsi dei concreti caratteri nazionali, a valu­tarli nella loro genesi interna non meno che attraverso i necessari raffronti con il quadro europeo. Così è per il tema, di rilievo centra­le, della cultura industrialista nelle sue varie latitudini — e si pensi, tra gli altri, ai contri­buti di Lanaro e Castronovo —, così per l’analisi degli impatti ideologici provocati dal profilarsi dell’urbanesimo e della società di massa. In quest’ultimo caso il riferimento va anzitutto alla storia letteraria intesa nella accezione più larga, quale emerge, ad esem­pio, dagli apporti di Asor Rosa, Madrignani, Portinari, Spinazzola.

Il saggio di Giovanna Rosa, Il mito della capitale morale. Letteratura e pubblicistica a

Milano fra Otto e Novecento (Milano, Co­munità, 1982, pp. 320, lire 18.000) si inseri­sce appieno nella storiografia degli intellet­tuali portandovi i risultati di una ricerca si­stematica e largamente originale. L’invito, tante volte ripetuto, ad una ricostruzione della realtà postunitaria (culturale non meno che sociale e politica) da condurre attraverso la molteplicità e distinzione degli osservatori regionali, trova nel discorso su Milano un campo di verifica particolarmente esempla­re. Il dato strutturale è indiscutibile. Se per altre parti del nuovo regno il ‘localismo’ ri­veste segni prevalentemente conservativi, Milano vive invece il proprio ruolo di metro­poli incipiente come travagliata — e spesso,10 vedremo, contraddittoria — conciliazione tra particolarismo geloso e rivendicazione ostentata di una funzione guida nel contesto nazionale. Come ha osservato Spinazzola, “l’unico mito ideologico serio, non retorica- mente fittizio, elaborato dalla borghesia ita­liana dopo l’Unità è stato il mito di Milano,11 mito della capitale morale" (V. Spinazzola, La “capitale morale”. Cultura milanese e mi­tologia urbana, in “Belfagor” , 1981, fase. 3, pp. 317-327). L’indagine di Giovanna Rosa è propriamente dedicata ad investigare le com­ponenti e le oscillazioni di questo mito se­gnandone il dipanarsi sul filo del concorso che alla sua propagazione/contestazione dettero alcune figure intellettuali: narratori, polemisti, giornalisti. È anzi indispensabile, per comprendere l’architettura del libro, te-

Italia contemporanea”, marzo 1984, fase. 154

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ner conto che esso prende forma dall’instau­razione di un nuovo rapporto tra il mondo letterario e l’universo cittadino così come si viene strutturando in base allo sviluppo eco­nomico; è la ricerca, da parte della nuova borghesia imprenditoriale, di intellettuali professionali, organici al proprio disegno, a scandire i tempi di nascita di una ‘industria culturale’ ignota alle altre parti del paese o presente con modulazioni profondamente di­verse nelle riviste della Roma ‘bizantina’. Rosa è estremamente puntuale nel rilevare le gradazioni e i risvolti di questo processo, che ha peraltro radici robuste nell’allargarsi del mercato editoriale nei decenni precedenti l’unificazione e nella incidenza che sul feno­meno esercita la concezione del rapporto con i lettori proprio della cultura romantica lom­barda.

I numerosi nodi problematici attraverso cui si sviluppa la ricerca sono riconducibili a due nuclei principali: il primo è rappresenta­to dai modi e dall’intensità di presenza degli intellettuali nella ‘autocelebrazione’ di cui Milano si rende protagonista nel momento del decollo industriale; il secondo dalla costruzione/eversione del ‘mito ambrosia­no’ lungo l’arco di tempo che da Cattaneo e Jacini attraverso la pubblicistica e letteratura del positivismo conduce sino al Novecento di Carlo Emilio Gadda. Va da sé che i due nu­clei non costituiscono campi alternativi ma fortemente comunicanti. Spesso, a dimostra­zione di quanto incida l’organizzazione im­prenditoriale della produzione culturale, è la sede in cui il lavoro intellettuale si esprime più che non la presenza, nel singolo autore, di una visione ideologica complessiva, a de­terminare la specificità di alcune posizioni. È assai significativo, infatti, che la fonte da cui il saggio prende avvio sia costituita dalle pubblicazioni che accompagnano l’Esposi­zione nazionale del 1881, vero e proprio ma­nifesto della ‘capitale morale’ (e su cui ha re­centemente richiamato l’attenzione Enrico Deeleva, L ’Esposizione del 1881 e le origini

del mito di Milano, in Aa.Vv. Dallo Stato di Milano alla Lombardia contemporanea, I, Milano, Cisalpino - La Goliardica, 1980). “Chiamati, forse per la prima volta dopo l’Unità — scrive Rosa — e collaborare fatti­vamente ad un avvenimento di rilievo nazio­nale, i ceti intellettuali vi partecipano con im­pegno. Alla ricerca di una nuova identità professionale, le forze della cultura, sia uma­nistica che scientifica, colgono in quest’occa­sione l’opportunità di un inserimento organi­co nell’odiosamata società borghese” (p. 45); “ogni autore si fa cronista della propria espe­rienza, riconoscendosi nelle parole d’ordine dei ceti borghesi, precisione concretezza buon senso” (p. 47). Letterati e pubblicisti sembrano inserirsi nei due filoni complemen­tari che definiscono l’ottica della ‘capitale morale’: da un lato la valorizzazione del “presente positivo [che] cancella la contrad­dizione della storia” (p. 48), dall’altro la “rappresentazione lineare del microcosmo cittadino [che] faceva emergere, in tutto il suo spessore di modernità, il primato della società civile [...]. La metropoli economica si definiva spazio della cultura borghese, in quanto esaltava l’autonomia delle forze pro­duttive nella contrapposizione esplicita alla sfera statuale dell’agire politico” (pp. 48-49). Ma questa vocazione — anticipiamo la con­clusione centrale della ricerca — non si tra­duce in progetto; il mito, appunto, si conso­lida e ramifica ripiegando su se stesso. La pubblicistica, e soprattutto quella letteraria, coltivano, al di là dell’adesione descrittiva al­le immagini della modernità, motivi di persi­stente rifiuto. La città degli affari e delle in­dustrie che sta nascendo, resta esterna al loro orizzonte di letterati. “Occorrerà aspettare l’inizio del nuovo secolo — osserva Rosa — perché i letterati ambrosiani si impegnino a rappresentare lo scenario metropolitano” (p. 28). Il mondo intellettuale e professionale le­gato alle nuove forme di produzione ha per sé una spinta che, mentre si manifesta prepo­tentemente negli svolgimenti economici, si

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arena dinanzi ai problemi che la candidatura alla supremazia nazionale implica. Citiamo ancora: “l’ancoraggio alPempirismo pratico e l’esaltazione ingenua dell’ideologia effi- cientistica, se costituiscono la forza dell’etica del lavoro elaborata dai primi ceti imprendi­toriali, ne testimoniano anche i limiti pro­fondi. La riluttanza a prefigurare un proget­to di sviluppo economico che rompesse con le lentezze del passato, si intreccia indissolu­bilmente con l’incapacità di affrontare i nodi drammatici della vita sociale e politica. Sarà proprio l’angustia strategica delle sue élites dirigenti ad impedire alla capitale morale di farsi carico dei problemi della nazione, ri­nunciando così a svolgere un effettivo ruolo egemone” (p. 118).

Entrambe le valutazioni — la sostanziale se pur non sempre limpida presa di distanza dei letterati da ‘la città delle città’ e l’incapa­cità della dirigenza economica di proiettare nel cielo della grande politica la propria con­clamata autosufficienza — sono ribadite con forza dalle analisi di Giovanni Rosa. Il “pu­dore moralistico — leggiamo — [...] trattie­ne Milano dall’individuare i motivi autentici della sua supremazia nella ricchezza accumu­lata dalle forze produttive” , così che “la pro­posta di un ethos borghese non attinge la pie­nezza del laicismo moderno”. A sua volta, questa timidità si riverbera sulle potenzialità propulsive del mito: “l’apprensione timorosa per un dinamismo troppo brusco induce an­che gli intellettuali più avvertiti a ricadere in formule di pensiero precapitalistico” (p. 197). Il centro su cui gravita la duplice ‘ri­nuncia’ è rappresentato dal rilievo pregiudi­ziale che assume l’esaltazione della dimensio­ne ‘municipale’, del buon governo cittadino come misura realizzata di integrazione tra tessuto sociale e modelli istituzionali. “Mila­no, contrapponendosi a Roma, rivendica contro il centralismo burocratico del potere statuale l’autosufficienza borghese della so­cietà civile” (p. 152): da ciò scaturiscono sia il “rifiuto dei lombardi ad accettare la com­

plessa articolazione dello Stato Unitario” (p. 156), sia l’avversione alla politica in quanto tale, vista come un “nucleo pericoloso inseri­to fra le dimensioni dell’efficienza economi­ca e quella della corretta prassi amministrati­va” (p. 157).

Con simmetrico parallelismo, si direbbe, la chiusura verso l’esterno coincide con la chiusura all’interno, l’interpretazione paras- sitaria della capitale combacia con la visione di una società locale che il progresso econo­mico deve consolidare e non lacerare, dimo­strando il valore aggregante dell’ideologia interclassista. Di tale ideologia Rosa, sulla scorta del materiale esaminato, pone in luce soprattutto le valenze complementari fornite dal raggio d’azione degli organi del governo locale e del moltiplicarsi delle iniziative in campo assistenziale. Si intende che gli uni e le altre acquistano il loro pieno significato se messe in rapporto con un tessuto cittadino che dà largo spazio alle classi medie, a una stratificazione che, almeno sino alla fine dell’Ottocento, si mostra in grado di neutra­lizzare le punte più acute del conflitto socia­le. Le pagine dedicate a questi aspetti da Gui­do Baglioni ne L ’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale (Torino, Ei­naudi, 1974, cap. VI), e particolarmente la ricostruzione della parabola de “Il Sole” dal prudente riformismo iniziale all’involuzione autoritaria nel periodo giolittiano, costitui­scono tuttora un sicuro punto di riferimento. Quanto, del resto, questo relativo equilibrio della struttura sociale influisca sull’orienta­mento della pubblicistica è dimostrato dal­l’analisi di opere che, com e Milano in ombra di Lodovico Coiro (di cui si veda ora la ri­stampa, con una ampia introduzione di Elvi­ra Cantarella, nella serie dei Quaderni della “Rivista milanese di economia”), riflettono compiutamente la medietas ideologica di quegli intellettuali che, pur sollecitando una più coraggiosa espansione delle istituzioni cittadine, si muovono in grande sintonia con gli orientamenti dei ceti dominanti. A Coiro,

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come per altro verso al ribellismo populistico di Paolo Valera e alla vena colorita e facile della letteratura sui bassifondi della tarda scapigliatura, Rosa dedica pagine sicure e puntuali. La sostanziale sterilità del mito del­la ‘capitale morale’ e la riluttanza estrema dei letterati a farsene interpreti acquistano, attraverso la registrazione di queste oscilla­zioni, un rilievo indiscutibile: “la mancanza di una riflessione progettuale sui modi dello sviluppo industriale si proietta sulla sfera dei processi ideologici, ribadendo la debolezza di una classe che si ritiene già soddisfatta di sé e rifiuta di considerare anche in sede lette­raria, le domande inquietanti poste dalla sua stessa ipotesi” (p. 283). Ancora nel 1953 una analogo giudizio sarà ribadito da Gadda (e non inganni la pacatezza tutta apparente del­la formulazione): “Vorrei che al senso pro­fondo della responsabilità e dell’autonomia economica, si accompagnasse un uguale ar­dore per ciò che è forma e stile della terrena vicenda” (Carlo Emilio Gadda, Il tempo e le opere, Milano, Adelphi, 1982, pp. 268).

Eppure gli approdi finali del saggio solle­vano alcuni quesiti che non investono tanto le conclusioni ampiamente riferite, quanto i modi in cui queste ultime possono essere re­cepite nell’ambito di un discorso che abbrac­ci la realtà italiana all’avvio del decollo indu­striale. I percorsi esplicativi proposti da Gio­vanni Rosa battono strade tutte interne al ‘mito ambrosiano’, muovono da quel pre­supposto di autosufficienza che è parte costi­tutiva essenziale del mito stesso e sua prima ragione di legittimazione; impongono, nella sostanza, una lettura largamente ‘autarchi­ca’ delle tematiche affrontate. La ‘capitale morale’ è scrutata nell’ottica della sua pro­clamata alterità rispetto alla capitale politica e al resto del paese e non anche come centro verso cui la vicenda nazionale trasmette im­pulsi che, in diversa misura, la realtà milane­se assorbe e neutralizza o ai quali soggiace. In altri termini, resta sullo sfondo il fatto che il ‘mito ambrosiano’ gioca sì le proprie sorti

in relazione alle capacità progettuali che sa esprimere dall’interno, ma anche in rapporto alle sollecitazioni che riceve dall’esterno, al suo essere un crocevia di fenomeni e di in­fluenze che lo rimodellano continuamente e che sono ben lontani dall’esaurirsi in quei fattori indigeni che i creatori del mito riten­gono — nella logica stessa della loro costru­zione — esclusivi. Esaminata sotto questo profilo, l’autoapologia della ‘capitale mora­le’ accentua quei caratteri di eterogeneità che la storia locale e nazionale dall’ultimo Otto­cento al fascismo si incaricherà di portare in piena luce.

La parabola del moderatismo lombardo, principale espressione politica dei ceti domi­nanti della ‘capitale morale’, offre più di un esempio in proposito. Giustamente Rosa ri­sale alla matrice illuminista (che “non indi­rizzava la speculazione politica verso le que­stioni astratte dell’individualismo e dello Stato” , ma “favoriva piuttosto l’analisi dei diritti e dei doveri del cittadino, colto nella concretezza dei suoi rapporti con la società civile”, p. 172 per sottolineare il filo di conti­nuità che lega questa ascendenza all’ideolo­gia borghese postunitaria; ma non meno stretto è l’intreccio del moderatismo con l’opinione cattolica. Dalla relativa simbiosi tra consorteria moderata e cattolici alla Ste­fano Jacini si passa, alla svolta del secolo, a un confronto complessivo tra ceto liberale e mondo cattolico che già registra un processo in atto di ricambio della classe dirigente o quantomeno della rappresentazione milanese e lombarda nelle sedi nazionali. Ma questo esaurirsi dei vecchi equilibri riflette, insieme con le modificazioni del quadro locale, i ri­mescolamenti in corso nella leadership na­zionale del liberalismo italiano — da Sonni- no a Giolitti a Salandra — in tema di rappor­ti con il paese ‘reale’ cattolico (su cui cfr. H. Ullrich, Il declino del liberalismo lombardo nell’età giolittiana, in “Archivio storico lom­bardo”, 1975 e, dello stesso, il più recente e complessivo L ’organizzazione politica dei li-

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berali italiani nel parlam ento e nel paese 1870-1914, in II liberalismo in Italia e in Germania dalla rivoluzione del ’48 alla p ri­m a guerra m ondiale, a cura di R. Lill e N. Matteucci, Bologna, Il Mulino, 1980). Una analoga osservazione di metodo è suggerita anche dalla questione dello Stato nazionale. Il ‘mito ambrosiano’, sottolinea Rosa, con­trappone alla nazione il particolarismo dello ‘Stato di Milano’ e con ciò abdica alla pre­tesa di egemonia di cui la ‘capitale morale’ si investirebbe. Si tratta certo di un dato in­negabile, ma è difficile riunire sotto un uni­co segno le diverse correnti che confluisco­no in quel ‘particolarismo’, a meno di so­vrapporre e confondere posizioni che vanno dalla strenua difesa del privatismo impren­ditoriale di un leader moderato come Giu­seppe Colombo all’autonomismo di origine cattaneana.

Si può osservare che simili notazioni dila­tano l’interpretazione del saggio ben oltre i suoi confini specifici; e però sarebbe arduo valutare i contenuti che letterati e pubblicisti trasfondono nei propri scritti prescindendo da riferimenti storici e sociologici quali quelli accennati, riferimenti che si infittiscono alla fine del secolo (come sottolinea, fra gli altri, Raffele Romanelli, L ’Italia liberale (1860- 1900), Bologna, Il Mulino, 1979) per Yeufo- ria ideologica che si accompagna al salire delle tensioni politiche e sociali. Le denunce, ad esempio, del parassitismo e della corrutte­la del mondo politico romano — parola d’ordine prediletta dalla pubblicistica della ‘capitale morale’ — possono difficilmente essere separate dalla voga del romanzo parla­mentare come momento significativo della scoperta ‘negativa’ della politica da parte dell’intellettualità italiana. Altrettanto si di­ca di romanzieri come De Marchi, nel quale, accanto a tematiche di più spiccata sensibili­

tà ‘municipale’ (dal rimpianto della ‘piccola patria’ al particolare pessimistico afflato cat­tolico, alla idealizzazione della ormai tra­montante armonia città-campagna) si inseri­sce — ed è elemento generalizzabile alle più diverse realtà urbane del regno — la proble­matica della integrazione della piccola bor­ghesia nelle gerarchie e nelle culture del nuo­vo regno. V’è poi (e Rosa la illustra lucida­mente soprattutto al capitolo 10) la più am­pia cerchia dei narratori che, già lo si è ricor­dato, dal ‘mito ambrosiano’ sostanzialmente rifuggono benché vi rendano omaggio attra­verso il loro coinvolgimento nell’industria culturale. La città non accende la fantasia creativa dei Verga e dei Capuana, che par­tendo dall’esperienza della cultura milanese muovono alla riscoperta del Sud; ma a essi si affiancano e subentrano scrittori i quali, all’analoga scelta di non rappresentare (con l’eccezione dei futuristi) la metropoli nei suoi aspetti più ‘pubblici’ intrecciano analisi il cui nesso critico, dall’interno, con la mitologia ambrosiana è chiaramente percepibile. Al di là dello sperimentalismo linguistico, e anche in forza di esso, la linea che dal Dossi delle N o te azzurre porta a Gadda è assimilabile a una discussione/corrosione del mito della ‘capitale morale’.

Quel che si vuol suggerire, in definitiva (al momento di acquisire la impegnativa siste­matizzazione realizzata dal saggio di Giovan­ni Rosa) è una ulteriore scomposizione del mito della ‘capitale morale’, così da evitare quelle rigide dicotomie tra modernità e ‘ar­caismi’ che ci riporterebbero ad una valuta­zione delle culture dell’industrialismo italia­no più per rilevazione di assenze che attra­verso le verifiche dei mutamenti che, anche sul terreno delle ideologie, si sono allora pro­dotti.

Massimo Legnani

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La Rive Gauche. Intellettuali e impegno politico

di Marcello Flores

Il mondo della cultura nel periodo tra le due guerre e l’impegno politico degli intellettuali negli anni trenta e quaranta, sembrerebbero argomenti abbondantemente studiati e ap­profonditi. In realtà le ricerche serie e docu­mentate su questi temi si contano sulle dita di una mano e la pubblicazione del volume di Herbert Lottman La Rive Gauche. Intellet­tuali e impegno politico (Milano, Comunità, 1983, pp. 485, lire 32.000) appare dunque tempestiva e destinata a colmare lacune e a sollecitare ulteriori indagini.

La Rive Gauche è un libro interessante e piacevole, scritto scorrevolmente e senza un pesante apparato documentario, pur basan­dosi prevalentemente su fonti assai preziose e significative: la sterminata memorialistica, contemporanea e successiva, che ha accom­pagnato le vicende culturali e letterarie che vengono ricostruite. Pur avendo ogni tanto utilizzato materiale archivistico, prevalente­mente documenti di case editrici e di riviste e carte dell’epoca del Fronte popolare relative all’attività nazionale e internazionale dei let­terati, l’opera di Lottman si pone esplicita­mente più come un tentativo di ricostruire uomini, ambienti, idee, che come interpreta­zione storica della ‘cultura’ del periodo esa­minato. E infatti i giudizi e le annotazioni critiche sono sì presenti, ma in modo conte­nuto e per quello che gli avvenimenti e le te­stimonianze permettono di azzardare.

Questo, che a volte è un limite, appiatten­do e sbiadendo in un continuum unico perso­

ne e fatti spesso di ben diversa rilevanza, si rivela spesso un pregio, permettendo ai pro­tagonisti di questa ricostruzione di parlare e mostrarsi senza il troppo pesante condizio­namento costituito dal punto di vista dell’au­tore. È evidente, comunque, che la posizione di Lottman non è né agnostica né neutrale. La stessa selezione e accostamento dei rac­conti, delle citazioni, dei momenti importan­ti e di quelli apparentemente trascurabili, è in realtà il modo in cui egli opera la sua rico­struzione della Francia letteraria ed artistica di circa un trentennio. Un modo forse trop­po ‘interno’, e quindi esclusivamente cultu­rale; ma proprio per questo attento anche a fenomeni ed esperienze minori, ad una rico­struzione globale che ha sì alcuni punti di os­servazione privilegiati, ma che tenta anche di non tralasciare il paesaggio circostante, l’ambiente, lo sfondo.

È proprio dall’ambiente e dal paesaggio, il paesaggio di Montparnasse e soprattutto di Saint-Germain-des Prés e l’ambiente del Café des Deux Magots, del Café de Flore e della Brasserie Lipp, che Lottman prende l’avvio per la sua benevola ricostruzione dell’amata e ammirata ‘rive gauche’; una ri- costruzione che, pur con qualche accenno agli anni venti, si sofferma particolarmente sugli anni trenta, sul periodo della guerra e dell’occupazione tedesca, sui primissimi an­ni del dopoguerra.

Il primo rilevante indizio di differenziazio­ni tra gli anni trenta e il decennio preceden-

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te, la novità più cospicua dell’atteggiamento ‘pubblico’ degli intellettuali, è individuato da Lottman nella internazionalizzazione del­l’impegno politico di scrittori ed artisti. In Francia gli antesignani dell’impegno politi­co, i Victor Hugo e gli Emile Zola, avevano contestato i propri governi e la propria classe dirigente; e ugualmente verso problemi ‘in­terni’ — sia pur enormi come la miseria e l’ingiustizia del dopoguerra — erano rivolte le impegnate denunce di molti scrittori degli anni venti. Ma adesso le cose erano mutate e gli intellettuali sembravano trovare fuori del proprio paese il principale interesse per esibi­re e mettere alla prova il proprio impegno. Nella Francia, che pure conosceva i momenti esaltanti e conflittuali del Fronte popolare, “ciò significava reagire all’ascesa del fasci­smo, al pericolo di guerra, alla guerra civile in Spagna e al suo scontro di ideologie, e di­fendere l’Unione Sovietica o contestare la sua posizione di stato-guida” (p. 81).

Probabilmente anche perché l’impegno in patria, come ricorda Lottman, assumeva per la prima volta l’aspetto di un appoggio al proprio governo, l’attrazione verso i temi in­ternazionali trovava una rispondenza più ampia. Lottman ripercorre le diverse tappe di questo collettivo impegno internazionale: il congresso internazionale contro la guerra di Amsterdam del 1932 e il congresso antifa­scista tenuto a Parigi nella sala Pleyel nel 1933, il congresso degli scrittori sovietici a Mosca del 1934 che vide una cospicua pre­senza di intellettuali europei fino all’episodio culminante del Congresso degli scrittori anti­fascisti tenuto nel giugno 1935 a Parigi.

Attorno a queste tappe si affolla la mag­gior parte degli scrittori, dei poeti, degli in­tellettuali: dagli ispiratori Rolland a Barbus­se ai più prestigiosi Gide e Malraux, ai comu­nisti Aragon e Vaillant-Couturier, al solita­rio Benda, ai surrealisti Breton ed Eluard, ai minori Cassou, Chamson, Nizan, Guéhen- no, Giono. Lottman sembra a volte esagera­re l’influenza di alcuni organizzatori comu­

nisti — primo fra tutti l’inviato del Comin­tern Willy Mtinzenberg e subito dopo il sup­posto ispiratore di Thorez, Eugen Fried ‘Clé­ment’ — nel promuovere, raccogliere, indi­rizzare gli intellettuali verso forme di impe­gno sempre più gradite a Mosca, verso quel ruolo da ‘compagni di strada’ che rappresen­tò il loro biglietto da visita, il loro orgoglio e la loro dannazione. Ma è pronto a ridimen­sionare la reale efficacia di questi ‘interventi esterni’ quando ripercorre le polemiche e le posizioni dei diversi scrittori, troppo genuine ed emotivamente contraddittorie, troppo ti­piche dell’ambiente della ‘rive gauche’ per poter essere attribuite a delle eminenze grigie provenienti da fuori.

Certo vi era, da parte di molti intellettuali, un atteggiamento di riverenza accompagnato da un sentimento di colpa e di inferiorità nei confronti dei ‘politici’ e dei ‘rivoluzionari di professione’. Ma era un atteggiamento che da solo non avrebbe prodotto molto: le liti tra comunisti e surrealisti, ad esempio, come fu chiaro nello scontro pubblico tra Breton ed Erenburg alla vigilia del congresso di Pa­rigi, avevano una radice tanto politica che personale, tanto ideologica che culturale.

Il congresso degli scrittori del 1935 fu sen­za dubbio l’avvenimento più significativo nella storia dell’impegno degli intellettuali, ed esso attende ancora una ricostruzione do­cumentata e definitiva. Le pagine che vi de­dica Lottman, sufficienti a ripercorrere gli interventi che si succedettero nelle diverse giornate, sono puntuali nel tratteggiare la cronaca del caso Serge che si insinuò tra le pieghe del congresso e sono assai acute nel presentare la psicologia individuale e colletti­va dei partecipanti. Appaiono però carenti in un giudizio sintetico, nel tentativo di costrui­re attorno a questo evento una analisi un po’ meno impressionistica dei rapporti tra cultu­ra e politica negli anni trenta. E difatti gli unici, riduttivi giudizi, riportati a chiusura del capitolo dedicato al congresso di Parigi, sono quelli di Guéhenno e Lenormand che, a

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distanza di ormai molti anni, descrivono un’assise voluta da Mosca, “un congresso in cui si auspicavano solo le presenze e il nome di un Huxley, di un Mann, di un Forster, di un Benda o di un Gide” che “tradiva l’impo­tenza di intellettuali che sopravvalutavano le proprie possibilità come se la cultura e la li­bertà di pensiero potessero bastare da sola sbarrare la strada al fascismo” (p. 156).

Un aspetto notevole dell’opera di Lott- man, un approfondimento originale che reca un contributo interessante alla ricostruzione delle vicende culturali degli anni trenta e quaranta, risiede nell’aver preso in esame an­che gli scrittori di destra che frequentavano la ‘rive gauche’. Inferiori come numero, co­me fama, come capacità letteraria, come abi­lità critica, questi intellettuali sono in parte i precursori, e in parte gli stessi, di coloro che vivranno con gioia gli anni dell’occupazione nazista; ma tra essi vi è anche chi, qualche anno dopo, modificherà profondamente le proprie opzioni politiche e finirà con De Gaulle o con la Resistenza, quando non ad­dirittura con Stalin. Accanto a Drieu La Ro­chelle, Brasillach, de Montherlant, de Châ- teaubriant troviamo così Roger Vailland, Claude Roy, Claude Morgan, Emanuel d’A- stier. Un gruppo composito, come lo era quello degli ‘impegnati a sinistra’, il cui de­nominatore comune sembrava essere “la sen­sazione che fosse necessario un qualche tipo di cambiamento, che il vecchio mondo cor­rotto, incapace di porre rimedio alle difficol­tà economiche della Francia, esigesse un nuovo patto sociale” (p. 121).

Intellettuali di destra e di sinistra si trova­vano a volte fianco a fianco in alcune riviste, in alcune case editrici, nei caffè di Montpar­nasse e Saint-Germaine. E molti si trovarono fianco a fianco anche più tardi, nella Parigi occupata dai nazisti. Le pagine dedicate agli ‘anni tedeschi’ — quelle della terza parte — sono tra le più interessanti di tutto il libro di Lottman. Compiacendosi ogni tanto sia pure con moderazione, di aneddoti e pettegolezzi

tendenti a mostrare un ambiente intellettuale abilmente in bilico tra l’accettazione dell’oc­cupante nazista, la sopportazione del grigio­re di Vichy e una timida e soppesata parteci­pazione alla resistenza, il rapporto del mon­do culturale parigino con la Francia in guer­ra è sufficientemente articolato e esauriente. Dallo shock del 1939, anno di rottura e chia­rificazione scandito dal patto russo-tedesco e dall’aggressione hitleriana alla Polonia che dava inizio alla guerra, fino alla Liberazione di Parigi, la vita della ‘rive gauche’, pur sconvolta, obbedisce ancora a imperativi culturali che paiono immutabili. La “Nou­velle revue française” è ancora, come negli anni trenta, uno dei poli di attrazione per scrittori e poeti di ogni tendenza, anche se adesso sotto La direzione di Drieu La Ro­chelle, le firme non sono più, in parte alme­no, le stesse di prima. L’ambiguità, la dispo­nibilità e il machiavellismo più contorto sembrano i connotati principali degli intel­lettuali durante gli anni di guerra: e Lottman ricostruisce i loro rapporti reciproci, quelli di amici che si trovano su opposte sponde po­litiche, quelli di chi si sottrae all’impegno politico e si dedica solo alla letteratura e all’arte, quelli di tutti con l’occupante nazi­sta, con la sua censura benevola e la sua au­torità a volte paternalistica e consenziente, a volte tragica e irremovibile.

“Leggendo le memorie dei grandi protago­nisti di quegli anni — scrive Lottman — si è portati quasi a concludere che a Parigi tutti resistevano ai tedeschi. Ma si potrebbe anche sostenere che tutti collaboravano” (p. 274). Ma a questo provocatorio giudizio fa però seguito una accurata e circostanziata rico­struzione, che redistribuisce con imparzialità i meriti e i torti alla luce della realtà dei fatti. Considerando come Sartre e Camus fossero diventati famosi negli anni di guerra pubbli­cando da Gallimard, con l’approvazione del­la censura e l’entusiasmo di alcuni gerarchi, L ’essere e il nulla il primo, Lo straniero e II mito di Sisifo il secondo, Lottman rammenta

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La Rive Gauche. Intellettuali e impegno politico 131

come questi fossero vissuti come eventi lette­rari, incapaci, allora, di suscitare passioni politiche; e si domanda poi se “tutti quelli che divennero celebri tra il 1940 e il 1944 sa­pevano davvero che la loro carriera era stata facilitata dal vuoto creato dai nazisti e che c’erano degli scrittori in prigione o detenuti nei campi di concentramento, impossibilitati a parlare, a scrivere, a pubblicare” (p. 279).

Il periodo postbellico, che Lottman rico­struisce solamente fino al 1951, si presentò dapprima come una fase postresistenziale, tendenzialmente unitaria, segnata da una ri­nata passione civile (guidata da Camus e Sar­tre, adesso) e dalla conversione al giornali­smo della maggior parte degli scrittori. Ma fu una breve parentesi: la diatriba tra Gide e Aragon che rieccheggiava, immiserita, le po­lemiche sull’Urss del 1937-38; le accuse dei comunisti all’esistenzialismo e ai suoi due supposti santoni, Sartre e Camus; la polemi­ca tra il primo e il Pcf a proposito di Nizan erano le prime robuste avvisaglie della rottu­ra consumata nel 1947 tra i difensori del- l’Urss e i suoi nemici, alla cui testa figurava­no adesso Malraux e Koestler. La guerra fredda si presentava alla cultura francese sot­to le spoglie del processo Kravcenko, radica- lizzando le posizioni dei più, insinuando il dubbio in una minoranza e permettendo ad alcuni saputi gruppi di ipotizzare per qualche tempo una terza posizione non asservita né all’Urss né agli Usa.

Terminato il breve periodo eroico dei quo­tidiani scritti dagli intellettuali, sono adesso i mensili, i bimestrali, talvolta i settimanali, le principali armi della battaglia ideologico-cul- turale che ha luogo nella ‘rive gauche’. “Le Temps modernes” , “Esprit” , “Le Lettres françaises” , “Le figaro littéraire” monopo­lizzano l’attenzione e la produzione degli intellettuali tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta, anche se è il primo di questo elenco a rappresentare la parte più dinamica della cultura francese. E sarà proprio “Le Temps modernes” nel 1951 a tenere a battesimo la rottura tra Sartre e Camus che seguiva di poco a quella già consumata tra Sartre e Merleau-Ponty. La ‘rive gauche’ iniziava così la sua rapida e irreversibile decadenza.

Nel 1957 Alain Robbe-Grillet poteva riassumere il senso di un’epoca e osservare: “come potremo dimenticare le sottomissio­ni e le dimissioni successive, i litigi clamo­rosi, le scomuniche, le incarcerazioni, i sui­cidi?” (p. 450), rivendicando ormai per lo scrittore un solo impegno, quello verso il linguaggio.

Non è comunque a un cittadino della ‘ri­ve gauche’ che Lottman concede l’onore di chiudere il suo volume, ma alle battute conclusive di Finale di partita di Beckett: “Significare? Noi, significare? Ah, questa è buona!” .

Marcello Flores

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Per la storia delle campagne meridionalidi Luigi Faccini

Il convegno di Bari del 1979, i cui atti sono raccolti in questo volume curato da Angelo Massafra (Problem i di storia delle campagne meridionali nell’età m oderna e contem pora­nea, Bari, Dedalo libri, 1981, pp. VIII-716, lire 25.000), è stato senza dubbio un appun­tamento estremamente importante per chi si occupa della vita economica e sociale delle campagne italiane e in particolare di quelle meridionali. Articolato in una fitta serie di interventi, con uno spettro tematico e crono­logico molto ampio, il convegno, organizza­to da Angelo Massafra, ha raccolto i risultati migliori della ricerca sull’agricoltura del Mezzogiorno. Si è trattato, in un certo qual modo, della sintesi di un ventennio di nuove analisi e nel contempo di una lucida puntua­lizzazione dei numerosi temi e problemi che ancora rimangono aperti e che ci impedisco­no, oggi meno di ieri, di comprendere appie­no i meccanismi di sviluppo e di emargina­zione della realtà economica e sociale del Mezzogiorno continentale.

I risultati di un lavoro d’analisi che ha vi­sto impegnati decine di studiosi per molti an­ni vengono acutamente e concisamente sot­tolineati, fin dalle prime pagine del volume, dalla relazione introduttiva di Pasquale Vil­lani che mette in risalto, anche con frequenti riferimenti al proprio sentiero di ricerca, ciò che di nuovo — interessi, analisi, idee — è venuto maturando negli ultimi decenni. Egli tenta, con notevole successo, un bilancio sto­riografico di più di un ventennio di studi del­

la società e delle campagne meridionali che possiamo sintetizzare nell’emergere di una più approfondita conoscenza della realtà economica e demografica, nello sforzo di comprendere fenomeni e situazioni che era­no in qualche modo rimasti ingabbiati in schemi interpretativi tradizionali tanto spes­so ripetuti quanto raramente verificati. Nuo­vi contributi e nuovi rischi: superate le impo­stazioni basate più sull’ideologia che sulla ri­cerca, inficiate dall’ingombrante presenza di categorie o classi più facili da definire che da trovare nel minuto e contraddittorio tessuto storico, si affacciano i rischi “di una nuova erudizione” , di “compiacimento per tecnici­smi statistici fine a se stessi” , di “frantuma­zione degli studi”. Ma nel frattempo la sto­riografia ha compiuto passi da gigante nel- l’approfondire e nel comprendere i meccani­smi e i tempi di sviluppo della realtà econo­mica e sociale del Regno di Napoli.

Gli atti del convegno barese, utili perché ci fanno capire cosa è cambiato negli ultimi de­cenni nella storiografia italiana e quali sono le nuove acquisizioni ermeneutiche, lo sono ancor più per l’indicazione che essi fornisco­no sui nuovi problemi e sui nuovi cammini di ricerca. Dalla lettura di molti saggi relativi all’età moderna emerge con chiarezza un te­ma dalle grandi implicazioni: quello della pe- riodizzazione, dello sviluppo e della recen­sione. Si tratta in sostanza della conseguenza dell’abbandono di una periodizzazione di una storia della società tutta incentrata sul

Italia contemporanea”, marzo 1984, fase. 154

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Per la storia delle campagne meridionali 133

‘politico’ se non addirittura sul ‘dinastico’ a cui tutto veniva subordinato. Aymard, Lepre, Galasso, Zotta, Marino e, in prospettive più li­mitate, molti altri, prendono in esame i tempi e le dinamiche dello sviluppo e della crisi dell’agricoltura meridionale, sottolineando costruttive e stimolanti discordie. Per com­prendere la centralità, tutt’altro che formale, di un tale tema, basta riflettere su come ogni nuova proposta di periodizzazione presup­ponga l’approfondimento di fenomeni storici prima trascurati e ciò non può avvenire senza un diverso taglio, senza la costruzione o il pri­mo tentativo di costruzione di nuovi modelli interpretativi.

Questo problema delle scansioni temporali, che è in ultima analisi problema di comprensio­ne dei meccanismi dell’alterno divenire di una società, appare fondamentale, molte relazioni lo dimostrano con grande chiarezza, quando si tratta di quel fatidico XVII secolo. Un secolo tradizionalmente e storicamente ‘sventurato’, che è stato vittima, oltre che della peste e di una recessione, delle facili generalizzazioni storio­grafiche.

Basterebbe a questo proposito leggere le belle pagine di Galasso per comprendere quanto fecondi siano stati e tuttora siano i recenti studi sul Seicento. È in quella “reces­sione senza riconversione” che possiamo ve­dere delinearsi o aggravarsi un dualismo pro­duttivo e di conseguenza sociale che divente­rà il pesante fardello dei secoli seguenti.

Aurelio Musi analizza questa crisi nel Principato citeriore seguendo l’evolversi del­le colture, l’estendersi dell’allevamento, le modificazioni della rendita e riesce così a ri­costruire le differenti scelte produttive, fa­cendo del Salernitano, geograficamente e po- dologicamente molto composito, uno spec­chio utilissimo per comprendere i meccani­smi di emarginazione economica, i tentativi di razionalizzazione colturale, la complessiva incapacità alla riconversione produttiva. Tutto ciò naturalmente non vuol dire che nel Mezzogiorno non siano avvenute profonde

modificazioni sociali. L’emergere settecente­sco di un ceto di uomini nuovi pronti a sfrutta­re, attraverso una solidarietà di ‘classe’ che di­viene spesso complicità, le debolezze e le con­traddizioni del governo centrale e gli ampi spa­zi di manovra lasciati ai funzionari in provin­cia, è illuminato da Gennaro Incarnato nella vicenda dei fratelli Delfico. Il saggio, pur ne­cessariamente limitato alla ricostruzione di un singolo caso, è ricco di suggestioni e ci indica i meccanismi economici attraverso cui un nuo­vo ceto di ‘monopolisti’ e speculatori marciò, sul finire del Settecento, alla conquista del Re­gno.

Dagli atti del convegno di Bari esce pro­fondamente rinnovata anche la storia azien­dale, i cui limiti — credo — siano ormai ben presenti a tutti coloro che si occupano di storia agraria. Studiare una singola azienda è spesso affascinante: in un univer­so, qual è la vita delle campagne, così spes­so approssimativo si hanno finalmente dati certi, inoppugnabili, indicazioni di trends economici chiarificanti. Ma tutto ciò che si riesce di norma a chiarire è come si sia svi­luppata quella singola azienda, scelta di so­lito fra le meglio documentate e quindi fra le più grandi; ogni dato, assai preciso be­ninteso, che emerge da queste storie azien­dali rimane alla fine assolutamente non ge­neralizzabile. Per risolvere questa contrad­dizione fra la puntualità e certezza di questi microdati e la loro limitata utilità per com­prendere una più vasta realtà produttiva e sociale, inficiati come sono dalla casualità localistica, imprenditoriale per non dire ar­chivistica, non restano che poche strade. Per superare questa discrasia si potrebbe forse costruire un ampio campione d’azien­de, ma chiunque si sia occupato di questo tipo d’analisi sa quanto ciò sia difficile e da un punto di vista documentario e nella ri­cerca della rappresentatività stessa del cam­pione, o si può invece studiare un grande patrimonio situato in un’area sufficiente- mente limitata da essere profondamente in-

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fluenzata dalle vicende di quell’immenso in­sieme aziendale. È questa la strada seguita con esiti assai proficui da Silvio Zotta nella sua interessantissima analisi dello ‘Stato’ di Melfi dei Doria. Lo Zotta non si limita d’al­tra parte a ricostruire una storia aziendale che sia solo storia di prodotti e di produzio­ni, ma la amplia e la integra al punto da deli­neare la storia economica e demografica di una vasta area a cavallo fra Campania, Pu­glia e Basilicata, dimostrando in tal modo quanto possa essere feconda una storia aziendale che smetta finalmente di chiudersi nella microstoria.

È proprio da questa integrazione di fonti, di dati, di prospettive di ricerca differenti che nascono gli studi più interessanti fra quelli presentati al convegno barese. Ne è chiara di­mostrazione il saggio di Angelo Massafra sul Molise tra il XVIII secolo e l’Unità. Pren­dendo le mosse dalla struttura produttiva agraria molisana e dal diffondersi della col­tura del mais prima e della patata poi, Mas­safra integra ricerche di storia agraria con ri­cerche di storia sociale, dimostrando i nessi che esistono tra demografia, produzione ru­rale e alimentazione. La modificazione degli avvicendamenti esce così dall’empireo dell’agronomia per entrare nel mondo delle necessità di sopravvivenza della popolazio­ne. L’economia agraria contadina, spina dorsale della minuta vita economica delle campagne e, per carenza di documentazione, Cenerentola della storia dell’agricoltura emerge illuminata da queste pagine, grazie appunto all’integrazione delle fonti e dei me­todi di ricerca.

Per ciò che riguarda la storia contempora­nea delle campagne meridionali, assai inte­ressanti sono le pagine introduttive di Franco De Felice che non si limitano a una semplice panoramica degli studi ma che, soprattutto per quanto concerne l’analisi delle classi so­ciali e delle campagne in periodo fascista, so­no ricche di spunti e di suggestioni di ricerca. Di questa sezione di storia agraria contempo­

ranea fa parte uno dei saggi più stimolanti dell’intero volume: quello di Aldo Cormio sulla crisi agraria e la svolta del 1887 nel Mezzogiorno. L’autore, in poche, belle e sin­tetiche pagine, rimette in discussione infatti alcune delle certezze, e forse sarebbe meglio dire dei luoghi comuni, sulle distorsioni di sviluppo del Meridione.

Cormio analizza l’inserimento del Mezzo­giorno nel mercato internazionale, il ruolo destabilizzatore dell’errata politica crediti­zia, i fenomeni di ristrutturazione interna e il sorgere di una moderna corrente protezioni­sta intorno alla scuola di Portici. L’Italia meridionale quale uscirà dalla svolta del 1887 sarà una struttura assai diversificata al suo interno con un’accentuata divaricazione economico-produttiva che non può essere certo ricondotta, l’autore lo dimostra, allo stereotipo schema interpretativo della vitto­ria, in sede politica ed economica, del lati­fondo cerealicolo e dei gruppi sociali che da esso traevano la propria forza.

Molto vi sarebe ancora da scrivere sugli at­ti di questo convegno ma recensire, se pur brevemente, ventinove contributi in buona parte innovativi è impresa disperata. Non re­sta a questo punto che sottolineare l’impor­tanza di questi studi per la comprensione del­le vicende economiche del Mezzogiorno con­tinentale in età moderna e contemporanea. Sfortunatamente, lo sottolinea lo stesso cu­ratore, mancano in questo volume contributi e analisi sull’agricoltura siciliana, se si esclu­dono le belle e ben documentate pagine che Marcello Verga dedica allo studio di un gran­de feudo dei Ventimiglia, principi di Bei- monte. Forse un numero più cospicuo di ri­cerche sull’evoluzione storica delle campa­gne siciliane avrebbe degnamente completato una raccolta di saggi che senza dubbio verrà a lungo citata come uno dei momenti fonda- mentali nella comprensione dell’evoluzione della struttura economica e sociale del Mez­zogiorno d’Italia.

Luigi Faccini

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Rassegna bibliografica 135

Mezzogiorno

F o r t u n a t a P i s e l l i , Parentela ed emigrazione. Mutamenti e continuità in una comunità cala­brese, Torino, Einaudi, 1981, pp. 393, lire 12.000.T e r e s a B o r r e l l o - P œ r G i o r g i o

R a u z i , Il velo bianco. Saggio sulla dote matrimoniale della donna in un paese agricolo del Meridione, Milano, Angeli, 1981, pp. 100, lire 5.000.

L’insoddisfazione derivante dall’uso di categorie troppo ge­neriche per comprendere la complessità del Mezzogiorno contemporaneo ha favorito lo sviluppo di un filone di studi, già ricco di risultati, che tendo­no a restringere spazialmente il campo d’indagine in modo da evidenziare la reale interconnes­sione degli elementi costituenti l’insieme. All’interno di questo filone si collocano gli studi su due paesi dell’Italia meridiona­le; diversa la consistenza e la densità del primo rispetto al se­condo, simili i procedimenti e le tecniche di ricerca impiegate, concordanti le conclusioni.

Il lavoro della Piselli è il frut­to di tre anni di ricerca condotta in un paese della provincia di Cosenza che sembra riprodurre un forma esasperata, e quindi con maggiore evidenza, aspetti e problemi che altrove appaiono più frammentari e meno ricono­scibili. La ricerca, sviluppatasi nell’ambito di cinque ‘vicinati’ scelti in maniera da essere rap­presentativi di tutto il paese, tende a mettere in luce come la comunità di Altopiano, investi­ta da processi di destrutturazio­ne del sistema socio-economico tradizionale e quindi di integra­zione nell’area capitalistica na­

zionale ed internazionale, so­stanzialmente attraverso il feno­meno migratorio, mantiene in realtà le tradizionali strutture della parentela che in tal modo continuano ad essere i fattori principali della stabilità sociale.

Non si tratta ovviamente di persistenze, ma di riutilizzo e di adattamento “di norme e di rap­porti parentali formalmente tra­dizionali che consentono alla comunità di resistere alle inno­vazioni” . Per cogliere la com­plessità delle risposte di Altopia­no ai mutamenti indotti dal­l’esterno sono sembrati utili all’autrice gli schemi di riferi­mento teorico e metodologico della ‘scuola di Manchester’, in particolare gli studi di Turner, Van Velsen, Gluckman, oltre che naturalmente quelli di Pola- nyi. E i risultati sono ampia­mente positivi, soprattutto ri­spetto alla capacità della ricerca­trice di far emergere dall’insie­me degli elementi della società analizzata i fattori riconducibili a tipologie generali e a dati quantitativi (peraltro assai con­sistenti: si vedano in particolare le appendici statistiche relative alle fasi e alle caratteristiche del fenomeno migratorio nel perio­do 1959-76) e quelli legati “al mondo frammentario e dispersi­vo delle esperienze individuali” . A tale proposito Piselli scrive “Occorreva, dunque, abbando­nare il proprio ruolo di ricerca­tore, di intervistatore occasiona­le e partecipare direttamente, in­tensamente alla vita quotidiana del gruppo sociale analizzato” .

Anche in questo caso dunque, come in quei lavori volti a co­gliere attraverso le fonti orali le cosiddette storie di vita si ripro­pone il metodo della ‘osserva­zione partecipante’, ma, a mio

parere, non sempre l’operazione appare convincente. L’impres­sione generale che si ricava dalla lettura del libro è che siano state utilizzate esclusivamente le cate­gorie dell’utile e della conve­nienza senza mai affrontare il mondo dei sentimenti, dei biso­gni individuali, degli stati d’ani­mo; una intera comunità viene esaminata nella fase drammati­ca del passaggio da una situazio­ne di immobilismo che non con­sente diversità, pena l’espulsio­ne, a una diversa, ma che co­munque soffoca l’individuo, senza mai tentare di capire die­tro quei comportamenti che mondo si nasconde, che cosa ci si aspetta veramente, quale scommessa ciascuno gioca sulla propria esistenza.

Questo rilievo non rende me­no interessante il lavoro, la cui finalità, ampiamente esplicita­ta, era di dimostrare l’atipicità del ‘caso’ Altopiano e contri­buire quindi a modificare una approssimativa concezione del Mezzogiorno. La situazione di Altopiano viene dall’autrice co­sì schematizzata: l’emigrazione, che negli anni cinquanta è stato il fattore principale di riequili­brio e di coesione del sistema so­ciale, diviene negli anni sessanta “un fenomeno indotto ed auto- riproducentesi, con la combina­zione di fattori esogeni ed endo­geni, attraverso cui si realizza la partecipazione all’economia monetaria e la rapida dissoluzio­ne delle strutture produttive e sociali più arcaiche” (p. 15). Anche in questo contesto si veri­fica dunque una rapida assun­zione della cultura consumistica dei centri industriali, la diminu­zione del lavoro agricolo e in ge­nere l’abbandono del lavoro manuale, la tendenza alla scola­

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136 Rassegna bibliografica

rizzazione di massa, ma non un aumento della produttività. Ed è proprio lo squilibrio tra ten­denze consumistiche e decre­scenti capacità produttive che, se da un lato favorisce lo svilup­po del settore terziario, induce nuove forme di clientelismo con la connessa ricerca di protezione e favori. In presenza di questi fattori, secondo Fortunata Pi­selli, il precedente sistema di re­lazioni parentali si rompe, per lasciare il posto a un nuovo tipo di famiglia nucleare-coniugale, con al suo interno le caratteristi­che delle famiglie dei centri ur­bani: divisione interna dei ruoli, maggiore possibilità per i coniu­gi di esprimere le proprie incli­nazioni personali, privatizzazio­ne dell’infanzia ecc. Questo tipo di famiglia, ancora una volta è quella a cui viene affidata la so­pravvivenza e la riaffermazione del proprio status economico- sociale; non si tratta però in questo caso di una struttura rigi­da che impone determinate for­me di comportamento, ma sarà il calcolo e l’interesse ad impor­re di volta in volta l’alleanza con questo o quel gruppo sociale. Ciascuno utilizza i suoi reticoli di parentela in maniera diversa (dalle modalità dei matrimoni fino alle diramazioni familiari nei circuiti politici) ma nessuno può sottrarsi a queste nuove e più sottili forme di coercizioni.

Le varie tesi sulla morte della famiglia, da qualche tempo messe in crisi dagli studi sul neo- familismo delle grandi città, tro­vano in questa indagine una ul­teriore sconfessione. Anche nei piccoli centri del Sud, il reticolo parentale si è rinnovato e insie­me ad esso le nuove forme di di­pendenza personale, rigide e senza spazi perché legate alla so­

pravvivenza; le, possibilità di autodeterminarsi, di scegliere in qualche modo la propria esi­stenza, per Altopiano sono lon­tane utopie.

Alle stesse conclusioni per­vengono gli autori del secondo saggio; anche esso un’indagine su un piccolo paese del Sud, Ruggiano in provincia di Lecce, condotta sulla base di questio­nari (circa sessanta interviste a uomini e donne di età e condi­zioni diverse) con il metodo dell’osservazione partecipante. A suo fondamento la stessa ana­lisi della Piselli: verificare il tipo di risposta, di reazione offerto dalla comunità nel passaggio da un’economia autarchica e chiu­sa, a una aperta al mercato ma bisognosa dell’intervento pub­blico per regolare le spinte con­traddittorie indotte dalla tra­sformazione. I due ricercatori, in particolare, si soffermano su uno degli elementi di persisten­za, l’istituto della dote, del cor­redo nuziale. In uno stile secco, in certi momenti quasi brutale, l’indagine manifesta come il ri­tuale della dote, attraverso una serie di atti scanditi nel tempo, l’acquisto della materia prima, la lavorazione, l’esposizione a lavoro terminato, la stesura di un vero e proprio documento dotale, assolva, ancora oggi, a una serie di funzioni fondamen­tali. li rituale delia dote finisce infatti con lo scandire la vita della maggior parte delle donne dalla prima infanzia, accompa­gnandole verso una scelta deter­minata, il matrimonio, con un cerimoniale che non ammette deroghe: atti che condizionano l’intera esistenza, dalla sessuali­tà ai rapporti di vicinato e di pa­rentela, agli impegni finanziari assai onerosi che la dote stessa

comporta, essendo in gioco il prestigio dell’intera famiglia. Le trasformazioni sociali ed econo­miche in atto non modificano dunque il ruolo della donna, che rimane tutto interno alla fami­glia e quest’ultima, a sua volta, rimane il fulcro di una società storicamente ai margini dei luo­ghi dove si decide e dove si sta­biliscono i valori che dovranno poi essere tali per tutti.

Il familismo che, nel troppo noto saggio di Banfield (Le basi morali di una società arretrata, Bologna, Il Mulino, 1976), era la causa dell’arretratezza del Mezzogiorno, risulta da questa analisi essere l’effetto di perversi processi economici e sociali; non di persistenze, dunque, si tratta, ma di forme di resistenza che le comunità oppongono alla “disgregazione connessa ed in­dotta dalle distorsioni dello svi­luppo capitalistico nelle aree ad esso marginali” .

Su queste conclusioni non si può non consentire: mi sembra tuttavia opportuno evidenziare il fatto che in entrambi i lavori, l’indagine è stata condotta con un taglio marcatamente sociolo­gico e ciò ha forse impedito di cogliere fino in fondo situazioni che sono certamente più com­plesse e articolate di quanto non appaia. Non è possibile, a mio parere, che modifiche, parziali e momentanee quanto si voglia, dei livelli di coscienza non intac­chino questo mondo, pronto di fronte ad ogni modifica dal­l’esterno o a fuggire o a rinchiu­dersi in se stesso.

O è solo l’ostinato ottimismo di una donna che può ancora sperare che tra altre donne, sia pur relegate in casa, non possa nascere ad esempio attraverso la ‘chiacchiera’, che è poi un tipico

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Rassegna bibliografica 137

comunicare tra donne, una rete di solidarietà che aiuti a spez­zare il cerchio e a superare l’immobilismo?

Laura Capobianco

A a .Vv ., La modernizzazione diffìcile. Città e campagne nel Mezzogiorno dall’età giolittiana al fascismo, introduzione di Giuseppe Giarrizzo, Bari, De Donato, 1983, pp. 310, lire 18.000.

Il volume — in cui sono riela­borati i materiali di un conve­gno di studio su “Potere e socie­tà nel Mezzogiorno dall’età gio­littiana al fascismo” tenutosi a Catania nell’ottobre 1981 — si colloca in quel vasto ambito di ricerca che tende ad una riconsi­derazione critica generale dei problemi della storia del Meri­dione, superando quell’‘imma­gine sommersa’ (Giarrizzo) che ha caratterizzato larga parte del­la storiografia recente e in que­sto senso costituisce una ricerca esemplare sia per i temi affron­tati che per le chiavi interpretati­ve che offre. Anzi, lo studio de­gli elementi modemizzatori pre­senti nel periodo giolittiano ten­de a una riconsiderazione gene­rale sia della storia del Mezzo­giorno che della politica libe­rale.

Ora — proprio al fine di usci­re dall’indeterminatezza di una categoria talmente onnicom­prensiva da risultare indistinta, quale quella di Mezzogiorno —, appare necessaria la settorializ- zazione della ricerca; e non a ca­so, tranne un breve saggio di Gi­rolamo Sotgiu sulla Sardegna (Aggregazione e conflitto nelle campagne), il volume prende in

esame due realtà regionali as­sunte quasi come parametri di due modi diversi ma in qualche modo complementari del ‘diffi­cile’ sviluppo meridionale; la Si­cilia e la Puglia. Appare del re­sto innegabile, oggi, che una ri­definizione della categoria stori­ca di Mezzogiorno possa neces­sariamente attraversare la disag­gregazione dei dati che compon­gono questo complesso topos.

Giuseppe Barone, nel bel sag­gio dedicato ai rapporti tra in­tervento dello Stato e capitale fi­nanziario in Sicilia (Stato capi­tale finanziario e Mezzogiorno), spezza una lancia contro “l’in­fruttuosa querelle sullo stato na­zionale reo di aver negato al Sud quello sviluppo economico che avrebbe invece elargito al Nord” (p. 28) e si cimenta nella descri­zione dei tentativi, perseguiti tanto dal governo giolittiano che da una parte della classe di­rigente isolana, di far decollare una moderna industria. Barone attesta, e dimostra, l’esistenza di un progetto governativo, che ebbe anche l’appoggio riformi­sta, “teso a inserire il Mezzo­giorno nei circuiti dello sviluppo capitalistico dopo averlo ripuli­to di residui feudali e rendite pa­rassitane” (p. 78), progetto che ebbe come supporto l’agevola­zione per gli investimenti viticoli su base capitalistica e per l’e­sportazione dei prodotti vinico­li, il potenziamento dei trasporti per mare e per terra e dell’elet­trificazione, il sostegno di indu­striali quali il Fiorio e del capita­le finanziario italiano (Banca commerciale) e straniero ecc. Nel primo scorcio del secolo Ba­rone intravede, pertanto la pos­sibilità di una penetrazione/tra­sformazione capitalistica della Sicilia (ma non è discorso che ri­

guardi esclusivamente la Sicilia) attraverso la rottura, almeno parziale, del tradizionale blocco risorgimentale industriali (del Nord)-agrari (del Sud). Fu una opposizione agraria motivata più politicamente che economi­camente a far fallire il progetto riformatore: “Non era soltanto la paura di vedersi espropriati a prezzi vili della loro proprietà a spingere gli agrari a coalizzarsi per respingere la penetrazione del capitale finanziario setten­trionale nelle campagne, ma la consapevolezza che la rottura del sistema latifondistico esten­sivo avrebbe comportato una perdita secca di egemonia del blocco agrario” (p. 74).

Di taglio diverso, ma con esiti almeno in parte coincidenti col precedente, l’altro saggio sulla Sicilia di Salvatore Lupo e Ro­sario Mangiameli (La moderniz­zazione diffìcile: blocchi corpo­rativi e conflitto di classe in una società arretrata) sui conflitti sociali e l’aggregazione dei bloc­chi di potere. Il minoritario ma significativo insorgere di atteg­giamenti imprenditoriali e capi­talistici in alcuni settori agrari (Fiorio, Di Rudinì, Cesarò ecc.), pur non recidendo i rap­porti tra questi e la rendita, venne a determinare “una nuo­va articolazione dei gruppi do­minanti” (p. 220) e in età giolit­tiana questo sembrò sposarsi con la tradizione socialista dei Fasci (“composito blocco di ceti produttivi urbani: artigiani,borghesia, esportatori, burocra­ti” , p. 232).

Nella mancata modernizza­zione gli autori vedono l’origine dell’ideologia consolatoria, e sostanzialmente reazionaria, del sicilianismo moderno. Di qui il saggio si diffonde sulla plausibi­

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lità (affermata pur con alcune specificazioni) dell’uso della ca­tegoria di blocco agrario.

Sostanzialmente divergente l’andamento dell’economia agra­ria pugliese su cui di sofferma il saggio si Aldo Cormio {Le cam­pagne pugliesi nella fase di tran­sizione 1880-1914). Qui già negli anni ottanta lo sviluppo del vi­gneto — ai danni delle colture cerealicole — aveva determinato la crisi della masseria tradizio­nale e la necessità di una razio­nalizzazione capitalistica dell’in­tera economia agricola (cereali­coltura e olivicoltura in partico­lare). E il ruolo del movimento socialista veniva ad essere com­plementare alle esigenze di una modernizzazione che stava rag­giungendo risultati decisivi, coa­diuvata anche da un’azione go­vernativa volta al potenziamen­to di un nuovo blocco sociale e di importanti infrastrutture an­che di carattere amministrativo (la Camera di commercio di Ba­ri, ad esempio). È così che il contrasto esplosivo fra le poten­zialità di sviluppo e una classe dirigente “feudale, oppressiva e soffocatrice” (p. 212) veniva a determinare già nel primo de­cennio del secolo la crisi irrever­sibile della grande borghesia pa- rassitaria.

Di notevole interesse anche l’altro saggio sulla Puglia di Luigi Masella {“Elites” politiche e po­tere urbano nel Mezzogiorno dall’età giolittiana all’avvento del fascismo. Il caso pugliese) sul­la trasformazione e il ricambio della classe dirigente dalla crisi bellica all’ascesa del fascismo, contenente anche importanti considerazioni metodologiche.

Infine il volume è corredato da un ampio dibattito metodo- logico (ci preme qui segnalare in

particolare gli interventi di Ga­stone Manacorda e Valerio Ca­stronovo) atto anche a corregge­re alcune forzature contenute nei saggi stessi.

Francesco M. Biscione

P a s q u a l e V i l l a n i , N u n z l a

M a r r o n e , Riforma agraria e questione meridionale. Antolo­gia critica 1943-1980, Bari, De Donato, 1981, pp. 310, lire 9.500.

La lunga depressione degli anni ottanta stringe l’economia italiana tra la congiuntura inter­nazionale e raggravarsi degli squilibri interni. Una morsa che sembra rendere impensabile ogni politica che distragga risor­se dalla ristrutturazione indu­striale per investirle in un settore — quello agricolo — che non può, anzi non deve, aumentare il numero degli addetti. Un set­tore le cui strutture produttive proprio nel Meridione hanno subito un degrado irrimediabile e senza possibilità di ritorno.

Svanito il sogno di una rapida industrializzazione, solo qual­che volenteroso ha potuto im­maginare per il Mezzogiorno un massiccio sviluppo del turismo, come se un’impresa del genere si potesse realizzare senza una ve­ra e propria organizzazione di tipo industriale. L’agroturismo e i parchi naturali sono comun­que iniziative marginali o utili solo nel lungo periodo rispetto all’urgenza della disoccupazio­ne, dei cassaintegrati, del calo produttivo.

Anche se indirettamente e senza esaminarli specificata- mente, a questi problemi fa pen­sare l’antologia di Nunzia Mar­

rone e Pasquale Villani, con la differenza che ripropone con decisione proprio la stretta con­nessione esistente tra questione meridionale e distorto sviluppo nazionale e quindi tra questo e la questione agraria.

Lo stesso periodo che si è vo­luto coprire vuol mettere in ri­salto questa connessione attra­verso una periodizzazione più articolata che oltre alle lotte contadine del 1943-44 e del 1949-50 prende in considerazio­ne anche le successive trasfor­mazioni economiche e sociali; infatti modalità ed esiti delle lot­te di quei periodi hanno profon­damente inciso sulle caratteristi­che generali che è andata assu­mendo la storia d’Italia in quest’ultimo trentennio.

Tra l’altro solo quando è sva­nita la speranza di una rapida industrializzazione del Mezzo­giorno è cominciato nell’ultimo decennio un lavoro storiografi- co sistematico sulla questione agraria e la sua peculiarità nella storia d ’Italia nel dopoguerra.

Villani nell’Introduzione, ri­flettendo sui brani scelti, muove una motivata critica dell’uso, ancora frequente, di introdurre aprioristicamente termini gene­rali (‘sviluppo capitalistico’, ‘prospettiva socialista’ ecc.) co­me parametri e punti di riferi­mento per situazioni e fatti par­ticolari così diversi e lontani tra loro, come è il caso delle realtà regionali e locali delle campagne meridionali.

L’ambiguità dell’uso di con­cetti troppo generali introduce nell’indagine elementi apriori­stici che rischiano di distoreere e rendere incomprensibili le si­tuazioni particolari e le linee di tendenza dell’insieme. Questa astrattezza dà per scontato co­

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se che non lo sono affatto e ren­de superflue proprio le mono­grafie regionali e le indagini a tappeto che l’attuale dibattito storiografico ha pure con buoni frutti avviato e che lo stesso Vil­lani auspica possano continuare ritenendole come le più oppor­tune per delineare un quadro della realtà economica e sociale del Meridione così frammenta­ria e disgregata.

I testi di Rosario Villari, Man­lio Rossi-Doria, Renato Zan- gheri costituiscono un impor­tante contributo a sfatare il mito di un Mezzogiorno immobile e refrattario a ogni trasformazio­ne, palla al piede della rinascita nazionale.

Innanzitutto la decisione dei partiti di sinistra di aderire alla richiesta di terre dei contadini meridionali otterrà l’effetto di legare le masse contadine alle nuove istituzioni democratiche e repubblicane. Un esame più at­tento dei risultati del referen­dum e delle elezioni dal 1947 al 1953 testimonia nel Meridione la crescente e stabile adesione ai grandi partiti nazionali e in par- ticolar modo a quelli della sini­stra.

Inoltre la svolta moderata del 1947-48, dai risultati elettorali, appare più accentuata al Nord e nei grandi centri che al Sud e nelle campagne dove invece i partiti di sinistra (specie il Pei) fino al 1979 saranno in continua ascesa.

Altro segno eloquente di una fase decisiva per la storia del Mezzogiorno fu, intorno agli anni cinquanta, la netta riduzio­ne della rendita fondiaria e lo sfaldamento del blocco degli agrari.

Da un punto di vista stretta- mente economico, nei successivi

anni sessanta e settanta, risalta­no gli straordinari progressi dell’agricoltura meridionale per l’indice di meccanizzazione, per prodotto netto, per il rapporto carico di lavoro/produzione.

Senza disconoscere il valore politico, culturale ed educativo che proprio negli anni cinquanta ha avuto la scoperta e il dibatti­to sulla ‘civiltà contadina meri­dionale’, e valga per tutti ricor­dare l’opera di Ernesto De Mar­tino, Villani fornisce un’impor­tante indicazione metodologica. Dai contributi storiografici presi in esame infatti non sempre è chiaro il senso e l’accezione di termini come ‘economia conta­dina’ e ‘mondo o civiltà conta­dina’.

In senso stretto essi indicano un mondo precapitalistico, in genere di tipo asiatico, basato sull’autoconsumo. Non è a caso che l’aspirazione sessantottesca a una società postindustriale ab­bia visto nelle rivolte spontanee del 1943-44 e nel mondo conta­dino meridionale una realtà proiettata in senso anticapitali­stico, disponibile a una demo­crazia comunitaria di produtto­ri-consumatori.

Ovviamente Villani ribadisce in maniera categorica che, così inteso, questo mondo contadino non esisteva più da secoli; già dall’Ottocento, ma anche da prima, il Meridione era stabil­mente inserito nell’area mercan­tile capitalistica europea e la po­polazione meridionale era abi­tuata alle strutture economiche e alle istituzioni politiche tipiche delle moderne società mercan­tili.

A conferma di tale connessio­ne con le regioni contigue dell’Italia e dell’Europa occi­dentale nel Mezzogiorno la po­

polazione attiva in agricoltura si è ridotta drasticamente, e in me­no di vent’anni, analogamente a quanto era già avvenuto nei pae­si industrializzati, anche se in epoche e con tempi diversi, ma certo non meno drammatica- mente e con costi sociali non in­feriori.

Resta però una differenza non secondaria: che la questione meridionale non è certo risolta e — lo si voglia o meno — è anco­ra una contraddizione decisiva per lo sviluppo della società ita­liana.

Contraddizione da attribuire piuttosto che alle leggi di rifor­ma agraria e ai loro sia pure vistosi limiti, all’inserimento della politica meridionale nel quadro generale della politica italiana.

A chi conosce più da vicino le zone interne del Meridione non sfugge che né i testi pre­sentati, né l’introduzione, esa­minano a fondo i nessi tra la riforma agraria, le sue successi­ve trasformazioni e le attuali condizioni del Mezzogiorno improduttivo e quasi totalmen­te ‘assistito’. Soprattutto non c’è nessun nesso che aiuti a spiegare raggravarsi, fino a di­venire predominanti, dei feno­meni mafiosi e di malavita or­ganizzata.

Una mancanza nell’antologia o una carenza del dibattito po­litico e storiografico degli ulti­mi dieci anni? A noi sembra che si dimentichi facilmente l’origine antica e agraria della mafia e delle altre organizza­zioni che ora urbanizzandosi hanno posto una pesante ipote­ca alle possibilità di sviluppo di intere regioni meridionali.

Biagio Passaro

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G. A c o c e l l a , P . B a r u c c i , E. N o c i f o r a , F. P i g n a t o r e ; II Mezzogiorno nella Ricostruzio­ne, Roma, Edizioni Lavoro, 1983, pp. 119, lire 6.500.

Il volume II Mezzogiorno nel­la Ricostruzione presenta consi­derevoli aspetti di novità rispet­to agli studi di recente rifioriti sul tradizionale tema del Sud e del suo sviluppo.

Gli autori tentano, infatti, di comprendere la dinamica del­l’intera economia meridionale non disgiunta dall’analisi della stratificazione sociale, dei con­flitti tra le classi, dei modelli di comportamento e degli atteggia­menti politico-ideologici che hanno caratterizzato la comuni­tà meridionale nel suo rapporto con la società nazionale.

Il libro raccoglie quattro saggi che costituiscono altrettanti ap­profondimenti in diverse diret­trici.

Piero Barucci si occupa della ricostruzione nel Mezzogiorno durante il ventennio 1943-1963 soffermandosi sull’evoluzione della struttura economica e sot­tolineando la grande capacità di generare mutamento dei feno­meni sociali. In particolare ana­lizza criticamente alcuni ‘nodi’ storici e storiografici, come la rottura della solidarietà nazio­nale nel 1947, la cosidetta legi­slatura ‘zoppa’ che ha la sanzio­ne elettorale del 1953 e i prodro­mi del centrosinistra tra il 1960 ed il 1963. Allo stesso modo, ri­percorre le tappe fondamentali dello sviluppo economico del Mezzogiorno soffermandosi sui grandi temi della ricostruzione postbellica, della riconversione industriale, sui tentativi — spes­so falliti — di programmazione economica per rinserire il paese

nel sistema economico mondia­le. Sul versante culturale, infi­ne, si sofferma sulla ripresa del dibattito democratico che costi­tuisce la prova tangibile del su­peramento dell’esperienza fa­scista.

Il contributo di Enzo Nocife­ra riguarda le trasformazioni che si sono verificate nella strati­ficazione sociale della società meridionale durante la crisi del secondo dopoguerra ed egli ne rintraccia le cause nel tipo di equilibrio sociale definito gene­ralmente latifondistico, eredita­to dal primo Novecento.

L’autore individua tre fasi ben distinte nello sviluppo dei rapporti sociali negli anni della ricostruzione: 1944-46, in cui la profonda crisi mette in mo­vimento tutti gli equilibri so­ciali e di cui è difficile definire le linee di tendenza; 1947-1949, in cui si ha un primo assesta­mento, determinato anche da un quadro politico più stabile, che permette una profonda chiarificazione dei rapporti tra le classi; 1950-1956, in cui si determina una stabilizzazione, in particolare appunto nel Mezzogiorno, che permette il consolidamento degli equilibri sociali complessivamente do­minanti fino ai primi anni set­tanta.

Giuseppe Acocella tratta nel suo saggio del ruolo della Cisl nel Mezzogiorno negli anni cinquanta, sottolineando come esso presenti aspetti e problemi specifici. L’autore afferma che nell’immediato dopoguerra l’a­zione della Cisl è rivolta da un lato a “dissodare un terreno con accentuate caratteristiche di lotte pre-sindacaii” e dall’al­tro ad affrontare i problemi di un drammatico passaggio da

un mondo rurale a uno di ra­pida industrializzazione, in un quadro generale di crescente diffidenza verso le istituzioni. Alla metà degli anni cinquan­ta, l’attività del sindacato è consistita principalmente nel contrastare i tentativi, portati avanti da alcuni partiti politici e da gruppi di interesse, di pri­vatizzazione dello Stato e delle sue strutture. Secondo Acocel­la, pur con le sue incertezze ed i suoi limiti di carattere princi­palmente contrattuale, la Cisl ha costituito la prima vera esperienza di organizzazione della classe lavoratrice meridio­nale.

Il saggio di Francesco Pi­gnatore è la testimonianza di un protagonista che ha vissuto una vicenda politica di rilievo sul piano regionale e nazio­nale.

La sua analisi della società siciliana dalla ricostruzione al milazzismo vuole dimostrare come l’esperimento autonomi­sta si consumi tra la fine degli anni quaranta e gli inizi degli anni sessanta. Tutto quello che viene dopo, a parere dell’autore, non è altro che il residuo dell’autonomismo così come è stato concepito, è nato e si è inverato nello Statuto del 1947.

In conclusione, il lavoro II Mezzogiorno nella Ricostru­zione è da considerarsi un contributo apprezzabile per le molteplicità e l’importanza dei temi affrontati, per la analisi e i dati inediti che offre talo­ra agli studiosi, e per la capa­cità di far emergere e valoriz­zare elementi storici di solito posti in ombra o poco cono­sciuti.

Maurizio Mandolini

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T e r e s a T o m a s e l l i ; Demografia e società in Campania tra le due guerre, Napoli, Guida, 1982, pp. 123, lire 7.500.

Il libro esce nella Collana dei “Quaderni dell’Istituto Campa­no per la storia della Resisten­za” ed è un’indagine rigorosa sulla realtà demografica della Campania durante il fascismo. Se ne avvertiva davvero il biso­gno, anche perché, come nota l’autrice, le indicazioni suggerite da Anna Treves (Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Tori­no, Einaudi, 1976) sono a lungo rimaste senza ulteriori riscontri.

L’analisi demografica confer­ma che tra le due guerre nel Mezzogiorno vi furono sensibili mutamenti, tutti riconducibili alla chiusura degli sbocchi mi­gratori, che aggravò e rese drammatica la sovrappopolazio­ne rurale. Vengono indagate l’entità e le caratteristiche di tale trasformazione, superando le non poche difficoltà metodolo­giche e di fonti che pone la ricer­ca quantitativa.

Il risultato è che, anche su questo versante, diventa sempre meno convincente l’immagine di un Mezzogiorno che per l’intero ventennio rimane immobile e isolato dai processi economici del paese.

Il libro si muove in un ambi­to regionale, coprendo l’arco temporale 1921-1936 attraverso le rilevazioni dei Censimenti Istat e i dati fomiti dal “Bol­lettino statistico” del Comune di Napoli. La dimensione re­gionale permette di seguire l’andamento demografico nelle diverse aree, urbane e agricole, della Campania, ma avrebbe, forse, richiesto una trattazione più organica, superando un

certo descrittivismo che talora si avverte.

Per Napoli è di indubbio inte­resse il confronto con i dati na­zionali su natalità, nuzialità e mortalità, che può essere letto come spia dei comportamenti sociali. Nel periodo esaminato permaneva alto il tasso di natali­tà, che seguiva un andamento diverso da quello dei centri in­dustriali del Nord, dove, come ha già osservato anni fa Massi­mo Livi Bacci, si avvertiva un calo delle nascite a partire dall’inizio del Novecento.

L’autrice tenta un rapporto tra il piano quantitativo e l’ambi­to emotivo, cercando di interpre­tare i dati alla luce della più o me­no diffusa conoscenza delle pra­tiche anticoncezionali, in rap­porto, cioè, a un elemento cultu­rale oltre che economico: “La problematica relativa al control­lo volontario delle nascite, infat­ti, è un filo rosso che attraversa in tutti i sensi il comportamento sessuale e la mentalità degli ita­liani, separando non solo il Sud dal Nord, ma anche le zone urba­ne dalle zone rurali, i quartieri proletari o sottoproletari dai quartieri borghesi” (p. 34).

L’analisi del movimento na­turale della popolazione sugge­risce quindi un insieme di nota­zioni sui comportamenti sociali, che restano, però, allo stadio di abbozzo. Il discorso si fa più ap­profondito, allorché si prendo­no in esame gli effetti del movi­mento migratorio. Napoli regi­strava un sensibile flusso immi­gratorio soprattutto a partire dal 1927, che era conseguenza del blocco dell’emigrazione transoceanica. Qualcosa di ana­logo dunque a quanto avveniva nelle città del Nord, ma anche di profondamente diverso.

Gli immigrati a Napoli trova­vano soltanto possibilità di lavo­ro precario e discontinuo, indot­te quasi sempre dalla politica di bonifica edilizia del regime. Nei centri industriali era invece pos­sibile l’occupazione in fabbrica, anche in conseguenza di un dif­fuso processo di dequalificazio­ne operaia.

Il movimento immigratorio si ebbe non soltanto nel capoluogo campano, ma anche a Salerno. Nel ricercarne le cause l’autrice si ricollega alla crisi delle cam­pagne, dove si avvertivano gli effetti della sovrappopolazione rurale. Diminuivano gli addetti nell’agricoltura, si modificava la ripartizione delle diverse figure agricole, calavano i braccianti e aumentavano i fittavoli. Tutto ciò implicava che il bracciante non si trasformasse in piccolo proprietario, ma in disoccupa­to, e premesse contemporanea­mente sul mercato del lavoro ur­bano e agricolo, essendogli pre­cluso lo sbocco migratorio.

La realtà delle campagne era d’altro canto differenziata, in quanto, come aveva già segnala­to Emilio Sereni, vi erano zone, quali la piana del Seie, in cui gli effetti delle bonifiche si avverti­vano anche sul piano demogra­fico. Qui infatti la popolazione, tra il 1921 e il 1931, crebbe del 36 per cento, mentre parallela- mente procedeva il continuo spopolamento dei paesi di mon­tagna.

I dati del censimento del 1936 mettono in rilievo l’inizio di una significativa controtendenza: nelle aree interne si registrava una ripresa dell’emigrazione, non più diretta all’estero, ma in mancanza di qualsiasi alternati­va allo sbocco migratorio, pro­babilmente verso i centri del

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triangolo industriale. Il fenome­no aveva comunque un’entità ri­dotta, che riusciva a incidere sulla condizione di crisi delle campagne.

Durante il fascismo mutò per­tanto l’assetto demografico del­la regione, ma le trasformazioni non ne favorirono il processo di modernizzazione, al contrario si accentuò il distacco con il Nord: “Ormai il divario tra le due zone del paese è incolmabile. L’anda­mento demografico della popo­lazione italiana, grazie all’ap­porto decisivo delle regioni cen­tro settentrionali, si avvicina sempre più a quello dei paesi in­dustrializzati d’Europa, il Meri­dione, come dimostra il caso della Campania, rimane escluso da questo processo evolutivo”(p. 80).

Questa conclusione appare importante proprio perché met­te in crisi un rapporto meccani­co tra trasformazione economi- co-sociale e modernizzazione, e permette di definire con chiarez­za che il principale esito delle tendenze demografiche fu la ri­costituzione nelle campagne me­ridionali di un ampio serbatoio di manodopera, che avrebbe fatto sentire il proprio peso nelle lotte contadine e nei movimenti migratori del dopoguerra.

Il libro si conclude con alcune osservazioni sulla politica demo­grafica del regime e dei suoi mo­delli culturali che la ispiravano. Quest’ultima parte andava sicu­ramente maggiormente amplia­ta, anche se non mancano intui­zioni interessanti, come, ad esempio, la sottolineatura del carattere fortemente repressivo proprio della politica assisten­ziale fascista che “tendeva a creare una discriminazione [...] tra bisognosi meritevoli e biso­

gnosi privi di qualifiche positive in quanto celibi e senza figli, senza tessera del Pnf, offrendo ai primi una possibilità di inseri­mento morale e materiale in un ambito sociale da cui la man­canza di lavoro tendeva ad escluderli” (p. 121).

Gloria Chianese

M a n l i o R o s s i - D o r i a : Scritti sul Mezzogiorno, Torino, Einaudi, 1982, pp. 297, lire 20.000.

Un confronto fra i diversi scritti redatti da M. Rossi-Doria dal 1960 al 1980 permette di co­gliere in pieno l’organicità della sua elaborazione meridionalista.

L’interesse è rivolto quasi esclusivamente alla realtà agri­cola del Sud, partendo, però, da una precisa premessa che viene più volte ripetuta. L’agricoltura non può costituire il settore trai­nante del Mezzogiorno, in quanto una moderna realtà eco­nomica richiede un equilibrato sviluppo agro-industriale, che a tutt’oggi resta lontano dall’esse­re conseguito.

In ciò si esplicita il profondo legame con quella che Barucci ha definito “la generazione del nuovo meridionalismo” e in particolare con le opzioni indu­strialiste di Pasquale Saraceno.

La raccolta permette di se­guire la scansione temporale con cui sono stati elaborati gli scritti, che sono di varia natu­ra: articoli di giornali, discorsi parlamentari, relazioni congres­suali ecc. Qualche ripetizione è inevitabile, ma c’è anche il vantaggio di leggere la diversità di accenti con cui il medesimo tema può essere affrontato in fasi successive, che riflettono,

magari, il mutato clima politi­co del paese.

L’emigrazione costituisce un nodo su cui l’autore torna ripe­tutamente per sottolinearne la positiva influenza esercitata sul­la contrazione della sovrappo­polazione meridionale. Laddove si è contratto o interrotto il flus­so migratorio, le condizioni del­la agricoltura si sono ulterior­mente aggravate perché è peg­giorato il rapporto tra risorse produttive e popolazione. È il caso del ventennio fascista, che l’autore ritiene il periodo più drammatico della storia recen­te del Mezzogiorno, essendosi combinati gli effetti negativi del­la sovrappopolazione rurale e le ripercussioni della caduta dei prezzi agricoli.

L’importanza del rapporto tra risorse produttive e popola­zione ritorna nella valutazione delle ondate migratorie del do­poguerra.

Le centinaia di migliaia di contadini emigrati nel triangolo industriale hanno costituito un male necessario e inevitabile in quanto nessun tipo di sviluppo agricolo, per quanto rapido e intenso, avrebbe potuto garan­tire un reddito sufficiente.

Il fenomeno ha però assunto dimensioni eccessive, che hanno reso nulli gli effetti positivi del calo di popolazione, facilitando il degrado dei paesi d’origine de­gli immigrati. In base a un’inda­gine effettuata nel 1978 dal Cen­tro di ricerche economico-agra- rie di Portici risulta infatti che, tra il 1951 e il 1971, gli emigranti sono stati quattro milioni e due­centomila, di cui il 63 per cen­to proveninente dal cosiddetto osso.

Il ragionamento è lineare. L’emigrazione può essere un be-

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ne, a condizione, però, che si ac­compagni alla crescita produtti­va, agricola e industriale, delle zone migratorie.

E c’è di più. È opportuno e utile che l’emigrazione continui, soprattutto in quelle aree inter­ne dove lo sviluppo economico locale tende a mantenersi molto contenuto.

All’interno del rapporto tra popolazione e risorse produttive sono collocati i problemi della struttura della proprietà fondia­ria e delle prospettive dell’agri­coltura meridionale. Pagine molto dense analizzano con mi­nuzia le caratteristiche delle di­verse aree agricole, indicando per ciascuna di esse alcune ipo­tesi di programmazione econo­mica, che, condividibili o meno, hanno il merito di essere esplici­tate con chiarezza.

Le aree tradizionali a cultura intensiva e quelle di recente bo­nifica hanno assicurato nel ven­tennio 1950-70 un altissimo li­vello di produttività, che ha contribuito a raddoppiare il va­lore della produzione agricola del Sud.

Questo forte incremento è, se­condo l’autore, un risultato lar­gamente positivo, ma che va let­to nel complessivo panorama dell’agricoltura meridionale, in cui gli elementi di modernizza­zione convivono con il perma­nente frazionamento della pro­prietà fondiaria e con l’assenza di un’efficace politica di pro­grammazione.

Lo sviluppo dell’agricoltura richiede un deciso intervento di razionalizzazione che favorisca l’aggiomamento delle tecniche di conduzione agricola e soprat­tutto promuova la formazione di ampie fasce di proprietà con­tadina medio-grande.

La strategia del programma­tore tende quindi a incidere su più piani: riduzione della popo­lazione attraverso un flusso mi­gratorio controllato e assistito, sostegno della proprietà conta­dina medio-grande, program­mazione degli indirizzi produtti­vi, forte e deciso intervento di sostegno statale.

Traspare una sorta di ‘ottimi­smo della volontà’, una fiducia costante nella possibilità di inci­dere sui problemi e le contraddi­zioni del Sud, che non viene me­no neppure di fronte ai critici bi­lanci della politica governativa di intervento straordinario.

L’autore riprende la distinzio­ne, fatta alcuni anni fa da Ora­ziani, tra una prima fase dell’in­tervento della Cassa del Mezzo­giorno, tesa a promuovere una politica di infrastrutture e di so­stegno all’agricoltura, e una se­conda, avviata intorno alla metà degli anni sessanta, in cui l’im­pegno prioritario fu rivolto all’industrializzazione.

Il giudizio è differenziato: po­sitivo verso i primi anni dell’in­tervento straordinario, critico verso i tentativi di sviluppo in­dustriale. L’ampia estensione delle zone bonificate e la vastità della rete di irrigazione sono in­fatti considerati due risultati che hanno profondamente influen­zato lo sviluppo produttivo del­l’agricoltura.

La politica di preindustrializ­zazione, però, “giusta all’inizio come la sola possibile con l’an­dare del tempo ha corrisposto sempre meno anche ai fini per i quali era stata inizialmente pro­posta” (p. 164).

Ritorna la premessa per cui l’agricoltura non può costituire il settore trainante dell’econo­mia meridionale. D’altro canto,

i tentativi d’industrializzazione del Mezzogiorno non hanno im­plicato la creazione di un orga­nico e vitale tessuto industriale formato da piccole, medie e grandi unità produttive.

Se il bilancio dell’intervento statale appare' problematico, quello della classe politica locale è senz’altro drastico: “L‘ostaco- lo principale è rappresentato da quelli (i locali, ndr) che essi chiamano i ‘pirucchi’, ossia l’at­tuale classe dirigente che ha il mestolo in mano nelle zone in­terne, come in tutto il Mezzo­giorno” (p. 106).

Su questo aspetto l’analisi si fa meno stringente perché è po­co esplicito il nesso tra il ruolo dello Stato, che si esplica attra­verso l’intervento della Cassa, e le persistenti fortune del ceto politico locale connesse alla ge­stione clientelare del potere.

Qualche perplessità induce anche il giudizio in merito ad alcuni aspetti delle realtà urba­ne del Mezzogiorno: “La cre­scita troppo rapida, il persi­stente prevalere degli impieghi precari e delle attività poco sta­bili sono all’origine del disordi­ne e del malcontento, ma pos­sono essere considerati inevita­bili fenomeni di transizione, ta­li da potere con il tempo essere superati e dar luogo a una so­cietà strutturata simile a quella di altre regioni sviluppate” (p. 23).

Riaffiora l’ottimismo del programmatore, che è contrad­detto, però, dalla perdurante crisi, politica ed economica, delle città meridionali al cui in­terno sono da collocare esiti come la camorra la ’ndranghe­ta e la mafia.

Gloria Chianese

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144 Rassegna bibliografica

C l a u d i a P e t r a c c o n e : Napoli moderna e contemporanea, Na­poli, Guida, 1981, pp. 152, lire 4.700.

La trattazione di uno spacca­to di storia moderna e contem­poranea di tanto spessore e den­sità tematica qual è quello di una città come Napoli, non è certo impresa facile; nell’affron- tare una periodizzazione di cosi vasti confini (siamo di fronte a uno sviluppo plurisecolare, che va dagli inizi del secolo XVI ai nostri giorni), ci si trova di ne­cessità a operare su di un terre­no particolarmente insidioso, esposti da un lato al rischio di una dispersione astratta ed elu­siva dei contenuti e dei processi reali, dall’altro alla tentazione di un’analisi sempre più detta­gliata, e perciò stesso suscettibi­le di esiti monumentali (e magari ponderosi), della cui opportuni­tà, allo stato attuale della pro­duzione storiografica, è franca­mente lecito dubitare.

Di tale pericolo l’autrice ap­pare sufficientemente consape­vole e avvertita, e a tale consa­pevolezza può ricondursi uno dei caratteri di maggior pregio di quest’opera, che si presenta come un agile e utile compendio delle più salienti vicende parte­nopee e allo stesso tempo come un testo problematico dal taglio accorto e misurato, volto a evi­tare qualuque concessione al­l’eclettismo manualistico o, quel che è peggio, a viete forme di lo­calismo e di bozzettismo dete­riori.

Un primo dato, questo facil­mente riscontrabile, nella scelta bibliografica, ricca e articolata sia sul piano generale sia su quello della scansione cronolo­gica, e che racchiude i contributi

più significativi più o meno re­centi, che nell’ambito sono an­dati costituendosi sull’argomen­to. Ne consegue altresì un inte­ressante tentativo di ridefinizio­ne della ricerca della storia citta­dina, colta attraverso il suo fon­damentale connotato di città ca­pitale, ripreso e sviluppato in passaggi specifici lungo l’arco della trattazione, nonché nel particolare rilievo che di volta in volta assumono aspetti tradizio­nalmente poco esperiti in ambi­to divulgativo, quali la crescita demografica, la struttura sociale e produttiva, gli assetti urbani e le condizioni ambientali, la to­pografia sociale ecc.

Sono questi gli elementi carat­terizzanti del discorso, che all’apparente scorrevolezza nar­rativa sottintende un preciso e robusto impianto sistematico, di modo che al dato informativo corrisponda sempre la sua collo­cazione in un contesto più am­pio e definito, il suo raccordo con fatti ed eventi di portata e dimensioni più generali.

Si veda, ad esempio, la situa­zione della struttura sociale di Napoli nei primi anni del secolo XVII (corredata da una oppor­tuna tabella di agile lettura), la sua incidenza sulle aree di nuo­vo sviluppo urbanistico, quale la zona di Chiaia e la configura­zione delle attività commerciali, assai rilevanti in rapporto all’ampiezza demografica, ma scarsamente omogenee sotto il profilo economico, legate co­m’erano a forme di commercio prevalentemente precario (car­bonai, venditori di ‘neve’ ecc.) e, ancor più indissolubilmente, alle esigenze dell’approvvigiona­mento cittadino. Ne emerge un quadro abbastanza variegato di occasioni lucrative, in cui le fi­

gure del piccolo artigiano indi- pendente e del commerciante al dettaglio appaiono come le più diffuse ed esemplari, in assenza di un’autonoma vitalità del­l’economia, carente di elementi realmente produttivi piuttosto che di quelli parassitari e non in grado di garantire un vero e pro­prio decollo del settore.

Le pagine dedicate alla capi­tale, nel fitto intreccio di inte­ressi politici, economici, cultu­rali che la caratterizzano, offro­no una chiave di lettura più este­sa e attendibile del ruolo da essa esercitato nel corso della storia del Mezzogiorno.

L’opera ci sembra stimolante e aggiornata anche dal punto di vista metodologico, che in que­sto caso non dà spazio a nuove voci e protagonismi, ma piutto­sto si giova dell’intelligente ri­formulazione del dato storio­grafico mediante l’utilizzo di al­cuni tra gli strumenti di indagine e di analisi di più recente acqui­sizione per lo storico. Ciò è rile­vabile ad esempio nei capitoli conclusivi, dove tra l’altro l’au­trice fa esplicito riferimento a fattori profondamente incidenti sulla realtà napoletana, dal­l’economia del vicolo allo sche­ma interpretativo di Gemein- schaft (comunità) e Gesellschaft (società) mutuato da P. Allum (Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Torino, Einaudi, 1979) e da F. Tònnies (Comuni­tà e società, Milano, Comunità, 1979) e dove si avvale degli ap­porti ormai consolidati di scien­ze affini quali la sociologia, l’antropologia ecc.

Un ultimo ma non secondario punto di riferimento per la valu­tazione in positivo di questo la­voro riguarda infine il rilievo tutto particolare attribuito al­

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l’evento catastrofico, che tanta parte ha nella storia di Napoli, oggi come ieri: la peste del 1656, la carestia del 1764, il co­lera del 1836-37 e ancora del 1884 non rispondono alla logi­ca di un attualismo a tutti i co­sti, bensì costituiscono il nec­cessario spunto di riflessione su uno degli elementi più emble­matici e peculiari del caso Na­poli, dove troppo spesso le va­riabili della storia, nella persi­stenza di malesseri endemici e di inadeguate risposte, assumo­no le dimensioni di fenomeni di lunga, lunghissima durata.

Mirella Colpo

R o s a A n n a G e n o v e s e , Archeo­logia industriale in Campania alla fine del X IX secolo, in “Re­stauro” luglio-dicembre 1982, n. 61, 62, 63.

Dopo la sociologia, l’antro­pologia, la statistica, l’urbanisti­ca un’altra scienza — ultima so­lo per data di nascita ma non certo per il suo valore (intrinse­co ed estrinseco) — viene recu­perata al patrimonio culturale per comprendere, nei suoi mol­teplici aspetti, la storia di un po­polo, di uno Stato, di una regio­ne, di una città, l’archeologia industriale.

Negli anni sessanta del nostro secolo Inghilterra, Svezia, Fran­cia, Germania si sono preoccu­pate di individuare gli antichi in­sediamenti industriali e, dove è stato possibile, destinarli a usi sociali preservandone tuttavia le caratteristiche significative per il loro valore storico. Il discorso è stato obiettivamente più diffici­le da affrontarsi per l’Italia; in­fatti, solo nel 1978 è stata fon­

data l’Associazione italiana per l’archeologia industriale e allo stesso periodo risale l’interesse per la nuova scienza di riviste come “Restauro” , “Ricerche di storia dell’Arte” mentre un pe­riodico specifico, “Archeologia industriale” , è stato fondato so­lo nel 1983.

Studi teorici fanno compren­dere che una ricerca di archeolo­gia industriale sull’Italia preuni­taria deve limitarsi agli ambienti regionali, o comunque ristretti, perché la diversità dei governi, il differente sviluppo socioecono­mico, una topografia non omo­genea ostacolano quella visione d ’insieme, che è possibile — e anche allora con molte difficol­tà — solo dopo l’Unità.

È questo uno dei tanti aspetti evidenziati in questi saggi con l’intento di recuperare “la cono­scenza storica e materiale del­l’oggetto della conservazione” di un patrimonio industriale di cui è possibile ritrovare le trac­ce, nonostante le alterazioni che esso ha subito, a partire dalla metà del XIX secolo. Un’altera­zione o trasformazione che si è curata poco di conservare agli immobili almeno le loro caratte­ristiche originarie, cosa pure possibile se pensiamo alla riuti­lizzazione che, per esempio, in Inghilterra è stata fatta di tutta la zona marittima dei docks, zo­na che rimane ancora oggi a te­stimoniare un passato industria­le di rilievo nella vita del Regno Unito.

Il discorso sull’Inghilterra non è casuale, non solo perché patria della rivoluzione indu­striale, ma perché dimostra co­me un governo possa, se vuole, restituire alla città, alla regione, un patrimonio inalienabile, an­che se modificato e destinato a

tutt’altra attività. In Italia que­sto è avvenuto molto di rado, nel Mezzogiorno mai; ma alla Genovese non interessa, almeno per ora, battere questo tasto, ma una polemica latente sembra sottesa a tutto il suo discorso.

Il problema che invece si pone prioritariamente è l’individua­zione delle attività industriali in Campania e la collocazione del­le fabbriche sul territorio regio­nale. Ciò rende indispensabile una riflessione, sia pure rapidis­sima, ma non superficiale, sulla storia dell’industria in Europa e sui condizionamenti posti al suo sviluppo dell’ambiente rurale, dalla topografia dei luoghi, dal­la presenza di vie di comunica­zione marittime, fluviali, terre­stri.

La stessa linea metodologica è seguita in un rapido excursus sullo sviluppo che l’industria ha avuto in Campania dall’arrivo a Napoli di Carlo di Borbone alla disfatta di Francesco I e poi all’Unità, e alla fine del secolo.

Si pone l’accento sul carattere prettamente agricolo della vita economica del Regno delle Due Sicilie e sulla presenza di un’at­tività manifatturiera di scarsa entità, volta alla confezione di cordami, cappelli, porcellane, quei manufatti, cioè che l’autri­ce raggruppa sotto l’etichetta di ‘industria minore’.

Solo con il governo di Giusep­pe Bonaparte e di Gioacchino Murat prima e di Ferdinando II di Borbone poi, sembra che il Regno abbia accettato la ‘sfida industriale’ e il governo abbia scelto una politica conseguente, basata sul protezionismo di gruppi monopolistici, finanziati dal capitale straniero, soprattut­to inglese e svizzero. Ciò rende comprensibile il perché di tanti

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insediamenti industriali stranie­ri, che occupavano un conside­revole numero di operai, dislo­cati principalmente nell’Avelli- nese-Beneventano, nel circonda­rio di Salerno e sulla direttrice Napoli-Salerno-Sora, le tre zone in cui più agevoli erano i tra­sporti, effettuati soprattutto per via marittima o fluviale data la scarsità o la mancanza di vie ter­restri praticabili. Sono databili a quel periodo le prime industrie metallurgiche, ferroviarie, lo sfruttamento delle acque terma­li, la trasformazione dell’indu­stria alimentare, spesso preesi­stente, l’insediamento di fabbri­che d’armi. Vengono individua­ti quindi dodici tipi di industria: da quella pesante a quelle mi­nori.

L’Unità non ha alterato il quadro industriale campano, ma ha messo in evidenza, il di­vario fra un Nord già fortemen­te industrializzato e un Sud che ne costituisce il suo più vicino mercato. Di ciò si rende conto il governo Nitti e il fenomeno vie­ne evidenziato dall’inchiesta Sa- redo, ma il tentativo di risolvere il problema risultò del tutto ina­deguato: non bastava infatti un blando protezionismo a far de­collare l’industria meridionale; così, nel 1904, la situazione si presenta identica a quella di quarant’anni prima.

Il saggio offre una panorami­ca sul patrimonio industriale esi­stente in Campania alla fine del XIX secolo, un patrimonio la cui entità è illustrata in una serie di tabelle di utile e facile consul­tazione. E proprio in questo va, a mio avviso, ravvisato il primo pregio di questo lavoro — ma pregevole è certamente lo sforzo profuso nel ricavare tutti i dati di cui è ricco il saggio —; il se­

condo è costituito dalla conside­revole bibliografia che è parte integrante del testo, divisa per argomento, e ognuno di questi per area geografica: Europa, Italia, Mezzogiorno d’Italia, in modo da rendere agevole la con­sultazione; il terzo — e certa­mente non ultimo — pregio va individuato nel fatto che il lavo­ro risponde in modo appropria­to alle esigenze di chi voglia af­frontare un impegno di ricerca non solo sull’industria campa­na, ma relativo alla storia urba­na o regionale di cui la dimen­sione industriale non può essere ignorata per l’incidenza che essa ha avuto nel XIX e nel XX seco­lo sugli aspetti sociali, economi­ci, politici e culturali e che pro­prio l’archeologia industriale cerca di restituirci.

Gianfranco De Simone

G i u s e p p e C a p o b i a n c o , Le ten­denze del primo socialismo in Terra di Lavoro (1900-1925). Antonio Indaco e il sindacali­smo rivoluzionario, Giugliano, Cooperativa Editrice Sintesi, 1983, pp. 127, lire 10.000.

Il primo socialismo in Cam­pania si richiamava, prevalente­mente, alle posizioni del sinda­calismo rivoluzionario e su quest’ultimo è calata una vera e propria congiura del silenzio, quasi una rimozione, di quel complesso di esperienze e di lot­te dal generale patrimonio del socialismo.

In realtà, secondo Capobian­co, le ragioni di ciò vanno cerca­te in una sovrapposizione del giudizio politico al giudizio sto­rico; infatti le massicce campa­gne denigratrici della Seconda e

della Terza Internazionale han­no fatto terra bruciata, riuscen­do ancora oggi a frenare la ricer­ca storiografica.

La biografia di Antonio Inda­co ben si presta all’intento dell’autore di smuovere l’indif­ferenza degli studiosi per questa intensa stagione di fondazione per il movimento socialista del Meridione.

L’autore attraverso un’accor­ta lettura dei giornali socialisti e sindacali a cui Indaco collabora- va, ma anche delle fonti di ar­chivio, fa intravedere la realtà politica italiana dell’età giolit- tiana e del primo dopoguerra, da un’angolatura ben diversa e significativa. Infatti, da una provincia meridionale appena sotto il Garigliano, l’Italia mo­deratamente liberale di Giolitti appare ben meno liberale di quanto ci saremmo potuto aspettare.

Viene piuttosto in mente il cli­ma politico di fine secolo, con l’apparato dello Stato tutto schierato a difesa della borghe­sia, sospettoso e ostile verso le classi subalterne.

Franco Barbagallo, nella pre­fazione, mette in evidenza la re­lazione tra questa situazione e l’influenza del sindacalismo ri­voluzionario in Campania e in Puglia; non deve quindi meravi­gliare la scarsa attenzione dei so­cialisti meridionali per i proble­mi dello Stato.

Inoltre in Terra di Lavoro alTinizio del secolo, le princi­pali attività industriali (dell’ar­te bianca, della carta e tessili) apparivano in netto declino tecnologico e di mercato e ciò non restò senza conseguenze sulla mentalità e le strutture del nascente movimento ope­raio.

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Certe vicende del socialismo e del movimento sindacale campano ben traspaiono dalla biografia di Antonio Indaco. Una rara figura di dirigente politico e sindacale in cui si ri­trovano tratti comuni a tanti socialisti dell’epoca: l’estrazio­ne sociale, la professione di avvocato, ma anche l’attività instancabile e disinteressata, una discreta intelligenza politi­ca, un’attenta percezione della lotta di classe in atto, una scelta di vita a favore del pro­letariato, a dir poco, eroica per le condizioni di isolamen­to, di incomprensione, di per­secuzione cui si andava incon­tro nello stesso ambiente fami­liare: è ancora un ragazzo e in prefettura c’è una scheda che lo dà per sovversivo, sfaccen­dato, figlio ingrato.

Nel suo linguaggio c’è sem­pre un po’ di quella retorica misticheggiante, massonica-ri- sorgimentale, del socialismo di allora, ma l’influenza del sin­dacalismo sulla sulla formazio­ne gli farà privilegiare, per la lotta di classe, il terreno dei rapporti di produzione, e ne farà uno dei più convinti e riu­scito organizzatore di coopera­tive e di leghe operaie. Non per questo, però, il suo impe­gno nel partito socialista fu meno costruttivo ed efficace nel dopoguerra, quando le scissioni si aggravarono — e nella sua provincia risultavano piuttosto frutto di personalismi e manovre elettorali — Indaco si dichiarò di tendenza unita­ria.

Tuttavia egli non coglie il ruolo dello Stato e non sa va­lutare il pericolo del fenomeno fascista, perché è un convinto sostenitore dell’inutilità delle

rivoluzioni violente, esclusiva- mente politiche, opera di una minoranza. La vera rivoluzio­ne poteva essere fatta dalle masse lavoratrici una volta che10 scontro di classe fosse stato sviluppato sul piano economi­co attraverso l’attività sindaca­le e lo sciopero generale.

Lucidamente, già nel 1920, criticava il velleitarismo rivolu­zionario che su tutte le piazze predicava — senza poi mai praticarla o prepararla — la conquista violenta del potere. Indaco accusa questo sociali­smo parolaio di avere inutil­mente spaventato la borghesia, costringendola alla reazione ar­mata; una borghesia che egli, come tanta parte della sinistra italiana, erroneamente credeva allo stremo e rassegnata, per­ché uscita indebolita dalla guerra.

Questo grave e diffuso erro­re di valutazione evidenzia la scarsa conoscenza dei nuovi rapporti che si erano instaurati tra lo Stato e l’economia.

Verrebbe da porsi ulteriori domande: per esempio, qual è11 retroterra culturale di questi socialisti? In che rapporto stanno con le tendenze più vi­ve della cultura del primo No­vecento?

Ma il taglio biografico scelto dall’autore elude questi inter­rogativi.

Biagio Passaro

F u l v i o M a z z a , M a r i a T o l o ­

n e , Fausto Gullo, Cosenza, Pellegrino Editore, 1982, pp. 236, lire 15.000.

Due giovani studiosi calabre­si, vivaci e impegnati, ci hanno dato questa intensa biografia

politica, non agiografica né ‘localistica’ di Fausto Gullo, il ‘ministro dei contadini’ negli anni dell’immediato dopoguer­ra, figura di spicco in quel­l’esperienza di governo che vi­de i comunisti, e la sinistra, dentro ai sommovimenti e alle tensioni della società civile da un lato, e i difficili equilibri del potere politico dall’altro.

Se poco spazio è dedicato nel libro al Gullo uomo, avvo­cato ed egli stesso proprietario terriero, assai nitida risulta in­vece la ricostruzione del ‘per­corso’ del militante comunista e dell’esponente politico. La provenienza socialista, l’ade­sione al bordighismo e l’appar­tenenza all’area della sinistra radicale fino alla ‘messa in ri­ga’ da parte degli ordinovisti, riemergono costantemente e scandiscono il dissenso di Gul­lo, la sua avversione, nei con­fronti dei passaggi salienti del­la evoluzione della linea del Pei dal dopoguerra e fino al compromesso storico. Così le sue prese di posizione in occa­sione del rapporto Kruscev, dell’invasione dell’Ungheria, o rispetto ai rapporti con i catto­lici, all’analisi e all’interpreta­zione del rapporto Nord-Sud, del centro sinistra, e ancora di fronte alla tentata conquista del Quirinale da parte di Fan- fani, nonché nelle battaglie ga­rantiste e libertarie tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta, costituiscono al­trettante circostanze in cui egli si schiera contro le posizioni ufficiali del partito in una de­nuncia fervida dei cedimenti e degli opportunismi. E se può addirittura apparire ovvio che per questa strada si giunga al­fine all’emarginazione e alla li­

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quidazione politica dello scomo­do personaggio, eppure è pro­prio questa irriducibilità, questo radicalismo che intende e tende a farsi progetto, la cifra proba­bilmente più autentica e signifi­cativa anche del Gullo investito di responsabilità politiche pub­bliche ai più alti livelli. Tra il 1944 ed il 1947 egli lega il suo nome a una serie di provvedi­menti — i decreti che da lui prendono appunto nome — de­stinati a incidere profondamen­te nella realtà sociale ed econo­mica calabrese: interventi mini­steriali dall’alto e lotte per la ter­ra conoscono, con modalità e sequenze destinate a non più ri­petersi, un intreccio e una com­penetrazione singolari ed effica­ci, esempio e prefigurazione di una ‘mediazione’ tra periferia e centro, tra spinta oppositiva e governo, cultura della lotta e ra­gione politica, che opera nel senso di un rapporto almeno non antagonista, se non facili­tante, tra masse e potere.

Bene pertanto hanno fatto Mazza e Tolone a illuminare con particolare evidenza tutto ciò, a ricordare e rievocare l’im­pegno strenuo di Gullo sul pia­no pratico, non meno della sua lucidità nelle analisi. E, alla luce di quel che si è visto poi, si può forse dissentire dal suo convin­cimento ripetutamente espresso, che il Mezzogiorno non di stan­ziamenti assistenziali avesse bi­sogno, bensì di “una classe poli­tica intenzionata a rovesciare i rapporti di classe e dunque a modificare i motivi ispiratori su cui informare un programma di ristrutturazione socio-economi­ca e politica generale”? O anche che l’intera società nazionale potesse rinnovarsi solo attraver­so una serie di riforme che “si

concretizzano nel quadro di nuove strutture istituzionali orientate al perseguimento degli interessi delle classi popolari e quindi della stragrande maggio­ranza della collettività”?

Un messaggio del genere resta a nostro avviso del tutto attuale ed emblematica, pertanto, la fi­gura del suo propugnatore, campione di un ceto politico lo­cale su cui è più che mai urgente fare convergere, in maniera si­stematica, studi e riflessioni in una prospettiva scientifica e po­litica di più ampio respiro.

Guido D’Agostino

M i c h e l e M a n c i n o , Lotte con­tadine in Basilicata, prefazione di Tommaso Pedio, Casalvelino Scalo, Galzerano, 1983, pp. 285, lire 12.000.

Utile contributo alla com­prensione delle vicende delle lot­te contadine degli anni quaranta e al ruolo del Pei, questo volu­me di un dirigente dei braccianti della Basilicata, e bracciante egli stesso, a metà strada tra la me­morialistica storica e il genere ormai sperimentato dell’auto­biografia comunista. Il libro — in cui ogni cenno autobiografico rimanda a un più generale con­testo — prende le mosse dal maggio 1928, col trasferimento dell’autore dal carcere di Regina Coeli al carcere di Perugia e si snoda fino al grande sciopero bracciantile del febbraio 1946. Della vicenda carceraria sono ri­cordate soprattutto la straordi­naria Università — diretta, a Vi­terbo, da Emilio Sereni e Velio Spano — e l’intenso dibattito fra i comunisti sull’espulsione di Trockij dal Pcus.

Ma il nucleo decisivo attorno a cui ruota il libro, sono le vi­cende dell’organizzazione del partito e delle lotte agrarie a Po­tenza e in provincia a partire dal settembre 1943. Qui a parlare è il fondatore del Pei in Basilicata e, allo stesso tempo, l’organiz­zatore del movimento nelle cam­pagne. Un ampio flash-back narra delle prime vicende del Pei con Mancino che, nel 1924, co­stituisce — d’accordo con Bor- diga — la federazione comuni­sta lucana a Genzano, federa­zione che nel 1927 avrebbe avu­to nove iscritti.

Poi, finalmente, la liberazio­ne del Sud, che apre nuove e straordinarie possibilità di cam­biamento. E rincontro con To­gliatti — che a Salerno guida la ricostruzione del partito e ne detta la linea — del 2 maggio 1944: rivivono nella descrizione di Mancino secoli di miseria e di oppressione contadina, mentre Togliatti, attento, ascoltava e prendeva appunti. Infine, il 21 maggio, il congresso costitutivo del Pei a Potenza.

E poi ad Acerenza, a Melfi, a Logonegro, a Venosa per co­struire le cooperative agricole e organizzare i contadini in attesa che i decreti Gullo (luglio 1944) dessero un indirizzo all’antica fame di terra delle popolazioni del Meridione, e l’attività frene­tica e le discussioni con i compa­gni e i contadini e i tentativi di mediocri quadri intellettuali di estrazione medio borghese di impossessarsi del partito.

E ancora un incontro con To­gliatti nel settembre 1944 e con Giuseppe Di Vittorio e Ruggero Grieco (che Mancino conosceva dalla conferenza meridionale del Pei del settembre 1926) e la ricerca della soluzione del com-

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plesso problema di come lega­re l’iniziativa del partito ai nuovi orientamenti delle masse decise a metter fine con la lot­ta al regime del latifondo, fra i problemi dell’ammasso del grano e i labirinti giuridici dei decreti sulle terre incolte e dei contratti agrari.

Francesco M. Biscione

P i n o A r l a c c h i , La mafia im­prenditrice. L ’etica mafioso e lo spirito del capitalismo, Bolo­gna, Il Mulino, 1983, pp. 247, li­re 8.000.

Gli studi di Pino Arlacchi sul sistema di potere della mafia so­no da diversi anni fra i contribu­ti più rilevanti per lo studio del fenomeno e costituiscono anche il punto più alto della consape­volezza civile e democratica, tanto da essere stati utilizzati co­me base analitico-categoriale anche nella formulazione della legge La Torre.

Quest’ultimo volume, brillan­te e ampiamente documentato e che lascia intravedere un appro­fondimento per approssimazio­ni successive sempre più organi­co, si pone come prima sintesi sia del lavoro del dipartimento di sociologia dell’università di Cosenza che di un più vasto in­sieme di ricerche recenti e tende a ricostruire — utilizzando le ca­tegorie della sociologia classica weberiana e schumpeteriana — il quadro di riferimento della più recente fase dello sviluppo del potere mafioso, quello che viene appunto definito della ma­fia imprenditrice.

L’idea centrale attorno alla quale ruota il saggio è che ra s ­setto tradizionale del potere del­

la mafia (basato, per intenderci, sul senso dell’onore e sulla fun­zione di mediazione sociale), dopo un periodo di latenza negli anni Cinquanta e Sessanta, si è ristabilito su basi notevolmente diverse, accentrate attorno a un modello di imprenditorialità che, seppur dotato di caratteri­stiche peculiari, ricalca sostan­zialmente lo schema classico deH’imprenditoria disegnato da Joseph Schumpeter (Capitali­smo, socialismo, democrazia, Milano, Comunità, 1973).

Lo sviluppo economico, l’au­mento della ricchezza e il declino dei valori sociali tradizionali, nel dopoguerra, vennero a determi­nare una crisi di legittimità del potere mafioso tradizionale alla quale questo rispose con una “stupefacente mutazione cultu­rale” consistente, in estrema sin­tesi, nel collegamento di attività illecite (il gigantesco business del traffico dell’eroina, ad esempio) con attività industriali, segnate anch’esse da un particolare ‘sti­le’ imprenditoriale in cui — se­condo Arlacchi — l’uso della violenza viene ad essere un ele­mento per alcuni versi innovati­vo (schumpeteriano); lo scorag­giamento della concorrenza, la compressione salariale e la gran­de disponibilità di risorse finan­ziarie vengono così ad alimenta­re una nuova fase del potere ma­fioso, modificando radicalmen­te il rapporto tradizionale tra mafia e capitale e tra mafia, po­teri locali e Stato. “Il rapporto tra grande impresa e mafia si in­staura negli anni settanta su un piano produttivo piuttosto che estorsivo” e “il sovrapprezzo pa­gato dallo Stato costituisce una rendita di posizione usufruita (...) sia da gruppi mafiosi che da grandi imprese” (p. 127).

L’enorme ricchezza del potere mafioso ha determinato altresì — fatto nuovo rispetto alla tra­dizione — una sua elevata ‘auto­nomia politica’ e un’integrazio­ne non subalterna negli apparati dello Stato. Alla base di questa integrazione vi è l’alleanza con la grande impresa legata agli appal­ti pubblici e quella “tra i gruppi mafiosi finanziariamente più forti e alcuni settori del capitale finanziario nazionale e intema­zionale” (p. 196). Ne deriva una nuova e smisurata capacità espansiva del sistema di potere della mafia e una sua integrazio­ne quasi indifferenziata nel mec­canismo economico-politico sta­tuale.

Se la ricostruzione che Arlac­chi fa del potere mafioso è com­plessivamente convincente, essa pone alcuni interrogativi ancora inevasi che, oltre ad aprire nuo­vi ambiti di ricerca sul tema, co­stituiscono un banco di prova decisivo per lo stesso futuro del­la Repubblica: quale frazione costituisce ad esempio, il capita­le mafioso rispetto all’insieme dell’attività economica naziona­le? Fino a che punto è possibile rinvenire, oggi, uno spartiacque tra capitalismo mafioso e capi­talismo ‘sano’? Quanto deve la diminuita capacità rappresenta­tiva degli enti locali su tutto il territorio nazionale all’estender- si deH’imprenditoria mafiosa? È ancora corretto considerare le zone tradizionalmente mafiose (Calabria meridionale e Sicilia orientale) come base del consen­so di massa al sistema di potere della mafia o non si deve piutto­sto ricercare attraverso quali ca­nali e nuove strutture passa l’al­largamento di detto potere? E ancora, in che misura il proble­ma del capitale mafioso riguar­

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da prevalentemente il Mezzo­giorno e non, invece, l’intera nazione e lo Stato? Fino a che punto — se si tratta anche di trasformare e non solo di com­prendere — la soluzione del pro­blema della mafia è una questio­ne di polizia e non implica piut­tosto una rivoluzione democra­tica? E infine, quali strategie per battere la mafia?

Francesco M. Biscione

Cultura

Editori a Firenze nel secondo Ottocento, Atti del convegno (13-15 dicembre 1981). Gabinet­to scientifico letterario G.P. Vieussieux, a cura di Ilaria Por- ciani, prefazione di Giovanni Spadolini, Firenze, Olschki, 1983, pp. XIV-522, sip.

Conclusa la stagione d’oro dell’editoria ‘politica’, legata al­la temperie risorgimentale e all’attrazione esercitata dalla ‘li­berale’ Firenze granducale su in­tellettuali e tipografi anche stra­nieri, le case editrici fiorentine, nel decennio successivo all’Uni­tà, sembrano appagarsi del go­dimento di una rendita di posi­zione considerata inesauribile. Manca il coraggio di lanciare scrittori e generi nuovi, prevale una logica angustamente com­merciale che fa perno sui profit­ti sicuri delle edizioni scolastiche e sovvenzionate. Un radicato sentimento di superiorità, offe­so dall’altrui impudente intra­prendenza, detta le querimonie sulla spudoratezza degli editori torinesi che, approfittando del vantaggio di operare nella capi­tale, si accaparrano il mercato scolastico elementare nazionale

con una produzione fabbricata ‘a vapore’ ma anche tempestiva­mente adeguata alle mutevoli di­rettive ministeriali.

Il ritiro dell’immigrato fran­cese Le Monnier sembra prelu­dere alla fine di un’epoca, a cui succede il grigiore di un gruppo di notabili esponenti del mode­ratismo fiorentino, alla cui ‘po­litica editoriale’ è dedicato un informato e acuto saggio di Co­simo Ceccuti. Non molto dopo scompariva dalla scena anche l’altro grande protagonista dell’editoria risorgimentale, Ga- spero Barbèra (di cui traccia un efficace profilo Cesare Vasoli), malamente sostituito dai figli, scarsamente provvisti delle doti di carattere paterne. Con gli ere­di di Barbèra si affacci anche il malevezzo, tipico di una edito­ria a corto di idee, di imitare i confratelli più intraprendenti e di inserirsi negli spazi proficua­mente sfruttati dai centri nazio­nali più modernamente attrezza­ti. La collana delle “Opere di amena lettura” , che avrebbe do­vuto sostituire la “Collezione Diamante” , in progressivo esau­rimento dopo la defezione di Carducci (come c’informa Gino Teliini), si rivela ben presto un esperimento avventuroso e fi­nanziariamente fallimentare.

La vocazione degli editori fio­rentini è sempre orientata verso i profitti sicuri dello scolastico (di cui si occupa in particolare Marino Raicich con la consueta competenza ma forse, qui, an­che con una punta d ’indulgenza verso la città di adozione) e fi­nalmente il trasferimento della capitale nel 1865 ribalta la situa­zione di privilegio dei torinesi e consente la rivincita sui disprez­zati concorrenti subalpini, che si vedono strappare il primato del

mercato più esteso e redditizio, quello dei testi per le scuole ele­mentari e delle letture educative. Ancora una volta, però, la con­giuntura favorevole non viene adeguatamente sfruttata, perché l’editoria scolastica fiorentina non coglie l’occasione per rin­novarsi e attrezzarsi: confida esclusivamente nella collaudata tradizione pedagogica dei Lam- bruschini e dei Thouar e si limi­ta a esorcizzare i problemi del momento opponendo alle nuvo­le minacciose addensate dalla Comune di Parigi la pervicace fede nelle solide virtù contadine, fra cui primeggia il risparmio, oculatamente, e disinteressata­mente amministrato da banchie­ri filantropi. Così finisce malin­conicamente negli anni ottanta per perdere il primato.

Emerge tuttavia nello stesso tempo un editore nuovo, avver­tito estimatore dell’importanza di collegarsi con il mondo acca­demico e intenzionato a rinver­dire il tradizionale culto dei clas­sici e la loro funzione formativa. Egli affida la direzione della sua “Biblioteca scolastica dei classi­ci italiani” a Giosuè Carducci, che ne fa il campo di applicazio­ne di un metodo caratterizzato dalla continuità del filone uma­nistico, in contrapposizione con l’arcigna filologia torinese. La “Carducciana” (a cui è dedicato un appassionato saggio di Ser­gio Romagnoli) continuerà a lungo a rappresentare un punto di riferimento per la formazione dei docenti e per la scuola in ge­nerale, guadagnandosi una fa­ma meritata (tanto da rendere possibile una riproposta abba­stanza recente) per la affidabili­tà dei testi e la ricchezza delle note linguistiche che la inseri­scono in un filone vitale della

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cultura fiorentina che conta per­sonalità come Vitelli, Compa- retti, Barbi e Pasquali.

Tuttavia, nonostante la dina­mica presenza di Sansoni e l’im­mutato prestigio culturale di una città che aspira a fregiarsi del titolo di Atene d’Italia, per­siste l’incapacità di esprimere un’imprenditorialità editoriale meno diffidente verso il nuovo, soprattutto nel campo scientifi­co (come dimostra il saggio di Giovanni Landucci) e svincolata dalla tradizione del moderati­smo cattolico pressoché impe­rante nel settore pedagogico e divulgativo.

Perfino un editore ‘popolare’ come Salani, a cui è dedicata la relazione di Emilio Faccioli (che integra una rassegna di Enrico Ghidetti sulla fortuna fiorentina del genere ‘misteri’), esordisce su posizioni apertamente san fe­diste, per orientarsi in seguito nella direzione di una “profitte­vole ambiguità ideologica” , vol­ta si direbbe, ad adeguarsi più ai gusti della piccola borghesia e del pubblico femminile, anche nella veste tipografica, che non al mondo popolare. Manca in questo convegno un saggio dedi­cato all’altro grande editore ‘popolare’, Nerbini, ricordato solo incidentalmente, ed è un’esclusione inesplicabile, dal momento che si è trovato lo spa­zio per occuparsi ampiamente del versante opposto dell’edito­ria fiorentina rivolto verso il cir­cuito internazionale dei bibliofi­li, esemplarmente rappresentato da Olschki (su cui scrive Cristina Tagliaferri), attivo a Firenze a partire dall’ultimo scorcio del secolo scorso, proprio come Nerbini. Lo stupore cresce con la constatazione che i promoto­ri avevano sottomano un esper­

to dell’argomento, Gianfranco Tortorelli, uno dei curatori della mostra allestita in concomitanza con il convegno, autore di un ar­ticolo sull’editore fiorentino pubblicato nel numero mono­grafico di “Movimento operaio e socialista” (Cultura e editoria socialista, 1980, nn. 2-3).

La crisi degli anni ottanta, lucidamente illustrata soprat­tutto nei saggi di Cosimo Cec- cuti e di Marino Raicich già ci­tati, si trascina sino alla fine del secolo, collegata verosimilmen­te con il divorzio fra cultura e industria tipico della società fiorentina. Successivamente i grossi editori cittadini, imitan­do in questo i loro confratelli settentrionali, rifiutano di farsi portavoce degli irrequieti espo­nenti fiorentini della cultura del primo Novecento, che si tra­sformano perciò in operatori a ciclo completo collegando sen­za intermediar produzione e consumo culturale.

È questo, insieme all’esordio dell’editore Vallecchi, l’ultimo argomento trattato nel conve­gno. Se ne occupano Giorgio Luti, in forma di introduzione, e, più dettagliatamente, Carlo Simonetti, che ha attinto a quel­la ricchissima fonte per la storia del Novecento letterario che è costituita dall’Archivio Papini, conservato presso la Fondazio­ne Primo Conti di Fiesole. An­cora una volta, come nel Risor­gimento, l’editoria fiorentina trovava uno spazio peculiare in cui imporsi aderendo all’attuali­tà attraverso l’aggiornamento di una nobile tradizione artigiana, esemplarmente incarnata dalla personalità di Attilio Vallecchi, e il rilancio di una funzione del­la letteratura, che, secondo la classificazione proposta da Gio­

vanni Ragone nel secondo volu­me della Letteratura italiana di­retta da Asor Rosa (Torino, Ei­naudi, 1983, pp. 687, sgg.), po­tremmo chiamare di ‘riconosci­mento’. Infatti la nuova casa editrice inaugurava la sua pro­duzione pubblicando le memo­rie della grande guerra (di Sof­fici, Michele Campana, Falchi e Nicastro) e continuava in se­guito, finché durò la sua stagio­ne migliore, a fregiarsi del van­to di una ‘italianità’ perseguita attraverso la consacrazione e la scoperta di talenti letterari no­strani.

Con questa stimolante incur­sione al di là del confine crono­logico ottocentesco si concludo­no gli atti di un convegno che ha offerto una apprezzabile ric­chezza di prospettive, lasciando a desiderare solo per quanto concerne l’aspetto economico e organizzativo dell’editoria. Chiudono, invece, il volume tre saggi, preceduti da un’introdu­zione, firmata collettivamente, dei tre curatori della mostra già ricordata e del relativo catalogo (Luigi Mascilli Migliorini, Ilaria Porciani e Gianfranco Torto­relli).

Agli autori dei contributi che sono stati citati nel corso della recensione, semplicemente se­guendo il filo di un discorso, vanno aggiunti per completez­za, ultimi ma non minori: Luigi Firpo, che si è assunto il com­pito di fornire un raccordo con il rinnovamento dell’editoria italiana nella prima metà dell’Ottocento, Rosaria Di Lo­reto D’Alfonso, che illustra le carte Barbèra conservate presso la Biblioteca nazionale di Firen­ze, Dario Frezza, con una rela­zione sul self-helpismo e pater­nalismo dello stesso Barbèra,

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Ferdinando Tempesti sull’arte della illustrazione e Antonio La Penna sul contributo degli edi­tori fiorentini alla diffusione della cultura classica.

Enzo Ronconi

S i m o n a G i u s t i , Una casa editri­ce negli anni del fascismo. La Nuova Italia (1926-1943), Firen­ze, Olschki, 1983, pp. 219, lire 20 . 000 .

Sulle nuove tendenze della storia dell’editoria italiana e sui più recenti contributi che negli ultimi anni sono diventati più cospicui e interessanti, converrà tornare in modo più ampio in altra sede, ma è doveroso segna­lare che il volume della Giusti non giunge inatteso e anzi si col­loca in un panorama di studi in cui, anche se ancora mancano molti tasselli, si possono intra­vedere i primi consistenti con­torni di questa affascinante sto­ria.

Merito della Giusti è, a nostro avviso, non solo quello di averci dato in cinque densi capitoli la storia di una delle più importan­ti case editrici italiane, seguendo il percorso accidentato, ma di non aver smarrito il giusto equi­librio tra “una visione puramen­te ‘tecnica’ del percorso edito­riale” , che ancora di recente ha eccessivamente pesato su alcuni studi dedicati all’editoria fioren­tina (cfr. ad esempio C. Simo- netti, L ’editoria fiorentina dal 1920 al 1940. Proposte per una ricerca, in “Ricerche storiche” , 1982; e l’introduzione del Simo- netti a Le edizioni della “Voce”, Firenze, La Nuova Italia, 1981), e i contenuti dell’attività edito­riale in anni in cui “il fattore

culturale appare ancora preva­lente rispetto all’industriale e dove i mezzi e i metodi di produ­zione sono più limitati e comun­que diversi da quelli che caratte­rizzano il settore nel dopoguer­ra” (p. 5). Se la Giusti non trala­scia di seguire i primi passi della casa editrice e gli aiuti dell’Ente nazionale di cultura di Firenze, analizzati con particolare atten­zione nel secondo capitolo, rie­sce anche a inquadrarli in un movimento più vasto che ha co­me centro l’analisi delle collane, la forza della personalità di mol­ti collaboratori, l’ampliarsi dal 1940 degli interessi e delle inizia­tive editoriali. Ne risulta cosi chiarita fin dalle prime battute l’importanza che negli anni trenta ebbe l’idealismo gentilia- no e la presenza costante della lezione del filosofo non solo sul­la formazione di alcuni collabo­ratori più giovani, ma su tutta l’impostazione dell’attività edi­toriale. Luigi Russo parla, in una lettera inviata a Gentile, “dell’indirizzo di severa cul­tura” de la Nuova Italia e della volontà della casa editrice fio­rentina di caratterizzarsi fin dai suoi esordi attraverso un pro­gramma di ampi studi che avrebbero trovato la loro collo­cazione nelle collane “Storici antichi e moderni” e “Maestri d ’azione” nonché nel proporre, quasi a stabilire già il divario tra le dimensioni artigianali e la consistenza del programma, nel 1928 l’opera completa, poi rea­lizzata da Treves, di Giovanni Gentile.

Del resto l’importanza della cultura idealistica si fece via via più consistente con la pubblica­zione degli scritti di Bertrando Spaventa e dell’importante la­voro di Russo su Francesco De

Sanctis e la cultura napoletana dove veniva rivendicato e difeso l’idealismo meridionale, unica matrice culturale per l’Italia uni­ta, e soprattutto veniva messa in luce la funzione di educatore del pensatore napoletano. La lezio­ne gentiliana trovò un appoggio decisivo e originale nella atten­zione che Ernesto Codignola de­dicherà ad alcune della temati­che preferite da Gentile. Se tut­tavia è vero, come sostiene la Giusti, che il 1930 diventa nella biografia di Codignola un mo­mento di svolta che si rifletterà su tutta la casa editrice fiorenti­na consentendole non solo di ci­mentarsi con la produzione di una editoria elitaria, ma facen­dosi distributrice e strumento qualificante dell’opera culturale svolta dall’Ente (p. 53), sarebbe stato anche giusto sottolineare come proprio dal 1930 Codigno­la ha la possibilità di battersi concretamente per le sue idee e spingere in avanti il rapporto che lo legava alle tematiche gen- tiliane soltanto in parte concre­tizzate durante la sua lunga col­laborazione alla casa editrice Vallecchi (p. 65). La concezione della libertà e della religione, la polemica contro la scuola positi­vista entreranno nella elabora­zione di Codignola allargandosi a una visione globale della cul­tura, quasi che egli presentisse gli attacchi che sarebbero stati portati da alcuni settori del par­tito fascista e della cultura cat­tolica. La difesa della laicità e il richiamo all’idealismo fu d’altra parte sostenuto sia da “Civiltà Moderna” , il cui lavoro prose­guiva sulla scia di “Levana” ma in un contesto appesantito dal clima postconcordatario, sia da “La Nuova Italia” , la rivista di­retta da Russo che riprendeva

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molti spunti dell’esaurito “Leo­nardo” . Se la partita contro gli ‘strapaesani’ e i ‘selvaggi’ fu aspra ma relativamente breve con il richiamo all’idealismo co­me elemento caratterizzante nel­la storia italiana del Novecento, ben più complessa fu la batta­glia combattuta da “Civiltà Mo­derna” contro le posizioni neo­tomiste e contro tutte quelle am­biguità “quei cedimenti quelle confusioni concettuali che ave­vano portato molta acqua al mulino dei cattolici, ed avevano fatto confluire nelle loro schiere nomi noti del mondo filosofico italiano e non pochi tra positivi­sti e idealisti” (p. 83).

Sono questi tratti, oltre natu­ralmente alla presenza di nomi come Mondolfo, Petrini, Gaeta­no De Sanctis, a costituire un fi­lo diretto con “La Nuova Italia” dove la presenza di Russo darà alla rivista un legame più pro­fondo e duraturo con la casa editrice costituendo un’impron­ta del tutto personale per molte rubriche. Il richiamo al rigore scientifico e alla tradizione uma­nistica nonché il forte anticleri­calismo che accomunava Russo a Omodeo e ad altri collabora­tori divenne una nota costante nella rubrica Noterelle e scher­maglie dove lo spirito polemico di Russo riprendeva con più in­sistenza il discorso culturale in­terrotto da “Leonardo” legando in modo personale, tanto da at­tirare le dure lamentele di Genti­le, la parte scientifica della rivi­sta alle pagine di informazione critica.

A questo proposito pensiamo che “La Nuova Italia” merite­rebbe uno studio particolare non solo per documentare, co­me giustamente sottolinea la Giusti, lo stato d’animo di alcu­

ni intellettuali italiani negli anni trenta “sospesi tra il rischio di un isolamento accademico e la difficoltà di svolgere opera di ef­fettiva militanza culturale” (p. 118), ma anche per seguire gli sviluppi nel dopoguerra di alcu­ne idee-forza che si coagularono ed ebbero come punto di riferi­mento intellettuali unici e irripe­tibili per carattere e percorso in­tellettuale.

Gli ultimi due capitoli del vo­lume, dedicati all’analisi della collana “Educatori antichi e moderni” avviata nel 1926 e al decennio 1930-1940 “in cui la casa editrice lega il proprio no­me ad una produzione di vasto respiro” , costituiscono quasi una riprova della ricerca della Giusti: il tentativo di verificare come molte delle idee e dei con­tatti sviluppati negli anni prece­denti trovino in questo periodo la forza di caratterizzare la poli­tica editoriale della casa editrice anche nel dopoguerra. Non v’è dubbio che nella collana “Edu­catori antichi e moderni” si ri­specchiarono non solo le scelte di Codignola ma di tutto l’idea­lismo che affidava alla pedago­gia un ruolo “non limitato ad una semplice ricostruzione di quanto a livello speculativo il pensiero moderno aveva elabo­rato sul piano pedagogico, ma tradotto in una ricerca di prece­denti — talvolta di giustificazio­ni — ideologici e teorici per la pedagogia idealistica” (p. 128). I concetti di libertà, di autorità, il rapporto fra autonomia e legge saranno sempre al centro delle scelte degli autori pubblicati, si pensi a Rousseau, a Lambru- schini, “che appariva agli ideali­sti artefice di un tentativo di su­peramento dell’occasione ‘natu­ralistica’ di libertà in favore di

una sintesi dialettica tra autono­mia e legge” (p. 129), ai Pensieri sull’educazione di Gino Cappo­ni, agli scritti di Cuoco e Mazzi­ni, ma soprattutto a figure come Froebel e Pestalozzi le cui dot­trine si svilupparono “nel tiroci­nio didattico, nell’esperienza vissuta di maestro” (p. 132) co­stituendo un campo particolar­mente presente nelle collane del secondo dopoguerra.

La volontà comunque di non rinchiudersi del dibattito cultu­rale italiano e di ricercare nella cultura europea importanti pun­ti di riferimento, costituì una costante de La Nuova Italia.

Nel 1930 iniziano i “Docu­menti di storia italiana” e dal 1932 vengono pubblicati i lavori di Fueter, Zeller, Rostevzev, Church, Cassire e Jaeger: alcuni autori che dimostrano l’impe­gno della casa editrice fiorentina nello scuotere il grigio panora­ma culturale italiano. È in que­sta ottica, opportunamente sot­tolineata dalla Giusti, che deve essere letto il dibattito intorno alla fortuna di Hegel in Italia e alla pubblicazione dei due volu­mi della Fenomenologia, delle Lezioni sulla filosofia dello Spi­rito e delle Lezioni sulla storia della filosofia che dimostrano ancora una volta come l’hegeli- smo in Italia non sia mai stato una manifestazione puramente accademica, ma si sia saldato a fasi e momenti particolari della nostra storia culturale (pp. 158- 159).

Il 1940 porta il lettore a ri­dosso di scelte che non saranno soltanto editoriali, ma vedran­no tanti collaboratori impe­gnarsi sempre più attivamente nella lotta di resistenza al fasci­smo.

Gianfranco Tortorelli

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B r i g i t t e B . F i s c h e r , Ciò che la vita mi ha dato. Memorie di un editore europeo, Milano, Mur­sia, 1982, pp. 304, lire 20.000.

La pubblicazione di questo li­bro va accolta con interesse, perché consente di decifrare un tratto della storia dell’editoria e soprattutto di gettare uno sguar­do a ciò che avveniva nel corso degli ultimi decenni in Germa­nia.

Figlia del grande editore Sa­muel Fischer, Brigitte ha tra­scorso tutta la sua esistenza a stretto contatto con la vita della casa editrice, dapprima all’om­bra del padre e della madre e in seguito, dal 1932, prendendo le stessa con il marito Gottfried Bermann le redini delle varie at­tività editoriali. Nel volume, tuttavia, Brigitte Fischer ha pre­ferito far parlare più i suoi diari pieni di dediche, di poesie, di lettere dei più importanti colla­boratori, che tracciare un bilan­cio puntuale della attività della casa editrice in Germania e della sua grande influenza su tutta la cultura europea. Anche i rap­porti della Fischer con quest’ul- tima sono come velati dalla im­portanza dei protagonisti tanto che il lettore, a nostro avviso, anziché lasciarsi trasportare dal racconto, deve pazientemente cercare tra le righe le difficoltà che accompagnano i primi passi dell’autrice. La madre era il cuore della casa editrice e “la sua influenza, il suo fascino per­sonale possono richiamare alla mente quelli delle donne celebri del periodo romantico, che co­stituirono per lei un esempio, un modello vivente” , ma allo stesso tempo “dedicava assai poco del suo tempo ai suoi figli” . Che crescessero bene “era per lei

qualcosa di naturale, di ovvio, su cui non era necessario spen­dere molti pensieri” , tanto non solo da non coltivare nella figlia alcuna particolare inclinazio­ne, ma non prendendo neanche troppo sul serio i tentativi di Brigitte di seguire con più inte­resse, dopo aver compiuto corsi di grafica, alcuni settori della at­tività editoriale. Il padre, che aveva fondato la casa editrice al­la fine dell’Ottocento fu per la figlia un esempio costante di ‘la­boriosità’ non disgiunta da una esatta e realistica visione dei problemi. Nel quarantesimo an­niversario della fondazione della casa editrice, Samuel Fischer seppe magistralmente coniugare i vari elementi che a suo avviso erano indispensabili per dare stabilità alla vita editoriale: la consapevolezza che la casa edi­trice “è un’azienda, un organi­smo economico come qualsiasi altro” e che dovesse basarsi su una schiera di collaboratori di grande prestigio. Se si scorre il volume di Brigitte Fischer si può constatare come i due elementi rimasero sempre dei punti fermi che consentirono l’allestimento delle opere complete dei più importanti scrittori tedeschi, aprendo allo stesso tempo alla casa editrice la possibilità di me­diare con culture e storie diver­se. Già nei primi anni di attività la Fischer traduceva opere di Tolstoj, Zola, Dostoevskij e dei fratelli Goncourt assicurandosi la collaborazione di Ibsen, che pubblicò in quasi tutte le sue opere.

Il vero e definitivo salto di qualità lo compì tuttavia a Vien­na, dove “un tocco di grazia au­striaca” doveva penetrare e con­servarsi per sempre: a Bang, Nansen, Bjòrnson, Kejserling,

si affiancarono autori come Bah, Altenberg, Salten e soprat­tutto Arthur Schnitzler e Hugo von Hofmannsthal. Si può dire che tutta la grande cultura mit­teleuropea si raccolse attorno a questa casa editrice formando un punto di riferimento di indi­scutibile prestigio per una vasta schiera di scrittori più giovani come Joachim Mass, Joseph Roth. Ernst Toller, Erwin Pi- scator.

Thomas Mann, di cui la Fi­scher ha poi curato l’opera com­pleta, rimase vicino alla casa editrice anche quando la cata­strofe del nazismo di abbatté prima sulla Germania e poi sull’intera Europa costringendo l’editore a emigrare in Svezia, in Inghilterra e infine negli Stati Uniti, dove tuttavia pur tra in­numerevoli difficoltà continue­rà a tenere le fila tra gli autori perseguitati e a intrecciare nuo­ve collaborazioni tra i più im­portanti scrittori americani.

Ma la casa, editrice berlinese non ha avuto soltanto questi meriti; nel secondo dopoguerra, una volta ritornata in Germa­nia, ha cercato di ampliare il suo contatto con il pubblico intro­ducendo nelle sue collane i ta­scabili e offrendo così alla divul­gazione quel patrimonio im­menso accumulato in tanti anni di solida attività editoriale.

Gianfranco Tortorelli

Cinquantanni di un editore. Le edizioni Einaudi negli anni 1933-1983, Torino, Einaudi, 1983, pp. 845, lire 10.000.

In questi ultimi anni gli studi sull’editoria o sulla storia della stampa hanno avuto un grande

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sviluppo, in seguito a una vivace ripresa di interesse verso quella storia delle idee e della cultura tanto contestata un quindicen­nio fa. In questo filone si inseri­scono sia i numerosi convegni sulle vicende dell’editoria in aree e periodi circoscritti, sia ini­ziative promozionali per presen­tare collane od opere di partico­lare prestigio, sia i numerosi ca­taloghi generali delle grandi case editrici, pubblicati con partico­lare frequenza negli ultimi due anni.

Il catalogo dell’editore Einau­di documenta un cinquantennio di attività attraverso un indice alfabetico degli autori e dei cu­ratori delle singole opere, un elenco delle collane (con una brevissima anche troppo breve scheda illustrativa), un indice per argomenti e uno per titoli, con le indicazioni bibliografiche essenziali (curatori, prefatori, traduttori, eventuali illustrazio­ni, numero delle pagine, nume­ro delle edizioni ecc.).

Nella prima parte il volume presenta una iconografia che il­lustra, attraverso una bella serie di fotografie, i momenti più si­gnificativi della casa editrice: dalle sue diverse sedi, ai docu­menti d’archivio, ai carteggi, al­le copertine della varie collane, alle immagini dei collaboratori più noti. Brevi didascalie, non prive di trionfalismo, aiutano a ricostruire la storia delle iniziati­ve editoriali, dai primi prestigio­si periodici, quali “La riforma sociale” , “La rivista di storia economica” o “La cultura” alla scelta innovatrice e stimolante di tradurre, negli anni del fasci­smo gli scrittori anglosassoni per iniziativa di redattori quali Pavese, Ginzburg o Pintor. Ne­gli anni fervidi del dopoguerra

le iniziative si moltiplicarono aprendo il mondo un po’ pro­vinciale della cultura italiana ai grandi stimoli della esperienza europea: basta ricordare di que­sto periodo “Il Politecnico” di Vittorini: la scuola delle “Anna­les” con la traduzione delle ope­re di Bloch, Febvre, Lefebvre e Braudel, e l’inizio della collana storica in cui sarebbero uscite le opere di Federico Chabod e Franco Venturi per limitarci al campo della storia. Non possia­mo tuttavia dimenticare che in quegli anni uscivano per i tipi della casa editrice torinese le opere di Montale, Gadda e Sa­ba, e nel campo delle letture straniere uscivano le traduzioni di Sartre, Brecht o Simone de Beauvoir, espressione di un im­pegno culturale e politico che proseguiva l’opera iniziata con la pubblicazione della letteratu­ra della Resistenza. Nell’ultimo decennio anche come l’Einaudi si lanciava, con esito economi­camente problematico, della ini­ziativa delle ‘grandi opere’ con la Storia d ’Italia del 1972, VEn­ciclopedia, la Storia dell’arte e più recentemente la Storia della letteratura italiana.

Tuttavia l’indubbia utilità di questo catalogo non è sufficien­te per ricostruire il profilo di una casa editrice che come l’Ei­naudi è espressione dell’intelli­genza vivace ed estrosa, degli in­teressi multiformi del suo fon­datore, ma anche dei molti col- laboratori che nel corso degli anni si sono succeduti e che han­no contribuito a modificare pro­fondamente le scelte e la politica editoriale.

L’assenza di un saggio intro­duttivo, che avrebbe potuto ri­prendere le fila di un discorso già ampiamente ricostruito per il

Rassegna bibliografica

primo periodo di attività della casa editrice (Gabriele Turi, / limiti del consenso: le origini della casa editrice Einaudi, in Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, Il Muli­no, 1980, pp. 193-378) fa solo intuire al lettore non esperto dei segreti del mondo editoria­le l’importanza e la novità di certe scelte di politica editoria­le, il ruolo dei vari direttori di collana o dei comitati scientifi­ci, o infine le cause e la gravi­tà della crisi che la casa editri­ce sta attraversando.

Nanda Torcellan

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M a r i a D e l S a p i o , M a r i n a V i ­

t a l e , Stampa e cultura popolare in Inghilterra nel primo Otto­cento, Roma, Officina, 1982, pp. 317, lire 15.000.

Ancora pochi anni fa in Italia gli studi sulla stampa e sull’edi­toria erano rivolti prevalente­mente al panorama del nostro paese o, se prendevano in consi­derazione la situazione delle al­tre nazioni europee, si sofferma­vano maggiormente sulle più re­centi innovazioni tecnologiche tralasciando di affrontare il pe­riodo in cui in Inghilterra, Ger­mania, Francia la stampa aveva contribuito ad evidenziare le lot­te politiche e sociali ed era en­trata potentemente nella strate­gia di quei ceti borghesi che era­no passati a poco a poco “dal­l’affermazione della loro auto­nomia di giudizio culturale e morale all’esigenza di autode­terminazione e infine all’eserci­zio del potere politico, secondo una gradualità che aveva proce­duto dal possesso di qualità umane nella sfera privata a

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quella delle qualità civili nella sfera pubblica” (p. 12).

Le cause di questo ritardo o, per meglio dire, di questa scarsa attenzione a ciò che, in partico­lare nell’Ottocento, era avvenu­to in altri paesi non possono es­sere soltanto imputate alla man­canza di curiosità dei ricercato­ri, quanto piuttosto alla man­canza in Italia di centri propulsi­vi in questo settore e alla impos­sibilità di coordinare le ricerche sul piano nazionale. Studi di questo genere infatti presuppon­gono la conoscenza della lettera­tura straniera e soprattutto lun­ghi soggiorni per le ricerche. Proprio per questi motivi è da segnalare il volume della Del Sa­pio e della Vitale inserito nella collana “Cultura e Società” di­retta da Fernando Ferrara e Ri­chard Hoggart in cui sono già apparsi stimolanti lavori dello stesso Floggart e di Raymond Williams. Le due autrici metto­no a frutto le indicazioni meto­dologiche di Williams e si con­frontano con la migliore ricerca anglosassone, ottenendo un ri­sultato che può benissimo essere preso come punto di riferimento anche per gli studi nel nostro paese: soltanto il titolo, posto probabilmente dall’editore, svia un poco il lettore poiché non di stampa e di cultura popolare in generale si tratta, ma più preci­samente della stampa politica, della battaglia di libelli politici che infuriò in Inghilterra prima e dopo il massacro di Peterloo (pp. 8 e 23).

La suddivisione del volume in due parti consente alle autrici di legare con originalità l’analisi del testo, dove la Del Sapio for­nisce un’approfondita ricerca delle forme del linguaggio e del­le sue variazioni, al panorama

politico e sociale del primo Ot­tocento in Inghilterra sottraen­do così la ricerca alla sola analisi interna dei libelli e legandola non soltanto alla stampa radica­le, sulla quale tuttavia sono scritte le pagine più stimolanti, ma anche al contraltare conser­vatore e a quelle forme di asso­ciazionismo come l’Association for Preserving Liberty and Pro­perty, against Republicans and Levellers la cui influenza non si fermò alla ‘maggioranza silen­ziosa’, che nel primo Ottocento inglese vide schierare al proprio fianco agguerrite organizzazioni militanti, ma finì per coinvolge­re la stessa strategia della stam­pa radicale costretta, nella man­canza di un’ampia base cultura­le, a doversi misurare e sfruttare anche con queste iniziative mo­deste e tendenziose (p. 206).

Dalle pagine della Vitale la frattura fra Sette e Ottocento ri­sulta più netta e precisa inve­stendo il passaggio da una socie­tà ancora rurale a una società in larga misura urbana e industria­le che imponeva alle forze politi­che “una ridefinizione del ruolo delle masse popolari nella for­mazione degli equilibri egemo­nici” (p. 12). Lo stesso concetto di popolo subisce una trasfor­mazione collegandosi da una parte aH’influenza del pensiero radicale, dall’altra subendo i tempi e i modi della cultura do­minante. Non è un caso, e le au­trici lo stottolineano in modo molto marcato auspicando giu­stamente studi più approfonditi, che “la classe lavoratrice più di una volta, e in specie quando il comportamento pubblico scon­finava nella sfera dei convinci­menti morali e nelle regole indi­scusse della convivenza civile, fosse catturata all’interno di

questa area di comportamento finendo per accreditare l’imma­gine positiva di se stessa” (p. 118). Le discriminanti fra popo­lo degno, perché decoroso, e popolo indegno diventavano, secondo le autrici, “i termini di una rappresentazione moralisti­ca” che andava ben al di là della “infrazione delle regole del ‘buon vivere’” (p. 118). In altri termini, anche se non vi fu ap­piattimento del pensiero popo­lare sulle regole della nascente borghesia, esse furono tenute costantemente presenti per con­trapporsi e dare una immagine positiva della propria quotidia­nità. Gli esempi portati dalla Del Sapio sulla inclinazione al bere e all’ubriacarsi, sull’impor­tanza dell’unità della classe, sul­la irreprensibilità dell’organiz­zazione (pp. 118, 176, 177, 180) dimostrano, a questo proposito, quanto ancora ci sia da scavare in questa direzione.

L’intersecazione di vari livelli di lettura porta Del Sapio e Vi­tale ad analizzare con grande ac­curatezza alcuni dei libelli politi­ci più conosciuti in quegli anni, riservando una attenzione parti­colare à The politicai house that Jack built scritto e illustrato da Hone e Gruikshank. L’abilità di Gruikshank (sul quale è stato pubblicato nel 1977 l’importan­te studio di Wardraper, The ca­ricatures o f George Gruik­shank) fu di non appiattirsi sem­plicemente sul testo, ma di evi­denziare in modo autonomo te­mi e problemi della critica radi­cale battendo tuttavia, come del resto fece Hone, più sulla de­nuncia che sulle questioni pro­positive. Questa vaghezza per­mise non soltanto di rivolgersi a un pubblico assai più vasto di quello appartenente alle orga­

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nizzazioni radicali, “ma fu an­che la condizione essenziale dell’impegno degli stessi elabo­ratori in una operazione di so­stegno delle rivendicazioni dei diritti conculcati del popolo” (p. 169).

Gianfranco Tortorelli

C a m i l l e P i s s a r r o , Grafica anarchica, a cura di Benito Rec- ch ilongo , R om a, Is titu to dell’Enciclopedia italiana, 1981, pp. IX-152, lire 4.000.

Il saggio di Benito Recchilon- go sull’opera grafica di uno dei più noti esponenti dell’impres­sionismo, può senza dubbio aiutare gli storici a decifrare il nesso tra i lavori di Pissarro e la sua formazione ideologica. Un nesso non preso in conside­razione, o facilmente accanto­nato dagli studi precedenti, che Recchilongo mette al centro della sua analisi inserita, nei due capitoli finali, in un rapido affresco sulle vicende degli im­pressionisti, sulla influenza dei grandi maestri come Corot e Courbet e sulla concezione estetica pissarriana.

Recchilongo ha il merito di aver rintracciato, senza mai for­zare i risultati della sua indagi­ne, quel robusto filone anarchi­co della ideologia pissarriana che la critica aveva sottaciuto considerandolo piuttosto come la manifestazione di un’indole generosamente umanitaria. Le qualità specifiche della pittura pissarriana; l’osservazione at­tenta della vita circostante, la sobria poesia del paesaggio, la delicata sensibilità coloristica, davano l’impressione di trovarsi di fronte a un pittore “che aderi­sce totalmente al mondo entro il

quale si è calato, e in forma così trasparente da non giustificare neppure l’ipotesi che possa esi­stere nella sua psicologia e nella sua cultura una tensione poli­tica” .

Alcuni degli episodi minori dell’opera pissarriana diventano così indirizzi rivelatori di una componente intellettuale che agisce in forma mediata anche nelle opere maggiori permetten­do di sviluppare e risolvere due questioni ritenute fondamentali da Recchilongo: 1. accertare se l’ideologia anarchica diventa una componente attiva nella concezione estetica pissarriana “per capire fino a qual punto, almeno sul piano teorico, essere anarchico significasse per lui an­che concepire in modo diverso il proprio lavoro” ; 2. chiedersi “se non esistono canali più indiretti e sottili attraverso i quali si pos­sa attuare una osmosi tra l’ideo­logia politica e l’opera pittorica, senza che ciò comporti una de­terminazione esplicita dei temi” . Bisogna subito aggiungere che per Recchilongo si può parlare di temi anarchici solo per i dise­gni delle Turpitudes Sociales, un album destinato non al pubbli­co, ma alle due nipoti Alice ed Esther Isaacson e ora posseduto dalla collezione Skira di Gine­vra. Questa serie omogenea di disegni accompagnata da brevi e incisive didascalie del pittore proprio per la particolare desti­nazione (illustrare alle due bam­bine le ‘turpitudini’ della società capitalistica lungo il filo di alcu­ni temi fondamentali) mette me­glio in evidenza l’ideologia di Pissarro.

L’intento del pittore risulta subito chiaro nel concentrare l’attenzione delle due nipoti non tanto sugli aspetti marginali del­

la vita cittadina (e già la focaliz- zazione della città risulta impor­tante da parte di un pittore co­me Pissarro che abitualmente preferiva ritrarre la vita dei cam­pi), quanto su luoghi e istituzio­ni deputati al traffico di denaro e allo strozzinaggio.

Le tempie du veau d ’or, con la folla dei neri cilindri brulican­te lungo la scalinata, Les Bour- sicotières, dove la matita di Pis­sarro sembra aver voluto con­centrare tutta la sua ironia e il disprezzo sul viso delle comari a colloquio, Le suicide du bour­sier e soprattutto Enterrement du cardinal qui avait fait voeu de pauvreté, dove la sepoltura del rappresentante di Cristo è raffigurata attraverso il lusso della parata e la folla delle gran­di occasioni sono sicuramente i disegni più riusciti in cui viene messa in pratica la lezione di Corot e soprattutto di Courbet.

Un’ironia amara e composta appare anche nella tavola So­phie Grande chez le Commissai­re, dove la piccola bambina sfruttata e vilipesa trova nelle istituzioni non un’amorevole protezione, ma l’arresto per va­gabondaggio. Pissarro aggiun­ge, nella didascalia che accom­pagna il disegno, che tra i due mondi separati semplicemente da una scrivania, non vi è possi­bilità di comunicazione tanto le istituzioni sono impregnate di brutale o paternalistica repres­sione.

Il disegno pissarriano diventa meno felice solo nelle tavole in cui l’ideologia vi appare allo sta­to grezzo “senza trovare solu­zioni grafiche capaci di tradurla in un proprio linguaggio” . In Le Capital e in Le veau d ’or i due soggetti diventano simboli codi­ficati attenenti a tutta la tradi­

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zione socialista e anarchica di quegli anni. La mano del pitto­re, attenta sempre a seguire la propria visione delle cose, sem­bra quasi aver dimenticato que­sta sua caratteristica per fare spazio a un messaggio più im­mediatamente politico. Il con­trasto tra i capitalisti e i proleta­ri è qui posto in primo piano at­traverso la semplificazione dei due mondi che venendo in con­tatto esaltano le loro differenze.

Non bisogna dimenticare co­munque che spesso Pissarro mentre per rappresentare il ceto dominante definisce assai bene la nozione e la tipologia del bor­ghese capitalista, per rappresen­tare i ceti a esso antagonisti si ri­ferisce alla categoria del proleta­riato più che a quella dell’ope­raio, derivando da questa visio­ne un’attenzione agli aspetti più diversi dell’ingiustizia sociale.

Nella collaborazione al nume­ro speciale dedicato nel 1893 dal giornale “La Piume” all’anar­chia, Recchilongo nota come il tratto di Pissarro si distingua ri­spetto ai disegni di altri collabo­ratori “per la sobrietà realisti­ca e l’assenza d’ogni richiamo esplicito all’ideologia anarchi­ca” . Pissarro si va convincendo che egli come pittore può offrire un contributo alla causa anar­chica “senza abbandonare i temi e il linguaggio a lui più conge­niali”, come in parte aveva fatto nelle Turpitudes Sociales. Il se­gno polemico e caricaturale o drammatico e patetico, a volte presente nei disegni precedenti, diventa un tratto pacato e rifles­sivo “attento a cogliere il gesto nella sua naturalezza, e non ad esasperarlo” . Pissarro è forse giunto a capire la forza e la grandezza della sua pittura che ha in sé la capacità, ritraendo la

semplice realtà circostante, di accogliere la forza del messaggio ideologico. Debardeus, il dise­gno in prima pagina del giornale “La Piume” , ma anche Semeur copertina del volume di Kropot­kin Les temple nouveaux come le litografie Les trimardeus e Le labour segnano un ritorno ai te­rni più congeniali di Pissarro: la tranquilla vita di campagna e il lavoro duro e onesto degli scari­catori dove i gesti dei soggetti ri­tratti sembrano possedere una forza irriducibile.

Gianfranco Tortorelli

“Brescia Nuova” 1898. Ristam­pa anastatica del settimanale del Partito socialista di Brescia, a cura di Gianni Quaresimini, Umberto Gatti, Gianfranco Porta, Brescia, Sintesi Editrice, s.d., sip.

È istintivo guardare alla pro­duzione editoriale stampata in occasione degli anniversari con un moto di legittimo sospetto. La moda dei centenari ci ha in­fatti abituati a manipolazioni, autogratificazioni e autocele­brazioni che, spesso, inquinano un corretto criterio di lettura del passato.

Del resto, se si pensa al recen­te centenario garibaldino, non sembra fuori luogo parlare di una sorta di ‘lottizzazione’ della memoria storica che ha conta­giato enti, partiti e associazioni di vario genere.

In questa sorta di sagra del cattivo gusto esce valorizzata una iniziativa come quella pro­mossa dall’Assessorato alla cul­tura del Comune di Brescia che ha patrocinato la ristampa ana­statica di ventinove numeri di

“Brescia Nuova” , settimanale della Federazione bresciana del partito socialista, che uscì dal 1896 al 1922. Certo, la quantità dei numeri ristampati è esigua rispetto al periodo di vita del giornale.

Tuttavia la scelta del periodo, il 1898, appare assai felice. Giacché furono proprio gli av­venimenti accaduti in quello scorcio di tempo che avrebbero finito per accelerare i tempi di una chiarificazione che avrebbe condotto, all’inizio del secolo, alla partecipazione socialista nella amministrazione cittadina al fianco degli zanardelliani.

A conferma di una scelta op­portuna resta poi la scrupolosa nota filologica di Gianfranco Porta che di “Brescia Nuova” fornisce gli elementi tipografici e biografici per l’intero arco del­la sua durata.

Si tratta dunque non solo di un contributo che precede, co­me sottolineano i curatori, una organica ricostruzione del so­cialismo bresciano. Ma anche di un esempio di come, ad onta di retoriche manie celebrative, la ricorrenza degli anniversari possa talvolta essere produttiva per la ricerca storica.

Stefano Pivato

“Storia contemporanea”, otto­bre 1983, n. 4 /5 , pp. 390, lire 15.000.

Sotto il titolo Intellettuali e politica tra le due guerre, questo fascicolo della rivista diretta da Renzo De Felice delinea alcuni percorsi di lettura del rapporto tra intellettuali e fascismo, at­traverso l’esame di figure a di­verso titolo rappresentative: da

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Sergio Panunzio — la cui elabo­razione giuridica, analizzata da Susanna De Angelis (pp. 695- 732), risulta svolgersi, segnata- mente per quanto concerne la tematica corporativa, in sinto­nia con le scelte operate dal regi­me, del quale anticipa anzi si­gnificativamente le tendenze — a Vittorio Cian, che nella lettura propostane da Giuseppe Parlato (pp. 603-628) appare tipico esponente di un’adesione al fa­scismo in chiave di nazionalismo filosabaudo nettamente conser­vatore — ad Aldo Moro, la cui vicenda di formazione giovani­le, ricostruita in un ampio sag­gio di Renato Moro (pp. 803- 968), offre elementi per una più precisa considerazione dell’at­teggiamento politico e culturale della generazione di intellettuali cattolici formatasi negli ‘anni del consenso’ (p. 853 passim). Lo studio di Giovanni Belardelli L ’adesione di Gioacchino Volpe al fascismo (pp. 649-694) sotto- linea, di tale iter, la peculiare matrice nazionalista, rilevando, nel suo successivo svolgimento, elementi d’attrito nei rapporti, tra il fascismo, man mano ch’es- so si costituisce in regime, e lo storico prestigioso che ne era stato, segnatamente nel 1920- 21, tramite di consenso in deter­minate aree di borghesia intel­lettuale (pp. 622 e 687-688). So­no, questi della posizione politi­ca di Volpe, aspetti da tenere presenti nell’ambito di quella globale ricognizione della ‘scuo­la storica italiana’ nel periodo fascista che è da più parti auspi­cata, e alla quale il fascicolo in esame fornisce un rilevante ap­porto, su cui va richiamata l’at­tenzione.

Di tale tematica, delinea lo sfondo il saggio di Maurizio Ser­

ra Sui miti fascisti e la crisi stori­ca dell’umanesimo borghese ne­gli anni trenta (pp. 577-601), tracciando un ampio panorama del dibattito della cultura euro­pea dell’epoca, attraversato dal­la contrapposizione — con la quale variamente si misurano le molteplici posizioni qui richia­mate (da Huizinga e Horkhei­mer, da Ortega y Gasset a Mir- cea Eliade, a Thomas Mann, a Hermann Broch) — tra l’idea di ‘storia’ e quella di ‘mito’ e ‘de­stino’, termini nei quali si com­pendia il confronto tra umanesi­mo borghese al tramonto — che conosce in questa fase un estre­mo sussulto unitario — ed espandersi dell’irrazionalismo fascista. In tale generale conte­sto, nel cui ambito è fenomeno significativo il rilievo assunto dalle concezioni cicliche delle ci­viltà e dalla nozione di decaden­za (pp. 582-583), si inscrive an­che l’Italia, il cui dibattito intor­no a questa tematica registra la presenza della grande sistema­zione storiografica crociana, e assume caratteri del tutto pecu­liari, riconducibili, in primo luo­go, alTavvenuta trasformazione del fascismo in realtà istituzio­nale (pp. 577-580).

All’esame dei rapporti tra sto­riografia e regime è dedicato il saggio di Renzo De Felice Gli storici italiani nel periodo fasci­sta (pp. 741-802) che pone in ri­salto la svolta rappresentata dai primi anni trenta tanto sull’uno che sull’altro versante. Da un la­to, in un mutato clima culturale che determina l’insoddisfazione per i vecchi indirizzi, si profila­no nuove tendenze, connotate da un maggior interesse per le vicende più recenti (e stimolate in tal senso dalla pubblicazione dell ’Italia in cammino di Volpe

e Storia d ’Italia e poi della della Storia d ’Europa di Croce), e si costituisce — attorno alla ‘scuo­la romana’ di Volpe — il gruppo di giovani storici, quali Chabod, Maturi, Morandi, Rosselli, Se- stan, Cantimori, la cui successi­va influenza è superfluo sottoli­neare. D’altro canto, si defini­sce una politica del fascismo verso la storiografia, che dà luo­go, fra l’altro, a una globale riorganizzazione — tra il 1934 e il 1935 — delle istituzioni ex­trauniversitarie (p. 749), nel quadro di un’azione di più stret­to controllo nei confronti dell’alta cultura (significativa­mente annunciata, nel 1931, dall’imposizione del giuramento ai docenti universitari); nel de­cennio precedente, invece, l’in­tervento in tali ambiti s’era limi­tato all’epurazione degli opposi­tori più in vista, con una sostan­ziale delega dell’iniziativa più propriamente culturale a singole personalità, e avvalendosi, in termini di ‘immagine’, del loro prestigio (in questa chiave si presenta l’istituzione, nel 1923, della Scuola storica nazionale e, nel 1925, della Scuola di storia moderna e contemporanea, co­me pure la nomina di Volpe alla direzione di quest’ultima, p. 744).

Esponente di spicco di tale nuovo corso è Carlo Maria De Vecchi, fautore di una radicale ‘bonifica fascista’ della cultura, che persegue, attraverso l’accen­tramento degli istituti per gli studi storici, l’obiettivo di po­tenziare — di contro alle ten­denze storiografiche emergenti — un’interpretazione sabaudi- stica, statalistica e ‘autarchica’ del Risorgimento. In quest’am­bito egli riesce, a garantirsi una effettiva posizione di controllo

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(pp. 750-758); e tuttavia siffatta linea autoritaria incontra, per tutto l’arco del decennio, una tenace resistenza, che riesce a circoscriverla. In tale azione di contenimento, ha un ruolo di primo piano Volpe, il cui rifiuto di una concezione rozzamente strumentale dell’attività storio­grafica emerge sia nel conflitto di competenze che lo oppone a De Vecchi, sia nell’apertura po­litica e culturale che caratterizza la sua scuola. È tale atteggia­mento — oltre che il potere nelle istituzioni culturali — a fare di Volpe un importante punto di riferimento, organizzativo e scientifico, per gli studiosi della giovane generazione (p. 762- 763), e a consentirgli di esercita­re sui suoi allievi (Chabod, Mo- randi, Maturi, Rosselli) un’in­fluenza paragonabile a quella — indubbiamente rilevante, ma più indiretta e mediata — di Croce (pp. 760-761 e 784-785). A queste considerazioni, impor­tanti per tracciare una più pun­tuale analisi di una tanto note­vole ‘scuola storica’, si affianca­no le osservazioni, di pari inte­resse, sulla collocazione politica degli allievi di Volpe nel corso degli anni trenta. Se nessuno, fra quelli sopra citati, è fascista all’inizio del decennio, nessuno peraltro, eccettuato Rosselli, ri­sulta nettamente e dichiarata- mente antifascista (e lo stesso li­beralismo di Chabod non si con­figura come milizia politica, quanto piuttosto come habitus etico-culturale di fondo, pp. 763-765). L’iter successivo pre­senta svolgimenti differenziati: se Chabod e Maturi mantengo­no un atteggiamento di distacco dalla politica, nella rigorosa au- tolimitazione alla loro profes­sione di storici (e in tale com­

portamento mi pare sia rilevabi­le la suggestione crociana), Mo- randi approda invece ad un esplicito e diretto impegno, su posizioni bottaiane, in una linea di integrazione di politica e cul­tura che s’esprimerà, tra l’altro, dal 1940 con la sua collaborazio­ne a “Primato” (pp. 775-780).

Le pagine dedicate a Delio Cantimori, alla sua atipicità di formazione e di interessi storio­grafici e alla particolarità del suo itinerario politico (pp. 788- 793), concludono questa artico­lata lettura dei rapporti fra sto­rici e fascismo, dalla quale mi pare esca, in sostanza, confer­mata l’immagine del regime co­me ‘totalitarismo imperfetto’ in cui permane — anche negli anni di massimo consenso e di massi­mo controllo sociale — una dia­lettica culturale di tipo liberale.

Amina Crisma

A l b i n o C a l e g a r i , Il “Corriere della Sera”, e la letteratura fran­cese, Bergamo, Istituto Univer­sitario di Bergamo, 1981, pp. LII-443, sip.

L’influenza della letteratura francese in Italia sta ricevendo una rinnovata attenzione da parte di studiosi di varie discipli­ne. Fino a qualche anno fa, se pure con qualche importante ec­cezione, era stata messa in luce con maggiore insistenza la for­tuna dei più importanti roman­zieri, gli studi più recenti hanno cercato di allargare il campo di ricerca approfondendo in modo originale le suggestive pagine di Federico Chabod e di Antonio Gramsci. Il frutto più maturo di questo lavoro di ricerca è stato senza dubbio, a nostro avviso, il

bel volume di Guido Verucci (L ’Italia laica prima e dopo l ’Unità. 1848-1876, Bari, Later­za, 1981) che con sapienza e ri­gore ha ripercorso le strade della formazione del pensiero laico in Italia in cui l’influenza della Francia pur con vicende alterne era stata sempre presente. Se­guendo e interpretando le osser­vazioni gramsciane contenute nei Quaderni, Verucci mette in evidenza come la letteratura francese non avesse un solo con­solidato filone attraverso cui pe­netrare, ma si avvalesse di istitu­zioni culturali, giornali, collane editoriali, biblioteche di cultura popolare e università popolari che hanno trovato attenti stu­diosi oltre che nel Verucci in Maria Grazia Rosada e Gabriele Turi.

Gli avvenimenti politici dello stato transalpino non influenza­rono del resto solo la nostra po­litica estera, ma divennero un punto di riferimento anche per la nostra politica interna: pen­siamo alle ripercussioni in Italia delle battaglie anticlericali, se­guite con attenzione da Enrico Deeleva, o dell’affare Dreyfus, di cui manca ancora uno studio esauriente, pensiamo alle figure di Hugo e Zola guardate a lungo come simbolo dell’impegno po­litico degli intellettuali, pensia­mo infine aU’enorme fortuna della letteratura popolare prima e dopo Sue e alla lettura diversi­ficata a cui si prestava.

Se per tracciare un bilancio definitivo e rispondere agli in­terrogativi gramsciani che col­legavano l’influenza della Fran­cia e della sua cultura alla fati­cosa formazione del pensiero laico e alla difficile crescita in Italia di una letteratura auten­ticamente nazional popolare

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mancano ancora molti tasselli, sono senz’altro da mettere in ri­lievo i passi in avanti a cui con­tribuisce ora questo catalogo cu­rato da Albino Calegari e dedi­cato alla presenza della lettera­tura francese nelle pagine del “Corriere” . Lo stesso Gramsci, peraltro mai citato dal Calegari nella sua breve introduzione, aveva individuato nel quotidia­no milanese “il centro di mag­giore diffusione dei romanzi po­polari” , anche francesi, e la ne­cessità di affiancare lo studio del “Corriere” a quello delle edizio­ni Sonzogno.

Il catalogo è diviso in due par­ti: le opere di autori francesi pubblicate dal “Corriere della Sera” e gli articoli riguardanti autori e opere francesi apparsi sul quotidiano dal 1876 al 1925. L’arco cronologico è dunque as­sai ampio e permette al lettore di valutare con una certa precisio­ne gli orientamenti del giornale, le tematiche maggiormente se­guite, gli autori più conosciuti. Colpisce ad esempio il numero degli autori francesi, molti dei quali peraltro presenti fin dal 1876 con più opere, pubblicate a dispense sulle pagine del quoti­diano milanese, così come colpi­sce il numero degli articoli ri­guardanti autori e opere france­si. In questa seconda parte del catalogo si nota come gli artico­listi del “Corriere” non soffer­massero la loro attenzione solo sugli autori più prestigiosi, ma esprimessero i loro giudizi an­che su quelli meno noti e impor­tanti.

Al termine di questo prezioso lavoro di Calegari restano co­munque da fare alcune osserva­zioni: innanzitutto pensiamoche il catalogo sarebbe stato più completo se fosse stato aggiunto

un indice dei nomi, che in lavori come questo aiuta molto il letto­re a orizzontarsi nella ricerca de­gli autori, e un indice cronologi­co, indispensabile per verificare con precisione i periodi in cui il quotidiano intervenne con insi­stenza nelle battaglie culturali di quegli anni legate non di rado anche ad avvenimenti politici di primo piano. Non è un caso, ad esempio, che il “Corriere” segua con grande interesse l’affare Dreyfus e che proprio fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del No­vecento la figura e l’opera di Zola trovino una diversa e rin­novata attenzione. Rintraccian­do numerosi articoli non conte­nuti nella Bibliographie de Zola en Italie, pubblicata da Meni- chelli nel 1960, Calegari mette in evidenza come l’impegno politi­co di Zola suscitasse anche in Italia un dibattito stringente sul ruolo che gli intellettuali dove­vano avere davanti ad avveni­menti così sorprendenti. Ma in che modo i giornalisti del “Cor­riere” trattarono l’impegno di Zola in questa battaglia e so­prattutto come si legava l’inte­resse sempre vivo per la lettera­tura francese con la linea più ge­nerale del giornale? Purtroppo nell’introduzione Calegari lascia irrisolte queste e altre domande preferendo passare rapidamente da un argomento all’altro senza scandire con precisione le varie fasi del dibattito. Si accenna sol­tanto agli articoli di Faldella e Bersezio e alla loro polemica nei confronti della letteratura fran­cese accusata di influenzare ec­cessivamente il panorama lette­rario italiano, e non si nascon­dono le vivaci critiche di Gio­vanni Pozza per la predominan­te offerta di opere di autori tea­trali francesi, ma si tralascia, e

l’osservazione vale anche per i collaboratori del periodo suc­cessivo, di illuminare il lettore sulla personalità e la formazione culturale di questi giornalisti, molti dei quali svolsero un ruolo di primo piano nel dibattito cul­turale tra Ottocento e Nove­cento.

Pensiamo, ad esempio, a Vit­torio Pica, a Ugo Ojetti e ad al­cuni romanzieri, da Federico De Roberto a Luigi Capuana, i cui interventi avrebbero dovuto es­sere recuperati all’interno di un più ampio discorso teso a mette­re in rilievo anche la diversità delle posizioni. Se De Roberto non fu certo tenero nei confron­ti di chi dando “troppa attenzio­ne alle cose altrui, e troppo poca alle nostre” , accordava un’im­portanza sproporzionata alla pubblicazione di ogni inedito francese, diversa continuerà ad essere la posizione di Capuana i cui scritti anche giornalistici, raccolti poi in volume, dimo­strano un’attenzione continua a tutto il dibattito interno alla cul­tura francese.

Calegari richiama anche rapi­damente alcuni avvenimenti di politica intemazionale che se­gnarono i rapporti tra Francia e Italia ma senza individuare i possibili intrecci con la penetra­zione in quegli stessi anni, della letteratura francese sulle colon­ne del quotidiano milanese. Non che l’autore dell’introduzione dovesse appiattire i due piani di ricerca, ma al contrario forse avrebbe potuto mostrare al let­tore in che modo temi e autori della letteratura francese veniva­no presentati al pubblico di que­gli anni. La nostra speranza è di vedere trattati questi problemi più attentamente nel secondo volume in preparazione e dedi­

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cato dall’autore alle relazioni culturali italo-francesi messe in luce dal catalogo.

Gianfranco Tortorelli

M a r i o P e c o r a r o , II socialismo carpigiano nelle pagine di “Lu­ce”. Mezzo secolo di storia di una gloriosa testata, Mantova, Arcari, 1983, pp. VII-238, lire12. 000.

Il periodico “Luce” , nato a Carpi di Modena il 28 luglio 1889 come “Gazzetta democra­tica di Carpi” e divenuto dal 1895 (sia pur variando in seguito numerose volte il sottotitolo) praticamente l’organo dei socia­listi locali, vanta oggi novanta- cinque anni di vita, che vogliono però ignorare lunghe assenze dalle edicole (oltre a quella ov­via dal 1920 al 1945, altri quin­dici anni dal 1947 al 1962 e an­cora dal 1914 al 1919; del tutto casuale l’uscita nel secolo scor­so, se non nel corso delle batta­glie elettorali; cfr. la “scheda” di p. 225). Una sua raccolta completa si può ottenere solo unificando i numeri conservati presso le biblioteche Nazionale di Firenze, Comunale di Carpi ed Estense di Modena. Mario Pecoraro fa una lettura attenta del periodico da cui risulta un’immagine di particolare inte­resse del socialismo riformista della bassa modenese e del suo leader Alfredo Bertesi, con par­ticolare attenzione alla sua ideo­logia e alla sua attività di orga­nizzatore del movimento ope­raio e di amministratore locale.

Anche se a volte l’autore si fa prendere la mano da eccessi di simpatia per la ‘gloriosa te­stata’, il volume va segnalato

in quanto costituisce un utile strumento per la conoscenza di quella stampa locale e periferi­ca legata alle origini organizza­tive del movimento operaio che troppo raramente ha tro­vato buoni studiosi.

Luciano Casali

E u g e n i o G a r i n , Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l ’Unità, Bari, De Donato, 1983, pp. 380, lire 22.000.

Il volume raccoglie una serie di scritti pubblicati tra il 1870 e il 1981, in parte saggi e in parte relazioni a convegni; lo scritto II positivo, il positivismo e i positi­vismi (appartenente alla sezione dedicata ad Antonio Labriola) riproduce la relazione introdut­tiva al convegno organizzato dall’Istituto Gramsci di Firenze nell’ottobre 1981 ed è inedito; la Postilla rielabora, fondendole, una serie di note pubblicate sul­la “Rivista critica di storia della filosofia” nel 1978. I saggi, an­che se scritti e pubblicati in oc­casioni e con finalità diverse, hanno un filo conduttore, come suggerisce lo stesso Garin nel­l’Avvertenza iniziale, che si di­rama essenzialmente in due te­matiche: il vario configurarsi nella coscienza dei contempora­nei e a livello storiografico, del rapporto tra Ottocento e Nove­cento sul piano della cultura e degli ideali politici, e il senso e le conseguenze del declino dell’he- gelismo e del positivismo nelle costruzioni ideologiche di que­sto periodo.

Garin prende le mosse dal di­battito storiografico sulla inter­pretazione della crisi di fine se­colo, divenuta ben presto, per

alcuni (Croce) fonte di rinnova­mento e di rinascita spirituale e per altri (Labriola) annuncio di regresso e di dominio dell’irra­zionale. D’altra parte dopo la tragedia dell’Italia fascista e la fine della seconda guerra mon­diale prevalse la tendenza a ve­dere tutta la storia successiva all’Unità ‘tinta di nero’ e attri­buirne la responsabilità all’idea­lismo riproponendo i valori del già disprezzato positivismo. Mentre dall’esaltazione del­l’idealismo si passava a un suo netto rifiuto rovesciando sem­plicemente i termini del contra­sto, alle correnti ideologiche ve­nivano attribuite responsabilità sul piano degli eventi reali: al prevalere dell’idealismo veniva­no attribuiti non solo i limiti delle istituzioni scolastiche ita­liane, ma le carenze di uno svi­luppo tecnico scientifico non paragonabile a quello degli altri paesi. Di fronte a queste inter­pretazioni storiografiche paral­lele anche se contrapposte, l’au­tore si propone di superare le posizioni puramente nominali­stiche e politiche e seguire una via sinora poco battuta, la via dell’analisi puntuale, percorren­do le tappe della penetrazione di Hegel e del positivismo in Italia, studiando “i molti Hegel nei tempi e nei luoghi e i molti posi­tivismi, così contrastanti tra lo­ro e il vario gioco delle posizioni nella lotta politico-culturale dell’Italia unita” (p. 13). So­prattutto fecondo e vivo risulta l’interesse per gli uomini concre­ti, portatori delle diverse ideali­tà, i quali non disgiunsero la lo­ro attività politica dall’impegno teorico-filosofico, poiché, come afferma Labriola, che campeg­gia in queste pagine gariniane, “le idee non cascano dal cielo”,

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ma sono espressione di uomini determinati che le elaborano e le difendono, di uomini che parte­ciparono politicamente alla tra­vagliata vita dell’Italia dall’Uni­tà in poi. Nel saggio Hegeliani dell’Ottocento: politica e filoso­fia la connessione tra hegelismo coltivato a Napoli tra il 1840 e il 1860 e la ripresa, nel momento del rinnovamento rivoluziona­rio (1848), di una grande tradi­zione filosofica è espressa con una conoscenza profondissima degli autori e dei testi non di­sgiunta da una vivacità di espo­sizione che avvince il lettore. Nel saggio II positivismo come metodo e come concezione del mondo, che è una continuazio­ne ideale del precedente saggio, appare centrale la consapevolez­za critica di Pasquale Villari che nel 1866 (L ’Istruzione seconda­ria in Germania e in Italia, in Nuovi scritti pedagogici, Firen­ze, 1891) vede nell’hegelismo del Quarantotto la filosofia della ri­voluzione e nel positivismo non solo una filosofia, ma un nuovo strumento culturale nella fase di formazione e consolidamento dello Stato unitario prima e do­po il Sessanta. Oltre all’accura­tezza e alla profondità degli stu­di gariniani, troppo note e rico­nosciute per essere ancora ricor­date, colpisce in questo volume l’attenzione, che coinvolge in un interesse simpatetico, per alcuni personaggi come Labriola, il professore di filosofia che intro­dusse Marx in Italia senza om­bre di dogmatismo e nel con­tempo seppe svolgere dalla sua cattedra lezioni di socialismo fa­cendone emergere “nella consa­pevolezza del modo della sua ge­nesi” (p. 172) la necessità storica (Labriola nella storia della cul­tura e del movimento operaio)-,

per Angelo Fortunato Formiggi- ni, editore di varie collane e dei testi dei convegni della Società filosofica italiana, cultore della “filosofia del ridere” come lui stesso amava definirsi, suicida­tosi nel 1938 per protestare con­tro “l’assurdità malvagia dei provvedimenti razziali” (A.F. Formiggini editore di positivi­smi vecchi e nuovi, pp. 255 e sgg-)-

Paola Pirzio

G i u s e p p e B e d e s c h i , La parabo­la del marxismo in Italia 1945- 1955, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 181, lire 10.000.

Il 1945 per Bedeschi, autore di studi su Marx ed Hegel, segna l’inizio del marxismo italiano che negli anni precedenti non aveva conosciuto uno sviluppo organico consistente. L’analisi si muove prevalentemente in una dimensione teorica, anche se nell’itrodurre le svolte inter­pretative più rilevanti si rivolge, in modo sintetico, anche alle trasformazioni dell’economia e della società italiana per metter­ne in rilievo il rapporto di causa­lità tra struttura-sovrastruttura.

L’opera risulta suddivisa in sezioni riguardanti i diversi mo­menti della cultura marxista ita­liana. Ogni periodo è caratteriz­zato dal prevalere di alcune te­matiche descritte mediante un accenno alle posizioni intellet­tuali che le hanno elaborate, spesso valutati in modo somma­rio.

Il decennio 1945-1955, indica­to come “gli anni delle certezze assolute” , vede la diffusione del marxismo attraverso l’interpre­tazione gramsciana della storia d’Italia e del fascismo in parti­

colare, largamente recepita dagli studiosi che ruotavano intorno alla rivista “Società” . Stretta- mente connesso con la ripropo­sizione del pensiero di Gramsci, è il dibattito su Benedetto Croce ove la cultura marxista, forte­mente dipendente dallo storici­smo crociano, mette in discus­sione le proprie origini. Bede­schi presenta questo decennio come dominato dalla personali­tà di Togliatti, che da una parte propone agli intellettuali i temi di maggiore rilevanza teorico­politica (Croce, lo Stato) e dall’altra si pone come mediato­re tra la cultura del tempo e la filosofia dell’autore dei Quader­ni. Gli anni 1955-1967 segnano l’apogeo e la crisi del gramsci- smo e l’affermarsi del pensiero di Galvano Della Volpe: il con­vegno su “Studi gramsciani” del 1958 organizzato dal Pei può considerarsi il trionfo di Gram­sci e nel contempo l’inizio del suo declino soprattutto in segui­to agli interventi fortemente cri­tici di Ludovico Geymonat e di Mario Tronti. La filosofia di Della Volpe rappresenta per Be­deschi l’alternativa teorica alla tradizione marxista italiana sin’allora prevalente sia nella di­mensione gramsciana che in quella materialistica dialettica, in quanto si propone di elabora­re un metodo scientifico, una scienza dell’economia e delle scienze morali in genere.

La terza sezione, rivolta all’analisi di anni cruciali per la storia della cultura teorico-poli­tica (1968-1980) appare molto rapida se commisurata alla pro­blematica studiata e ai giudizi critici proposti. Il sorgere di nuove interpretazioni del marxi­smo connesse alle analisi del ca­pitalismo elaborate da “Quader­

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ni rossi” di Raniero Panzieri e da “Sinistra” di Lucio Colletti è visto in connessione alla discus­sione sulle posizioni assunte dal Pei dopo il 1956. Se l’interpreta­zione del Sessantotto come esal­tazione del mito ‘assembleare’ e rifiuto di ogni cultura riformisti­ca appare discutibile, l’esposi­zione della filosofia della Scuola di Francoforte e della sua in­fluenza ne limita il significato mettendo in luce gli aspetti più obsoleti del pensiero di Herbert Marcuse. A giudizio di Bedeschi la crisi del marxismo ha inizio

negli anni immediatamente suc­cessivi al 1968 e ha le sue origini nelle difficoltà sia della teoria politica (crisi del socialismo rea­le e fallimento della rivoluzione cinese) sia nella limitatezza dell’analisi economico sociale, messa in evidenza dall’opera di Paul A. Baran e Paul M. Swee- zy, II capitale monopolistico (Torino, Einaudi, 1978). L’evo­luzione del pensiero di Colletti da sostenitore a critico del mar­xismo (definito un “tragico sin­cretismo metodologico” , in ac­cordo con Hans Kelsen) è per

l’autore emblematico del distac­co degli intellettuali italiani dal pensiero di Marx.

La riproposizione nel centena­rio della sua nascita in saggi e con­vegni, ricostruita sulla base degli interventi di Claudio Napoleoni e Francesco Galgano tendenti a se­parare il marxismo dalle sue inter­pretazioni, è considerata da Be­deschi destinata al fallimento in quanto si propone una ricerca e una ricostruzione di “un Marx in­trovabile, perché immaginario” (p. 174).

Paola Pirzio

Q U A D ER N I D I STO RIARivista semestrale diretta da Luciano Canfora

Anno X, n. 19, gennaio-giugno 1984SaggiD. Lanza, Il filologo immaginato-, O. Longo, Le ciurme della spedizione ateniese in Sici­lia; J. Svenbro, La stratégie de i ’amour dans la poésie de Sappho-, F. Grelle, Stato e province nell’analisi mommseniana-, A. Aloni, L’intelligenza di Ipparco.

Miscellanea0. Neurath, Premessa a "The Modern Man in the Making" (a cura di G. Di Sacco); B. Flemmerdinger, Le régime des eupatrides dans Athènes-, L. Piccirilli, Il filolaconismo l ’incesto e l ’ostracismo di Cimone\ Ph. Haviland, Aléatoire temps responsabilité dans la comédie grecque nouvelle-, M. Cagnetta, Platea ultimo atto-, G.F. Nieddu, La metafora della memoria-, M. Fantuzzi, Gli Alexiloga grammata di Crizia.

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