IL DIRITTO COMMERCIALE NEL SISTEMA DEL DIRITTO … · caratteri peculiari del diritto commerciale...

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IL DIRITTO COMMERCIALE NEL SISTEMA DEL DIRITTO PRIVATO. lo ius mercatorum, il diritto dei mercanti i.e. il complesso di regole destinato a disciplinare l’attività dei mercatores ed a rispondere alle esigenze di una giustizia agile e rapida ma, anche, il complesso di regole che è creato dai mercanti, che nasce dagli statuti delle corporazioni mercantili, dalla consuetudine mercantile, dalla giurisprudenza della curia dei mercanti.

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IL DIRITTO COMMERCIALE NEL SISTEMA DEL DIRITTO PRIVATO.

�  lo ius mercatorum, il diritto dei mercanti i.e. il complesso di regole destinato a disciplinare l’attività dei mercatores ed a rispondere alle esigenze di una giustizia agile e rapida ma, anche, il complesso di regole che è creato dai mercanti, che nasce dagli statuti delle corporazioni mercantili, dalla consuetudine mercantile, dalla giurisprudenza della curia dei mercanti.

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CARATTERISTICHE BASILARI

�  Rilievo delle regole consuetudinarie ispirate: - alla equità; - alla tutela del credito; - allo svincolo delle contrattazioni dalle rigide forme del diritto comune, dal rigore nell’adempimento delle obbligazioni.

�  Regole trasfuse negli statuti delle corporazioni, che diventano la fonte primaria del diritto commerciale e la cui applicazione viene progressivamente estesa prima a tutti coloro che esercitano la mercatura e, successivamente, alle controversie di natura mercantile tra mercanti e non mercanti.

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caratteri peculiari del diritto commerciale

Sintetizzati in maniera concorde nelle impostazioni manualistiche: �  diritto speciale – costituito da norme diverse da quelle valevoli per la

generalità dei consorziati e fondate su propri ed unitari principi ispiratori (tutela del credito, rapida e sicura circolazione della ricchezza);

�  diritto tendente all’uniformità internazionale – diritto di per sé universale, che prescinde dalla mediazione politica delle istituzioni pubbliche e dai confini etnici, politici e geografici delle singole nazioni e dei singoli ordinamenti, legato come è alla naturale espansività del commercio. Vi è identità delle esigenze giuridiche della vita economica in tutti i paesi ad economia di mercato e vi è la progressiva liberalizzazione dei rapporti commerciali internazionali che contraddistingue la moderna civiltà industriale;

�  diritto in continua evoluzione – diritto che affonda le sue radici nella realtà economica nazionale e internazionale che è di per sé in continua evoluzione.

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AMBITO DELLA REGOLAMENTAZIONE DEL DIRITTO COMMERCIALE

�  Regolamentazione della maggior parte dei rapporti sociali: per es. alla disciplina della vendita commerciale è sottoposto sia l’industriale che acquista materie prime per trasformarle e rivenderle sia il commerciante che acquista dall’industriale sia, infine, il comune cittadino che acquista dal commerciante per uso e consumo personale.

�  Sistema del cod. comm. (artt. 1-3-8) basato su una lunga elencazione (art. 3) di categorie di atti “che la legge reputa atti di commercio”. Peraltro elencazione non tassativa. Mancanza di una ratio comune sottesa alle varie categorie. Possibilità di individuare almeno tre gruppi di atti di commercio in relazione: 1. al motivo per cui l’atto stesso veniva compiuto (intermediazione): per es. compravendita mobiliare e operazioni di banca; 2. al modo in cui esso veniva posto in essere (attraverso la mediazione di un’impresa, come per quelle di somministrazione, di trasporto, editrici, di commissioni, di agenzie); 3. all’oggetto dell’atto (per es. azioni e quote di società commerciali).

�  Individuazione (definizione) del commerciante (art. 8): colui che esercita atti di commercio per professione abituale e nelle società commerciali.

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L’evoluzione storica del diritto commerciale. Principali momenti.

�  Lo Stato liberale. Il processo di statalizzazione del diritto privato, con le grandi codificazioni dell’800. Il diritto commerciale conserva il carattere di diritto formalmente distinto dal diritto civile, e, seguendo il modello francese, l’emanazione di due distinti codici di diritto privato in Italia: codice civile del 1865 - codice di commercio del 1865 – poi sostituito da quello del 1882.

�  La competenza giurisdizionale sino ad allora distinta verrà unificata con la soppressione dei Tribunali di commercio nel 1888, sicché il diritto privato si presenta frazionato in due distinti sistemi normativi formalmente e sostanzialmente autonomi: il codice civile che regola i rapporti civili; il codice di commercio che regola gli atti di commercio e l’attività dei commercianti.

�  Il codice di commercio segna un deciso ampliamento della sfera di applicazione dei principi del diritto commerciale perché, contestualmente, si ampliano i settori della vita economica regolati da esso con la trasformazio eimposta dalla rivoluzione industriale.

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�  In altri termini, la categoria giuridica dei commercianti non è più costituita soltanto dai mercanti, i quali hanno perduto la posizione di protagonisti dello sviluppo economico a vantaggio degli industriali e dei banchieri.

�  Commercianti sono tutti coloro che esercitano atti di commercio per professione abituale [l’art. 3 cod. comm. contiene la lunga elencazione degli atti di commercio, che potra a qualificare come commerciante chiunque operi abitualmente nel campo della produzione e della distribuzione (industriali, banchieri, imprese di trasporto etc), con la sola eccezione degli artigiani e degli agricoltori].

�  La generalizzazione del diritto commerciale si percepisce ulteriormente sul piano della disciplina dei singoli atti negoziali, in quanto, se è vero che esiste una disciplina generale delle obbligazioni civili ed una disciplina generale delle obbligazioni commerciali e se è vero che i principali contratti sono regolati da entrambi i codici, l’ambito di applicazione delle due discipline è sbilanciato in favore del diritto commerciale.

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CARATTERI ATOMISTICI DEL DIRITTO COMMERCIALE NELLA VISIONE DEL CODICE DI COMMERCIO

�  La combinazione delle norme citate portava a ritenere che la materia commerciale comprendesse le persone (commercianti) e gli affari (atti di commercio) che consentono il passaggio delle merci dal produttore al consumatore e che il sistema delle leggi applicabili a tale materia era costituito dalla combinazione, nell’ordine, delle leggi commerciali, degli usi e delle leggi civili.

�  La dottrina in maniera sostanzialmente concorde riteneva che non fosse possibile costruire un concetto unitario della materia di commercio e dunque raggiungere un concetto unico comprensivo di tutti gli atti di commercio, non solo per la natura non tassativa dell’elenco di cui all’art. 3 ma anche per la difficoltà di determinare, al di fuori del codice di commercio, quando una legge o una singola disposizione di legge potessero considerarsi commerciali.

�  Ampio dibattito dottrinario. Necessità diffusa di una disciplina della materia commerciale di segno meno atomistico e più organico, capace di applicare criteri di valutazione univoci ad un medesimo istituto e di rendere più coerente ed uniforme la disciplina dei singoli atti.

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PERCORSO DI UNIFICAZIONE DEI CODICI

ARGOMENTI PRO UNIFICAZIONE �  difficoltà di distinguere nettamente i rapporti giuridici

sottoposti all’imperio delle leggi commerciali da quelli sottoposti alle leggi civili;

�  “stranezza” di sottoporre alla disciplina degli atti di commercio anche atti compiuti non da commercianti ma da soggetti privati;

�  difficoltà di combinare le disposizioni, spesso contrastanti, dei due codici quando ad entrambi occorresse fare richiamo per la disciplina del medesimo istituto;

�  incertezza del diritto legata alla discrezionalità dei Tribunali in ordine all’attribuzione del carattere commerciale ad atti non rientranti espressamente nella serie esemplificativa degli atti di commercio.

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(SEGUE):CONTRA

�  D’altronde, anche con maggiore convinzione, vennero addotte argomentazioni contrarie all’unificazione che sembrarono prevalere, facendo leva sulla speciale adattabilità del diritto commerciale ad esprimere nuovi strumenti giuridici sotto la pressione del ceto mercantile e sulla tendenza della materia ad uniformarsi con quelle omologhe degli altri ordinamenti nazionali come caratteristica propria dei traffici mercantili.

�  Pronto il Progetto Ministeriale di codice di commercio, di fatto si optò per l’unificazione dei codici:

�  motivo dichiarato: volontà di fondare il nuovo codice civile sui principi della c.d. Carta del Lavoro e dunque contraddittorietà della concentrazione della disciplina delle categorie commerciali in un codice appositamente confezionato, avendo assunto il profilo professionale e corporativo del diritto commerciale a profilo generale del diritto dell’economia e del lavoro sul piano corporativo.

�  motivo effettivo: perdurante pregiudizio e persistente ostilità verso l’attività commerciale considerata ancora parassitaria perché tesa soltanto al perseguimento del lucro. Peraltro, nel momento in cui si predicava l’unità del diritto privato, si riconobbe anche l’autonomia scientifica e normativa del diritto della navigazione e fu promulgato un codice della navigazione.

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L’UNIFICAZIONE DEI CODICI

�  La riforma legislativa del 1942. Il codice vigente e i dati salienti dell’ulteriore mutamento del diritto commerciale:

�  la scomparsa degli atti di commercio - La disciplina delle attività commerciali viene riorganizzata intorno alla figura dell’imprenditore commerciale che sostiuisce il commerciante. E’ il passaggio al sistema dell’attività d’impresa, intesa come una serie o un complesso di atti tra loro coordinati in vista di una comune finalità;

�  la previsione di una nozione generale e unitaria di imprenditore – (art. 2082). Passaggio dalla figura del commerciante a quella dell’imprenditore. Ricerca di un contenuto minimo di disciplina uniforme per ogni forma e attività d’impresa (lo statuto generale dell’imprenditore). La previsione di uno statuto integrativo per l’imprenditore commerciale;

�  l’unificazione del diritto delle obbligazioni e dei contratti.

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Meriti del nuovo sistema:

�  certamente quello di portare in primo piano l’attività in luogo dell’atto e di evitare la qualificazione del singolo atto, che perde la sua individualità e si confonde con l’attività d’impresa. L’impresa è al tempo stesso il fondamento del diritto commerciale e l’elemento unificante di tutti gli istituti che in questa materia sono tradizionalmente compresi – Il diritto commerciale è il diritto dell’impresa e l’imprenditore è il protagonista della materia.

�  Non sarà più necessario individuare un atto come atto di commercio e definirlo tale per sottoporlo ad una normazione particolare: sarà sufficiente verificare che l’atto è posto in essere dall’imprenditore e rientri nell’attività d’impresa (e non nella sua attività personale) per applicare la disciplina riservata all’imprenditore.

�  Il nuovo sistema incentrato sull’impresa e sull’imprenditore (commerciale in particolare) è un sistema tendenzialmente subiettivo (non più oggettivo). L’imprenditore è il protagonista incontrastato dell’intera materia:

�  soggetto attivo della relativa disciplina: si pensi ai contratti (d’imrpesa) che pone in essere e ai titoli di credito, ovvero

�  soggetto passivo (o assoggettato ad essa): si pensi alla responsabilità d’impresa e alle procedure concorsuali.

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IL DIRITTO COMMERCIALE DISCIPLINA L’ATTIVITA’ D’IMPRESA E L’ORGANIZZAZIONE DELL’IMPRESA.

�  Cenni sul concetto di attività (che ritornerà nella definizione dell’art. 2082): Complesso di atti legati dallo scopo comune e, cioè, dall’essere posti in essere per l’esercizio dell’impresa. Complesso suscettibile di una propria valutazione economica e giuridica autonoma rispetto a quella dei singoli atti. 

�  Gli atti che compongono l’attività. - atti di organizzazione; - atti dell’organizzazione.

�  Cenni sul concetto di organizzazione: L’imprenditore deve organizzarsi ed organizzare e ciò è presupposto indefettibile per l’esercizio dell’attività d’impresa innanzitutto sotto il profilo economico, prima ancora che sotto l’aspetto giuridico. Il compimento del singolo atto di commercio non richiedeva una organizzazione stabile o almeno richiedeva un’organizzazione ad esso limitata. La produzione o la vendita di beni o di servizi richiede oggi l’organizzazione di quelli che la scienza economica denomina i fattori della produzione (capitale e lavoro); l’organizzazione dei fattori produttivi – mezzi patrimoniali e persone – diventa presupposto indispensabile perché l’esercizio di un’attività economica diventi anche esercizio di attività d’impresa.

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Rapporto tra impresa e mercato

�  Il mercato come elemento di fondamentale importanza nello studio delle problematiche dell’impresa, a maggior ragione allorquando si cerchi di calare l’approfondimento delle questioni nella realtà sociale ed economica, “anche solo in funzione di una migliore comprensione degli istituti relativi all’impresa stessa”.

�  Il mercato habitat naturale dell’impresa; luogo in cui questa proietta la “sua forza di organismo produttivo ...” che coinvolge “naturalmente interessi diversi e soprattutto alieni rispetto a quelli dell’esercente l’attività o dell’autore dell’atto”.

�  Mercato come luogo di coesistenza di interessi; come luogo che si compone di una serie di variegati interessi rispetto ai quali – meglio, rispetto al cui contemperamento – sono nate e si alimentano anche oggi le “grandi” questioni relative alle scelte tra autoregolamentazione e eterotutela; al rapporto tra Stato e Mercato; al ruolo stesso del diritto commerciale.

�  L’esistenza stessa dell’impresa, l’esercizio professionale di un’attività economica “comincia a diventare rilevante per il diritto a mano a mano che il fine di operare per il mercato entra ad ispirare e a muovere l’attività del soggetto sino a dominarla e a giustificarla integralmente o prevalentemente”.

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Ma a quale mercato ci si deve oggi riferire nello studio dell’impresa ?

�  L’eterorganizzazione dell’impresa in termini tradizionali. �  Il mercato al quale l’impresa, sia essa individuale sia essa collettiva, si è tradizionalmente

rivolta è stato originariamente il luogo sul quale dovevano essere collocati i relativi prodotti e/o servizi; prodotti o servizi costituenti la ragion d’essere dell’iniziativa imprenditoriale; prodotti e/o servizi condizionanti, in ragione del loro successo o insuccesso, la sopravvivenza stessa dell’impresa.

�  La dottrina assolutamente prevalente ha indicato ed indica nella c.d. eterorganizzazione il connotato essenziale della fattispecie impresa; ha affermato la necessità della destinazione allo scambio sul mercato dell’attività e del prodotto che, “pur non essendo richiesta dalla norma dell’art. 2082, è, per così dire, in re ipsa, essendo naturale, non tanto e non solo che si produca per chi consuma, ma anche, e soprattutto, che ogni iniziativa economica abbia una ricaduta positiva sulla comunità”.

�  Solo la destinazione al mercato consente di spiegare adeguatamente la necessaria presenza dei requisiti dell’organizzazione e della professionalità in capo all’imprenditore; solo la destinazione dell’attività, con i suoi risultati in termini di prodotti e/o di servizi, alla collettività è coerente con il dettato costituzionale dell’art. 41 che “impone” all’imprenditore di produrre ricchezza e di alimentarne la circolazione.

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�  “In origine il mercato – la cui denominazione discende infatti proprio dalla « merce » che vi veniva scambiata – era costituito dalla piazza del paese dove le merci offerte venivano esposte agli interessati, per essere da questi valutate e giudicate, e formavano quindi oggetto delle trattative per la determinazione del prezzo ed il perfezionamento dell’accordo. Soltanto dopo la rivoluzione industriale, con la straordinaria espansione che ne è seguita nella produzione di beni e servizi di infiniti tipi, il termine mercato è andato assumendo il significato amplissimo oggi in uso, per cui può riguardare indifferentemente, non più soltanto res, beni materiali, ma pure il lavoro, gli strumenti finanziari, i brevetti e in genere le idee, i servizi e perfino le informazioni, cosicché diventano commerciabili infinite entità, un tempo impensabili come oggetto di scambio”. Così, testualmente, P. SCHLESINGER, Mercato, diritto privato, valori, in Riv. dir. civ., 2004, II, p. 325.

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Il concetto tradizionale di mercato “merceologico” o commerciale.

�  In quest’ottica, il mercato tradizionalmente considerato ed esaminato dalla dottrina è stato quello che potremmo definire merceologico o commerciale, vale a dire il luogo di destinazione del prodotto dell’impresa.

�  Il mercato (“merceologico o commerciale”) così individuato è stato richiamato e studiato sotto vari profili; il riferimento ad esso è servito innanzitutto per l’individuazione della natura imprenditoriale o meno del soggetto di volta in volta considerato; l’esistenza di una organizzazione produttiva “che opera nel mercato” e “secondo le regole del mercato”, a prescindere dalle connotazioni soggettive dell’(soggetto) agente, è stata decisiva per l’applicazione delle norme dello statuto dei lavoratori.

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�  Al mercato è riferita - e per l’agire sul mercato è concepita ed attuata - la regolamentazione della concorrenza;

�  per la tutela degli interlocutori dell’imprenditore sul mercato, è pure pensata la disciplina a tutela dei consumatori, di coloro che domandano i prodotti o i servizi che l’impresa ha messo in circolazione.

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Il superamento di un concetto unitario di mercato. La ricerca di una moderna disciplina di esso.

�  L’evoluzione normativa degli ultimi anni nella materia dell’impresa (specie societaria), che pure ha certamente rappresentato una risposta all’esigenza di adeguamento della forma giuridica alla realtà economica, consente di superare la convinzione di un concetto unitario di mercato, inteso nel senso tradizionale che abbiamo sinteticamente illustrato.

�  Il deficit di adeguatezza delle norme del codice civile del 1942 al progressivo mutamento del contesto socio-economico che ha riguardato in primo luogo la disciplina dell’impresa e soprattutto di quella esercitata in forma collettiva, si è vieppiù generalmente avvertito con riferimento alla mancanza di una adeguata e moderna disciplina del mercato, inteso, questa volta, come luogo di incontro tra la richiesta di capitali da parte delle imprese e la correlativa offerta, nelle più disparate forme, da parte delle banche, degli altri intermediari a ciò abilitati o, direttamente, degli investitori, dei risparmiatori etc.

�  Esigenza tradizionalmente avvertita ed affermata dalla dottrina commercialistica italiana al fine di “elaborare le categorie giuridiche in relazione a fenomeni reali e tenendo perciò conto della portata e del rilievo di questi ... nel rispetto della legge positiva che vincola l’interprete” (T. ASCARELLI, Corso di diritto commerciale, 3, Milano, 1962, p. 137). Con specifico riguardo al tema dell’impresa, V. BUONOCORE, L’impresa, cit, p. 19, il quale evidenzia che “esso si alimenta e si nutre naturalmente e continuamente della realtà circostante e risente con singolare immediatezza di tutto ciò che in tale realtà si verifica, così dei mutamenti ... del tessuto epiteliale, come delle novità più strettamente riferibili alla tecnologia. E tali mutamenti possono richiedere al giurista lo studio dei fenomeni che li provocano o per adeguare i termini del dibattito sui temi tradizionali o per dare un volto e una dimensione teorico-giuridici ai nuovi problemi”. Cfr., su questi temi, le acute considerazioni di F. GALGANO, Diritto ed economia, cit., p. 194 ss., il quale evidenzia il ruolo fondamentale del contratto (e dei giuristi che lo elaborano) quale “... principale strumento della innovazione giuridica”, che “... prende il posto della legge in molti settori della vita sociale. ... L’inettitudine della legge alla innovazione giuridica deriva da due caratteri dell’economia contemporanea, la quale è, anzitutto, una economia meta-nazionale, in antitesi con il carattere nazionale dei sistemi legislativi, ed è, in secondo luogo, una economia in continua trasformazione, la quale reclama flessibili strumenti di adeguamento del diritto ai mutamenti della realtà, in antitesi con la rigidità delle leggi”.

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�  Può indicarsi il “principio della pluralità dei mercati” (N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, Bari, 1998, p. 39), per dire che “ ... risolvendosi il mercato in uno statuto normativo, alla pluralità degli statuti normativi fa riscontro la pluralità dei mercati. Non si dà un unico mercato, ma tanti mercati quante sono le conformazioni giuridiche dei rapporti di scambio. L’intuizione già espressa nel linguaggio comune (in cui si discorre di mercato finanziario, immobiliare, azionario ecc), si converte in un concetto di teoria generale e in un canone di indagine positiva”. Testualmente, N. IRTI, Teoria generale del diritto e problema del mercato, in Riv. dir. civ., 1999, I, p. 26.

�  Il problema del coordinamento tra “il livello di elaborazione tecnica del codice civile del 1942 ... nella materia dell’impresa ... [ed il] livello di adeguatezza alla realtà economica” è stato discusso dalla dottrina (cfr. P. MASI, Articolazioni dell’iniziativa economica e unità dell’imputazione giuridica, Napoli, 1985, p. 3 s. anche per l’ulteriore bibliografia), nel solco dell’insegnamento ascarelliano volto alla salvaguardia del legame tra forma giuridica e struttura economica (T. ASCARELLI, Corso di diritto commerciale, loc. cit.; ID., Ordinamento giuridico e processo economico, in Problemi giuridici, I, Milano, 1959, p. 37 ss.; ID., Norma giuridica e realtà sociale, ivi, p. 69 ss.; ID. Personalità giuridica e problemi della società, ivi, p. 235 ss. e spec. p. 310 ss.; L. MENGONI, Forma giuridica e materia economica, in Studi in onore di Alberto Asquini, vol. III, Padova, 1965, p. 1075 ss.). G. SANTINI, Commercio e Servizi, Bologna, 1988, p 42, notava che “se aggiornarsi ha un senso, allora l’unico modo è quello di avvicinarsi alla realtà riscoprendola a partire dall’economia, cioé dalle categorie e relativi ruoli economici, dai loro modelli e dai loro codici di comportamento, che coesistono con quelli statali, ma spesso se ne discostano in virtù dello spazio ad essi lasciato volontariamente dal legislatore o delle lacune degli ordinamenti sovraordinati”. Molti Autori hanno affrontato la questione dello svolgimento dell’iniziativa economica e della libertà d’impresa e, dopo quegli studi e quelle ricerche, la corposa legislazione speciale e gli interventi di modifica del codice civile hanno inciso enormemente sui principi fondanti del nostro diritto dell’impresa. Le riforme suscitano nell’interprete una serie di riflessioni che involgono temi di carattere generale rispetto ai quali l’approfondimento può essere più che mai giustificato oltre che dalla mancanza di una verifica applicativa delle nuove norme, anche dal principio di relatività dei concetti giuridici e dalla possibilità del loro periodico aggiornamento in relazione al continuo mutare dei dati politico-sociali, normativi ed economici di riferimento.

�  Ciò è stato notato – addirittura con non celato rimpianto verso le scelte del codice di commercio del 1882 – in particolare con riferimento alla “... rigorosa fissazione di norme imperative attinenti all’ordine pubblico economico e riguardanti tutti i momenti della vita e i caratteri dell’organizzazione societaria: dalla fase di costituzione con il controllo di legalità rappresentato dalla tradizionale omologazione e il controllo dei conferimenti in natura, alla configurazione del capitale di rischio e del capitale di credito con numero chiuso e normativa inderogabile delle categorie di azioni e delle obbligazioni, alla disciplina dell’organizzazione interna, con la ripartizione di competenze assembleare, gestoria e di controllo, al bilancio (peraltro con una disciplina che troverà il suo assetto definitivo solo negli anni ’90), sino alla fase di liquidazione delle società” (testualmente, A. GAMBINO, Spunti di riflessione sulla riforma: l’autonomia societaria e la risposta legislativa alle esigenze di finanziamento dell’impresa, in Giur. comm., 2002, I, 642).

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�  Tale situazione si è certamente protratta quanto meno sino ai principi degli anni novanta, epoca in cui, obiettivamente, si è registrato un rinnovato fermento “normativo” che ha condotto a “riforme organiche” giustamente definite epocali.

�  Gli interventi del legislatore hanno riguardato, tra l’altro, proprio il rafforzamento dell’autonomia statutaria delle imprese in funzione della raccolta di capitale sul mercato, ed hanno avuto un peso ed una incidenza tali da rendere lecito chiedersi se non vi sia una linea politico-legislativa di fondo - sottesa agli interventi riformatori in materia di finanziamento dell’impresa - per cui le scelte “giuridiche” compiute possano ritenersi indotte dalla affermazione del capitalismo finanziario che detta “al diritto” le proprie regole sul mercato globale; che delinea il modello economico al quale il “diritto societario” può solo conformarsi.

�  Basti pensare che il mercato borsistico “è stato regolato almeno fino al 1991 da una legge del 1913, la quale, peraltro, dopo un lungo periodo di permanenza in vita con mezzi artificiali, è realmente morta solo nel 1998, data del varo del testo unico sull’intermediazione finanziaria” (cfr. V. BUONOCORE, L’impresa, cit, p. XXI s.).

�  L’incidenza della riforma su questi profili è stata già evidenziata, nella sua enorme portata, laddove si è osservato che “… il nuovo diritto societario vada letto … con la consapevolezza che esso ha un senso globale se ci si pone nella prospettiva della provvista del capitale di rischio e del capitale di credito. In questa prospettiva si coglie il nuovo ed il significativo; ben al di là del clamoroso (alludo, per esempio, ai tre sistemi di amministrazione della società per azioni o alle trasformazioni eterogenee a ruota libera)”. In tal senso, P. SPADA, Classi e tipi di società dopo la riforma organica (guardando alla nuova società a responsabilità limitata), in G. CIAN (a cura di), Le grandi opzioni della riforma del diritto e del processo societario, Padova, 2004, p. 34.

�  U. MATTEI, La riforma del diritto societario italiano. Una nuova ricezione acustica ?, in Riv. dir. comm., 2003, p. 615 ss. e spec. p. 619. Nello stesso senso, ma solo incidentalmente, ci si può anche chiedere se le scelte del legislatore non siano in certa misura catalizzate dall’impresa collettiva di grandi dimensioni e dall’obiettivo politico – pur nella consapevolezza, confermata da inequivoci dati statistici, di una prevalente presenza nella realtà italiana di società personali e di imprese individuali – dell’affermazione di un modello che non è il prodotto della selezione naturale e l’inevitabile conseguenza di sviluppi tecnologici che richiedono capitali sempre più ingenti ma solo il portato di precise e consapevoli decisioni. Non è una novità, e in dottrina è stato già autorevolmente evidenziato, che l’evoluzione legislativa possa costituire una risposta alle influenze che diversi gruppi di pressione possono esercitare nella compagine politica di un paese e che i processi politici, indotti anche da fattori economici, possono concorrere a modificare l’ambiente normativo e le scelte politiche che definiscono la protezione degli investitori e l’enforcement stesso sono guidati da fattori ideologici. Eguali interrogativi si pone M. CERA, Le imprese e il nuovo diritto societario, in P. BENAZZO, S. PATRIARCA, G. PRESTI ( a cura di), Il nuovo diritto societario fra società aperte e società private, Milano, 2003, p. 260, laddove evidenzia che “occorre, in buona sostanza, chiedersi se il nuovo assetto legislativo corrisponda ad interessi davvero generali, ovvero se, ricordando la nota posizione di Cesare Vivante all’indomani della emanazione del codice di commercio, esso sia ispirato dagli interessi di una parte soltanto del sistema economico o se si vuole del mercato delle imprese”. In termini ancora più espliciti, G. VISENTINI, Audizione del 9 febbraio 2004 dinanzi alle Commissioni congiunte Camera-Senato nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sui rapporti tra il sistema delle imprese, i mercati finanziari e la tutela del risparmio (consultabile sul sito www.Senato.it), il quale ritiene che “... viviamo la strana situazione di un ordinamento che continua ad evolvere, da una parte, secondo una forma tutoria soffocante e, dall’altra, con forme di libertà radicale incontrollabile, che non credo siano state scelte ed adottate in questa sede (i.e.parlamentare), soprattutto non sono state presentate alla gente”. Si veda anche F. GALGANO, Storia del diritto commerciale, Bologna, 1976, passim e spec. p. 13, il quale, rispetto a tali temi, evidenzia che “l’economicismo nel diritto del nostro tempo è la pretesa di separare il diritto dalla politica, di astrarlo dalla società, quale mero “accessorio” dell’economia, pura tecnica di regolazione dei rapporti di produzione”.

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L’alternativa eteroregolamentazione /

autoregolamentazione del mercato.

�  Rigorose “norme organizzative di ordine pubblico” hanno forse significato limitazione della possibilità di reperimento di capitale di credito e di rischio da parte delle imprese e delle possibili opzioni di gestione delle stesse.

�  Le medesime norme, tuttavia, hanno costituito un importante presidio a tutela dei terzi che entrassero in rapporto con le imprese e, segnatamente, degli investitori e risparmiatori destinatari delle offerte, direttamente o indirettamente effettuate sul mercato, delle società grandi o medio-grandi, in un momento di decisa crescita del risparmio delle famiglie italiane.

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Il “mercato finanziario” e il ruolo dell’impresa su di

esso. �  Il dato che sembra oggettivamente riscontrabile e utile

segnalare è comunque quello del progressivo e costante rafforzamento del ruolo dell’impresa sul “mercato finanziario”, per esso inteso, questa volta, il luogo in cui la stessa offre, direttamente o indirettamente, strumenti finanziari in cambio di capitali da impiegare nell’esercizio dell’attività. L’impresa è diventata protagonista di questo mercato, capace di muoversi sempre meglio su di esso, con il sostegno importante – e denso di implicazioni – delle banche.

�  L’espressione è intesa in senso ampio, consapevoli della necessità di parlare, in una impostazione che fosse diretta in modo rigoroso allo studio di questo specifico profilo, piuttosto di mercati finanziari, distinguendo gli stessi in relazione ai soggetti operanti su di essi, agli strumenti finanziari che su di essi vengono collocati etc.

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�  Il primo risultato (in termini di tempo) è stato quello dello sviluppo del mercato obbligazionario, concentratosi negli anni tra il 1999 e il 2002, con l’apertura di una vera e propria fase del sistema finanziario italiano, “connotata dall’emissione di obbligazioni societarie da parte delle imprese con il sostegno delle banche”

�  Il momento di verifica degli aspetti patologici di questa “fase” è in pieno svolgimento, avviato sull’onda dei più grandi dissesti degli ultimi decenni, che hanno segnato l’economia statunitense prima e quella italiana poi. L’individuazione degli elementi critici dell’attuale assetto dei rapporti tra il sistema delle imprese, i mercati finanziari e il risparmio dei cittadini è pure in buona parte incominciata.

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Sono stati ravvisati “1) l’andamento asimmetrico del sistema delle imprese rispetto al

settore creditizio; 2) la traslazione – talora forzosa – dei rischi delle banche a terzi (fondi,

risparmiatori) attraverso le emissioni obbligazionarie e il loro collocamento;

3) da parte delle imprese, l’aggiramento del rapporto legale tra capitale sociale ed emissione obbligazionarie attraverso le emissioni all’estero e la garanzia su emissioni di società collegate aventi sede all’estero;

4) da parte delle imprese e delle banche, l’aggiramento della normativa sul collocamento di prodotti finanziari, attraverso emissioni sull’euromercato destinate ad investitori istituzionali (con prospetti semplificati) e loro successiva diffusione presso il pubblico senza le garanzie di legge.

Questo complesso di elementi delinea una crisi la quale … non è di origine industriale ma è una crisi finanziaria, che non si esaurisce in un caso, nell’uso improprio di uno strumento, in uno specifico errore di valutazione, ma si estende e si sviluppa in una serie connessa di casi, di strumenti, di errori”

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� Contestualmente, tuttavia, le iniziative assunte dal legislatore paiono indubbiamente nel senso di offrire alle imprese ulteriori margini di azione sui mercati finanziari; con la possibilità, in particolare, “di raccogliere direttamente mezzi finanziari, sottraendosi così, almeno in parte, ai costi, alle limitazioni ed alle difficoltà istruttorie del ricorso al f inanziamento esterno, specie quel lo proveniente dal sistema creditizio”

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�  La legge delega per la riforma del diritto societario (n. 366 del 13/10/2001) ha posto (art. 2) tra i principi generali in materia di società di capitali innanzitutto quello (lett. a) di “perseguire l’obiettivo primario di favorire la crescita e la competitività delle imprese, anche attraverso il loro accesso ai mercati interni ed internazionali dei capitali” e, in funzione di ciò, il legislatore delegato ha dettato (art. 2346, comma 6) una nuova disciplina in tema di emissione di strumenti finanziari, proseguendo ad alta velocità sul binario della “intrinseca atipicità” dello strumento finanziario oggetto di emissione sul mercato e della “enfatizzazione dell’autonomia statutaria del soggetto emittente”

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�  L’atipicità tocca le azioni, tocca gli strumenti finanziari diversi dalle azioni, tocca, più in generale, le “figure di investitori e i modelli oggettivi di investimento, intermedie fra le figure ed i modelli classici dell’azionista-socio, da un lato, e dell’obbligazionista-creditore, dall’altro ...”

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�  con la possibilità di ritrovare la medesima problematica in tema di società a responsabilità limitata, laddove, ugualmente, si riconosce alla società il potere di emettere titoli obbligazionari (di debito) “con tipologie statutarie differenziate e ... la possibilità di correlare in modo diversificato diritti patrimoniali e poteri gestori, sia determinando le partecipazioni dei soci in misura non proporzionale ai conferimenti (art. 2468, 2° comma), sia attribuendo a singoli soci particolari diritti riguardanti l’amministrazione o la distribuzione degli utili (4° comma), sia sostituendo i conferimenti in denaro con polizze di assicurazione o con fideiussioni bancarie ...”

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Possibile conflitto tra il ruolo dell’impresa sul mercato

merceologico ed il ruolo della stessa impresa sul mercato finanziario. Conseguenze.

�  Il problema che si profila è quello di un allontanamento e, in certi casi, di uno scollamento tra l’attività ed il ruolo dell’impresa sul mercato merceologico e l’attività ed il ruolo della stessa impresa sul mercato finanziario.

�  Proprio le vicende infauste (della crisi) dei gruppi Cirio e Parmalat hanno dimostrato, senza possibilità di smentite, gli enormi pericoli - per i singoli risparmiatori ma anche per la tenuta complessiva del sistema economico e per l’immagine stessa del Paese - legati allo “attivismo finanziario”, alla “imprenditorialità allo stato puro”, sganciati da risultati industriali effettivamente positivi e dalla concreta creazione di valore per gli azionisti.

�  E’ stato compiutamente dimostrato che tanto la struttura societaria, caratterizzata da una piramide complessa di scatole cinesi, quanto il crescente indebitamento dei gruppi nei confronti delle banche e direttamente del mercato non poggiassero su “alcuna finalità industriale” M. ONADO, I risparmiatori e la Cirio: ovvero, pelati alla meta, in Mercato, concorrenza, regole, 2003, p. 499 ss. e spec. p. 509 ss.