Il Guitto 00

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Guitto N° 0 - DICEMBRE 2014 Ai contadini e cittadini di Bonagente il cui ricordo è legato ai giorni felici trascorsi nelle vallate e dolci colline e antiche città della Ciociaria tra un popolo che serenamente affronta un duro lavoro Feliks Gross Con questa dedica si apre il volume che contiene uno studio socio-antropologico sul paese di Fumone condotto dal sociologo Feliks Gross tra il 1957 e il 1971. Ma chi è stato Feliks Gross? E come è arrivato a Fumone? Il sociologo umanista – così definito dall’ASA (American Sociological Association) nel giorno del suo centesimo compleanno – nasce il 17 giugno 1906 a Cracovia, a quel tempo vivace centro della vita intellettuale e culturale polacca. Dopo essersi laureato in giurisprudenza, grazie a una borsa di studio, arriva a Londra dove conosce il famoso antropologo Malinowski, padre della moderna etnografia, la cui influenza lo avrebbe portato a occuparsi per tutta la vita delle scienze sociali.Tornato in Polonia diventa un attivista politico e sociale, coraggioso e rispettato, a tal punto da riuscire a fondare, nel 1934, la Scuola di Scienza del lavoro; è proprio per questo suo forte impegno che allo scoppio della seconda guerra mondiale, considerando anche le sue origine ebraiche, è costretto a lasciare la sua patria per trasferirsi negli Stati Uniti. - Pag. 3 “VOX POPULI FUMONIS” Un patrimonio immateriale da conoscere e tutelare Appartenere, appartenersi. Quello dell’appartenenza (a una cultu- ra, a una nazione, a un gruppo di qualunque genere) è un bisogno che ci spinge a reagire, a proteg- gere, a lottare… è tuttavia un va- lore che tendiamo a disconoscere credendo che “poco conosciuto” sia sinonimo di “poco importante” e che “storico” lo sia di “vecchio, superato”. Guardando attraverso il buco della serratura ci accorgia- mo che tra le pieghe della quoti- dianità prende forma un’altra vita, l’eredità culturale di una civiltà che muta, giorno dopo giorno, ma che ci chiede di essere conosciuta e custodita. - Pag. 2 Un americano a Fumone Il sociologo Feliks Gross studia i “bonagentesi” di Stefano Petri EDITORIALE di Elisa Potenziani il PAG. 8 Panorama dell’emigrazione ciociara in cinque secoli di storia PAG. 6 Chiese “scomparse”: la chiesa abbaziale di Sant’Angelo PAG. 13 Essere “Festaroli” a Fumone Periodico dell’Associazione Culturale Il Guitto

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GuittoN° 0 - DICEMBRE 2014

Ai contadini e cittadini di Bonagente il cui ricordo è legato ai giorni felici

trascorsi nelle vallate e dolci colline e antiche città della Ciociaria tra un popolo che serenamente affronta un duro lavoro

Feliks Gross

Con questa dedica si apre il volume che contiene uno studio socio-antropologico sul paese di Fumone condotto dal sociologo Feliks Gross tra il 1957 e il 1971.Ma chi è stato Feliks Gross? E come è arrivato a Fumone? Il sociologo umanista – così definito dall’ ASA (American Sociological Association) nel giorno del suo centesimo compleanno – nasce il 17 giugno 1906 a Cracovia, a quel tempo vivace centro della vita intellettuale e culturale polacca. Dopo essersi laureato in giurisprudenza, grazie a una borsa di studio, arriva a Londra dove conosce il famoso antropologo Malinowski, padre della moderna etnografia, la cui influenza lo avrebbe portato a occuparsi per tutta la vita delle scienze sociali. Tornato in Polonia diventa un attivista politico e sociale, coraggioso e rispettato, a tal punto da riuscire a fondare, nel 1934, la Scuola di Scienza del lavoro; è proprio per questo suo forte impegno che allo scoppio della seconda guerra mondiale, considerando anche le sue origine ebraiche, è costretto a lasciare la sua patria per trasferirsi negli Stati Uniti. - Pag. 3

“Vox populi fumonis”un patrimonio immateriale da conoscere e tutelare

Appartenere, appartenersi. Quello dell’appartenenza (a una cultu-ra, a una nazione, a un gruppo di qualunque genere) è un bisogno che ci spinge a reagire, a proteg-gere, a lottare… è tuttavia un va-lore che tendiamo a disconoscere credendo che “poco conosciuto” sia sinonimo di “poco importante” e che “storico” lo sia di “vecchio, superato”. Guardando attraverso il buco della serratura ci accorgia-mo che tra le pieghe della quoti-dianità prende forma un’altra vita, l’eredità culturale di una civiltà che muta, giorno dopo giorno, ma che ci chiede di essere conosciuta e custodita. - Pag. 2

Un americano a Fumone Il sociologo Feliks Gross studia i “bonagentesi”

di Stefano Petri

EDITORIALE

di Elisa Potenziani

ilPAG. 8

Panorama dell’emigrazione ciociara in cinque secoli di storia

PAG. 6Chiese “scomparse”:

la chiesa abbaziale di Sant’Angelo

PAG. 13Essere “Festaroli”

a Fumone

Periodico dell’Associazione Culturale Il Guitto

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segue da Pag. 1 - Non vogliamo essere i paladini dell’età dell’oro che non torna più ma salvaguardare una memoria che è costituita prevalen-temente dai racconti dei nostri non-ni, ultimi depositari di testimonianze tramandate oralmente, per genera-zioni: testimonianze che, con il venir meno dei nostri cari, rischiano di an-dare perdute per sempre.A tale scopo è nato “Il Guitto”, la ri-vista trimestrale di cultura fumonese e ciociara. “Il Guitto” ci permetterà di conosce-re Fumone attraverso le sue tradizio-ni, le festività religiose, l’attualità, il folclore, gli aspetti storici, architetto-nici, archeologici e culinari: verranno condotte ricerche d’archivio e inter-viste, sarà raccolto materiale foto-

grafico con lo scopo di conservare la memoria collettiva e visiva. Partiamo dal nome: “Il Guitto”. In passato erano chiamati “guitti” quei ciociari che, in cerca di un avvenire migliore, migravano verso l’Agro Ro-mano e l’Agro Pontino oppure nelle grandi città: guitto significa dunque “nomade, spiantato” ma la sua figu-ra conserva tutto il fascino del pionie-re, del coraggioso, dell’uomo artefi-ce della propria sorte.Ora veniamo al progetto. Della rivi-sta, pubblicata con cadenza trime-strale, prevediamo la distribuzione cartacea delle copie a Fumone e in diversi luoghi della provincia di Fro-sinone e la diffusione a oltre 10.000 contatti, tramite posta elettronica. Ogni fumonese potrà partecipare a

questo progetto: scrivendo articoli, raccontando episodi di vita quotidia-na individuale o collettiva; recupe-rando dal pozzo della memoria pre-ziose testimonianze della cultura e della tradizione fumonese e ciociara.Per la stampa cartacea delle copie abbiamo chiesto il sostegno delle at-tività commerciali di Fumone e dei paesi limitrofi e il contributo di privati cittadini: li ringraziamo tutti perché il loro entusiasmo, nonostante i tempi duri, ci incoraggia e ci sprona a fare molto. A voi, lettori, promettiamo il nostro impegno, la nostra curiosità, la nostra perseveranza, la nostra passione.

A voi dedichiamo il primo numero de “Il guitto”… Buona lettura!

Ballo dell’Orso. Incisione di B. Pinelli (1809). Vicino al Pantheon, un ciociaro ed uno zampognaro fanno esibire un orso tenuto alla catena.

il Guitto - Periodico trimestrale di cultura fumonese e ciociara

Direttore: Elisa Potenziani - Direttore artistico: Francesco Caponera Hanno collaborato a questo numero: Lamberta Caponera, Mariano D’Agostini, Stefania Del Monte, Giuseppe Gatta, Bruno Mastromoro, Stefano Petri, Federico Pica, Alessandro Potenziani, Michele Rossi.

[email protected]

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segue da Pag. 1 - Arrivato a New York, insieme al suo professore e mentore Malinowski, fonda l’Istituto polacco delle Arti e delle Scienze d’America, vero e proprio faro democratico e indipendente per gli studiosi polacchi prima che la Polonia tornasse di nuovo “libera” nel 1989. Dal 1946 al 1977 Gross è stato membro della Facoltà di

Sociologia presso il Brooklyn Col-lege; nel corso della sua lunga e stimata carrie-ra ha ricoperto diversi incarichi prestigiosi, scritto oltre 20 libri (di cui uno tradotto anche in cinese), tenuto conferenze in Usa e in Euro-pa. È proprio durante un ciclo di con-ferenze in Euro-pa che conosce, a Roma, il professor

Vittorio Castellano, preside della Facoltà di Scienze statisti-che demografiche e attuariali dell’Università “La Sapienza” e matura la decisione di avviare uno studio sulle dinamiche sociali di un “villaggio italiano” in un periodo storico di transizione. Dalla collaborazione fra Feliks Gross e il professor Cerase, suo amico – anch’egli sociologo e già conoscitore di Fu-mone – ha origine la ricerca pubblicata nel 1973 con il ti-tolo “Values and social change in an italian village” (tradotta in italiano con il titolo “Contadini, rocche e contrade della Ciociaria”): essa indaga l’evoluzione sociale di una comu-nità, i suoi valori e gli obiettivi collettivi e individuali che sono parte del tessuto sociale dell’uomo e si concretizzano nei vari ambiti della vita quotidiana attraverso la famiglia, la parentela, il matrimonio, l’alimentazione, il vestiario, l’abita-zione, l’organizzazione politica, la religione, il linguaggio, le arti, l’educazione e la formazione della personalità.

Il professor Gross ha adottato come tecnica di studio il co-siddetto “osservatorio partecipante”, metodo attraverso il quale si osservano i comportamenti di un determinato grup-po di individui prendendo parte alla loro vita; il sociologo polacco conduce dunque la ricerca sul campo dimorando a Fumone in località Fossa Zoffrena in tre momenti diversi: la prima volta tra il 1957 e il 1958, la seconda nel 1969 e la terza nel 1971. Per sua stessa ammissione, la ricerca all’inizio doveva essere più contenuta essendo parte integrante di uno studio comparativo a lunga scadenza ma il paese, i suoi abi-tanti e soprattutto il “mutamento sociale di cui essi hanno fatto esperienza, hanno acquistato un interesse particolare”: questo lo ha indotto a modificare i presupposti dello studio stesso. Durante i suoi soggiorni, grazie soprattutto al sostegno del sindaco, il professor Eugenio Genesio Del Monte, lo stu-dioso riesce a creare un rapporto intenso e profondo con diverse persone di Fumone: abbandona i questionari della fase iniziale di documentazione e li sostituisce con interviste singole e collettive. Il professor Gross, nel prosieguo della ricerca, rimane no-tevolmente sorpreso dai cambiamenti intercorsi fra le sue diverse visite a Fumone a tal punto che pur essendo pronto, nel giugno 1969, lo studio per la pubblicazione e la succes-siva presentazione al ventiduesimo Congresso dell’Istituto internazionale di sociologia a Roma, decide di organizzare una nuova e più lunga visita a Fumone per integrare i dati raccolti in precedenza. Egli è testimone di quel processo di mutamento che ha tra-sformato una società da “tradizionale” a tecnologicamente avanzata che guarda al futuro con occhi diversi rispetto al passato. Nel 1971 decide di tornare nel paese ciociaro per capire meglio le novità che caratterizzano i nuovi “bona-gentesi” (così Feliks Gross chiama i fumonesi della fine degli anni ’60). La penna del sociologo umanista traccia con pre-cisione e acume i ritratti delle persone conosciute a Fumone, arricchendo di dettagli e curiosità il suo studio, descrivendo innumerevoli momenti di vita di una società che sta affron-tando, inconsapevolmente, una trasformazione epocale. Ed è proprio di questi momenti, nati dalla commistione fra studio e umanità, che tratteremo nel nostro prossimo appun-tamento.

Feliks Gross

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La “ciocia” è una calzatura tradiziona-le tipica di varie regioni: era in uso fino a qualche decennio fa nel Lazio, Abruz-zo, Molise e Campania. Il nome cambia

di zona in zona: può chiamarsi “ciocia” o “zampitto”, “chiochiera” o “scìascia” (in napoletano). Nonostante la varietà di nomi, però, la tipologia di questo tipo di

calzatura era unica: essa era infatti composta da ampie suole di cuoio trattato che avvolgevano il piede, fer-mate alla gamba con delle strenghe, anch’esse di cuo-io. Di solito erano indossate con una calza resistente, per evitare che il contatto del piede con il cuoio trattato causasse calli e piaghe dolo-rose. Tali calzature erano ti-piche di pastori e contadini, usate sia dagli uomini che dalle donne. La forma e il materiale di cui erano fatte

permetteva a chi le indossava di far adatta-re il movimento del piede ad ogni tipolo-gia di terreno, lasciando inoltre un’ampia libertà di movimento nello svolgimento del lavoro contadino. Nessuna regione italiana attuale corri-sponde all’area geografica in cui tali cal-zature erano maggiormente usate. Dalla ciocia deriva infatti “Ciociaria”, nome at-traverso il quale, a Roma, venivano identi-ficati i territori provinciali verso sud, com-prensivi anche di buona parte della valle del fiume Aniene. La Ciociaria, dalla fine del XVII secolo viene convenzionalmente identificata con buona parte della provin-cia di Frosinone, costituita, però, successi-vamente. La ricostruzione summenzionata convive con un’altra tradizione più fan-tasiosa, secondo cui il nome ciocia deriva dal latino “soccus” (ovvero “zoccola” cioè

Camminare nella storiaCioce e tradizionedi Giuseppe Gatta

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topo), poi per influssi dialettali modificato in “socia” e quindi “ciocia”. Questa tradi-zione è legata alla leggenda secondo cui in alcune zone del basso Lazio, Molise, Abruzzo e Campania vigeva la tradizione, per alcu-ni aspetti simile a un rito, di uccidere grandi topi per rica-varne delle calzature. La scelta dei topi era data dalla resi-stenza della loro pelle e dalla capacità di adattarsi al piede umano. La ricerca delle be-stiole doveva essere fatta in un periodo particolare dell’anno, durante la notte dell’equino-zio d’estate, da soli uomini e nelle paludi. Contemporane-amente, le donne dovevano accendere grandi falò sulle cime delle montagne circo-stanti. Gli uomini avrebbero ucciso a mani nude gli ani-mali, li avrebbero privati delle interiora e ne avrebbero utilizzato il corpo come calzatura, introducendo direttamen-te nei resti dell’animale sventrato il piede: questo procedimento avrebbe garantito la

lunga durata della calzatura. L’ultimo avve-nimento storico importante legato all’uso delle cioce sembra risalire al XVII secolo

quando i ciociari vollero imporre la cal-zatura alla gerarchia ecclesiastica che de-clinò l’invito mancando ancora una volta l’appuntamento con la sobrietà: sembra da

addurre a questo rifiuto (presumibilmente insieme a tanti altri motivi di importanza maggiore) la lotta ingaggiata dai briganti

ciociari contro lo Stato Pon-tificio; da questo momento i briganti iniziarono a far rife-rimento al territorio a sud di Roma chiamandolo “Magna Ciociaria”, espressione ri-masta in vigore fino al 1950 quando fu creata la regione Lazio. La stessa Azienda di Promozione Turistica della Provincia di Frosinone iden-tifica la Ciociaria con la quasi totalità del territorio del fru-sinate. L’uso delle cioce oggi ovviamente è in desuetudine. Il loro uso resta circoscritto a manifestazioni folkloristi-che e rievocazioni storiche a tema. La donna con le cioce, l’ampia gonna merlettata e due file di coralli rossi al collo

è l’icona della Ciociaria nel mondo, resa celebre dall’incredibile interpretazione di Sofia Loren nel film “La Ciociara” diretto da Vittorio De Sica.

Punch (rivista satirica inglese) 24 agosto 1861: vignetta satirica con Pio IX indicato come il vero capo dei briganti, con tiara e cioce

mentre distribuisce armi ai briganti

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Erano molte un tempo le chiese che ani-mavano la vita religiosa nel territorio di Fumone: lo storico Giuseppe Ricciotti, alla fine dell’Ottocento, ne menzionava

alcune tra cui quella di San Doce, di San Pietro, della Santa Croce, di San Panta-leo e di Sant’Angelo, già allora ricordate

facendo riferimento alla sola ubicazione. Oggi, in qualche caso, si è perso anche quel ricordo. Di queste chiese, molto probabilmente, la più antica e impor-

tante era quella di Sant’Angelo, fuori le mura del castrum, la quale aveva sotto la sua giurisdizione l’omonima parroc-

chia di San Michele Arcangelo. Alcuni documenti rintracciati in vari archivi, unitamente a informazioni tratte da pubblicazioni del passato, permettono di tracciare, seppur sinteticamente, un quadro abbastanza completo su questa antichissima chiesa.La chiesa di Sant’Angelo era situata a meno di cento metri a sud dell’abitato di Fumone, arroccata in un luogo assai panoramico su uno spiazzo roccioso del monte. Fu edificata come chiesa abba-ziale intorno al XII secolo ad opera dei Benedettini, come dimostrano le pri-me notizie risalenti agli inizi del 1200, quando compaiono le “decime” e i re-lativi abati che le corrispondevano agli enti ecclesiastici. Successive notizie della chiesa si hanno in due bolle di Bonifa-cio VIII, tra cui una dell’anno giubilare 1300, come riferisce l’illustre archeo-logo fumonese Giuseppe Marchetti-Longhi. Un antico documento ipotizza che la chiesa sorse sulle vestigia di un antichissimo tempio pagano dedicato a Marte, a protezione del paese; consi-derando il carattere militare che aveva allora la rocca di Fumone, non sarebbe del tutto fuori luogo pensarlo. È molto probabile che l’origine del cul-to di san Michele Arcangelo a Fumone sia da ricondurre al ruolo attribuito al santo di “custode e patrono della Santa Chiesa”, assimilabile alla funzione che svolgeva la rocca di Fumone come sen-

Chiese “scomparse” La chiesa abbaziale di Sant’Angelodi Alessandro Potenziani

La chiesa di Sant’Angelo in un’antica incisione tratta dalla rivista: “Album, giornale letterario e di belle arti”, Roma 1851.

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tinella di difesa dei confini meridionali dello Stato Pontificio. Del resto già la guarnigione militare che presidiava la rocca di Fumone aveva preposto a suo protettore un’altra autorevole figura di “santo soldato”, quella di san Sebastia-no. Finora non è dato sapere quando la chiesa divenne parrocchiale ma, nel 1585 ormai malridotta e caduta in di-suso per la scomoda ubicazione, per decreto dell’allora vescovo diocesano Ignazio Danti si cominciarono a eser-citare le funzioni religiose nella chiesa di San Gaugerico, fondata intorno alla fine del Duecento, situata internamente all’abitato di Fumone e compresa nel territorio parrocchiale di San Michele Arcangelo. Una bolla di Pio VI del 14 settembre 1781 ribadì la distinzione e l’autonomia delle due parrocchie fu-monesi, quella di Santa Maria Annun-ziata e, appunto, quella di San Michele Arcangelo. Tuttavia, soltanto nell’anno 1920 fu aggiunto il titolo di San Miche-le Arcangelo alla chiesa di San Gauge-rico e ciò avvenne per l’interessamento dell’abate parroco don Angelo Celani, supportato dai suoi parrocchiani, con richiesta datata 5 agosto 1920. Tale ri-soluzione si concretizzò con decreto vescovile datato primo settembre dello stesso anno, firmato dal vescovo Anto-nio Torrini, ufficializzato da monsignor Ignazio Malandrucco prelato domesti-co del papa e dal cancelliere vescovile Francesco Saverio Cianfrocca, il gior-no 19 settembre 1920: fu così creata la nuova chiesa parrocchiale alla quale veniva concessa la facoltà di celebrare la festa annuale del santo il 29 settembre. Secondo una descrizione abbastanza esaustiva risalente alla seconda metà

del XVIII secolo, la costruzione doveva avere una struttura semplice, tipica delle chiese rurali del secolo XII, a pianta ret-tangolare, a navata unica, conclusa nel fondo da un’abside semicircolare, con l’ingresso rivolto a ponente e l’altare a oriente, secondo la prima tradizio-ne cristiana. L’in-gresso principale, che dava accesso a un piccolo atrio a pianta quadrata, aveva al di sopra del portale, una lunetta semicir-colare e più in alto una finestra dalla forma ton-da. La copertura era a padiglione con l’orditura in legno sorretta da capriate; all’e-sterno, sul lato settentrionale, un piccolo campani-le conteneva l’u-nica campana la quale recava iscrizioni, stemmi e la data del 1581. All’interno si trovavano: un altare in pietra, alcune tracce di pitture, acquasantiere in forma di conchiglia quadra e, nella conca ab-sidale, la raffigurazione del santo titola-re che calpestava il demonio tenendolo per una catena con una mano mentre con l’altra teneva la spada sfoderata. All’esterno, lungo il lato settentrionale dell’edificio, era annesso alla chiesa un piccolo terreno adibito a sepoltura dei defunti appartenenti alla parrocchia, i quali, dal 1585 in poi, furono seppelliti negli ambienti sotterranei della chiesa e

della piazza di Santa Maria Annunzia-ta, unitamente ai defunti di questa par-rocchia. I ruderi della chiesa dovevano esistere ancora agli inizi del Novecen-to, ma, per la costruzione di un campo sportivo, vennero definitivamente rasi al

suolo nel 1931. Da testimonianze locali si ha notizia che, all’interno del terre-no attiguo, vi era un grande pozzo in pietra. Oggi, di questa antica e preziosa chiesa romanica, non rimane altro che qualche tratto di muro che delimitava quel pic-colo cimitero.Se da una parte queste informazioni ci restituiscono qualcosa del passato irrimediabilmente perduto, dall’al-tra dovrebbero suscitare una maggiore consapevolezza di quello che ci è stato tramandato, impegnandoci nella sua sal-vaguardia e valorizzazione.

Antica planimetria della chiesa di Sant’Angelotratta dal “Catasto Gregoriano” del 1819 (copia originale, conservata nell’Ar-

chivio storico comunale di Fumone).

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Gli italiani che scelgono una vita all’este-ro aumentano di giorno in giorno. Que-sta tendenza, particolarmente diffusa nei decenni successivi all’unificazione oltre che in concomitanza con le due guerre mondiali, è tornata alla ribalta in maniera prepotente in tempi recenti, interessando anche – e soprattutto – la zona della Cio-ciaria, inclusa Fumone. I Ciociari occu-pano oggi una delle prime posizioni nella classifica degli emigrati italiani all’estero. Basti pensare ad una ricerca pubblicata dal Corriere della Sera il 24 ottobre 2005, la quale evidenziava che su circa 3500 emi-grati italiani presenti in Irlanda in quel pe-riodo, il novanta percento proveniva dalla Ciociaria. La tradizione migratoria ciocia-ra, comunque, non è una novità: al contra-rio, risulta diffusa fin dal sedicesimo secolo. Il primo esodo di cui si han-no tracce fu quello che dalla Terra di Lavoro settentrionale, e pertanto dalla Ciociaria meridionale, si dires-se verso l’Agro Romano e Pontino. Alcuni di questi spostamenti erano stagionali, come nel caso dei pastori che scendevano in transumanza dal-le montagne ciociare verso l’odier-na pianura pontina. Altri invece ave-vano un carattere più permanente, e riguardavano principalmente brac-cianti reclutati da un “caporale”, nel proprio paese o nell’Urbe, con due tipi di contratto: quello alla mon-tanara, per il quale prima di partire si riceveva una caparra e quello di piazza, che si firmava a Roma nella scomparsa Piazza Montanara, presso il Campidoglio. Provenienti dall’a-rea ernica e dalle valli circostanti, i Ciociari (o Guitti) giungevano in città a piedi o – dalla fine dell’Ot-tocento – anche in treno. La Piaz-za Montanara (una specie di antica Porta Portese) era per loro anche un luogo ove vendere le erbe raccolte nei campi, le rane, le lumache, i fasci di gra-migna, le sanguisughe, gli oggetti antichi rinvenuti lavorando nelle tenute. Le donne,

invece, oltre a lavorare da balie, serve o mo-delle, vendevano fiori di campo e di bosco. Per le feste natalizie giungevano in città anche pifferai e zampognari, che attiravano la simpatia degli stranieri e dei romani con esibizioni di strada. E proprio gli artisti di strada furono prota-gonisti dei successivi flussi migratori che, partendo da ogni angolo della Ciociaria, raggiunsero molti paesi europei. Dal 1700 pifferai, zampognari, suonatori di tambu-rello e di organetto, comici, saltimbanchi e improvvisati venditori ciociari furono dei veri e propri pionieri dell’emigrazio-ne all’estero, esportando anche quella mi-scela tra sacro e profano che è tipica della cultura popolare nostrana. Ancora oggi si possono vedere, in ogni museo del mon-

do, quadri raffiguranti questi artisti nei loro costumi tipici, talvolta accompagnati da animali esotici per rendere più vivaci i

loro numeri. Michele Santulli, nel volume dal titolo Modelle e Modelli Ciociari nel-la Storia dell’Arte Europea rivela però che non furono soltanto gli artisti di strada ad avere successo nel campo della pittura. I tratti straordinari di alcune donne ciociare vennero infatti immortalati in opere qua-li l’Agostina di Van Gogh, oggi esposta al Museo d’Orsay di Parigi, o Le Tre Sorelle di Matisse.In generale, i ciociari emigrati all’estero non ebbero difficoltà a farsi apprezzare per le loro numerose qualità e per la grande capacità d’integrazione. Lo dimostra tra l’altro la loro cospicua presenza nelle file dell’esercito americano, impegnato nel-la prima guerra mondiale in Francia. Gli emigrati nostrani si seppero distinguere e

far amare nei loro paesi di adozione grazie ad uno stile di vita semplice, al lavoro duro, allo spirito di sacri-ficio, alla generosità e ad un grande senso di comunità. Ne è un esem-pio “Mama” Fernanda Delmonte, fumonese verace emigrata in Con-necticut. La sua storia, pubblicata nel marzo 2007 dal periodico Har-tford Courant a seguito della sua scomparsa, non si discosta molto da quella dei tanti fumonesi e ciociari che nel dopoguerra si trasferirono in America in cerca di fortuna. Ve-dova di Alberto Del Monte (“ribat-tezzato” Albert Delmonte al suo ar-rivo a Ellis Island), un veterano della prima e seconda guerra mondiale da cui ebbe due figli, Aida e Albert junior, Fernanda era nata a Fumone il 14 settembre 1921 da Giovanni e Pasqua Lucia. Cresciuta presso una fattoria, in una famiglia numerosa, aveva vissuto una vita rurale e fa-ticosa, in cui aveva però appreso i valori della famiglia, dell’altruismo e della frugalità, contribuendo attiva-mente alla lotta partigiana durante

la seconda guerra mondiale e assistendo i soldati alleati impegnati nella liberazione. Fernanda seguì suo marito Albert in Ame-

L’emigrazione ciociara in cinque secoli di storia

Guitti, soldati e operai i primi fumonesi all’estero

di Stefania Del Monte

L’italiana (L’Italienne) Vincent van Gogh, 1887Museo de Orsay, París

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rica nel 1948. In seguito al suo matrimonio divenne cittadina statunitense il 13 giugno 1952 e dopo aver vissuto brevemente ad Hartford si trasferì a Glastonbury con suo marito, dove rimase per il resto della sua vita. Entrambi lavorarono per molti anni alla Olivetti Underwood di Hartford, co-struendo pezzi di ricambio per macchine da scrivere, e furono operai presso alcune fabbriche di tabacco della zona. Duran-te gli anni vissuti a Glastonbury, Fernan-da conquistò tutto il vicinato con le sue armi migliori: l’amore e la cucina. Nessu-no sapeva preparare la pasta fatta in casa e le polpette come “Mama” Delmonte e, in qualsiasi momento del giorno o della not-te, chiunque giungesse nella sua casa pote-va assaporare qualche prelibatezza ciociara! Sempre impegnata ad aiutare il prossimo, si distinse per anni nell’organizzazione di eventi benefici per la sua comunità. La storia di Fernanda è simile a quella di centinaia di altri compaesani che dalla seconda metà dell’Ottocento scelsero di tentare la fortuna all’estero. E non si può definire casuale neanche il trasferimento in Connecticut, stato che accolse tantissimi emigrati provenienti dal mezzogiorno ita-liano. Secondo uno studio pubblicato dalla Wethersfield Historical Society, il numero d’italiani presente nello stato americano nel 1868 ammontava a 117 unità, salite dieci anni dopo a 879 e, nei quattro decen-ni successivi, ad alcune decine di migliaia. Gli immigrati provenivano per la maggior parte dai paesi a sud di Roma, inclusa la Ciociaria. Oggi, quasi il venti percento della popolazione del Connecticut riven-dica origini italiane, portandolo ad essere il secondo degli Stati Uniti d’America per numero di italiani presenti dopo Rhode

Island. Lo studio evidenzia alcune curio-sità: ad esempio si menziona che, inizial-mente, la comunità italiana era composta principalmente da giovani uomini scapoli. Malgrado molti di loro giunsero al matri-monio in tarda età, nella tipica tradizione italiana le famiglie s’ingrandirono in fretta, trasformando radicalmente la società con una folta presenza d’italiani di seconda ge-nerazione. La maggioranza degli espatriati, come nel caso di “Mama” Fernanda, una volta giunta in America vi rimase per sempre, ma senza dimenticare la terra d’origine, dove molti familiari rimasti a casa furono in grado di sopravvivere grazie alle “rimesse” inviate loro dai parenti americani. La diffusione di questa pratica comportò in Ciociaria, così come in altre zone d’Italia, la nascita di banche e l’aumento del prezzo d’acquisto dei terreni. Vi furono tuttavia anche molti ciociari che, dopo aver trascorso una vita di lavoro e sacrificio lontano dal loro luogo d’origine, decisero di tornarvi in pensio-ne. Il livello “sociale” raggiunto da quegli emigranti era attestato da un elemento che costituiva motivo d’orgoglio e soddisfazio-ne: la “cecca” (ciociarizzazione di check: assegno), ovvero la generosa pensione in dollari che puntualmente arrivava ai lavo-ratori a riposo che erano rientrati in Italia a trascorrere la vecchiaia. Una scelta fatta inizialmente per necessità, finì così per acquisire dei toni romantici che contrastano moltissimo con l’odierno fenomeno migratorio, caratterizzato inve-ce da una spinta propulsiva completamente diversa. Il frenetico viavai al quale stiamo assistendo in questo periodo è probabil-mente dovuto al fatto che, mentre andare a vivere in un altro paese per i nostri bi-

snonni era piuttosto complicato, emigrare oggi è diventato facilissimo. Per trasferirsi all’estero, infatti, i nostri avi dovevano su-bire rigidi controlli preventivi. Ad esempio negli Stati Uniti si poteva andare solo dopo essersi sottoposti a una serie di verifiche mediche e giuridiche che coinvolgevano anche i parenti più lontani e, una volta giunti dall’altra parte dell’oceano, l’appro-do alla dogana newyorkese di Ellis Island costituiva un secondo controllo, molto più severo. Superate queste enormi difficoltà burocratiche, si aveva la possibilità di met-tere piede a Manhattan e da lì ricominciare una vita praticamente da zero. Oggi il qua-dro è completamente mutato. La nascita dell’Unione Europea – che ha semplifica-to gli spostamenti all’interno del vecchio continente – e l’introduzione di viaggi ae-rei a basso costo, sono alcuni degli elementi che hanno contribuito a deviare i nostri emigranti verso destinazioni più accessi-bili quali l’Inghilterra, la Francia, l’Irlanda e la Germania. Tra i nuovi fumonesi all’e-stero si annoverano addetti a settori tradi-zionali come quello dell’ospitalità o della ristorazione, ma anche ingegneri, tecnici informatici, imprenditori e professionisti di ogni genere. Fumone presenta tuttavia una peculiarità che la contraddistingue da tanti altri comuni della Ciociaria: un flus-so migratorio a doppio senso. La cospicua emigrazione di fumonesi verso l’estero è infatti accompagnata da un parallelo ripo-polamento del borgo ad opera soprattutto d’immigranti inglesi, che proprio tra i no-stri vicoli e le nostre colline hanno trovato il loro posto al sole.

Famiglia italiana sulla nave in partenza per gli Stati Uniti

Fonti e riferimenti bibliografici

Gente di Ciociaria, di Ugo Iannazzi e Eugenio Maria Beranger, 2007

Il costume ciociaro nell’arte europea del 1800, di Michele Santulli, Grafiche del Liri, Isola del Liri, Edizioni Ciociaria Sconosciuta, 2009

Modelle e Modelli Ciociari nell’Arte Europea a Roma, Parigi, Londra nel 1800-1900, di Michele Santulli, Arpino, Edizioni Ciociaria Sconosciuta, 2010

Siti internethttp://archiviostorico.corriere.it/ (Corriere della Sera)

http://articles.courant.com (Hartford Courant)

http://www.libertyellisfoundation.org (Ellis Island Foundation)

http://www.museogentediciociaria.it (Museo Gente di Ciociaria)

http://www.wethhist.org (Wethersfield Historical Society)

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10 il Guitto Dicembre 2014

Una sorta di smania mi coglie ogni vol-ta che sento parlare le persone anziane. Le poche ancora viventi sono le ulti-me memorie di un passato che sembra ormai lontanissimo e, dunque, perdu-to per sempre. Queste persone, me-diamente molto vicine ai novant’anni, più o meno consapevolmente, nei loro racconti descrivono dettagliatamente il contesto ambientale delle case di un tempo, il lavoro in esse svolto, l’evol-versi della vita giornaliera e i rapporti sociali vissuti all’interno del borgo di Fumone. Il periodo al quale si fa rife-rimento comprende i decenni che pre-cedono e seguono immediatamente la seconda guerra mondiale: un passato cronologicamente non molto lontano ma che richiederebbe altri metodi di misura se invece venisse letto conside-rando il progresso scientifico degli ulti-mi decenni. Nel borgo di Fumone c’è un’abitazio-ne, rimasta chiusa dal 1975, a causa della morte del suo ultimo abitante, che con-serva tratti caratteristici per la descri-zione delle case di allora. L’abitazione vera e propria si articola su due livelli, con il livello inferiore sito al primo piano. Al pian terreno c’è un al-tro locale che a suo tempo serviva come ricovero per l’asino della famiglia pro-prietaria della casa sovrastante e non è in comunicazione diretta con essa. L’in-

gresso dell’abitazione è situato sul lato sud e vi si accede tramite cinque gradini in pietra e una porta in legno che misu-ra cm180x80. Si entra in una stanza di circa 25 metri quadrati, alta all’incirca 2,50 mt; attira lo sguardo, nella parete di fronte, quasi all’altezza del soffitto, la presenza di due tavole attaccate al muro una sull’altra alla distanza di circa 40 cm, verniciate con una vernice celeste pastello, lunghe circa 180 cm e larghe circa 10 cm, sulle quali trovano alloggio varie pentole e coperchi in alluminio e rame, appesi a ganci fissati sulle tavole. All’angolo, in una rientranza nel muro di circa 40 cm di profondità, alloggia la tina, recipiente che serviva da conteni-tore per l’acqua, usata per bere, cucina-re, lavare i piatti e ha una capienza di circa 10 litri. A sinistra, sulla stessa pa-rete, è collocata una rete con materasso che di giorno era usato come divano e di notte serviva per dormire. Al cen-tro della stanza è posizionato il tavolo, che oltre alla consumazione dei pasti, veniva usato durante il giorno come piano d’appoggio per le attività più di-sparate. Sulla parete di destra, all’angolo più lontano dall’ingresso, c’è una pic-cola finestra, unico punto che permette l’ingresso della luce. Sulla stessa parete, tornando verso l’ingresso, ben visibili, ci sono tre rientranze ricavate sul muro, due sotto e una immediatamente sopra,

all’altezza di circa 70 cm dal pavimento con una profondità di 30 cm. Le rien-tranze inferiori sono quadrate ma mol-to irregolari, mentre quella superiore è di forma rettangolare e comunicano tra di loro tramite un foro ricavato all’in-terno: erano i fornelli che giornalmente venivano usati per cucinare. La cottura a fuoco lento richiedeva l’intera mat-tinata e quindi la costante presenza di una persona addetta al controllo del fuoco e alla cottura dei cibi. Sempre sulla stessa parete di destra, confinante con l’angolo del muro d’ingresso, tro-va spazio un grande camino che serviva per scaldare l’ambiente nelle giornate più fredde e per cucinare cibi che ri-chiedevano recipienti di dimensioni maggiori. A destra, appoggiata al muro della parete d’ingresso, una cassapanca svolgeva le funzioni di contenitore e di piano d’appoggio per sedersi vicino al camino. Sulla parete di sinistra c’è una credenza in legno, molto semplice, con quattro sportelli di cm 30x30 e dell’al-tezza complessiva di circa 80 cm. A fian-co alla credenza, subito dietro la porta d’ingresso, c’è all’angolo uno sportelli-no di legno a muro di cm 30x40, che contiene un foro comunicante con la fogna: questo svolgeva alcune funzio-ni dei bagni odierni e, secondo alcune testimonianze, erano poche le famiglie che possedevano tale comodità.

L’Angolo della memoria L’abitazione fumonese intorno al 1950

di Bruno Mastromoro

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Dicembre 2014 il Guitto 11

I muri della stanza sono di due diverse tonalità: partendo dal pavimento e sa-lendo per circa un metro, lungo tutta la stanza corre una fascia di colore cele-ste, pitturata con vernice per questioni igieniche. Il resto della stanza, compre-so il soffitto in legno, è pitturato con tempera bianca per dare più luminosità all’ambiente. Al centro del soffitto, l’u-nico punto luce è costituito da un piat-to in metallo laccato dove trova allog-gio una lampadina. Sul lato sinistro c’è una costruzione in legno: una porta dà accesso alla scala che conduce al livello superiore. Salendo sei gradini abbastan-za ripidi, tramite una botola, si giunge alla stanza da letto. Emergendo dal pia-no inferiore si rimane abbagliati dalla luminosità di questa stanza, che pro-viene dall’unica finestra posta di fronte all’ingresso e dalla quale si può osserva-re un panorama semplice ma appagan-

te, costituito dai tetti delle abitazioni di fronte e da lontane e cineree montagne, in direzione est. Sulla parete di fondo, a sinistra, c’è, appoggiato al muro, il let-to matrimoniale con terminali in ferro e, ai suoi piedi, un letto singolo messo in orizzontale. A sinistra c’è un piccolo armadio a due ante mentre sulla pare-te di destra, poggiati al muro, ci sono un comò e una cassapanca. Completa l’arredamento un lavabo, consistente in un manufatto in ferro dove trovano al-loggio il bacile e una brocca in metallo, il tutto vicino alla finestra. I muri della stanza sono pitturati in rosa mentre il soffitto, costruito con tavole molto leg-gere sulle quali poggiano direttamente le tegole, è pitturato in bianco. Come facevano a vivere? La domanda nasce spontanea da un sommario con-fronto con le abitazioni moderne: non c’è la Tv! Non c’è Internet! Ma nean-

che l’acqua calda! Non c’è il riscalda-mento! Non ci sono divani! Il lavabo serviva, al mattino appena svegli, ad espletare le essenziali funzioni di puli-zia, usando solo circa un litro di acqua fredda (a volte anche meno!). L’unica fonte di calore della casa, il camino, la-sciava passare più aria che calore, com-plice anche una piccola buca praticata in basso a destra sulla porta d’ingresso per lasciare entrare i gatti, che cacciava-no indesiderati topolini. Benché circondati da un ambiente ir-reale, si percepisce un’estrema dignità ispirata dalla semplicità e dalla compo-stezza del luogo. Quando si esce, l’im-pressione che rimane è che l’aver var-cato quei cinque gradini ci ha dato la possibilità di effettuare un viaggio spa-zio-temporale permettendoci di vive-re la realtà di un’epoca recente seppur lontanissima dalle nostre abitudini!

RicevitoriaSala Slot

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località la mola - bivio fumone

0775 49015

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12 il Guitto Dicembre 2014

Negli anni a Fumone, ho sempre visto, tra i tanti turisti, persone passeggiare e soffermarsi a contemplare un porto-ne, una finestra, una casa o un semplice muretto, come se questi gli raccontassero storie d’altri tempi.La stessa cosa ora succede anche a me: con la suggestione dei racconti che ho sentito negli anni dalle persone anzia-ne, passeggio per le vie del borgo e mi sembra di vedere bambini che giocano, donne che si raccontano pettegolezzi mentre prendono l’acqua alle fontane, signore che da dietro le finestre si scambiano confidenze e intanto controllano i movimenti dei vicini e immagino, nelle osterie, tavoli pieni di uomini impegnati a giocare a carte o con bottiglie di vino intenti in goliardiche “passatelle”. Mi sembra addirit-tura di sentire i passi cadenzati di due uomini, che scenden-do per via Colle, terminano il giro di ronda rientrando in una palazzina sulla sinistra.Quella palazzina, oggi di proprietà di Gianni Longhi, uni-tamente al piano superiore del palazzo Longhi, era la ca-serma dei carabinieri. Le due abitazioni sono ancora oggi collegate da un ponte corridoio su via Covoni: in un’ala vi erano gli uffici, nell’altra le residenze dei militari scapoli e negli scantinati erano ubicate le celle per i detenuti. Da via Covoni, nei pressi dell’angolo medioevale, sono visibili due finestre con doppie sbarre: sono le finestre del carcere.Gli anziani di Fumone ricordano gli uffici della caserma de-corati con simboli e motti della Benemerita, eseguiti dalla ditta locale Cialone Tullio e figlio.Il servizio dei militari in un paese pacifico come Fumone era tutt’altro che impegnativo: controllavano il territorio e più spesso facevano da pacieri nelle liti familiari o tra vicini, oppure dispensavano consigli e consolazioni ai cittadini.A dimostrazione della vita tranquilla dei carabinieri nel

paese, alcuni ricordano che per movimentare un po’ le giornate si faceva-no scherzi e burle a tutti: un giorno alcuni giovani presero di mira un loro amico, il maresciallo Zerbini, uccidendogli il gatto e facendoglielo ritrovare impagliato di fronte a casa.Negli anni cinquan-ta, l’arma dei Ca-rabinieri fu equi-paggiata con auto di servizio quindi la caserma, che era diventata logistica-mente inadeguata, fu spostata fuori le mura, nella palazzina dei Di Folca, dove oggi sono gli uffici postali: qui rimase fino alla metà de-gli anni sessanta quando fu sop-pressa e i Carabi-nieri che vi pre-stavano servizio trasferiti presso la sede di Alatri.

Storie di un tempoLa Caserma dei Carabinieri a Fumone

di Lamberta Caponera

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La Ciociaria, con i suoi novantuno co-muni, è una terra che conserva tradizioni religiose ancora molto vive.A Fumone, la tradizione legata ai festeg-giamenti del santo patrono, San Seba-stiano, è davvero peculiare e assume, in alcuni momenti, tratti folcloristici.Il giovane martire Sebastiano, vissuto durante le persecuzioni di Dioclezia-no (284-305), colpevole di aver iniziato molti alla religione cristiana, fu dappri-ma legato a un tronco e bersagliato da innumerevoli frecce, ma, curato da una donna di nome Irene (poi divenuta san-ta), tornò a diffondere il cristianesimo nel cuore dell’impero romano. L’impera-tore lo condannò di nuovo: fu frustato a morte e gettato nella cloaca. Il suo corpo fu recuperato e sepolto nelle catacombe. La chiesa Santa Maria Annunziata, nel centro storico di Fumone, conserva le reliquie del santo: una parte del braccio e della testa. L’origine del culto di san Sebastiano a Fumone probabilmente ri-sale al IX secolo quando, in occasione di un assedio, i soldati elessero il martire come loro speciale protettore mentre la prima festa religiosa popolare fu celebra-ta nel 1186 per commemorare la vittoria riportata su Enrico VI figlio del Barba-rossa. Tutta la comunità partecipa ai festeggia-menti in onore del patrono e contribu-

isce così a mantenere in vita una tradi-zione secolare. Ogni anno, il 17 gennaio alle ore 14,00, viene designato un “festarolo”, ossia co-lui che si occuperà dei festeggiamenti per l’anno seguente. La designazione av-viene nel palazzo comunale, per estrazio-ne (“al bussolo”), tra coloro che hanno presentato la propria candidatura. Subito dopo l’estrazione ne viene data comu-nicazione al neo eletto, tramite il messo comunale che, di solito, è accompagna-to dalla giunta, da alcuni concittadini e dal rullare di un tamburo. La sera del 20 gennaio il festaiolo uscente consegna a quello entrante “la mazza”, il bastone sormontato dal busto di san Sebastiano che resterà in casa sua per un anno.

Siamo andati, dunque, a intervistare Ma-riateresa Faraone, da tutti chiamata Pia, la “festarola” in carica.

Salve Pia. Potresti illustrarci quali sono le tappe fondamentali della festa?

Salve a tutti. La festa di san Sebastiano si celebra due volte l’anno: il 20 gennaio e nella “seconda feria di Pentecoste”, ovvero il lunedì successivo alla Pentecoste. Secondo l’usanza, il 16 gennaio, il festaiolo uscente riceve in casa sua la cittadinanza: in tale

occasione la porta della sua casa è ornata da un arco di alloro (e mirto), a simboleggiare pace, gioia e festa. Alla sommità è posto un agnello impagliato e, dopo la prima forchet-tata offerta al sindaco, verranno distribui-te ai presenti le “sagne” con salsa di alice. In entrambe le occasioni, dopo la funzione religiosa del mattino, viene distribuita la “panata” una minestra con un po’ di pane senza companatico, mentre la sera, sempre dopo la funzione religiosa, dal terrazzo del-la chiesa vengono lanciate alla popolazione che aspetta trepidante al di sotto, delle ciam-belle che erano state attaccate a un ramo di ulivo. Dopo la messa del mattino, il festarolo pre-senzia alla processione religiosa: la statua d’argento opera dell’orafo romano Rusconi e risalente al 1697, viene portata in spalla da alcuni uomini per le vie del paese; per la processione il festaiolo deve anche provvede-re alle torce, due grossi ceri offerti al santo e portati dalle torcere, due ragazze vestite allo stesso modo.

Perchè hai deciso di “prendere la fe-sta”?

Erano molti anni che avevo in mente di farlo, però purtroppo dopo la scomparsa di mio marito non è stata più una priorità. Devi sapere che negli anni passati era un onore poter ospitare il busto del santo nella

Essere “Festaroli” a FumoneIntervista a Mariateresa

di Michele Rossi

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propria casa e occuparsi dei festeggiamenti: molte famiglie si contendevano questa pos-sibilità. Purtroppo negli ultimi anni le can-didature sono state scarse e da due anni a questa parte nessuno si è proposto.

E cosa succede in questi casi?

Il Comune si fa carico di questa respon-sabilità. Quando ho saputo che nemmeno quest’anno nessuno si era presentato ho de-ciso di farmi avanti.

E’ stata una decisione istintiva quindi.

I miei figli mi hanno sostenuta in questa scelta che ho fatto anche per paura che la tradizione morisse.

Che cosa è successo dopo la tua can-didatura?

Sono andata al Municipio con due testimo-

ni a depositare la mia firma e la mattina della festa, come vuole la tradizione, le ca-riche comunali, seguite dalla folla festante, hanno portato nella mia casa il busto di San Sebastiano.

Un momento molto emozionante quindi.

Si. C’erano molte persone: è stato un mo-mento di grande orgoglio per me; il fatto che nessuno volesse più farlo mi rattristava parecchio. Spero che questa mia decisione rappresenti uno stimolo per le famiglie, e per quelle più giovani in particolare. Non è un impegno gravoso ed è un grande onore ospitare nella propria casa i festeggiamenti del patrono.

Credi che in futuro lo farai di nuovo?

Non lo escludo ma preferirei che anche altri

riscoprissero questa tradizione e, come me, non la vedessero come un onere ma come un gesto di devozione verso il santo. È bello inoltre vedere come la cittadinanza si costi-tuisca in comunità in quei giorni di festa: infatti nei giorni precedenti la festa, tutti i fumonesi si recano in casa del festaiolo e, portando doni in denaro o in natura per contribuire alla realizzazione dei festeggia-menti, ricevono a loro volta delle ciambelle preparate con una ricetta tipica.

Insomma la festa di San Sebastiano è una festività che crea coesione, rinsalda i legami sociali e mantiene in vita una tradizione religiosa molto antica di cui il tempo non ha sbiadito i caratteri.

Grazie a Mariateresa e al prossimo nu-mero!

Il bilancio di “Fumone estate 2014” supera ogni più rosea aspettativa: è stata considerevole la partecipazione agli eventi, organizzati dalla Pro Loco con il patrocinio del Comune di Fumone, da parte di un pubblico numeroso ed eterogeneo. Merito degli organizzatori che hanno programmato un ca-lendario ricco di eventi e dei partecipanti che, con rinnovata fiducia, hanno garantito il successo di ogni appuntamento. Con la “1° FESTA DELLA TREBBIATURA” si è rievocata la mietitura e la trebbiatura del grano, tradizione molto antica e radicata nella popolazione locale; si è tornati indietro nel tempo, circondati da dame e cavalieri del XVI secolo, durante

la “GIORNATA IN ABITI RINASCIMENTALI”; si è riso a crepapelle nelle due serate di “CABARET” e in quella del “TEATRO DIALETTALE”.Nelle due serate della terza edizione di “CANTINE APER-TE” migliaia di persone hanno apprezzato la cucina tipica locale servita nelle vecchie cantine e nelle vie più caratteristi-che del borgo, coinvolti in canti e balli da gruppi folk locali, fino a tarda notte.Il 23 Agosto si è svolto il 1° Festival Bandistico fumonese “INCONTRA.. BANDE”, vi hanno partecipato la “Bulli e Pupe Music Band” di Fumone, l’Associazione musicale “A.

La Pro Loco di Fumone ripercorre le tappe del programma estivodi Mariano D’Agostini

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Dicembre 2014 il Guitto 15

Ponchielli” di Civitavecchia, il corpo musicale “Compatrum” di Montecompatri e l’A.M.C. della città di Ceccano: il paese, per un’intera giornata, ha assistito all’esecuzione delle più belle opere musicali.L’iniziativa che quest’anno ha dato grande soddisfazione al direttivo della Pro Loco è stata “LA PIAZZETTA DELLE STORIE”. L’ultima settimana di agosto, ogni sera, in piazza dell’Olmo, il cantastorie Cataldo Nalli ha coinvolto il nume-roso pubblico di bambini e adulti, trascinandolo ogni volta in un mondo favoloso e incantato. Per i tanti turisti e gli amanti dell’artigianato locale, la Pro Loco insieme all’Amministrazione Comunale ha allestito i “MERCATINI PER IL BORGO” nel giorno di ferragosto e nelle domeniche 24 e 31 agosto.Il 12 ottobre è stata organizzata la “FESTA DELL’UVA” nella piazza di S. Maria Annunziata, con pigiatura e distribuzione di pizzette, dolci, acquata e vino a tutti i partecipanti.Programmare un calendario così ricco di eventi è stato molto impegnativo ma il sindaco Franco Potenziani e la presidente della Pro Loco Fumone degli Ernici Flavia Di Fede, si dichia-rano molto soddisfatti e orgogliosi dei risultati ottenuti. Gli apprezzamenti maggiori sono arrivati dai turisti, che hanno

trovato il paese molto affascinante e pieno di vita. È doveroso rivolgere un sentito ringraziamento all’Ammini-strazione comunale e alle forze dell’ordine, al direttivo della Pro Loco, a tutti i volontari che hanno contribuito alla buona riuscita degli eventi e alla banda “Bulli e Pupe” che ha col-laborato all’organizzazione del festival bandistico; si ringra-ziano anche i proprietari delle cantine del borgo che hanno messo a diposizione i locali di loro proprietà in occasione di alcuni eventi e, infine, tutti i residenti del centro storico che hanno dovuto sopportare qualche disagio per il notevole afflusso di persone. La Pro Loco di Fumone ha approntato un ricco program-ma anche per le festività natalizie: presso la “sala polivalente Andrea Lisi” della scuola elementare, in località Pozzi, il 27 e il 30 dicembre ci sarà una TOMBOLATA, il 28 dicembre una serata teatrale a cura della compagnia “LE STRENGHE” che metteranno in scena LA GIARA di Pirandello; il 2 e 3 gennaio il cantastorie per adulti e bambini, Cataldo Nalli, racconterà storie e fiabe natalizie; per il 4 gennaio è prevista l’ultima tombolata della stagione natalizia mentre il 6 genna-io, nel centro storico, la befana porterà a tutti i bambini calze piene di dolci.

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