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IL DOLORE DEL MONDO “Il grande enigma della vita umana non è la sofferenza, è la sventura” (Simone Weil) Corso a cura di Giuseppe Florio Tenuto a Collevecchio nell‟agosto 2005

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IL DOLORE DEL

MONDO

“Il grande enigma della vita umana non è la sofferenza,

è la sventura”

(Simone Weil)

Corso a cura di

Giuseppe Florio

Tenuto a Collevecchio nell‟agosto 2005

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Indice Pag. 2

Introduzione “ 3

CAP. 1 La teodicea, il buddhismo e la tradizione russa “ 7

Il Salmo 46 “ 11

Il Salmo 85 “ 14

CAP. 2 Dalla Chiesa dei martiri alla Chiesa dell’impero “ 17

CAP. 3 Giobbe “ 24

La tradizione e la letteratura russe “ 29

Il Salmo 130 “ 31

La Passione di Gesù secondo Marco “ 33

CAP. 4 Il profetismo “ 35

CAP. 5 Dall’Esodo al Servo sofferente “ 42

La Passione di Gesù secondo Luca “ 50

La sofferenza nei fratelli “ 51

CAP. 6 I racconti della Passione di Gesù nei Vangeli “ 55

CAP. 7 La passione e la croce “ 61

Il Salmo 22 “ 67

Dalle tribolazioni, una nuova vita “ 70

CAP. 8 La kènosi “ 73

Conclusione “ 77

Testo non rivisto dall‟autore.

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INTRODUZIONE

1. Una premessa

Inizio questa serie di incontri su un tema molto speciale, quello de “IL DOLORE DEL MONDO”,

manifestandovi un mio sogno: quello che un simile corso un giorno possa diventare un semina-

rio. E che un seminario di questa natura venga condotto a più voci, e con partecipazione dei pre-

senti, per persone che sanno di essere alla fine della propria navigazione. Infatti, la verità di

quello che si andrà dicendo in questi giorni avrebbe bisogno di una conferma: che il corso possa

essere significante per chi veramente è dentro al dolore finale. Perché è più facile parlare del do-

lore che viverlo.

Come avete potuto vedere dal programma, al momento, come ho già detto, si tratta di un corso.

Partiremo da una prospettiva molto vasta, con un‟intenzione precisa; poi passeremo alla storia

della Chiesa; quindi parleremo di Giobbe, dei profeti, della Passione, del senso della Croce, per

arrivare alla fine a un tentativo di conclusione.

Credo che quando si fa questo tipo molto intenso di incontri, ricchi di contenuti e di riflessioni,

l‟unica accortezza debba essere quella di raccogliere, per poi, dato il tema, quando si rientra alle

proprie case, riprendere certi particolari. È un argomento, il nostro, che esige tempi lunghi per la

meditazione, per cui sarà necessario tenere da conto una certa bibliografia, che sarà suggerita al

termine del corso.

Una prima indicazione generale riguarda il volume, edito da Feltrinelli, L‟esperienza del dolore

di Salvatore Natoli, il cui sottotitolo è Le forme del patire nella cultura occidentale. È un testo

molto semplice, che vale la pena di leggere.

Iniziamo l‟incontro di oggi dando uno sguardo storico-sociologico al problema del dolore, pre-

cisando in che senso se ne parlerà. L‟argomento è molto ampio e se ne può parlare in tutti i suoi

significati. Allora, dopo la panoramica storica e sociale, verrà precisato il senso che sarà dato al

discorso. Seguirà poi una brevissima annotazione su che cosa la filosofia ha tentato di dire, in

maniera oggettiva, in merito. E infine aggiungeremo due noticine, una, che sarà sviluppata nei

giorni successivi, riguardante il pensiero del buddhismo sul dolore e l‟altra ciò che ne pensa la

tradizione russo-ortodossa, i cui contenuti appaiono talvolta straordinari. A quest‟ultimo riguar-

do, è da dire che quasi tutti i grandi romanzieri russi dell‟Ottocento (vds. Dostoewskij) hanno

affrontato il tema del dolore con una carica letteraria geniale e con una carica umana non sem-

pre così presente in Occidente.

2. Una precisazione

Concludo questo approccio con una precisazione che mi riguarda: mi sono voluto interessare

esclusivamente all‟argomento “DOLORE”, rendendolo “il mio tema”. Volendone approfondire

uno, ho deciso di rendere centrale questo, attorno a cui poi si raccoglie tutto il resto. Il motivo è

semplice: il cristianesimo ha qualcosa da dire ancora oggi? e quale caratteristica avrà in futuro ?

sarà in grado di trasmettere, di comunicare la sua anima profonda nell‟incontro con le altre reli-

gioni? È mia convinzione che il cristianesimo tornerà a essere significante quando i tempi sa-

ranno maturi per porre alla Chiesa una grande domanda proveniente dalle altre religioni: “A che

serve la Croce?”. Noi pensiamo di conoscere la risposta e in effetti un qualunque teologo po-

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trebbe darla con facilità. Ma ben più terribile è l‟altra domanda: “A che serve il dolore

dell‟innocente?”.

Sono stato piacevolmente sorpreso da Papa Benedetto XVI, il quale, mentre era in vacanza in

Valle d‟Aosta, ha esposto alcune considerazioni ai preti valdostani riuniti. Riporto qui alcune

citazioni, cui è da attribuire un significativo molto positivo:

- “si vede che le cosiddette grandi Chiese storiche appaiono morenti”;

- “il mondo occidentale, staccato dalla sua cultura, non scopre più come cosa evidente la neces-

sità di Dio”;

- “avanzano le sette con risposte semplici e si presentano con la certezza di un minimo di fede

e l‟uomo cerca certezze”.

L‟orizzonte su cui mi muovo è questo: che significato avrà il cristianesimo in futuro?

Sarà quello che gli attribuiscono alcuni politici e giornalisti, nuovi “dottori della Chiesa”, spesso

chiamati “atei devoti”, o sarà ben altro? E i valori a cui continuamente si fa oggi riferimento

(specialmente da parte di questi “dottori” che non sono mai stati dei modelli di credenti) che

fondamento hanno, dove si radicano al di là delle parole da essi usate (noi siamo figli della tra-

dizione ebraico-cristiana)?

3. Il mondo degli sconfitti

Ho preso il titolo del corso (Il dolore del mondo) da Simone Weil, ebrea perseguitata. Ha detto

che “il grande enigma della vita umana non è la sofferenza, è la sventura”. Noi non parle-

remo della sofferenza in generale, ma in maniera specifica di quello che spesso abbiamo deno-

minato “il mondo degli sconfitti”, le vittime dei vincitori, di coloro cioè che non hanno potuto

plasmare il mondo, o la propria vita, secondo i loro bisogni.

Da un lato, in Occidente, si sa che sul discorso del male, della sofferenza in generale e ancor più

delle vittime, non si riescono a fare delle analisi soddisfacenti o razionalmente oggettive. È da

chiedersi (e questo interrogativo ci viene dall‟America latina): dove ci poniamo per guardare al

problema? Partiamo dalle analisi oggettive o ci poniamo invece dalla parte di coloro che nella

storia sono vittime e vittime innocenti? Se tutti i discorsi che facciamo hanno una validità è per-

chè abbiamo un punto di partenza legittimo, che vedremo se deriverà o meno dalla tradizione

ebraico-cristiana.

Quando parliamo di vittime, parliamo di un male molto concreto, che è fatto d‟ingiustizia e op-

pressione, di circoli viziosi che creano povertà e dipendenza. Certamente un buddhista ne parle-

rebbe in maniera legittimamente diversa. Quando parliamo di vittime, di violenza dal basso, par-

liamo di violenza politica, del cinismo dei potenti, dello sfruttamento, dell‟emarginazione; par-

liamo di poteri incontrollati. In politica e in economia, parliamo di intolleranza, di contraddizio-

ne forte negli attuali processi di globalizzazione. Dieci anni fa, quando parlavamo di questi pro-

cessi di globalizzazione, qualcuno ci guardava male, considerandoci dei marxisti. Adesso che

questi processi si ripercuotono anche sull‟Italia (8 mln. di italiani quest‟anno non sono andati in

vacanza), notiamo una crescita grave delle disuguaglianze e allora forse qualcuno si pone i pri-

mi interrogativi seri.

Quando parliamo, quindi, di situazione delle vittime parliamo in genere di questo immenso

mondo della povertà, parliamo di 3-4 mld. di persone indigenti. Molti paesi stanno peggio di 10

anni fa e parecchi ancora peggio di 30 anni fa. Cosa è accaduto, specialmente se si fa riferimen-

to alle conseguenze disastrose?

Per rispondere a questa domanda, facciamo un esempio di come crescono le disuguaglianze: ci

sono 340 persone nel mondo che hanno un reddito pari a quello di 41 paesi messi insieme. C‟è

poi l‟ingiustizia delle strutture e delle proposte che vengono elaborate in certi luoghi del potere,

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dove si dice vengano dati dei suggerimenti perché la vita umana possa essere umana. Sappiamo

che le proposte che oggi vengono fatte per quello che noi chiamiamo sviluppo (perché si possa

andare a scuola, si possa avere un po‟ di salute, un minimo di benessere) vanno bene forse per il

40-50% dell‟umanità, mentre ben poco è previsto per il resto.

Sono molti i discorsi che si sentono riguardo al fatto che non c‟è violenza più duratura di quella

della povertà. Ma c‟è qualcuno che chiede a quale tribunale ci si debba rivolgere per domandare

conto dei 40 mln. di esseri umani che ogni anno muoiono di fame e di malattia a causa della po-

vertà?

4. Un’analisi numerica

Questa è una sofferenza, un male, un dolore molto, molto generalizzato. Vorrei riuscire in pochi

minuti (cosa ridicola, perché quando ci si lavora dentro, ci si rende conto che siamo in presenza

di un problema molto più grande di noi) a fare un percorso di quanti morti innocenti ci sono sta-

ti solo in questi ultimi decenni in occasioni precise della storia dei popoli. È una cosa sconvol-

gente soltanto a provarci!

Samantha Power, una giornalista americana, in un suo libro (Voci dall‟inferno – Baldini e Ca-

stoldi Edit.), analizza i genocidi di questi ultimi 40-50 anni. Non si tratta soltanto del poveraccio

che muore di fame o del bambino che si estingue per indigenza, ma di un fatto storico terribile.

Nel libro si fa risaltare in modo circostanziato come le nostre macchine istituzionali e politiche

si muovano a passi lentissimi e intervengano quando il genocidio è già finito.

Mi ha molto colpito apprendere in questi giorni ciò che è accaduto nel Congo durante la domi-

nazione belga. Quando era re Leopoldo II (1880-1920), perché i dominatori potessero procac-

ciarsi il caucciù, sono morte 10 mln. di persone.

In Armenia, nazione non certamente popolosa, nel 1915-16, è stato trucidato oltre 1 mln. di in-

dividui.

Durante l’olocausto, di cui tutti conosciamo la storia, sono stati soppressi 6 mln. di ebrei, cui si

devono aggiungere altri 5 mln. tra polacchi, rom, comunisti e altri indesiderabili.

Il Bangladesh si è reso indipendente dal Pakistan nel 1971 mediante il sacrificio di 2 mln. di

bengalesi, mentre 200 ml. donne bengalesi sono state violentate.

Attenzione, stiamo parlando di vittime innocenti!

In Vietnam, la guerra finisce nel 1975 con la morte di oltre 1 mln. di persone tra soldati ameri-

cani, soldati vietnamiti, vietcong e civili.

In Cambogia, tra il 1975 e il 1979, la follia di Phol Pot – che rispondeva alla precedente follia

di Sihanouc (1964) – ha causato oltre 2 mln. di morti. Nel 1974, Nixon, sul cosiddetto “sentiero

di Ho Chi Minh”, ha buttato più bombe di quante ne siano state buttate sul Giappone durante la

2^ guerra mondiale.

E come dimenticare lo sterminio nel 1972 in Burundi di 150 ml. Uthu da parte dei Tutsi oppure

in Ruanda quando nel 1994 gli Uthu, andati al potere, hanno ucciso 800 ml. Tutsi?

In Iraq, nel periodo 1987-88, vengono eliminati 100 ml. curdi.

In Bosnia, tra il 1992 e il 1995, vengono uccisi 200 ml. bosniaci.

Si tratta di una lista interminabile: pensate alle purghe di Stalin, ai campi di confino cinesi, alla

tortura impiegata in tutte le forme di dittatura (come in Myanmar), allo sterminio degli indios

nei vari paesi dell‟America centrale (Guatemala, Salvador, Nicaragua).

Prendendo in esame il complesso di tutte le morti di questi ultimi 50 anni nei vari paesi del

mondo, il fiume di dolore innocente è tale che non appare possibile reggerlo. È umanamente

impossibile reggere l‟urto di tutto il male che in questo momento accade nel mondo. Io credo

che abbiamo come bisogno di una certa forma di difesa per non soccombere anche noi.

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5. Lo sventurato, luogo teologico

Questo fiume di dolore dove va? A che serve? È questo il punto di partenza del nostro esame.

Credo che la nostra evangelizzazione futura passerà da qui.

Cosa dice la visione biblica?

Qui è interessante il cammino percorso dai teologi latino-america-ni, che hanno pagato caro il

loro lavoro. Si tratta di teologi che hanno approfittato di tutto il lavoro precedente svolto in Eu-

ropa (Francia, Germania, Italia) prima, durante e dopo il Concilio II e lo hanno rielaborato in

funzione del contesto storico in cui vivevano. Hanno evidenziato, tuttavia, un‟originalità (che

però non era nuova, perché nei secoli è possibile ritrovarla), che partiva da un punto focale,

quello delle vittime, da quel fiume da cui non si può prescindere.

Il punto di partenza della loro analisi era che il poveraccio (la vittima: il bambino ammazzato, la

donna stuprata, la gente uccisa per qualsiasi motivo) è luogo teologico. Era un po‟ di tempo che

non si sentiva parlare così!

Il povero cristo è, dunque, luogo teologico.

Significa che in lui passa una rivelazione. Ma rivelazione di che cosa? Di Dio! C‟è una rela-

zione essenziale tra le vittime e Dio che si rivela. Questo significa che il Dio cristiano ha un vol-

to. Se il Dio cristiano si rivela attraverso il volto della vittima, questo è il suo volto.

A me dispiace che, su questo argomento, negli anni ‟70-80, a Roma, ci sia stato uno scontro

molto forte tra il Cardinal Ratzinger e alcuni teologi dell‟America latina. Tutti ricordate quella

triste vicenda. Penso che se ci fosse stato più tempo, questo era il vero punto sul quale ci si

doveva spiegare per fare approfittare la Chiesa intera di questa prospettiva. Non è da dimentica-

re che quello latino-americano è il primo continente che ha elaborato una sua teologia.

Dopo il luogo teologico, costituito dal povero e dalla vittima, il secondo aspetto da annotare è

che il male, che affligge la storia e che fa vittime, non è un‟entità astratta; ma il male è fonda-

mentalmente relazionale, nel senso che le sue vittime sono tali perché non funziona qualcosa nel

mondo, non funziona cioè qualcosa nel rapporto tra gli uomini e tra gli uomini e le istituzioni,

tra i ricchi e i poveri, tra i potenti e i non potenti.

Se Dio si manifesta attraverso la vittima, questa non solo rivela qualcosa di Dio, ma rivela an-

che quanto di malato c‟è nei rapporti umani. Non a caso la nostra tradizione ebraico-cristiana

parla di vittima come di frutto dell‟ingiustizia.

Noi, in questo senso, ci siamo sempre dibattuti (e vi assicuro che non sarebbe così nella tradi-

zione induista e buddista) tra questi due atteggiamenti, che spesso convivono nella stessa perso-

na o nella stessa comunità: uno di non accettazione, di indignazione e anche di ribellione (che si

ritrova in Giobbe e in tanta parte della nostra tradizione ebraico-cristiana) e l‟altro con un signi-

ficato quasi mistico (il più rappresentativo è quello russo-ortodosso).

Questi due atteggiamenti possono essere illustrati attraverso delle testimonianze. Cito l‟ultima

lettera di un soldato tedesco scritta dal fronte di Stalingrado al padre, pastore protestante:

Te lo devo dire, caro padre, e mi rincresce doppiamente; tu mi hai sempre messo Dio davanti agli occhi e all’a-nima. E doppiamente mi rincrescono queste parole perché saranno le mie ultime e non potrò mai più dirne altre capaci di cancellarle e di espiarle. Tu sei pastore di anime, padre, e nell’ultima lettera si dice solo la verità op-pure ciò che si ritiene vero. Ho cercato Dio in ogni fossa, in ogni casa distrutta, in ogni angolo, in ogni mio ca-merata, quando stavo in trincea o nel cielo, Dio non si è mostrato quando il mio cuore gridava a Lui. Le case erano distrutte, i camerati erano altrettanto eroici o vigliacchi quanto me, sulla terra c’erano fame e omicidio e

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dal cielo cadevano bombe e fuoco, soltanto Dio non c’era. No, padre, non c’è nessun Dio! Lo scrivo di nuovo e so che è cosa terribile e per me irreparabile”.

È una lettera veramente drammatica!

Veniamo all‟altra concezione, quella mistica. Citiamo le parole di un filosofo profondamente

credente, Emmanuel Mounier, riportate a proposito della morte della figlioletta, in una lettera

scritta alla moglie:

Che senso avrebbe tutto questo se la nostra piccola bambina fosse solo un pezzetto di carne, un po’ di vita ac-cidentata e non questa piccola ostia bianca che ci supera tutti. Un’infinità di mistero e di amore che ci abbaglie-rebbe se la vedessimo faccia a faccia. Cerchiamo di non demeritare questo piccolo Cristo che sta in mezzo a noi, per non lasciarla sola a lavorare col Cristo. Non voglio che noi perdiamo questi giorni, dimenticando di con-siderarli per quello che sono, giorni pieni di grazia sconosciuta.

Teniamo sempre presente il significato di ambedue le lettere, quella del soldato, che muore a

Stalingrado e si chiede dove sia Dio, e quella di Mounier, che perde la figlia adorata.

La nostra tradizione si è dibattuta tra queste due vie. Noi cercheremo di restare fedeli a queste.

CAP. 1

LA TEODICEA, IL BUDDHISMO E LA TRADIZIONE RUSSA

1. La Teodicea

Vediamo ora cosa ha saputo dire in merito una filosofia e una teologia particolare, chiamata

TEODICEA, appartenente anche questa alla nostra tradizione.

Cosa significa TEODICEA? Il termine deriva dal greco: Dio e s = giudicare, giusti-

ficare, discernere. E‟ una riflessione per “discolpare” Dio dal male esistente.

Da sempre ci si pone il dramma della sofferenza umana; il dramma del giusto innocente colpi-

sce tutti coloro che sono sensibili. Ma non c‟è soltanto il dramma del singolo, spesso c‟è anche

il dramma collettivo e quando sono collettivi i drammi sono terribili. Perciò l‟uomo è stato sem-

pre interpellato da questi eventi e ha cercato sempre di dare una risposta.

Questa piccola parte della riflessione filosofico-teologica, la TEODICEA appunto, cosa ha cercato

di fare? Un filosofo ha riassunto secoli di questa riflessione nel suo “Saggio di teodicea”, pub-

blicato nel 1710. Si tratta del filosofo tedesco Leibnitz, di religione cristiana. Di fatto, ha com-

piuto una sintesi del cammino della TEODICEA.

La TEODICEA, di fronte alle domande un po‟ impertinenti di Giobbe (e do ogni vittima), vorreb-

be giustificare Dio. La domanda è: Se c‟è il male, dov‟è Dio? Per rispondere è sorta questa spe-

cie di scienza filosofico-teologica, tendente a scagionare Dio da ogni responsabilità per la pre-

senza del male nel mondo.

Per Leibnitz le cause del male sono tre:

1. La prima causa consiste nella finitezza delle cose. Questo limite è chiamato dal filosofo “ma-

le metafisico” e consiste nel fatto che tutte le cose create non sono perfette, ma sono finite. Que-

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sta limitatezza si ripercuote su tutti gli uomini e sulle loro strutture e segna, quindi, tutta l‟attivi-

tà umana. C‟è sì un‟attività umana che si adegua ai bisogni che gli uomini manifestano e c‟è una

attività umana che non riesce a corrispondervi e, di conseguenza, si sta male. C‟è la possibilità

di avere uno Stato perfetto? NO. Riusciremo ad avere una giustizia perfetta? NO. Ecco in cosa

consiste il male metafisico, che, come si comprende, è fatto dagli uomini.

2. La seconda causa è la caducità o corruttibilità, cioè il “male fisico” (l‟uomo, infatti, invecchia

e muore). Il dolore fisico dell‟uomo, quindi, appartiene a questo mondo, che è un mondo mate-

riale. Un medico diceva: divinum est sanare dolorem, un motto che sembra più idoneo per la

medicina, ma che comunque è legato alla condizione umana molto fallace.

3. La terza e ultima causa è la libertà. L‟uomo è libero e da questa prerogativa nasce il “male

morale”. Egli ha la capacità di scegliere e, quindi, di peccare. Nella TEODICEA si riconosce que-

sta possibilità e la conseguenza è che il peccato porta nel mondo disordine, sofferenza e l‟uomo

è costretto a pagare per questo.

Quindi, Dio non è l‟autore del male.

A livello biblico questa non è la pista da seguire.

Giobbe e i suoi amici, per esempio, affrontano i temi della TEODICEA, ma non arrivano a una

conclusione, anzi Dio rimprovera gli amici di Giobbe per il loro tentativo di difendere Dio stes-

so. In effetti, e lo vedremo, Dio merita una fiducia infinita, malgrado tutto il male. E questa è la

conclusione di Giobbe, il quale però non riesce a risolvere il problema del perché della sofferen-

za.

Altro esempio è quello del “servo sofferente” di Isaia. Per la prima volta arriva una intuizione

che ci lascia senza parole. In un mondo che è stato lacerato spesso dalla prepotenza del sacro,

spunta questa nuova figura, quella del servo che patisce per altri; non ha peccato, ma soffre per

altri. Questo non esiste in nessun‟altra religione.

Altro esempio possiamo trovarlo nei Vangeli, di cui Leibnitz sembra essersi dimenticato.

Come si può razionalmente pensare di giustificare Dio? Aveva ragione quel soldato di cui si è

parlato prima. Cosa possiamo giustificare, noi? A livello razionale, noi non giustificheremo

mai niente! Cosa giustificheremmo della croce di Gesù di Nazareth? Questo è il punto.

Nel Nuovo Testamento, Dio stesso (e qui entriamo nella fede) prende su di sé, e lo fa suo, il ma-

le dell‟innocente che muore. Un senso tutto questo lo deve avere e non ci è chiaro. Razional-

mente parlando non ci è chiaro. Ecco perché su questo tema, quando vogliamo avvicinarlo tra

filosofia e teologia, non sono importanti le risposte, ma sono importanti le domande poste.

Quando tutto ciò sarà ben chiarito dentro di noi, ci consentirà una certa libertà di spirito interio-

re, che ci potrà servire quando arriverà la prova, il male.

Tutto quanto abbiamo detto vale per la TEODICEA. E qui terminiamo.

2. Il buddismo

Buddha, a causa del dolore, tra l‟espiare e il darsi alla pazza gioia, tra l‟automortificazione e il

libertinismo, propone una via intermedia. Il buddhismo, più che una religione, è un‟idea della

vita (soprattutto sul dolore e la sofferenza) e di come superare questo dolore e questa sofferenza.

Si parte da una esperienza universale: tutti, prima o poi, sperimentano il male e la sofferenza. Di

conseguenza, bisogna attivarsi in un certo modo.

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Il buddhismo proviene dall‟induismo, ma, rispetto a questo, ha delle differenze, pur conservan-

do alcuni principi.

La via di mezzo propugnata sarebbe formata da quattro nobili verità:

1. Riconoscere che la vita è malessere, scontentezza, insoddisfazione e, quindi, sofferenza. È

sofferenza ottenere ciò che si vuole ed è sofferenza evitare ciò che non si vuole. In questa situa-

zione rientra un po‟ tutto: malattia, fame, disturbi psicologici, paura, rabbia, isolamento. Tutto

ciò è sperimentato e vissuto dall‟uomo, il quale è chiamato a riconoscerlo.

2. Qual è la causa generale di tutta questa sofferenza? L‟ignoranza e il desiderio egoistico. I

buddhisti, quando parlano a noi occidentali, non citano il desiderio tout court come accadeva

20/30 anni fa, ma parlano di desiderio egoistico. Di conseguenza, non si deve desiderare niente,

neanche il bene. L‟ignoranza e il desiderio egoistico si manifestano attraverso l‟avidità, l‟odio,

qualsiasi delusione che scatena reazioni violente di possesso, ecc. L‟uomo si identifica con que-

sti elementi negativi (avidità, odio, delusione) e questa è una grande illusione che si dovrà sco-

prire col tempo, perché non sono l‟avidità, l‟odio e la delusione a dare soddisfazione, non danno

le risposte. In pratica, come dice anche l‟induismo, l‟uomo soffre perché si illude e prende luc-

ciole per lanterne. La delusione che ne consegue causa appunto sofferenza.

3. Esiste la possibilità di sradicare l‟avidità, l‟odio, la delusione, cioè si può andare oltre queste

cose attraverso un cammino di trascendenza, andare oltre l‟illusione del desiderio egoistico. C‟è,

quindi, la possibilità di scoprire un cammino che porta fuori dalla sofferenza fino al nirvana, la

ricomposizione e la pace di tutto.

4. L‟ultima nobile verità consiste nel nobile ottuplice sentiero. Come si fa a liberarsi dalle cose

cattive, se è vero che siamo vittime dell‟illusione, che ci fa prendere per vere cose che vere non

sono? Otto sono i punti per farlo e tutti molto pratici: retta comprensione, retto pensiero, retta

parola, retta azione, retto mezzo di sussistenza, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concen-

trazione. E questa è la via di mezzo.

È ovvio che per essere guidati su questo sentiero è necessaria la presenza di un maestro, che

spieghi tutto.

È un cammino di purificazione, di distacco che non necessariamente si esaurisce in questa vita e

che potrebbe passare attraverso molte vite (il karma). Per noi questo è un problema in più. Sem-

brerebbe una risposta a tutto: l‟uomo è schifoso e merita di essere punito, allora nella prossima

vita pagherà tutto; così si potrà purificare.

In fondo, il buddhismo è un‟etica e su quest‟etica noi occidentali ci interroghiamo: che fonda-

mento ha? Per il buddhismo, l‟etica è il mezzo per arrivare alla liberazione e alla perfezione, in

modo che tutto arrivi a una unità cosmica. Certo, ci chiediamo: chi ci dice che la nostra purifi-

cazione passa attraverso un numero indefinito di reincarnazioni? Come facciamo a saperlo?

Qual è il criterio di discernimento per conoscere la verità di una vita, che poi diventa un‟altra

cosa, che però è sempre la stessa? Tutto questo ci obbliga a fare un ragionamento: quando par-

liamo di ingiustizie e di vittime possiamo fondare su queste un‟etica che non sia soltanto perso-

nalistica? Sarà possibile questo?

È un problema che ci seguirà per tutti questi giorni, perché il buddhismo sarà tenuto presente e

sarà affrontato in maniera critica.

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3. La tradizione russa

Sono rimasto impressionato dalle sintesi operate da alcuni nostri docenti in merito al dolore del

mondo. Forse non ha tutti i torti Papa Ratzinger quando dice che le vecchie chiese storiche sem-

brano morenti.

Prendiamo la Russia. La cultura russa, come tutte le culture slave, mette insieme sofferenza, do-

lore dell‟innocente e Dio. E anziché soffermarsi sulla teodicea, s‟interessa di qualche annotazio-

ne molto concreta di quello che accade in un uomo attraverso la sofferenza. Facciamo un esem-

pio: Dostoewshij afferma che nella sofferenza c‟è la sola causa della nascita della coscienza.

Questo ci dice quanto la cultura russa abbia investito su tale affermazione.

In genere, in Russia ci sono state deformazioni che sono tipiche di tutti gli ambienti, compreso

quello cristiano: la sofferenza è castigo, è espiazione; però c‟è una via russa alla santità o, me-

glio, una via alla santità russa (e questa affermazione mi ha meravigliato più di tutto). La que-

stione viene posta in questo modo: i primi santi russi canonizzati sono stati i principi fratelli Bo-

ris e Gleb in Ucraina nel 1015. Il padre, Vladimir, era morto e il regno era vacante. Il fratello

maggiore di Boris e Gleb, Sviatopolk, li uccide per prendersi il trono (certo, nella storia questa

non è una novità). In effetti, dice la tradizione russa, i due fratelli non sono martiri, ma sicura-

mente sono tra coloro che hanno sofferto una passione, come quella di Gesù Cristo. Qui sta la

straordinarietà dell‟avvenimento! E l‟ideale di santità propriamente russa passa da lì, da questa

strada, che spesso è anche ascetica.

Gli stessi Vangeli dicono una cosa simile: noi siamo ritenuti degni di continuare nella nostra e-

sperienza umana la passione di Cristo, portare sulle proprie spalle il peso della passione. La più

profonda persuasione della spiritualità russa è che chi soffre partecipa alla sofferenza di Cristo

e, quindi, conoscerà una trasfigurazione della sua sofferenza.

Noi, su questi concetti siamo troppo deboli. Non abbiamo coraggio per affermarlo direttamente.

I russi, invece, lo hanno fatto e lo fanno ancora, con la convinzione che quello che dicono ha un

fondamento antropologico: il popolo russo, per storia e collocazione geografica, soffre molto e

questa sofferenza fa parte del suo DNA. Questo i russi ce l'hanno: si considerano un popolo co-

stituzionalmente sofferente, con una sofferenza mistica e talvolta, dico io, anche malaticcia.

Uno studioso russo, Florenskij, matematico, filosofo, teologo, sacerdote ortodosso, vittima delle

atrocità staliniane, pochi giorni prima di morire ha avuto il coraggio di dire:

“Il destino della grandezza è la sofferenza (il massimo della grandezza sarebbe l‟uomo che arri-

va a dare se stesso, sia esso monaco, madre, padre o medico), quella causata dal mondo esterno

e quella interiore. Così è stato, così è e così sarà. Perché sia così è assolutamente chiaro: c‟è

una sorta di ritardo della coscienza rispetto alla grandezza dell‟io (la grandezza dell‟io si mani-

festa nel dare se stesso; è allora che si entra nel mare della sofferenza, si va avanti e dopo si

prende coscienza). È chiaro che il mondo è fatto in modo che non gli si possa donare nulla se

non pagandolo con sofferenza e persecuzione (se si vuole donare se stessi, perché così dice il

Vangelo e questa è la grandezza, si conoscerà la sofferenza). E quanto più disinteressato è il do-

lore, tanto più crudeli saranno le persecuzioni e atroci le sofferenze. Tale è la legge della vita, il

suo assioma fondamentale: per il proprio dono, la grandezza, bisogna pagare con il sangue”.

Nel 1990 è stato ucciso un “pope”, Alexander Men; questi, il giorno prima di morire, ha escla-

mato: “Il cristianesimo sta per iniziare”.

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NOTA *

All‟inizio di questo lavoro, vorrei lasciare la parola a François Cheng, cinese, da molti anni in

Europa, membro dell‟Accademia di Francia.

Nelle nostre librerie possiamo trovare i suoi saggi: La scrittura poetica cinese, Il vuoto e il pie-

no, Cinque meditazioni sulla bellezza.

Un autore in costante andirivieni tra Oriente ed Occidente.

“Nella cultura occidentale ho scoperto una capacità di guardare il male e di riconoscere la

tragicità del destino che in Cina è assente.

Taoismo e confucianesimo non affrontano con sufficiente radicalità il problema del dolore.

Questo loro limite ha reso possibile l’apertura al buddismo, che ha positivamente feconda-

to la cultura cinese a partire dall’anno 1000.

A me pare però che il cristianesimo sia andato ben al di là del buddismo, in questa indagi-

ne del male.

Vorrei fosse chiaro che non mi interessa fare l’elogio del cristianesimo, ma semplicemente

constatare, riguardo questo specifico aspetto, un suo maggiore rigore”.

(5 agosto 2006, intervista su Repubblica-D)

*

IL SALMO 46

1. Premessa

Il “vespro” è sempre un momento di riposo e contemplativo insieme. A questo scopo, quindi,

leggeremo il Salmo 46. Lo utilizzeremo come preghiera contemplativa, durante la quale non

cercheremo risposte, semmai vedremo di affinare le nostre domande.

Quando preghiamo con un salmo, prima dobbiamo chiederci per chi lo vogliamo recitare. Noi

ricorriamo a queste preghiere, anche se ci appaiono vecchie, perché sono le preghiere di un po-

polo, anzi sono le preghiere di un popolo per il popolo, che è la famiglia umana. Quando si reci-

tano o si cantano, le invocazioni in essi contenute vengono rispedite alla famiglia umana.

Tuttavia, i salmi non sono delle pure e semplici invocazioni, che ci danno gioia o un po‟ di olio

alla nostra interiorità. Il nostro compito non è quello di rivolgere queste preghiere per noi stessi,

ma di estenderle al massimo, perché portiamo il mondo e la storia con noi. Quindi, ogni volta

che leggiamo un salmo, chiediamoci per chi lo facciamo.

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2. Il Salmo 46

Il titolo del Salmo è: “Vieni, Signore” o, in aramaico, “Marana tha”, preghiera che ritroviamo

nell‟Apocalisse. Si tratta di un‟invocazione molto semplice; tutti, anche i più umili potevano ca-

pirla ed esprimerla, dirla con le labbra e con il cuore. È nata nel contesto dell‟Apocalisse, cioè di

chiese e di comunità molto provate (dall‟isolamento, qualche volta dalle persecuzioni, dai martì-

ri). È nell‟Apocalisse che si dice che la vera teologia nasce dalle lacrime. Allora Marana tha

(Signore, vieni) vuol dire: vieni in questa valle di lacrime, vieni in questo mistero che non riu-

sciamo a capire, vieni a colmare i vuoti, vieni a detergere le lacrime. Ricordiamo, a questo pro-

posito, le espressioni della parte finale dell‟Apocalisse: “E tergerà ogni lacrima dai loro occhi;

non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”

(21, 4).

L‟autore , 80-90 anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù, aveva già maturato la visione che

soltanto Dio avrebbe raccolto questo immenso fiume del dolore umano. Si tratta veramente di

un grande atto di fede!

Anche noi siamo chiamati a unirci a tutto il dolore umano, a tutte le vittime che non sanno per-

chè sono colpite. Sia la nostra tradizione sia quelle orientali dicono che, di fronte a questo pro-

blema del dolore, delle vittime innocenti, la prima cosa da fare è quella di entrarci dentro simpa-

teticamente, cioè con tutto se stessi, condividendo e facendo proprio questo dolore. Questa è la

più grande forma di comprensione che riusciamo ad avere del dolore umano; non abbiamo ri-

sposte vere, ma possiamo vivere questa esperienza proprio perché il dolore umano non ci è e-

straneo e possiamo farlo nostro. E questo anche se noi non siamo particolarmente provati. C‟è

una forma di sapienza, di conoscenza, che viene proprio dall‟essere con coloro che vivono il do-

lore, che vivono la morte.

2. L’esame del testo

Pregando questo Salmo, riprendendolo nella memoria del cuore, ci si accorge che è un atto di

fede. Esso esprime questa fede attraverso delle immagini con una certa efficacia anche poetica.

Si parla di terremoto, di monti che crollano, di un fiume che rallegra la città; si parla della notte,

del fremito dei poteri umani che si sgretolano. Si parla anche del Signore degli eserciti, conclu-

dendo con un sogno di fede. Al v. 10, infatti, si dice che il Signore “farà cessare le guerre fino

ai confini della terra, romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà con il fuoco gli scudi”.

Si tratta, dunque, di un Salmo sofferto (i russi direbbero: una sofferenza trasfigurata, una soffe-

renza che non è solo morte, ma anche risurrezione).

Vediamo questa piccola opera più da vicino.

Chi scrive ha vissuto, in qualche circostanza che soltanto lui sa, nell‟angoscia, ma riconosce di

non essere solo: “Dio è per noi rifugio e forza, aiuto sempre vicino nelle angosce”. Sa, quindi,

che Dio è sempre vicino; ha sperimentato certamente qualche prova o semplicemente l‟oscurità

dentro di sé. Ecco allora che parla di “rifugio e forza”. In questa angoscia, che lo lascia smarrito,

trova un “rifugio” e in questo suo cammino di smarrimento trova “forza”. Ma, come in tutti i

salmi, questo è quello che si dice sempre dopo.

Cerchiamo di entrare dentro il suo percorso per arrivare ad affermare quanto scrive.

Ai vv. 3-4 si parla di un terremoto. Persino le fondamenta della terra vengono smosse: la terra

trema, i monti crollano. Anche le cose che sono in fondo al mare e che sembrano le più sicure

sono inghiottite dal mare, che è sempre il luogo dell‟abisso, il luogo dove non si riesce a entrare

e dove è racchiuso il mistero del male. E quest‟acqua è diventata potente, si è gonfiata in manie-

ra spaventosa.

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È questa l‟esperienza del salmista, il quale d‟improvviso cambia, passando da questa zona

d‟ombra e angosciante alla città di Dio, a Gerusalemme. E allora dice che c‟è un fiume e ci sono

dei ruscelli che la rallegrano. Dice che Dio sta in essa e proprio per questo essa non potrà vacil-

lare. Da gran poeta poi conclude: “la soccorrerà Dio, prima del mattino”. È un splendido modo

di dire e non dire; perché sta chiarendo che questa città di Dio che non dovrebbe vacillare, inve-

ce conosce la notte (cioè, il male) e vi è immersa dentro e aspetta che ci sia un mattino (cioè,

una salvezza).

In questa attesa, le genti fremono, i regni si scuotono e la terra si sgretola all‟infuriare del tuono.

Piace questo riferimento alla natura, adattandolo all‟esperienza della comunità.

Ai vv. 8-9, il salmista riprende alcune frasi che troviamo anche in altri componimenti: il Signore

degli eserciti, le sue opere, i suoi portenti. Anche se questa strofa sembra slegata, consente tut-

tavia una consequenzialità nel sogno del salmista: non ci saranno più strumenti di guerra. Cosa

vuol dire questo sogno che egli tira fuori dalla notte che vive la città? C‟è una notte, cui seguirà

un mattino e dentro questa notte la luce che lo accompagna è proprio il suo sogno, nel senso che

tutto ciò che di male c‟è nel mondo (guerre, violenze, distruzioni, morte) potrebbe finire.

È interessante questo Salmo, che sicuramente nasce da una prova vissuta e sofferta.

Al v. 6, viene detto infatti che “Dio sta in essa” malgrado la notte e al v. 8 “il Signore degli eser-

citi è con noi”. Il poeta e gli abitanti di Gerusalemme sentono Dio vicino, perché sentono di a-

verne bisogno.

Apriamo un inciso.

Chi è il Dio con noi? Durante la Giornata mondiale della gioventù, tenuta recentemente a Colonia, il

Papa non ha citato, e poteva farlo, un martire luterano del secolo scorso, Bonhoeffer, il quale ha dato

l‟interpretazione più originale, forse ultima, alla domanda: “Chi è il Dio con noi?”, perché risponde:

“E‟ il Dio che ci abbandona”. Quanta strada si è potuta fare tra le citate espressioni del Salmo, che

hanno del vero e dell‟infantile, e la sintesi di Bonhoeffer, che è quella che si verifica al mattino dopo

una lunga notte.

Questo è quello che riusciamo a tenere insieme, nella nostra pochezza, di fronte a questo mistero,

perché non riusciamo a leggere dentro questa nostra oscurità.

3. Gesù e il Salmo

Quando Gesù recitava questo Salmo, certamente teneva presente quanta notte ci fosse intorno a

lui, nella gente che vedeva. Egli, più che parlare di peccato, parlava e agiva per entrare dentro al

dolore degli uomini. Forse era questa, per lui, la visione di un fiume che a Gerusalemme non

c‟è, di un fiume e di ruscelli che rallegrano la città di Dio.

Quei beati di cui parla il Salmo, quelle persone che hanno vissuto la notte, come i tanti martiri,

quei mln. di persone che sono passati per questa valle, per questa notte, ancora una volta, come

dicono i russi, devono aver avuto il dono di una trasfigurazione della loro miseria, della loro

morte.

Questo noi celebriamo nel segreto della fede, nell‟oscurità dell‟intelligenza. E lo diciamo per

tutti coloro che nel mondo oggi sono nella notte e sentiamoci anche noi vicini a loro, perché an-

che noi sappiamo qualcosa della notte.

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IL SALMO 85

1. Premessa

Noi citiamo spesso questo Salmo, perché è caratteristico della preghiera ebraica, che i cristiani

successivamente hanno fatta propria.

Passare una settimana a riflettere sul dolore può essere “deviante”, per cui va detto che noi non

apparteniamo a una tradizione il cui aspetto principale è: dolore, lacrime, sangue, morte, ecc.

Non è questo il filo conduttore. Abbiamo un nostro modo di guardare a questo punto oscuro

dell‟esistenza, che è il dolore, che è la vittima; anzi se è vero quello che dicevamo ieri, allora

senz‟altro la rivelazione passa attraverso la vittima, attraverso il povero cristo. Non è poco que-

sto! Nessuna religione dice questo. Però teniamo ben presente che non è questo il filo condutto-

re della tradizione ebraico-cristiana.

Il filo conduttore lo abbiamo qui, nel Salmo 85, che diventa preghiera e diventa invocazione e

va oltre tutti i salmi chiamati “di lamentazione”. Sebbene una certa parte dei Salmi sia tale, un

buon numero sono inni di elevazione e di lode. Nel caso del nostro Salmo, possiamo farlo rien-

trare nelle preghiere collettive di domanda d‟aiuto.

Io proporrei di dedicare questo Salmo a coloro che non hanno più un sogno messianico, perché

sono colpiti in modo pesante e si sentono ormai stroncati; per costoro il sogno messianico conta

poco. Ci sono poi quelli troppo sazi e sono coloro che appartengono alla nostra area occidentale;

costoro sono quelli che non conoscono più il sacrificio perché hanno tutto; non sognano molto

o, se lo fanno, sognano per se stessi, con piccoli sogni individuali.

C‟è, comunque, da noi o altrove, un popolo capace di alimentare un sogno di salvezza, un sogno

che riguarda la venuta del Regno di Dio.

2. L’esame del testo

Esaminiamo allora il Salmo più da vicino.

Inizia con la terra (v. 2) e finisce con la terra (v. 13).

La nostra terra non è una terra bruciata, desolata, appiattita dallo scandalo del dolore umano; è

una terra che “darà il suo frutto”. E quando, successivamente, chi invoca dice: “Davanti a lui

camminerà la giustizia e sulla via dei suoi passi la salvezza”, probabilmente chiede che questi

siano i frutti della terra (giustizia e salvezza).

Si parla, quindi, di terra.

Non sempre noi ci rendiamo conto di quelle che possono essere le nostre caratteristiche, perché

le abbiamo sedimentate dentro di noi e non ci badiamo più. Ma è certo che se un buon buddhista

dovesse fare un‟invocazione non comincerebbe sicuramente dalla terra. Il suo universo comin-

cerebbe e finirebbe nello spirito umano. Malgrado ciò sia da noi condivisibile, quello che ci ri-

guarda (l‟orizzonte del dolore umano, l‟orizzonte del sogno messianico) non inizia mai e non

finisce mai soltanto nello spirito umano. Noi non siamo figli di quella tradizione.

Mi chiedo, infatti, come può un cristiano, un europeo diventare buddhista: o recita o sta usu-

fruendo di qualche apporto introvabile da noi. Quello che ci è stato insegnato da piccoli e che

noi abbiamo elaborato senza riflettere, senza averne una coscienza esplicita, non è possibile

cambiarlo o toglierlo. E di questo noi viviamo, perché questo diventa la nostra identità, ciò che

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ci costruisce nel bene e nel male. Che, nell‟orizzonte del dolore umano, il dolore scompaia non

riguarda l‟interiorità dello spirito umano soltanto, ma riguarda anche la terra. È un fatto storico,

che implica giustizia e salvezza. Gesù di Nazareth sarà anche lui figlio di questa tradizione.

Il Salmo, al v. 2, quando dice: “hai ricondotto i deportati di Giacobbe”, ci fa intendere chi e che

cosa invoca. Probabilmente chi sta pregando è stato in esilio a Babilonia (587 a.C.). Gerusa-

lemme era stata conquistata e distrutta, la monarchia era finita, maggiorenti e parte del popolo

erano stati deportati a Babilonia. Si trattava di una ferita grande, perché era morto tutto, compre-

sa l‟immagine di Dio. L‟esilio, quindi, rappresentava una duplice realtà: la privazione della pro-

pria terra, del proprio luogo di gioiosa convivenza, e l‟esilio dello spirito. Le domande ricorrenti

erano: Chi siamo noi a Babilonia? Dov‟è il nostro Dio? Perché il nostro Dio è stato sconfitto? E

noi siamo stati così cattivi da meritare un trattamento del genere? Siamo in presenza della notte

oscura di tutto un popolo, che non riesce a vedere la luce!

L‟invocante innalza la sua preghiera da questo punto di vista, dall‟esilio del popolo e di Dio.

Ora, però, non ha problemi a dire che Dio ha “perdonato l‟iniquità del suo popolo,…cancellato

tutti i suoi peccati,…deposto tutto il suo sdegno e messo fine alla sua grande ira” (vv. 3-4). È la

visione semplice (o, se si vuole, anche infantile) di chi, come un bambino, ha timore dell‟ira del

padre. Pensare che Dio era adirato con gli ebrei aiutava a mettere un po‟ a posto le cose. Difatti,

il periodo passato in esilio (40-50 anni) è stato il più ricco di tutta la loro tradizione. La maggior

parte dei primi libri della Bibbia sono stati scritti definitivamente a Babilonia. Molti particolari,

che hanno caratterizzato la legge, la vita, le celebrazioni, l‟anno liturgico, sono venuti fuori du-

rante l‟esilio, quando Dio era morto, quando non c‟era la classe sacerdotale, quando non c‟era il

Tempio. Il fatto di aver meritato la grande ira perché erano stati infedeli ha avuto per un mo-

mento un effetto benefico.

La seconda e la terza strofa (vv. 5-7) dicono: “rialzaci…placa il tuo sdegno verso di noi. Forse

per sempre sarai adirato con noi, di età in età estenderai il tuo sdegno?”. In fondo, il bambino

ha sì timore dell‟ira del padre, però sa anche che gli vuole bene e che può contare su di lui. Ecco

perché il Salmo continua: “Non tornerai tu forse a darci vita, perché in te gioisca il tuo popo-

lo?”. Non c‟è soltanto il dolore, ci sono anche la vita e la gioia.

Al v. 8 compare la coppia “misericordia” e “salvezza”. La misericordia, nell‟espressione ebrai-

ca, è la tenerezza viscerale di Dio, mentre per salvezza s‟intende che la terra possa tornare a es-

sere giardino, dove si vive contenti. A ben vedere, la salvezza non ha lo stesso significato che ha

per noi oggi, ma è un qualcosa di più semplice: che si possa vivere in una casa e avere un pez-

zettino di terra, in modo da avere dove ripararsi e qualcosa da mangiare, in modo da poter loda-

re il Signore, andare il sabato alle celebrazioni, ecc.

È la tranquillità data dalle cose semplici che produce la felicità!

Arriviamo così alla frase centrale molto importante: “Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:

egli annunzia la pace”. Pace in ebraico si traduce con shalom. Già allora il termine shalom ave-

va un suo percorso: non indicava soltanto l‟assenza di guerra, ma indicava anche la pienezza

dello star bene, che non implicava solo il mangiare e il bere, ma anche star bene dentro e star

bene insieme. Non bastava solo nutrirsi, ma era necessario farlo stando in armonia con se stessi

e con gli altri.

Per chi Dio annuncia la pace? “Per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con tutto

il cuore. La sua salvezza è vicina a chi lo teme e la sua gloria abiterà la nostra terra”.

Il sogno della pace comincia a diventare invocazione. Un popolo di quattro bifolchi (gli ebrei

non erano i greci di Pericle o gli egiziani del massimo splendore; quando poi sono ritornati a

Gerusalemme, per la ricostruzione del Tempio hanno dovuto far ricorso ad architetti e manodo-

pera libanese, perché non avevano professionisti e tecnici), un popolo di contadini che si è tro-

vato immerso nella rivelazione. Il sogno, dunque, è passato attraverso questa gente.

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Il sogno riguarda ciò che troviamo al v. 11: “Misericordia e verità s‟incontreranno, giustizia e

pace si baceranno”.

È una descrizione quanto mai emotiva: l‟”incontro” e il “bacio” sono l‟essenza dell‟amore e

l‟amore è anche emozione. Talvolta, le cose che non si possono mettere insieme, se capita che

s‟incontrino, si baciano davvero. Come dicevamo prima, la misericordia è la tenerezza, l‟amore

viscerale di Dio e la verità è l‟agire essenziale, preciso, coerente. Nello stesso tempo, gli ebrei

dicevano che, se si vuole la giustizia, talvolta bisogna fare la guerra. Mentre la giustizia ritiene

in certi casi di usare la forza, la pace fa pensare invece al benessere di tutti. Tutti devono potersi

mettere a tavola, banchettare e godere dei frutti della terra. Non sempre, comunque, giustizia e

pace vanno di pari passo.

Il sogno messianico ha a che vedere con il fiume oscuro del dolore; riguarda la ricomposizione

del popolo in questa storia. Insieme all‟esodo, questa è la caratteristica più grande del popolo

ebraico che noi abbiamo ereditato.

Al v. 12 leggiamo: “La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo”. È

l‟invocazione messianica più bella della tradizione ebrea.

Troviamo inserita questa invocazione in alcune antifone del periodo quaresimale. È una decisione

che risale al V sec. d.C., quando ormai le cose andavano male, l‟impero romano era in sfacelo, i cri-

stiani vivevano alla giornata, mentre si affacciavano alla storia i barbari. In questo periodo si annun-

ziava un esilio lunghissimo che sarebbe durato secoli…. Era la caduta verticale della civiltà romana

(Roma è arrivata ad avere, da 2 mln. di abitanti, nel basso medioevo soltanto 70 ml. presenze). Biso-

gna attendere le crociate perché l‟economia europea tornasse a tirare un‟altra volta. Quindi

l‟invocazione è stata ripresa quando l‟Europa aveva paura dei barbari (traci, rumeni, ucraini, ecc., gli

extracomunitari di allora); finiva un mondo e non c‟era certezza per l‟avvenire.

3. Gesù e il Salmo

Quando recitiamo o esaminiamo un salmo, bisogna chiedersi chi lo ha scritto e, soprattutto, a

cosa Gesù pensasse quando ne leggeva uno (ma probabilmente lo recitava a memoria).

Io credo che Gesù fosse molto infastidito da una classe dirigente, quella sacerdotale, che, anzi-

chè riproporre il sogno messianico, investiva tutta la sua attività, la sua catechesi sulla legge. I

sacerdoti consideravano, infatti, la legge come la sostituta del Messia; erano degli ebrei e il cul-

to e la legge erano gli elementi fondamentali della loro vita di comunità. In pratica, è come se si

fossero dimenticati del sogno messianico. E quando qualcuno recuperava le origini, era costretto

ad allontanarsi da Gerusalemme, andare nel deserto per predicare questo sogno, con buone pro-

babilità di essere fatto fuori.

Il sogno non era morto, ma non era più strutturale nel quotidiano, non ispirava più lo spirito di

un popolo. Era come se, con la legge, il culto e l‟osservanza di questo, il Messia di fatto ci fosse

lo stesso e, se anche alla fine fosse ritornato veramente, questo era un altro paio di maniche.

Io credo, quindi, che Gesù fosse molto infastidito da questo modo di pensare e di agire. Pertan-

to, quando Gesù pregava questo Salmo, sicuramente pregava affinché il sogno messianico per-

manesse, fosse ancora ispiratore, fosse un sogno che servisse da verifica e da critica del sistema

del culto e della legge.

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CAP. 2

DALLA CHIESA DEI MARTIRI ALLA CHIESA DELL’IMPERO

1. Premessa

L‟argomento di oggi è un po‟ difficile, ma è fondamentale per capire, nella storia della Chiesa,

come mai quanto era presente agli inizi (la centralità della vittima, la centralità del Regno di Di-

o, i poveri cristi ai quali Gesù si rivolgeva) poi sia stato messo da parte, se non dimenticato.

Questo è un tema storico e teologico di fondamentale importanza. Sempre ci chiediamo come

trasmetterlo alla gente semplice. Non è certamente facile. Però, quello che è chiaro è che se

manca questo tassello, nella nostra visione, nella nostra evangelizzazione, manca qualcosa che

non ci consente di discernere bene qual è il compito dell‟evangelizzazione, qual è il compito dei

cristiani, qual è il compito della Chiesa.

Tentiamo di approfondire il discorso. Perché lo facciamo? Perché è necessario che all‟interno

della Chiesa questi argomenti siano chiari, vengano conosciuti e se ne tenga debito conto.

Stiamo parlando della trasformazione che c‟è stata, specialmente a partire dal III sec.d.C., nella

storia della Chiesa, quando cioè il peso della comunità cristiana e della Chiesa si è incontrato

con il potere imperiale (Costantino) e quali conseguenze questo ha portato all‟interno della

Chiesa stessa, conseguenze che sono durate secoli.

Finora ci è mancata una più precisa, direi popolare (permettetemi il termine) analisi storica del

passaggio dalla Chiesa dei martiri alla Chiesa dell‟impero.

4. Gesù nella Chiesa primitiva

Nella Chiesa primitiva (la Chiesa dei primi due secoli), è stata proclamata la risurrezione di Ge-

sù, la sua ascensione, la sua esaltazione, la sua divinità e questa Chiesa ha sempre mantenuto

un filo diretto e fortissimo con il Gesù di Nazareth, nato il 4 o 6 a.C. e morto il 30 d.C., che ha

avuto un suo itinerario storico, nel suo paese e nella cultura di allora.

In sintesi, la Chiesa primitiva non ha perso il senso realistico della vita di Gesù. Nella 1^ Lettera

di Giovanni leggiamo infatti: “Ciò che era fin da principio (la trascendenza), ciò che noi ab-

biamo udito (l‟evangelizzazione), ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi (il Gesù ope-

rante nel contesto concreto, storico della Palestina), ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che

le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (questa è un‟espressione venuta dopo, ma

è partita dalla realtà di un uomo che ha avuto una storia),…quello che abbiamo veduto e udito,

noi lo annunziamo anche a voi” (1, 1-3).

Troviamo un pensiero simile anche nei Vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca), che ci tengono

a narrare che cosa ha fatto Gesù, che cosa ha detto, che posizioni ha assunto, come si è compor-

tato con i contemporanei, come si è comportato con la religione del tempo, con le autorità e i

potenti, con i poveri e i diseredati, come si è comportato di fronte agli idoli del tempo (che poi

sono gli idoli di tutti i tempi: l‟avidità, il denaro, il potere, ecc.), come ha annunciato il Regno di

Dio.

Tutta questa è stata la sua attività storica e ne ha parlato in un certo modo, che non era quello

dei farisei, che non era quello dei sacerdoti, che non era quello dei sadducei, che non era quello

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dei gruppi più fanatici e politicamente orientati. Ha avuto, cioè, un suo modo storico di parlare

del Regno di Dio. Tutto questo nei primi due secoli di cristianesimo non è andato perduto.

Facciamo un esempio: nei primi due secoli si diceva che Gesù, il Cristo (dalla risurrezione,

s), era Figlio di Dio e Signore del tempo e della storia (s). Quando se ne parlava,

però si cominciava da Gesù, quell‟uomo di Nazareth, e non era detto che si cominciasse dal Fi-

glio di Dio. Parlare di Figlio di Dio era un grande atto di fede che poi si sarebbe fatto, perché

razionalmente non c‟era alcunché che potesse portare a dire subito che Gesù era Figlio di Dio.

5. I Padri della Chiesa

Cosa è accaduto dopo? Dopo i primi due secoli ci si è allontanati da questo Gesù storico.

La sua vita pubblica ha perso sempre di più importanza a favore di una concettualizzazione sulla

sua natura. Sempre di più ci si è concentrati su “generato e non creato, della stessa sostanza del

Padre” (mentre tutta la vicenda storica di Gesù è stata riassunta nella frase del Credo: “patì sot-

to Ponzio Pilato”). In pratica, l‟incarnazione era un punto centrale della teologia di allora, ma

essa serviva solo per parlare di ciò che era precedente all‟incarnazione (Figlio di Dio che vive

dall‟eternità).

Quando è cominciato tutto ciò? La svolta è avvenuta con i Padri della Chiesa, i quali dicevano

che il Figlio di Dio è Gesù, si è fatto uomo e, in quanto tale, si è manifestato come il Gesù che

diventerà il Cristo. Si comincia, quindi, dal Figlio di Dio, dall‟eternità; si parla, cioè, della sua

natura divina. È avvenuta un‟operazione per cui si è sempre più svalutata la vita storica, con-

creta di Gesù. Questo ha molte ripercussioni: la vita cristiana (vivere, non vivere; scegliere, non

scegliere; orientarsi in un modo o in un altro) viene a dipendere dalla cristologia, cioè da quale

idea si ha di Gesù di Nazareth, se lo si mette prima di tutto nell‟eternità o se lo si lascia dov‟era

prima.

In questo periodo cominciano le grandi controversie, con baruffe terribili, scontri nei Concili

sulla natura divina di Gesù. Si discuteva anche sulla Madonna. Cosa voleva dire che la Madon-

na era s (= Madre di Dio)? Erano argomenti che andavano affrontati. Certo che si do-

veva riflettere sulla natura divina di Gesù, certo che si doveva affrontare una riflessione sulla

Madonna, soltanto che ha prevalso la concettualizzazione greca, l‟impianto filosofico greco,

che ha sostituito l‟impianto ebraico di pensare Dio, la storia, i peccati, la divinità, l‟uomo.

È da allora che nel cristianesimo è venuta fuori, e sicuramente per ragioni storiche, l‟ortodossia.

Si faceva una distinzione tra ciò che era ortodosso e ciò che era eretico. E questo a scapito del-

l‟ortoprassi, a scapito cioè di come i cristiani dovevano comportarsi nell‟impero che crollava, in

una situazione storica difficile e disastrosa.

Tutto questo ha avuto un suo punto di raccolta nel Concilio di Nicea (325 d.C.), convocato da

Costantino, che non era neanche battezzato. In tale Concilio, si metteva in evidenza che c‟erano

degli eretici (Ario) e affermavano che Gesù non era veramente Dio.

Un secolo e mezzo dopo, a Calcedonia si fece un altro Concilio per dire che Gesù era veramente

Dio, ma che era anche veramente uomo. Per circa tre secoli i cristiani si sono impantanati nella

discussione sulla natura di Gesù.

Sempre i Padri della Chiesa hanno affrontato un altro argomento.

Era di quel tempo la tendenza a centralizzare la riflessione cristiana sul peccato e sulle sue con-

seguenze nel mondo. In effetti, non era stato così nei primi due secoli. Per parlare della salvez-

za, della redenzione, c‟è stato un grande teologo dell‟epoca (Concilio di Nicea), che si chiamava

Atanasio, il quale, di fronte agli ariani già noti, difendeva la vera divinità di Gesù, perché solo

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con un Gesù realmente Figlio di Dio si poteva dire che la storia del mondo, il fiume di ingiusti-

zia e di dolore che attraversava il mondo, andava in un porto che è salvezza. Dio stesso assume-

va su di sé tutto il male. Ecco perché nella tradizione ebraico-cristiana si parla di redenzione.

Essendo Figlio di Dio, veramente Dio, solo in un personaggio così, tutta la storia poteva essere

ricapitolata.

4. Il Regno di Dio e le due nature di Gesù

A differenza, quindi, dei primi due secoli, dove si insisteva su una salvezza, su una redenzione

che aveva sì il suo approdo finale, ma si diceva anche, con il Gesù storico, che questa era già

presente oggi, nella storia. Il Regno di Dio, la salvezza era già tradi noi. Il linguaggio che Gesù

aveva usato era per dire che la salvezza è presente già ora nella storia, per Gesù quello era il Re-

gno di Dio, che è presente anche se ancora non del tutto compiuto. E il Regno di Dio è tutto il

bene che c‟è nel mondo, tutti i tentativi che ci sono nel mondo per contrastare gli idoli, tutta la

forza del bene che c‟è, le scelte che gli uomini fanno in nome dei cosiddetti valori buoni esisten-

ti nel Regno di Dio, di cui Gesù ha parlato. E in questi valori ci sono anche i non-valori (i falsi

valori), che provocano vittime.

Ma, in effetti, cos‟è questo Regno di Dio?

Tutti sperimentiamo il male del mondo (la sofferenza, dicevamo, è un‟esperienza universale);

tutti, di fronte a quanto male accade, guardiamo oltre e diciamo: e allora Dio dov‟è? Ma, quan-

do parliamo di Regno di Dio, si parte sempre da questo assioma: che c‟è il male nel mondo. E

Dio che fa? Lo lascia progredire? No, il Regno di Dio significa che il male che c‟è nel mondo

non sfugge a Dio. Gesù diceva, infatti, che Dio non lascerà trionfare il male nella storia per

sempre; alla fine, questo male sarà sconfitto, eliminato. Anche oggi il male è ostacolato. Lo è

stato con Gesù stesso e anche oggi è messo in discussione. Ecco perché a questo Regno di Dio

partecipano i credenti e i non credenti, perché anch‟essi ostacolano il regno del male.

Perché si dice che il buddista, l‟induista, l‟islamico si salvano in quanto uomini di buona volon-

tà? Ciò è possibile perché un buddista, un induista, un islamico, un ateo, vivono la realtà che

Gesù ha vissuto e che manifesta presenza di Dio nel mondo, salvezza nel mondo; qualcosa che

trasforma, e in meglio, la vita, la storia.

Il Regno di Dio, dunque, era centrale. E il Regno di Dio aveva di mira il presente, con il grande

sogno messianico di cui si parlava questa mattina.

Lo slittamento avviene qui: non si parla più di questo e si inizia a parlare con tutto un apparato

filosofico sulla natura umana di Gesù, in quanto – essendoci stata l‟incarnazione – la nostra na-

tura umana viene divinizzata, partecipa anch‟essa della divinità.

La riflessione si concentra sul fatto che il Figlio di Dio entra nell‟umanità, perché l‟umanità

possa partecipare della divinità. Questo farà sì che, per tutta una serie di motivi, non si guarderà

più a ciò che può disumanizzare l‟uomo.

Per Gesù il Regno di Dio implica una “salvezza” (popolarmente, salvezza è tutto ciò che cam-

bia in bene: non si è più egoisti, si diventa solidali, si perdona, non si usa Dio a proprio vantag-

gio), che contrasta tutti quegli idoli di cui tutti i profeti parlavano e che sono sempre presenti

nella storia. Gesù, anziché pensare a un Regno di Dio “religioso” (come volevano i farisei: il

mondo nuovo poteva derivare soltanto dalla stretta osservanza della legge), pensava al suo po-

polo, per il quale la salvezza passava visibilmente attraverso le scelte positive degli uomini di

buona volontà. Questa è salvezza nella storia. Questa salvezza non è totale, non è completa, ma

lo diventerà.

20

Dicevamo, dunque, che per Gesù la salvezza consisteva nel Regno di Dio che è presente.

Questo non toglie che noi riflettiamo sul fatto che c‟è una salvezza permanente, per cui tutti noi

già partecipiamo della vita divina. Le due cose vanno mantenute. La credenza della nostra par-

tecipazione alla vita divina deve ancora permanere, anche se adesso, nella nostra storia, è in

contrasto con una realtà che è opaca, che è difficile, che è segnata dal peccato, dal male, ecc.

Ecco lo slittamento che è accaduto. E ciò è avvenuto perché c‟era tutto un apparato culturale,

storico e, soprattutto, filosofico, che il mondo greco aveva a disposizione ed è stato in grado di

parlare di metafisica, dell‟Essere di Gesù. E‟ stata la prima vera inculturazione della Chiesa, per

la quale poi ha pagato un certo prezzo.

Incomincia una certa dimenticanza del Regno di Dio.

Nei Vangeli c‟è una chiara intuizione (che è anche un‟indicazione e che si può considerare pure

un metodo di evangelizzazione): per intendere Dio – che non si vede, che non si conosce – c‟è

una chiave di lettura: per intendere qualcosa di Dio è a nostra disposizione l‟esistenza di Gesù di

Nazareth, la sua esistenza storica. E nell‟esistenza di Gesù – quello che ha fatto, quello che ha

detto, le prese di posizione, quello che ha maturato (da adolescente era incantato dal Tempio, da

adulto no) – c‟è una chiara manifestazione di che cos‟è il Regno di Dio, che è già nel mondo. Lo

si vede in Lui e lo si può vedere, discernerlo, identificarlo negli uomini tutti, credenti e no.

Questa non è stata la logica della Patristica, la quale tuttavia ha avuto dei meriti enormi per esse-

re stata propositiva del primo grande catechismo concettualmente pensato. Subentra cioè una

concezione, un‟idea, un modo di guardare al Cristo non più partendo dal Regno di Dio, da Lui

vissuto e annunziato. È stato come se si determinasse una “scomparsa” dai Vangeli sinottici

dell‟azione concreta di Gesù, del suo itinerario storico. E se scompariva il Gesù del Regno, se

scompariva il Dio che Gesù ha manifestato attraverso il suo Regno, cosa poteva accedere? È

accaduto che la Chiesa ha pensato di essere lei il Regno di Dio, sulla terra. La Chiesa, quindi, ha

cominciato a pensare a se stessa come alla realtà ultima; la Chiesa ha cominciato a pensare che

le era stato dato questo potere.

5. L’influenza della filosofia greca

Tutto questo è derivato dalla filosofia greca.

C‟era qualcosa che riusciva a influenzare la Chiesa e a inculturarla, in modo da determinare,

come dicevamo, la “scomparsa” del Regno di Dio.

La filosofia greca diceva: la situazione umana è quella che è (molto limitata, caduca, a volte mi-

serevole, anche condizionante); allora piano piano bisogna arrivare a riconoscere che questa re-

altà è tale e, quindi, bisogna superare questa illusione, bisogna arrivare alla s (= alla cono-

scenza). Quando si riconosce che un uomo avido è un poveruomo, questo ci consente una certa

libertà (e ciò in parte è vero). C‟è una conoscenza della miseria e della caducità umane che dà

libertà. L‟importante, però, è arrivare a conoscere l‟inganno, a capire l‟illusione (in fondo, anche

l‟induismo dice la stessa cosa). Platone diceva che l‟uomo è come se nascesse in una caverna,

poi conosce la luce, perché la materia (il corpo e i suoi limiti) condiziona troppo. Per essere una

persona spirituale, l‟uomo deve andare oltre la sua materia.

In effetti, quello brevemente descritto non è un processo malvagio. Il fatto, però, è che esso non

basta. L‟altra dimensione del Regno di Dio è che questa identificazione del limite della materia-

lità, che impedisce di essere in un certo modo, è sì personale ma è anche comunitaria e storica.

Se il Regno di Dio si riduce a s, a conoscenza di tutto ciò che è illusorio, non è più il Re-

gno di Dio di cui parlava Gesù.

21

Gesù, a differenza dei suoi contemporanei, legava strettamente il Regno di Dio e i poveri. Quale

s metterebbe insieme questi due elementi? Nessuna. Caso mai la s metterebbe in-

sieme il Regno di Dio e la perfezione umana.

Il legame essenziale che Gesù stabiliva tra Regno di Dio e povertà – e non tra Regno di Dio e

legge, non tra Regno di Dio ed etica – va scoperto proprio nell‟esistenza di Gesù.

Nell‟epoca patristica, dunque, c‟è un completo cambiamento del modo di pensare circa la divi-

nità; si parla delle due nature (umana e divina), di come stanno insieme, di come si distinguono

e di come s‟integrano. Non ci si interroga più tanto su chi è stato Gesù nella sua vita terrena, ma

qual è la sua natura. Forse ci voleva un‟evoluzione nel pensiero cristiano, ma certamente non a

un prezzo così alto.

Per la prima volta si è sviluppata una cristologia “speculativa”; cioè, pensata attraverso ragio-

namenti filosofici e con strutture filosofiche (natura, essere, ecc.). Da qui viene fuori che esiste

una dottrina, viene fuori che c‟è un dogma. Dogma è la descrizione completa di Gesù Figlio di

Dio, Signore del tempo e della storia; significa che sulla sua natura umana e sulla sua natura di-

vina si riesce a dire tutto; e se per caso mancasse qualcosa, il dogma non sarebbe completo.

Il dogma implica una precisa conoscenza di Gesù, non esistono vie di mezzo. L‟eretico diventa

colui il quale non accetta tutti i tasselli del dogma.

Il dogma poi viene tradotto in liturgia e i Concili (Nicea, Costantinopoli, Calcedonia) tirano fuo-

ri il Credo, che è quello recitato ancora oggi.

Perdendo la relazione essenziale tra Gesù e il Regno di Dio, concentrandosi sulla riflessione cir-

ca la natura di Gesù, accade che la “memoria pericolosa” di Gesù crocifisso comincia a scom-

parire. E fino ai tempi di Costantino non c‟è raffigurazione della croce, perché questa riguardava

il povero Cristo e nessuno voleva guardarla.

Gesù morto sulla croce contestava tutti gli idoli del mondo, tutti i poteri che si ritenevano asso-

luti. Il martire era il segno della croce presente, che contestava il peccato del mondo e i suoi ido-

li. Questo era l‟essenziale rapporto tra il cristiano e il Regno, che passava dalla croce.

Si veniva a perdere così anche la centralità della vittima, presente nei primi due secoli, e la si

veniva a perdere nella professione cristiana e nella prassi cristiana.

6. Il cristianesimo religione dell’impero

Il cristianesimo, attraverso la strumentalizzazione filosofica di quel periodo, diventa quindi la

religione dell‟impero. Forse sono giunto troppo in fretta a questa conclusione. Vediamo le tappe

di questa evoluzione.

Nell‟antichità le relazioni tra religione e stato erano connaturate, perché religione e stato anda-

vano insieme. E la stessa cosa accadeva nel mondo ebraico, come accade oggi per l‟islam. Ciò

avveniva in quanto la religione era lo strumento perché la gente si sentisse unita (ricorrenze sto-

riche, celebrazioni degli eroi, feste, cambi di stagione, ecc.). Allora non esistevano stati laici, ma

in ogni stato la religione aveva un ruolo molto importante, perché costituiva il tessuto connetti-

vo che assicurava l‟esistenza dello stato stesso.

Che cosa è accaduto con il Regno di Gesù di Nazareth? Gesù non ha mai considerato sacra l‟au-

torità politica. Cioè, il potere politico non era per Gesù, anche se lo rispettava, manifestazione di

Dio, come in genere si credeva in quei territori. Tuttavia, le prime Chiese hanno chiesto sotto-

missione alle autorità romane e non hanno voluto sentirsi come il club dei separati, volendo es-

sere dei normali cittadini, che, peraltro, pagavano anche le tasse. I rappresentanti delle altre reli-

gioni, quando arrivavano nei territori romani, tendevano a fare esentare i propri adepti dal pa-

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gamento delle tasse. I cristiani, invece, non si presentavano così, ma volevano sentirsi (o conti-

nuare a sentirsi) cittadini romani a tutti gli effetti.

S.Paolo, da buon cittadino dell‟Urbe, ha avuto l‟intuizione che l‟impero poteva servire alla co-

munità.

Insomma, si può dire che i cristiani cercavano una convivenza tranquilla e volevano sentirsi ri-

spettati. È chiaro che ciò non poteva continuare per sempre. E, infatti, quando i cristiani comin-

ciarono a chiedere di essere esentati dall‟arruolamento nell‟esercito, perché la guerra era contra-

ria ai loro principi, lo stato cominciò ad avere dei ripensamenti sui rapporti con loro. Ancora: i

cristiani non volevano chiamare l‟imperatore divus, perché l‟unico Dio era quello da loro vene-

rato. E per i titoli? I cristiani avevano abolito qualsiasi titolo, perché tutti erano fratres inter pa-

res; nessun titolo doveva essere rivolto agli altri. E, poi, in alcune prefetture spesso succedevano

delle incomprensioni di tutti i tipi. Dicevano i cristiani che, quando lo stato tendeva a diventare

assoluto, non era da considerare affatto (sotto questo aspetto trova giustificazione l‟esistenza

dell‟Apocalisse).

Ecco, quindi, la rottura completa con lo stato. L‟atteggiamento dei cristiani diventa quello di

non identificarsi con lo stato. Data questa situazione, si hanno delle persecuzioni e anche dei

martiri, come insegna la storia quando i rapporti vengono a deteriorarsi.

Cosa accade con Costantino? Tutta l‟ala pagana dell‟impero (dopo 3 secoli i cristiani erano di-

ventati parecchi) si raduna dietro a Massenzio per combattere Costantino. La leggenda dice che,

prima della battaglia di Ponte Milvio (312 d.C.), Costantino ha la visione di una croce con su

incise le parole: In hoc signo vinces e adotta questo segno. La battaglia viene vinta; Massenzio,

il pagano, muore travolto dalle acque del Tevere. L‟anno dopo, con l‟Editto di Milano, il cri-

stianesimo diventa religione lecita nell‟impero.

Il cammino è stato velocissimo. Da religione lecita, quella cristiana diventa ora religione che

meglio delle altre interpreta le aspirazioni umane e, quindi, delegittima le altre religioni. Nel

380 d.C., Teodosio la fa diventare la religione dell‟impero.

La contropartita è stata una certa sacralizzazione dell‟autorità. Eusebio, un teologo, elabora una

mistica teologica della figura dell‟imperatore: imperator icona Christi. Lo stesso Costantino è

venerato dalla Chiesa ortodossa come santo, quando invece è stato un uomo molto feroce (1). Si

dice che sia stato battezzato, ma non è certo. È stato però un uomo di grande abilità politica e

militare. Ha avuto l‟intuizione che il cristianesimo poteva servirgli e non ha adottato le forme

pagane, ma le insegne cristiane. Dopo la vittoria di Roma, non è andato, come facevano gli altri

imperatori, al tempio di Giove Capitolino per ricevere l‟investitura. Insomma, era abbastanza

cinico per capire che gli dei non gli servivano più.

È pura leggenda che la croce si sia manifestata a un uomo simile e che di conseguenza abbia

vinto per causa sua. Ciò è servito ai cristiani per degli scopi che forse, a quell‟epoca, potevano

essere più o meno giustificati.

Rimane fermo il fatto che i cristiani hanno dato sacralità all‟impero, quando invece prima ne e-

rano stati vittime e, successivamente, in nome di questa sacralità, hanno prodotto martiri. I cri-

stiani, che sapevano bene cosa significasse essere perseguitati, si sono a loro volta scatenati con-

tro i pagani, facendo di alcuni di questi dei martiri. Ecco l‟insorgere, 60 anni dopo, di Giuliano

l‟Apostata, ecco lo sviluppo di nuove linee eretiche.

______________________________

(1) E‟ pura leggenda che egli fosse un santo. Vale, a dimostrazione, il seguente episodio. Egli è stato spo-

sato due volte e dalla prima moglie ha avuto un figlio. Alla molte di questa, Costantino ha sposato una

figlia di Massenzio ancora troppo piccola, tanto piccola da dover consumare il matrimonio dopo dieci

anni. Ma la ragazza ha preso una cotta per il figlio di Costantino. L‟imperatore allora prima fa uccide-

re il figlio e poi fa morire la moglie rinchiudendola in un bagno e facendo aumentare a dismisura la

temperatura.

23

Insomma, non c‟era alcuna indicazione che la croce fosse un segno di gloria, un segno che ser-

visse agli eserciti.

Secondo un punto di vista latino-americano, se si guarda alla teologia del Regno di Dio, così

come ce la presenta Gesù, si potrebbe dire che essa diventa in certi casi come una controcultura,

che contrasta alcune grandi tendenze, alcuni idoli, alcuni aspetti nefasti dell‟umanità, di cui però

certa gente si approfitta e vive. Basta pensare alla non sacralizzazione del potere vissuta da Ge-

sù. Quando Egli dice che la grandezza dell‟uomo si ha non con la ricchezza, ma con il saper

condividere, non significa che non si debba produrre ricchezza, ma che la si debba saper condi-

videre, in modo che non ci sia chi mangia e chi muore di fame.

Avendo perso il Regno di Dio, in questi secoli è cominciata a mancare la controcultura ed è

mancata anche una teologia sul mondo e sui suoi meccanismi da mettere a confronto critico con

il Regno.

L‟identificazione della Chiesa con il Regno è stata portata avanti fino a 40 anni fa, quando sono

state elaborati i documenti “Gaudium et spes” e “Lumen gentium”, durante il concilio Vaticano

II.

Leone XIII e Pio X sostenevano ancora che lo stato doveva essere etico, cioè doveva dare il

buon esempio. Ciò deriva da una certa concezione sacrale dell‟autorità. I primi che hanno co-

minciato a pensare alla democrazia sono stati scomunicati da Pio IX, il quale non conosceva

niente dell‟argomento. Soltanto negli anni „30, con Maritain, si ebbe la concezione che la tradi-

zione ebraico-cristiana e la democrazia avrebbero potuto e dovuto andare di pari passo.

Ritorniamo all‟impero romano.

La decadenza, iniziata dopo Costantino, è proseguita per vari secoli. C‟era, comunque, ugual-

mente la presenza di una controcultura, molto ma molto minoritaria, poi schiacciata. Infatti, una

buona parte del movimento monastico – in Medio Oriente, in Egitto e anche a Roma – è nata

per contrastare la mondanizzazione della Chiesa, diventata struttura portante dell‟impero, i cui

vescovi erano organici alla corte.

Dapprima non c‟era alcuna croce; dopo Costantino la croce viene messa sugli elmetti, sugli scu-

di e sul labaro e diventa il simbolo del cristianesimo.

Quando la croce diventa stemma militare, significa che la verità si può imporre anche con la

forza. È una conseguenza che non ha niente a che vedere con il Regno di Dio.

24

CAP. 3

GIOBBE

1. Premessa

Nell‟Antico Testamento c‟è un libro, quello di Giobbe, che si può considerare il più moderno di

tutta la Bibbia. È il libro della grande protesta di fronte a Dio.

Giobbe, ovviamente, non è un personaggio storico. Il libro è stato composto in 2-3 secoli, a co-

minciare dal V sec. a.C. e sicuramente è stato finito nel II sec. a.C.

Dall‟Esodo in poi, si trovano tante grandi affermazioni di fede che confessano quanto Dio sia

presente (“Io sarò con te” – Es.3,12; “…è con te il Signore tuo Dio, dovunque tu vada” – Gs.1,

9). E questa è senz‟altro una verità. Al medesimo tempo, ce n‟è un‟altra che dice che Dio è as-

sente, che Dio è lontano e lo si sperimenta come tale. C‟è, dunque, nell‟Antico Testamento

(Salmi, Profeti) una grande parte di letteratura in cui si invoca Dio, ci si lamenta e si esprime la

propria delusione di fronte alla miseria e alla crudeltà della storia che sembrano scatenarsi per

l‟assenza di Dio. In certi momenti, nulla sembrerebbe impedire al male di compiere la sua azio-

ne devastante.

Nell‟Antico Testamento non poteva mancare un libro di questo genere.

Però, non è un libro che dà soluzioni; non dà una risposta al problema della giustizia di Dio,

dell‟empietà umana e delle vittime. Da un lato, certamente rifiuta una certa teologia e una certa

immagine di Dio (ed è il contrasto grande che c‟è nel libro) e, dall‟altro lato, non apre la strada a

una nuova teologia, a una nuova proposta.

L‟opera si presenta come una grande provocazione. Pone al centro il tema della sofferenza del

giusto, la sua sventura. La dialettica che sta dietro a tutto il libro è: c‟è una relazione tra la sven-

tura di un uomo e il male che egli potrebbe aver compiuto? La teologia tradizionale diceva che

se un uomo stava bene ed era ricco voleva dire che era stato premiato da Dio; se veniva colpito,

allora voleva dire che c‟era ragione per colpirlo. Questa relazione tra causa ed effetto ha il nome

di “teologia della retribuzione”: l‟uomo meritava ciò che lo colpiva. Il valore del libro sta

nell‟aver spezzato questa teologia, rifiutandola con passione. In esso, c‟è uno scontro tra due sa-

pienze, tra due teologie: quella classica e quella che non accetta che il giusto sofferente sia vit-

tima del male che ha commesso.

Essendo una provocazione, la vicenda si svolge secondo la cultura dell‟epoca, come una piece

teatrale: c‟è un tribunale, dove qualcuno accusa Dio e qualcuno lo difende. Siccome Giobbe è

imputato del male che ha compiuto (e Dio non dovrebbe essere estraneo a questo), da un lato c‟è

chi accusa l‟uomo perchè si merita quello che ha ricevuto (teologia tradizionale) e, dall‟altro,

c‟è Giobbe che si difende; ma Giobbe, difendendosi, accusa Dio.

Questo libro ha avuto una grande eco in tutta la grande tradizione russa. A volte, in certi grandi

scrittori russi (Dostoievskij e altri) si narra di un pazzo girovago, colpito da tutte le disgrazie del

mondo. Egli è considerato manifestazione di Dio, anche se tutti lo deridono e nessuno capisce

cosa sta a fare questo pazzo al mondo. Ci soffermeremo su questo nel prossimo capitolo.

25

2. L’impianto del libro

Brevissimamente facciamo un‟inquadratura del libro di Giobbe. Esso inizia con un prologo,

lungo due capitoli, in cui, con una certa fantasia, si narra di un diavolo che va in giro per il

mondo e si accorge di Giobbe. Satana dice al Signore che forse sarebbe il caso di mettere alla

prova Giobbe, che sembra una degna persona. Al consenso del Signore (“Eccolo nelle tue mani!

Soltanto risparmia la sua vita” – 2, 6), tutte le infelicità possibili e immaginabili si abbattono su

Giobbe. Anche la moglie si lancia contro di lui: “Rimani ancor fermo nella tua integrità? Bene-

dici Dio e muori!” (2, 9). Ma Giobbe è pur sempre un uomo saggio: “Come parlerebbe una stol-

ta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene perché non dovremmo accettare il male?”(2,10).

Questo è un luogo comune, cui si è giunti con Giobbe e che è un po‟ meglio della solita giusti-

zia retributiva (secondi cui, come abbiamo detto, se si soffre, è perché si è meritato il male), an-

che se l‟oscurità del mistero resta.

Alla fine (cap. 42), con l‟epilogo del libro, si arriva all‟autoriflessione degli autori (cui sono do-

vute le aggiunte, le modifiche, l‟attenuazione delle critiche nei confronti di Dio, ecc.): “Ho e-

sposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo” (v. 3).

Seguono le parole che costituiscono la vera chiusura del libro, sulla quale ritorneremo nel corso

delle nostre conclusioni: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (v. 5).

Nell‟epilogo stesso, Dio se la prende con quelli che lo avevano difeso (è uno degli aspetti inte-

ressanti del libro). Quelli che credevano di avergli reso un servizio, parlando bene di Lui, difen-

dendoLo e giustificandoLo, vengono catechizzati severamente: “La mia ira si è accesa contro

di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giob-

be” (v. 7), che invece gli amici accusavano di bestemmiare.

Al v. 16, poi possiamo leggere: “Dopo tutto questo Giobbe…vide figli e nipoti di quattro gene-

razioni”. Sembra uno scherzo…. in ogni caso, questo libro ha alcuni aspetti di ingenuità. Do-

stoievskij, con genialità, coglie il punto debole di questa che sembra una montatura letteraria.

Ma ancor prima, apprendiamo che Giobbe riceve da Dio il doppio di quanto aveva perso, che le

sue figlie erano molto belle….

3. Il dibattito

In mezzo a questa cornice, c‟è il dibattito, la scena che si svolge tra gli attori, i quali si vengono

a trovare come in una specie di tribunale. Infatti, il genere letterario è quello che in ebraico è

chiamato “rib” (= disputa giudiziaria); in questa disputa Dio viene messo sotto accusa da Giob-

be.

L‟idea del libro è semplice: da un lato, c‟è l‟affermazione di un Dio che è giusto e, dall‟altro,

l‟esperienza concreta di situazioni molto ingiuste, profondamente ingiuste. Come si combina al-

lora la confessione di un Dio, che è giusto, con l‟ingiustizia che soffoca l‟innocente? In questa

contraddizione prende la parola il problema!

Il cap. 11 contiene la tesi che, se Giobbe è sofferente, deve essere colpevole. Teologicamente, è

la tesi della retribuzione, già accennata in precedenza.

Zofar, il propugnatore di questa tesi, dice:

2 A tante parole non si darà risposta?

O il loquace dovrà avere ragione?

3 I tuoi sproloqui faranno tacere la gente?

Ti farai beffe, senza che qualcuno ti svergogni?

4 Tu dici: “Pura è la mia condotta,

io sono irreprensibile agli occhi di lui”.

che sono così difficili all‟intelletto,

allora sapresti che Dio ti condona parte della tua

colpa.

7 Credi tu di scrutare l‟intimo di Dio

o di penetrare la perfezione dell‟Onnipotente?

8 E‟ più alta del cielo: che cosa puoi fare?

26

5 Tuttavia, volesse Dio parlare

e aprire le labbra contro di te,

6 per manifestarti i segreti della sapienza,

E‟ più profonda degli inferi: che ne sai?

9 Più lunga della terra ne è la dimensione,

più vasta del mare.

Appare chiaro che Zofar pretende di sapere lui com‟è il Dio giusto. È l‟ironia tragica dell‟opera!

10 Se egli assale e imprigiona

e chiama in giudizio, chi glielo può impedire?

11 Egli conosce gli uomini fallaci,

vede l‟iniquità e l‟osserva:

12 l‟uomo stolto mette giudizio

e da onagro indomito diventa docile.

13 Ora, se tu a Dio dirigerai il cuore

e tenderai a lui le tue palme,

14 se allontanerai l‟iniquità che è nella tua mano

e non farai abitare l‟ingiustizia nelle tue tende,

15 allora potrai alzare la faccia senza macchia

e sarai saldo e non avrai timori,

16 perché dimenticherai l‟affanno

e te ne ricorderai come di acqua passata:

17 più del sole meridiano splenderà la tua vita,

l‟oscurità sarà per te come l‟aurora.

18 Ti terrai sicuro per ciò che ti attende

e, guardandoti attorno, riposerai tranquillo.

19 Ti coricherai e nessuno ti disturberà,

molti anzi cercheranno i tuoi favori.

20 Ma gli occhi dei malvagi languiranno,

ogni scampo è per essi perduto,

unica loro speranza è l‟ultimo respiro.

Qui Zofar appare come un predicatore eccezionale. Questa, quindi, è la tesi della retribuzione.

Giobbe reagisce e attacca. Cerca di demolire, e così sarà, questa teologia. Cominciamo dal cap.

7, dove è interessante l‟aspetto introspettivo, cioè quello che sente Giobbe dentro la vicenda e

perché, vista da dentro la vicenda, quella teologia sembra morta, sembra non dire niente. Anzi

sente Dio come nemico.

15 Preferirei essere soffocato,

la morte piuttosto che questi miei dolori!

16 Io mi disfaccio, non vivrò più a lungo.

Lasciami, perché un soffio sono i miei giorni.

17 Che è quest‟uomo che tu ne fai tanto conto

e a lui rivolgi la tua attenzione

18 e lo scruti ogni mattina

e ad ogni istante lo metti alla prova?

19 Fino a quando da me non toglierai lo sguardo

e non mi lascerai inghiottire la saliva?

Ci sono molti salmi (come, ad es., l‟8) che dicono al contrario la stessa cosa: “Guardami”, “At-

tendo una risposta”. Qui invece sembra che Giobbe sia stato guardato un po‟ troppo.

20 Se ho peccato, che cosa ti ho fatto,

o custode dell‟uomo?

Perché m‟hai preso a bersaglio

e ti son diventato di peso?

21 Perché non cancelli il mio peccato

e non dimentichi la mia iniquità?

Ben presto giacerò nella polvere,

mi cercherai, ma più non sarò!

Si è sempre detto che Dio è grande, che Dio è misericordia, che Dio si ricorda del peccato per 3-

4 generazioni e poi se ne dimentica. Allora perché con Giobbe non dimentica più?

Arriviamo così al cap. 13, molto importante perché qui Giobbe comincia ad accusare Dio.

6 Ascoltate dunque la mia riprensione

e alla difesa delle mie labbra fate attenzione.

7 Volete forse in difesa di Dio dire il falso

e in suo favore parlare con inganno?

17 Ascoltate bene le mie parole

e il mio esposto sia nei vostri orecchi.

18 Ecco,tutto ho preparato per il giudizio,

son convinto che sarò dichiarato innocente.

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8 Vorreste trattarlo con parzialità

e farvi difensori di Dio?

9 Sarebbe bene per voi se egli vi scrutasse?

Come s‟inganna un uomo, credete di ingannar-

lo?

10 Severamente vi redarguirà,

se in segreto gli siete parziali.

11 Forse la sua maestà non vi incute spavento

e il terrore di lui non vi assale?

12 Sentenze di cenere sono i vostri moniti,

difese di argilla le vostre difese.

13 Tacete, state lontani da me: parlerò io,

mi capiti quel che capiti.

14 Voglio afferrare la mia carne con i denti

e mettere sulle mie mani la mia vita.

15 Mi uccida pure, non me ne dolgo;

voglio solo difendere davanti a lui la mia con-

dotta!

16 Questo mi sarà pegno di vittoria,

perché un empio non si presenterebbe davanti a

lui.

19 Chi vuol muovere causa contro di me?

Perché allora tacerò, pronto a morire.

20 Solo, assicurami due cose

e allora non mi sottrarrò alla tua presenza;

21 allontana da me la tua mano

e il tuo terrore più non mi spaventi;

22 poi interrogami pure e io risponderò

oppure parlerò io e tu mi risponderai.

23 Quante sono le mie colpe e i miei peccati?

Fammi conoscere il mio misfatto e il mio pec-

cato.

24 Perché mi nascondi la tua faccia

e mi consideri come un nemico?

25 Vuoi spaventare una foglia dispersa dal vento

e dar la caccia a una paglia secca?

26 Poiché scrivi contro di me sentenze amare

e mi rinfacci i miei errori giovanili;

27 tu metti i miei piedi in ceppi,

spii tutti i miei passi

e ti segni le orme dei miei piedi.

Andiamo adesso al cap. 14.

1 L‟uomo, nato di donna,

breve di giorni e sazio d‟inquietudine,

2 come un fiore spunta e avvizzisce,

fugge come l‟ombra e mai si ferma.

3 Tu, sopra un tal essere tieni aperti i tuoi occhi

e lo chiami in giudizio presso di te?

4 Chi può trarre il puro dall‟immondo?

Nessuno.

se viene tagliato, ancora ributta

e i suoi germogli non cessano di crescere;

8 se sotto la terra invecchia la sua radice

e al suolo muore il suo tronco,

5 Se i suoi giorni sono contati,

se il numero dei suoi mesi dipende da te,

se hai fissato un termine che non può oltrepas-

sare,

6 distogli lo sguardo da lui e lascialo stare

finchè abbia compiuto, come un salariato, la

sua giornata!

7 Poiché anche per l‟albero c‟è speranza:

9 al sentore dell‟acqua rigermoglia

e mette rami come nuova pianta.

10 L‟uomo invece, se muore, giace inerte,

quando il mortale spira, dov‟è?

Siamo al cap. 30, un capitolo lungo, in cui Giobbe esprime sentimenti oggi classificabili come

autocommiserativi e ossessivi.

14 Avanzano come attraverso una larga breccia,

sbucano in mezzo alle macerie.

15 I terrori si sono volti contro di me;

si è dileguata, come vento, la mia grandezza

e come nube è passata la mia felicità.

16 Ora mi consumo

e mi colgono giorni d‟afflizione.

17 Di notte mi sento trafiggere le ossa

e i dolori che mi rodono non mi danno riposo.

18 A gran forza egli mi afferra per la veste,

mi stringe per l‟accollatura della mia tunica.

19 Mi ha gettato nel fango:

son diventato polvere e cenere.

20 Io grido a te, ma tu non mi rispondi,

insisto, ma tu non mi dai retta.

21 Tu sei un duro avversario verso di me

e con la forza delle tue mani mi perseguiti;

22 mi sollevi e mi poni a cavallo del vento

e mi fai sballottare dalla tempesta.

23 So bene che mi conduci alla morte,

alla casa dove si riunisce ogni vivente.

24 Ma qui nessuno tende la mano alla preghiera,

né per la sua sventura invoca aiuto.

25 Non ho pianto io forse con chi aveva i giorni

duri

e non mi sono afflitto per l‟indigente?

28

Quest‟ultimo è uno dei problemi che la cultura russa si poneva e aveva sedimentato come sub-

conscio collettivo, cogliendolo nella sua interezza. Non c‟è umanità più alta che quella di essere

arrivati a questo tipo di maturazione: saper cogliere la sofferenza che si abbatte sugli altri.

26 Eppure aspettavo il bene ed è venuto il male,

aspettavo la luce ed è venuto il buio.

27 Le mie viscere ribollono senza posa

e giorni d‟affanno mi assalgono.

28 Avanzo con il volto scuro, senza conforto,

nell‟assemblea mi alzo per invocare aiuto.

29 Sono divenuto fratello degli sciacalli

e compagno degli struzzi.

30 La mia pelle si è annerita, mi si stacca

e le mie ossa bruciano dall‟arsura.

31 La mia cetra serve per lamenti

e il mio flauto per la voce di chi piange.

Questa volontà di considerare Dio come nemico è un grande atto di libertà e di maturazione,

anche letteraria, all‟interno dello sviluppo dell‟Antico Testamento.

C‟è, dunque, uno scontro, dove si parla di esperienze del male molto pesanti.

Di fronte a questo, ci sono teologi che invece difendono Dio, mentre Giobbe rifiuta questa di-

fesa. Lui si preoccupa di difendere l‟uomo (13,8).

A tal riguardo, il nostro protagonista dice che la speranza, che i suoi detrattori pretendono di

annunciare e difendere con la loro teologia, non può essere provata. Questa è la forza di Giob-

be! In effetti, egli non dà soluzioni, ma fino a lì ci arriva. Egli dice che, quando si entra a fondo

nel mistero del male e se ne conosce tutta la profondità e il buio, se si parla di speranza, questa

non può essere provata.

Fondamentalmente, nel libro si vuole dire (e Giobbe in questo fa da cavia) che anche se Dio lo

abbandona, Giobbe resta con Dio. E non resta perché Dio gli risponde.

Qui c‟è la grandezza e la meschinità dei difensori di Dio: difendono Dio perchè si manifesta in

maniera consona e premia i giusti, ma non sanno cosa dire, se non parole sconsiderate, del giu-

sto che viene colpito e soffre, il quale peraltro disputa con Dio ma non abbandona Dio. Quella

di questi teologi può essere chiamata la teologia della giustificazione di Dio, che Giobbe com-

batte con tutte le sue forze.

Nessun libro della Bibbia spinge così in là, descrive così a fondo e in maniera così acuta l‟im-

potenza umana nell‟affrontare questo problema.

Ciò servirà molto alla tradizione ortodossa, per dire di stare attenti che tutte le cose sistematiche

che si vogliono dire su Dio non contano, non dicono qualcosa di più su Dio. Questo casomai

può servire al buddhismo per dire: non facciamo un discorso su Dio, perché non lo conosciamo;

facciamo però un discorso sull‟uomo, perchè lo conosciamo; vediamo quanto l‟uomo riesce a

liberarsi da questo cerchio duro del dolore.

Verso la fine del libro (capp. 34-42), troviamo l‟affermazione, da un lato, di una relazione con

Dio che permane anche nel buio più assoluto e, dall‟altro, di una critica spietata alla religione,

intesa come teodicea.

Dal cap. 40 in poi, Dio risponde a Giobbe, il quale, in base a questa risposta, manifesta una certa

arrendevolezza e cede.

4. Conclusione

Il punto cui sembrerebbero essere arrivati gli attori della disputa, punto che però non ha avuto

nessun sviluppo, è: noi non riusciamo a dare una spiegazione sul mistero del male e se Dio tace

e non ci dà una soluzione, non è che anche in Dio c‟è qualche limite? In certi momenti, bisogna

aver toccato il fondo della disperazione per arrivare al cuore di questa domanda.

29

Le tradizioni mistiche – sia quella occidentale (cattolica) sia quella ortodossa sia l‟induismo sia

il buddhismo – presentano un atteggiamento di assoluto silenzio, che a volte dura a lungo di

fronte a un silenzio di Dio che sembra assurdo. E anziché concludere che la vita è assurda, re-

stano in silenzio di fronte all‟inspiegabile silenzio divino.

Il filosofo francese Paul Ricoeur fa questa considerazione: “In Giobbe viene elaborato

l‟elemento tragico, che, nella ovvietà della fede biblica, corre il pericolo di andare perduto. Il

Dio tragico salva l‟uomo dalle piattezze del monoteismo etico”. E conclude: “A volte non resta

che piegarsi di fronte a Dio stesso. È allora che si scopre cosa vuol dire credere”. Si dice che se,

nel piano di Dio, fosse previsto che i bambini non devono morire (la morte di un bambino è

sempre scandalosa!), allora noi avremmo più fede. E questo non è vero!.

Il libro di Giobbe, in un contesto come quello dell‟Antico Testamento, certamente limitato e

provinciale, ha avuto il merito di essere come il libro universale del dolore universale. Resta lì

il punto oscuro che vuole indicare prossimità e vicinanza a tutti coloro che sono nel tunnel, nel-

la valle oscura e, in un certo senso, rendere loro giustizia, anche a loro insaputa. Questa è la

grandezza del libro e di questo esiste un corrispettivo nel Nuovo Testamento (i racconti della

passione).

A parte queste ultime considerazioni, allora il dialogo contenuto nel libro è stato tutto un gioco?

Magari un gioco letterario?

La cosa interessante è che oggi questo libro si legge in maniera diversa rispetto a come lo pote-

vano leggere qualche secolo fa Dante, S.Benedetto o Manzoni. Noi oggi abbiamo alle spalle

un‟esperienza di sforzo indagativo, di ricerca, che è notevole, per cui ci rendiamo conto che,

poiché il segreto del libro è di rendere giustizia a chi non ha risposte, il libro stesso serve a farci

capire che tutti noi siamo nella medesima esperienza di Giobbe, che tutti noi entriamo dentro

il mistero, che tutti noi possiamo manifestare la nostra vicinanza a chi è in fondo al pozzo.

Nessuno di noi risolverà il problema, ma tutti noi diventeremo diversi proprio per il cammino

percorso a causa di questo mistero. Vero è che non risolveremo il problema, ma matureremo

qualcosa attraverso questa infinita ricerca. Questo è il libro che dice: continuate a cercare, non

risolverete i problemi perchè dentro di voi cambierete.

Il libro, quindi, non è un inganno letterario; il libro dice di non rifiutare di entrare nella profon-

da domanda su Dio: non esitate a questionare con Dio stesso, perché, se anche non si risolverà

niente, ci si troverà diversi alla fine del percorso. E questa è una cosa grande. Ecco perché, in

questo senso, quello di Giobbe è il libro più moderno della Bibbia.

LA TRADIZIONE E LA LETTERATURA RUSSE

1. Premessa

Giobbe è una figura centrale nel panorama letterario e mistico della grande Russia. Studiosi e

ricercatori non esitano ad affermare che la tendenza spirituale in Russia è stata proprio di cerca-

re “una via” al Cristianesimo che si caratterizza con l‟attenzione alla sofferenza. Si è trattato di

una ricerca molto acuta del senso del male che colpisce l‟innocente.

30

È interessante vedere che in tutta la tradizione russa non c‟è stata mai una teodicea. Sentiamo in

proposito cosa dice lo scrittore Evdokimov:

Gli ortodossi non hanno mai avuto simpatia per le “summae” teologiche né per i sistemi scola-

stici. Ogni formulazione o definizione eccessiva provoca una diffidenza istintiva. L‟ortodossia

non ha bisogno di formulare, ha bisogno di non formulare. È una convinzione innata – che vie-

ne dai Padri della Chiesa – che non sia bene speculare sui misteri, ma che sia meglio contem-

plarli e lasciarsi illuminare, penetrare dalla loro luce, senza lasciarsi razionalizzare. Il mistero

diviene illuminante. Da qui un tipo di spiritualità molto più liturgico, iconografico, discorsivo,

concettuale e dottrinale.

2. La sofferenza di Giobbe secondo Dostoievskij

Nel pensiero religioso russo prevale il silenzio concettuale, una consonanza tra silenzio e sa-

pienza che troviamo anche in Giobbe. Questo tratto mistico va in direzione della contemplazio-

ne e dell‟apofatismo (= il non dire niente di Dio, perché non si conosce niente di Lui). Dio resta

sostanzialmente non attingibile alla ragione. Qui ritroviamo anche i folli in Cristo, la loro nudi-

tà; sono i personaggi che girano misteriosamente per i villaggi e che sono anche geniali e han-

no la capacità di dire delle verità che nessun altro è capace di dire. I russi hanno molto appro-

fondito questo aspetto.

L‟altro aspetto è quello della sofferenza inutile e che ha avuto sempre le sue caratteristiche, se-

condo la concezione: si è vittime del peccato e, quindi, bisogna fare i conti anche con la soffe-

renza inutile. Mi piace vedere che Giobbe mette un dito negli ingranaggi come un bambino, ma

in maniera geniale. Lo stesso fa Dostoievskij nel cap. 6 del romanzo I fratelli Karamazov, met-

tendo il dito nello stesso ingranaggio.

Un grande maestro, che sta per morire, rivede tutta la sua vita e la narra ai suoi pochi discepoli.

Ci sono dentro: la chiesa ortodossa, la società, la nobiltà, le nuove idee di fraternità, del sociali-

smo, ecc. E c‟è anche Giobbe.

Un giorno, quando aveva appena 8 anni, era stato colpito in chiesa dalla lettura del libro di

Giobbe. E narra ciò che ricorda.

Il diavolo salì in cielo, insieme ai figli di Dio e disse al Signore di aver girato tutta la terra. Il

Signore domandò: “Hai visto per caso anche il mio servo Giobbe?”. E fece al diavolo l‟elogio

del suo servo che era grande e santo, ma il diavolo sorrise alle parole di Dio: “Dallo a me e ve-

drai che il tuo servo comincerà a mormorare e maledirà il tuo nome”.

Iddio abbandonò il suo servo tanto amato al diavolo e il diavoli colpì i suoi figli, distrusse il suo

bestiame, disperse le sue ricchezze, tutto fulmineamente come la folgore divina. Ma Giobbe si

stracciò le vesti, si gettò per terra e gridò: “Nudo sono uscito dal ventre di mia madre e nudo

tornerò alla terra. Dio aveva dato e Dio ha ritolto. Sia benedetto il nome del Signore ora e

sempre”.

Padri e maestri, perdonatemi se piango, ma mi sembra che tutta la mia fanciullezza riviva in

questo momento davanti ai miei occhi e il mio petto respira ora come respirava quando era un

bambino di 8 anni. Sento la stessa meraviglia di allora, lo stesso turbamento, la stessa gioia.

La mia immaginazione fu violentemente colpita: mi colpivano quei cammelli, satana che parla-

va con Dio in quel modo, Dio che abbandonava il suo servo nella rovina. E il suo servo che e-

sclamava: “Sia benedetto il tuo nome, anche se mi punisci”. Poi il canto dolce e sereno dei fede-

li: “Esaudisci la mia preghiera”. E di nuovo l‟incenso che saliva dal turibolo del sacerdote, la

preghiera in ginocchio.

Da allora non posso leggere questa santissima storia senza piangere. E la presi in mano anche

ieri senza piangere, anche se piango spesso.

Quante cose grandi, misteriose, incomprensibili ci sono qui dentro. Più tardi ho sentito parole

di critica e di scherno, parole di superbia: “Come potè il Signore abbandonare al diavolo per il

suo zimbello il prediletto tra i suoi santi, prendergli i figli e coprire lui stesso di mali e di pia-

ghe al punto che si raschiava il marciume delle ferite con un coccio? E perché poi? Solo per

vantarsi con satana: Ecco, guarda, che cosa ha potuto sopportare uno dei miei santi per amor

31

mio?”. Ma qui la grandezza sta appunto nel mistero, per cui una fugace figura terrena e la veri-

tà eterna hanno potuto combaciare. Davanti alla giustizia terrena si compie l‟opera della giu-

stizia eterna.

Qui il Creatore – come nei primi giorni della creazione, quando contemplava ogni giornata con

la lode: “E‟bene quello che ho fatto” – guarda Giobbe e si loda per la sua creatura. E Giobbe,

lodando il Signore, serve non soltanto Lui ma anche tutte le sue creature, di generazione in ge-

nerazione e nei secoli dei secoli, perché a questo appunto era stato predestinato.

Signore, che libro questa Sacra Scrittura e che insegnamenti! Quale meraviglia e quale forza

sono state date all‟uomo con questo libro! È come se ci fossero scolpiti il mondo, l‟uomo, i ca-

ratteri umani e tutto vi è nominato e fissato nei secoli dei secoli. E quanti misteri risolti e svela-

ti!

Dio risolleva Giobbe un‟altra volta e gli restituisce la ricchezza. Passano molti anni ed ecco

che egli ha di nuovo dei figli, altri figli e li ama. Signore, ma come poteva amare questi nuovi

figli, ci si domanda (è il dito che va nell‟ingranaggio), quando i primi non c‟erano più, quando

li aveva perduti tutti? Ripensando a loro, è possibile che fosse pienamente felice come prima,

con i suoi nuovi figli, per quanto cari gli fossero? Eppure è possibile, è possibile! Per un grande

mistero della vita umana un antico dolore si trasforma a poco a poco in una quieta, tenera gio-

ia. Al caldo sangue della giovinezza succede la pace serena della vecchiaia.

Io benedico il quotidiano sorgere del sole e sempre, come prima, il mio cuore gli eleva un can-

to, ma ormai preferisco il tramonto, i lunghi raggi obliqui e, con i loro dolci, pacati, commossi

ricordi, le care immagini di tutta una vita lunga e benedetta.

IL SALMO 130

1. Premessa

Iniziamo con la lettura, senza commenti, dei capp. 23 e 24 del Libro di Giobbe.

Passiamo ora all‟esame del Salmo 130.

Noi siamo abituati ad associare questo Salmo ai funerali; conosciuto, infatti, con il titolo di “De

profundis”. E‟ tuttavia una poesia molto bella, anche se molto breve. Per il suo contenuto, può

essere catalogata tra le preghiere individuali di domanda d‟aiuto.

Il valore delle sue parole, che diventano invocazione, consiste nel fatto che provengono dal pro-

fondo (“Dal profondo a te grido, o Signore” – v. 1). Ma quale profondo? Il Salmo non lo dice.

Potrebbe essere dal profondo di un pozzo, dal profondo di una delusione, dal profondo della

miseria, forse anche dal profondo di un senso di colpa. Si tratta, comunque, di un luogo dove le

parole e i ragionamenti potrebbero essere di poco conto.

Da questo profondo, il salmista non parla, non dialoga, ma grida chiedendo: “Signore, ascolta

la mia voce” (v. 2). È un profondo da cui, in qualche modo, vorrebbe liberarsi, come se egli fos-

se schiavo di questa profondità, di questo pozzo, e chiede di essere ascoltato, specificando: “Si-

gnore, i tuoi orecchi siano attenti alla voce della mia preghiera”. È un‟accorata richiesta affin-

chè il Signore non si distragga.

2. Il resto del Salmo

Nella strofa centrale, il poeta fa cenno a delle colpe non meglio specificate: “Se consideri le

colpe, Signore” (v. 3). Il vantaggio della poesia è che le parole e le immagini lasciano aperta

ogni strada e tutti possono entrare dentro a quelle parole e a quelle immagini a partire dal per-

corso che hanno compiuto.

32

Le colpe possono essere di chiunque: le mie, le nostre, quelle di tutti; sono le colpe di cui ab-

biamo responsabilità. Ma ci sono anche quelle di cui non abbiamo responsabilità, eppure le

chiamiamo colpe, che comunque ci intrigano, che ci fanno smarrire. Da questo, il salmista pas-

sa subito a parlare di perdono (“Ma presso di te è il perdono; perciò avremo il tuo timore” – v.

4), di speranza (“Io spero nel Signore, l‟anima mia spera nella sua parola” – v. 5), di acco-

glienza. Non si dilunga molto su queste colpe, che probabilmente sono anche il suo pozzo, il

suo profondo.

Le immagini restano aperte, molto ricche e molto umane. Il poeta non dice se il Signore ha o-

recchi attenti, non dice se si sente riconciliato da questo perdono, se è un uomo riappacificato,

contento, sereno. Dice, però, una cosa nell‟ultima strofa: che lui continua a vigilare, ad attende-

re, come la sentinella che, scrutando nel buio, attende l‟aurora, perché la notte si è fatta pesante

(“L‟anima mia attende il Signore, più che la sentinella l‟aurora” – v. 6). A questo punto, si ri-

volge alla comunità, al suo popolo, dicendo: noi continuiamo a cercare il Signore della miseri-

cordia, il Signore presso il quale c‟è la redenzione. La notte è stata pesante, il mondo sembra

avvolto da questa notte. Perché, invece, Israele non invoca che il mondo venga avvolto dalla

misericordia e dalla redenzione? È lunga questa notte. E il salmista da solo si sente smarrito e

ha bisogno che ci sia una comunità che, dal profondo, invochi Dio contro le tenebre (“Israele

attenda il Signore” – v. 7).

Alla fine, c‟è un atto di fede: “Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe” (v. 8). Israele un

giorno conoscerà una sua pienezza e una sua pace vera.

3. Gesù e il Salmo

Quando Gesù recitava questo Salmo al Tempio, per la strada o nelle grandi feste, ha sicuramen-

te pensato alla povera gente che viveva in Galilea – gente che, in tutta sua vita, andava una vol-

ta o due al Tempio, anziché una volta l‟anno come faceva chi poteva permetterselo – e che vi-

veva nel suo profondo. E volete che non l‟abbia pensato, dicendosi che era a partire da lì che

bisognava parlare di Dio, non dal Tempio, non dalla legge. Il Tempio e la legge erano superfi-

ciali, non erano mai nel profondo, venivano sempre dopo, avevano senso dopo il profondo, do-

po il pozzo, dopo la notte. E volete che non abbia sentito nei poveri contadini le vittime delle

guerre, coloro che non avevano più niente e che si saranno pure chiesto: “Che male ho fatto i-

o?”. È legittimo che una persona semplice si ponga questa domanda, per capire che senso abbia

tutto questo per meritare una vita dentro un pozzo.

È possibile che Gesù abbia sentito e abbia interceduto per queste vittime, proprio perché sentis-

sero la gioia della sentinella che ormai vede che la notte finisce e arriva l‟aurora e si consola

perché si sente inondata di luce.

Gesù, quando recitava il Salmo, implorava sicuramente che ci fosse una teologia che, nata nel

profondo, potesse diventare luce del volto di Dio per chi stava nel pozzo.

Noi oggi, come allora, presentiamo la stessa invocazione al Signore, insieme a Giobbe: “Inse-

gnaci a parlare di te, ma a partire da questa profondità”. Quanta teologia impareremo quando

anche noi, dopo tanta veglia, sentiremo la luce del mattino!

33

LA PASSIONE DI GESU’ SECONDO MARCO

1. Premessa

Nell‟esame della Passione di Gesù secondo Marco, la prima domanda da porsi è perché sia sta-

to necessario un racconto di due capitoli (il cap. 14 con 72 versetti e il 15 con 47 versetti) per

parlare della morte di una persona condannata alla crocifissione, mentre in tutta la letteratura

antica sarebbero bastate si e no due righe.

Non esisteva (e questo è straordinario) un contesto letterario che potesse giustificare una de-

scrizione così attenta e articolata. Si è pensato più che necessario scrivere un libro per Socrate,

che è morto per mezzo della cicuta, ma per la morte di un crocifisso NO, non c‟era letteratura.

Perché questo? Ne riparleremo più avanti. La risposta ci servirà infatti per l‟aspetto terapeutico

dell‟approccio teologico al dolore.

2. Il capitolo 14

Cominciamo con l‟esame dei primi versetti.

All‟inizio c‟è un complotto, che è poi un modo di scrivere riscontrabile anche negli scritti dei

Profeti e nei Salmi: “…i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di impadronirsi di lui

con inganno, per ucciderlo (v. 1); però ciò non deve avvenire “durante la festa, perché non suc-

ceda un tumulto di popolo” (v. 2).

Segue il quadretto dell‟unzione di Betania (vv. 3-9), con la conclusione che il fatto “si racconte-

rà…in suo ricordo” (v. 9), cioè in ricordo di Maria di Magdala, che si appresta a ungere “in an-

ticipo” il corpo di Gesù (1).

Troviamo poi Giuda, una figura controversa, che per denaro tradirà Gesù (vv. 10-11).

Segue il banchetto pasquale, con l‟istituzione dell‟eucaristia.

A questo riguardo, Gesù deve aver fatto riferimento all‟antica celebrazione della cena ebraica in

ricordo della Pasqua (la fuga dall‟Egitto), unendovi però qualcosa di nuovo. È significativo che

la Passione di Gesù, raccontata dai tre sinottici, venga riportata come se ci fosse una nuova ce-

lebrazione della Pasqua e non più quella antica.

Dopo questa parte iniziale, nella descrizione della Passione da parte degli evangelisti c‟è quasi

il medesimo schema: l‟annuncio che Pietro rinnegherà Gesù (2), l‟agonia del Getsemani (spes-

so oggetto letterario da parte dei grandi scrittori russi, religiosi e laici, che non avevano esita-

zioni a mettere nei propri romanzi la descrizione di ciò che è avvenuto), l‟arresto di Gesù, la

spada di Pietro, la considerazione di Gesù come brigante (3).

Al v. 51 si legge che c‟era un giovanetto, coperto soltanto da un lenzuolo, che seguiva Gesù.

Nel parapiglia, egli fugge e lascia il lenzuolo nelle mani degli aggressori, fuggendo via nudo. Si

dice che sia stato lo stesso Marco. È interessante questo aspetto: siamo in presenza di una co-

munità che non teme la nudità. Ecco a cosa porta la teologia narrativa! ______________________

(1) L‟unzione era rituale per preparare i cadaveri alla sepoltura.

(2) La prima chiesa fa una figura meschina. Non a caso i tre sinottici scrivono questo, per insegnare che

questa non è la strada da seguire.

(3) Nessuna comunità mediterranea si presentava a Roma, a Efeso, ad Antiochia con un capo fondatore

crocifisso,considerato un malfattore perché ne aveva vergogna. I sinottici, invece non hanno remore

e lo scrivono pure.

34

Gesù arriva davanti al Sinedrio, all‟autorità sacerdotale di Gerusalemme (vv. 53-65), e qui viene

a compimento il segreto messianico, che durante tutto il Vangelo di Marco viene continuamen-

te tenuto nascosto. I catecumeni dovevano scoprire questo segreto soltanto dopo la Passione.

Prima della morte e della risurrezione non si doveva capire chi fosse Gesù.

Quando doveva avvenire questa rivelazione? Proprio davanti ai due tribunali (il Sinedrio e il

romano). Quando a Gesù viene chiesto: “Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?”, c‟è la

manifestazione: “Io lo sono!” (vv. 61-62). Questa affermazione viene considerata dai sacerdoti

come una bestemmia, con la conseguente sentenza di morte (v. 64).

È il momento in cui avviene il terribile rinnegamento di Pietro (vv. 66-72): “…egli cominciò a

imprecare e a giurare” di non conoscere Gesù.

3. Il capitolo 15

È il capitolo che descrive ciò che è avvenuto davanti a Pilato.

Nei Vangeli, questo personaggio ne esce abbastanza bene, anche se non meritava un trattamen-

to gentile. Egli è stato un uomo crudelissimo e spietato, a tal punto che gli stessi romani, san-

zionando il suo comportamento abituale, lo hanno richiamato ed esiliato a Lione.

Gli argomenti riportati nei Vangeli non sono certi storicamente. Non è facile, infatti, individua-

re quali siano state le fonti che hanno ispirato i racconti della Passione e non c‟è un modello let-

terario dei condannati a morte.

Pilato gioca sulla domanda: “Sei tu il re dei Giudei?” (v. 2), ma in fondo a lui non interessava la

verità, ma interessava la “soddisfazione della moltitudine” (v. 15).

Segue la parodia tragica di questo re, Gesù, che viene incoronato sì, ma burlescamente e tragi-

camente (corona di spine, soldati che schiamazzano, lo salutano e lo colpiscono).

Arriviamo alla croce (vv. 21-32). C‟è Simone di Cirene che viene costretto a portare la croce

fino al Golgota. La descrizione della crocifissione è piuttosto tipica, come le altre, cui segue la

morte. È la descrizione dell‟impotenza di Dio, di quanto Dio sia debole. Dio non offre la prova

se stesso, della sua onnipotenza. Noi cerchiamo sempre la prova di Dio, ma Egli, in

quell‟occasione, non si è preoccupato di provare se stesso.

Siamo al momento cruciale: “Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del

pomeriggio” (v. 33). Alle tre, Gesù muore (per Giovanni, la morte avviene, per motivi teologici,

a mezzogiorno), lanciando un grande grido che è di protesta e di abbandono insieme: “Dio mio,

Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (v. 34). Poiché la scena sarebbe apparsa troppo forte ai

pagani, Luca attenua le parole: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (23, 46).

Con la morte di Gesù, avviene un fatto molto importante: “Il velo del tempio si squarciò in due”

(v. 38). Finisce in questo modo l‟uso del tempio: il velo squarciato significa che Dio non abita

più nel tempio. La sua presenza è in quella “sconfitta”, per sempre.

In questo contesto drammatico, c‟è la prima, vera ed esplicita professione di fede, che viene da

un pagano, non dai discepoli che nel frattempo si erano eclissati. È il centurione romano pre-

sente, il quale, visto il modo in cui Gesù è morto, dice: “Veramente quest‟uomo era Figlio di

Dio!” (v. 39). È il momento in cui avviene il completo svelamento del segreto messianico.

La sepoltura conclude il capitolo (vv. 42-47), con Giuseppe d‟Arimatea, che provvede al sepol-

cro e alle operazioni di tumulazione, e con le donne che stanno a osservare tutto quanto.

4. Concludiamo con la lettura dei capp. 14 e 15 del Vangelo di Marco.

35

CAP. 4

IL PROFETISMO

1. Premessa: il peccato strutturale

Per la prima volta nei tempi moderni, si è parlato di peccato delle strutture, perché il peccato

che sta dentro certe strutture (sociali, economiche, politiche, culturali, ecc.) provoca vittime che

sono innocenti. È l‟uomo, credente o meno, che ha ovviamente la sua responsabilità.

Queste strutture, diventate strutture di peccato, tali sono diventate perché nel tempo, per inte-

ressi, si sono assolutizzate. Ecco perché parliamo di idoli. L‟idolo è un termine biblico-teologi-

co.

È interessante questa svolta che si è verificata, svolta che ha interessato anche il linguaggio e

l‟insegnamento ufficiali della Chiesa. Per es., nella Enciclica “Sollecitudo rei socialis” viene ri-

presa per ben 9 volte la formula “peccato strutturale”, citata anche nella “Centesimus annus”.

Dice, infatti, l‟Enciclica:

“E‟ da rilevare, pertanto, che un mondo diviso in blocchi, sostenuti da ideologie rigide, dove,

invece dell‟interdipendenza e della solidarietà (10-12 anni fa, il tema era l‟interdipendenza, poi

soppiantato dall‟altro tema, quello della globalizzazione), dominano differenti forme di imperia-

lismo. Non può che essere un mondo sottomesso a “strutture di peccato”, le quali si radicano

nel peccato personale e, quindi, sono sempre collegate ad atti concreti delle persone che le in-

troducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere. E così esse si rafforzano, si dif-

fondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini.

Se certe forme di imperialismo moderno si considerassero alla luce di questi criteri morali, si

scoprirebbe che sotto certe decisioni, apparentemente ispirate solo dall‟economia o dalla poli-

tica, si nascondono vere forme di idolatria: del denaro, dell‟ideologia, della classe, della tecno-

logia. Le decisioni, grazie alle quali si costituisce un ambiente umano, possono creare specifi-

che “strutture di peccato”, impedendo la piena realizzazione di coloro che da esse sono varia-

mente oppressi”.

Allora si può assolutamente dire che dietro a tutto questo c‟è un grosso problema, specificabile

biblicamente e non solo. È lecito parlare di “strutture di peccato”? Il dibattito, non sempre sotto

il tavolo (cioè, nascosto), è stato molto forte qui da noi. I gesuiti hanno realizzato un bel libretto

(“Strutture di peccato”); però, se si guarda in giro, queste cose, chissà perché, hanno avuto

scarsa eco nelle diocesi e nelle conferenze episcopali. Non possiamo dire che la Chiesa cattoli-

ca si sia mobilitata in maniera potente per affrontare questo problema.

La presa di posizione più forte di questi ultimi vent‟anni assunta da Papa Giovanni Paolo II è

stata quella contro la guerra più che contro il sistema e l‟apparato militare, che sono una vera e

propria idolatria.

Ma, in effetti, il problema è ben più profondo. Si tratta del problema che a suo tempo, collegato

anche con le vicende della teologia della liberazione, aveva provocato qualche lacerazione. Il

Papa rivendica la legittimità del concetto di “peccato strutturale” e lo utilizza per trattare della

lettura teologica dei problemi moderni.

Un teologo dell‟America latina in proposito dice:

“Questi insegnamenti ci consentono di mettere in discussione la dura accusa di alcuni grandi

teologi (von Balthassar e Ratzinger) contro il linguaggio del “peccato strutturale”. Tale lin-

guaggio è accusato di snaturare l‟essenza più profonda del peccato (ecco il problema!), che

consiste nell‟essere frutto di una libertà personale e responsabile. Nessuna di queste tre parole

(libertà personale e responsabile) può essere applicata a una struttura. Quindi, secondo questi

teologi la categoria “peccato strutturale” svuota l‟insegnamento cristiano sul peccato”.

36

In effetti, il dibattito non ha raggiunto un risultato, anche se le risposte non si sono fatte aspetta-

re. È stato fatto notare che anche il peccato originale è frutto di una libertà personale e responsa-

bile (anche se, in effetti, l‟uomo se lo trova addosso non per sua volontà).

È interessante questa svolta ed è probabile, come tutte le svolte, che siano necessari tempi lun-

ghi perché porti i suoi frutti.

2. La parola dei profeti

Nella tradizione ebraico-cristiana abbiamo un punto caratteristico, tipico delle religioni del Li-

bro (giudaismo, cristianesimo, islamismo), costituito dal profetismo, cioè dalla presenza, nel

lungo corso della storia, di un elemento particolare, la profezia, intesa come parola che guarda,

giudica e interpreta il tempo.

Nel Nuovo Testamento diciamo che tutto questo è un carisma. Ci sono delle persone che sono

in grado, più di altre, di interpretare, di “giudicare” il tempo presente. Su questa scia, è da pren-

dere atto di una novità a livello teologico o, più precisamente, nel linguaggio teologico. Ma, se

vogliamo, a livello biblico non c‟è niente di nuovo.

Parliamo ora della parola dei profeti, seguendo esattamente questa linea:

1. critica profetica della religione, perché allora non esisteva una concezione laica della società

e dello stato;

2. riflessioni sul nostro tempo, che riguardano l‟idolatria.

1.A. E‟ caratteristica della trazione ebraico-cristiana una critica positiva, anche se a volte dura,

sulla società e, più specificamente, sulla convivenza umana in nome dell‟Alleanza, quella che

allora poteva essere considerata come una specie di “costituzione”. Se i profeti criticavano in

nome dell‟Alleanza, ciò avveniva perché questa, appunto, era la normativa di riferimento che

teneva insieme il popolo. Insomma, i profeti effettuavano la loro critica in nome del bene co-

mune, a salvaguardia della famiglia umana. Era un punto basilare per l‟uomo!

Apriamo una parentesi. Veniamo ai nostri giorni. Nel 1948 è stata sottoscritta presso l‟ONU la

“Carta dei diritti”, nella quale è stata per la prima volta sancito il diritto naturale e dove si trova

l‟idea laica di famiglia umana. Questa Carta è venuta dopo i disastri della due guerre mondiali,

dopo l‟olocausto, gli altri genocidi, ecc.

Se guardiamo al secolo appena trascorso, la conclusione che possiamo trarre è che proprio la

scoperta della famiglia umana – con i guai che ci sono stati e l‟incapacità politica di prevenire o

di reprimere forze distruttive – è stata (forse) un fallimento. Questa grande intuizione, che è an-

che giuridica, morale ed etica, sembra quasi che non abbia ragione di esistere.

Nonostante tutto, è stata fatta tanta strada. Il problema è se questa strada che abbiamo percorso

ci porta a nuove scelte e a nuovi risultati.

Per quel che concerne il nostro tema (dolore e vittime innocenti), anche i profeti si sono espres-

si. L‟hanno fatto attaccando una falsa religiosità o una falsa pratica religiosa. Qual è, in sintesi,

la critica dei profeti? È una molto semplice e radicale: la conoscenza di Dio, il culto, trovano la

loro verità prima di tutto nella prassi della giustizia.

Nell‟ambito occidentale, noi, metodologicamente parlando, non possiamo trattare delle vittime

innocenti, del dolore, senza menzionare la pratica della giustizia. Ecco perché è legittimo dire

che il povero non è solo un povero disgraziato, ma è anche luogo teologico. Da lui proprio pas-

sa rivelazione.

Leggiamo ora alcuni brani dei profeti, molto interessanti.

Geremia 22, 13-16: è il caso più tipico dell‟aspetto or ora accennato. Geremia è il più caro dei

profeti; egli ha conosciuto fisicamente il pozzo: il Salmo 130 si adatta pienamente a lui.

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13 Guai a chi costruisce la casa senza giustizia

e il piano di sopra senza equità,

che fa lavorare il suo prossimo per nulla,

senza dargli la paga,

14 e dice: “Mi costruirò una casa grande

con spazioso piano di sopra”

e vi apre finestre

e la riveste i tavolati di cedro

e la dipinge di rosso.

15 Forse tu agisci da re

perché ostenti passione per il cedro?

Forse tuo padre non mangiava e beveva?

Ma egli praticava il diritto e la giustizia

e tutto andava bene.

16 Egli tutelava la causa del povero e del misero

e tutto andava bene;

questo non significa infatti conoscermi?

Amos 5, 21-27: era un po‟ come un barricadero, nel quale l‟ideologia della retribuzione era an-

cora fortissima.

21 Io detesto, respingo le vostre feste

e non gradisco le vostre riunioni;

22 anche se voi mi offrire olocausti,

io non gradisco i vostri doni

e le vittime grasse come pacificazione

io non le guardo.

23 Lontano da me il frastuono dei tuoi canti:

il suono delle tue arpe non posso sentirlo!

24 Piuttosto scorra come acqua il diritto

e la giustizia come un torrente perenne.

25 Mi avete forse offerto vittime e oblazioni nel deserto

per quarant‟anni, o Israeliti?

26 Voi avete innalzato Siccut vostro re

e Chiion vostro idolo,

la stella dei vostri dei che vi siete fatti.

27 Ora, io vi manderò in esilio

al di là di Damasco, dice il Signore,

il cui nome è Dio degli eserciti.

Geremia 7, 5-11: un giorno ha avuto l‟infelice idea di mettersi sulla porta del Tempio per dire

che la religione non può coprire l‟ingiustizia (e per questa sua presa di posizione è stato con-

dannato). Già allora, per merito del profeta, c‟è l‟intuizione profonda, di tipo mistico, che il

primo vero Tempio, dove c‟è la presenza di Dio, è in quel po‟ di giustizia che si riesce a realiz-

zare su questa terra. Ciò dà più senso ancora al Tempio in quanto tale.

Poiché, se veramente emenderete la vostra condotta e le vostre azioni, se realmente pronunzierete giuste

sentenze fra un uomo e il suo avversario; se non opprimerete lo straniero, l‟orfano e la vedova, se non

spargerete il sangue innocente in questo luogo e se non seguirete per vostra disgrazia altri dei, io vi farò

abitare in questo luogo, nel paese che diedi ai vostri padri da lungo tempo e per sempre. Ma voi confida-

te in parole false e ciò non vi gioverà: rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, bruciare

incenso a Baal, seguire altri dei che non conoscevate. Poi venite e vi presentate alla mia presenza in

questo tempio, che prende il nome da me, e dite: Siamo salvi! per poi compiere tutti questi abomini. È

forse una spelonca di ladri ai vostri occhi questo tempio che prende il nome da me? Anch‟io, ecco, vedo

tutto questo. Parola del Signore.

1.B. C‟è un punto poi che potremmo riassumere così: non si tratta solo di un invito etico (di-

remmo noi oggi), ma il popolo d‟Israele è stato scelto (si tratta di un‟elezione quasi a esclusione

di altri) perché sia un popolo di giustizia. Questa, quindi, è la sua identità più profonda. Non è

stato solo scelto per essere solo il popolo del culto, del Dio unico, ma Questi (il Dio unico) lo si

deve vedere nel popolo attraverso la visibile pratica della giustizia.

C‟è un testo famoso, straordinario (Isaia 5), bellissimo perché usa l‟immagine della vigna, dove

(vv. 1-7) c‟è l‟investitura di Israele.

1 Canterò per il mio diletto

il mio cantico d‟amore per la sua vigna,

il mio diletto possedeva una vigna sopra un

fertile colle.

2 Egli l‟aveva vangata e sgombrata dai sassi

e vi aveva piantato scelte viti;

vi aveva costruito in mezzo una torre

5 Ora voglio farvi conoscere

ciò che sto per fare alla mia vigna:

toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo;

demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata.

6 La renderò un deserto,

non sarà potata né vangata

e vi cresceranno rovi e pruni;

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e scavato anche un tino.

Egli aspettò che producesse uva,

ma essa fece uva selvatica.

3 Or dunque, abitanti di Gerusalemme e uomini di

Giuda,

siate voi giudici fra me e la mia vigna.

4 Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna

che io non abbia fatto?

Perché, mentre attendevo che producesse uva,

essa ha fatto uva selvatica?

alla nubi comanderò di non mandarvi la piog-

gia.

7 Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la

casa d‟Israele;

gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferi-

ta.

Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento

di sangue,

attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi.

Le due ultime righe contengono il chiaro pensiero di Isaia sul senso della giustizia. Ma la loro

traduzione in italiano non è precisa. In ebraico, invece, è detto: “Egli aspettava diritto (mish-pat

= dare a ciascuno il suo perché possa essere se stesso) ed ecco assassinio (mish-pai), attendeva

giustizia (tsedaka) ed ecco grida di oppressi (sea-ka)”. È un gioco di parole che indica

l‟alienazione di un popolo che aveva ricevuto una chiamata e su questa era fondata la sua identi-

tà. Israele doveva essere sì il popolo del Dio unico, che doveva custodire il Tempio per il Dio

unico, ma Costui (il Dio unico) si doveva vedere attraverso l‟applicazione della giustizia. Quin-

di, Israele doveva essere un popolo che praticava diritto (mish-pat) e giustizia (tsedaka). Diran-

no allora i profeti (Geremia sarà il primo): se questo popolo non è più il popolo del diritto e del-

le giustizia, l‟elezione di Dio decade? È finita l‟Alleanza (la costituzione) e bisognerà farne

un‟altra?

1.C. Circa le strutture che questo popolo, chiamato a manifestare giustizia, si è dato per mettere

in pratica il dettato divino, ricordiamo soltanto il sabato, l‟anno sabbatico e l‟anno giubilare.

Troviamo i riferimenti nell‟Esodo e nel Deuteronomio. Cominciamo a esaminarle.

Prima, però, desidero fare un inciso, che è anche una precisazione sul mio modo di pensare e di

credere. Quando si esaminano i fatti di cui stiamo parlando, bisogna tenere presente di “demi-

tizzare la Bibbia”. Nella nostra mente (e ce la portiamo anche in Chiesa) c‟è l‟idea che la Scrit-

tura sia “Parola di Dio”. Attenzione, però: questa “Parola di Dio” non nasce da Dio. È questo

che bisogna tenere presente: nell‟evangelizzazione, quando è ora, bisogna arrivare a questo.

Ciò che la Bibbia racconta proviene dall‟esperienza umana.

Non bisogna mai dimenticare che i cosiddetti comandamenti, che noi oggi diciamo che sono

“Parola di Dio”, non sono nati perché Dio li ha scritti sulle tavole di pietra con la fiamma ossi-

drica, neanche fosse un buon saldatore. Sono nati dall‟esperienza: è meglio non uccidere, piut-

tosto che uccidere; è meglio non praticare l‟adulterio per evitare risentimenti e vendette; è me-

glio rispettare i genitori; le cose degli altri non vanno toccate; ecc.

Nel periodo del ‟68, sono stato per un anno nella foresta amazzonica del Venezuela. Ero con tri-

bù indie molto isolate, con scarsi contatti con la civiltà. Non avevano scrittura, non avevano una

pratica religiosa, avevano però una forte struttura sociale per far fronte alla sopravvivenza. Non

avendo neanche un‟organizzazione temporale, essendo in esse molto scarso il senso della storia,

i loro ricordi arrivavano a qualche luna indietro oppure rapportavano i fatti a qualche esonda-

zione del fiume, attraverso cui tenevano memoria dei morti, dei nati, ecc. Non c‟era, quindi, al-

cun calendario né tanto meno un calendario liturgico.

Pur tuttavia, accadeva che ogni 3-4 mesi si spargeva la voce di fare una settimana di festa, di in-

terruzione nell‟attività. E quando questo veniva accettato dal capo, dagli anziani e dai giovani,

c‟era chi partiva per il fitto della foresta per richiamare i cacciatori e i pescatori, in modo che nel

villaggio ci fossero tutti. Al rientro di questi, le donne preparavano una certa bibita acre e alcoli-

ca, che doveva durare per tutto il periodo dei festeggiamenti (5-6 giorni). Quando gli uomini fi-

nivano la bibita, la festa terminava e restavano i postumi di un‟ubriacatura generale e colossale.

Durante la festa, si verificavano anche fenomeni di trance. Qualcuno si travestiva con pelli di

leopardo, credendosi veramente un animale feroce; qualcun altro si copriva con piume di uccel-

lo e riusciva a imitarne il verso.

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Perché avveniva tutto questo? Non c‟era mica un comando di Dio, non c‟era un obbligo sociale;

era la vita stessa che chiedeva che ogni tanto l‟attività del quotidiano si fermasse, perché uno

stop era indispensabile. E questo accadeva per 3-4 volte l‟anno.

Ritorniamo agli ebrei. Il passo successivo alla concessione dei comandamenti e delle altre nor-

me di comportamento è la trascrizione in un codice, che, una volta sedimentato, può formare la

base di un‟Alleanza, di una costituzione, che diventa il tessuto connettivo di una società.

Nei primi tempi però gli ebrei hanno realizzato questi processi soltanto in parte. Qual è stato il

salto? Per rendere a questa scoperta un valore assoluto, grande, vero, si è detto che comanda-

menti, codici e Alleanza erano derivazioni della volontà di Dio.

Queste operazioni sono avvenute dopo, come tutti gli altri istituti più o meno giuridici.

Ritorniamo al sabato. La decisione di applicare il riposo sabbatico non è venuta perché qualcu-

no (politico o sacerdote) lo abbia stabilito, ma perché era insostenibile una vita senza riposo.

La vita contadina o pastorale, condotta nel duro e arido territorio palestinese, era massacrante;

se poi il contadino o il pastore lavorava per un altro, il lavoro diventava addirittura alienante.

L‟idea del sabato non è venuta perché Jahvè lo aveva suggerito a qualcuno. La verità è che si è

parlato di leggi divine soltanto dopo; prima c‟è stato un sottofondo antropologico. Se non ci

fosse stato questo, tutto sarebbe sfociato in fanatismo o in fondamentalismo religioso.

Il sabato successivamente ha avuto le sue tematizzazioni religiose, per cui questo giorno è di-

ventato memoria dei primi giorni della creazione, memoria dell‟uscita dall‟Egitto, dandogli un

corpo che è anche teologico. Tuttavia, in primis il sabato è derivato dalla esigenza molto umana

che non si può essere uomini se non c‟è anche il riposo. Ecco perché questo diventa legge an-

che socialmente costrittiva. Ed è giusto che sia così, una volta che la scoperta è stata fatta.

La sua assolutizzazione era quindi necessaria. Gesù poi relativizzerà il sabato per altri motivi.

L’anno sabbatico è derivato da Dt. 15: “Alla fine di ogni sette anni celebrerete l‟anno di re-

missione:…ogni creditore che abbia diritto a una prestazione personale…lascerà cadere il suo

diritto”. Di conseguenza, ogni sette anni chi aveva perso il lavoro e la sua autonomia (valeva

anche per gli ebrei schiavizzati a causa di debiti) doveva essere reintegrato nei suoi diritti. Que-

sto ritmo settennale è stato fissato anche nel calendario; tuttavia, l‟istituto ha avuto piena attua-

zione soltanto dopo il ritorno da Babilonia, rimanendo per oltre 500 anni quasi del tutto disatte-

so.

L’anno giubilare, a sua volta, è previsto in Lv. 25. L‟idea istitutiva è derivata dalla convinzione

che, se non si possedeva la terra, non si poteva vivere. E questo valeva per tutti, con eccezione

di coloro che lavoravano per l‟amministrazione statale o erano inseriti nell‟esercito. Si trattava,

quindi, di una disposizione liberatoria: chi aveva perso lo terra almeno ogni 49 anni doveva a-

vere in restituzione l‟antica proprietà. Certamente, non sarebbe toccata al precedente proprieta-

rio, ma ne avrebbero usufruito i figli o i nipoti. Ciò voleva dire che socialmente ed economica-

mente non si potevano perpetuare i meccanismi di impoverimento.

L’ Idolatria

Premessa

Per idolatria si intende qualsiasi manipolazione del Dio vero per fini molto personali e a volte

drammatici. Si tratta, in pratica, della sostituzione di Dio con tutto quello che la divinità com-

porta di assoluto, di trascendente, di verità, ecc. In parole ancora più semplici, l‟idolatria è la

sostituzione di Dio con altre divinità.

Secondo me, se oggi si dovesse attualizzare lo sforzo dei profeti di discernimento del tempo, di

discernimento sull‟uso alienante della religione, si potrebbe dire che oggi il problema non è di-

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scernere il Dio vero dagli idoli falsi, il problema non riguarda se Dio esiste o meno. Premesso

che quelli che si professano atei o non credenti oggi sono in diminuzione, il problema consiste

nel conoscere in quale Dio l‟uomo crede, in modo da poter sapere a quale credenza egli appar-

tiene, secondo quel principio evangelico che dai frutti si riconosce l‟albero.

Questa è stata, di fatto, la critica dei grandi russi, che non hanno sviluppato, come noi, la ricerca

delle cause. Leggendo i grandi romanzieri russi si vede che la nobiltà russa era diventata una

specie di idolo, per cui c‟era una plebe immensa che la serviva. Da qui partono Tolstoi, Do-

stoievskji, i quali hanno una grande visuale di fraternità (ne I fratelli Karamazov c‟è una pagina

stupenda in cui un ufficiale si inchina e chiede perdono al suo assistente, un poveraccio che non

era nobile, non aveva terra, non aveva beni). La loro diventa così teologia narrativa e sociologia

applicata.

2. L’idolatria nei Vangeli

I Vangeli parlano di idolatria identificandola con il denaro, parlano di idolatria nel senso che lo

è la legge (Gesù relativizzerà il divieto di lavorare di sabato proprio in nome di questo). I Van-

geli sottolineano anche l‟idolatria del potere, mentre l‟idolatria più fine rimane quella che si

serve della religione.

Paolo, a sua volta, parla di cupidigia, di desiderare sempre di più.

Nell‟Apocalisse si parla di idolatria del potere, nel senso che il potere si autoassolutizza (la be-

stia).

L‟idolatria, quindi (e lo dice anche il Papa), è un servizio al potere in maniera incondizionata;

l‟idolatria è dominazione e gli idoli provocano morte e vittime.

3. L’idolatria oggi

Tentiamo ora una lettura, fatta in nome delle vittime, e lo facciamo in modo che abbia uno sco-

po, cui arriveremo più avanti.

Abbiamo visto che i profeti chiedevano una conversione. Ma che cos‟è questa conversione? Di

fronte a un‟idolatria che si manifesta in così tante forme, cosa vuol dire questa conversione? E

anche Gesù chiede una conversione, al Regno, che è presente. Cosa vuol dire anche questo? Su

questi interrogativi c‟è stato un dibattito all‟interno della Chiesa, tra i movimenti di spiritualità.

Arriveremo a esaminare pure questo.

Noi oggi sperimentiamo un potere economico che sembrerebbe aver prodotto un idolo: il profit-

to. Nessuno oggi più nega la legittimità del profitto, ma se il profitto si assolutizza ci sono ine-

vitabilmente delle vittime, perché le conseguenze di un profitto assolutizzato sono: disoccupa-

zione, fame, analfabetismo. È cioè una maniera per imporre morte!

Si sente parlare del debito estero dei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Chi regola, e con quali

criteri, questa eventuale restituzione del debito e a quale prezzo?

Siamo in un mondo che è interdipendente e, se la dipendenza non ha ostacoli, anziché afferma-

re un‟interdipendenza si crea una vera e propria dipendenza che provoca un‟ingiustizia struttu-

rale (1). E se la società e il mondo politico accettano questa ingiustizia strutturale, essa diventa

permanente. E quando essa diventa permanente, non si fa più caso alle vittime perché sono ne-

cessarie.

Noi oggi abbiamo il diritto internazionale (ed è una conquista); abbiamo diritti umani che sono

chiamati fondamentali e che si vorrebbero rispettati da tutti. Sono i diritti che spesso costitui-

scono la chiave di discernimento per una democrazia, per un paese, per un governo, per un par-

lamento. Per lo meno in Occidente si fa una grande battaglia sui diritti ed è un segno dei tempi.

___________________________ (1) Certamente, i profeti non usavano questo linguaggio. Amos, ad es., profetava 2700 anni fa e non

poteva avere la cognizione di ciò che fosse l‟ingiustizia strutturale.

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Però, visto che stiamo parlando di idoli, non si può parlare di diritti finchè non si mette in di-

scussione il grande apparato della macchina militare. Tutti siamo per i diritti finchè non si tocca

quel terribile, oscuro apparato dei servizi segreti che opera in nome della sicurezza nazionale.

Quando si toccano questi due punti, allora ci sono delle severe reprimende: chi critica sono i

pacifisti, che non sanno come va il mondo.

Ai tempi in cui venne iniziata la guerra in Vietnam (1964), il ministro della difesa USA era

McNamara, il quale, nella vecchiaia, ha scritto un libro, in cui ha dichiarato che la guerra del

Vietnam era evitabile. Ricordiamo come detta guerra è iniziata: dagli archivi americani è risul-

tato che l‟attacco alla Baia del Tonchino non è stato fatto dai “perfidi” vietcong, bensì è stato

autoprodotto. Ecco cosa sono capaci di fare gli idoli!

Nei paesi in via di sviluppo, si propone un certo modello di sviluppo. Si sa benissimo che que-

sto modello di sviluppo non è universalizzabile. Se i cinesi e gli indiani (2,5 mld. di persone in

tutto) vivessero come il mondo occidentale, ci sarebbe come un‟implosione nel pianeta. C‟è

qualcosa che si è assolutizzato, dietro le quinte, per cui gli occidentali sono tranquilli e nel me-

desimo tempo parlano di diritti. È questo l‟idolo, per la cui eliminazione qualcosa deve essere

fatta!

Arriviamo al punto centrale: perché facciamo riferimento a tutto questo? Perché siamo stati

sempre abituati a pensare al peccato e in particolare al carattere personale del peccato. Ciò av-

viene (e lo dicono l‟Antico e il Nuovo Testamento) perché il peccato è prima di tutto nel cuore

dell‟uomo. Allora, quando si mettono insieme tanti cuori umani che sono capaci di peccare,

vengono fuori delle strutture e delle responsabilità, alle quali il singolo peccatore non riesce a

fare fronte. Quindi, l‟idea che si debba per prima cosa convertire il cuore dell‟uomo non è esat-

ta, non è questa l‟alternativa da perseguire. Non si deve dire prima guariamo il cuore dell‟uomo

e poi le strutture, rimandando a un futuro l‟ideazione e la creazione di strutture diverse. Invece,

le due cose devono andare insieme, in nome del Dio dei profeti, in nome di Gesù. Quando Gesù

ha parlato del Regno di Dio, che era già presente, ha curato i lebbrosi (che si diceva castigati da

Dio) e ha detto loro di tornare al Tempio; ha guarito gli storpi e i malati. Il Regno di Dio è pro-

prio questo: che malgrado tutto il male che c‟è nel mondo, Dio c‟è e non c‟è bisogno di attende-

re la fine dei tempi per trovarlo.

Gesù ha posto dei segni concreti di “terapia” (= guarigione) del mondo; in ciò Gesù ha annun-

ciato la vicinanza del Regno, mentre i farisei (moralisti all‟eccesso) dicevano che il cuore degli

uomini dovevano convertirsi attraverso la stretta osservanza della legge (inesorabile per tutti) e

poi sarebbe venuto il Regno di Dio. Ma il Regno era lì, a disposizione di tutti.

Non si comprende perché una cosa così semplice e così evidente debba sempre costituire un in-

terrogativo senza fine. Se ci si prova a mettere dalla parte delle vittime e a non considerare più

il problema in maniera astratta, si comprende quanto sia grave questo problema e come la Chie-

sa stia morendo. Con questo non significa che la Chiesa debba diventare una ONU religiosa o

un movimento dei diritti umani o una OMG. La Chiesa si deve mobilitare perché il cuore

dell‟uomo possa riflettersi in certe strutture e certe strutture, che sono veramente contro il cuore

e la vita dell‟uomo, vengano affrontate e cambiate.

È un bene che il Papa si parli contro la guerra, ma ci saranno sempre guerre fin tanto che si ten-

gono apparati militari e industriali-militari, che devono fare le guerre per produrre e sperimen-

tare nuove armi. E questo è un business fortissimo. E allora aspettiamo una conversione? Di

chi?

Bush, all‟atto della sua riconferma, ha detto di essere rinato. A che cosa? È rinato perché non va

più a donne o non si ubriaca più? Questa non è conversione!

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4. Conclusione

Durante la mia lunga esperienza nei paesi del terzo mondo, mi sono reso conto di quanto sia

impressionante l‟influenza che hanno certe strutture perfide, inique, ma che sono accettate da

tutti, con la scusa che l‟economia non può che fare così. Noi vendiamo al più alto prezzo possi-

bile computer all‟Etiopia e compriamo i pantaloni fatti da quella popolazione al più basso prez-

zo possibile.

Quando parleremo dell‟argomento “Dall‟Esodo al Servo sofferente”, l‟impianto in questo senso

diventa anche metodologico.

Come affrontiamo noi questa centralità della vittima? Senz‟altro in maniera legittima oppure

siamo noi vittime di un pre-giudizio o di un pre-ideologismo. E questo è il problema!

Anche la Chiesa scrive in una certa maniera, ma poi non segue quanto ha scritto. Perché? Che

cosa c‟è?

CAP. 5

DALL’ESODO AL SERVO SOFFERENTE

1. Premessa

Proseguiamo con il nostro corso e ci accingiamo a raggiungerne la parte centrale; stiamo arri-

vando cioè a una affermazione teologicamente centrale, che sarà importante.

Nell‟Antico Testamento troviamo due punti alti (nell‟Esodo e nei canti del Servo sofferente), in

cui teologicamente si sente che c‟è stato un progresso, un approfondimento.

L‟Esodo è conosciuto, ma i canti del Servo forse un po‟ meno. Sono letture che vengono riprese

ogni tre anni nella liturgia; soprattutto quelle del Servo sono fisse nella quaresima e in partico-

lare nel venerdì santo. Però, nel popolo d‟Israele non hanno avuto una grande considerazione.

Sia questi canti sia i racconti della Passione sono conosciuti, dal Medioevo fino ai tempi nostri,

come momenti alti della celebrazione della sofferenza. Ma è davvero così? Anche le tradizioni

medievali che celebravano in modo più o meno folclorico le Passioni hanno avuto origine pro-

prio per esaltare la sofferenza di Gesù. Vedremo se è così, se è questo che i testi mettono al

centro.

2. L’Esodo

Nell‟Antico Testamento, ci sono spesso delle apparizioni, delle manifestazioni di Dio, in greco

dette “epifanie”. Queste epifanie sono presenti nella Bibbia, ma sono riportate anche in testi di

altre culture. Non è una novità che la divinità, a volte, si manifesti e parli.

Qual è la peculiarità delle manifestazioni di Dio nell‟Antico Testamento?

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Troviamo nel Libro dell‟Esodo la carta d‟identità di questo Dio che appare, che si manifesta at-

traverso un‟azione. È in questo Libro che si coglie un‟immagine di Dio, che si coglie un volto

di Dio attraverso svariati eventi storici.

Prima di andare avanti, poniamoci queste domande: Come viene fuori, teologicamente parlan-

do, un volto di Dio? Che cosa c‟è prima dell‟apparato teologico che poi in seguito descriverà le

azioni fatte da Dio ? Cosa permette e fonda questa immagine di Dio, che ci consente di dire che

c‟è rivelazione? La mia risposta arriverà più avanti; intanto voi pensateci.

L‟atto di nascita d‟Israele si è avuto con il racconto dell‟evento dell‟Esodo, cioè dell‟uscita

dall‟Egitto di una tribù di schiavi. Successivamente, si parlerà di Genesi, di Abramo, ecc., ma,

cronologicamente, Israele non nasce con Abramo, nasce con l‟esperienza dell‟Esodo.

Fatti del genere, come quello dell‟ Esodo non erano una novità: movimenti e flussi migratori ci

sono sempre stati. Se gli ebrei erano andati dalla Palestina verso la terra dei faraoni, ciò è avve-

nuto perché avevano fame, date le lunghe carestie che affliggevano la loro terra (altro che terra

di “latte e miele”).

Ora è arrivato il momento del ritorno, in Palestina. Non c‟è però alcun documento storico su

questa vicenda (1). E la Bibbia non è certamente un documento storico nel senso che diamo noi

alla documentazione scientifica sui fatti realmente accaduti. . Alcune recenti ricerche archeolo-

giche dimostrano che questi racconti sono stati tutti predisposti 3-4 secoli dopo, quando gli e-

stensori si sono messi a scrivere l‟Esodo pensando a situazioni e problematiche del loro tempo.

La prima immagine di Dio, che nel tempo è stata sviluppata ulteriormente, è quella di un Dio

che è solidale con degli schiavi.

Troviamo nel Deuteronomio una definizione sintetica, formatasi nei secoli: “Io sono il Signore,

tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d‟Egitto, dalla condizione servile” (5, 6). Questa è stata

la prima intuizione esplicita di Dio. Solo dopo è venuto fuori che Dio è anche Creatore, dopo è

venuto fuori che Dio è Padre.

L‟altra definizione che si trova ripetutamente nei vari libri delle Scritture e che si trova anche

nel Deuteronomio è: “in te l‟orfano e la vedova trovano compassione”. Sin dagli inizi di una

teologia esplicita, il volto di Dio viene collegato con quello degli schiavi, dei poveracci, degli

indifesi. È interessante che questa scoperta sia fortemente dialettica, perché dal cap. 4 al cap. 11

dell‟ Esodo, ci sono quegli interminabili, noiosissimi racconti delle piaghe che colpiscono

l‟Egitto. Ciò è servito per dire quanto sia difficile passare dal dio dello stato (Egitto), dal dio dei

potenti (faraone, classe dirigente, classe sacerdotale) al Dio dei disarmati, al Dio della vittime.

Su questo punto, negli ultimi anni, c‟è stata una polemica interessante – che è rimasta un po‟

orfana, ma che forse sarà ripresa – che ha determinato uno scontro tra il Vaticano e la teologia

______________________

(1) Noi oggi, quando parliamo di un evento storico, intendiamo che su di esso si hanno documenti scien-

tificamente certi e verificati. Per quanto riguarda l‟Esodo, come anche per la risurrezione di Gesù,

non abbiamo documentazione certa e verificata; questo non toglie che entrambi i fatti siano storici,

ma non nel senso in cui intendiamo noi. Tra il realmente accaduto e lo storico, per noi, c‟è questa

differenza; per gli ebrei di allora invece no, perché non avevano le odierne preoccupazioni storiche.

C‟è anche da dire che l‟Esodo potrebbe non essersi svolto come come ci è stato raccontato; esso è

una ricostruzione catechetica. Se si volesse andare dall‟Egitto verso la Palestina, si andrebbe costeg-

giando il mare e il percorso sarebbe relativamente breve. C‟è da chiedersi allora perché, per raggiun-

gere la Palestina, gli ebrei siano passati per il Sinai. Non appare una decisione logica, tenendo pre-

sente che il popolo si muoveva con donne, bambini, anziani, bestiame, beni personali e collettivi e

avrebbe compiuto il viaggio in 40 anni!

L‟Esodo, dunque, è un fatto realmente accaduto, ma nessuno, durante il viaggio, lo aveva valutato

(la nota prosegue nella pagina seguente)

44

della liberazione. La risposta che è venuta da Roma è stato l‟invito di considerare prima di tutto

la valenza religiosa dell‟Esodo: Dio si è creato un popolo perché voleva realizzare un‟Alleanza

con lui, in modo che questo popolo scoprisse l‟unico vero culto per l‟unico vero Dio.

Che questo nel Libro dell‟Esodo ci sia è una verità assoluta. Se però si guardano da vicino le

fonti (jahvista, elohista, deuteronomica, successivamente fuse insieme, sia pure con qualche

contraddizione, e lasciando da parte la sacerdotale), ci si accorge che la prima caratteristica di

questo Jahvè – il quale si mette in azione per un popolo già scelto come suo – non è prima di

tutto la ricerca del culto, bensì che è un Dio vicino, che è un Dio che prende le parti, che si i-

dentifica con un popolo che è vittima, che è schiavo, che è in una situazione disumana. E a que-

sta gente, che non ha alcunché se non le gambe per scappare, darà una terra, dove organizzare

“il popolo della giustizia”, dove organizzare una vita che non fosse come quella vissuta in Egit-

to, sotto il dominio teocratico, esplicito, forte, omnicomprensivo.

Quindi, l‟interpretazione esclusivamente religiosa, di un Dio che sia andato a prendersi questo

popolo in Egitto perché gli rendesse un culto, non sta in piedi. Infatti, non è così. È ormai asso-

dato che non era questo ciò che Dio cercava. E infatti è da chiedersi: è il culto che dà senso alla

liberazione che Dio compie in Egitto ovvero, al contrario, è la liberazione (dato quel tipo di in-

tervento con quel tipo di immagine divina) a dare un senso al culto che di lì a poco sorgerà? E

così sarà: il culto sarà molto semplice (verrebbe da dire: da sagrestani) e non avrà quello sfarzo

e quella magnificenza dimostrati dal culto egiziano.

Analizziamo ora qualche passo dell‟Esodo.

1. Nel cap. 1, il faraone (di cui non si dice il nome) comunica che il popolo ebreo è diventato

“più numeroso e più forte di noi”. Da qui l‟adozione di provvedimenti restrittivi, sfociati prima

nei “lavori forzati” e successivamente nel genocidio dei figli maschi. E questo perché gli egi-

ziani sentivano “come un incubo la presenza dei figli d‟Israele”. Non si capisce come una tribù

potesse essere un “incubo” per un popolo forte come quello egiziano! Intanto, i lavori diventa-

vano sempre più gravosi.

Ma era veramente così? Cosa significa tecnicamente tutto questo? Significa che gli ebrei, quan-

do hanno scritto queste parole (tradizione jahvista), non avevano alcuna conoscenza di come si

svolgevano i lavori nel 1250 a.C. in Egitto. Quali lavori allora vengono descritti? Si tratta dei

lavori, delle corvèes, che Salomone imponeva per costruire Gerusalemme, il palazzo reale, le

scuderie, le caserme, il Tempio. Non esistevano le imprese edili come le conosciamo noi oggi;

tutto si realizzava con il lavoro dalla componente maschile del popolo. A Meghiddo sono anco-

ra visibili le stalle di Salomone, nel deserto del Negheb si trovano le miniere di rame. Questi

erano i lavori forzati che gli ebrei conoscevano!

C‟è una vera e propria maturazione e riflessione storico-economico-sociale, dove vengono mes-

si insieme memorie varie e confuse dell‟uscita dall‟Egitto e della realtà attuale.

Ecco come comincia a sorgere una teologia.

La realtà attuale del lavoro oppressivo, sperimentata con Salomone, richiama alla memoria

l‟antica esperienza in Egitto a un popolo che non vuole più vivere in quella maniera. L‟Egitto,

quindi, non si deve riproporre e non si riproporrà.

_______________________ (seguito nota della pagina precedente)

teologicamente. La tribù che tornava non faceva certo una riflessione teologica sull‟evento, non ave-

va neanche la scrittura per prendere appunti! L‟Esodo è una ricostruzione successiva, che però ha un

senso. Perchè sono state scritte queste cose? Gli ebrei sono partiti da un punto iniziale, che è fonte

originante, secondo cui Dio ha destinato il suo popolo non a un culto ma a una terra promessa, che

non doveva essere come quella egiziana (a questo servirà anche il culto). Le altre divinità, in altri

contesti come quello egiziano o assiro-babilonese, si sono rivelate per quello che erano, con un le-

game esplicito a un santuario, dove ricevere solo culto e sacrifici.

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2. Troviamo ora un‟immagine di Dio che viene descritta come Colui che reagisce di fronte alla

sofferenza del suo popolo.

Gli jahvisti scrivono: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido

a causa dei sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze” (3, 7).

A loro volta, gli elohisti aggiungono: “Il grido degli israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho

visto l‟oppressione con cui gli egiziani li tormentano” (3, 9).

Possiamo dire che per la prima volta, nel panorama teologico del mediterraneo, troviamo un

Dio che si fa prossimo a degli schiavi (1).

Come il popolo ha potuto elaborare una teologia di questo tipo?

È possibile che, dopo matura riflessione, si sia detto: “Dio non è nel sole, non è nella piramide,

non è nel faraone, non è nella legislazione egiziana, ma Dio è al di là di tutto questo e non è le-

gato a nessuno”. Un‟intuizione di Dio, più o meno astratta come questa, si può anche elaborare,

ma dire che Dio è un Dio interessato al grido degli schiavi non può essere considerata

un‟elaborazione astratta. Che cos‟è allora?

Se non si vede qualcuno che è solidale, non si può parlare di un Dio solidale con gli schiavi.

Il primo passo è antropologico: è nel personaggio di Mosè che è racchiusa l‟esperienza concreta

della solidarietà. Da quanto vediamo nell‟umano possiamo affermare qualcosa del divino. Ma

non è vero il contrario, e cioè: non si può conoscere Dio in assoluto e poi dire qualcosa dell‟uo-

mo. Qual è l‟originalità di tutta questa faccenda?

Analizzando la letteratura egiziana (ma ciò può essere valido anche per i principi dell‟Assiria o

di Babilonia), si nota che al faraone veniva chiesto il rispetto per il povero e di aiutarlo. In pro-

posito, c‟era una leggenda, secondo cui al faraone morto, una volta raggiunto l‟aldilà, veniva

pesata (la piuma sulla bilancia) la capacità, avuta in vita, di amare e di rispettare il povero. Un

buon peso gli consentiva di “andare in paradiso”.

Giobbe ha delle espressioni sulla solidarietà verso il povero, che sono quasi identiche ad alcuni

passi della letteratura egiziana.

Tuttavia, quello che non si troverà mai negli scritti mesopotamici né in quelli egiziani è che il

principe o il faraone farà in modo che quel povero amato e rispettato non sia più povero.

Questo si troverà invece nella legislazione ebrea dell‟Esodo e del Deuteronomio, cioè dopo

l‟uscita dall‟Egitto. Si può percorrere tutto il Mediterraneo, tutto il Medio Oriente e andare o-

vunque e non si troverà mai un Dio che si identifichi con degli schiavi. E questo è il fatto

nuovo, che sicuramente appartiene alla rivelazione.

Alla fine del cap. 2 è scritto: “Gli israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di la-

mento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio…Dio guardò la condizione degli israeliti e se ne

prese pensiero”. Dio è direttamente interessato alla vicenda; si direbbe che se non la dovesse

risolvere, non sarebbe fedele a se stesso.

Abbiamo già visto che, al v. 7, il Signore dice: “Ho osservato la miseria del mio popolo…”. Gli

dei normalmente non osservavano la miseria dei propri popoli; essi osservavano piuttosto se i

capi erano giusti. Comunque, la divinità era strettamente collegata con la classe dirigente, in

maniera che autorità, divinità e religione fossero unite e le cose andassero per il giusto verso.

Al v. 8, Dio addirittura prosegue: “Sono sceso per liberarlo dalla mano dell‟Egitto e per farlo

uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e mie-

le”.

________________________

(1) Anche nel Nuovo Testamento troviamo un riferimento in cui Dio opera al rovescio: butta giù i po-

tenti dai troni e innalza gli umili (Magnificat – Lc. 1, 52).

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Concludendo, in tutte le religioni del Mediterraneo dell‟epoca non c‟era un‟immagine di Dio

come questa. Essa non può che essere nata dal fatto che una solidarietà umana in qualche parte

gli ebrei l‟hanno vista, altrimenti non avrebbero potuto andare avanti con un processo di rifles-

sione teologica e dire: Dio è così, questo è il suo volto.

Perché tutto questo sia accaduto tra gli ebrei, non è possibile spiegarlo; si può chiamare rivela-

zione, elezione o in qualche altro modo; di fatto, lì è accaduto.

Trova conferma quello che è stato detto il primo giorno: il povero è veramente luogo teologico.

Aggiungo: e non soltanto il povero ma il povero che è anche la vittima.

5. Il Servo sofferente

Nell‟Antico Testamento incontriamo alcuni canti detti del “Servo”.

Talvolta, non si riesce a spiegare questa figura del Servo; non si capisce bene se è una persona,

se è una comunità, se è ambedue; insomma, non è chiaro chi sia. A volte, si direbbe che sia e-

splicitamente una persona che ha responsabilità politica, sociale, amministrativa; qualche volta,

si direbbe che sia una comunità particolarmente colpita. È significativo che nel cuore

dell‟Antico Testamento, 540 anni prima di Cristo, ci sia questa immagine, questo personaggio,

che ha un significato teologico originale, innovativo. Anzi, con il Servo ci troviamo di fronte ad

una affermazione teologica la cui portata l‟estensore non riesce a spiegare.

Al riguardo, vediamo alcuni passi.

Al cap. 42, 1-4 di Isaia leggiamo:

Ecco il mio servo che io sostengo,

il mio eletto in cui mi compiaccio.

Ho posto il mio spirito su di lui;

egli porterà il diritto alle nazioni.

Non griderà e non alzerà il tono,

non farà udire in piazza la sua voce,

non spezzerà una canna incrinata,

non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.

Proclamerà il diritto con fermezza;

non verrà meno e non si abbatterà,

finchè non avrà stabilito il diritto sulla terra.

È la frase che Luca fa dire a Gesù, quando inizia le

sue predicazioni a Nazareth (4, 18).

Quindi, non è un re, non è un potente e ci si chiede

come farà a portare il diritto alle nazioni, visto che

non griderà, non alzerà il tono, non si farà udire in

piazza, non spezzerà una canna rotta, non spegnerà

una candela già quasi spenta.

Chi è costui? Sembra un uomo che non ha una logica umana: non è un governante, non è un

generale, non è un sapiente, non è un sacerdote.

Al cap, 49, 5-7 di Isaia ancora si legge:

Ora disse il Signore:…

“E‟ troppo poco che tu sia mio servo

per restaurare le tribù di Giacobbe

e ricondurre i superstiti d‟Israele.

Io ti renderò luce delle nazioni

perché porti la mia salvezza

fino all‟estremità della terra”.

Dice il Signore,

il redentore d‟Israele, il suo Santo,

a colui la cui vita è disprezzata,

al reietto delle nazioni,

Qui si fa cenno al ritorno dall‟esilio.

È un servo umile e, proprio per questo, disprezzato.

È forse la vittima, qui coperta con un linguaggio re-

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al servo dei potenti:

“I re vedranno e si alzeranno in piedi,

i principi vedranno e si prostreranno,

a causa del Signore che è fedele,

a causa del Santo d‟Israele che ti ha scelto”.

ligioso?

Nel cap. 50, 4-8 Isaia dice:

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati,

perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola.

Ogni mattina fa attento il mio orecchio

perché io ascolti come gli iniziati.

Il Signore Dio mi ha aperto l‟orecchio

e io non ho opposto resistenza,

non mi sono tirato indietro.

Ho presentato il dorso ai flagellatori,

la guancia a coloro che mi strappavano la barba;

non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.

Il Signore Dio mi assiste,

per questo non resto confuso,

per questo rendo la mia faccia dura come pietra,

sapendo di non restare deluso.

È vicino chi mi rende giustizia.

Da questi versi traspare che il servo ha una certa

potenza, che è quella della parola.

In fondo, si tratta del solito poveraccio, una di

quelle vittime messe male.

Il Signore porterà giustizia in questo modo.

Segue, infine, il famoso, lunghissimo ma bellissimo, canto del Servo (52, 13-15 e 53, 1-12):

Ecco, il mio servo avrà successo,

sarà innalzato, onorato, esaltato grandemente.

Come molti si stupirono di lui

– tanto era sfigurato per essere d‟uomo il suo aspetto

e diversa la sua forma da quella dei figli dell‟uomo –

così si meraviglieranno di lui molte genti;

i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,

poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato

e comprenderanno ciò che mai avevano udito.

Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?

A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?

È cresciuto come un virgulto davanti a lui

e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi,

non splendore per potercene compiacere.

Disprezzato e reietto dagli uomini,

uomo dei dolori che ben conosce il patire,

come uno davanti al quale ci si copre la faccia,

era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,

si è addossato i nostri dolori

e noi lo giudicavamo castigato,

percosso da Dio e umiliato.

Egli è stato trafitto per i nostri delitti,

schiacciato per le nostre iniquità.

Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;

per le sue piaghe noi siamo stati guariti.

Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,

ognuno di noi seguiva la sua strada;

il Signore fece ricadere su di lui l‟iniquità di noi tutti.

Maltrattato, si lasciò umiliare

Siamo in presenza di una affermazione convinta.

Lo stupore riguarda il suo aspetto, per niente in-

teressante, anzi repellente.

Si è in presenza di un fatto nuovo.

Allora ci sarebbe una rivelazione attraverso colui

che è inguardabile?

Che diversità rispetto all‟Esodo! Lì il braccio del

Signore serviva per sgominare il faraone e a esal-

tare Israele, ad aprire le acque.

Chi è stato nel deserto sa cosa vuol dire.

Di chi si parla? Non è certo uno di cui si possa

menar vanto!

Per la prima volta nell‟Antico Testamento viene

fuori una novità teologica. Neanche di Mosè vie-

ne detto così, che in un certo senso è il personag-

gio più vicino a Cristo. Il personaggio di cui si

parla, che è innocente, prende su di sé le colpe

degli altri. Per la prima volta si parla di sofferen-

za “vicaria”.

A questo punto, forse sarebbe stato necessario un

commento di chiarimento.

È una persona che non ha alcun prestigio, alcuna

48

e non aprì la sua bocca;

era come un agnello condotto al macello,

come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,

e non aprì la sua bocca.

Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;

chi si affligge per la sua sorte?

Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,

per l‟iniquità del mio popolo fu percosso a morte.

Gli si diede sepoltura con gli empi,

con il ricco fu il suo tumulo,

sebbene non avesse commesso violenza

né vi fosse inganno nella sua bocca.

Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.

Quando offrirà se stesso in espiazione,

vedrà una discendenza, vivrà a lungo,

si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.

Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce

e si sazierà della sua conoscenza;

il giusto mio servo giustificherà molti,

egli si addosserà la loro iniquità.

Perciò io gli darò in premio le moltitudini,

dei potenti egli farà bottino,

perché ha consegnato se stesso alla morte

ed è stato annoverato fra gli empi,

mentre egli portava il peccato di molti

e intercedeva per i peccatori.

autorità, anzi nemmeno parla. Il suo silenzio è to-

tale, forse perché non capisce. Siamo in presenza

di un paradosso!

C‟è anche una sentenza, che però non si conosce.

Evidentemente, non contava per nessuno.

Questa è un‟affermazione estemporanea!

È un‟espressione unica in tutto l‟A.T.

C‟è dunque una vittima che propizia discenden-

za per lungo tempo.

Da quanto detto si possono trarre delle affermazioni: la prima che c‟è uno che è innocente e pa-

ga. Paga davvero!

La seconda affermazione, mai fatta prima, dice che la sofferenza innocente diventa, senza spie-

gazioni, salvezza per altri. È l‟unica volta che ciò è detto nell‟Antico Testamento! Quindi, c‟è

un servo che non ha fatto del male e paga per altri e per questi si delinea la salvezza.

Dall‟insieme del testo, si direbbe che la forza del servo non è tanto nella sofferenza in quanto

tale, sebbene questa sia descritta a lungo (molto di meno è descritta nelle Passioni dei Vangeli),

quanto nella sua non risposta a ciò che è violenza: non risponde con la stessa moneta alla vio-

lenza che subisce. Ciò è contro ogni canone estetico della cultura greca e di quella egiziana. Se

questo è, allora possiamo dire che salvezza significa tutto ciò che non segue le logiche che pro-

ducono male, ma che le contrasta. È lecito pensare così? Perché no? Però, non abbiamo una

spiegazione successiva attraverso cui capire un po‟ meglio che cos‟è questa salvezza.

Comunque, dovete ritenere, in maniera decisiva, che qui la vittima è collegata con la salvezza.

6. Il servo nel Nuovo Testamento

Vediamo ora se il Nuovo Testamento sviluppa un impianto del genere.

Per gli amanti dell‟evangelizzazione e dell‟annuncio della Parola faccio notare che, nei primis-

simi anni dopo la risurrezione, quando non c‟erano ancora gli “stranieri” (successivamente en-

trati nella Chiesa, stravolgendola), quando cioè i cristiani erano soltanto ebrei, la primissima

cristologia da questi sviluppata è stata la cristologia del servo.

Facciamo un esempio, riallacciandoci al Vangelo di Matteo.

Molti teologi ritengono (e anch‟io la penso così) che Gesù non avesse, in maniera palese, la co-

scienza di essere Figlio di Dio, ma che invece avesse con più probabilità coscienza di essere il

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servo. Lo si potrebbe intuire da questi pochi versetti redazionali di Matteo (1): Ma Gesù, sapu-

tolo (che i farisei volevano ucciderlo), si allontanò di là. Molti lo seguirono ed egli guarì tutti

(ecco l‟attività del Regno), ordinando loro di non divulgarlo, perché si adempisse ciò che era

stato detto dal profeta Isaia (42, 1-4):

“Ecco il mio servo che io ho scelto; il mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Porrò il

mio spirito sopra di lui e annunzierà la giustizia (2) alle genti. Non contenderà, né griderà, né

si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fu-

migante, finchè abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le genti” (Mt. 12, 15-

21).

È chiarissimo qui che la comunità palestinese, prima della fase ellenica (Stefano, Luca, ecc.),

realizza l‟identificazione di Gesù con il Servo. Gesù ha avuto coscienza di questo? È molto

probabile.

Ad ogni modo, se Gesù ne ha avuto coscienza o meno, poco importa. La comunità non ha avuto

dubbi. Infatti, in Palestina, quando la comunità il sabato sera celebrava la risurrezione di Gesù,

parlava del Servo.

7. Conclusione

Nella nostra ricerca, siamo arrivati al punto in cui vittima e salvezza si incontrano, anche se an-

cora non capiamo cosa vuol dire. Questo pensiero non è riscontrabile in nessun‟altra religione

ed ecco perché il cristianesimo non morirà. Se il cristianesimo sopravvivrà nelle sue chiese, non

è da credere che sopravvivrà senza passare per questa strada.

Potremmo immaginare anche che il cristianesimo possa morire.

In effetti, in giro per il mondo antico (come in Cappadocia, ad Antiochia, ecc.), c‟erano delle

fiorenti comunità cristiane, oggi del tutto scomparse. La mia fede personale però mi dice che il

cristianesimo non morirà e che fa bene il Papa quando dice che le chiese storiche potrebbero

essere sull‟orlo dell‟estinzione (vds. cap. 1); sono parole che servono alle chiese per svegliarsi.

Credo che dentro di noi dobbiamo avere una disponibilità a sapere che tutto potrebbe essere nel

piano di Dio, anche l‟eventuale sparizione delle chiese. Tuttavia, Dio potrebbe avere un piano,

che a noi non è dato di conoscere, ma che va al di là di tutto. Se invece crediamo che noi dob-

biamo difenderlo, allora l‟atteggiamento, come dicevo sopra, dovrebbe essere molto diverso e

comunque collegato all‟incontro tra vittima e salvezza.

Mettiamoci nei panni di quel povero cristo di Florenskij, preso, sbattuto in Siberia e fucilato.

Oppure nei panni del Pope Man, ucciso nel 1990, il quale ha detto: “Il cristianesimo sta per ini-

ziare”. Trovo che questo sia liberante, questa è linfa vitale per il cristianesimo.

Ma essa viene sempre dopo una certa elaborazione su tutto ciò che accade.

Non bisogna identificare Dio con la propria sopravvivenza significativa.

___________________________ (1) Ricordiamoci che la vicenda di Gesù, scritta da parte degli evangelisti, è iniziata con il racconto della

Passione, cui sono state fatte successivamente precedere tante piccole storie, che costituiscono

l‟attuale stesura dei Vangeli. In questo senso, essi (gli evangelisti, compreso Matteo) sono stati dei

redattori della vita di Gesù.

(2) Per Matteo la giustizia consiste nel fatto che Dio si interessa dei peccatori e, invece di castigarli, li

aspetta nel Regno.

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LA PASSIONE DI GESU’ SECONDO LUCA

1. Il capitolo 22

Cominciamo l‟analisi della Passione di Gesù raccontata da Luca, partendo dal cap. 22, 24, quan-

do Gesù richiama i Dodici, i quali stanno discutendo su chi deve essere il più grande. Siamo in

presenza della situazione tipica di coloro che non capiscono niente, segno evidente di contrad-

dizione con la celebrazione dell‟eucaristia che di lì a poco Gesù farà. E così conclude: “…io sto

in mezzo a voi come colui che serve” (v. 27).

Segue anche nel Vangelo di Luca la censura del comportamento che sarà tenuto da Pietro

all‟atto dell‟arresto di Gesù: “…non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai nega-

to di conoscermi” (v. 34). Luca tratta Pietro in maniera più gentile di quanto non abbia fatto

Marco….

C‟è poi un‟aggiunta, che non hanno gli altri evangelisti, riportata nei vv. 35-38 e riguardante

l‟imminenza della prova (“E fu annoverato tra i malfattori”).

Segue la vicenda del Getsemani con la lotta interiore di Gesù, che conclude con la famosa fra-

se: “…non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (v. 42). C‟è poi l‟arresto, che in Luca ha una ca-

ratterizzazione nell‟episodio della spada, quando i discepoli dicono a Gesù: “Signore, dobbia-

mo colpire con la spada?” (v. 49). E uno colpisce il servo del sommo sacerdote, staccandogli

l‟orecchio destro. E Gesù, anche durante la Passione, in conformità con la sua opera precedente,

guarisce, riconcilia, manifesta misericordia, che è il tema portante del Vangelo di Luca. Se la

misericordia era prima, ora è il tempo della sua manifestazione massima. L‟episodio viene con-

cluso con il rimprovero che Gesù lancia ai sommi sacerdoti, alle guardie del Tempio e agli an-

ziani: “…questa è la vostra ora, è l‟impero delle tenebre” (v. 53). Qui Gesù è cosciente di quel-

lo che accadrà e mette in evidenza il momento in cui dominerà l‟oscurità.

Pietro, come anticipato da Gesù, rinnega il Maestro e, unica descrizione in tutti i Vangeli, lo

sguardo del Signore si incrocia con quello di Pietro, per cui questi piange amaramente.

Gesù, ormai arrestato, è quindi condotto davanti al Sinedrio. Il racconto è molto stringato. Lu-

ca, come Marco, riprende la tradizione sulla conduzione dell‟interrogatorio di Gesù da parte dei

sacerdoti., che si conclude con la domanda: “…sei il Figlio di Dio?” e con la risposta di Gesù:

“…io lo sono” (v. 70). Luca non riporta la sentenza di condanna da parte dell‟assemblea.

2. Il capitolo 23

L‟assemblea decide di condurre Gesù da Pilato. Anche Luca è tenero con il governatore, met-

tendo in evidenza che Pilato non trova in Gesù (v. 4) alcuna colpa (1). Sentendo dire che Gesù è

Galileo, Pilato lo manda da Erode, alle cui domande Gesù non dà alcuna risposta: Erode “lo in-

terrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla” (v. 9). Il colloquio tra i due ebrei

finisce con il rinvio di Gesù a Pilato. La conseguenza di tutto questo è che Erode e Pilato, che

prima non si potevano vedere, ora diventano amici (v. 12).

Pilato proclama che Gesù non ha “fatto nulla che meriti la morte” e che quindi lo rilascerà (vv.

15-16). I sommi sacerdoti insistono per la crocifissione di Gesù. Qui è meno presente il popolo

_____________________

(1) E‟ da notare che Luca non è ebreo, ma greco; egli apprende tutto quando ormai comincia a esserci

qualche pellegrinaggio e lì raccoglie le notizie su tali avvenimenti.

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che rifiuta il suo Messia, come è in Marco e come è di più in Matteo. Alla fine, Pilato decide

“che la loro richiesta fosse eseguita (v. 24).

Luca non ha particolari avversità verso il potere. In effetti, sia Luca che Paolo hanno vissuto una stagione positiva; è nei decenni successivi che con il potere romano arriveranno i guai. Sulla via del Calvario, viene preso Simone di Cirene e costretto a portare la croce “dietro a Ge-

su” (v. 26). Questa figura è anche qui il simbolo del discepolo.

A questo punto troviamo una profezia, fatta da Gesù alle donne che lo seguono e si battono il

petto per Lui, circa il futuro: “Allora (le donne) cominceranno a dire ai monti: „Cadete su di

noi‟ e ai colli:„Copriteci‟. Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?”

(vv. 30-31). C‟era questa voce che girava in Palestina e che si riferiva al castigo di Gerusalem-

me.

Nella crocifissione, la caratteristica di Luca è che Gesù ha accanto due malfattori, che stanno

per essere giustiziati. In armonia con tutto il resto del Vangelo, Gesù perdona. C‟è tutto un dia-

logo che si svolge tra Gesù e i due, che si conclude con la conversione e l‟assoluzione del mal-

fattore buono (vv. 39-43). Gesù parla di Paradiso; in effetti, questa non era una parola molto u-

sata in Palestina, perché era di origine persiana.

La morte di Gesù, anche per Luca, avviene alle tre del pomeriggio, arriva il buio e il velo del

Tempio si squarcia. Prima di morire, Gesù recita qualche parola, che Luca riprende dal Salmo

31,6: “… nelle tue mani consegno il mio spirito” (v. 46). Al riguardo, è da fare la seguente con-

siderazione. Matteo e Marco fanno ripetere a Gesù le parole del Salmo 22, 2: “Dio mio, Dio mi-

o, perché mi hai abbandonato?”. Questo tema à tipico delle vittime innocenti, che viene rias-

sunto dal servo di Isaia. Per la mentalità greca ciò sarebbe apparso troppo angoscioso, mentre il

tema dell‟”abbandono di sé” (“consegno il mio spirito”) era più facilmente comprensibile.

Anche in Luca, il centurione glorifica Gesù dicendo: “Veramente quest‟uomo era giusto” (v.

47).

Caratteristica unica , tipica di Luca, è la frase “tutte le folle, che erano accorse a questo spetta-

colo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto” (v. 48). Per

Luca diventa necessario sostenere una memoria, perché è convinto che si può essere contem-

poranei all‟evento della morte e della risurrezione di Gesù attraverso il ricordo. E questo lo di-

mostrerà ancora di più nel cap. 24, con l‟apparizione del Maestro risorto ai discepoli di Em-

maus, che diventano contemporanei attraverso la citazione di Mosè e dei profeti.

3. Concludiamo con la lettura dei capp. 22 e 23 del Vangelo di Luca.

LA SOFFERENZA NEI FRATELLI

1. Premessa

Nei giorni scorsi, abbiamo detto che non avremmo parlato della sofferenza in quanto tale, ma

che ci saremmo occupati della sofferenza delle vittime. C‟è però una linea nell‟Antico Testa-

mento in cui si vuole far vedere che ci sono sofferenze che servono. E si parla di sofferenze che

sono vissute nell‟ambito familiare, che spesso sono le più terribili, le più cocenti, in particolare

quando i fratelli non riescono a essere tali. Non è che su questo argomento l‟Antico Testamento

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sviluppi una teoria, una tesi, o che con questo voglia provare qualcosa. È solo una constatazione

dell‟esperienza: non c‟è cosa più difficile che vivere in armonia con i vicini; è molto più facile

vivere in pace con quelli che sono lontani.

E quando le cose non vanno bene in famiglia, un vecchio proverbio popolare dice: “Allontanate

le tende, avvicinate i cuori”.

3. Il Salmo 133

Il Salmo vuole celebrare la fraternità e dice: “…quanto è buono e quanto è soave che i fratelli

vivano insieme!” (v. 1). Evidentemente, le cose non vanno molto bene e il salmista auspica un

miglioramento nei rapporti personali. C‟è a volte una grazia che accade, una realtà sperimenta-

bile di armonia, che si può costruire all‟interno di una famiglia, di un gruppo, di una comunità.

Tuttavia, è difficile che una situazione ottimale sia perenne, anzi è quasi sempre da rivedere e

da ricostruire; talvolta è anche imprevedibile.

Qui il salmista, più che soffermarsi sui contenuti e fare una lezione, celebra, in quanto poeta, la

fraternità, descrivendola “come olio profumato sul capo” (v. 2). Allora non c‟erano i cosmetici,

come oggi, e l‟olio era la base di ogni unguento e di ogni medicina per la pelle. Quest‟olio deve

ungere il capo e la barba (oggi questa massiccia aspersione appare anacronistica) e scendere

“sull‟orlo della veste” (v. 2). Quest‟olio (che qui è il simbolo della fraternità) “è come rugiada

dell‟Hermon”. Siamo in Palestina, in un ambiente molto secco e desertico, che da Giuda si

spinge verso nord, verso la Siria. L‟Hermon era il monte sul quale si trovava un po‟ di neve e la

rugiada vi si formava spesso. Proprio in questi luoghi “il Signore dona la benedizione e la vita

per sempre” (v. 3).

Siamo in presenza di un canto che fa parte della capacità umana di trasfigurare le cose, perché

l‟uomo sa di aver bisogno di trasfigurare le cose. Spesso queste si presentano in brutta copia e

almeno in copertina si desidera che appaiano in bella copia. Fa parte delle necessità umane

quella di avere armonia, bellezza, salute per star bene, per riconciliarsi con se stessi e con gli

altri.

Allora, però, se è vero che abbiamo bisogno (e sappiamo farlo) di trasfigurare una realtà che è

troppo normale, che non dà gusto, non potrebbe essere vero, come dicono i russi, che sappiamo

trasfigurare la sofferenza? Anche semplicemente ragionando da umani. Si parla della sofferen-

za, non della sventura dell‟innocente.

È probabile che certi tipi di sofferenza siano trasfigurabili e servano. E che dopo un travaglio si

possa dire: è come olio profumato che scende, è come rugiada dell‟Hermon, è come benedizio-

ne.

4. La lotta di Giacobbe

Il brano di Gn. 32, 23-33, noto come “la lotta di Giacobbe”, è servito nei secoli per una infinità

di cose nobilissime, tra cui l‟alta mistica. Vi si narra che una notte Giacobbe, entrato nel torren-

te Iabbok, lotta con un angelo. Probabilmente, all‟epoca, non si conosceva nulla della sciatica,

una delle malattie molto dolorose; da qui una caduta di tono verticale.

È un testo geniale; la lotta è impari, una specie di agonia, dove il risultato è una benedizione e

la conoscenza del proprio nome (“Israel, perché tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai

vinto” – 32, 29). Dicendolo in maniera semplice, quasi banale, tutti noi, quando abbiamo avuto

un problema, una difficoltà, una lotta, dopo abbiamo capito qualcosa di più di noi stessi. Qui,

con Giacobbe, avviene lo stesso.

53

Certo, la lotta con l‟invisibile è di natura tutta interiore; può esistere; può colpire qualcuno di

più, altri di meno; qualcuno non ha dovuto subirla in maniera così esplicita; però c‟è, nella vita,

nell‟esperienza. L‟incontro con questo Dio, che sembra cieco, senza occhi e senza volto, è mi-

sterioso; è notte e Giacobbe non sa con chi sta parlando e lottando. In occidente, la nostra mi-

stica si rifà spesso a questa immagine potente.

Però, non è questo il punto di cui dobbiamo parlare, ma un altro. Il punto che ci interessa è la

fraternità.

Siamo nella famiglia di Isacco e di Rebecca e ci sono due figli. Il primo è Esaù, che è un po‟

tonto, forte e robusto ma tonto. Il secondo è Giacobbe, che è completamente diverso da Esaù;

anzi, possiede un cervello molto fine. Giacobbe ruba al fratello la primogenitura (nella Genesi

c‟è sempre un problema di primogenitura), ingannando il padre Isacco, che ormai è molto vec-

chio e facilmente raggirabile, e approfittando anche dell‟assenza di Esaù, andato a caccia.

Quando Esaù si rende conto che il fratello gli ha rubato in quella maniera la primogenitura, si

arrabbia molto e tenta di uccidere Giacobbe. È guerra totale, come avviene ancora oggi in mol-

tissime famiglie.

La famiglia di Isacco, dunque, subisce un trauma e i fratelli devono separarsi. Col tempo, Gia-

cobbe cerca un modo per superare questa separazione, in modo che non ci sia più guerra.

Il brano, mistico, della lotta di Giacobbe con l‟angelo, riguardante la non conoscenza di Dio,

preso in sé è molto ben considerato. Ma bisogna ricuperarlo nel suo contesto: la vicenda si

svolge nella notte prima dell‟incontro di Giacobbe con Esaù. È una notte di veglia e per giunta

Giacobbe ne esce fastidiato dalla sciatica. È, cioè, un momento molto delicato.

Giacobbe, che conosce molto bene il fratello, il giorno prima aveva mandato davanti a sé alcuni

messaggeri, con l‟incarico di sondare l‟umore del fratello. I suoi uomini ritornano dicendo che

Esaù sta arrivando con 400 uomini. Probabilmente, Esaù, ancora angustiato dallo sgarbo rice-

vuto, vuole incontrare il fratello in tutta sicurezza: il timore è che Giacobbe non abbia posto un

limite alla sua furbizia. La notizia per Giacobbe è ferale.

Ma Giacobbe, dopo la lotta dello Iabbok, è diverso. All‟arrivo di Esaù si prostra “sette volte fi-

no a terra”, in segno di assoluta sottomissione. Esaù, colpito, corre incontro al fratello e lo ab-

braccia. Nel contempo, ne rifiuta i doni, perché non si abbia l‟idea che egli voglia approfittare

della attuale condizione di soggezione di Giacobbe. La riappacificazione è completa.

Il brano ha sicuramente una sua ricchezza, un senso proprio per significare quanto il travaglio,

dopo la lotta, ha scavato dentro Giacobbe e lo ha portato avanti, lo ha maturato e gli ha dato an-

che la capacità di conoscere e di cambiare in meglio se stesso. Quanto è vero tutto questo!

Tuttavia, da tutto questo non dobbiamo tirar fuori una teoria sull‟utilità della sofferenza. Noi ci

possiamo e ci dobbiamo rispecchiare in questa situazione.

5. Caino e Abele

Quanto avviene tra Caino e Abele è una vicenda tipologica. Il peccato, in concreto, è qui.

I due fratelli non riescono a essere fratelli e la faccenda è talmente grave che Caino uccide Abe-

le.

Il testo, molto improvvisamente, non sapendo quante difficoltà avrebbe dato ai posteri, mette di

mezzo anche Dio, il quale gradiva di più i sacrifici e i doni di Abele che quelli di Caino.

Il testo, peraltro, contiene anche degli errori: l‟economia umana ha avuto inizio con la pastori-

zia e non con l‟agricoltura. La prima tappa dell‟evoluzione economica non è l‟agricoltura.

Il brano ha una intenzione teologica, anche se redatto male. La sua originalità semmai non è

tanto nel dire che i due fratelli sono in continua lite, ma che Dio, pur “segnando” Caino, lo di-

fende; Dio, malgrado tutto, lo protegge: “Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette vol-

te” (Gn. 4, 15).

54

È una delle prime parole sulle intenzioni del Dio “Go-El”, il Dio che salva. Se quando pensia-

mo a redenzione, a salvezza, non ci riferiamo a cose di questo genere, la nostra è una manife-

stazione spirituale che non si sa dove inizia e dove finisce. Niente è più redentivo di questo, nel

senso vero della parola! Per noi, quando parliamo di redenzione, di cambiamento da male in

bene, di riscatto del bene sul male, di vittoria del bene, niente è più redentivo di una famiglia

dove i componenti, invece di prevaricarsi o di uccidersi, si amano e si aiutano. Molto spesso di-

ciamo che se vogliamo una società sana, bisogna incominciare dalla famiglia.

Il testo, a livello antropologico, sottolinea come sia difficile essere fratelli maggiori. Caino è il

fratello maggiore, e pensa che Abele gli dia fastidio e che sia necessario farlo fuori. C‟è sottoli-

neata in questa vicenda la difficoltà, che si ripete nelle vicende simili di ogni tempo, che l‟uomo

ha di sopportate l‟altro, considerato diverso.

Il testo, dunque, è di un‟importanza estrema, perché dentro contiene un‟infinità di significati a

qualunque livello, filosofico, teologico, antropologico, ecc. La sua origine probabilmente è

l‟inimicizia classica che c‟è in ogni paese tra contadini e pastori; questi non si possono vedere,

perché i contadini si stremano coltivando la terra, poi arrivano le pecore che fanno fuori tutto, e

allora è guerra. Questo è sempre successo.

6. Le famiglie potenti

Andiamo adesso a Davide. L‟origine storica del brano che lo riguarda è molto più recente e

molto semplice.

Davide, un re un po‟ santo e un po‟ brigante, ha avuto una famiglia molto problematica. Anzi,

dire problematica è un eufemismo. Uno dei figli, Assalonne, un giorno decide di carpirgli il

trono; Davide esce con i suoi uomini per farlo fuori. La leggenda vuole che i capelli di Assa-

lonne si siano impigliati nei rami di un albero e che, quindi, sia stato ucciso.

Tra i fratelli rimasti, che però non sono molto fratelli, scoppia l‟inimicizia, l‟invidia; iniziano

cioè i problemi circa il futuro e la successione. Uno di questi invita gli altri a una gita e uccide

tutti quelli che si sono presentati. Questa è la realtà circa la famiglia del santo padre Davide.

Non parliamo poi di altre famiglie potenti! Abbiamo visto come Costantino si è comportato con

il figlio e la seconda moglie (vds. cap. 5). Nella stessa maniera terrificante si è comportato Carlo

Magno, il quale trafficava le figlie, come se fossero sacchi di patate, per la sete di potere.

La nostra tradizione ebraico-cristiana considera peccato tutto questo. È il peccato che tutti ci

portiamo dentro.

7. La storia di Giuseppe

La conclusione su questa realtà l‟abbiamo nella storia di Giuseppe (Gn. capp. 37-47).

Anche nella famiglia di Giacobbe non è che le cose vadano meglio. I figli sono dodici e tutti

lavorano con le pecore. Giuseppe, a causa dell‟interpretazione dei sogni suoi e degli altri, risul-

ta antipatico ai fratelli e questi, con una stratagemma, riescono a venderlo a una carovana di

passaggio, che lo conduce in Egitto. Intanto, Giacobbe viene informato che Giuseppe è stato

sbranato: dimostrazione di quanto i figli talvolta siano astuti e crudeli nell‟ingannare i genitori.

Malgrado tutto, Giuseppe, sempre con l‟interpretazione dei sogni, riesce ad affermarsi, sino a

diventare viceré per gli affari economici. In vista di una carestia, da lui pronosticata, organizza

l‟immagazzinamento di tutte le granaglie, in modo da non far patire la fame al popolo.

Anche in Palestina arriva la carestia e Giacobbe decide di mandare alcuni figli in Egitto per ap-

provvigionarsi di viveri. Ivi giunti, essi non riconoscono in Giuseppe il fratello venduto, mentre

Giuseppe li riconosce perfettamente. Non li vede come straccioni venuti a chiedere sommessa-

mente da mangiare, li riconosce proprio come fratelli. A dimostrazione che colui che fa un po‟

di strada, più facilmente riesce a riconoscere nell‟altro il fratello.

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Da gran maestro qual è, Giuseppe li mette alla prova: “Voi siete spie” (42, 14). Poi aggiunge che

non sarebbero ritornati indietro se non fossero stati raggiunti dal fratello più giovane (Beniami-

no, rimasto con il padre). Uno dei fratelli, Simeone, rimane come ostaggio e gli altri ritornano

da Giacobbe; convincono il vecchio a far andare con loro Beniamino e ritornano in Egitto. Tut-

to il brano è molto curioso, perché ci presenta un Giuseppe molto emotivo: piange continua-

mente, si nasconde, si apparta per lavarsi la faccia onde far sparire le lacrime, poi torna dai fra-

telli.

Giuseppe, astuto come sempre, fa mettere una coppa d‟oro dentro il sacco di Beniamino, dove

viene trovata in occasione di un‟ispezione. Alla minaccia della riduzione in schiavitù del ragaz-

zo (stratagemma per vedere se gli altri sono diventati fratelli maggiori), Giuda, uomo certamen-

te non fine (era stato lui ad architettare l‟allontanamento di Giuseppe e l‟invio della veste in-

sanguinata di questi a Giacobbe), fa invece un lungo discorso che termina con la frase: “Ora,

lascia che il tuo servo rimanga invece del giovinetto come schiavo del mio signore e il giovinet-

to torni lassù con i suoi fratelli” (44, 33).

Giuda, il più grande, diventa veramente fratello maggiore. Giuseppe, ormai al colmo della

commozione, si fa riconoscere e tutto finisce bene.

Ecco la risposta all‟episodio di Caino e Abele, che è anche la conclusione di come dovrebbero

andare le cose. È difficile, è drammatico, ma è anche possibile: si può arrivare ad essere fratelli

maggiori, a sapersi far carico dell‟altro.

Pare che questa sia la sofferenza umana più quotidiana. E pare che sia quella che più ci trasfigu-

ra, che fa di noi persone adulte e responsabili.

CAP. 6

I RACCONTI DELLA PASSIONE DI GESU’ NEI VANGELI

1. Premessa

All‟inizio dei nostri incontri, ci siamo chiesti che validità può avere il discorso teologico sulla

vittima. È stata una scelta teologica nostra, dovuta alla nostra sensibilità, guidati sia dalla Parola

sia dalla situazione generale in cui viviamo, sia dalla riflessione che ci impongono eventi parti-

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colari. Oppure, si potrebbe collegare, questa centralità teologica della vittima, ad affermazioni

scritte che appartengono alle radici stesse, all‟origine stessa, delle chiese e delle comunità.

Sui racconti della Passione non faremo un‟analisi completa, ma ci soffermeremo sul racconto

più antico, quello del Vangelo di Marco, per vedere che cosa, in questo Vangelo della Passione,

si rispecchiava per la primissima comunità in Gerusalemme. Va detto subito: non è che le cose

più autentiche siano quelle che i cristiani hanno vissuto nei primi anni. Il primitivismo ecclesio-

logico non appare particolarmente meritorio. Però, è interessante conoscere lo sviluppo teologi-

co che hanno avuto le primissime comunità. Ciò è indicativo anche per noi.

2. Le attese sul Messia

Nel giudaismo contemporaneo di Gesù, c‟è una certa concezione del Messia tanto atteso.

Gesù, così come si è presentato, e in particolare così come ha annunciato il Regno e poi è mor-

to, è una smentita di tutte le attese dei suoi contemporanei. C‟è chi attende un Messia che sia un

grande moralizzatore, chi attende un Messia che sia un uomo politico capace di prendere in

mano la situazione, liberando la Palestina e facendo le riforme religiose ritenute utili. Ma prin-

cipalmente capace di liberare la terra di Dio dai pagani che la calpestano, che la violano. Una

terza attesa, molto forte, è quella apocalittica, quella di coloro che aspettano la fine del mondo,

perché questo è cattivo e non ha alcuna possibilità di salvezza. Allora bisogna liberarsi da tutto

il peso del male e del peccato, che non hanno redenzione possibile, e il Messia deve venire per

cancellare tutto e ricominciare da capo.

3. Il Messia Gesù

Gesù non ha fatto niente di tutto questo: ha annunciato il Regno di Dio, dicendo che Dio è vici-

no all‟uomo, anche se questi è un lebbroso, un peccatore, una prostituta, un levita, un ladro.

Non c‟è bisogno che venga la fine del mondo o che venga convertito il cuore dell‟uomo rina-

scendo, per notare che Dio è abbastanza contento del mondo ed è presente, camminando con

l‟uomo. E ha detto tutto questo con segni precisi, che sono stati “la terapia” di Gesù (il Regno, i

miracoli, ecc.).

Gesù, quindi, non è stato nessuno dei Messia attesi. Se non è stato questo, cosa possono aver

capito di lui i contemporanei?

Essi hanno capito una cosa semplice, comprensibile: Gesù è una sicuramente figura profetica e

lo dimostra anche il suo stile di vita. Non ha una scuola, non ha una casa, non è un sacerdote, è

solo un artigiano (in quanto tale, appartiene alla classe media e non è quindi uno schiavo). Però,

lo vedono andare in giro e c‟è gente che gli va dietro. Può essere già un maestro, poiché ha su-

perato i 30 anni (quando ha cominciato la sua attività ne aveva sicuramente di più se è nato nel

6 a.C. e ne doveva avere almeno 32 se è nato nel 4 a.C.). Gli ebrei capiscono anche che parla

con autorità di Dio, tema importante per l‟epoca. Vedono in Lui un profeta itinerante, che non

mangia a ufo, come spesso accadeva per altri. Quindi, un profeta benevolo, non particolarmente

astioso sia verso l‟autorità sia verso il suo tempo, con una predilezione per i poveri, le prostitu-

te, i peccatori che vengono esclusi dalla vita del Tempio. Con questi si trova bene; ha solo

qualche difficoltà con certe autorità, con i moralisti, i fanatici, i sicari (questi ultimi portavano

nascosto sotto la veste un pugnale per poter uccidere, presentandosi l‟occasione, un romano, si-

curi di meritare il Paradiso).

A un certo punto, per tutta una serie di circostanze, Gesù muore. Il sistema religioso non poteva

più sostenerlo e c‟erano tanti gruppi e gruppetti in seno al giudaismo che, da dentro il sistema,

non potevano certo amarlo. Questo profeta itinerante parlava in un certo modo della legge e non

era un maestro della legge, si arrogava l‟autorità di guarire anche di sabato, parlava con facilità

di perdono dei peccati, non rispettava l‟autorità del Tempio ed era contro i sacerdoti. Strana-

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mente, non vedeva nel Tempio la più grande conferma della presenza di Dio nel suo popolo. Il

sistema, quindi, uno così non può sopportarlo e arriva a sopprimerlo. Avrebbe casomai potuto

sopportare un moralista meno moralista, un violento meno violento, un apocalittico meno apo-

calittico, ma pur sempre dentro il sistema.

E Gesù muore e muore di morte violenta. Certo, la prima cosa che gli ebrei hanno pensato nel

30 d.C., quando è morto, è stata che Gesù è morto come erano morti tanti profeti che avevano

fatto del bene ed erano stati rifiutati.

4. Il racconto pre-marciano della Passione

Questo racconto (che oggi non esiste più) è servito a Marco da fonte per il racconto del suo

Vangelo. C‟era inoltre un‟altra fonte (anch‟essa oggi perduta), chiamata fonte Q (= Quelle =

Fonte), costituita da 200-300 versetti, che ritroviamo nei Vangeli di Matteo e di Luca. Marco,

quindi, non conosce quest‟ultima fonte, perché era già andato via dalla Palestina a Roma. Una

cosa interessante a livello storico: è opinione comune che la fonte pre-marciana sia stata redatta

tra il 30 e il 36 d.C. (perché proprio 36? Perché Caifa è stato deposto nel 36).

Quello di Marco è stato il primo Vangelo ad essere stato scritto; è stato redatto probabilmente

negli anni 50-60 e l‟ipotesi è che questo suo racconto dipenda da un pre-racconto da lui raccol-

to. Come è possibile ciò?

A livello letterario, oggi si riescono a fare delle analisi talmente spinte da consentire una visio-

ne dei testi storicamente più ampia e qualche volta piuttosto definita, come in questo caso. Il

segreto consiste, comunque, in due aspetti:

- quello letterario: in alcuni capitoli ci sono delle espressioni che ritornano;

- quello archeologico: con le scoperte dei ricercatori.

Che cos‟è questo racconto pre-marciano?

Se è vero, noi siamo in presenza di un primo racconto della Passione e anche della primissima

cristologia della comunità (sarebbe interessante conoscere quale visione cristologica si ebbe a

Gerusalemme nel 35, nel 40, nel 45). È anche probabile che questo racconto abbia avuto una

funzione liturgica e che, quindi, risenta di una simile impostazione. Da un‟analisi più attenta

della cristologia inserita nel Vangelo di Marco, così come deriva dal racconto pre-marciano,

viene fuori che Gesù è chiamato “pastore” (14, 27), “Figlio dell‟uomo” (14, 62), “re dei giudei”

(15, 26) anche se in tono di burla, “Figlio di Dio” (15, 39) nella confessione del centurione.

Il racconto pre-marciano della Passione, secondo uno dei più grandi autori contemporanei, il

tedesco Rudolf Pesch, comincerebbe dal cap. 8 del Vangelo di Marco, con il riconoscimento di

Gesù come Messia da parte di Pietro e con l‟annuncio di Gesù della sua Passione e della sua ri-

surrezione. Seguono altri riferimenti fino ad arrivare ai capp. 14 e 15. Circa il cap. 14 è da preci-

sare che l‟istituzione dell‟eucaristia è stata sicuramente scritta dopo il racconto pre-marciano.

Che cosa si può notare in questo testo?

Viene sottolineato, proprio con cura e in maniera unica in tutta l‟antichità, la miseria della mor-

te di Gesù e c‟è la volontà esplicita di fornire elementi minuti (il particolare dell‟aceto, il parlot-

tio di coloro che sono sotto la croce, ecc.). Ciò significa che gli estensori hanno avuto

un‟intuizione, che lì c‟era qualcosa da non perdere .

Tuttavia, tra il 30 e il 36 sembra che mancasse la dimensione salvifica, soteriologica. Il pensiero

che Gesù sia morto per i peccati (appunto, la dimensione salvifica) non c‟era ancora (1). In pra-

______________________

(1) Troviamo questa dimensione più avanti, nella 1^ Lettera ai Corinzi di Paolo. Questa è di una ventina

di anni posteriore al documento pre-marciano, cioè è del 53-54 d.C. Al cap. 15, 3 leggiamo: “Vi ho

trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch‟io ho ricevuto (notare: trasmettere-ricevere): che cioè

(la nota prosegue nella pagina seguente)

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tica, la primissima comunità non ha allargato lo sguardo sul tema del peccato e della redenzio-

ne. C‟è certamente un riferimento nella pericope dell‟ultima cena, ma non deriva, altrettanto

certamente, dal documento pre-marciano.

La primissima teologia rimane, dunque, esclusivamente una teologia della Passione (2).

5. La Passione nei quattro Vangeli

I quattro racconti, che a livello letterario non hanno alcun modello di riferimento, hanno tutti

una successione comune, costituita da cinque momenti:

- la cena eucaristica;

- l‟arresto di Gesù all‟orto degli ulivi su tradimento di Giuda;

- il processo davanti al Sinedrio, con condanna per bestemmia;

- il processo davanti a Pilato per la condanna definitiva;

- il viaggio al Calvario, con la crocifissione, morte, sepoltura e risurrezione di Gesù.

La prima cosa interessante da rilevare è che troviamo in tutti e quattro i Vangeli canonici il rac-

conto della Passione di Gesù. Questo indica una cosa certa: che le comunità dei discepoli hanno

individuato un interesse imperdibile e lo hanno fatto proprio. È tanto vero questo, che, se si

guardano i Vangeli, c‟è un‟enorme sproporzione tra la prima parte, che tratta di circa 32-34 an-

ni della vita di Gesù, e la seconda parte, che riguarda le ultime 48 ore della sua esistenza. Si sta

riflettendo su questo già da parecchio tempo. Nel 1892, un esegeta tedesco ha coniato la se-

guente espressione: “I Vangeli sono un racconto della Passione, con un‟ampia introduzione”.

Cosa vuol dire che una comunità, per parlare di 48 ore, dedica tanto spazio? Cosa vuol dire che

in questo racconto nessuno è un eroe? Un esempio: Giuda tradisce, Pietro rinnega, i discepoli

fuggono e Gesù stesso è un uomo impotente, umanissimo nella sua agonia e nella sua domanda

di abbandono. Sembra un tramonto piuttosto deprimente!

Luca, a differenza di Marco, narra la Passione in maniera fortemente teologica. L‟efficacia di

Gesù è veramente eccezionale: guarisce l‟orecchio ferito del servo del sommo sacerdote, Pilato

e Erode da nemici diventano amici, sulla croce c‟è la conversione di uno dei due malfattori. A

Luca interessa relativamente la città. Tuttavia, Luca, che certamente è stato a Gerusalemme, ma

molto tempo dopo, da intellettuale ha saputo raccogliere elementi che Marco forse non era in

grado di capire.

Anche il Vangelo di Matteo è incentrato sulla città e sui suoi abitanti, che non capiscono niente

e perdono il proprio re. Matteo non digerisce il trauma dell‟ignoranza del suo popolo e, quindi,

ce l‟ha con i suoi compatrioti.

Pure nel Vangelo di Marco ci sono moltissimi dettagli su Gerusalemme. Quelli di Matteo e di

Marco sono elementi molto pratici, riportati da chi conosce veramente la città.

Questa ossessione sulla Passione non poteva avere certamente motivi apologetici, cioè quelli di

conservare racconti che celebrassero la gloriosa nascita di un movimento, di un gruppo, perché

in effetti nella morte di Gesù non c‟è stato niente di attraente e di onorevole.

Proprio a quest‟ultimo riguardo riporto alcune testimonianze. Leggo ciò che Trifone, un ebreo,

ha scritto:

__________________ (seguito nota dalla pagina precedente)

Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno se-

condo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (è, questa, una formula fissa e compat-

ta). È la prima confessione soteriologica del Nuovo Testamento.

(2) I russi, che non hanno elaborato alcuna ricerca biblica, nella loro letteratura riportano la Passione in

maniera spontanea. Anzi, è diventata la via alla santità stile russo (vds. cap. 2).

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Sappi che tutta la nostra razza attende il Cristo, ma che il Cristo sia stato così ignominiosamente

crocifisso, di questo proprio non sappiamo convincerci.

Celso, un pagano, qualche tempo dopo, a sua volta ha scritto:

Qual Dio, qual demone o quale uomo intelligente, prevedendo che dovevano capitargli tali cose,

non avrebbe fatto tutto il possibile per sfuggirle? Ma si sarebbe lasciato sorprendere dai malanni che aveva previsto? Chi vieta di credere che anche gli altri, i quali sono stati condannati e hanno

fatto una fine ancor più brutta, siano degli angeli più grandi e più divini di lui?

È encomiabile una comunità che vuole assolutamente “ricordare” un crocifisso, andando incon-

tro allo scherno della gente di cultura e dei benpensanti. Tutto questo è eccezionale. Ieri accen-

navo che in nessuna parte della letteratura antica si trovano più di un paio di righe su gente che

è stata condannata a morte e appesa al palo. E invece i neo-cristiani vi dedicano pagine su pagi-

ne. Questo indica che nelle comunità è venuta fuori in maniera fortissima l‟esigenza di conser-

vare memoria dell‟evento della croce. C‟è stata una volontà di memoria fortissima. E scrivono

tutto quanto subito, poiché probabilmente hanno bisogno anche loro di capire perché quel per-

sonaggio, quel profeta, morto crocifisso, fosse morto proprio così.

In effetti, non c‟erano spiegazioni. Si poteva dire che l‟ebraismo l‟avesse rifiutato per motivi di

bestemmia, ma era stato un profeta e pur sempre un brav‟uomo.

Altro aspetto da mettere in evidenza è che, nella Passione, Gesù non viene avvicinato a nessuna

figura storica dell‟Antico Testamento (Giuseppe, Mosè, Geremia, ecc.), a nessuno dei giusti

che vengono “bastonati”. Cosa si è voluto dire in questo modo?

Probabilmente che Gesù è un “precursore”: in Lui si riconoscono, in un caso così unico come il

suo, tutti i giusti che hanno avuto una morte infamante. Anzi, nel suo caso, Gesù muore

come un maledetto della legge e viene ucciso in nome di Dio. E‟ l‟equivoco più grande, dove

nessuno più riesce a sbrogliare la matassa.

Ecco in cosa consiste la volontà di memoria. La comunità, anche oggi, non può certamente per-

derla.

5. La cristologia del servo sofferente

La specifica cristologia che si trova in Marco è quella del giusto sofferente, del giusto, vittima

che soffre. Anche questo è di grande valore: se lo ha fatto la prima comunità, perché non lo

facciamo noi oggi?

La passione del profeta perseguitato è un tema antico, perché (come abbiamo già accennato) la

troviamo in Geremia, il giusto che viene perseguitato e buttato nel pozzo. Geremia, infatti, as-

sieme a Mosè, è il personaggio che più richiama la figura del Cristo.

C‟è anche nella letteratura pagana il riferimento a un giusto che viene condannato e che perisce.

Questo scandalo appartiene all‟Occidente e ci si pone un radicale interrogativo sul perché di

una morte simile. Che Geremia e i Salmi delle lamentazioni presentino e celebrino un giusto

che non merita questo trattamento è certamente normale, ma che ci sia un fatto simile nella let-

teratura pagana è oltremodo stupefacente e importante. Platone, parlando di Socrate, dice che

“se c‟è di mezzo la giusta causa, io, per paura della morte, non saprei piegare la testa davanti a

nessuno. Non ripetere quello che tante volte mi hai detto, che un malvagio farà morire un buo-

no.

Cicerone, a sua volta, dice:

“Perché Annibale uccise Marcello (uomo valido e dedicato alla causa romana), perché Regolo

fu consegnato alla crudeltà dei cartaginesi, perché Africano non fu protetto dalle pareti della

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sua casa, come se gli dei avessero eliminato ogni distinzione tra buoni e cattivi? (è una frase

simile a quella di Giobbe). Non voglio continuare, altrimenti sembrerebbe che io dessi licenza

di peccare e avresti ragione se non fosse che la coscienza buona o cattiva costituisce un valore

in se stessa, a prescindere da una spiegazione divina (è il principio di una cultura laica: la cen-

tralità della coscienza nel discernere il bene e il male). Perchè i malvagi e i furfanti sguazzano

tra tutte le felicità e gli uomini buoni sono sbattuti qua e là, afflitti da povertà, da malattie e da

mille altri mali?”.

6. Il “silenzio” di Dio

Esaminiamo ora un altro aspetto. Nei Vangeli di Marco e di Matteo è riportato il grido di Gesù

rivolto al Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. È il grido di chi si sente real-

mente abbandonato!

Nella lettura odierna, con tutto quello che c‟è stato nel secolo scorso e con la riflessione teologi-

ca che ha accompagnato certi eventi, dopo Auschwitz, si è parlato del “silenzio” di Dio. Non è

certamente un tema nuovo: nella Bibbia c‟è, c‟è nei Salmi, c‟è nelle pagine dei profeti; però,

lungo i secoli, non è stato un tema trionfante, vincente.

Questa vittima “tipologica” viene messa lì con la sua lotta di fronte al “silenzio” di Dio, ed è e-

sattamente la situazione di tante vittime innocenti.

Io sono rimasto molto colpito da questa memoria teologica sulla vittima delle primissime comu-

nità. Nel prossimo futuro, si comincerà a riflettere su questo punto e a ri-allargare il quadro

della teologia e della cristologia…. Anzi la teologia ritroverà il vero punto di partenza.

7. La celebrazione della sofferenza

La tradizione, che ha preso piede nel popolo di Dio (delle croci, delle processioni con le croci,

delle manifestazioni religiose in giro per l‟Europa, delle passioni durante il venerdì santo), non

ha niente a che fare con la primissima cristologia.

Questa non ha assolutamente voluto esaltare il tema della sofferenza, che è ciò che viene fuori

nel Medioevo. È dopo Costantino che si cominciano ad avere le croci senza il crocifisso. La

croce diventa un simbolo a sé stante, senza colui che è appeso come un condannato dagli uomini

e in nome di Dio, e diventa simbolo di sofferenza (da qui il detto: “ciascuno porta la sua croce”).

Ciò che di memoria la pri-missima comunità ha messo nella Passione non è certamente la soffe-

renza. Il concetto basilare era: abbiamo lì, per sempre nei secoli, un giusto, che è stato messo a

morte e a morte di croce; in lui si potranno riconoscere tutti i giusti, tutti quelli che nella sto-

ria sono vittima di questo scandalo.

Molti quadri, conservati a Firenze, risentono della pietà popolare, che celebra la sofferenza. È

un riporto del Medioevo: il povero cristo si riconosceva nella croce, perché Gesù ha sofferto

tanto e anche l‟uomo soffre tanto.

Molti personaggi di tali quadri hanno un volto, che più che richiamare la sofferenza, richiamano

il volto trasfigurato di colui che è passato attraverso il tunnel di un‟immensa ingiustizia. Ed è

come se dicesse: “guardami, perché in me ti riconoscerai”. È vero che ciò lo dice a noi tutti, ma

lo dice soprattutto alle vittime dei genocidi. Certamente però per non glorificare la sofferenza.

Dio non vuole la sofferenza!

Sfortunatamente, poi, tutto questo ha avuto una recrudescenza nel „700 e nell‟‟800, con un ec-

cessivo sviluppo della spiritualità (sacro cuore, sofferenza per la sofferenza, ecc.). Ciò è avvenu-

to in Europa, mentre la Russia, forse,si è salvata per la grande produzione letteraria mistica.

9. Conclusione

A. Prima di Costantino, la croce non veniva rappresentata, anche perché sarebbe stato due volte

umiliante per i cristiani, che allora erano una minoranza. Non solo la croce era disprezzabile, ma

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i cristiani temevano che si dicesse loro: cosa venite a raccontare voi, il cui capo è stato messo in

croce? Questi sentimenti hanno fatto sì che non si sviluppasse un‟iconografia della croce.

Ma allora chi era il martire? Era colui che ricordava la croce, perché, come Gesù, finiva sulla

croce in quanto aveva una sua causa, lottava per questa, veniva sconfitto e per essa moriva. La

lezione storica (ed è qui l‟importanza della primitiva cristologia) era questa: chi perdeva la pro-

pria causa, perdeva anche la propria identità. Allora la principale lezione di questa cristologia

dei primi secoli era la rinuncia alla violenza; non si doveva rispondere al male con il male né

adoperare le stesse armi della violenza. Il mondo poteva essere salvato non con la forza, non con

il bene imposto con la forza (come invece diceva Costantino; da questo momento i cristiani

hanno continuato per questa via), ma a volte lo si poteva salvare, paradossalmente, perdendo.

B. Un secondo punto riguarda l‟indicazione della passione del giusto, che nelle prime chiese ha

ispirato un amore che sapeva perseverare, resistere. Si spiega in questo modo che, per i primi

100-150 anni di cristianesimo, gli schiavi si sentivano a proprio agio nella comunità. Certamen-

te, la passione del giusto indicava una grande solidarietà, una grande empatia per tutti quelli che

nel sistema diventavano vittime. Veniva così posta una grande attenzione alla miseria; c‟era un

umanesimo che predicava la compassione (da sopportare con, lottare con). Questa

comunione con le vittime ha avuto una ripercussione politica. Se il cristianesimo, nel corso

dell‟impero di Adriano, stupidamente avesse fatto una ribellione per liberare gli schiavi, avrebbe

determinato un disastro. Gli uomini intelligenti capivano cosa si sarebbe verificato!

Ma un effetto lo ha avuto: in un impero potente, come quello romano, si era a mano a mano a-

limentata l‟idea che il ricco e il povero (e anche lo schiavo) potevano stare insieme in comunità.

Ciò non si è manifestato in nessun altro gruppo religioso, né a Roma né a Corinto.

L‟avversione, un po‟ dura a volte, riscontrabile in alcuni scritti cristiani (vds. l‟Apocalisse) sul

cinismo e sulla falsità del potere o sull‟intollerabilità dell‟ingiustizia con le sue vittime, derivava

proprio da quel modo nuovo di pensare della primitiva cristologia, prima ancora che si parlasse

di salvezza dal peccato.

C. Ecco perché nel secolo scorso qualche teologo ha parlato di “memoria pericolosa della cro-

ce”. Ricollegandoci a quanto abbiamo detto, sul piano storico, da Costantino in poi è stato molto

grave l‟errore di aver trasformato la croce in un segno di vittoria. Milioni di persone sono stati

fatti fuori dai cristiani in nome della croce. E così la croce è diventata un simbolo di dominio.

Che Luca e Paolo abbiano detto che il potere imperiale potesse essere utile è un conto, ma altro

è il significato affermare, come è avvenuto dopo Costantino, che i cristiani potessero essere utili

all‟impero. Quando questo è accaduto, le conseguenze sono state molto gravi. È stata una perdi-

ta profonda d‟identità, perché è stato l‟impero e le sue logiche a dominare sui cristiani, con la

sua forza del potere e non era assolutamente questo ciò che poteva riflettere o esprimere

l‟identità cristiana.

CAP. 7

LA PASSIONE E LA CROCE

1. Premessa

Siamo già molto avanti con il nostro corso e ci stiamo avvicinando alla conclusione. Oggi, in-

tanto, arriviamo al punto riepilogativo di tutti i discorsi fatti finora.

Con piena coscienza, siamo di fronte al fiume immenso di catastrofi, di vittime, di sventurati in-

nocenti che vengono travolti.

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Nel corso dei secoli, all‟interno della tradizione cristiana, c‟è sempre stata l‟idea, a volte più o

meno sana, che il dolore, la delusione, il fallimento, la segregazione possano essere delle vie per

una più grande maturazione in seno all‟umanità. Queste “sventure”possono farci crescere, pos-

sono farci conoscere più a fondo la verità. Forse sono addirittura necessarie per dare alla nostra

umanità la giusta maturità.

Attenzione, però, a non mettere questo come premessa.

La funzione “nobile” del male non va messa come premessa, ma va posta come ultima o penul-

tima parola, dopo aver detto tutto quello che è necessario dire sullo scandalo del male che colpi-

sce l‟innocente. Oppure, si può sì parlare di una funzione del male, che aiuta anche a crescere,

purchè resti vivo Giobbe, che alza il suo grido contro una realtà che distrugge vite umane. E ciò

per non abituarci mai al cinismo del potere, alla morte ingiusta dei deboli.

Abbiamo parlato del peccato che ha la sua vera manifestazione comprensibile, ben collocata, in

Caino e Abele, in Giacobbe ed Esaù, in Giuseppe. Se si guarda all‟esperienza concreta, a volte

si impara molto dagli sbagli commessi contro qualcuno. Certamente, ne abbiamo fatti di tutti i

colori, ma fa senso, razionalmente e esperienzialmente parlando, a prescindere dalla fede, che si

dica che non tutto il male venga per nuocere. Questo può essere vero e offre a noi stessi miseri-

cordia. Quando ciò accade si acquisisce quella giusta umanità per accogliere le nostre debolezze

che vediamo negli altri. Quanti genitori, a una certa età, dicono che è cambiata l‟atmosfera in

famiglia quando hanno accettato i propri limiti, riscontrati proprio nei figli.

2. S.Anselmo d’Aosta

Adesso, esaminiamo alcuni aspetti particolari, prima di arrivare al punto centrale.

Una domanda che possiamo porci e che ha valore culturale e teologico, è la seguente: come mai

nell‟area religiosa cristiana si è perso il significato della morte storica di Gesù? Si è sempre con-

servato il significato dogmatico, quello che considera Gesù morto per la salvezza del mondo.

Ma il significato storico (perché è stato ucciso) è andato perduto. Il tragitto per illustrare questa

vicenda potrebbe essere lungo. Credo, però, che potremmo individuare un punto centrale, nella

storia teologica, che ci serve a illuminare il quadro e poi proseguire.

Dicevamo che in fondo la teodicea rimane una teologia che non risponde ai nostri problemi. In-

fatti, dire che esistono il male fisico, il male metafisico, il male morale e che quindi Dio non ha

responsabilità alcuna per il male nel mondo, ci lascia perfettamente indifferenti.

Dai primi secoli in poi, c‟è stato un cammino teologico che ci fornisce delle indicazioni per ca-

pire perché il significato storico della morte di Gesù è andato in sordina. Abbiamo già fatto un

ampio accenno alla storia della Chiesa, con il grande passaggio avvenuto dopo Costantino, dopo

che la Chiesa è entrata dentro al sistema imperiale, adottandone anche la mentalità, i com-

portamenti, gli ordinamenti sociali, ecc., con a volte gravi perdite d‟identità.

Però, nel Medioevo c‟è stato un momento storico in cui un teologo, S.Anselmo d‟Aosta (morto

nel 1109) ha espresso una certa teologia. Era un tempo di grande decadenza teologica, sociale e

culturale, mentre era un tempo di splendore per l‟Islam. S.Anselmo, pur non essendo uno dei

teologi più geniali (o forse anche per questo), ha segnato un punto, soprattutto a livello filosofi-

co. È stato il primo a porre la centralità della ragione (“credo ut intelligam” = nel credere aiuto

anche la mia ragione). Non c‟è dubbio che al centro ci sia la fede, ma c‟è anche l‟”intelligere”,

il capire, per quanto possibile.

La tesi teologica di S.Anselmo ha fatto veramente scuola nel Medioevo e per secoli, tesi seguita

anche da S.Francesco, solo che egli è stato altrettanto geniale nel superarla, senza sapere che la

stava superando.

La tesi di S.Anselmo è: la Passione di Gesù ha un valore in sé, perché è volontà di Dio. Il Padre

chiede al Figlio di morire sulla croce, perché l‟offesa resa al Padre dal peccato del mondo è sen-

63

za limiti. Quindi, ci vuole una riparazione infinita, che solo il Figlio può soddisfare. L‟ira di Dio

sul mondo viene placata dalla risposta obbediente del Figlio. In questo modo, il Figlio riconcilia

il mondo con il Padre offeso.

Tutto questo ha un senso a livello vitale: poiché c‟è stato questo atto di redenzione, l‟umanità

può permettersi di camminare a testa alta (fattore questo non ben percepito dai contemporanei

del Santo). Insomma, l‟umanità è stata come lavata e scagionata.

Il pensiero del Santo deriva dalla situazione del suo tempo. Leggendo qualche libro storico-

sociale riguardante l‟anno 1100 (ad es., Le Goff, il più grande medievalista vivente), ci si accor-

ge che c‟era una violenza così diffusa che molti monaci passavano la vita andando da un villag-

gio all‟altro per far fare ai popolani un voto: da allora in poi non avrebbero ucciso nessuno. In

più, anche la struttura sociale era basata sulla violenza.

Ecco perché la morte di Gesù ha un fine eminentemente superiore per la salvezza del mondo,

perché Dio e il mondo siano riconciliati. Ciò ha favorito, ha sviluppato a volte una certa ideolo-

gia del peccato, come dicevamo prima, e una certa esaltazione della sofferenza in sé. Come se si

dicesse: l‟uomo è tanto cattivo, è bene che soffra.

Questo tema però non era mai apparso nei primi due-tre secoli. È venuto molto dopo.

3. La morte storica di Gesù vista oggi

Da 150 anni a questa parte, è stata fatta tutta una riflessione, soprattutto a partire dalla cono-

scenza storica e dalla ricerca biblica, per cui oggi siamo in grado di recuperare il significato del-

la morte storica di Gesù. Ciò che ha detto S.Anselmo ha senz‟altro un significato teologico,

dogmatico, che non può mancare. Ma Gesù non è stato ucciso dai suoi contemporanei perchè

pensavano che Egli avrebbe redento il mondo. Nessuno allora, nel 30 d.C., cioè dopo la sua

morte, aveva coscienza che il mondo fosse stato salvato.

La morte di Gesù, quindi, vista dopo, mette in evidenza le contraddizioni religiose e teologiche

del suo tempo. E queste contraddizioni religiose, teologiche, e talvolta anche sociali e culturali,

se accentuate, come Gesù ha fatto, riescono a destabililizzare il quadro storico generale.

Gesù attacca molto duramente i dottori della legge, perché fanno di questa un assoluto. Chiun-

que avrebbe potuto dirgli: fai una legge nuova o restaura quella antica, crea un sistema diverso.

Gesù non ha fatto niente di tutto questo. Ha messo in evidenza alcune contraddizioni e ha enun-

ciato alcuni principi, che fungessero da “anticorpi”. Poi, la comunità, la Chiesa, quando lo rico-

nosce come il Cristo, come il Risorto, ha cominciato a tratteggiare un quadro nuovo, per cui si è

detto: non c‟è bisogno di una legge nuova; quella antica è superata; i passi su cui cammina la

legge nuova è Gesù stesso con il suo Vangelo e il suo annuncio del Regno.

Da quando Gesù si è scontrato con i dottori della legge fino al secondo secolo, quando cioè tutto

è stato chiarito, l‟imbarazzo c‟è stato e come.

Ecco perché nel nostro secolo si è parlato di “memoria pericolosa”. Essa è pericolosa perché

spinge a una certa imitazione, laddove qualsiasi sistema, anche religioso, resta chiuso su se stes-

so e diventa autoreferenziale e non più aperto all‟altro e a Dio stesso.

4. La croce crimine politico

In più, la croce resta pur sempre un crimine politico.

Prima della croce, c‟è stato un tribunale ebraico, che ha condannato Gesù per bestemmia (ma

era vero che aveva bestemmiato? Non sembra proprio!), e viene crocifisso su ordine del potere

romano, come se fosse stato un ribelle politico. Spartaco era un vero ribelle politico (era il ca-

po della rivolta degli schiavi) e per questo è stato crocifisso. Ma Gesù non ha fatto niente di

questo o di altro.

Il crimine della gerarchia ebraica resta. Ecco perché le comunità hanno voluto, a tutti i costi e

contro ogni evidenza storica e culturale, mantenere la centralità della Passione, anche se appari-

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va insostenibile. Resta, quindi, nel cristianesimo questa centralità del significato storico della

croce, perché sia un significato esemplare per tutti coloro che sono vittime innocenti, perché

hanno difeso una causa giusta e sono stati sconfitti e per tutti coloro che non sono stati ricono-

sciuti, quando ciò che avevano compiuto era un bene per tutti. “

La croce resta, nel suo significato storico, memoria di colui che si è battuto per una causa e, in

particolare, per i poveri che persino la legge escludeva dal vivere in comunità. È per questo che

il cristianesimo si permette di proporre l’accettazione della sofferenza per chiunque si bat-

te per una giusta causa, per il Regno di Dio. E questo è un grande contributo per l‟umanità,

malgrado tutte le anomalie o le deformazioni che ci sono state lungo la storia su questo tema.

Riconoscere che vale la pena di soffrire se la causa è giusta, anche se si sà di perdere. Questa è

la“rotondità” del significato della croce; questa non dice soltanto: tu vinci se ti batti per una cau-

sa giusta (è il paradosso che il cristianesimo non può perdere e che invece è andato in ombra

con Costantino), tu ti batti perché ne vale la pena, anche se ci puoi rimettere la vita.

Io immagino che tutto questo sarà sempre più recuperato.

In questi ultimi 50 anni è ritornata (e la comunità monastica Taizé è stato uno dei primi a farlo)

nel popolo cristiano la preghiera sulla croce. Questa è fede! Questo, nel popolo di Dio, provo-

cherà qualcosa!

La croce è, resta e sarà una memoria contro la violenza, contro il potere, contro il sopruso.

Dalla preghiera della croce verrà fuori, prima o poi, che anche il fallimento è dentro alla rivela-

zione. Abbiamo detto più volte che il povero potrebbe essere ”luogo teologico”. Il fallimento di

uno come Gesù, che si è battuto per una causa sacrosanta ed è morto (e chi lo ha eliminato ha

pensato di aver fatto una cosa giusta e di aver reso lode a Dio), questo fallimento entra dentro la

linea della rivelazione. Ci sono fallimenti umani che sono meritati (perché magari l‟uomo è sta-

to folle, come al tempo della Torre di Babele) e ci sono i fallimenti dei giusti che si sono battuti

e non hanno potuto godere i frutti del loro sacrificio.

È chiaro che la risurrezione conferma che tutto ciò è vero e ha un senso.

Se non ci fosse stata la risurrezione tutto sarebbe finito sul nascere. Essendosi invece verificata

si può dire: è vero, anche il fallimento è pieno di densità, anche il povero è pieno di presenza di

Dio. Se non ci fosse stata la risurrezione noi oggi parleremmo, nel migliore dei casi, come

Giobbe. Il problema è grande; rischiamo di difendere Dio senza sapere cosa facciamo; assu-

miamoci il rischio invece di difendere l‟uomo, perché se non difendiamo l‟uomo non sappiamo

chi difendere; e poi stiamo zitti, facendo fiducia a Dio. Questo è Giobbe e così saremmo anche

noi se non ci fosse stata la risurrezione. È stato, dunque, questo evento che ha dato fede e ha

cambiato tutta la prospettiva.

5. La croce e i suoi due significati

1. Il primo significato che è stato dato alla morte di Gesù, Figlio di Dio, è che Egli muore per-

ché il peccato del mondo era molto grande. Ed era da ristabilire una giustizia, una verità (un

sentimento umano molto diffuso in tante culture e non soltanto nella nostra). Anche per sapere

dove andrà questo mondo, dove tanta è la densità del male e del peccato; sapere cioè se questo

mondo andrà a finire in mano al male e al peccato. La redenzione significa che è stata ristabilita

una equità, una giustizia, che viene perdonata ogni responsabilità umana e che il mondo va ver-

so la vita da dove era partito.

A quest‟ultimo proposito, c‟è uno schema che talvolta viene seguito. All‟inizio c‟è stata una

colpa non meglio identificata (una volta, in un monastero di cistercensi, mi è stato detto che il

peccato originale è stato un peccato sessuale). L‟idea della colpa è stata mantenuta per parec-

chio tempo: all‟inizio ci sono stati Adamo ed Eva che hanno peccato, le cose non sono andate

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come essi desideravano e come si aspettavano gli uomini nel prosieguo. Alla fine è arrivato Ge-

sù che ha raddrizzato le cose portandole in pareggio.

No! Questo schema non è per niente vero. In principio non c‟è stato il peccato; in principio ci so

no state la grazia e la vita. Alla fine non ci saranno il caos e la morte, ci saranno la vita e

l‟amore. Protologia (ciò che è stato donato all‟inizio) ed escatologia (ciò che è sarà donato alla

fine) si rincontreranno.

In principio, non c‟è assolutamente il peccato. Non bisogna mettere nel conscio o nell‟inconscio

della gente che in principio c‟era il peccato. Non è così. Dio non ha creato il mondo per necessi-

tà, per castigo, ma per amore e lo concluderà per amore. In mezzo, c‟è stata… una gamba con la

sciatica che ha costretto l‟uomo a zoppicare. La morte del Figlio di Dio è servita per guarire

quel nervo malandato che faceva soffrire e per riprendere a camminare normalmente, per cam-

minare con amore. Giovanni ci tiene esplicitamente a dire che la morte di Gesù è un atto

d‟amore, non è affatto quanto scriveva S. Anselmo e cioè che questa morte doveva soddisfare

l‟ira del Padre sul mondo.

Qualcuno certamente è rimasto ferito da torti gravi che normalmente potrebbero avere conse-

guenze irreparabili e invece è riuscito a superarle, perché la grazia di Dio lo ha raggiunto e ora

vive serenamente. Questa è la trasfigurazione del male che già avviene adesso, magari non sem-

pre, ma già avviene ora e la conosciamo. E‟ la stessa dinamica della morte in croce del Figlio

per amore dell‟umanità. È questo ciò che gli ha chiesto il Padre e non di placare l‟ira.

Questo significato dogmatico e teologico non è andato mai perso, è stato sempre conservato,

magari in maniere diverse lungo i secoli, e tutti crediamo che ad esso non si possa rinunciare. Il

cristianesimo, cioè, lascia il problema del male insoluto e, per quanto riguarda la ragione, lo

risolve con un atto di fede secondo cui il Figlio di Dio si è incarnato e ha preso tutto il male su

di sé, superandolo.

2. Il secondo significato della croce si ricollega ai primi due secoli e fa riferimento alla prima

cristologia del giusto sofferente, mantenendo l‟intuizione del servo sofferente. Tuttavia, bisogna

stare attenti, perché questo secondo aspetto non può esistere se non c‟è il primo.

Gesù è stato condannato a morte e ucciso. Sappiamo che era innocente e sappiamo che si è bat-

tuto per una causa, quella del Regno di Dio. In questo Regno per Gesù c‟era tutto: c‟era

l‟immagine di Dio, c‟erano i valori etici, c‟erano elementi di verità che aiutavano a superare

ambiguità, opacità, sclerosi religiosa, tartaro religioso che sempre si accumula. Quindi, Gesù,

storicamente parlando, il 14 nisan del 30 è morto come uno sconfitto, ingiustamente sconfitto.

Due volte ingiustamente: una perché non aveva commesso colpa e l‟altra perché la ragione per

cui si era battuto era sacrosanta e non andava sanzionata. Come diceva la comunità primitiva,

Gesù era stato una vittima, un giusto diventato vittima. Se quel giusto, che è diventato vittima e

che è anche Figlio di Dio, ha redento, ha dato giustizia al mondo, allora è lecito affermare che

tutte le vittime innocenti che ci sono nella storia (uno sterminato esercito di vittime) entrano,

partecipano della sua redenzione.

Il problema della redenzione è che, dopo averla accettata, non sappiamo più cosa dire, perché

non c‟è spiegazione del povero cristo che muore e non si sa perché. Nella non soluzione della

nostra razionalità, tutto questo ha una sua logica. Qui è il segreto più profondo del cristiane-

simo e, se moriamo come religione, moriamo perché abbiamo perso questo.

Da allora noi possiamo dire che Dio è con tutte le vittime, possiamo dire che il povero è un luo-

go teologico, possiamo dire che il giusto che muore, muore caricandosi di colpe altrui. È terribi-

le questo mistero, però resta tale. Noi non lo risolviamo, ma lo facciamo entrare in qualcosa di

più grande dell‟ingiustizia che ci tocca e ci colpisce. Da qui noi osiamo dire che ogni uomo che

si è battuto per una causa, il martire, è a immagine e a somiglianza del Figlio dell‟uomo, nella

sua morte teologica e nella sua morte storica.

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Quando poi parliamo del Regno di Dio, che viene, che è e che è presente, niente lo rende così

presente come il sacrificio di chi ha dato se stesso ed ha fallito, perché non è stato riconosciuto.

Niente lo rende così presente. E questo è ciò che la risurrezione conferma.

A questo punto, può sorgere un equivoco, che consiste nel dire che le vittime partecipano alla

salvezza del mondo, perché questo equivoco può essere l‟anticamera per dire che la sofferenza è

necessaria, che la sofferenza ha un valore in sé. Non è lecito dire così, perché Gesù non ha preso

la croce su di sé per soffrire. Non è stato questo il suo scopo. Egli ha sempre detto: Io voglio che

abbiamo la vita e che l‟abbiamo in abbondanza.

5. Conclusione, con alcuni elementi di spiritualità

Tutto quanto è stato detto ha già provocato negli ultimi 50-80 anni elementi di spiritualità inte-

ressanti, che hanno avuto un‟irradiazione universale e che ci permettono di includervi l‟univer-

salità dell‟esperienza umana.

1. Il dono di sé: Bonhoeffer (teologo luterano fucilato dai nazisti nel 1945, perché aveva atten-

tato alla vita di Hitler) ha riassunto il personaggio Gesù chiamandolo: Cristo, l’uomo per gli al-

tri, da cui deriva l‟esistenza per una causa, il dono di sé per una causa. E‟ così che Gesù,

l‟uomo storicamente vissuto 2000 anni fa è ancora nostro contemporaneo. E‟ presente in tutti

coloro che hanno imparato a vivere per sé ma anche per gli altri.

2. La spiritualità dell’abbandono: più si va avanti nella vita e più ci si rende conto di quanto

poco si ha in mano. Si può pensare di avere il possesso di tutto il mondo e poi piano piano si no-

ta di non avere alcunché. Questo può portare alla frustrazione e non c‟è cosa peggiore di un po-

polo religioso frustrato, che in questo modo vive infelicemente. Se guardiamo alla nostra vita da

frustrati, essa ci sembra vuota; se la guardiamo nel senso dell‟abbandono, accontentandoci di

quello che abbiamo fatto e dicendo al Padre di avercela messa tutta, ciò ci permette di vivere in

pace, perché siamo pacificati con noi stessi. Ciò è indispensabile per la morte, perché sembra

che tutti dobbiamo morire.

L‟esperienza dell‟abbandono è la più trasversale a tutte le religioni. Tutte le religioni sono infat-

ti attraversate da questo fenomeno. Prendiamo un islamico, un contadino del Sahara; quando di-

ce: inch Allah (= se Dio vuole) non esterna un‟espressione vuota, ci crede davvero e formula

anche un augurio. L‟Islam educa a una fede assoluta, all‟abbandono totale e incondizionato a

Dio. Anche il buddhismo e l‟induismo possono portare a questo.

3. La spiritualità della militanza: le vittime sono una continuazione nel tempo di quel Gesù che

ha lottato per il Regno di Dio e lo ha fatto senza alcun potere, né politico né religioso, senza vo-

ler vincere e sconfiggere. Le persone al mondo che sono attente e fanno qualcosa per queste vit-

time sono molte. A questo punto merita affermare questa convinzione: se la risurrezione è vera,

se in Gesù risorto c‟ è un punto di non ritorno per l‟umanità, allora dovrebbe essere più grande

nel mondo il peso del bene che quello del male. Vero è che c‟è tanto male con delle ripercussio-

ni terribili, però, se c‟è stato l‟evento della risurrezione, una conseguenza storica ci dev‟essere.

La risurrezione non è soltanto un fatto spirituale e interiore, è cosmica, così come cosmico è il

peccato.

Le persone, che sono dentro al fiume del bene, sono tante e si dedicano, chi per fede chi per

convinzione, alla militanza. Il cap. 25 di Matteo, il famoso brano che riguarda l‟ultimo giudizio

(35-39), dice quale autorità hanno le vittime: se Dio, alla fine, chiederà a favore di chi abbiamo

operato (gli affamati, gli assetati, i forestieri, gli ignudi, i carcerati, ecc.), allora vuol dire che le

vittime hanno una grande considerazione agli occhi di Dio. Non ci sarà chiesto se abbiamo ub-

bidito all‟autorità, ci sarà invece chiesto se abbiamo dato onore a chi era nel bisogno. Dal brano

si evince anche che ci sono alcuni che non sanno di fare questo bene e sono coloro i quali, pur

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non confessando Gesù, sono dentro all‟immenso fiume della bontà, che è il Regno di Dio, che è

potenza della risurrezione, che è salvezza e redenzione in cammino per il mondo.

È comprensibile ora quanto sia straordinaria l‟intuizione russa che la vittima innocente è una

passione attuale, è cioè l‟attualizzazione (dogmatica e storica) della Passione di Gesù.

NOTA

E‟ di grande utilità avvicinarsi alle opere del filosofo e umanista francese René Girard.

Pubblicate da Adelphi, possiamo trovare nelle nostre librerie:

La violenza e il sacro, Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, Il capro espiatorio.

Ed. Raffaello Cortina, Origine della cultura e fine della storia.

L‟ idea più coltivata nei suoi scritti: la centralità del meccanismo del capro espiatorio e l‟unicità

del messaggio cristiano, capace di opporvisi decretando l‟ innocenza della vittima. E ancora, sul

rifiuto della sacralizzazione della violenza da parte del cristianesimo, proclamando il valore

dell‟innocenza, offrendo l‟altra guancia, come base della nostra civiltà.

“ C’ è chi ha scritto che è indecente abbassare il grande e sublime profeta Gesù, al rango

di vittima. Eppure è solo così che si torna alla vera definizione di cristianesimo.

Sono invece certo che proprio in questo nucleo scandaloso sia racchiusa la grande forza

del cristianesimo, che sa dirci tanto, o tutto, sull’essenza dell’uomo e sul rapporto con la

violenza….

Il cristianesimo ha insegnato che la storia ha un senso, e, a livello più profondo, che le riva-

lità possono essere risolte fuori dai meccanismi sacrificali. Conservare questo messaggio è

il solo gesto rivoluzionario possibile in questo nostro nuovo millennio”

(intervista, La Repubblica, 16 marzo 2004)

IL SALMO 22

1. Premessa

In questi giorni abbiamo sviluppato molti argomenti e sul finire dei nostri incontri vediamo di

dare più spazio a un atteggiamento contemplativo su tutto ciò che abbiamo detto.

Il Salmo 22 è stato uno dei salmi che più ha attirato l‟attenzione dopo Auschwitz, dopo ciò che è

accaduto nei vari campi di concentramento, nei vari gulag e dopo tutto quello che si è detto in

Europa. Viene da chiedersi: si può ancora parlare di Dio senza tener conto di quanto è successo?

Qualcuno ha anche scritto un libro, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, con lo scopo di non par-

lare di Dio come si è fatto prima. È stato un cambio di stagione molto serio, del quale è necessa-

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rio che noi, il popolo di Dio, prendiamo atto, per non navigare così, come se nulla fosse accadu-

to e come se gli eventi non ci imponessero di parlare di Dio in maniera diversa.

Quando abbiamo parlato dell‟Esodo, non ci siamo trovati di fronte a un testo che è sorto ex a-

brupto, come se un giorno qualcuno avesse fatto una meditazione o un grande profeta avesse

fatto una riflessione. La Bibbia non è nata così. Essa è venuta fuori, anche nel caso di argomenti

antichi (come l‟Esodo), da problemi che gli estensori stavano vivendo in quel momento. Se non

si comprende questo, la Bibbia resta magica.

2. Il Salmo 22

Perché tutto questo? Perché il Salmo 22, nei secoli, ha sempre suscitato attenzione. È stato sem-

pre usato in relazione al tema in esso trattato: un individuo che ha subito una lotta tremenda con

quanto gli sta intorno, la società, le autorità, la città stessa e ha sperimentato veramente di essere

emarginato.

In tutta la prima parte, si vede che nel protagonista crolla la speranza (v. 5), va in depressione

(“sono verme, non uomo” – v. 7), anche la fede sembra irrilevante (v. 9). Qualche ricordo lo con-

sola, ma non gli risolve niente perché al v. 12 dice: “l‟angoscia è vicina e nessuno mi aiuta”.

Il fatto che citi “i tori di Basan” (v. 13), “il leone che sbrana e ruggisce” (v. 14), il”branco di

cani” (v. 17), “posso contare le mie ossa” (v. 18), sono immagini che fanno pensare a un perso-

naggio pubblico. L‟uomo pubblico, nel bene e nel male, attira sempre la benevolenza, l‟ira o

l‟indifferenza della cittadinanza.

Nella seconda parte del Salmo, c‟è come una risurrezione (“ma tu, Signore, non stare lontano” -

v. 20) e soprattutto nel v. 25 è possibile individuare “perché egli non ha disprezzato né sdegnato

l‟afflizione del misero”. È un aspetto molto interessante, perché non sappiamo chi ha scritto il

Salmo, però si nota una linea di fedeltà al Dio dell‟Esodo (il Dio degli schiavi) e che permane,

perché subito dopo aggiunge “non gli ha nascosto il suo volto, ma, al suo grido d‟aiuto, lo ha

esaudito” (v. 25). Continua, cioè, la linea teologica che dall‟Esodo va fino al terzo canto del ser-

vo di Isaia del cap. 53.

Al v. 28, il salmista parla di una memoria che resta; al v. 29 dice che “il regno…del Signo-

re…domina su tutte le nazioni” e termina con il v. 32 dicendo: “annunzieranno la sua giustizia”.

L‟ultima frase à proprio misteriosa: “Ecco l‟opera del Signore!”. Cosa sarà quest‟opera? Nor-

malmente, nell‟Antico Testamento, l‟opera del Signore si riferiva alla legge, specialmente negli

ultimi secoli, ma questo non è un Salmo degli ultimi secoli; è un Salmo del tempo dell‟esilio,

prima cioè della fase legalistica entrata successivamente nel popolo ebraico. Insomma, non è da-

to sapere quale sia questa opera.

3. Il Salmo e la Croce

Un Salmo così non è stato scoperto ora; ne hanno parlato i Padri della Chiesa, i mistici, S. Fran-

cesco, la letteratura russa. In un certo senso, ci impone di guardare quello che accade intorno a

noi, in maniera da tornare a rileggerlo.

Nel secolo scorso, nel 1940, quel personaggio abbastanza unico di Bonhoeffer ha detto, dando

un‟interpretazione dei suoi tempi straordinaria e di grande coraggio (non manifestata dalla ge-

rarchia ecclesiastica): “Il Dio con noi è il Dio che ci abbandona”. Detto da noi oggi è una cosa,

ma detto quando si è nel crogiolo della prova è un‟altra.

Questo tipo di preghiera, che rompe consuetudini, atteggiamenti, mentalità, prese di posizione

del nostro tempo, va riscoperto e riproposto. Se c‟è una cosa che possiamo fare, tornando a casa,

è quella di riproporre alle nostre chiese la preghiera della croce. Bisogna parlarne, ma non di-

69

menticando il Servo; non bisogna spiritualizzare il discorso sulla croce, perché la croce è vera

finchè su di essa c‟è appeso il Cristo. Quando la croce è senza di Lui, allora si apre una prospet-

tiva che nessuno sa dove può portare. La croce con il Cristo appeso è il segno che la croce è

martirio, che la croce è contestazione del mondo, che la croce è donazione di sé per una causa

che è quella del Regno di Dio.

Il personaggio, protagonista del Salmo, si è battuto veramente e sembra che Dio non sia suo al-

leato, non lo sente vicino. Sente invece tutta la meschinità umana, i gruppi d‟interesse. Si po-

trebbe dire: ma in fondo queste cose passano nella comunità, vengono assimilate. Sì, certo, pia-

no piano poi passano nel popolo di Dio; ma più i cristiani spariranno più diventeranno una mi-

noranza, ma la minoranza rimanente potrà rifarsi le ossa proprio su questo Salmo.

Tuttavia, non dobbiamo essere ingenui. Facciamo ora un esempio di come l‟interpretazione e la

trasmissione spirituale di queste cose possano subire strani contraccolpi, con gente che le fa

proprie lasciandoci senza parole. Un “teologo” laico di estrema destra americano, Michael No-

vak, scrive che oggi il più vicino interprete e rappresentante del servo sofferente è la “business

corporation”, perché i manager costituiscono la classe più disprezzata, “viva rappresentazione

del servo sofferente”. Come si può dare credito a una simile “fantasia” teologica! Ci lamentiamo

se moriamo come cristiani? Ce lo meritiamo!

La minoranza può essere capace di salvarsi se si attacca all‟essenziale. Gli arabi dicono: “se

vuoi tracciare diritto il tuo solco, attacca l‟aratro una stella”. La stella della minoranza però deve

essere trovata! Cosa si potrà dire di più un domani? Che questo sarà il tema: se per caso il mon-

do dovesse passare attraverso la medesima recessione del 1929, le vittime si moltiplicherebbero,

ma non solo dove lo sono sempre state (nel sud del mondo), ma anche nel nord.

Come dicevamo prima, una delle cose che potremmo fare tornando nelle nostre chiese è quella

di riproporre la preghiera della croce, come è accaduto a Taizè, dove si è avuta questa grande

intuizione. Ma bisogna riproporla attaccandola alla stella giusta, che è quella del Servo.

4. Gesù e il Salmo

Probabilmente, quando recitava questo Salmo, Gesù pensava, come al solito, alla povera gente,

che conosceva e che teneva in considerazione per averne vista tanta. Nei primi anni del suo se-

colo, nella sua Galilea, terra molto povera, è scoppiata una rivolta di contadini perché le tasse

erano troppo esose. La repressione è stata tremenda, con migliaia di morti. Gesù ha visto tutto

questo, ha visto Nazareth sconvolta da questi fatti. È naturale che Egli recitasse questo Salmo,

pensando a quei poveri morti e agli ancora più poveri sopravvissuti. Quando andava a Cafarnao,

piccolo centro di smistamento commerciale tra la Siria e la Palestina e tra questa e l‟Egitto, ve-

deva le frotte di schiavi vessati come somari.

Noi, oggi, recitiamo il Salmo, rivolgendolo ai poveri cristi. Tenuto conto, però, che il protagoni-

sta è un personaggio pubblico, lo rivolgiamo anche a coloro che si sono esposti (e che si espon-

gono) per certe lotte, per certe cause utili al bene comune e portiamo con noi la loro fatica, i loro

ideali e, in certi casi, anche la loro solitudine.

NOTA

E‟ interessante come il filosofo ebreo Hans Jonas, pone il problema di Dio nel suo libro:

Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Ed. Il Melangolo.

“per l‟ebreo che vede nell‟al di qua il luogo della creazione, della giustizia e della salvezza di-

vina, Dio è in modo eminente il signore della storia e quindi “Auschwitz”, per il credente, ri-

mette in questione il concetto stesso di Dio che la tradizione ha tramandato.

70

Auschwitz rappresenta quindi per l‟esperienza ebraica della storia una realtà assolutamente

nuova e inedita, che non può essere compresa e pensata con le categorie teologiche tradiziona-

li. Quindi chi non intende rinunciare sic et simpliciter al concetto di Dio (e il filosofo può legit-

timamente rivendicare il diritto a non rinunciarvi), deve pensare questo concetto in modo del

tutto nuovo e cercare una nuova risposta all‟antico interrogativo di Giobbe. Ove decidesse di

farlo, dovrebbe anche lasciare cadere l‟antica concezione di Dio signore della storia: perciò,

quale Dio ha permesso che ciò accadesse”

DALLE TRIBOLAZIONI, UNA NUOVA VITA

1. Il Salmo 126

Siamo in presenza di un Salmo molto piccolo, che si riferisce al tempo dell‟esilio.

Il salmista parla del Signore che riconduce i prigionieri da Babilonia verso Sion, verso la pro-

pria casa, dove poter ricominciare una nuova vita. Si tratta di gente contenta, che esprime il pro-

prio stato d‟animo con “canti di gioia” (v. 2).

Anche tra i popoli si dice che “il Signore ha fatto grandi cose per loro”, dato l‟intervento ecla-

tante operato da Jahvè. Questi stessi popoli, qualche decennio prima avevano detto che quello

d‟Israele era un povero Dio, sconfitto e trascinato con il suo popolo a Babilonia. Ora invece si

profondono in una lode sperticata, ancorché meritata.

La seconda strofa è un piccolo gioiello di lezione storico-teologica su quello che è accaduto du-

rante quel disastro, che è stato l‟esilio. Il Signore, riconducendo in patria “i nostri prigionieri”,

si è comportato come “i torrenti del Negheb”, i quali apportavano spesso improvvisa fertilità nel

deserto (v. 4).

Poi, continuando nell‟immagine contadina della fertilità, il salmista aggiunge: “Chi semina nelle

lacrime mieterà con giubilo. Nell‟andare se ne va e piange, ma nel tornare, viene con giubilo,

portando i suoi covoni” (v. 5-6).

Come dire che ciò che è accaduto ha un senso. Certo, non lo si diceva qualche decennio prima,

però qualche decennio dopo si riconosce che l‟esilio è servito per seminare e ora si miete qual-

cosa d‟importante e lo si fa contenti. Il salmista non dice, però, cosa sia questa mietitura.

L‟immagine è bella proprio per questo, perché la lascia aperta. È il vantaggio della poesia!

Credo che non sia difficile mettere dentro questa preghiera così bella tutti coloro che hanno un

qualche esilio da vivere, in senso vero, fisico. Ma vi si possono far rientrare anche quelli che

soffrono per qualche altro tipo di esilio, anche se non sono mai usciti dalla loro città, dal loro

paese.

2. Apocalisse (4, 1-11 e 5, 1-5)

71

Attraverso questi brani, abbiamo la possibilità di collegarci con una Chiesa che ha subito grosse

difficoltà (e anche persecuzioni) e che ha tentato di leggere il suo tempo, interpretandolo, anche

per vedere che messaggio, che rivelazione c‟era.

L‟autore inizia descrivendo una grande scena, che è tipica della fantasia apocalittica, con dei

versetti presi dalla liturgia del suo tempo. Anche i primi versetti del cap. 5 sembrano importanti,

perché vorrebbero spiegare qual è il metodo della riflessione e da dove nasce la teologia della

storia, di cui si sta facendo l‟analisi.

Apocalisse 4

Dopo ciò ebbi una visione: una porta era aperta

nel cielo.

La voce che prima avevo udito parlarmi come una

tromba diceva: Sali quassù, ti mostrerò le cose che

devono accadere in seguito.

Subito fui rapito in estasi.

Ed ecco, c‟era un trono nel cielo, e sul trono uno

stava seduto.

Colui che stava seduto era simile nell‟aspetto a

diaspro e cornalina. Un arcobaleno simile a sme-

raldo avvolgeva il trono. Attorno al trono, poi, c‟e-

rano 24 seggi e sui seggi stavano seduti 24 ve-

gliardi avvolti in candide vesti con corone d‟oro

sul capo.

Dal trono uscivano lampi, voci e tuoni; 7 lampade

accese ardevano davanti al trono, simbolo dei 7

spiriti di Dio.

Davanti al trono vi era come un mare trasparente

simile a cristallo.

In mezzo al trono e intorno al trono vi erano 4 es-

seri viventi pieni d‟occhi davanti e di dietro. Il

primo vivente era simile a un leone, il secondo es-

sere vivente aveva l‟aspetto di un vitello, il terzo

vivente aveva l‟aspetto di un uomo, il quarto vi-

vente era simile a un‟aquila mentre vola.

I 4 esseri viventi hanno ciascuno 6 ali, intorno e

dentro sono costellati di occhi; giorno e notte non

cessano di ripetere: Santo, santo, santo il Signore

Dio, l‟Onnipotente, Colui che era, che è e che vie-

ne!

E ogni volta che questi esseri viventi rendevano

gloria, onore e grazie a Colui che è seduto sul tro-

no e che vive nei secoli dei secoli, i 24 vegliardi si

prostravano davanti a Colui che siede sul trono e

adoravano Colui che vive nei secoli dei secoli e

gettavano le loro corone davanti al trono dicendo:

“Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere

la gloria, l‟onore e la potenza, perché tu hai crea-

to tutte le cose, e per la tua volontà furono create e

sussistono”.

Chi scrive tenta di leggere Dio, parla di “cielo a-

perto”, cioè cerca di sentire cosa Dio sta dicendo

all‟umanità con gli eventi che accadono.

Tutto il libro è incentrato sulle cose che dovranno

accadere, mentre in realtà alcune sono già accadute

e altre stanno accadendo. Ma chi scrive pretende di

far fare come un‟esperienza interiore di profezia,

di lettura del tempo.

È come se egli sia rimasto rapito di fronte alla tra-

scendenza che gli si manifesta davanti.

C‟è un trono nella storia e c‟è uno seduto su quel

trono, come se la storia non fosse abbandonata a se

stessa malgrado tutto.

L‟autore manifesta qui la sua passione a descrivere

la corte celeste, approfittando della sua fantasia

apocalittica.

24 seggi, pari a 12 più 12, indica la pienezza dei

tempi.

Il mare, che nella storia è sempre stato il simbolo

del male, qui ormai diventa un mare trasparente e

non crea più timore.

Con questa descrizione, viene evocata l‟universa-

lità della rivelazione.

È la preghiera della liturgia della prima comunità,

a lode e gloria delle meraviglie operate dal Signo-

re.

È un modo di scrivere pesante. Però, in un‟epoca

in cui proprio questa liturgia veniva praticata ma

nei riguardi dell‟imperatore, qui acquista un senso

ben diverso. C‟è uno solo ad essere sopra tutto e

tutti ed è il Padreterno.

72

Prima l‟autore ha detto che vuole portare i fedeli dentro a un‟esperienza interiore di profezia.

Come può accadere questo?

Questo accade attraverso una meditazione, un insegnamento, una scuola? No, tutto questo acca-

de per il pianto. È una teologia che nasce dal pianto, dalle tribolazioni.

Apocalisse 5

E vidi nella mano destra di Colui che era assiso

sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato

interno e su quello esterno, sigillato con 7 sigilli.

Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce:

“Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigil-

li?”.

Ma nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra

era in grado di aprire il libro e di leggerlo. Io

piangevo molto perché non si trovava nessuno de-

gno di aprire il libro e di leggerlo. Uno dei ve-

gliardi mi disse: “Non piangere più; ecco, ha vinto

il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Da-

vide; egli dunque aprirà il libro e i suoi 7 sigilli”.

I rotoli in genere erano scritti dal lato interno. Es-

sere scritti da entrambi i lati significa che quel ro-

tolo contiene tutto.

La chiusura è ermetica e sta a significare che il ro-

tolo è impossibile da aprire. Arriviamo al punto:

chi ci dirà qualcosa essendo il rotolo chiuso?

Chi è degno = chi è capace, chi è credibile.

Sciogliere i sigilli = per poter capire.

Si nota che Gesù, chiamato con i titoli tipici di alcune comunità (leone, germoglio), viene messo

insieme con il tempo, con tutto quello che nell‟Apocalisse si soffre, con tutte le vittime e i mar-

tiri di cui si parla, con il mistero della Pasqua.

È stata una grande opera nata dal pianto, costata cioè lacrime.

Ci sono comunità cristiane, come i nostri fratelli della Chiesa ortodossa russa che questo lo han-

no assorbito come cosa normale, nel loro modo di pensare, di pregare, di concepire la teologia.

E proprio perché c‟è una teologia che può (e, a volte, deve) nascere nel pianto che poi si può

parlare di bellezza, di trasfigurazione del dolore, dell‟ingiustizia più grande.

3. Apocalisse 21

Da questo pianto deriva il sogno della comunità che è il grande sogno messianico, con cui ab-

biamo iniziato il nostro corso.

A volte, nei versetti c‟è una grande tenerezza verso quanti sono stati vittime del male del mon-

do, perché tutto questo si ricomporrà, anche se non sappiamo come. Ma il fiume di dolore, con

cui l‟ingiustizia dilania e lacera la storia, non va a perdersi in un deserto anonimo, ma va dove

deve andare, dove Dio sa.

È la visione nuova della Gerusalemme celeste.

Questi concetti sono stati espressi in poesia, attraverso un sogno, come se noi potessimo imma-

ginare questa Gerusalemme che accoglie i suoi figli, i suoi martiri, quelli che Isaia chiama gli

incurvati, i bastonati della storia.

Quello di entrare nelle parole, nelle immagini, più che commentare, era un modo per dire (e

questa ne è stata la forza): se la risurrezione non avesse attraversato la storia, se non fosse venu-

ta in colui che era stato ucciso per dare gloria a Dio, ci sarebbe stata la più grande confusione

della storia, il più grande equivoco. Poiché la risurrezione è realmente accaduta ed è un fatto

manifestatosi nella comunità, allora questa città nuova comincia già a essere, con qualche pietra

della Gerusalemme futura, già posta qui e ora. Questa è la sua speranza, perché questa comunità

in breve tempo sparirà.

73

CAP. 8

LA KENOSI

1. Premessa

Oggi parleremo della s (= svuotamento). È una parola greca, che deriva dal verbo -

Approfondiremo l‟argomento rifacendoci a due testi: la Lettera ai Filippesi (per la tratta-

zione di un certo aspetto) e la Lettera agli Ebrei (per il completamento con il secondo aspetto).

1. Non si sa esattamente quando la Lettera ai Filippesi sia stata scritta. Paolo deve aver

fondato la comunità di Filippi verso l‟anno 50, quando stava preparando la Lettera ai

Romani. È molto probabile, quindi, che egli abbia scritto la Lettera ai Filippesi da Efe-

so, cioè verso il 56-57. Però, l‟inno, di cui ci occuperemo tra poco, non è stato scritto da

Paolo; non si sa chi l‟abbia redatto ed è singolare che una comunità defilata, come quel-

la di Filippi, città che si trova tra Salonicco e Istanbul, prima dell‟anno 50, avesse già

elaborato una preghiera di questa natura.

2.

L‟inno, temporalmente, è “parente” della fonte pre-marciana e, proprio per questo, non tratta

della redenzione.

La prima redazione e il primo approfondimento sono partiti dalla teologia, ma hanno risentito di

un‟applicazione antropologica. Visto quello che è successo, visto che Gesù è passato dai nostri

luoghi, noi come dobbiamo essere? Che indicazione dare alla nostra umanità? Sono queste le

domande della comunità, da cui poi è venuto fuori l‟inno.

3. Non si conosce l‟autore della Lettera agli Ebrei. È stata scritta certamente per un am-

biente ebraico, e quindi si potrebbe pensare a un gruppo di ebrei del Medioriente più

che a gruppi della diaspora, sparsi per le varie località del Mediterraneo. Potrebbe esse-

re gente di Gerusalemme o di Damasco o di Aleppo o di Antiochia. Nulla è certo e in

proposito si naviga nella più completa oscurità.

La Lettera è stata scritta verso la fine del secolo, non prima dell‟80, anzi meglio tra l‟80 e il 90,

quando gli ebrei hanno avuto un certo sbandamento. Era un momento delicato, successivo alla

batosta del 70, culminata prima con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio e, poi, con

quella della fortezza di Matsada, l‟unica rocca che ha dato filo da torcere per tre anni ai romani.

Era l‟epoca di Domiziano e le comunità ebraiche erano in crisi. Gli ebrei diventati cristiani co-

minciavano ad avere qualche problema e vacillavano. Non sapevano se tornare indietro, perché

si sentivano isolati dai connazionali e guardati male dai romani e qualcuno decideva di votarsi al

vecchio culto. Ecco che viene scritta la Lettera agli Ebrei per dire che il vecchio culto è ormai

morto definitivamente. Questa Lettera è l‟unico documento del Nuovo Testamento in cui si par-

la del sacerdozio di Cristo e di Cristo come sommo sacerdote.

La tesi di chi scrive la Lettera agli Ebrei è: è cominciato un altro culto, che non incide soltanto

sulla liturgia, ma che arriva fino al profondo dell‟uomo, a livello esistenziale.

2. Filippesi 2, 5-11

Paolo invita i Filippesi a fare come ha fatto Gesù, che è “sceso”, si è svuotato e per questo il

Padre lo ha esaltato. Paolo non dice questo come una generica indicazione ascetica. Siccome in

74

comunità c‟erano contrasti e sempre meno dominavano i sentimenti d‟amore e di compassione

tra di loro, Paolo richiama l‟inno. Fate come ha fatto Gesù; se tutti quanti scendeste dal piedi-

stallo forse potreste riuscire a intendervi e a vivere un po‟ meglio.

Nell‟inno, ci sono due grandi movimenti: uno di “discesa” e uno di “ascesa”, e non c‟è alcuna

menzione di redenzione e di salvezza operata da Gesù in questa discesa e in questa ascesa. C„è

invece una forte relazione tra l‟umiliazione, che qui si traduce in “obbedienza” (diventare servo,

la croce) e l‟esaltazione, culminante nella risurrezione.

Tutto ha inizio con l‟avvio del v. 6, dove è detto che Gesù, pur essendo di natura divina, non con

siderò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio. Questo è il punto di partenza, una scelta in

negativo per aprire quella che nel Nuovo Testamento è la s (= l‟umiltà), attraverso la

quale Gesù ha saputo sminuire se stesso. Sminuire ma non annientare.

Nell‟inno non c‟è solo la s, ma c‟è anche il s, il servo o, meglio, lo schiavo,

esistente nelle famiglie per i lavori più umili (come lavare i piedi dei padroni).

Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in

Cristo Gesù,

il quale, pur essendo di natura divina, non consi-

derò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;

ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di

servo e diventando simile agli uo-mini;

apparso in forma umana, umiliò se stesso fa-

cendosi obbediente fino alla morte e alla morte di

croce.

Per questo Dio l‟ha esaltato e gli ha dato il nome

che è al di sopra di ogni altro nome;

perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi

nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua

proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di

Dio Padre.

C‟è un contesto ecclesiale, comunitario, con un

risvolto di conflitto.

Più che “spogliò” si dovrebbe tradurre “svuotò”.

In questo modo inizia la discesa.

Questo è il movimento che troviamo anche nella

Lettera agli Ebrei.

L‟obbedienza è la parola chiave, che troveremo

anche nell‟altra Lettera. Questo era un tema che in

comunità veniva discusso. Cosa voleva dire obbe-

dire? A chi si doveva obbedire?

Inizia adesso l‟ascesi. Con “per questo” c‟è come

una relazione di causa e di effetto, tendente a e-

sprimere una certa logica: chi va giù, prima o poi

va su (vds. anche il Magnificat).

Signore = s.

Nella fede primitiva, la scoperta fatta dalla comunità è stata quasi immediata (non più di una

ventina d‟anni), per dire che proprio il s (= il tapino) è diventato s (= Signore).

Nella seconda metà dell‟inno (volta all‟esaltazione), il protagonista non è più Gesù, come se

morendo avesse perso ogni potere (è una cristologia un po‟ primitiva dal punto di vista metafisi-

co). L‟inno, cioè, vuole affermare che, proprio perché c‟è stata l‟obbedienza di discesa, di umi-

liazione, di svuotamento, Dio non poteva che intervenire e farlo ascendere. La comunità dei

credenti, che qui è rispecchiata in “ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra”,

ha il compito di fare memoria e di trasmettere questo s, che è passato attraverso la -

s, il s, la s, materializzati nell‟obbedienza.

Sia la prima parte (la discesa) sia la seconda parte (l‟ascesa) hanno in comune un punto, che è

chiarificatore del motivo per cui tutto ciò è accaduto. La discesa, l‟ascesa, lo svuotamento, l‟es-

sere servo, l‟essere tapino, l‟essere convinto di diventare tale attraverso l‟obbedienza, hanno un

perché: per condividere la nostra umanità.

È un principio di solidarietà, ed è la caratteristica del mistero oscuro del Cristo e della redenzio-

ne.

Ecco perché definiamo la nostra una religione storica e non una religione etica.

75

Noi siamo religione perché abbiamo un (= un annuncio) da dare. E l‟annuncio è pro-

prio quello che ci viene dalla vicenda di Gesù.

La discesa, lo svuotamento, non sono fine a se stesso, ma si qualificano attraverso il “servo”, il

quale si svuota non per essere perfetto, ma per poter essere proprio “schiavo”. Nella scoperta

fatta da quella comunità, che poi la trasforma in inno, in confessione di fede, si coglie il perché:

solo uno che è sceso giù come Gesù, che è capace di condividere quello che è, può diventare

salvezza. Nell‟inno non se ne parla direttamente, ma la novità consiste in ciò: il progetto di Dio

è stato proprio questo, che il Figlio diventasse servo (dato che l‟umanità è quella che è, non cer-

tamente formata da angeli), assumesse la realtà umana e proprio per averla assunta, il Padre lo

ha esaltato.

Il ragionamento di fondo è: il Padre non può non guardare tutti coloro che si trovano a scendere

nel pozzo, perché hanno compiuto lo stesso tragitto che ha fatto il Figlio. Di conseguenza, tutti

quelli che scendono giù per obbedienza (per amore) saranno esaltati.

Il Magnificat, che è un canto un po‟ più popolare, ripete le stesse opposizioni (“ha rovesciato i

potenti, ha innalzato gli umili”, ecc.), che richiamano il nostro inno. Ciò, tutto insieme, diventa

Signoria di Dio, Regno di Dio, che è presente in maniera salvifica nella storia, perché la salva e

la riscatta. La storia viene salvata da chi si è assunto la miseri umana e se l‟è portata fino alla

fine, senza lamentarsi, e in questo modo ha sanato le ferite umane.

3. Ebrei 5, 4-10

Quella agli Ebrei è una Lettera bellissima e questo brano viene letto il venerdì santo.

Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è

chiamato da Dio, come Aronne.

Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria

di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli

disse: “Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato”. Co-

me in un altro passo dice: “Tu sei sacerdote per

sempre, alla maniera di Melchisedek”.

Egli nei giorni della sua vita terrena offrì preghie-

re e suppliche con forti grida e lacrime a colui che

poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua

pietà.

Pur essendo Figlio, imparò l‟obbedienza dalle co-

se che patì e, reso perfetto, divenne causa di sal-

vezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono,

È l‟onore di essere sommo sacerdote.

Questo significa che il cristianesimo non ha avuto

origine da un atto di culto, ma da un sacrificio fuo-

ri del Tempio e dalle mura di Gerusalemme.

Frase ripresa dal Salmo 2, 7.

Altra frase ripresa dal Salmo 110, 4.

Melchisedek era re di Salem e sacerdote di Dio

(Salem è la radice di Gerusalemme e di shalom).

Questo re era solito offrire in sacrificio pane e vi-

no, per questo è considerato prefigurazione del

Messia. È probabile che Gesù abbia elaborato que-

sto fatto, dato che l‟ultima cena era incentrata sul

pane e sul vino. Sembra che anche a Qumran i mo-

naci ogni venerdì sera facessero una cena a base di

pane e di vino.

Viene descritta l‟agonia e la lotta interiore, è la

condizione umana. Nel caso di Gesù, la lotta inte-

riore non riguardava “il dover morire”, ma il chia-

rimento, maturato piuttosto lentamente, del dover

passare per la strada della sofferenza. Nella sua

coscienza questo non deve essere stato un punto

chiaro; se è vero, come dice Luca, che “egli cre-

sceva in età e in grazia”, vuol dire che queste cose

l‟uomo-Gesù le ha certamente elaborate e matura-

te.

C‟è il riferimento alla salvezza, che non c‟è nella

Lettera ai Filippesi. C‟è comunque lo stesso sche-

ma di solidarietà; c‟è un sacerdozio solidale con la

76

essendo stato proclamato sommo sacerdote alla

maniera di Melchisedek.

situazione umana. È come se questa fosse stata

l‟opzione preferenziale di Dio ed è proprio per

questo che c‟è salvezza nel mondo.

Nel brano sono rilevabili alcuni argomenti molto importanti.

A. Intanto c‟è l‟obbedienza. In questo caso, non perdiamo mai di vista il contesto.

Qui l‟obbedienza non passa per la via del sacro. Il sacerdote-Gesù non risponde alle leggi che

regolano il “culto perfetto” del Dio invisibile. Questo era compito dei leviti, preservato da

un‟infinità di incombenze umane perché il sacerdote potesse essere puro e offrire il sacrificio

per tutti. Il sacerdote-Gesù è tale perché si è convinto che la solidarietà con l‟umanità (che è de-

bole, che grida, che vive l‟agonia) doveva assumerla su di sé.

A questo ha obbedito. Come a volte capita a noi. Noi, talvolta, a prima vista diciamo che una

certa cosa non la faremo mai. Dopo qualche tempo, però, la facciamo. Questo avviene perché

abbiamo maturato dentro di noi la necessità di farla; non operiamo perché stiamo obbedendo,

ma perché siamo convinti che si deve fare. Ecco l‟obbedienza profonda!

L‟autore dice che quello di Gesù è stato il più grande culto che poteva essere reso a Dio.

Questo è il pane e il vino di Mechisedek, ripreso da Gesù, cui ha dato quella fisicità che conti-

nua nella storia, dando senso a tutto quel pane e quel vino che sono le nostre obbedienze.

B. Andiamo alla pietà. Abbiamo prima letto “…fu esaudito per la sua pietà”.

Che cos‟è questa pietà? È l‟, in genere tradotta con “timore di Dio”. Quando si parla

di “timore di Dio”, in genere si pensa a una non meglio identificata “paura di Dio”. E invece

“timore di Dio” è vivere quel silenzio profondo, nel quale maturiamo delle scelte e sentiamo

che il Padreterno ce le chiede. La parola , tradotta letteralmente, significa “portarsi

dentro qualcosa che diventa buono”. È quella lenta maturazione che avviene dentro di noi, mol-

to silenziosamente, per cui ci convinciamo di dover fare in un certo modo una cosa. Col tempo,

poi, e con l‟esperienza, questo convincimento diventa abbandono di sé.

C. L‟esaltazione della salvezza. Quello di Gesù, quindi, è un sacerdozio eminentemente di soli-

darietà. È una solidarietà che passa attraverso una discesa, una umiliazione che diventa salvezza.

L‟esaltazione è questa: “divenne causa di salvezza”. Nell‟insieme della Lettera agli Ebrei, que-

sta causa di salvezza viene espressa nella frase “reso perfetto”. Che cos‟è questa perfezione?

Quella che Florenskij chiamava “grandezza”. È quel lento silenzio profondo che ci fa dire: sì,

adesso faccio ciò che deve essere fatto. L‟amore che noi mettiamo nelle cose in cui doniamo noi

stessi: questa è la nostra perfezione, ma essa deve avere sempre una sponda, un‟alterità.

Ecco perché le vittime sono dentro al mistero della salvezza, perché il povero cristo è luogo teo-

logico, anche se non sembra così evidente.

D. Il sacerdozio di Gesù. Noi siamo i martiri di ogni giorno e quello che ci portiamo via da qui

è il senso del nostro sacerdozio. Abbiamo sempre avuto l‟impressione che tutto questo dia signi-

ficato al vivere. Ciò perché abbiamo qualcosa da offrire; nessuno è mai a mani vuote. Abbiamo

da offrire qualcosa al Padreterno e lo facciamo come Gesù, mettendo a disposizione noi stessi e

questo diventa già pane e vino. Siamo, cioè, tutti sacerdoti alla maniera di Melchisedek.

Questo ci dà una grande libertà, ci permette di collocare il sacro al suo giusto livello, e ci per-

mette anche di avere gli occhi aperti per vedere quanti nel mondo partecipano del sacerdozio di

Gesù.

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CONCLUSIONE

Al termine di ogni ciclo di lezioni, l‟insegnante spera che negli alunni sia rimasto qualcosa per

gli anni a venire.

Vorrei mettere in evidenza due argomenti, che spero restino per qualche anno nella vostra me-

moria, quando avrete dimenticato il resto.

1. In sintesi, tutta la faccenda del Figlio di Dio, l‟incarnazione, la croce, l‟immagine di Dio che

viene fuori dall‟Esodo e dal Servo sofferente, il destinatario del grido di Giobbe, la teologia che

abbiamo cercato di individuare nei secoli (tra il sacrificio del Cristo e la miseria, la disperazione

e la morte umana), tutto questo – sia a partire dalla tradizione occidentale e ancor più tenendo

conto della tradizione orientale russa – può essere sintetizzato con le parole: la mistica del volto.

Dio stesso acquisisce un volto, non solo nell‟Esodo ma anche, e soprattutto, nel Figlio, ma non

un Figlio particolarmente estetico e convincente, un Figlio che non ha convinto nessuno.

Questa mistica può essere anche intesa come volto di Dio e come volto dell‟altro, purchè il nu-

cleo di quanto abbiamo detto non riguardi un dolore e una vittima che restano fini a se stessi, ma

un movimento interiore che raggiunge l‟altro, come se il cristianesimo fosse fatto per realizzare

memoria della passione degli altri. Se al momento tutto questo non vi dice niente, ve lo dirà

quando sarà ora.

Sotto questa luce, possiamo criticare, in maniera positiva però, l‟esperienza buddhista, che a noi

sembra, a prima vista, senza questa mistica del volto, anzi ci sembra senza volto. Ciò non signi-

fica che questo pensiero non sia valido o che non abbia effetti positivi sulle persone, ma la di-

namica interna è molto diversa e in fondo autoreferenziale.

Qualcuno si può chiedere cosa sia la compassione per i buddhisti. Se noi dovessimo rispondere

in maniera tecnica, la compassione che il buddhismo predica è forte e discreta come la nostra,

ma ha una ragione fondamentale: aiuta l‟uomo a perfezionarsi e ad acquisire dei meriti in ma-

niera che egli possa sempre più salire nella sua catarsi, che dura non si sa quanto. È un concetto

forse un po‟ riduttivo e non è detto che le persone che di fatto vivono la compassione in cose

concrete la vivano come noi.

La nostra etica, originale e solo nostra, deriva dalla persona di Gesù, dal suo annuncio del Re-

gno e dalla sua morte e risurrezione. La nostra originalità è dovuta, quindi, al riferimento cristo-

logico ed è dovuto a questo riferimento se abbiamo un‟etica per l‟alterità, dove l‟altro è il prin-

cipio che ispira, perché si parte da un punto che è orientato all‟alterità, che è il Cristo.

Il buddhismo questo non ce l‟ha e questa è la sua estrema debolezza. La sua forza, invece, è che

è capace di dare il senso del limite umano, che poi è tanto evidente nei monaci buddhisti.

L‟etica, in effetti, è questa: se si vive la compassione perché bisogna purificarsi per andare in

alto, allora la si vive in un certo modo; se si vive la compassione in vista di un poverocristo, al-

lora è tutta un‟altra cosa. Questa è l‟etica che ha dei riferimenti che le danno un colore.

Il fatto di avere la mistica dell‟altro non significa che ci dà una qual certa protezione; nella no-

stra civiltà accadono gli stessi obbrobri che accadono nei paese segnati dalla cultura buddista.

2. Il secondo argomento deriva dalla tradizione russa. Florenskij, prima di morire ha scritto: “La

nostra fede è una fede fondamentalmente basata sull‟antinomia”. Questa parola fa pensare a un

contrasto e, infatti, nel nostro caso, antinomia significa che la fede ha una profonda contraddi-

zione: c‟è sempre lo schema morte-risurrezione e la vittima che diventa salvezza, quando invece

perde. Noi siamo figli di questa contraddizione, noi occidentali non sappiamo deciderci se esse-

re figli di Abramo o di Ulisse. È però, paradossalmente, la nostra ricchezza. Noi abbiamo una

profonda convinzione che non è stata assimilata sulla base di una rigida concettualizzazione, ma

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che deriva dall‟esperienza mistica della identificazione con figure come Abramo, Mosè, che

hanno vissuto contraddizioni profonde e insanabili, e soprattutto con Gesù. Non è semplice e

normale dire che Egli era il Figlio di Dio, che è stato messo in croce per rendere lode a Dio, di-

ventando il Salvatore del mondo e diventando il prototipo di tutte le vittime, ma poi è risorto.

O siamo gli sragionevoli della terra, il che è sempre possibile, o abbiamo qualche cosa che noi

stessi non riusciamo a comporre in perfetta unità razionale. Resta sicuramente lo sragionevole.

Sono grandi gli scrittori russi quando identificano in un folle del villaggio questa antinomia e

non nel teologo. Noi sembriamo come quel povero “suonato”, il quale sragiona, ma che ha dei

momenti di grande lucidità. Noi siamo così.

Fa bene la Lettera di Pietro a dirci che dobbiamo rendere conto della nostra speranza. Ma lo fa-

remo sempre balbettando.