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1 Documentazione folclorica sul dialetto di Novara di Sicilia a cura di Gianna Marcato IL DIALETTO NEL TEMPO E NELLA STORIA

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1Documentazione folclorica sul dialetto di Novara di Sicilia

a cura di Gianna Marcato

IL DIALETTO NEL TEMPO E NELLA STORIA

3Indice

a cura diGianna Marcato

IL DIALETTO NEL TEMPO E NELLA STORIA

4 Indice

Prima edizione: giugno 2016

ISBN 978 88 6787 527 6

© 2016 cleup sc“Coop. Libraria Editrice Università di Padova”via G. Belzoni 118/3 – Padova (tel. 049 8753496)www.cleup.itwww.facebook.com/cleup

Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento,totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresele copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.

Impaginazione e grafica di copertina: Patrizia Cecilian

In copertina: fotografia di Tommaso Politi

Comitato di lettura

Giovanni Ruffino (Università di Palermo)Salvatore Trovato (Università di Catania)Antonietta Dettori (Università di Cagliari)Jane Nystedt (Università di Stoccolma)Franco Lurà (presidente Centro di Dialettologia ed Etnografia

della Svizzera Italiana, Bellinzona) Mariselda Tessarolo (Università di Padova)Gianna Marcato (Università di Padova)

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presentazione

La lingua, tra diacronia e storia 13 Gianna Marcato

riflessioni teoriche e progetto di ricerca

Dialetto, dialettalità e dialettologia al bivio: tra osservabili storicamente connotati e modelli d’analisi “antagonisti” 23 Gianna MarcatoIl linguaggio come pratica sociale 37 Mariselda TessaroloDallo sdoganamento alla rottamazione? Narrazioni alternative 49sul dialetto nella linguistica italiana (2000-2015) Giuseppe PaternostroLa teoria della complessità: un cavallo di ritorno tra principi 65e metodi dell’indagine linguistica Elvira AssenzaLessico e cultura nel tempo: mutamento, regressione e recupero 79dei dialetti a livello formale e semantico Antonietta DettoriL’Atlante Linguistico del Mediterraneo. Quarant’anni dopo 95 Giovanni Ruffino - Tullio TelmonLe parole del mare. Primi risultati dell’ALS 117 Elena D’AveniaLa Liguria dei contadini. Preliminari per una pubblicazione 123delle inchieste liguri di Paul Scheuermeier (1922-1923 e 1932) Lorenzo Coveri

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La lettera I del Vocabolario del romanesco contemporaneo (VRC) 135 Claudio GiovanardiPer un Glossario del padovano medievale: l’emergere della dialettalità 145in testi latini Paola Barbierato - Maria Teresa Vigolo

aspetti strutturali e diacronia

Innovazione e conservazione in alcuni dialetti 155dell’area campano-lucana Patrizia Del PuenteAlcune considerazioni sul dialetto paternese 165 Carmela LavecchiaValori e selezione di forme brevi e lunghe in alcuni dialetti lucani 171 Teresa CarbuttiCronologie relative tra la propagginazione da /u/ e altri fenomeni 179linguistici in due aree della Basilicata Francesco VilloneLa metafonia nel Vorposten 191 Anna Maria TesoroIl Vallo di Diano e il Cilento: nuovi dati 201 Giovanna MemoliLu paisiedd mii: basilicatese, un esempio di artificio linguistico 211 Federica D’AndreaUna per tutte. L’evoluzione delle desinenze di presente congiuntivo 217nelle varietà catalane dell’area centro-orientale Martina Da TosLa diacronia rivisitata: ristrutturazioni e rianalisi nel sistema 225di sibilanti di una varietà friulana Tommaso Balsemin

ambiti d’uso, modelli culturali, testualità, forme e funzioni del dialetto nel tempo

“Non vuoi parlare il tuo dialetto in società? Bravo! Meriti lode”: 235il dialetto secondo il galateo Giovanna AlfonzettiLa percezione linguistica del dialetto e dell’italiano 259nei bambini del Sannio beneventano Nicole Suppa

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Il variare della percezione dell’italiano regionale con il variare dell’età 267 Carlotta D’AddarioIl lessico delle varietà locali nelle rappresentazioni 281dell’araldica parlante Franco BenucciItaliano e dialetto tra espressività e identità. Il parlato apostolico 293 Immacolata TempestaDialettalità surreale e iperespressiva nel cinema felliniano 303 Marco GargiuloGiudizi e pregiudizi linguistici nella pagina Facebook 315dell’Accademia della Crusca Stefania IannizzottoUna sottile linea rossa tra dialettofilia e dialettomania? 325 Vera GhenoISO 639, Yosemite e App che ‘parlano’ dialetto. 335Qualche reazione e riflessione Roberto SottileIl gallego nelle pagine di Rosalía de Castro (1837-1885) 347 María Montes LopezEducazione linguistica e minoranze autoctone. La scuola ungherese 355tra sfide e realtà Andrea Kollár

appuntamenti con la storia

Il dialetto nelle Lettere di prigionieri di guerra italiani (1915-1918) 363di Leo Spitzer Laura VanelliLa pratica della transumanza nella formazione dello spazio linguistico 379centro-meridionale: problemi e ipotesi di ricerca Giovanni AbeteI processi di stregoneria del secolo XVI nella Tuscia 387 Miriam Di Carlo‘Correjola’, ‘paris y pinta’ e altri lemmi opachi nel lessico ludico 395delle Prammatiche vicereali di Napoli Maria MarraIl rotacismo nei Quartieri Spagnoli a Napoli. Nuovi e antichi equilibri 403nello spazio linguistico urbano Emma Milano

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Dialetto, terremoto e storia a San Mango sul Calore, in Irpinia 417 Nicola De Blasi - Margherita Di SalvoDialettalità bellunese a Plostina: da un isolamento costruttivo 425ad un isolamento distruttivo Guido Barzan

tra diacronia e storia in sicilia

Per una storia della linguistica siciliana. Il vocalismo del dialetto 435di Adrano Salvatore C. TrovatoQuando il siciliano era volgare. Dal manoscritto alle banche dati digitali 443 Salvatore ArcidiaconoLe parole del siciliano antico 453 Tiziana EmmiToponimi nella storia. Diritto e diritti nei repertori toponimici 467popolari in Sicilia Angela CastiglioneDocumentazione folclorica sul dialetto di Novara di Sicilia in un saggio 475del Can. S. Di Pietro degli inizi del Novecento Rita Pina AbbamonteLuigi Vasi e la documentazione lessicale del dialetto galloitalico 483di San Fratello Giuseppe FotiIl dialetto nella storia del testo: il siciliano nelle varianti 489dei “Mastro-don Gesualdo” Elisabetta MantegnaIl dialetto nascosto nelle fiabe di Capuana, fra istanze normative 497e istanze mimetiche Rosaria SardoLa scrittura femminile siciliana in scena: Emma Dante fra teatro, 507cinema e romanzo Milena RomanoDal padre ai figli: dialetto e italiano regionale di Sicilia 515in un epistolario (1903-1917) Luisa Amenta Il dialetto su Facebook. Identità, riflessioni (meta)linguistiche 523e nuovi usi sulle pagine campanilistiche palermitane Francesco Scaglione

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Dallo sdoganamento alla rottamazione? Narrazioni alternative sul dialetto nella linguistica italiana (2000-2015)

Giuseppe Paternostro

Premessa

Dall’inizio del nuovo secolo, in seno alla linguistica italiana, si è andata sentendo sempre più forte l’esigenza di riflettere sulle sorti del dialetto, sul-le sue funzioni, sullo statuto epistemologico della disciplina che lo studia, sulla definizione della sua stessa nozione.

In questo intervento intendiamo (ri)assumere le diverse prese di posi-zione ruotanti attorno a questi temi servendoci del concetto di ‘narrazione’, assai ricorrente nel linguaggio politico e massmediatico contemporaneo, che servirà da filo conduttore del ragionamento. A nostro avviso è, infatti, utile leggere in termini di racconto le diverse (ma non per questo opposte) interpretazioni che, nel periodo considerato, hanno caratterizzato il dibatti-to sullo “stato di salute” del dialetto nel nostro Paese. Quella che intendia-mo qui presentare è una proposta di classificazione che prova a ricondurre i lavori che, a vario titolo, hanno avuto nel dialetto il loro oggetto di studio a punti di vista che raccontano ciascuno in modo diverso il suo (ri)collocarsi nel repertorio linguistico del dominio italoromanzo. In questa prospettiva, è così possibile provare a individuare ex post una coerenza e un rapporto anche intertestuale fra questi studi. Un’operazione di questo tipo è, noi cre-diamo, cruciale se si vogliono costruire, come da venti anni si prova a fare negli incontri sappadini, paradigmi interpretativi e modelli teorici adatti alle mutate condizioni sociolinguistiche.

Le ricerche su questo o quel fenomeno particolare divengono così al-trettanti episodi di una storia più ampia che da essi viene legittimata e raf-forzata. Nelle pagine che seguono discuteremo alcune di queste narrazioni guida, da cui hanno avuto origine le numerose “storie” sul dialetto che sono

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state raccontate (e che ci siamo raccontati) in questi ultimi anni. L’obiettivo è quello di provare a mettere (o a trovare un) ordine nelle diverse direttrici di ricerca riguardanti le relazioni fra le varietà del repertorio italo-romanzo sviluppatesi nell’ultimo quindicennio in Italia1.

In principio fu lo sdoganamento

Sobrero (2003) impiega il termine ‘sdoganamento’ (mutuandolo dal lessico politico degli anni ’90) per riferirsi alla fine di quelle “connotazioni negative che un secolo e mezzo di storia avevano affibbiato al dialetto” (ivi: 274). Da quel momento, si è avuto un fiorire di lavori che hanno “raccon-tato” gli effetti di quella “liberalizzazione” (altro termine preso in prestito dall’ambito economico-politico) non solo sugli usi del dialetto e sugli at-teggiamenti dei parlanti su questo codice, ma anche su tutti i movimenti interni al repertorio, primi fra tutti quelli relativi alla risalita di tratti sub-standard, in ispecie regionali, verso i settori centrali.

Sobrero basava le sue considerazioni sui dati dell’indagine ISTAT del 2000, la prima che segnalava come la progressiva flessione dell’uso esclu-sivo del dialetto venisse compensata in parte da una crescita del suo uso combinato con l’italiano (su questo torneremo nella seconda parte del lavo-ro). Le ragioni che egli adduce per interpretare il fenomeno sono anche po-litiche. Lo sdoganamento sarebbe stato, infatti, in parte un effetto indiretto dell’azione legislativa condotta a partire dalla fine degli anni ’90, a livello sia nazionale sia regionale, mirante alla tutela delle minoranze linguistiche e dei dialetti locali.

La felice formulazione di Sobrero costituisce il punto di avvio di un prolifico filone di lavori i quali, da luoghi, ambiti comunicativi e livelli di analisi diversi hanno contribuito a costruire quella che potremmo defini-re “la narrazione dello sdoganamento”. Il pilastro teorico di questo filone narrativo è costituito dal citatissimo (anche da noi) saggio di Berruto sulle “risorgenze dialettali” (cfr. Berruto, 2006), che usava anch’esso un’indagine ISTAT, svolta quello stesso anno, che confermava le tendenze emerse nella rilevazione precedente.

1 Per una più approfondita discussione delle principali tematiche affrontate, in seno alla linguistica italiana, a cavallo fra il vecchio e il nuovo secolo relativamente alle relazioni fra le varietà del repertorio italoromanzo, si rimanda a Iannàccaro (2013), in particolare ai contributi di Telmon (Dialettologia italiana), di Cerruti (Varietà dell’italiano) e di D’Agostino, Paternostro e Pinello (Sociolinguistica).

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I racconti che hanno formato la narrazione dello sdoganamento hanno contribuito a rafforzare l’idea di un dialetto che, all’inizio del nuovo mil-lennio, viveva una nuova giovinezza, con una nuova pelle e nuovi parlanti. Non ripeteremo qui quanto è stato detto e scritto negli anni anche durante gli incontri sappadini a proposito di questi nuovi usi e del valore diagnosti-co sullo stato di salute del dialetto che questa messe di ragguagli può avere. Ci limitiamo a segnalare che le ricerche che si sono susseguite sull’onda del successo delle riflessioni di Sobrero e Berruto, benché abbiano arricchito notevolmente la base dei dati a nostra disposizione, si muovono entro un orizzonte teorico limitato. Nel “festeggiare” il rinvio della morte del dialet-to, esse non hanno saputo cogliere (quantomeno non lo hanno fatto espli-citamente) in quelle “risorgenze” le spie del cambiamento dell’oggetto di osservazione stesso. Il dialetto che acquisisce nuovi valori d’uso non è più, infatti, il dialetto che, pur stigmatizzato, viveva una autonomia sistemica da bilinguismo privo di diglossia. Occorrerebbe a questo punto domandarsi, a) se siamo sicuri che quando oggi parliamo (in Italia) di dialetto ci rife-riamo tutti allo stesso oggetto e, b) se quando si utilizzano le categorie di ‘dialetto’ e ‘dialettalità’ si pensa a due oggetti di osservazione parzialmente diversi o se, al contrario, si è convinti che tutto sommato l’oggetto resti sempre lo stesso.

Queste due domande, crediamo, ci conducono al cuore di un problema che investe tutte quante le discipline linguistiche e di cui, forse, nel nostro Paese non vi è piena consapevolezza. Non è forse un caso che tale consape-volezza è, invece, ben presente in tradizioni di studi nazionali, come quella francese (si veda, a tal proposito, Calvet, 2007), in cui la dialettologia ha vi-sto cambiare sotto i propri occhi il suo oggetto di osservazione senza riusci-re a cogliere la contraddizione fra il carattere sociale che si riconosce ai fatti di lingua e l’assenza di riferimento al sociale nelle procedure di descrizione, che tendono a voler ordinare ciò che si solito procede nel disordine, o, detta in modo meno brusco, a semplificare la complessità. Ora, a noi sembra che proprio la nozione di ‘dialetto’ sia una delle vittime di questa tendenza dei linguisti a semplificare allo scopo di costringere entro un’etichetta certa nozioni assai più complesse, che poco hanno a che fare con le lingue dei linguisti (per dirla con Calvet) e molto (o quasi tutto) con le pratiche di-scorsive dei parlanti. Questi ultimi viaggiano, infatti, fra i codici e attorno ai nuclei di questi codici, i quali, in una condizione fortemente plurilingue, costituiscono un unico campo di variabilità all’interno del quale essi non restano indenni. E in questo non restare indenni alla pratica plurilingue ri-siede quella eteronomia che, ci sembra, debba essere considerata indicativa della natura del rapporto fra ciò che per convenzione continuiamo a chia-

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mare dialetto e ciò che, certamente con maggiore convergenza fra nozione e pratica, chiamiamo lingua.

In fondo, la tradizione italiana è dotata di costrutti teorici e modelli interpretativi capaci di rispondere a queste domande. La nozione pellegri-niana di ‘italoromanzo’, ad esempio, costituisce ancora oggi uno strumento assai duttile per descrivere e interpretare l’inevitabile disordine delle pra-tiche linguistiche che caratterizzano lo scenario dell’Italia contemporanea. Ancora, la narrazione dello sdoganamento uscirebbe senza dubbio arricchi-ta se si raccontassero i variegati fenomeni della nuova dialettalità alla luce di modelli interpretativi centrati sul parlante che ne indaghino il “costume linguistico” (Marcato 2009), inteso come capacità di cogliere, anche solo intuitivamente, i movimenti interni alla comunità a cui ciascuno “sente” di appartenere. Per questa via, si potrebbero, dunque, contestualizzare e rela-tivizzare i fenomeni rubricati alla voce “nuove vite del dialetto”, giungendo a considerare il fatto che in alcuni casi occorrerebbe parlare non solo di nuovi usi e di nuovi parlanti, ma anche di nuove varietà.

La narrazione dell’evanescenza

La dinamica perdita/acquisizione (di usi e di valori ad essi associati) che caratterizza il modo di raccontare i fenomeni della neodialettalità trae la sua forza da un’altra narrazione, il cui punto di forza teorico è costituito dal concetto, introdotto da Moretti (1999), di ‘parlanti evanescenti’, cioè soggetti che, pur non parlando il dialetto, ne potrebbero, al bisogno, essere utenti con una competenza da non nativi. Il lavoro risulta imprescindibile per chi voglia affrontare il tema dell’apprendimento del dialetto come L2, soprattutto perché offre stimolanti suggestioni che potrebbero controbilan-ciare l’eccessivo empirismo che caratterizza buona parte della narrazione sui nuovi usi del dialetto. Spiace, proprio per questo, constatare che, ben-ché abbia goduto di buona circolazione, il concetto di evanescenza lingui-stica non sia stato molto utilizzato al di fuori dell’area ticinese.

Lo stesso Moretti è tornato recentemente sulla questione (cfr. Moretti 2013), osservando che il dialetto continua a ricevere poca o nulla conside-razione dagli studi sull’acquisizione/apprendimento di una L2, se si eccet-tuano gli invece numerosi lavori che si occupano della posizione dei dialetti locali nei repertori plurilingui degli immigrati e delle nuove generazioni in generale. Triplice è, secondo Moretti, la ragione della mancanza nell’attuale panorama scientifico di una “dialettologia acquisizionale” che si occupi, in sostanza, di come funzioni nei non nativi il processo di apprendimento di

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un dialetto (in una accezione ampia, che comprende, seguendo Coseriu, dialetti primari e secondari): a) (contraddetta empiricamente dalle storie della narrazione dello sdoganamento) la rarità dei casi di apprendimento del dialetto come L22; b) la non specificità dei dialetti rispetto alle altre lingue, e dunque la loro non rilevanza ai fini del progresso delle conoscenze sui meccanismi di acquisizione di una L2; c) la eterogeneità della nozione stessa di ‘dialetto’, che rende difficile mantenere sotto una stessa categoria fenomeni fra loro estremamente diversi.

Nel caso italoromanzo, ci sarebbe, poi, da chiedersi rispetto a quale entità linguistica e in che tipo di repertorio il dialetto potrebbe configu-rarsi come L2. Moretti ipotizza, nel repertorio italoromanzo, possibili casi di apprendimento di un dialetto come L2: a) apprendimento di un dialetto avendo come L1 lo standard; b) apprendimento di un dialetto provenendo da un altro dialetto; c) contemporaneità di apprendimento di dialetto e standard. La prima cosa che salta all’occhio è il considerare di default ‘stan-dard’ ciò che invece potrebbe essere considerato ‘regionale’.

Il quadro è talmente complesso (disordinato per riprendere la termino-logia di Calvet) da far apparire poco produttivo il ricorso a categorie discrete e “digitali” (sempre per usare le metafore di Calvet) per catturare fenomeni dinamici e analogici, intrinsecamente disordinati. Lo stesso Moretti sotto-linea come la bassa distanza strutturale fra i codici in gioco ponga i non nativi di uno di questi codici (il dialetto) di fronte al problema “di marcare la differenza fra i vari codici di cui si servono (con il problema tipicamente sociolinguistico non tanto dell’imparare la lingua quanto del veicolare attra-verso marche specifiche i differenti valori associati alle lingue)” (ivi: 237).

L’invito di Moretti a occuparsi dell’apprendimento del dialetto come L2 chiama in causa il problema degli equilibri interni al repertorio italoromanzo e la necessità di (ri)definire i concetti di ‘dialetto’ e di ‘lingua’ e di fare i conti con la natura del rapporto fra questi due codici di significazione3.

2 Non ci si dimentichi, tuttavia, che la narrazione dello sdoganamento ha posto l’ac-cento sui nuovi usi piuttosto che sull’apprendimento del dialetto da parte di coloro che di questi nuovi usi sono i protagonisti. In tal modo si è avuta una scissione fra uso e conoscen-za/competenza, come se le modalità in cui si esprime il primo non dipendessero dalle moda-lità con cui si acquisiscono e i livelli a cui giungono le seconde. Lo stesso Moretti, peraltro, sottolinea come i pochi studi a sua conoscenza che si siano occupati di dialetto in chiave acquisizionale partano da un interesse sociolinguistico più che prettamente acquisizionale.

3 Secondo Moretti due dovrebbero essere i parametri fondamentali per discernere una lingua da un dialetto (ivi: 230): 1) la coesistenza di due lingue o varietà di cui una è su-bordinata sociolinguisticamente all’altra (plurilinguismo con rapporto di subordinazione); 2) distanza strutturale relativamente ridotta fra le due lingue o varietà. Da parte sua, chi apprende un dialetto come L2 deve affrontare una situazione per la quale il compito psi-

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Torniamo così al nodo teorico, già sopra richiamato, dell’eteronomia di ciò che per comodità continuiamo a chiamare dialetto. Sempre più strin-gente sembra essere, in questa prospettiva, l’esigenza di pensare all’etero-nomia come condizione intrinseca di qualunque sistema linguistico.

La narrazione dello stereotipo e dei pregiudizi

Le parole di Moretti colgono il rovesciamento dei rapporti interni al repertorio avvenuti negli ultimi decenni in Italia. Il lascito di questo “ribal-tone” (continuiamo a prendere in prestito metafore dal discorso politico) è evidente sul piano degli atteggiamenti e dei (pre)giudizi linguistici. Esso consente di valutare quasi in una sorta di tempo apparente cognitivo le in-crostazioni latenti lasciate da quasi 150 anni di dialettofobia di cui la dialet-tomania che emerge dalla narrazione dello sdoganamento ha rappresentato lo sfogo epidermico.

Se la narrazione dello sdoganamento e quella dell’evanescenza sono in fondo complementari, speculare ad esse è la narrazione dello stereotipo e dei pregiudizi. Così come per le prime due, anche in questo caso possiamo individuare la storia portante di tutta quanta questa narrazione. Ci riferia-mo all’indagine di Giovanni Ruffino (cfr. Ruffino, 2006), il quale individua nella scuola e negli insegnanti, “vestali delle classi medie” (per dirla con Marzio Barbagli), i principali responsabili del pregiudizio antidialettale che emerge dalle riflessioni raccolte dalla penna di 9000 bambini italiani fra gli 8 e i 10 anni.

Benché non sia il primo in ordine cronologico (ricordiamo solo, per restare in ambito sappadino, Tessarolo - Gaddi, 2001), il lavoro di Ruffino si presenta come la trattazione più organica degli stereotipi sul dialetto, in quanto ne svela i meccanismi, gli agenti, le agenzie e i soggetti, sottolinean-done la complessa natura cognitiva, storica e sociale. Negli stessi anni in cui le nuove generazioni propongono nuovi usi e conferiscono nuove funzioni al dialetto, le nuovissime si rivelano portatrici sane di antichi pregiudizi su questo codice.

Il ruolo della scuola quale luogo di formazione e trasmissione dello ste-reotipo antidialettale emerge anche spostando lo sguardo sugli insegnanti, spesso vittime inconsapevoli del pregiudizio che essi stessi hanno contri-

colinguistico (capire come funziona la lingua obiettivo e, dunque, come funzionano le sue strutture) e il compito sociolinguistico (assegnare alle strutture il rispettivo valore sociale) sono intrecciati in modo inestricabile.

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buito a rafforzare. A tal proposito, la sezione diastraticamente alta del cam-pione dell’Atlante Linguistico della Sicilia (ALS) costituisce un osservatorio privilegiato, dal momento che più di un terzo degli informatori adulti di alto livello di istruzione (70 su 200) è costituito proprio da insegnanti, in servizio o in pensione.

Anche in questo caso ci viene in soccorso la narrazione. Le storie rac-contateci dagli insegnanti siciliani (in servizio o già in pensione al momento dell’inchiesta) e raccolte nell’ambito dell’Atlante Linguistico della Sicilia ci consentono, infatti, di cogliere, per così dire, “il lato oscuro della luna”. L’inchiesta per questa particolare categoria di informatori è stata, in tutte le sue diverse fasi, un’occasione in cui essa ha dovuto fare i conti con un com-plesso intreccio di conoscenze, competenze, dichiarazioni d’uso, atteggia-menti, pregiudizi e stereotipi sulla lingua e sul dialetto. La fase dell’intervi-sta in cui, più di ogni altra, questo intreccio ha trovato uno sfogo discorsivo è costituita dal parlato indotto, in cui l’esistenza del pregiudizio dialettale emerge prepotentemente in varie forme. In questi racconti, capitano, in-fatti, spesso anche riferimenti (sia sollecitati da una esplicita domanda sia inseriti in racconti o riflessioni più ampie) alla presenza del dialetto a scuola in rapporto all’italiano. Si tratta di riferimenti assai interessanti, in quanto spesso fanno emergere un pregiudizio dialettale implicito (associazione fra uso di un codice, dialetto o italiano, e concetti quali educazione o rispetto).

Emblematiche di questo tipo di narrazione sono le due storie seguenti, raccontateci da due insegnanti di Sommatino, un piccolo centro del nisse-no. Si noti che le due informatrici sono madre e figlia, la qual cosa sugge-risce come la trasmissione dello stereotipo possa seguire percorsi (familiari e scolastici) che si intrecciano e si influenzano vicendevolmente Il primo frammento si riferisce al parlato italiano di Giovanna, maestra elementare in pensione (in corsivo il passaggio che ci interessa).

(1)I: insomma sono stata molto stimata:: / e ho avuto sempre bambini educati / bisogna dire la verità. / sentivo dire / insomma a colleghe che: / i maschiacci specialmente quando c’è | ci furono le: / le classi miste / perché prima erano tutte femminili o maschili. / prima erano formate così le classi / poi / quando ci fu:: / la classe mista s’è formata la classe mista molti: / maschietti insomma / che erano maschiacci d’altra parte ribelli eh: / eh:: / dicevano delle parolacce / parlavano in / dialetto a scuola / parlavano in dialetto / questo con me non è mai capitato. / i bambini mi parlavano sempre in italiano a scuola / eh: / ed edu-cati eh: / arrivavano al punto che facevano volare i banchi in aria: sì. propriu / scapestrati diciamo / eh: / invece in me non: / si è mai verificato / proprio. (Giovanna T., Nonna V famiglia, Sommatino - CL)

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L’accostamento al dialetto di valori, comportamenti, appartenenze so-ciali stigmatizzabili (uso del turpiloquio, ribellismo, maleducazione) e al-l’italiano di valori, comportamenti e appartenenze sociali positivi (uso esclu-sivo dell’italiano, educazione e condotta scolastica irreprensibile) è ancora più significativo perché non è stato sollecitato da una domanda specifica sul tema. Esso è, infatti, inserito all’interno di un più ampio racconto sull’e-sperienza di insegnante elementare dell’informatrice, la quale appartiene a quella generazione di docenti che hanno operato dal secondo dopoguerra fino alla prima metà degli anni ’80, quando la scuola era in prima linea nella lotta per estirpare la “malerba dialettale”, considerata l’ostacolo principale alla diffusione dell’italiano. L’uso dell’italiano (o meglio, il mancato uso del dialetto) a scuola è, per Giovanna, indice di educazione e di rispetto delle regole della socializzazione scolastica.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la figlia di Giovanna, Giusep-pina, insegnante come la madre. Stavolta, lo stereotipo (pur non esplicita-mente declinato in termini dicotomici) su italiano vs. dialetto si spinge fino allo scivoloso terreno dell’associazione fra uso dei codici in gioco e qualità cognitive degli alunni, riesumando implicitamente la famigerata “teoria del deficit”.

(2)R: e cche mi racconta dei / dei / dei suoi alunni / dei suoi bambini? / XXX

I: eh: i bambini oggi sono svegli / nel corso degli anni noi insegnanti notiamo che: / da un anno all’altro i bambini sono sempre diversi / più intelligenti / più svegli / la maggior parte parlano tutti in italiano / in ziciliano non ci parla più nessuno. (Giuseppina C., Genitore, V famiglia, Sommatino - CL)

Il parlare in italiano anziché in siciliano diventa, dunque, argomento a favore della tesi per la quale i bambini (italofoni) di oggi sarebbero più intelligenti di quelli (dialettofoni) delle generazioni precedenti.

La consonanza di vedute fra le due “colleghe di sangue” è ancora più significativa se la si confronta con il punto di vista del terzo componente del-la famiglia, Caterina, al momento dell’intervista studentessa di ingegneria.

(3)I: [...] sotto un certo punto di vista è dispia+ | cioè mh:: / dispiace / vedere come il centro storico / viene abbandonato / come ci sono zone del paese completamente vuote / deserte. / per cui anche il recupero del centro storico non sarebbe male come: / diciamo idea da inculcare nei paesani / cioè quindi non / soltanto spostarsi verso il nuovo / ma creare degli ambienti confortevoli

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nel centro storico. / quindi riprendere tipologie edilizie: / proprio: / antiche / eh:: / diciamo quasi in parallelo con la lingua siciliana / riprendere le tipologie / le vecchie tipologie edilizie / che rispecchiano il nostro ambiente [...](Caterina, Figlia, V famiglia, Sommatino - CL)

Nel discorso di Caterina, parlante giovane ma ormai al di fuori del mondo della scuola, il dialetto torna ad essere associato a valori positivi, attraverso l’istituzione di un parallelismo fra recupero delle tipologie archi-tettoniche tradizionali e recupero del dialetto (definito significativamente “lingua siciliana”).

La narrazione delle narrazioni

Autonoma ma, per certi versi, legata al ceppo della narrazione degli at-teggiamenti è un tipo di narrazione “meta”, nato nell’ambito della didattica universitaria, che si è ritagliato nel corso degli anni di cui ci stiamo occu-pando uno spazio e una forza anche euristica. Ci riferiamo alla pratica del metodo autobiografico nel campo della riflessione sulle lingue e sull’espres-sione delle identità socio-linguistiche (col trattino). Essa è stata, nel periodo di cui ci stiamo occupando, impiegata in varie e diverse funzioni4. Se l’ul-timo quindicennio ne ha visto una sistematica applicazione a scopi didattici e di ricerca, negli anni precedenti abbiamo avuto sporadici ma, e forse pro-prio per la loro rarità, esemplari casi di autobiografie linguistiche di linguisti (Nencioni, Francescato, Renzi, De Mauro, Gianna Marcato, Ruffino) o di letterati dotati di una raffinatissima sensibilità ai fatti di lingua (Meneghel-lo). Ora, è appena il caso di notare, visto l’oggetto di questo intervento, che le autobiografie linguistiche di linguisti e letterati sono prodotti testuali rea-lizzati sulla scorta di un’esigenza, autonomamente insorta nei loro autori, di fare ordine nel proprio vissuto di soggetti che allo studio delle lingue e dei linguaggi hanno dedicato tutta quanta la loro esistenza. L’analogo lavoro di riflessione narrativa compiuto da studenti, docenti in formazione, parlanti più o meno avvertiti sul funzionamento delle lingue e sui loro rapporti con le dinamiche sociali è, invece, un processo eterodiretto che, nel caso delle esperienze con una più marcata finalità didattica, punta a indurre gli autori dei testi a impiegare gli strumenti e le categorie propri della linguistica. In tal modo l’osservabile (e il raccontabile) viene dato per scontato, venendo,

4 La bibliografia sull’uso didattico del metodo autobiografico va divenendo corposa. Per una ricognizione rimandiamo ad Arcuri - Paternostro - Pinello (2014).

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di conseguenza, perpetuato nelle forme che la committenza ha (pre)stabili-to. Ora, proprio questo paradosso insito nella sollecitazione cognitiva delle rappresentazioni discorsive dei parlanti costituisce, crediamo, il perimetro ideologico più adatto all’emergere dello stereotipo.

Al di là di questi caveat teorico-metodologici, ciò che qui va notato è che questa “narrazione delle narrazioni” aggiunge uno sguardo ulteriore a quello appena visto, riguardante la costruzione e la trasmissione dello stereotipo attraverso la scuola. Ne abbiamo colto gli effetti sui bambini, lo abbiamo visto in azione e scemare nei racconti dei giovani non più dentro al circuito scolastico. Questi ultimi, in particolare, consentono di gettare un ponte fra i pilastri narrativi che abbiamo sinora considerato. I giovani, infatti, sono i protagonisti sia della narrazione dello sdoganamento sia di quella della evanescenza sia di quella della (liberazione dallo) stereotipo. Nel paragrafo precedente abbiamo presentato un caso che potremmo defi-nire di interruzione del processo di trasmissione familiare dello stereotipo. Proponiamo adesso un esempio di racconto autobiografico della fuoriu-scita dallo stereotipo, nel quale la comunità l’aveva confinata, scritto da una giovane insegnante in formazione, figlia di una maestra elementare di Marineo, piccolo centro a una quarantina di chilometri da Palermo5.

(4)“Tu non lo capisci il dialetto, vero? Lo sai che cosa sono i gidi?”. Ecco che an-cora una volta si presumeva la mia estraneità al dialetto sulla base di un ruolo, che mi stava stretto per tanti motivi: quello di figlia di maestra. [...]e così, a Marineo, nei primi anni ’80, quando nella scuola dominava l’italiano-centri-smo, essere figli di maestra significava incarnare il modello di migliore riuscita dell’insegnamento e cioè, oltre a conoscere la risposta a tutte le domande rela-tive a tutti i campi di sapere (insegnati dal tuo genitore), parlare solo e soltanto l’italiano più puro e più standard che esista! Senza l’ombra impura e scura di nessun dialetto. [...] Non c’era stato in famiglia un esplicito divieto a parlare il dialetto, anzi ricordo bene che i miei genitori, perfettamente bilingui, alter-navano (ed alternano) le due lingue a seconda dei contesti e degli usi. Era solo successo che tutti, si rivolgessero a noi piccoli utilizzando solo l’italiano, mentre tra di loro si divertivano col dialetto(Antonella, insegnante in formazione, Marineo - PA)

5 Il brano fra parte del corpus di autobiografie linguistiche prodotte dagli studenti del Master di II livello in “Teoria, progettazione e didattica dell’italiano come lingua seconda e straniera” dell’Università di Palermo.

59Dallo sdoganamento alla rottamazione?

Nelle parole di Antonella troviamo l’essenza della discrasia fra la per-cezione comunitaria e lo spazio familiare realmente vissuto dai protagoni-sti. Per la comunità, Antonella era una predestinata al successo scolastico perché deteneva il “mezzo magico” per ottenerlo (la figlia della maestra non poteva non parlare in italiano e non poteva sapere, e tantomeno usare, il siciliano). Poco importava che l’uso del dialetto nella sua famiglia non fosse esplicitamente bandito, ma deputato alle interazioni fra adulti, i quali lo riservavano a quelli che il suo immaginario di bambina, definiva “diver-timenti”.

I diversi piani narrativi, come si vede, possono incastrarsi come tes-sere di un mosaico in grado di dare una visione più ampia di quella che può offrire il singolo pezzo. Il lavoro di cucitura da parte del linguista, d’altra parte, non sarebbe un’ingerenza indebita nel sapere del parlante, in quanto la rappresentazione di questo sapere non è, in ogni caso, re-almente libera ma sempre mediata. La rappresentazione del sentimento linguistico risente, infatti, delle tradizioni discorsive “alte” che agiscono sulla comunità.

Verso la narrazione della rottamazione?

Abbiamo già ricordato il ruolo che le indagini condotte dall’ISTAT al-l’inizio del nuovo secolo (2000 e 2006) hanno avuto nel confortare e in parte indirizzare una fetta consistente della produzione scientifica dialetto-logico-sociolinguistica verso quella che abbiamo definito narrazione dello sdoganamento.

La nuova rilevazione sugli usi linguistici in Italia, svoltasi nel 2012 e pubblicata nel 2014 (cfr. ISTAT, 2014) sembrerebbe sancire (pur con le cautele metodologiche segnalate già da Trifone e Picchiorri 2008) una significativa inversione della tendenza registrata nelle analoghe indagini precedenti. Come si vede nella tabella a fine paragrafo, il dato generale indica un’accelerazione dell’avanzamento dell’italofonia esclusiva (dieci punti in più in dodici anni, di cui nove solo negli ultimi sei) e una corri-spondente regressione della dialettofonia esclusiva (che arretra di 2/3 nello stesso periodo).

Ancora più significativa è, però, la rottura di quella “linea del Piave”, sulla quale il dialetto sembrava essersi attestato nell’ultimo decennio, costituita dal suo uso combinato con l’italiano, che dal 1995 al 2006 era costantemente aumentata. Nella situazione “con estranei” l’uso combi-nato, in modalità non meglio precisate, di italiano e dialetto si è addirittura

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quasi dimezzato fra la penultima e l’ultima rilevazione, passando dal 19% a poco meno dell’11%6.

Non abbiamo qui lo spazio per una disamina approfondita dei dati. Segnaliamo solo un altro aspetto del rapporto ISTAT che si collega indi-rettamente a una parte del ragionamento svolto fino a questo momento. Ci riferiamo al fatto che la domanda sulla lingua madre non contempla il dialetto fra le possibili opzioni di risposta. Non poche sarebbero le osserva-zioni da fare circa questa esclusione, che in passato, a differenza di quanto accaduto per altre scelte metodologicamente e teoricamente opinabili, non è stata a nostro avviso adeguatamente discussa. Proviamo qui schematica-mente a segnalare alcune delle questioni che l’esclusione del dialetto dal novero delle possibili lingue madri solleva.1. Impedisce di tratteggiare una fisionomia attendibile del plurilinguismo

dell’Italia contemporanea.2. Offre una indiretta spiegazione dello scarso interesse per lo studio dei

processi di apprendimento del dialetto come L2 segnalato da Moretti (se il dialetto non è L1 non può nemmeno essere L2).

3. Rafforza sul piano politico lo stereotipo sulle differenze fra lingua e dialetto, confermando la marginalità (se non l’irrilevanza) e, in genera-le, lo scarso prestigio di cui godono le discipline linguistiche nel dibat-tito pubblico (cfr. Telmon, 2013)7.

4. Mantiene la confusione terminologica fra lingua madre e L1.5. Trasferisce su un piano di ufficialità, per così dire, di fatto, quella ten-

denza al monolinguismo inconsapevole rilevata da Tessarolo e Gaddi

6 Andrebbe anche approfondito il dato relativo all’ulteriore contrazione della per-centuale di quanti, in tutte le situazioni comunicative indagate (“famiglia”, “amici”, “con estranei”) scelgono l’opzione “altra lingua”. Se consideriamo che, come stavolta precisa esplicitamente il rapporto, rispondono ‘altra lingua’ per lo più “cittadini di nazionalità di-versa da quella italiana” (ISTAT, 2014: 2) possiamo inferire che le alloglossie storiche hanno subito un drammatico decremento.

7 Tale irrilevanza (più che indifferenza) si coglie anche nei documenti su cui si basa la più generale politica educativa dell’Unione Europea. Se si legge tra le righe della Guida per l’elaborazione delle politiche linguistico-educative in Europa, si può giungere alla conclusione che il plurilinguismo è una risorsa spendibile sul mercato linguistico solo se esso va oltre una competenza plurilingue sviluppata “allo stato di potenzialità [...] o solo per alcune varietà molto prossime alla prima lingua. Uno degli scopi delle politiche linguistiche è quello di fare emergere questa potenzialità nella coscienza dei locutori, di valorizzarla e di estenderla ad altre varietà” (Consiglio d’Europa, 2007: 40-41). Insomma, pare di capire che i repertori costruiti attorno a relazioni gerarchiche fra varietà di tipo diglossico o dilalico abbiano una qualità plu-rilingue inferiore a quella di repertori in cui le varietà sono meno “prossime” alla prima lingua.

61Dallo sdoganamento alla rottamazione?

(2001), ignorando la presenza, dall’indagine ancora confermata, di un bilinguismo di transizione, seppur in fase di progressiva regressione.

Da questa esclusione muove la provocatoria proposta di verificare in che termini si possa oggi, ricorrendo anche stavolta a una metafora tratta dal linguaggio politico (quella della renziana “rottamazione”), prefigurare una nuova fase del racconto dei rapporti interni al repertorio.

Tabella 1 – Cambiamenti nell’uso dichiarato di italiano, dialetto e altra lingua, in tre diversi contesti relazionali, in soggetti dai 18 ai 74 anni (periodo considerato: 1995-2012: fonte: ISTAT, 2014)

Anni

in fAmigLiA Con AmiCi Con estrAnei

Solo o prev.

it.

Solo o prev.

dia.

Sia it.sia dia.

Altralingua

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it.

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dia.

Sia it.sia dia.

Altralingua

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it.

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dia.

Sia it.sia dia.

Altralingua

1995 43,2 23,7 29,5 1,4 46,1 16,4 33,5 1,3 71,4 6,3 19.1 0,82000 43,3 18,8 34,0 3,1 47,3 15,6 33,8 2,5 73,6 5,9 18,7 0,92006 44,8 15,0 34,0 5.3 48,2 12,1 34,3 4,3 73,9 4,5 19,0 1,62012 53,1 9,0 32,2 3,2 56,4 9,0 30,1 2,2 84,8 1,8 10,7 0,9

Conclusioni: l’osservabile sceglie la narrazione, la narrazione lo modella

Quelli che abbiamo presentato sono soltanto alcuni dei modi in cui il dialetto è stato “raccontato” dalla dialettologia “scientifica”. Come osserva Telmon (2013), negli ultimi due lustri, grazie anche al suo mutato atteggia-mento, essa ha iniziato un nuovo e meno “vampirizzante” rapporto con il territorio. Ne sono la prova le esperienze di restituzione alle comunità dei materiali raccolti e trattati per i più diversi progetti di ricerca. Di queste iniziative le più interessanti e metodologicamente innovative sono costituite proprio da quei progetti di disseminazione (come usa dire oggi) delle cono-scenze acquisite in decenni di ricerche che si servono di tecniche narrative multimediali. Segnaliamo solo il pregevolissimo progetto, curato nella parte linguistica da Rosanna Sornicola e Nicola De Blasi, di organizzazione di un percorso di narrazione multimediale dei materiali degli archivi dialettali campani, a cui si riferiscono i contributi di De Blasi, Di Salvo e di Abete in questo stesso volume.

Ragionare in termini di racconto aiuta in primo luogo a capire qualcosa di più dell’atteggiamento che dell’osservabile ha chi decide di assumere uno dei punti di vista che abbiamo qui voluto discutere. Inoltre, questo modo di procedere consente di cogliere il permanere della necessità di rivi-

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sitare (invero più nella pratica di ricerca che nella consapevolezza teorica) il concetto di ‘dialetto’ sul quale le narrazioni che abbiamo qui discusso si basano.

Tutto questo richiama l’immagine di un osservabile modellato dagli strumenti usati per indagarlo. Pur consapevoli della quasi impossibilità di darne una visione olistica, pensiamo tuttavia che sia possibile costruire al-meno uno sguardo sinottico che restituisca un’immagine in cui i diversi punti di vista possano utilmente convergere per interpretare la complessità della realtà sociolinguistica senza farla apparire euristicamente anomica.

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