Il denaro sterco del demonio

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Cos’è il denaro? Quando e perché è nato? Il denaro è una logica affascinante ma tremendamente insidiosa che ha finito per soggiogarci e determinare gli stili, i ritmi, le modalità e gli scopi della nostra vita, disegnando prospettive inquietanti. Se dal punto di vista individuale il denaro è un credito, preso globalmente è un debito sempre più colossale che stiamo accumulando col futuro

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«Tascabili Marsilio» periodico mensile n. 191/2003

Direttore responsabile Cesare De MichelisRegistrazione n. 1138 del 29.03.1994del Tribunale di VeneziaRegistro degli operatori di comunicazione-Roc n. 6388

© 1998, 2003 by Marsilio Editori® spa in VeneziaPrima edizione: aprile 2003ISBN 88-317-8247-9www.marsilioeditori.it

Senza regolare autorizzazione e vietata la riproduzione,anche parziale o a uso interno didattico,con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia

Stampato daGrafica Veneta s.r.l., Trebaseleghe (PD)

INDICE

PARTE PRIMA. CHE COS'E' IL DENARO?

9 I. L'orsetto e la Lollo (a mo' di prefazione)15 II. Che cos'e il denaro

PARTE SECONDA. LA LUNGA MARCIA DEL DENARO

43 III. L'Eden59 IV. Interludio75 V. La nascita del denaro

103 VI. «In sonno»145 VII. Il tempo del denaro189 VIII. La societa virtuale

PARTE TERZA. IL DENARO COME FINE E LA FINE DEL DENARO

213 IX. Il denaro come stile di vita239 X. Il denaro come forma della politica265 XI. Il denaro come fine e la fine del denaro

281 Bibliografia286 Indice dei nomi

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PARTE PRIMA

CHE COS'E IL DENARO?

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I.

L'ORSETTO E LA LOLLO(a mo' di prefazione)

Frequentavo la terza alle elementari di via Galvani, aMilano. Un ragazzo di quinta mi agganciò ai gabinetti.Aveva adocchiato un orsetto bruno che i miei mi aveva-no regalato a Natale insieme ad altri animali e soldatinidi terracotta. Mi propose un affare: lo scambio con lafoto formato tessera di una testina di Gina Lollobrigida.Avevo otto anni e delle donne non mi importava nésapevo nulla. Nemmeno delle bambine perché allora al-le elementari, alle medie e persino nei licei vigeva la piùrigorosa apartheid. Guardai la foto e dissi che non miinteressava. «Ma è un'attrice. È considerata la donna piùbella del mondo, tutti vorrebbero avere una sua fotogra-fia» insistette il mio Lucignolo. Cominciai a essere ten-tato e alla fine mi lasciai convincere. Il ragazzo di quintaagguantò il mio orsetto di terracotta e a me rimase lafoto della Lollo. La conservai a lungo, in un cassettosegreto, solo perché mi ricordava l'orsetto perduto.

Racconto questo aneddoto non tanto per sottolinearela mia dabbenaggine ma perché in quel semplice atto c'èparecchio che ha a che fare col denaro sia pure allostadio primordiale. C'è lo scambio, il baratto, il riferi-mento a un elemento «terzo», il valore che la comunitàattribuisce a un determinato oggetto, e quindi un'allu-sione al prezzo, al mercato, al meccanismo della doman-da e dell'offerta. Inoltre nel mio infantile rimaner legato,

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attraverso la foto della Lollobrigida, all'orsetto si ritrovala concezione primitiva che gli oggetti mantengonoqualcosa della persona che li aliena e hanno essi stessiun mana, un'anima. Concetto che nella storia dell'uomoha impedito per un certo tempo che il trasferimento dibeni fosse una mera partita burocratica, una semplicecompravendita basata sulla pura razionalità, sbarrandocosì a lungo il passo allo sviluppo del denaro.

Il lettore osserverà, forse, che uno che, sia pur a ottoanni, si dimostra così sprovveduto negli affari e si fabuggerare con tanta facilità è il meno indicato a trattarequestioni che riguardano i quattrini. Effettivamente nonmi è mai interessato il denaro. Provengo da una famigliaborghese dove di soldi non ce n'erano né tanti né pochicosì da doversene preoccupare. A questo disinteressecontribuì molto anche mio padre che, nel suo puritane-simo, non volle mai darmi del denaro e solo verso i mieiquindici o sedici anni si decise a pagarmi una «mancia»settimanale («Perché tu impari ad amministrarti», dissecon solennità) che era ridicola anche per quei tempi,venti lire, e che fu occasione di infinite irrisioni da partedei miei compagni.

Devo dire però che allora, negli anni Cinquanta e neiprimissimi Sessanta, per noi ragazzi il denaro avevapochissima importanza. Fossimo figli di borghesi o diproletari conducevamo tutti, più o meno, la stessa vita,ci vestivamo nel medesimo modo, facevamo le stessecose. Negli ambienti circoscritti in cui vivevamo, lascuola, la strada di sotto e, d'estate, i Bagni, era moltodifficile apprezzare le differenze perché, anche se c'era-no, non si vedevano.

A volte, raramente, c'era qualche «figlio di papà» chemostrava un po' di lusso ma in luogo di essere ammira-to, adulato e circuito era disprezzato come individuotendenzialmente poco virile. Un «fighetta». Quel checontava fra noi era chi giocava meglio al pallone, tirava

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con precisione di cerbottana e, più avanti, filava con leragazze più belle.

Anche fra gli adulti ostentare la ricchezza era conside-rato disdicevole. Il buon Giovanni Borghi, il patrondella Ignis, un self made man cui piaceva pavoneggiarsiperaltro in modo molto naif e in definitiva innocente(«S'el custa? Cumpri mi»), era bersaglio di feroci presein giro. In ogni caso era ancora largamente diffusa «l'eti-ca della povertà dignitosa»: il povero non era considera-to un reietto, un paria, un relitto della società. Non sidubitava che si potesse essere poveri e felici. Esistevanoaltri valori che non erano legati alla forza del denaro.

Nel corso degli anni e di pochi decenni ho visto que-sta cultura essere spazzata via e il denaro diventare l'uni-co valore realmente condiviso. La cosa, ovviamente, nonriguarda la società italiana in particolare (noi anzi abbia-mo imboccato questa strada più tardi di altri) ma tutti iPaesi industrializzati e ormai, nella globalizzazione e nel-l'interdipendenza delle economie, anche non industria-lizzati. Oggi tutto, o quasi, è denaro, tutto dipende daldenaro, tutto si riconnette al denaro. Il denaro, con lasua straordinaria fluidità, si infila in ogni anfratto dellanostra esistenza. E tanto più si smaterializza e diventaquasi invisibile tanto più incombe, determina gli stili divita, diventa il fine primario. Non è possibile ignorarlo.

Per cercare almeno di comprenderlo, mi sono gettatoquindi, con la voracità del neofita, nello studio di testidi economia, di storia, di antropologia, di filosofia, disociologia, di psicologia, di diritto, di numismatica, per-ché il denaro attraversa tutte queste discipline e forsemolte altre ancora. Ho letto, o riletto, Smith, Ricardo,Malthus, Sismondi, Galiani, Mandeville, Walras, Marx,Bùcher, Rostow, Schumpeter, Sombart, Simmel, Weber,Dopsch, Malinowski, Mead, Polanyi, Heichelheim, Key-nes, Bloch, Braudel, Cipolla, Samuelson, Mathieu, Sorose tanti altri. Sarei presuntuoso oltre che un illuso se

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dicessi che ho completamente digerito questa full im-mersion. Probabilmente gli specialisti, e non solo loro,troveranno approssimazioni, inesattezze, errori e forseanche autentiche sciocchezze e tautologie di cui del restola storia del denaro è piena. Me ne consolo pensando allecastronerie che sono riusciti a dire in materia non solouomini sommi ma antichi come Aristotele, cui va co-munque l'attenuante, e il merito, di essere stato il primoad affrontare l'argomento, ma anche specialisti modernie modernissimi a cominciare da Lord Maynard Keynesper finire ai teorici delle «aspettative razionali» che sonol'ultimo grido dell'economia, anzi della macroecono-mia1. Di una cosa però sono certo: con il denaro è an-data come con tutto il resto. Da utile mezzo è diventatofine, da servo si è fatto padrone, crediamo di maneggiar-lo e invece ci manipola, crediamo di usarlo e invece ciusa, crediamo di muoverlo e invece ci fa muovere, anzitrottare, crediamo di possederlo e invece ci possiede.Inoltre, considerato globalmente, il denaro ha raggiuntoun tale stratosferico volume e lo abbiamo caricato di taliaspettative che, prima o poi, gonfiato a dimensioni oni-riche, imploderà con conseguenze devastanti.

È la storia del rapporto fra uomo e Tecnologia (o, sesi preferisce, fra uomo e Cultura), dove finiamo imman-cabilmente per essere soggiogati dai meccanismi cheabbiamo creato, ragni prigionieri della propria tela.

E il denaro è forse il più raffinato strumento dellatecnica perché è puramente concettuale. Ha scritto Vit-torio Mathieu, autore di una pregevole Filosofia del de-naro: «Né sulla Terra né in cielo troviamo un'altra isti-tuzione umana o realtà naturale che si avvicini al mododi essere e di agire del denaro. Esso agisce senza essereuna cosa fisica e senza essere neppure legato alla materiase non come simbolo»2.

Il denaro, che va distinto dalla moneta in cui si incar-na, così come lo Spirito nell'ostia consacrata, anche se

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insieme formano un unico corpo mistico, è un concetto,un'idea, una logica, un'astrazione, che però, come ognu-no di noi sperimenta nella pratica quotidiana, ha unasua inequivocabile concretezza. Alfred Sohn-Rethel, conefficace ossimoro, lo ha definito «un'astrazione reale»3.Ed è questa doppia natura che rende il denaro am-bivalente, ambiguo, sfuggente, enigmatico, indefinibile,inafferrabile. Tanto da far dire a Gladstone che «nem-meno l'amore ha fatto impazzire tanti uomini quanti nesono impazziti scervellandosi sulla natura del denaro»4.Ma, a differenza dell'amore, il denaro è un fatto esclu-sivamente umano. Più del linguaggio, cui viene spessoapparentato, perché questo appartiene anche agli ani-mali. Forse solo la scrittura e la matematica possonoessergli paragonate. Ma il denaro le supera perché lericomprende entrambe, infatti è segno ed è numero.

Essenzialmente umano (forse troppo umano, direbbeNietzsche), il denaro è anche sovrumano o oltreumanoperché, essendo fuori dalla materia, ha una natura me-tafisica. Non è un caso che in tutti i libri che se neoccupano in senso non strettamente economico sianofrequenti gli accostamenti al divino o al diabolico. DiceMartin Luterò: «Il denaro è parola del diavolo, per mez-zo della quale egli crea ogni cosa nel mondo, propriocome Dio crea attraverso la parola di verità»5.1 teologi,cristiani e musulmani, soprattutto medievali, sono sem-pre rimasti impressionati dalla capacità di possessionedel denaro e dalle devastazioni che può compiere nel-l'animo umano. Più laicamente i marxisti ortodossil'hanno dannato perché sarebbe «lo strumento per ap-propriarsi del lavoro altrui»6. Gli psicoanalisti lo appa-rentano allo sterco, per il piacere che se ne trae sia nel-l'espellerlo che nel ritenerlo.

Ma se è sterco è uno sterco molto speciale, trascen-dente e metafisico: è, per dirla ancora con Lutero, losterco del Demonio7.

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1 Per la verità è già il penultimo. La teoria delle «aspettative razionali»,che ha dominato la scena negli anni '70 e '80, influenzando statisti, governi,politiche, era di moda fino all'altro ieri, quando cominciai a concepire questolibro. Nel frattempo le cose sono cambiate. Attualmente, come spesso, pernon dir sempre, accade in economia, che pur ha preteso, e pretende, di porsicome scienza, basata addirittura su «leggi naturali», la teoria delle «aspetta-tive razionali» è considerata perfetta dal punto di vista dottrinario ma com-pletamente disattesa dalla realtà. Insomma una patacca. Cfr. J.P. Fitoussi, 11dibattito proibito, Il Mulino 1997, pp. 73-81.

2 V. Mathieu, Filosofia del denaro, Armando 1985, p. 31. Nel prosieguoci serviremo spesso, come antiesi, dell'opera di Mathieu, benché egli non siaun economista ma un filosofo, perché è una sorta di paradigma e di résumé,scevro da dubbi, del pensiero economico classico, il che ci ha evitato diinsistere troppo sul raffronto diretto con autori lontani nel tempo e dallo stileostico per il lettore moderno.

3 A. Sohn-Rethel, Il denaro, l'apriori in contanti, Editori Riuniti 1991,p. 32.

4 C. Boffito, Enciclopedia Einaudi, voce Moneta, 1980, voi. ix, p. 451.5 M. Lutero, Tischreden (Discorsi a tavola), Weimar 1921, voi. i, n. 391.6 K. Marx, Il Capitale, III, V, 36.7 M. Lutero, Opere, Weimar 1883.

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II.

CHE COS'È IL DENARO

Tradizionalmente le funzioni del denaro sono quat-tro: 1) Misura del valore; 2) Intermediario nello scam-bio; 3) Mezzo di pagamento; 4) Deposito di ricchezza.

Niente da dire sulle prime tre. Ma togliamoci dallatesta che il denaro sia ricchezza o che la rappresenti. Daquesto punto di vista il denaro non è nulla, un puroNulla. Se ne accorsero gli spagnoli agli albori del xvnsecolo quando, dopo aver rapinato agli indios d'Ameri-ca tutto quanto poterono d'oro e d'argento (la monetadei tempi, in Europa), si trovarono più poveri di prima.Nel suo Memorial del 1600, Gonzales de Collorigo scris-se con icastica lucidità: «Se la Spagna è povera è perchéè ricca»1. E Pedro de Valencia, nel 1608: «II male èvenuto dall'abbondanza di oro, argento e moneta, che èstato sempre il veleno distruttore delle città e delle re-pubbliche. Si pensa che il denaro è quello che assicurala sussistenza e non è così. Le terre lavorate di genera-zione in generazione, le greggi, la pesca, ecco quel chegarantisce la sussistenza delle città e delle repubbliche.Ciascuno dovrebbe coltivare la sua porzione di terra equelli che vivono oggi della rendita e del denaro sonogente inutile e oziosa che mangia quello che gli altriseminano»2.

Si dirà che sono balbettii di economisti alle primearmi, nemmeno consapevoli di esserlo, ancora cultural-

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mente ed emotivamente legati al mondo medievale incui il denaro, oltre ad avere scarsa circolazione, fu sem-pre tenuto in gran sospetto. Ma Sismondi, che è attivodue secoli dopo, quando l'economia classica, con Smith,con Ricardo, con Malthus, con Say, ha già fatto irruzio-ne nella Storia e si è posta come scienza, scrive: «Au-mentando il numerario di un paese senza aumentarne ilcapitale, senza aumentarne il reddito, senza aumentarneil consumo, non lo si arricchisce, non se ne stimola illavoro»3. E per capitale Sismondi intende, come Collo-rigo e Valencia, terra, bestiame, strumenti, abitazioni,lavoro, cioè beni materiali.

Nel 1929 gli americani che avevano investito nellaBorsa di New York si ritenevano ricchissimi ma bastòche qualcuno non credesse più nel valore di quelle azio-ni (che, come vedremo, sono denaro a tutti gli effetti),trascinando a valanga gli altri, perché quella ricchezza sirivelasse per ciò che era: carta straccia. L'unico utilizzoragionevole che se ne potè fare fu di incorniciarla a ri-cordo di una follia collettiva. Il valore di una muccainvece, per quanto possa variare, non può essere ridottoa zero, ci ricaverò sempre del latte o, alla mala parata, nefarò bistecche.

Della inconsistenza del denaro, inteso come ricchez-za, si era già reso conto Aristotele, che nella Politicascrive: «Taluni ritengono la moneta un non senso, unasemplice convenzione legale senz'alcun fondamento innatura, perché cambiato l'accordo fra quelli che se neservono, non ha più valore alcuno e non è più utile peralcuna delle necessità della vita, e un uomo ricco didenaro può spesso mancare del cibo necessario: certo,strana davvero sarebbe tale ricchezza che, pur se posse-duta in abbondanza, lascia morire di fame, come appun-to il mito tramanda di quel famoso Mida»4.

Ma torniamo ai giorni nostri. I primi 385 miliardari delmondo posseggono un patrimonio che è pari al reddito

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complessivo di Paesi che rappresentano il 45% dellapopolazione mondiale5, e Berlusconi con i suoi cinquemiliardi di dollari, secondo le stime di Forbes, ha unpatrimonio pari al reddito di tutti gli abitanti del Niger.Ma se riversassimo sul Niger non solo il patrimonio diBerlusconi ma anche quello degli altri 384 miliardariquesto Paese, se lo ipotizziamo come una monade chiusa,non sarebbe, per ciò solo, più ricco di un ette. Si scate-nerebbe semplicemente una formidabile inflazione6.

Il risparmio è ritenuto una fonte fondamentale dellaricchezza di una nazione. Prendiamo allora i Bot (dena-ro anch'essi) che sono in assoluto la forma più comunee diffusa di risparmio degli italiani. Cosa sono i Bot?Rappresentano un credito che i cittadini hanno verso loStato, ma poiché lo Stato altro non è che la comunità deicittadini, i Bot sono un credito che gli italiani hannoverso se stessi. Si tratta di una partita di giro. Per ilsistema-Italia la somma è zero7.

Si comprende forse meglio il senso degli esempi ete-rogenei e un po' abborracciati che abbiamo affastellatofin qui se invece di una singola somma consideriamo ildenaro nel suo complesso. Io posso essere certamentedisposto a scambiare la mia mucca per denaro ma noncambierei mai tutti i beni del mondo con tutto il dena-ro del mondo. Perché non saprei cosa farmene. SpiegaGeorg Simmel, autore di una fondamentale Filosofia deldenaro: «La scelta fra la totalità dei concreti oggetti divalore e la totalità del denaro rivelerebbe subito la suainterna mancanza di valore, perché avremmo soltantoun mezzo e nessun fine per cui utilizzarlo»8. Se prendoun individuo singolo e lo privo di tutto il denaro costui,in una società strutturata come la nostra a economiamonetaria, muore di fame, ma se prendo tutto il denarodel mondo e lo butto nel cesso l'umanità vive lo stesso.Il denaro non aumenta di nulla la ricchezza del mondo,perché può acquistare unicamente ciò che c'è già, può

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trasferire solo la titolarità della proprietà delle cose. Puòspostare ricchezza, non è esso stesso ricchezza.

Considerato in maniera statica il denaro sembra quin-di privo di qualsiasi valore. Ma, obbietta Vittorio Ma-thieu, il valore del denaro non va misurato sul passato enemmeno sull'esistente: «il valore del denaro dipendedal futuro»9. Perché, come vedremo meglio fra poco, ildenaro ha la capacità di far lavorare qualcuno a favoredi chi lo possiede10 o, per dirla più brutalmente conAdam Smith, di «comandare lavoro»11 e quindi è unostimolo a produrre ricchezza. Non è una ricchezza at-tuale, ma eventuale, potenziale, aleatoria. Ma anche con-siderato sotto questo punto di vista il denaro non fa chesollecitare energie che già ci sono (e solo se ci sono) eche potrebbero benissimo attivarsi anche senza di esso.Al massimo un buon lubrificante.

Il fatto che il denaro abbia questa particolare e indub-bia capacità di «far lavorare» non ci dice quindi che essoè di per sé una ricchezza, nel senso materiale e comunein cui generalmente la intendiamo, ma un'altra cosa: chegli uomini, almeno nella loro maggioranza, credono aldenaro. E a sua volta questa fede nel denaro non ci dicenulla nemmeno sulla sua reale esistenza. Così come ilfatto che gli uomini credano in Dio non dimostra l'esi-stenza di Dio. Ciò non toglie che la credenza in Dio,come quella nel denaro, e come ogni grande illusione,abbia il potere di muovere il mondo. E questo è il pun-to. Che cos'è che dà al denaro, che non è ricchezza, chedi per sé non ha valore, se non quello, modesto, di stru-mento, di cui gli uomini potrebbero benissimo fare ameno, e di cui, in realtà per lungo tempo hanno fatto ameno, la forza di muovere il mondo? In altre parole:qual è l'essenza del denaro?

Abbordiamo la questione da un'altra angolazione eprendiamo per buona la classica distinzione di Marx fra

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valore d'uso e valore di scambio12 che discende, nellasostanza, dall'altrettanto classica dicotomia formulata daAristotele fra produzione per l'uso e produzione per ilguadagno13. Il valore d'uso è l'utilità che la cosa ha perchi la possiede e direttamente la consuma, il valore discambio è quello che la cosa acquista trasferendola adaltri. Ogni cosa per avere un valore di scambio deveavere prima un valore d'uso (in altri termini deve avereun'utilità intrinseca). Il denaro ha un valore di scambiosenza avere un valore d'uso (e questo è il primo dei tantiparadossi che il denaro porta con sé). Il denaro puòessere consumato solo scambiandolo, si risolve cioè nel-la sua funzione, che è appunto quella di intermediarionello scambio.

Non bisogna farsi fuorviare dal fatto che il denaro,soprattutto agli inizi della sua lunga storia, si sia incar-nato in oggetti, animati o inanimati, che avevano ancheun'utilità intrinseca e quindi un valore d'uso (bestiame,pelli, riso, tabacco, sale, metalli nobili come l'oro e l'ar-gento14: la cosiddetta moneta-merce). Bisogna cioè di-stinguere il denaro, dalla moneta che è il suo supportomateriale. Il denaro svolge tanto meglio la sua funzionedi intermediario nello scambio quanto minore è il valoredel materiale che gli fa da supporto. Spiega Mathieu:«Una mercé diviene denaro nella misura in cui il suovalore di scambio diverge dal suo valore d'uso... Al limi-te se una moneta fosse così buona che ciascuno si attac-casse ad essa come a un bene in sé, essa non servirebbeda moneta»15. Non servirebbe da intermediario nelloscambio, cioè da denaro, non sarebbe denaro.

Il denaro raggiunge la sua perfezione e la sua purezzaquanto più si smaterializza. Perché il denaro in quantotale non esiste in natura: è un'astrazione. Infatti in qual-siasi forma si presenti (moneta-mercé, oro, monete me-talliche, cartamoneta, banconote, azioni, obbligazioni,registrazioni in conto corrente, impulsi elettronici, tacca

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con cui il barista segna che gli devo un caffè) il denaroè una promessa. Funziona da intermediario nello scam-bio non perché è un valore materiale ma in quanto è unapromessa. Altrimenti si tratterebbe di un baratto, di unsemplice scambio di cosa contro cosa. Chi detiene ildenaro è in possesso di una promessa che qualcuno, peril momento indefinito, farà qualcosa per lui (gli forniràuna mercé, un servizio, eccetera).

La moneta invece è il segno dell'esistenza di questapromessa e, nel migliore dei casi e per quanto possibile,la certificazione che ha i titoli per essere onorata. È perquesta funzione di garanzia che sulle nostre mille lire staancora scritto, anacronisticamente, «pagabili a vista alportatore» nonostante ciò che è «pagabile» non siache... un altro biglietto da mille lire. Se il denaro è unapromessa, la moneta è una convenzione con la quale siconcorda che un determinato oggetto funziona comegaranzia di tale promessa, come titolo di credito16. Infat-ti, seguendo Schumpeter, il denaro, quale che sia la suaforma, è sempre un creditoll. E il credito, nella accezio-ne specifica e tecnica del termine, è denaro nel suo statopiù puro. Rende esplicito ciò che nella moneta è impli-cito: essere il denaro una promessa di pagamento. Ladifferenza è che il denaro in forma di moneta è un cre-dito erga omnes, finché non lo spendiamo non sappiamochi è il debitore.

In quanto promessa e credito il denaro si basa sullafiducia laddove la moneta, che lo garantisce, o pretendedi farlo, esprime piuttosto la diffidenza. Scrive Mathieuche la moneta serve «per coprire i movimenti di denaroche sarebbero resi impossibili dalla diffidenza»18. Sepuò quindi esistere una moneta che non è fiduciaria, inquanto il suo valore è coperto, in tutto o in parte, dallasua utilità intrinseca (moneta-mercé o oro, per esempio),il denaro allo stato puro è sempre fiduciario.

In quanto promessa e credito basati sulla fiducia il

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denaro si lega al tempo, a quel tempo particolare che èil futuro. La fiducia nel denaro è fiducia nel futuro. Ildenaro è, attraverso la fiducia, il trait d'union fra pre-sente e futuro. E qui sta il nocciolo duro dell'intera que-stione-denaro. È questo aggancio col futuro che dà aldenaro la sua forza, la sua devastante capacità di attra-zione e di azione. Perché l'uomo, soprattutto l'uomomoderno, è un essere che si progetta, si proietta, coltivaillusioni.

Per contro da questo legame col futuro, dal suo esserefuturo, il denaro deriva anche l'inafferrabilità, l'indefini-bilità, il carattere sfuggente, la natura metafisica. Perchéil futuro è solo una rappresentazione della mente: è untempo inesistente. Che le cose stiano in questo modo loammette, nella sostanza, anche Mathieu: «II passato c'è,quanto meno nei suoi risultati; il presente c'è in attocome risultato del passato. Ma il futuro, che è poi ildenaro, non c'è, né in sé, né nei suoi effetti che "non ci

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mal interpretando, un economista belga dei primi delNovecento, Silvio Gesell, proponeva di applicare ognimese sui biglietti di banca un bollino che ne decurtasseil valore dell'uno per cento21. Pound confonde il denarocon la moneta. In effetti per la moneta sono sempre statiprivilegiati materiali il più possibile inossidabili al tem-po. La fortuna dell'argento e soprattutto dell'oro comemonete, almeno in Europa, è dovuta al fatto che duranonel tempo senza subire apprezzabili alterazioni fisiche.Sui mercati d'Africa e d'Oriente l'oro ha vinto, sia purdopo una lotta secolare, la concorrenza della conchigliacauri non perché più «prezioso» (erano gli europei aritenerlo tale, gli africani gli preferivano di gran lunga icauri) ma perché le conchiglie si usurano e si spezzano.E anche quando fu introdotta una moneta piuttostovolatile come la banconota, essa, fino a tempi recentis-simi, rimase legata a un materiale durevole come l'orosia pur nelle varie versioni che ha assunto il gola stan-dard dal 1800 al 1971, anno del definitivo abbandono diqualunque convertibilità aurea. La moneta quindi è, al-meno tendenzialmente, inalterabile. Il denaro invecepatisce gli insulti del tempo, si deteriora. Ed è un altrodei suoi paradossi. Perché un'astrazione è, per definizio-ne, indistruttibile. Il denaro invece deperisce più o me-no lentamente a causa dell'inflazione, che è un fenome-no costante che lo accompagna dalla nascita, o dellasvalutazione. Ma poiché il denaro non esiste, è un credo,una fede, un'illusione, può sparire anche di colpo o inpochissimi giorni. Sismondi fa un divertente elenco dicasi, a lui vicini nel tempo, in cui il denaro si volatilizzò:l'antica Banca di Copenaghen fu costretta a sospenderei pagamenti nel 1745; rifondata nel 1791 collassò nuova-mente nel 1831; la Banca di Vienna sospese i pagamentinel 1797; e la Banca di Stoccolma, la prima Banca cen-trale comparsa al mondo, nel 1762 pagava soltanto 1/96dei suoi debiti originari22. Più recentemente si possono

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ricordare la grande inflazione che colpì gli Stati Unitidopo la guerra di secessione (al Sud la moneta perse il98,4% del suo valore) e quella, ancor più devastante, diWeimar che in pochi mesi cancellò l'intero risparmiotedesco, o il crollo di Wall Street del '29. Ma è soprat-tutto il caso di Weimar a essere estremamente significa-tivo perché dimostra, con nitidezza, oserei dire, classica,che il denaro non esiste, è un fatto puramente psicolo-gico, un atto di fede.

Il primo gennaio del 1923 un dollaro vale già la ri-spettabile somma di 7340 marchi (Papiermark). A metàmese è salito a 10 mila, il 18 gennaio a 23 mila, il 31 a41 mila. C'è un breve periodo di respiro, ma a maggiosi riparte. Il 15 maggio il dollaro quota 46 mila marchi,il 31 maggio 70 mila, il 15 giugno 108 mila, il 31 giugno154 mila. In questo momento la paga settimanale di unoperaio è di 632 milioni di marchi, ma deve essere ag-giornata ogni 24 ore. Il 31 luglio il dollaro tocca la quotadi un milione di marchi, il 15 agosto di 4 milioni , il 31di 10 milioni. Una cartolina postale costa 40 miliardi dimarchi. A metà novembre si scambiano 1260 miliardi dimarchi per un dollaro. Ma non è ancora finita: il 24novembre il dollaro vale 4210 miliardi di marchi. Sonoin circolazione 400.338.326.350.700.000.000 Papier-mark, vale a dire 400 miliardi di miliardi.

Il marco non esiste più. A questo punto la Reichs-bank emette, accanto al vecchio Papiermark, una nuovamoneta, il Rentenmark, e fissa il cambio: un dollaro vale4,2 marchi, come prima della guerra. Il vecchio Papier-mark, ancora formalmente in vigore, viene definitiva-mente polverizzato. Invece il Rentenmark regge la pro-va. Cos'è successo? Ce lo racconta Roberto Giardinanella sua bella Biografia del marco tedesco: «II governogarantisce la valuta con terreni e foreste il cui valore inrealtà non potrebbe mai essere realizzato. Si tratta - èevidente - di una copertura simbolica, che non offre la

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minima garanzia [..] ma scatta una molla nell'animodei tedeschi affamati. Si ha fiducia nel Rentenmark sem-plicemente perché si è deciso di avere fiducia, una tau-tologia che salva la Germania»23. Il Rentenmark è lostesso, stessissimo marco di sempre, ha solo cambiatonome e colore. Ciò che realmente è mutato è l'atteggia-mento mentale dei tedeschi che hanno deciso di tornarea credere nel futura. Cioè nel denaro.

Certo oggi l'economia monetaria è più avvertita, piùscaltra e smaliziata di quanto non fosse nel '23 in Ger-mania e nel '29 negli Stati Uniti. Ma, soprattutto, èmolto più integrata ed è estesa all'intero pianeta. Cosìquando si apre una falla in qualche punto del sistema siinterviene dall'esterno. Come? Immettendovi altro de-naro, cioè rilanciando sul futuro. Così è stato fatto colMessico nel gennaio del '96, nella crisi del Sud-Est asia-tico dell'estate-autunno del '97, con quella russa delluglio '98 e, cercando di prevenirla, con quella brasilianadell'agosto-novembre del '98, sfociata poi, nonostanteun prestito di 41,5 miliardi di dollari, nel crack del gen-naio del '9924. Ciò vuoi dire semplicemente che il giornoin cui non si riuscisse a turare la falla (e con le minac-ciose crisi del Giappone e della Russia quel giorno po-trebbe non essere lontano) la deflagrazione, invece diessere circoscritta a questo o a quel Paese, a questa o aquell'area, sarà planetaria.

Un assaggio di ciò che prima o poi, probabilmentepiù prima che poi, accadrà si è avuto proprio con la crisidelle «piccole tigri», lo scorso anno, il processo è partitoda un Paese che non era nemmeno una «piccola tigre»ma solo un aspirante, e quindi economicamente di pocorilievo, la Thailandia che nel luglio del '97 fu costretta asvalutare la propria moneta, il baht, nome allora deltutto sconosciuto al di fuori della cerchia degli addetti ailavori. Dopo il baht toccò al ringgit malese, al dollaro diSingapore e, per ultimo, a metà ottobre, al dollaro di

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Taiwan, forse la più tigre di tutte le «piccole tigri». Lacaduta di Taiwan provocò l'immediato crollo della Bor-sa di Hong Kong che dopo un momento di suspense, sitrasferì a quella di Tokyo. E fu il finimondo.

Lunedì 27 ottobre, nel giro di 24 ore o poco più,crollarono Wall Street, le principali Borse europee conuna punta di -19% a Mosca, le Borse latino-americane(Brasile, Argentina, Messico) finché il turbine arrivò inNuova Zelanda e in Australia completando il giro delglobo25. Alla fine della smazzata i risparmiatori aveva-no perso l'equivalente di due milioni di miliardi di lire,una ricchezza enorme quanto inesistente salvo il parti-colare che loro, i risparmiatori, se ne accorsero solo inquel momento. In seguito, dopo gli interventi di BillClinton, del presidente della Federai Reserve Usa, AlanGreenspan, del direttore del Fondo Monetario Inter-nazionale, Michel Camdessus, e i cospicui aiuti conces-si con discrezione alle ormai ex «piccole tigri», la fac-cenda si è un po' ridimensionata, il Crack si è mutatoin una Big Correction, come la chiamano gli esperti, ilche sta a significare che a lasciarci le penne erano statialcuni dei Paesi più deboli del Terzo Mondo e i rispar-miatori dell'intero pianeta (com'è giusto, anzi salutare,che sia), ma che il sistema per il momento era salvo epoteva continuare a macinare e a vendere le sue illu-sioni26. Fino alla prossima volta (vedi Russia e Brasile).Fino al giorno del Big Bang.

A ogni buon conto non è necessario pensare ad eventicatastrofici. Più frequentemente non crolla la fede intutto il denaro, ma solo in alcune sue forme. Io ho an-cora in casa delle azioni Liquigas: sono di carta bella econsistente, color azzurro carico, e hanno le loro bravecedoline, quelle che, nell'iconografia ottocentesca e deiprimi del Novecento, il rentier taglia con le forbici traen-done un torbido piacere. Assomigliano irresistibilmenteai soldi di un Monopoli sofisticato. E infatti non valgono

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di più. Mia madre le aveva ricevute in eredità da miopadre e un giorno mandò me, ragazzetto, in Liquigasperché sul titolo c'erano state delle voci e voleva sapereche cosa doveva farne. «Incorniciarle» mi disse, con unghigno beffardo, il funzionario in una luccicante sedeormai deserta.

«E un fatto che i debiti, alla lunga, non sono pagati».La promessa non viene mantenuta. Il denaro scottaquindi fra le mani e bisogna liberarsene prima che co-minci a bruciare le dita. Come il famoso cerino acceso.L'abilità consiste, come nel gioco, nel tenere il cerino inmano fino all'ultimo momento. Per questo gli imprendi-tori e i finanzieri, che sono gli individui che megliohanno capito la natura del denaro, lo fanno girare vor-ticosamente, cambiandogli di continuo impiego e tratte-nendo solo quel minimo di liquidità che è loro indispen-sabile, pronti a disfarsene del tutto. Il gran gioco deldenaro è tutto qui: far ricadere, al momento opportuno,la sua inesistenza sui troppo creduloni.

Naturalmente si tratta di un gioco ad alto livello,perché la stragrande maggioranza delle persone il dena-ro è costretta a subirlo e basta. Infatti chi ha redditimedi e bassi, anche quando riesce ad avere un po' didenaro in più rispetto allo stretto fabbisogno non può,a differenza di chi ne ha molto, investirlo, farlo girare,velocizzarlo (come il denaro vuole che si faccia con luisia perché frutti davvero sia per mettersi al riparo dalrischio che scompaia), ma deve trattenerlo presso di sé,sia pure con la mediazione della Banca. La persona dimedio reddito, proprio perché i suoi margini sono ri-stretti, ha infatti necessità di avere del denaro da parteper garantirsi (almeno così egli crede) un po' di tran-quillità per il futuro. Inoltre c'è un'altra ragione per cuiè il povero e non il ricco ad aver bisogno di contante, diliquidità. Se infatti il denaro è credito il ricco, soprattut-to il grande ricco, se lo porta addosso. La sua stessa

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persona è credito, cioè denaro. Scrive Mathieu: «Nessunnotorio miliardario (in dollari) si troverà a mal partitose, a mille miglia da casa, perde il portafoglio o il libret-to degli assegni. Questi strumenti gli servono per pagareil taxi o il fioraio... ma se vuole comprare un'azienda èpiù facile che ricorra al baratto»21. La ricchezza notoriaè il «superadditum», come lo chiama Simmel28, che per-mette ai ricchi di non aver bisogno di denaro liquido edi mettersi nella condizione privilegiata di debitori senzanemmeno, quando usano la propria persona come cre-dito vivente, doverci pagare sopra gli interessi29. Il dena-ro (ma in questo caso sarebbe molto più esatto dire lamoneta) serve a chi non ha credito personale, cioè all'as-soluta maggioranza degli individui i quali, per i loroacquisti, devono cacciare subito fuori la lira30. Sonocostoro che hanno bisogno di mettere da parte il denaroper averlo pronto ad ogni evenienza e sono quindi co-stretti a risparmiarlo, a tenerlo inerte, fermo, facile ber-saglio pronto a essere impallinato. Perché è sul rispar-miatore che si scarica, nel tempo o nell'espace d'unmatin, l'inesistenza del denaro31.

Il sublime è poi raggiunto dall'imprenditore dei nostritempi, il quale non utilizza nemmeno più denaro pro-prio ma quello risparmiato dalla massa dei cittadini. Percui il rischio della volatilità del denaro è scaricato apriori su altri. Il risparmio è funzionale a chi spende,non a chi risparmia. I più grandi debitori sono gli im-prenditori. Perché sanno che il denaro non esiste. Èun'idea nella testa.

Il modo più ragionevole di usare il denaro è quindidisfarsene. E anche piuttosto in fretta. E qui si gioca ilparadosso dell'avaro. L'avaro è colui che meno ha capi-to la funzione del denaro. Perché trattenendolo con séall'infinito non lo usa come denaro. D'altro canto, eall'opposto, l'avaro è forse colui che ne ha penetrato piùprofondamente l'essenza squisitamente spirituale. L'ava-

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ro ritiene il denaro e trova in ciò il suo godimento. Eglifa di questo mero mezzo un puro fine. Con la conse-guente, ulteriore, stranezza che il denaro diventa un be-ne (acquista un'utilità intrinseca) solo quando non svol-ge più la sua funzione di denaro, quando è desiderato insé e per sé. In tal mcdo il denaro si ricongiunge alla suanatura metafisica. Contemplando il denaro l'avaro rag-giunge il suo piacere non ha bisogno d'altro, così comenel Paradiso (almeno in quello di Dante) i Beati raggiun-gono l'estasi nella contemplazione di Dio32.

Ma c'è anche unipotesi in cui il denaro funzionacome mezzo pur non essendo mai speso. Poniamo cheio abbia vissuto aver.do dieci miliardi in Svizzera e chenon abbia mai toccato né il capitale né gli interessi.Sono stato ugualmente un uomo ricco? Sì, perché queldenaro, che non ho mai maneggiato, che non ho nem-meno mai visto, ha funzionato come rassicurazione psi-cologica, consentendomi, se del caso, scelte esistenzialirischiose che se non lo avessi avuto non mi sarei potutopermettere. In questo caso, a differenza dell'avaro clas-sico, di Arpagone o di Shylock, che lo concepisconocome fine, ho utilizzato il denaro come mezzo anche seho rinunciato alla sua funzione primaria di intermedia-rio nello scambio. Il denaro infatti, come intuì per pri-mo Aristotele, serve all'uomo anche come garanzia (èy-γύη) per il futuro33, «è un bene che soddisfa il bisognodi certezza»34. E poco conta che tale bisogno sia soddi-sfatto da una delle cose più volatili dell'universo e che lacertezza sia soltanto psicologica e nient'affatto reale.L'importante è crederci. Tanto è vero che io mi sareicomportato ugualmente da uomo ricco anche se queidieci miliardi non li avessi effettivamente avuti, ma aves-si solo creduto di averli.

Ma, uscendo da queste ipotesi estreme e di scuola, cisono anche altre motivazioni psicologiche che, in un'e-conomia monetaria, possono spingere un individuo a

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trattenere il denaro piuttosto che spenderlo. Infatti ilpossesso del denaro da una soddisfazione piena, pura,proprio perché è astratto, impersonale, privo di forma edi carattere («astrazione da ogni particolarità» lo defini-sce Hegel35) e si piega quindi completamente alla no-stra immaginazione, non oppone resistenza, laddove ilpossesso delle altre cose che con quel denaro si potreb-bero avere è incompleto, perché si scontra con i limitidell'oggetto, che non è mai esattamente quello che ave-vamo desiderato, e lascia sempre, come sappiamo bene,un po' di amaro in bocca. Inoltre col denaro io posseg-go idealmente tutte le infinite cose che potrei comprarecon esso, mentre nel momento in cui effettivamente lospendo limito la mia scelta, rinunciando a tutte le altre(«La scelta è un'ecatombe di possibili» dice Epicuro).Questo procedimento psicologico lo possiamo verificareanche a contrario quando, per esempio, perdiamo algioco una somma abbastanza consistente. Poniamo diaver lasciato un milione al tavolo verde. Subito ci met-tiamo a pensare che con quella cifra avremmo potutocomprare, che so, un videoregistratore, un buon vestito,un viaggio alle Baleari, e ci sembra di aver perduto tuttequeste possibilità mentre, evidentemente, con quella ci-fra avremmo potuto soddisfarne una sola. Così la perdi-ta ci appare molto più cocente di quanto non sia. Per-ché il denaro è un sacco vuoto che noi possiamo riem-pire con la nostra fantasia. Purché se ne possegga unacerta quantità è tutte le cose, o quantomeno molte diesse e, insieme, ogni singola cosa. Omnium rerum com-pendium lo chiamava Spinoza. Come scrive Simmel:«Tutte le merci più varie possono essere convertite inun solo valore, cioè in denaro, mentre il denaro puòessere convertito in tutte le varietà delle merci»36. Ciòspiega il paradosso per cui il denaro, che non ha valore,ha più valore di qualsiasi altro oggetto o, per essereprecisi, è più desiderabile.

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E spiega an:he, in parte, la posizione del venditore.Chi infatti vende per denaro è, in teoria, un fesso. Per-ché cede qualcosa che c'è (un bene, un lavoro) perqualcosa che ron c'è ed è mera aspettativa di qualcosache forse ci sarà. Scambia la certezza del presente conl'incertezza del futuro. Non per nulla l'artigiano dellasocietà preindustriale, ma già monetaria, si separavasempre malvolentieri dal suo prodotto. Questa ritrosiadipendeva certamente dal fatto che l'oggetto usciva di-rettamente dalle sue mani, era frutto della sua creatività,ed egli lo sentiva come qualcosa di personale e di vivo,da cui riluttava a staccarsi, ma anche da un'altra circo-stanza: gli uomini di quel tempo vivevano sostanzial-mente nel presente e diffidavano del futuro. Le cosenaturalmente cambiano quando con la Rivoluzione in-dustriale si afferma pienamente l'economia monetaria edi mercato. Da una parte in questa nuova società, tuttaorientata verso il futuro, il grande e vario affluire di benifa emergere la maggiore desiderabilità del denaro inquanto, a differenza di ogni altro oggetto concreto, offreinfinite possibilità di scelta. Dall'altra muta radicalmentela posizione del venditore. A differenza dell'artigianodell'ancien regime il commerciante o l'imprenditoredell'era industriale non solo non ha alcun rapporto af-fettivo con l'oggetto che aliena ma questo non gli serveassolutamente a nulla se non a essere ceduto (un vendi-tore di spazzole non sa che farsene, personalmente, dellespazzole). L'oggetto gli è utile solo in quanto, e se, gliprocura del denaro. In un certo senso nella figura delvenditore la situazione è invertita: non è il denaro che gliserve per procurarsi gli oggetti (se non in seconda bat-tuta) ma sono gli oggetti che gli servono per procurar-si il denaro. Diversa è la condizione di chi vende il pro-prio lavoro. Costui a differenza del commerciante e del-l'imprenditore continua a vendere qualcosa che nonsolo gli serve nna gli è indispensabile (l'energia) per

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qualcosa che forse gli servirà. Scambia il certo per l'in-certo. Resta un fesso.

Come abbiamo detto, il denaro è impersonale, inde-terminato, privo di forma, di carattere, di particolarità eproprio questa sua indifferenza lo rende fungibile conqualsiasi altro oggetto. Tanto più è amorfo tanto megliorealizza la sua funzione di intermediario nello scambio(dall'oro, che ha una sua personalità e certe caratteristi-che, faccio già più fatica a separarmi). Il denaro, insom-ma, è un essere senza qualità. Tranne una. La sua qualitàè la quantità. È un sacco vuoto ma la dimensione delsacco è decisiva. Questa entità amorfa, quando si pre-senta in quantità relativamente modeste non è in gradodi dirci nulla sulla personalità di chi la possiede. Unuomo che ha in tasca 50 mila lire non ci appare, per ciò,né diverso né uguale rispetto a un altro che ha in tascale stesse 50 mila lire. Mentre due cravatte che valgonoentrambe 50 mila lire ci possono dire qualcosa non solosul gusto estetico ma sull'intera personalità delle duepersone che le indossano. Ma quanto più si sale versosomme meno modeste tanto più la diversa quantità didenaro segnala differenze e scava abissi. Anche qualorafossero per tutto il resto identici, due gemelli monozigo-ti, un uomo di cui si sa che ha un patrimonio di miliardiappare in una luce molto diversa da un altro che è nul-latenente. Le loro potenzialità sono drammaticamentedivaricate. Il denaro, se è davvero molto, potrebbe ad-dirittura dare all'uomo la libertà. Tutti gli altri, invece,li rende schiavi.

A dire il vero il denaro ha anche un'altra qualità oltrealla quantità. E discende dalla sua indeterminatezza, im-personalità, mancanza di carattere e di individualità,cioè proprio dalla sua assenza di qualità: ed è la duttilità.Il denaro si presta a quaìsiasi finalità. Poiché è un puromezzo che non ha in sé un fine può essere usato perquaìsiasi scopo mentre tutti gli altri oggetti, incorporan-

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do in sé caratteristiche precise che li predispongono adeterminati fini, e che li rendono in qualche modo essistessi dei fini, lanno destinazioni necessariamente limi-tate. Quando è molto il denaro può raggiungere qual-siasi scopo. O per dirla più comunemente: col denaro sipuò comprare tutto, tutto può essere ridotto a mercé.

Il denaro apre un processo all'infinito. Se io pago undebito o una qtalsiasi altra obbligazione con un bene innatura la cosa finisce lì. Se pago con denaro si chiude uncredito ma se re apre immediatamente un altro.

Il denaro è quindi perennemente in moto. Si può af-fermare anzi che il moto perpetuo è la condizione o, permeglio dire, l'ambizione del denaro e il presuppostostesso della sua esistenza. Contrariamente a ciò che pen-sa Vittorio Mathieu. Mathieu scrive che il moto perpe-tuo economico, come ogni moto perpetuo, è un'illusio-ne, un autoinganno, una follia. E porta l'esempio, famo-so fra gli economisti, di Law. John Law, vissuto a cavallodel 1700 (1671-1729), fu una bizzarra figura di finanzie-re e di awenturiero. Convinto che i metalli preziosifossero una forma troppo rozza e inefficiente di monetaideò un sistema in cui l'oro e l'argento erano sostituitida biglietti di carta garantiti in un primo tempo dalvalore della terra e, successivamente, da azioni di com-pagnie commerciali operanti nelle Colonie37. Propose ilsuo sistema a vari governi europei che lo respinsero. Fuaccettato invece dalla Francia che attraversava una gravecrisi finanziaria dovuta alle enormi spese belliche diLuigi xiv.

Il cosidetto sistema-Law si struttura, in estrema sinte-si, nel seguente modo. Nel 1716 Law creò una Bancaprivata (Banca generale) cui venne concesso dallo Statofrancese di emettere biglietti di carta pagabili al porta-tore e che, da un certo momento in poi, furono accettatianche dalle casse pubbliche per saldare le imposte. Leazioni della Banca (capitale sei milioni di livres) erano

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acquistabili pagando per un quarto in moneta metallica(oro e argento) e per il resto in titoli del debito pubblico(titoli di Stato). Insieme alla modesta quota in monetatali titoli costituivano quindi la garanzia dei biglietti. Iquali ottennero la fiducia del pubblico tanto che Law neemise prima per 20, poi per 100, infine per 800 milioni(nel gennaio del 1720 ce n'erano in circolazione per piùdi un miliardo). Nel frattempo Law aveva fondato, o,più precisamente, riesumato, la Compagnia d'occidenteper lo sviluppo dei possedimenti francesi nel bacino delMississippi (Compagnia del Mississippi). Tale Compa-gnia aveva un capitale di cento milioni in azioni acqui-stabili in origine solo con titoli del debito pubblico e inseguito anche con i biglietti emessi dalla Banca di Law.Queste azioni andarono a ruba e il loro prezzo salì inbreve tempo da 500 a 20.000 livres38.

Nel 1719 Law si fece dare l'appalto della riscossionedelle imposte dirette e indirette e unì Banca e Compa-gnia in un unico organismo. A questo punto il cerchioera chiuso. Con i biglietti della Banca, garantiti per lamaggior parte dai titoli di Stato, si potevano comprareazioni della stessa Banca-Compagnia costituite dai titolidi Stato. Cioè, come scrive Mathieu, «il denaro potevaacquistare la propria garanzia»39. I biglietti di Law era-no garantiti da ciò che acquistavano.

Quando alcuni intuirono in qualche modo il marchin-gegno e, volendo disimpegnarsi prima che fosse troppotardi, si presentarono alla Banca chiedendo in cambiodei biglietti non titoli di Stato ma moneta sonante, l'in-gegnoso castello di Law crollò miseramente, la banca-rotta fu quasi immediata e di tali dimensioni che inFrancia una Banca centrale, autorizzata a emettere ban-conote, fu fondata solo nel 1801, sotto Napoleone, piùdi un secolo dopo la Banca d'Inghilterra.

Osserva Mathieu: «In verità, la circolarltà del proces-so è essenziale al delirio di onnipotenza di tutti i moti

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perpetui»40. Ma l'errore di Law non fu affatto di credereal moto perpetuo del denaro, anzi con ciò il finanzierescozzese centrava perfettamente quel processo ad infini-tum cui tende lecessariamente il denaro41, tanto che inseguito il sistema creditizio e della circolazione fiducia-ria di banconote si modellerà sostanzialmente, sia purcon alcuni accorgimenti, su quello di Law, espandendo-si ovunque. Né il suo torto fu di chiudere il denaro inun moto circolare, di autogaranzia, perché, in definitiva,il denaro è sempre garantito da nient'altro che da sestesso, dalla fiducia che si ripone in lui. Lo svarione, opiuttosto l'imprudenza, di Law fu di far cortocircuitareil processo del denaro, di chiudere cioè la sua circolantetroppo presto, in un unico passaggio fra Banca e Com-pagnia, svelandone così il meccanismo e il carattere illu-sionista, poiché l'illusione in luogo di allargarsi ed esseretrasferita in mani sempre diverse, rimbalzava fra gli stes-si individui e gli stessi organismi, in tempi ristretti e inun campo limitato.

Invece il processo ad infinitum del denaro ha biso-gno, proprio come una catena di Sant'Antonio, di appa-rire aperto in tutte le direzioni e di raggiungere il mag-gior numero di persone, possibilmente lontane fra loro,in modo che la sua sostanziale circolarità, il suo caratte-re illusorio, la sua intima inconsistenza, la sua folliaautomoltiplicatoria, non siano percepibili. Naturalmentequesto moto, il passare dell'illusione di mano in mano,non può resistere all'infinito; prima o poi, per quanto laprenda alla larga, il denaro finisce per ricadérsi addosso,per rivelare, proprio come nel sistema di Law, che ègarantito solo da se stesso, cioè dal nulla.

Quando questo avviene, e nessuno è più disposto acredere al denaro o a quel denaro, la frittata è fatta, mase la catena di Sant'Antonio è stata sufficientemente lun-ga e articolata, i suoi inventori e anche molti di coloroche sono stati più rapidi nel seguirli, hanno avuto tutto

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l'agio, a differenza di Law che finì in miseria, di intasca-re il grisbi lasciando il cerino acceso in mano agli altri42.

L'attività finanziaria è un moltiplicatore della circola-rità e un acceleratore del processo ad infinitum del de-naro. Quando infatti io col denaro non acquisto unamercé ma un'altra forma di denaro lo libero, per cosìdire, su due lati. Nel primo caso infatti rimane in circo-lazione un solo credito, nel secondo due che natural-mente, dopo aver sostato quanto basta nelle mani deiloro possessori, dovranno cercare altri impieghi. Poichéperò la presenza sul mercato di merci appetibili e rimu-nerative è limitata, la tendenza del denaro, venuta ac-centuandosi sempre più nell'era moderna, è di andare acercare altro denaro. Anche perché, data la fluidità e laduttilità del denaro, è la forma più facile e rapida diimpiego (e di disimpiego), mentre il trasferimento dellemerci, a causa della loro fisicità, è sempre molto piùlento e problematico. Non per nulla l'attività del finan-ziere è un vorticoso far girare il denaro da una sua formaa un'altra: dalla lira al marco al dollaro all'azione ai De-rivati al future al Bot per tornare ancora al dollaro almarco alla lira in un movimento parossistico che nontrova altro senso che in se stesso.

Ma i lamenti di molti autori contemporanei che, im-pressionati dalle dimensioni che ha preso il fenomeno,imprecano contro l'attività finanziaria e il «denaro faci-le», sono velleitari oltre che ipocriti43. Il meccanismo chemette in orbita l'attività finanziaria è infatti lo stesso,assolutamente lo stesso, che ha messo in orbita il denaro.È solo portato alle sue logiche ed estreme conseguenze.Se il denaro è una promessa, una scommessa sul futuro,una fiducia, un'illusione, non c'è alcuna ragione al mon-do per cui non si debba e non si possa promettere un'al-tra promessa, scommettere su un'altra scommessa, ac-quistare con la fiducia altra fiducia, illudersi o illuderecon un'altra illusione, moltiplicare insomma il miraggio

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per quanto e ino a quando è possibile. Se qualcosa nonesiste, è solo una proiezione della nostra mente, non èche non esiste di più o di meno se noi la moltiplichiamo.Il risultato è sempre zero. Lo stesso discorso vale perl'interesse. Pistone, Aristotele, la Chiesa, i tornisti, i pro-feti musulmani, Luterò, fino ai marxisti e a certi econo-misti «eretici> del primo Novecento, come FrederickSoddy e Silvio Gesell44, hanno combattuto una lunga, eperduta, battaglia contro l'interesse. La massima di Ari-stotele secondo la quale il denaro è sterile e quindi nonpuò produrre altro denaro45 ha avuto molti seguaci. Piùmodernamene si dice che il denaro in quanto puro segnonon può procurre ricchezza. E questo è assolutamentevero. Ma può benissimo produrre altro denaro. Un cre-dito può creare un altro credito, una promessa un'altrapromessa, un simbolo un altro simbolo, una superfeta-zione un'altra superfetazione, un'illusione un'altra illu-sione (o, se si preferisce, un surplus di illusione), unnulla un altro nulla. Decisivo è solo che gli uomini cre-dano a questa promessa, a questo credito, a questo se-gno, a questo simbolo, a questa illusione, a questo nulla.È inutile quindi mettere in discussione l'interesse o l'at-tività finanziaria se non si mette in discussione il denaro.Nel principio ordinatore del denaro, da quando fece lasua prima comparsa sulla Terra, è contenuto in nuce, eirrimediabilmente, quanto è avvenuto dopo. Tutto ècominciato lì. È una marcia partita migliaia di anni fa,lenta all'inizio, contrastata, che ha conosciuto battute diarresto, ritorni all'indietro, periodi di sonno. Per moltisecoli, durante il Medioevo, il denaro scomparve. Ma,come la Bomba atomica, una volta creato non poteva piùessere disinventato. Riapparve, come una profezia, intor-no all'anno Mille. Da allora la sua marcia è diventata unascorribanda trionfale e, al pari di un immenso fiume che,avanzando, gonfia sempre più la sua piena, ha finito pertravolgere tutto, uomini e cose.

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' Ρ. Vilar, Oro e moneta nella storia, Laterza 1971, p. 222.2 Ibid., p. 223.' J.C.L.S. de Sismondi, Nuovi principi di economia politica, Isedi 1975,

p. 286.4 Aristotele, Politica, i, 9, 1259 a-b, 10-17.5 Dati Gnu, 1996.6 Scriveva l'insospettabile «Corriere della Sera» il 17.7.96: «Se i 385 su-

pericchi, domani decidessero di devolvere le proprie ricchezze all'umanità,guadagnerebbero certamente il Paradiso (nonché il plauso dell'Onu) ma nonrisolverebbero i problemi del pianeta. In particolare non cambierebbero unsistema economico che continua - è innegabile - a creare una "sottoclasse"mondiale. L'Africa è il caso più clamoroso».

7 Naturalmente, per semplificare, si prescinde qui dalla quota di Bot inmano a investitori esteri.

8 G. Simmel, Filosofia del denaro, Utet 1984, p. 317.9 V. Mathieu, Filosofia del denaro, cit., p. 61.0 Ibid., pp. 59-60.1 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, I, V.2 K. Marx, // Capitale, I, I, 1.5 Aristotele, Politica, i, 1-23, 9, 1252a-1260a.4 Per la verità anche il valore dell'oro (o dell'argento), quando è usato

come moneta, è in larga misura convenzionale. È anch'esso una moneta fidu-ciaria che non si basa tanto sul suo valore materiale quanto su quello che gliviene concordemente attribuito dagli uomini (per tradizione, consuetudine,legge). Non c'è insomma proporzione fra il suo valore intrinseco e quello cheassume come moneta. La sua utilità infatti è modesta. Molti popoli, come gliindios d'America, non lo hanno mai considerato un bene prezioso e tantomeno hanno pensato di usarlo come moneta. E per secoli, fuori d'Europa, inAfrica, negli arcipelaghi dell'Oceano Indiano, l'oro, in quanto moneta, è statoin concorrenza con i cauri, delle conchiglie di colore biancoazzurro (K. Po-lanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne, Einaudi 1980, pp. 271-73). Ilvalore dell'oro non dipende dal suo essere oro ma dall'essere denaro. Glieconomisti classici, che vissero in un'epoca in cui i metalli preziosi eranomoneta corrente, pensavano (come molti pensano ancora oggi) che il valoredell'oro non fosse una convenzione ma derivasse dal suo valore intrinseco,dalla sua utilità, e che quindi il suo prezzo fosse determinato dal costo diestrazione combinato con la domanda. Il prezzo dell'oro avrebbe quindidovuto essere relativamente stabile. Ma i classici si trovavano poi a mal par-tito dovendo constatare che il prezzo dell'oro fluttuava assai più del preve-dibile e non riuscivano a capacitarsene. Ma l'oro fluttuava non in quanto orobensì in quanto moneta. In questo equivoco cade, fra gli altri, il pur acutoSismondi, Nuovi principi di economia politica, cit., p. 274.

15 V. Mathieu, Filosofia del denaro, cit., pp. 33 e 47.16 Bacone definisce le monete «Simboli correnti e accettati come valori»,

The Advancement of learning, in Works, Boston 1860-64, voi. ix, p. 110.17 Scrive Schumpeter: «La moneta, a sua volta, non è altro che uno stru-

mento di credito, un titolo che da accesso agli unici mezzi di pagamentodefinitivo, ossia i beni di consumo». J.A. Schumpeter, Storia dell'analisi eco-nomica, Bollati Boringhieri 1990, i, p. 392.

18 V. Mathieu, Filosofia del denaro, cit., p. 132.19 Ibid., p. 171.20 Ibid., p. 262.

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21 E. Pound, Abc dell'economia, Shakespeare and Company 1994, pp.18-19.

22 f.C.L.S. de Sismondi, Nuovi principi di economia politica, cit., pp.330-31.

23 R. Giardina, Biografia del marco tedesco, Giunti 1996, p. 44.24 La crisi russi è stata tamponata con un prestito di 11,5 miliardi di

dollari, quella messicana con 50, quella del Sud-Est asiatico con 150. Suqueste ultime due, che portarono il sistema finanziario mondiale a un passodal tracollo vedi pp. 243-46.

25 II 23 ottobre, giorno del collasso della Borsa di Hong Kong, RenatoRuggiero, direttore generale dell'Organizzazione Mondiale del Commercio(WTO), definito di Arrigo Levi «una delle massime autorità dell'economiamondiale», dichiarava al «Corriere della Sera»; «La crisi del Sud-Est asiaticoe gli squilibri finanziari che l'hanno segnata, sono ormai parzialmente sottocontrollo, nel senso che non c'è più il pericolo di un'amplificazione globaledella crisi, i suoi lirriti sono contenuti a livello regionale» (Corriere della Sera,23.10.97). Otto mesi dopo Ruggiero dichiarava, sempre al «Corriere»: «Nonsolo non siamo alla fine della crisi asiatica ma si iniziano a percepire i suoisegni negativi sul commercio mondiale» (Corriere della Sera, 15.6.98).

26 In genere, a parte casi eccezionali come quello del Messico, dove pe-raltro alla fine furono salvati dall'intervento delle Organizzazioni internazio-nali e dai Paesi di punta dell'economia monetaria, cioè con i soldi dei con-tribuenti del mondo industrializzato, è molto difficile che i finanzieri e igrandi speculatori ci lascino le penne in un Crack e, a maggior ragione, in unaBig Correction. Quando arriva il collasso gli speculatori se ne sono già andatiportando altrove il toro denaro. Anzi quasi sempre è proprio il loro disimpe-gno a dare il via al crack. Sul terreno rimane il piccolo e medio risparmio. Èvero che dopo la crisi del Sud-Est asiatico c'è stato un recupero di tutte leBorse mondiali, ma ad avvantaggiarsene non sono stati i risparmiatori, che inlinea di massima, presi dal panico, hanno venduto durante il crollo, ma glispeculatori che hanno ricomprato a prezzi stracciati ciò che avevano vendutoquando i listini erano alle stelle. I risparmiatori quindi, nonostante il recupe-ro, hanno effettivamente perduto i due milioni di miliardi di lire, che sono inparte rifluiti nelle tasche degli speculatori. Se poi, come in questo caso, c'èun intervento delle Organizzazioni internazionali e dei principali Paesi indu-strializzati che non elimina la tosatura ma ridimensiona il Crack ad una piùinnocua, per il sistema, Big Correction, il risparmiatore è gabbato due volte:come risparmiatore e come contribuente.

27 V. Mathieu, Filosofia del denaro, cit., p. 239.28 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., pp. 317-320.29 Susanna Agnelli mi raccontò una volta che suo fratello, Gianni, girava

sempre senza un soldo in tasca e non conosceva il valore delle diecimila lire(M. Fini, Gianni Agnelli visto da un'Agnelli, «L'Europeo», 20.2.75).

30 La carta di credito, che non è moneta sonante ma nemmeno denaroallo stato puro, è una via di mezzo fra chi ha un autentico credito personalee chi non ne ha nessuno. È un «voglio ma non posso», l'850 coupé delcredito, lo status symbol delle mezze calzette.

31 Mi sono chiesto spesso che cosa sia nella realtà quel gruzzolo che io,come milioni di altri come me, ho messo da parte lavorando. Si dice che queldenaro è «energia accumulata». E certamente rappresenta l'energia che hospeso per accumularlo. Ma quell'energia se n'è andata per sempre. Certo ioposso, entrando nel gioco, scambiare la mia energia passata con quella attuale

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di altre persone, sotto forma di prodotti e servizi. Ma non è più la miaenergia, che è morta allora. Nessuno me la può restituire insieme al tempoimpiegato a spenderla in quel modo, con l'occhio incollato al futuro invecedi godermi il presente. Il denaro ha divorato il mio tempo (sempre che,prima, il tempo non abbia divorato, insieme all'energia, anche il mio denaro).Più realistica mi pare quindi la definizione che del denaro da Robert Kurzcome «lavoro morto accumulato». R. Kurz, La fine della politica e l'apoteosidel denaro, Manifesto Libri 1997, p. 55.

32 Poiché, come vedremo più avanti (parte terza), il denaro ha l'incoerci-bile tendenza ad emanciparsi dalla sua condizione di mezzo per porsi comefine autosufficiente, asservendo gli uomini, a prima vista l'avaro sembra unoche si è arreso a priori a questa fatalità. È vero il contrario. Assumendoil denaro come fine di godimento estetico e sensuale del tutto estraneo aquello suo proprio, l'avaro lo riconduce alla condizione di strumento (del suopiacere), laddove gli altri, credendo di usarlo come mezzo, ne finiscono as-serviti. L'avaro patologico, in grande stile, è il vero, mortale nemico del de-naro monetario, materiale: lo toglie dalla circolazione, lo esautora come mez-zo monetario, ne stravolge il fine, lo annulla.

33 Aristotele, Etica Nicomachea, v, 8, 1133b, 10-15.34 L. Federici, La moneta e l'oro, Casa editrice ambrosiana 1943, p. 20.35 G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, Laterza 1971, p. 198.36 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 311.37 J. Law, Moneta e commercio, 1705.38 «Uomini che all'inizio dell'anno avevano investito poche migliaia di

lire, si trovarono ricchi a milioni nel giro di poche settimane o di qualchemese. Coloro che subirono questa trasformazione furono chiamati millionnai-res; è quindi, evidentemente, a quell'anno che dobbiamo questa parola fran-cese, calcata poi in varie lingue». J.K. Galbraith, Soldi, Rizzoli 1997, p. 31.Sulla vicenda di Law vedi soprattutto E. Paure, La banqueroute de Law,Gallimard 1977.

39 V. Mathieu, Filosofia del denaro, cit., p. 235.40 Ibid.41 Come, in altra parte del suo saggio, scrive lo stesso Mathieu: «II denaro

è sempre in moto». Ibid., p. 36.42 Che il meccanismo sia questo finisce per ammetterlo anche Mathieu:

«Paradossalmente il guadagno attuale dipende da ciò che non c'è e, forse, nonci sarà mai, perché il futuro non durerà in eterno. A un certo punto, primao poi, non ci sarà più nessun lavoro umano [cioè denaro nell'interpretazionedel Mathieu, ndr] capace di far lavorare ulteriormente». V. Mathieu, ibid.,p. 265.

43 Vedi, fra gli altri, A. Mine, II denaro pazzo, Spirali 1993 e V. Forrester,L'horreur économique, Fayard 1996 (trad. it.: L'orrore economico, Ponte alleGrazie 1997).

44 G.D.H. Cole, Che cos'è il denaro? (cap. Quattro eretici dell'economia),Sansoni 1936, pp. 316-339.

45 Aristotele, Politica, i, 10, 1258b, 5-10.

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PARTE SECONDA

LA LUNGA MARCIA DEL DENARO

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III.

L'EDEN

In principio era l'Eden: il denaro non esisteva. Per lasemplice ragione che non c'era nemmeno lo scambio. Ese è possibile un'economia di scambio senza denaro,non si dà invece il contrario.

Nel mondo dei cacciatori e delle raccoglitrici di cibo,in quell'evo paleolitico che va dalla comparsa dell'homosapiens all'8000 a.C. circa e che dura più di ventimilaanni, si viveva rigorosamente di autoconsumo. Gli uomi-ni andavano a caccia, con archi e frecce, con fionde, conlance, con arpioni, forse con boomerang, a volte costrui-vano grandi trappole per grandi animali, le donne rac-coglievano da terra, con un aguzzo bastone di legno o diosso, tutto quanto fosse commestibile. Questa, basatasul sesso, era la sola divisione del lavoro conosciuta epraticata. I frutti della ricerca quotidiana di cibo eranoequamente distribuiti fra tutti i membri del gruppo, cheviveva esclusivamente della propria produzione. I pic-coli oggetti artigianali che questi nostri progenitori sifabbricavano erano d'uso domestico, per colui che lifaceva, la sua famiglia, la tribù. Il grande studioso del-l'economia preistorica Fritz Heichelheim spiega così latotale mancanza di scambio intertribale: «Non esistevaalcun oggetto di scambio che non si potesse altrettan-to facilmente procurare senza ricorrere al commer-cio»1. Quella dei paleolitici era, secondo la definizio-

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ne di Karl Bùcher, una «economia domestica chiusa»2.L'uomo aveva scoperto l'impiego del fuoco, la pietra

focaia per accenderlo, il braciere, aveva inventato rudi-mentali strumenti musicali - assai simili al piffero e alflauto - con i quali accompagnava i riti religiosi e lefeste, i maschi indossavano pelli, si ornavano con gioiel-li, braccialetti, anelli, le femmine, già tali in tutto e pertutto, portavano gonnelle e veli, si truccavano con sa-pienza e si davano il rossetto. Insomma la società paleo-litica, almeno a partire dal 30.000 a.C, aveva già rag-giunto una certa evoluzione ma del denaro non c'eranemmeno l'ombra.

Con l'agricoltura, praticata per la prima volta, a quan-to pare, nel Turkestan3, e l'allevamento del bestiame sientra nel periodo neolitico. Le popolazioni da nomadidiventano stanziali. Mentre prima le varie tribù si trova-vano a grande distanza l'una dall'altra per l'enorme ter-ritorio di cui avevano bisogno e si incontravano soloquando qualcuna di esse si muoveva alla ricerca di nuovispazi, e quindi con disposizione d'animo tutt'altro cheamichevole, adesso si stabiliscono anche in aree vicine,in condizioni di relativa tranquillità. Ciò introduce, incampo sociale, la principale novità rispetto al periodoprecedente: lo scambio, preludio necessario del denaro.

Per comprendere però la natura dello scambio primi-tivo bisogna tener presente che le comunità tribali delneolitico sono autarchiche per scelta (dipendere da altriè troppo rischioso) e autosufficienti per natura, almenonei bisogni essenziali. Ciò di per sé non sarebbe unimpedimento assoluto né allo scambio né all'uso deldenaro. Per esempio fra gli odierni Paesi industrializzatisi scambiano spesso beni senza una vera necessità datoche in molti casi si tratta di beni simili se non addiritturaidentici. Il fatto è che, come vedremo, nello scambioprimitivo, tranne casi sporadici, assai malvisti, manca ilguadagno, non c'è il fine di lucro e può essere addirit-

tura assente, o comunque indiretto e secondario, lo sco-po economico. La cosa può sorprendere noi che viviamototalmente immersi nell'economia e nella dimensionedel profitto e che abbiamo reso mercé quasi tutto, Ma inpassato era diverso. L'homo oeconomicus è un'invenzio-ne di Adam Smith e dei suoi epigoni. L'idea che l'uomosia naturaliter economico, cioè che fin dai primordi simuova, nel campo del lavoro, della produzione, delloscambio dei beni, secondo criteri di pura razionalità, dieconomicizzazione, di massimizzazione del risultato colminimo sforzo, di utilitarismo, di guadagno è un'ideafalsa generata dalla falsa prospettiva in cui si sono posti,per lungo tempo, gli storici e i teorici moderni dell'eco-nomia. I quali, avendo davanti agli occhi il trionfo delmercato e dell'economia monetaria, hanno ritenuto, conottuso determinismo, che l'intera storia dell'uomo nefosse una preparazione e una propedeutica. Sono quindiinclini a vedere mercato e denaro dappertutto e a dareall'economia un'importanza che nelle società primitivecertamente non ha. Lo stesso Marx, che pur è l'avversa-rio storico del mercato, cade in questo equivoco quandogiudica «sovrastruttura» tutto ciò che non appartieneall'economia.

Ora è ben vero che ogni azione dell'uomo si prefiggeun utile. Ma quest'utile non è necessariamente economi-co anche se l'azione si svolge in campo economico e haeffetti economici. Se io compro dei fiori per la mia fi-danzata compio un atto economico che non ha motiva-zioni economiche. Questo è ovvio. Però tra i primitivianche chi scambia fiori non ha motivazioni economichema d'altro genere. Cioè nelle società di cui ci stiamooccupando, come hanno accertato l'antropologia e l'et-nologia, le motivazioni non economiche di atti che noichiameremmo economici (e che per noi sono economici)sono assolutamente prevalenti. Nella vita tribale l'eco-nomia si diluisce, si confonde, si incorpora in una così

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fitta rete di rapporti sociali, religiosi, magici, interperso-nali, di parentela, di amicizia che è pressoché impossibi-le isolarla ed enuclearla dal resto. Non è un caso che iltermine oikonomia (che peraltro ha il significato lettera-le, e riduttivo, di «economia domestica») sia usato per laprima volta solo nel iv secolo a.C., da Aristotele, quandoil mercato in senso moderno, pur se limitato, e il denarohanno già fatto la loro comparsa da quattrocento anni.Prima di allora non si era mai percepita l'economia co-me qualcosa che potesse essere concettualmente separa-ta dal resto dell'esistenza, non perché, come oggi, la do-minasse e la pervadesse ma, al contrario, perché erasommersa, nascosta, relegata in secondo piano da altrecomponenti della vita. Per dirla con Karl Polanyi, nellesocietà tribali, antiche e moderne, «la produzione e ladistribuzione dei beni materiali erano incorporate inrelazioni sociali che non avevano natura economica»4. Etale inglobamento di elementi economici in altri di di-versa natura, che hanno la preminenza, si protrarrà oltrele società tribali anche in stadi più avanzati e complessidell'evoluzione. Rimarrà nell'era immediatamente suc-cessiva, quella cosiddetta degli antichi Imperi orientali(che fan la loro comparsa alla fine del periodo neolitico,verso il 3000 a.C.), conserverà un certo rilievo anchenella Grecia e nella Roma classiche che pur si organiz-zano, almeno in parte, in società di mercato a economiamonetaria, tornerà in auge nel Medioevo europeo edurante il feudalesimo. Finché con la Rivoluzione indu-striale il rapporto si invertirà e sarà l'economia a invade-re tutte le altre attività umane arrivando a confonderlecon essa.

La vicinanza di tribù e popolazioni diverse, resa pos-sibile dal passaggio dal nomadismo all'agricoltura, favo-risce dunque lo scambio. Una importante ragione di tra-sferimento di beni nelle società neolitiche e tribali è la

guerra, con i relativi saccheggi. Ma non si fa la guerraper saccheggiare, la si fa per torti ricevuti, per paura, persfogare la propria aggressività e poi, se del caso, si sac-cheggia.

Esistono però anche modi meno brutali di scambiofra tribù. La prima forma conosciuta di scambio pacificoè il cosiddetto commercio muto. Una tribù ammucchia inuna radura le cose di cui si vuoi disfare, quindi va anascondersi fra gli alberi. Gli altri fan la stessa cosa,depositano i propri oggetti e poi si ritirano. Allora ritor-na il primo gruppo che aggiunge o toglie dal propriomucchio quanto ritiene opportuno e così via fino aquando le due parti si ritengono soddisfatte. Per quantoin questo baratto muto ci sia una certa idea di equiva-lenza le sue funzioni economiche sono marginali se noninesistenti. Si tratta soprattutto di un modo per mettersiin relazione, per manifestare una disposizione d'animonon ostile, per stringere amicizia.

Appena si comincia ad avere un po' meno paura re-ciproca e le cose si affinano si ha fra tribù diverse unoscambio vero e proprio. Avviene però nella forma deldono, il modo in assoluto prevalente con cui si fanno itrasferimenti di beni nel mondo neolitico. Siamo in gra-do di conoscere nei dettagli il complesso regime deldono presso questi nostri lontani progenitori perché gliantropologi (soprattutto Malinowski, Boas, Thurnwald,Mead) lo hanno potuto studiare presso i cosiddetti «pri-mitivi moderni», cioè presso le società tribali, prelettera-te, rimaste tali nel corso dei secoli e fin quasi ai nostrigiorni, il cui stadio di sviluppo corrisponde, appunto, aquello del periodo neolitico5.

Il sistema del dono è stato accertato in Polinesia, inMalesia, in Australia, in Nuova Zelanda, in Nuova Gui-nea, fra le tribù pellerossa nordamericane, fra gli eschi-mesi dell'Alaska, in Siberia, fra i pigmei, sulle coste in-diane e quindi in un'area vastissima che comprende in

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particolare tutte le popolazioni primitive che si sonoaffacciate sull'Oceano Pacifico.

Per capire appieno il sistema del dono è necessariopremettere che presso tutti i popoli primitivi gli oggettinon solo sono personalizzati, nel senso che anche seregalati o comunque alienati, mantengono sempre qual-cosa del loro possessore originario (esattamente come seio, oggi, do vìa il mio cane, questi conserva comunqueun rapporto di appartenenza con me), ma hanno unapropria anima (chiamata bau fra i Maori e mana fra glialtri polinesiani).

Là dove i moderni hanno la tendenza a mercificaretutto, anche gli uomini, i primitivi hanno invece quellaopposta di spiritualizzare, o quantomeno personalizzare,tutto, anche le cose. Il trasferimento di oggetti, anchemodesti, non è mai quindi una fredda partita contabile,di dare e avere, ma implica un coinvolgimento emotivodel tutto particolare e ha significati simbolici, rituali,religiosi. Quando l'uomo tribale aliena un oggetto donaqualcosa di sé e di vivo. L'atto ha una grande pregnanzaper chi da e per chi riceve, proprio perché, come spiegabene Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono, «la cosaricevuta non è inerte»6. Stabilisce un legame fra persone,fra anime e fra le cose stesse. Ciò fa sì che il dono richie-da, pressoché obbligatoriamente, un controdono che, peressere emotivamente soddisfacente per entrambi i sog-getti, deve avere un valore equivalente o possibilmentesuperiore. A dispetto infatti del termine e delle apparen-ze il dono primitivo non è disinteressato, anche se l'in-teresse qui in gioco non è quello economico.

Lo scambio intertribale nella forma del dono è sem-pre collettivo (non esiste in alcun modo la figura indivi-duale del «mercante»), avviene cioè con la partecipazio-ne dell'intera tribù o di una sua parte significativa ocomunque del capo che la rappresenta. È accompagnatoda una serie di riti religiosi e magici, da prestazioni

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militari, da cerimonie, da danze, da feste, da banchetti.Ed è quasi sempre inserito in un contratto più generalee più ampio col quale si intrecciano o si rafforzano rap-porti di alleanza, di amicizia, di cortesia. Insomma c'èinnanzitutto uno scambio che noi chiameremmo politi-co o diplomatico all'interno del quale si innesta, inmodo inestricabile dal resto, il dono.

Caratteristica fondamentale del sistema del dono èche il controdono non avviene contestualmente ma adistanza di tempo, a volte di anni, in un altro incontro,un'altra ricorrenza, cerimonia, festa, banchetto. E non ènemmeno detto che riguardi la stessa tribù: il controdo-no può essere anche fatto a un soggetto «terzo» purchésia inserito nel sistema circolare del dono.

Oggetto di scambio sono, in linea di massima, benipreziosi che potremmo anche definire superflui. E,come scrive Polanyi, ciò che governa il regime del dononon è «la propensione al baratto, bensì la reciprocità nelcomportamento sociale»7.

Ci sono però eccezioni come quando tribù marittimescambiano il loro pesce (sempre nella forma del donorestituito a distanza di tempo in grandi cerimonie ritua-li) con i prodotti agricoli delle tribù dell'interno. Qui loscambio sembra assumere una valenza più direttamenteeconomica se per economia si intende tutto ciò che haa che fare con la sussistenza dell'uomo. Ma manca com-pletamente il fine di lucro, di guadagno, di profitto,come noi lo intendiamo, che anzi se fosse presente informa esplicita sarebbe motivo del più profondo di-sprezzo. Nel dono infatti bisogna dimostrare la piùampia e apparentemente disinteressata generosità peraumentare la propria autorità, il rango sociale, il presti-gio che è l'autentico fine di tutta la faccenda. Tanto èvero che nel caso che al dono non segua un adeguatocontrodono la sanzione non è materiale ma morale: ilgruppo, il clan, la famiglia, l'individuo perdono la fac-

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eia, la persona nel senso antico di maschera, il diritto diincarnare uno spirilo e quindi l'anima, che è la cosapeggiore che possa capitare a un primitivo e che trascinacon sé l'autorità, il prestigio, il rango.

Che il motiva dell'onore sia assolutamente fondantenella civiltà tribale lo si vede in quell'istituto straordina-rio che è il potltch dove, puramente e semplicemente, sidistruggono voluttuariamente dei beni per non darenemmeno l'impressione di volere qualcosa in cambio emettersi quindi in una situazione di assoluta superiorità.Nel potlach il capo è tanto più grande quante più cosedi valore distrugge: «Si bruciano cassette di olio di ola-chen e di olio di balena, si bruciano le abitazioni e mi-gliaia di coperte, si mandano in pezzi gli oggetti di ramepiù cari, li si getta in acqua, per schiacciare, per "an-nientare", il rivale»8. Il potlach infatti, come lo scambiodei doni, è innanzi tutto un gioco, una partita, una sfida.Perché al potlach seguirà, a tempo opportuno, un con-tropotlach in cui bisognerà essere ancora più grandiosinella distruzione.

Le società tribali, neolitiche o «moderne» che siano,conoscono quindi il significato della ricchezza, la ap-prezzano perché è motivo di prestigio e anche la usanoin quelle che i primitivi stessi chiamano «guerre di pro-prietà» 9, ma è loro totalmente estraneo il concetto dina-mico di capitale. Il capitale viene infatti investito peraccumulare altro capitale, la ricchezza dei primitivi vie-ne accumulata per dilapidarla alla prima buona occasio-ne: nel potlach, in feste, in banchetti, nei matrimoni. Laricchezza è fatta per essere spesa a fondo perduto. Nullaè più lontano dalla mentalità dei primitivi dei concetti dirisparmio, di investimento, di calcolo economico. ScriveMauss che fra gli eschimesi «in occasioni di matrimoni,di rituali vari, di promozioni, si spende senza risparmiotutto ciò che è stato faticosamente ammucchiato durantel'estate e l'autunno»10.

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Secondo qualche economista il sistema del dono e delcontrodono, spogliato dei suoi aspetti rituali e folclori-stici, non sarebbe altro che una compravendita camuffa-ta, sia pur differita nel tempo. Ma l'ipotesi non regge.Perché qui non sarebbe il compratore (donatario) a sce-gliere quel che vuole acquistare e il momento in cuivuole farlo ma il venditore (colui che dona) a imporglie-lo. Anche perché il dono non può essere rifiutato senzarecare una gravissima offesa11.

Lo stesso si può dire per chi, come l'antropologoFranz Boas, ha individuato nel sistema del dono unprestito a interesse, anzi a usura, dato che il controdonodeve essere, possibilmente, più importante del dono12.A parte che ciò contrasta con l'intera mentalità primiti-va che spregia tutto ciò che sa di guadagno13, si tratte-rebbe di un prestito davvero singolare perché l'iniziati-va non verrebbe presa da chi ha davvero bisogno delprestito ma da chi vuole l'interesse. Inoltre poiché loscambio non si esaurisce col controdono ma postula unnuovo dono in una catena teoricamente infinita, dove aricevere sono gruppi o individui che quasi sempre nonne hanno alcun bisogno, parlare in questo contesto diprestito non ha alcun senso. Infine, tenendo anche con-to che si tratta di società preletterate dove non esisteunità di misura né possibilità di calcolo esatto, il valoredel dono non è quantitativo ma qualitativo, non è og-gettivo ma soggettivo, non è materiale ma emotivo. Ilvalore della cosa donata non è intrinseco e non è nem-meno legato all'utilità che ne trae la controparte (chepuò anche non esistere, come nel potlach), ma al sacri-ficio affettivo che costa il separarsene. L'oggetto donatoè caro non nel senso moderno del prezzo ma di quelloantico del «ci è caro» perché siamo ad esso emotiva-mente legati.

Bisogna quindi rassegnarsi al fatto che il primitivonon è un homo oeconomicus e che la storia non è una

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inevitabile ascesa verso il mercato e il denaro i cui pre-supposti sarebbero stati presenti fin dalle età più anti-che. Le motivazioni profonde che muovono i primitivisono l'onore e il prestigio, la ricchezza viene «investita»,cioè in realtà distrutta, per avere un onore e un prestigioancora più grandi. Quindi i primitivi non disprezzano laricchezza, la valutano come noi, ma sempre come mezzoe mai come fine.

Piuttosto il dono è ambiguo da un altro punto divista. Perché obbliga colui che lo riceve, lo tiene in statodi minorità, di soggezione, di sudditanza psicologica neiconfronti del donante fino a quando non lo si è restitui-to e la situazione si rovescia. I Tlingit, indiani del NordAmerica, dicono che «si mettono i doni sul dorso dellagente che li riceve» 14. E questa ambivalenza è conserva-ta nelle lingue di ceppo germanico dove gift vuoi diredono ma anche danno. Il dono può diventare un pesoinsopportabile ed è per questo che i primitivi, comehanno notato, stupendosene, gli antropologi, possonopassare repentinamente da un clima di amicizia e difesta alla rissa e alla guerra. Quella del dono è una sfidaritualizzata, un gioco pesante, come l'odierno poker15, ebasta un nonnulla perché salga di un gradino, si tolga lamaschera e diventi conflitto cruento.

Lo stesso schema opera nell'ambito della tribù fra clane clan, famiglia e famiglia. Anche qui lo scambio avvienenella forma del dono e controdono collettivo e spostatonel tempo. All'interno del clan e della famiglia ci sonopoi rapporti di reciprocità, che implicano trasferimentidi beni, che seguono complicatissimi itinerari parentali.Scrive Polanyi: «Un abitante maschio delle isole Tro-briand è responsabile verso la famiglia di sua sorella. Eglinon gode però dell'assistenza del marito della sorella ma,se è sposato, di quella del fratello di sua moglie, membrodi una terza famiglia, la quale a sua volta si trova inseritain un analogo sistema di rapporti»16.

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A meno che non si tratti di cose rapidamente deperi-bili, cibo per esempio, e quindi da consumarsi subito, ildono non viene, in genere, conservato per sé ma è rido-nato a qualcun altro in un giro vorticoso di scambi, percui accade di frequente che gli oggetti passino così ve-locemente di mano in mano da ritornare all'originariopossessore, magari nella stessa giornata. A conferma cheil motivo del guadagno è estraneo a questo genere ditransazioni.

Al di fuori dello scambio collettivo, fra tribù e tribù,clan e clan, famiglia e famiglia, e dei complessi rapportidi assistenza reciproca che si instaurano all'interno diquesti gruppi, esiste, in posizione del tutto marginale,anche la transazione individuale, che è ammessa purchéavvenga nella forma del baratto «puro», cioè senza ba-dare al valore degli oggetti e quindi senza fine di lucro.Così uno scrittore del regno africano del Dahomey ricor-da, con nostalgia, la natura del baratto «puro» quandoil denaro, che in quella parte del Continente nero fecela sua comparsa piuttosto tardi, nel XVIII secolo, nonesisteva ancora: «In quei giorni non vi era moneta. Sevolevi comprare qualcosa e tu avevi sale e un altro avevagrano, tu gli davi un poco di sale e lui ti dava un pocodi grano. Se tu avevi pesce e io avevo pepe, io ti davopepe e tu mi davi pesce. In quei giorni esisteva soltantoil baratto. Niente moneta. Ciascuno dava all'altro ciò cheaveva e ne riceveva ciò di cui aveva bisogno» 17.

Il baratto con fine di lucro e guadagno di una delleparti - che pur dovette esistere perché va incontro adivieti - è socialmente malvisto e scoraggiato in tutti imodi perché incrina la solidarietà del gruppo che è ilvalore primario in queste società.

Invece il baratto individuale senza fine di lucro ac-compagnava spesso, per esempio, le cerimonie del Kula,che è il nome che gli abitanti della Melanesia davano alcommercio fra le tribù dell'arcipelago18. Il Kula intertri-

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baie si svolge nella consueta forma del dono e del con-trodono collettivo, però accanto ad esso i singoli posso-no dar luogo a scambi individuali che prendono il nomedi gimwali, un termine che ha un sapore vagamentedispregiativo. In ogni caso la maggior parte degli oggettiscambiati nel gimwali viene poi trasferita, al ritorno, aicapi dei villaggi o dei clan, difficilmente rimane in pos-sesso del soggetto che ha fatto lo scambio.

La realtà tribale è quindi attraversata da una correnteininterrotta di scambi, rivolti in tutte le direzioni, chenon hanno però un contenuto propriamente economico,come noi modernamente lo intendiamo, anche se a volte(seppur marginalmente, perché ogni gruppo è tenden-zialmente autosufficiente) hanno a che fare con la sussi-stenza, per esempio quando riguardano beni di primanecessità. Scrive Mauss che tale regime «deve essere sta-to quello di una grandissima parte dell'umanità duranteuna assai lunga fase di transizione... il principio delloscambio-dono deve essere stato caratteristico delle so-cietà che non sono ancora pervenute al contratto indivi-duale puro, al mercato in cui circola il denaro, alla ven-dita propriamente detta e, soprattutto, alla nozione delprezzo calcolato in moneta»19.

Infatti tutti gli scambi di cui abbiamo parlato finoraavvengono in natura. Eppure sia nel neolitico che tra icosiddetti «primitivi moderni» è esistita una forma dimoneta: la moneta-mercé. Praticamente tutto ciò cheaveva un apprezzamento collettivo e diffusione adeguatapoteva essere moneta-mercé: conchiglie, ostriche, sale,perle, braccialetti, catenelle, certi tipi di pietre, zanne dicinghiale e di elefante, denti di cane e di capidoglio,pesce essiccato, pelli. Alla categoria della moneta-mercéappartengono anche la moneta-utensile e la moneta-be-stiame (buoi, vacche, pecore).

La moneta-mercé però non è ancora denaro in sensoproprio o, per essere più precisi, completo, perché ha

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solo alcune delle sue funzioni e non le più importanti. Èsegno di ricchezza e mezzo di pagamento ma non misu-ra di valore e intermediario nello scambio. Con questamoneta si pagano i tributi ai capitribù e ai capiclan ecostoro retribuiscono alcune prestazioni che non rien-irano nel sistema della reciprocità.

La moneta-mercé non è invece ancora usata come mi-sura di valore, mancando a queste civiltà preletterate glistrumenti concettuali e tecnici per «far di conto». E nonrisulta che sia stata utilizzata come mezzo di scambio.

Mancando la moneta come misura di valore e inter-mediario nello scambio non si potè creare nel neolitico,così come nelle civiltà tribali, un mercato basato sulmeccanismo domanda-offerta-prezzo. Il valore attribui-to ai beni, non diventati ancora mercé in senso moder-no, è sempre consuetudinario, tradizionale, convenzio-nale, fisso. Ciò riguarda anche, e soprattutto, il lavoro.Esistono dei salari per i rari servizi che esulano dal re-gime di reciprocità ma sono fissi e non sottoposti quindialle fluttuazioni determinate dal variare e dall'incontrar-si della domanda e dell'offerta. In questo tipo di comu-nità, dove non esiste nemmeno un mercato in senso pro-prio delle merci, un mercato del lavoro è assolutamenteinconcepibile.

La terra da coltivare, quella da pascolo, gli animalipiù importanti sono di proprietà collettiva20, apparten-gono alla tribù o al clan, mentre il possesso e il godi-mento sono individuali o, piuttosto, familiari. Le terreagricole sono suddivise il più equamente possibile fra lefamiglie della tribù.

Esiste poi un sistema di redistribuzione della ricchez-za che diventerà ancora più pregnante e incisivo nel pe-riodo successivo, quello degli Imperi, quando il territo-rio appartenente alla comunità, costituitasi in Stato, saràmolto più vasto e la figura del re, con la sua burocrazia,acquisterà una posizione centrale e decisiva. Comunque

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anche nel periodo neolitico alcuni beni convergono nel-la forma consueta del dono o in quella del tributo innatura, verso i capi delle tribù e dei clan e vengono daquesti redistribuiti ai membri del gruppo come contro-dono o pagamento in natura di determinati servizi eprestazioni. La divisione del lavoro è ancora limitatissi-ma. Tutti, in linea di massima, fanno tutto e se c'è chisi dedica a lavori artigianali non ne fa un mestiere esclu-sivo ma continua, come gli altri, a occuparsi della terra.Anche perché, non esistendo un mercato, non potrebbetrarre da questa specializzazione i mezzi di sussistenza.Del tutto sconosciuta è poi la divisione fra lavoro ma-nuale e intellettuale.

Quella neolitica è quindi una civiltà comunitaria efortemente solidarista che sarebbe azzardato però defi-nire comunista, perché la parte economica riservata alpotere centrale, cioè al capo tribù, è tutto sommato mar-ginale. Inoltre anche il potere del capo è più formale erappresentativo che reale, limitato com'è da usi e da tra-dizioni invalicabili che sono il vero collante del gruppo.

Queste società non conoscono nemmeno la povertàindividuale. L'uomo non è mai solo, segue, nel bene enel male, il destino collettivo del gruppo, con esso pro-spera o con esso deperisce o si estingue.

Alla fine del periodo neolitico il bilancio dell'homosapiens era ragguardevole. Aveva inventato la ruota, laruota del vasaio, l'aratro (verso il 4000 a.C.), usava ilcarro, la zappa, sapeva tessere, filare, cucire, rammenda-re, conciare le pelli, si vestiva con indumenti tenuti in-sieme da bottoni e spilli d'osso, la donna andava in girocon mantelle, mantelline, giacchette, e aveva il beauty, siconosceva il sapone e la pulizia intima, l'arte di far fer-mentare i vini e la birra, si beveva acquavite, si fumavaoppio e hascisc, si costruivano dighe, canali, strade, por-ti, navi, castelli, fortificazioni, templi, si estraevano me-

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talli scavando pozzi anche di venti metri con picconinon più tanto rudimentali, ci si serviva di una vastagamma di utensili, c'erano le medicine e i veleni, si fa-cevano audacissimi interventi chirurgici di trapanazionedel cranio che a volte riuscivano, la produzione artisticaera niente male, si praticava la magia ed esisteva un'in-tensa e raffinata vita spirituale. Ma il denaro non si ve-deva ancora. Sfuggente, com'è nella sua natura, avevafatto qualche apparizione fugace, come il bagliore di unlampo improvviso in un caldo pomeriggio d'estate: al-l'interno del sistema del dono (il dono apre infatti uncredito, sia pur di natura morale), in certe operazioni dipagamento, nella segnaletica della ricchezza. Ma per ilmomento il suo spirito non si era ancora incarnato inqualcosa di riconoscibile e di inequivocabile. E, soprat-tutto, l'uomo non era consapevole della sua esistenza.Sarebbero passati ancora tremila anni prima che l'even-to si compisse.

1 F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, Laterza 1979,p. 44.

2 K. Bùcher, Le origini dell'economia politica, 1904.' F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 60.4 K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, Einaudi 1983, p. 80.5 M. Mauss, Teoria generale della magia, cap. Saggio sul dono, Einaudi

1991, p. 277." Ibid., p. 1%.7 K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne, cit., p. 14.8 M. Mauss, Teoria generale della magia, cit., p. 214. In certe ostentazioni

di lusso sfrenato si può ritrovare il gusto del potlach anche nella societàattuale. Per fare un piccolo esempio una Cadillac è potlach: perché ha uncosto spropositato e prestazioni, in proporzione, modeste, limitate dalla suastessa lunghezza. La sua funzione vera è di mostrare agli altri che si è cosìpieni di soldi da poterli buttar via. Mi viene in mente, in proposito, unfumetto di Topolino in cui Paperone e un altro riccastro si sfidano dilapidan-do il loro denaro. Fanno a chi finisce prima. La vittoria sembra arridere alriccastro perché nel suo forziere rimane un nichelino mentre quello di Pape-rone è desolatamente vuoto. Ma Paperone preme un pulsante e si apre unabotola che rivela un enorme sottofondo zeppo di dollari. Il riccastro si ritira,umiliato, rovinato e vinto.

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9 Ibid., p. 212, n. 5.10 Ibid., p. 208." Ibid., pp. 172, 173, 22;, 223.12 F. Boas, Report• on theNorth Western Tribes of Canada, citato da M.

Mauss, Teoria generale della magia, cit., p. 210." Ibid., p. 214. Espressioni come «desideroso di fare fortuna rapidamen-

te», «avido di cibo» hanno ui connotato fortemente dispregiativo nella lin-gua degli Indiani del Nord Anerica. Del resto agli Indiani sono sconosciutianche termini come «scambio» e «vendita» che sono i presupposti del gua-dagno: non esistono rella loro lingua.

14 Ibid., p. 218, n. 5.15 II gioco d'azzardo è tutora intensamente praticato dagli Indiani nord-

americani. I loro racconti sono pieni di leggende di gioco e di capi che hannoperduto tutto. Ibid., p. 21.

16 K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, cit., p. 65.17 S. Herskovits, DahomenNarrative, Evatson 1958, p. 364. La moneta fu

introdotta alla creazione del regno di Dahomey dal re Te Agbanli (1688-1729). Il re veniva da fuori e uno degli autoctoni, un Akono, osò protestarecontro quella stravagante novità. Fu subito impiccato e immolato sull'altaredel denaro.

18 M. Mauss, Teoria generile della magia, cit., pp. 186-202. Nel Kula, chesignifica circolo, la dilazione dello scambio nel tempo, che caratterizza il re-gime del dono e del controdono, è particolarmente evidente. Un anno unatribù parte dalla sua isola a bordo di una nave vuota e fa il giro dell'arcipe-lago tornando carica di doni. L'anno successivo un'altra tribù fa lo stesso giroin senso inverso. E così via. Non necessariamente la tribù da i suoi doni aquella da cui li ha in precedenza ricevuti, capita che li dia a una tribù «terza»,ciò che conta è che questa sia inserita nel giro del kula.

19 Ibid., p. 239.20 Come vedremo in seguito, la vendita del suolo è stata per millenni un

tabù. E anche fino a tempi molto recenti l'alienazione della terra è statasottoposta a forti restrizioni che trovano origine nell'antico comunismo delsuolo: «Poiché la famiglia si identifica col focolare e con la terra è naturaleche la terra sfugga al diritto dell'economia del capitale». Ibid., p. 268, n. 1.

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IV.

INTERLUDIO

Con la fine del periodo neolitico si chiude la preisto-ria e si entra in una nuova fase chiamata età del bronzo.Verso il 3600 a.C. appare in Oriente un fenomeno deltutto nuovo nella vicenda umana: l'urbanesimo. Su alcu-ni degli antichi villaggi di capanne sorgono e si svilup-pano grandi città in pietra. Le prime di cui si abbianotizia sono Ur e la sumera Uruk in Mesopotamia. Apartire dal 3000 a.C. si formano in rapida successione gliImperi irrigui, così detti perché si organizzano lungo ilcorso di grandi fiumi: Tigri, Eufrate, Indo, Nilo. Sonogli Imperi Sumero, Assiro, Babilonese, Ittita, Harappa,Egizio. Nasce la forma-Stato che ha al suo vertice lafigura del monarca di origine divina o dio egli stesso euna casta di burocrati che si serve di una sconvolgentenovità: la scrittura. Le strutture della società tribale siincrinano. Come nota Aristotele nella Politica le fami-glie, diventate troppo numerose, si frantumano e i loromembri sono costretti a separarsi e a disperdersi sulterritorio. Anche le tribù si sparpagliano e perdonoparte della loro coesione interna. Si indebolisce quindil'autosufficienza del gruppo. Adesso alle singole fami-glie che in precedenza utilizzavano insieme alle altre ibeni posseduti in comune viene spesso a mancare qual-cosa. E non sempre si tratta di beni superflui '. Lo scam-bio non è più un rituale voluttuario, un donare per il

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piacere di dare e di ricevere, ma comincia a diventareuna necessità. Prende perciò piede il baratto individua-le, contestuale, diretto, molto diverso dal regime del do-no e del controdono dove era collettivo, dilazionato neltempo e spesso indiretto. Lo scambio muta quindi for-ma e struttura. E anche contenuto. Ora che i beni pri-mari non sono più, o comunque non sono sempre, aportata di mano non è più concepibile il baratto nellasua forma «pura», indifferente al valore oggettivo dellecose scambiate. È la situazione ideale, secondo i teorici,per la nascita del denaro e del libero mercato basato sulmeccanismo della domanda-offerta-prezzo.

Invece le società degli antichi Imperi si regolaronosecondo un criterio del tutto diverso: quello dell'equiva-lenza. Poiché è diventato ormai in larga misura indi-spensabile, lo scambio individuale, una volta osteggiato,è consentito ed è sottratto al regime faticoso e dispen-dioso del dono e del controdono, ma deve avvenire se-condo certe equivalenze prefissate fra bene e bene inmodo che non ci sia profitto di una delle parti a scapitoe con danno dell'altra. Oppure, se vogliamo vederla daun'altra angolazione, il guadagno deve essere uguale perentrambe. Perché? Lo spiega bene Aristotele nell'EticaNtcomachea: «L'esistenza stessa dello Stato dipende daquesti atti di reciprocità programmata... quando essavenga a mancare non è più possibile alcuna forma dicompartecipazione, mentre è proprio tale comparteci-pazione che ci tiene uniti»2. L'equivalenza nasce quindida quella profonda esigenza che permea di sé tutte lesocietà che vissero la storia più remota dell'uomo: man-tenere salda l'unità del gruppo, per far fronte col mas-simo di coesione e di forza ai pericoli di un mondoesterno sentito come pericoloso e infido. Così anchenelle società degli antichi Imperi, come in quelle prece-denti, si ritiene che il lucro e il guadagno individualiincrinino la solidità e l'unità del gruppo anche se ormai

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non ha più dimensioni e strutture tribali ma statuali.Le equivalenze segnano però un notevole passo avanti

verso una concezione economica, e non più ludica, dellavita sociale. Non è un caso che gli antichi Imperi nonconoscano la pratica puramente autodistruttiva delpotlach. Inoltre l'equivalenza comporta un giudizio divalore economico sui beni scambiati che era estraneo (oappena percettibile) nelle società neolitiche e tribali.Come ancora più estranea a queste società era la misu-razione di tale valore.

Ma chi stabilisce la giusta misura? La tradizione, laconsuetudine, la convenzione, la legge dello Stato. L'e-quivalenza è quindi una ragione di scambio fissa. Noioggi diremmo un «prezzo» fisso e, in parte, politico.Una misura di frumento si scambia invariabilmente conuna giara di vino, in ragione di uno a uno, un capo dibestiame di grande taglia con dieci di piccola taglia ecosì via. Il prezzo quindi è fisso, non può essere contrat-tato dalle parti, né al rialzo né al ribasso (è proibitoalienare anche «sottocosto») e non dipende dall'incon-tro della domanda e dell'offerta.

Che cosa succede quando un bene diventa scarso?Questa è la domanda, polemica, che pongono gli econo-misti moderni, i quali vogliono a tutti i costi coglierel'esistenza del denaro e dell'economia di mercato anchenelle società arcaiche. Se già non provvedono autono-mamente i partecipanti allo scambio sulla base della tra-dizione e della consuetudine, sul luogo del mercato in-terviene un funzionario dello Stato che, ferme restandole equivalenze, raziona il bene in modo che tutti neabbiano la minima quantità necessaria e i ricchi nonpossano accaparrarselo. Il concetto di razione minimanecessaria per tutti i beni essenziali alla sussistenza èinfatti fondamentale negli Imperi arcaici3 che sono,come vedremo meglio in seguito, società di tipo collet-tivistico. In questi Imperi, quando occorre, quando la

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tradizione e la consuetudine non bastano, è lo Stato aimporre quella solidarietà che nella società tribale eraautomatica e derivava dal fatto che, nella sostanza, latribù, pur divisa in clan, era un'unica grande famigliaumana.

Nel lunghissimo periodo può naturalmente accadereche le equivalenze non reggano più. Allora si provvedea mutare le ragioni di scambio in multipli di quelle ori-ginarie (2 a 1, 2 e 1/2 a 1), rifissandole. Ma la documen-tazione che possediamo dimostra che negli antichi Im-peri i «prezzi», cioè le equivalenze, rimasero stabili percentinaia di anni. Nell'Egitto ellenistico (quindi quandoin Grecia e in Roma esisteva già da tempo un'economia,almeno parzialmente, di mercato e monetaria) i «prezzi»dei tre cereali fondamentali (frumento, orzo e olyra)rimasero gli stessi per più di 200 anni4. Bisogna tenerpresente che negli antichi Imperi il controllo dei «prez-zi» era facilitato e reso possibile dal fatto che lo Stato,sia in modo diretto che attraverso la tassazione, aveva inpratica il monopolio della produzione e anche della di-stribuzione dei beni principali (nella misura del 90%,secondo Heichelheim)5.

In un sistema di equivalenze la moneta non è neces-saria. Non solo lo scambio avviene ancora in natura manon ha come intermediaria nemmeno quella forma pri-mitiva di moneta che è la moneta-mercé, sia essa unbene di consumo o un metallo prezioso o ritenuto tale.Lo scambio avviene quindi nella forma di baratto diret-to (una misura di frumento contro una giara di vino) oindiretto, quando l'acquirente raggiunge il suo oggettodi desiderio attraverso una serie di passaggi di mano.Ciò avveniva soprattutto al mercato al minuto. Moltidipinti egizi mostrano un uomo del popolo che va almercato per scambiare, poniamo, la sua focaccia conuna collana. Dato che chi ha la collana non è interessatoalla sua focaccia deve scambiarla con un altro prodotto,

e questo con altri ancora, prima di arrivare allo scopo(nel dipinto che ho in mente lo si vede, alla fine, con lacollana e, in più, un paio di sandali).

Durante l'era degli antichi Imperi orientali (3000 anniarca) nessun bene, per quanto diffuso e fungibile, di-venne mai intermediario privilegiato per lo scambio,conquistando così la dignità e la funzione di denaro. Ilconcetto di moneta come mezzo di scambio, cioè comedenaro vero e proprio, sia pur nella più tranquillizzante(orma di una mercé, era troppo ostico per gli uomini deltempo.

Se non esisteva ancora la moneta come mezzo discambio c'era invece la moneta come misura di valore omoneta di conto. Era anzi indispensabile per raggiunge-re e valutare l'equivalenza nel caso di transazioni com-plesse, plurime o in cui intervenivano beni fra i qualinon era stata stabilita dalla consuetudine o dalla legge(che si occupava dei beni più importanti) una ragione discambio fissa. Max Weber parla a questo proposito di«baratto con computo di moneta»6.

Per esempio nella Babilonia dell'epoca di Hammura-bi (1717-1665 a.C.) un gur d'orzo valeva un siclo d'ar-gento (cioè un pezzo d'argento di un determinato peso)che era la moneta di conto di quell'Impero. Ma se unovoleva avere un gur d'orzo non lo otteneva dando incambio un siclo d'argento ma una giara di vino o altramercé considerata equivalente. Nel sistema delle equiva-lenze la moneta di conto serve quindi per facilitare ilbaratto ma non lo sostituisce. Non funge da mezzo discambio, non è mezzo di scambio, non è denaro. E ciòvale per tutti gli antichi Imperi: i testi cuneiformi e igeroglifici non registrano transazioni in cui lo scambioavvenga in moneta7.

Esiste invece, come già nel neolitico, la moneta-mercécon funzione di mezzo di pagamento. Quando si puòdire che una mercé è usata come mezzo di pagamento

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ed è quindi moneta? Quando lo stesso bene può essereimpiegato per far fronte a diversi tipi di obbligazione(altrimenti, trattandosi appunto di una mercé, si ha unasemplice transazione in natura). Negli Imperi merci diquesto tipo esistono e servono per saldare quelle obbli-gazioni (soprattutto le imposte) che non si esauriscono,come avviene in genere in questi sistemi, in prestazionipersonali. A Babilonia era l'orzo ad assolvere la funzionedi mezzo di pagamento. Un'altra caratteristica del com-plicato sistema degli antichi Imperi è infatti che nonsempre, per non dire quasi mai, la mercé che serve comemoneta di conto serve anche come mezzo di pagamentoo come deposito di ricchezza (tesoro). Così a Babiloniail siclo d'argento è moneta di conto, l'orzo è mezzo dipagamento, i metalli preziosi (oro, argento, rame) depo-sito di ricchezza. Ma il siclo d'argento non è usato comemezzo di pagamento, l'orzo non serve come moneta diconto e l'oro, l'argento e il rame non servono comemezzo di pagamento né come moneta di conto. Nonbasta: non sempre la moneta di conto è la stessa permisurare il valore di tutti i beni. Esiste quasi sempre undoppio regime per cui c'è una moneta che misura ilvalore degli oggetti modesti e un'altra che misura il va-lore di quelli preziosi. Per esempio nel Regno africanodel Dahomey (la cui struttura ricalca quella degli antichiImperi orientali) le conchiglie cauri sono impiegateesclusivamente per misurare gli oggetti di poco contomentre gli schiavi sono la misura di beni consistenti.

Negli antichi Imperi esiste dunque la moneta (sia purnella forma di moneta-mercé) come misura di valore,mezzo di pagamento, deposito di ricchezza ma non an-cora come intermediario nello scambio. Il lettore si stu-pirà, forse, che si potesse saldare un'obbligazione conuna moneta con la quale non si poteva invece acquista-re. Ciò è contrario a tutta la nostra esperienza di moder-ni. Non per nulla Max Weber definisce il denaro «un

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mezzo di pagamento convenzionale che sia anche unmezzo di scambio»8. Da quando infatti è nato il denarovero e proprio esso è essenzialmente un mezzo di scam-bio e il quid che in una società moderna vale comemezzo di scambio è anche mezzo di pagamento, monetadi conto, deposito di ricchezza. Nelle civiltà arcaichenon è così, non esiste una moneta «buona per tutti gliusi» ma monete diverse per le diverse funzioni del dena-ro. E le funzioni della moneta come deposito di ricchez-za, mezzo di pagamento, misura del valore nascono pri-ma della funzione come mezzo di scambio. Sarà soloquando apparirà la moneta coniata come mezzo discambio che essa assorbirà anche le altre funzioni e di-venterà denaro vero e proprio come modernamente lointendiamo.

Ma negli antichi Imperi ciò è ancora di là da venire.La logica degli economisti classici che vedono nel dena-ro un mezzo di scambio da cui derivano tutte le altre suefunzioni è ribaltata dallo studio della storia, che ci diceche il percorso fu inverso.

L'altra cosa che scombussola i teorici classici, abituatia dedurre l'economia antica partendo da quella moder-na, è che negli antichi Imperi orientali esistano mercatima non ci sia un sistema di mercato. Eppure è propriocosì. Esistono i mercati perché, perduta l'autosufficienzatribale, lo scambio è diventato una necessità, ma non c'èun sistema di mercato perché le equivalenze fra i varibeni sono fisse e prestabilite, non fluttuano e non ri-spondono al meccanismo domanda-offerta-prezzo.

Durante il periodo degli Imperi ci fu un grande svi-luppo del commercio estero. Si tratta però di un com-mercio fra Stato e Stato che non comporta la presenzadel mercante individuale, privato, che opera per motividi guadagno personale. Gli economisti e gli storici sonostati tratti in inganno dalla figura del tamkarum, il mer-cante assiro, babilonese, egizio che è diffusissima in

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Mesopotamia durante l'età del bronzo. Ma il tamkarum,come ha dimostrato senza possibilità di equivoco KarlPolanyi9, non è un mercante in proprio bensì un funzio-nario imperiale che opera al servizio del re, in base allesue direttive e a vantaggio della collettività. Il suo gua-dagno non deriva dalla compravendita ma dal suo statusdi funzionario. Egli è cioè remunerato dal prestigio diessere un emissario del re e dai vantaggi indiretti che neconseguono; in altri casi prende semplicemente uno sti-pendio. Il mercante individuale, nel senso moderno deltermine, che guadagna sulla differenza di prezzo fra ciòche acquista e ciò che vende, farà la sua prima appari-zione in Grecia nel VII e VI secolo a.C., solo dopo l'in-troduzione della moneta coniata. Sarà, in genere, unmeteco o uno straniero, agirà sul mercato interno, aldettaglio, col nome di kapelos e prenderà una posizioneinfima nella scala sociale, disprezzato da tutti10.

Il commercio estero negli antichi Imperi si avvaleancora in notevole misura del sistema del dono e delcontrodono di origine tribale. Del resto più che l'acqui-sizione di beni utili ha come scopo quello di stringerealleanze. E quindi oggetto dello scambio sono esclusiva-mente beni preziosi quali schiavi, cavalli, oro, avorio,incenso. Fuori dal dono c'è il commercio cosiddettoamministrato, basato cioè su trattati politici fra le particon prezzi «fissi» stabiliti secondo equivalenze comune-mente accettate. Si tratta anche qui di uno scambio cheavviene esclusivamente in natura: la moneta, anche nellaforma di moneta-mercé o di moneta-metallo prezioso, èassente. Quando, per esempio, si scambia oro lo si trattacome mercé, non funge da intermediario, è semplice-mente barattato con un altro bene secondo un'equiva-lenza prefissata. L'intero sistema del commercio estero,basato sull'istituto del port of trade, sul quale non è quiil caso di addentrarsi11, esclude la concorrenza e quindiil formarsi di un prezzo sulla base del libero meccani-

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mo domanda-offerta-prezzo. Nel commercio estero unvero e proprio sistema di mercato farà la sua comparsasolo nel III secolo a.C., nel porto di Delo, con quattro-cento anni di ritardo sul commercio interno. E avrà ini-zialmente come oggetto i cereali (prodotto base dell'an-tichità) e, in seguito, gli schiavi.

Il commercio, interno ed estero, rappresenta in ognicaso solo una parte, e piuttosto modesta, della circola-zione dei beni negli antichi Imperi orientali. Il sistemafondamentale è in realtà la redistribuzione. Tutti i beniprincipali prodotti dai sudditi (cereali, lana, olio) sonotassati in natura, sulla base della decima, e affluiscono alcentro dello Stato, in enormi magazzini nella disponibi-lità del re e dei suoi funzionari. Da qui rifluiscono perpagare, sempre in natura, la Corte, la burocrazia impe-riale, i soldati, i lavoratori che non dipendono diretta-mente dallo Stato ma prestano ad esso saltuariamentealcuni servizi. Oppure sono utilizzati per distribuire aimeno abbienti, schiavi compresi, la razione minima ne-cessaria alla sussistenza. È infatti preciso compito deisovrani antico-orientali cercare di annullare, per quantopossibile, le ineguaglianze economiche ed è loro altret-tanto preciso dovere che nessuno, a cominciare dai sog-getti più deboli come le vedove e gli orfani, soffra lafame. Anche negli antichi Imperi, come nella società tri-bale, la povertà individuale è sconosciuta pur se, con ilprogressivo affermarsi della divisione del lavoro, comin-ciano a comparire, oltre a quelle di casta, notevoli diffe-renze economiche.

Per finanziarsi lo Stato antico-orientale ricorreva,come quello moderno, alle imposte che esigeva in naturae in misura assai più ridotta di quanto non faccia oggi ilfisco, oppure a prestazioni personali richieste occasio-nalmente. Non sembra però che queste ultime pesasseropiù di tanto sui sudditi, nemmeno dal punto di vistapsicologico. Scrive Heichelheim: «Generalmente le pre-

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stazioni di lavoro limitate a favore del re venivano accet-tate come un male necessario e inevitabile e non si avevala sensazione di essere degradati: d'altra parte lo Statoantico-orientale propagandava al massimo queste pre-stazioni di lavoro e cercava di suscitare nei lavoratoriorgoglio per le opere compiute»12.

Esistono però anche dei veri e propri rapporti di la-voro fra Stato e sudditi quando costoro forniscono pre-stazioni che esulano dal sistema delle imposte personali.Ciò comporta dei salari che vengono pagati in naturasecondo tariffe fisse, determinate anche qui dalla tradi-zione, dalla consuetudine, dalla legge. Non ci fu mai intutto l'Oriente antico un mercato del lavoro e nessunuomo libero fu mai costretto a vendersi sottocosto.

Un sistema del genere ha bisogno di una folta buro-crazia. Spetta ai funzionari imperiali tenere su appositiregistri la complessa contabilità che nasce dalle recipro-che obbligazioni fra Stato e sudditi, e che è resa ancorpiù complicata dal fatto che la maggioranza delle impo-ste si risolve in prestazioni personali. Già a quest'epocasono ideate delle «camere di compensazione» fra debitie crediti e solo le eccedenze vengono pagate.

Esiste una vasta opera di programmazione e di piani-ficazione. I funzionari dello Stato erano perfettamentein grado di sapere in ogni momento, sulla base delleregistrazioni e dei loro organizzatissimi archivi, qualientrate sarebbero confluite nei magazzini imperiali equali uscite lo Stato avrebbe dovuto sostenere. Esistevainoltre un vero e proprio bilancio dello Stato.

Programmazione, contabilità complesse, bilancio,computo dei saldi furono resi possibili dal progressodelle matematiche e, soprattutto, dall'introduzione dellamoneta di conto che serviva per valutare, sempre all'in-terno del sistema delle equivalenze, i beni in entrata e inuscita e a definire gli eventuali saldi.

Fu a quanto pare l'Egitto a raggiungere il massimo

perfezionamento nella pianificazione. Ai tempi di Ram-sete v, verso il 1150 a.C., esisteva «un "ordine di semi-na" che veniva di anno in anno promulgato dallo stessoFaraone. Tutti i proprietari di terre e gli agricoltori rice-vevano un programma dettagliato nel quale veniva de-scritta e prescritta la quantità e la qualità del raccoltoche erano tenuti a produrre sui loro terreni. Venivanodescritte particolarmente le estensioni di terreno cheandavano destinate a certe seminagioni, tanto per lavalle del Nilo che per le sue dipendenze. Si prescrivevainoltre la percentuale di raccolto che si doveva conse-gnare ai magazzini reali sparsi per il paese. A questoscopo il terreno veniva suddiviso in diverse categorie,dal terreno desertico più desolato alle fertili terre neresoggette alle inondazioni del Nilo»13. I magazzini impe-riali provvedevano poi a redistribuire, in modo altret-tanto dettagliato e secondo criteri equitativi, i prodottiammassati. Anche le miniere, le cave e la stessa produ-zione artigianale erano soggette a questo tipo di rigidapianificazione. «In linea di principio» scrive Heichel-heim «lo sforzo collettivo di tutti i cittadini doveva ga-rantire la sopravvivenza a tutti gli abitanti dello Stato» 14.

Gli antichi Imperi orientali erano dunque delle socie-tà collettiviste. Non più però comunitarie, come le realtàtribali che li avevano preceduti (e che tuttora esistevanoal di fuori degli Imperi), dove la redistribuzione avveni-va in modo automatico, spontaneo, attraverso le lineeparentali e di clan, partendo quindi dalla base senza checi fosse bisogno degli ordini e della pianificazione di uncapo. Gli Imperi erano delle vere e proprie società co-muniste perché la produzione e la distribuzione veniva-no pianificate dall'alto. Il posto lasciato all'iniziativaprivata era vicino allo zero. Eppure, a differenza diquello che accadrà alcune migliaia di anni dopo in Unio-ne Sovietica e nei Paesi dell'Est europeo, pare che que-ste società funzionassero piuttosto bene. La storia rac-

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conta che durante l'età del bronzo le crisi economichefurono determinate dall'irruzione negli Imperi di unaproduzione e di uno scambio non organizzati e non pro-grammati. La crisi cessava e le cose si rimettevano amarciare quando lo Stato riprendeva in mano le redinidell'economia.

Ma la società che doveva portare alle estreme conse-guenze la pianificazione comparve duemila e cinquecen-to anni dopo (cronologicamente se non antropologica-mente) la fine dell'età del bronzo. Fu l'Impero Inca nelPerù precolombiano (1300-1400 d.C.). Quella degli In-cas è l'unica società non tribale a non avere conosciutoné i mercati né, tanto meno, il sistema di mercato néalcuna forma di moneta fosse essa misura di valore,mezzo di pagamento, deposito di ricchezza, intermedia-rio nello scambio. È la sola società cosiddetta «stratifi-cata», cioè complessa e non esclusivamente tribale, doveil denaro non abbia mai fatto la sua comparsa in nessu-no dei suoi proteiformi aspetti.

L'Impero Inca fu uno strano miscuglio fra uno Statocomunista e dispotico e una società tribale. Tutta laterra apparteneva allo Stato. In ogni provincia era divisain tre parti: la prima era per il re, la seconda per il Sole,vale a dire per i sacerdoti e gli addetti al culto, la terzaper la popolazione. Su quest'ultima il clan, qui chiamatoAyllu, era organizzato secondo le forme di solidarismofamiliare e parentale che già conosciamo. Però era loStato che provvedeva a ripartire il territorio di ognicomunità fra le singole famiglie in rapporto al numerodei loro membri, in modo che i lotti fossero equivalen-ti15. Le imposte, i mita, erano tutte obbligazioni di tipopersonale, corvées insomma. Non esisteva una tassa suibeni. Gli Incas infatti, precorrendo Marx, pensavanoche la vera ricchezza fosse la forza-lavoro. Ad ogni buonconto il tributo personale se non proprio gradito allapopolazione era di gran lunga preferito a quello reale, se

è vero come nota Metraux che: «La nozione di presta-zione era tanto fortemente radicata nella mentalità Incache gli Spagnoli constatavano con sorpresa che gli indi-geni, anche nell'epoca coloniale, preferivano sottomet-tersi a una corvée, sia pure di quindici giorni, piuttostoche consegnare alle autorità uno staio di patate»16. Leprestazioni richieste erano di ogni tipo: l'agricoltore po-teva essere chiamato sui campi del Sole e del re per ilraccolto; all'artigiano poteva essere richiesto un manu-fatto (ma in questo caso le materie prime venivano for-nite dai magazzini statali); anche il professionista dovevafornire la sua specializzazione. Ogni maschio in età adat-ta doveva dare la sua disponibilità, per un certo numerodi giorni, a coprire un tratto del servizio di posta lungolo straordinario sistema stradale dell'Impero (più di se-dicimila chilometri di strade di montagna, spesso cosìampie che potevano passarci insieme otto cavalieri).

Durante l'assenza del lavoratore impegnato nel mila,o comunque nel periodo in cui stava lavorando per loStato ed era da esso mantenuto, l'ayllu doveva provve-dere alla sua famiglia secondo le collaudate tradizionitribali. Ciò era possibile anche perché la percentuale deilavoratori contemporaneamente impegnati nelle corvéesnon era alta, probabilmente non andò mai oltre il 5%della popolazione.

Ad ogni modo questo sistema consentiva allo Stato diaccumulare enormi eccedenze sia in termini di forza-la-voro che di beni. Questi ultimi finivano nei magazziniimperiali disseminati per tutto il Paese. Una parte pren-deva la via di Cuzco, la capitale, e andava al re e alla suacorte, un'altra rimaneva sul posto e serviva ad approvvi-gionare i funzionari, l'esercito e le squadre di lavoratoriimpegnati in qualche mita, ciò che restava veniva distri-buito fra le diverse province in modo da compensare lamancanza, in questa o in quella, di certi prodotti oppureper ovviare a un cattivo raccolto. L'eccedenza della for-

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za-lavoro fu invece stilizzata per la costruzione del siste-ma stradale e dei sud vertiginosi ponti (la manutenzioneordinaria spettava invece all'ayllu), per l'efficentissimoservizio postale, per .a costruzione dei giganteschi templiche sono ancora oggetto di stupore, e per l'esercito.

Un'idea di come funzionasse questo inusitato sistemasenza commercio, senza mercato, senza moneta ce lapuò dare la giornata di un chasqui, il corriere di postacomandato per quella corvée. I luoghi di sosta per ichasqui erano scaglionati a distanza di un miglio e mezzoperché il corriere potesse percorrerli di corsa, alla mas-sima velocità, come in una staffetta dell'atletica moderna(per non perdere un solo secondo il chasqui in arrivosuonava la conca in modo che l'altro fosse pronto aprendere al volo il sacco della posta). Ogni quattro ootto miglia c'erano i posti di ristoro, chiamati tampo, unincrocio fra una locanda e un moderno Grill (quasi sem-pre erano collegati a magazzini governativi), che in ge-nere ospitavano funzionari in viaggio ma che erano uti-lizzati anche dai chasqui per rifornirsi gratuitamente dicibo e degli strumenti necessari per il loro mestiere e perdormire.

Anche un sistema del genere aveva bisogno di unanutrita burocrazia, che era organizzata gerarchicamentein maniera tale che il funzionario superiore controllassel'inferiore e ne venisse a sua volta controllato. I funzio-nari imperiali avevano il compito non facile di pianifi-care la redistribuzione dei beni e le corvées. Dovevanoquindi avere una conoscenza il più possibile precisa deiflussi delle merci, della produttività delle varie zone,delle possibilità di mobilitare gli uomini. Per questo siservivano di inventari, di periodici censimenti e face-vano un uso assai sofisticato della statistica. Questi conticomplicati erano registrati su delle cordicelle a nodibasate sulla numerazione decimale. La scrittura, come ildenaro e la moneta, era infatti sconosciuta agli Incas.

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L'oro e l'argento, abbondantissimi in quelle regioni,erano semplicemente degli oggetti ornamentali e rituali,non servivano come moneta nemmeno nella forma, co-nosciuta anche dalle società tribali, di deposito di ric-chezza e di tesoro. Perché la ricchezza, presso gli Incas,era il lavoro.

Certo una civiltà del genere appare sorprendente al-l'osservatore odierno e anche un tantino inquietantedopo gli sfracelli combinati dal comunismo moderno.Sembra però che l'organizzazione economica funzionas-se assai bene e anche con una certa soddisfazione deisudditi. In quanto al dispotismo politico che accompa-gnava la rigida pianificazione, era ammorbidito dal fattoche si innestava sulle strutture tribali all'interno dellequali l'individuo trascorreva buona parte della sua esi-stenza. C'erano, è vero, dei tribunali speciali, delegatidal re, che avevano competenza per quei reati che noichiameremmo «contro la personalità dello Stato». E sesi trattava di ribellione si poteva arrivare alla pena dimorte preceduta da tortura. Ma gran parte della legisla-zione penale era lasciata aWayllu. E qui, come semprenelle realtà tribali, l'andazzo era piuttosto lasco. Solo ilfurto, da sempre considerato dai primitivi il delitto piùinfamante, era punito in modo severo. Però era perdo-nato se era stato commesso in stato di necessità. Altri-menti il ladro veniva lapidato, ma solo un pochino, inmodo rituale e quasi simbolico, perché non si facessetroppo male. Solamente in presenza di recidiva la penaera la morte. Ma anche in questo caso occorreva pursempre il consenso del governatore provinciale...

L'arrivo degli Spagnoli e dell'economia monetariadistrusse la civiltà Inca. Per gli indigeni le cose peggio-rarono drasticamente non solo dal punto di vista politi-co, per le consuete brutalità dei conquistadores, maanche da quello economico. La regione non riacquistòmai più la relativa floridezza di un tempo. Scrive Me-

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traux: «In seguito, l'ordine antico apparve tanto piùgiusto e umano in quanto quello degli Spagnoli era ca-ratterizzato da sventure e da crudeltà. Dinanzi agli orro-ri della conquista e della colonizzazione, il dispotismodegli Incas si mutò, nel ricordo, in un'età dell'oro, dellaprosperità e della felicità» 17.

V.

LA NASCITA DEL DENARO

1 Aristotele, Politica, i 9, 2257 b, 20-40.2 Aristotele, Etica Niamachea, v, 8, 1133 a, 3-6.3 K. Polanyi, La sussìiema dell'uomo, cit., pp. 97-99.4 F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 294.5 Ibid., p. 292.6 M. Weber, Economa e società, Edizioni di Comunità 1980, voi. i,

pp. 70 ss.7 F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 215.8 M. Weber, Economie, e società, cit., p. 70.* K. Polanyi, La sussis'enza dell'uomo, cit., pp. 122, 123, 125, 182 ss.10 Anche per lo Heichelheim, che pur ha un'impostazione molto diversa

da Polanyi e ritiene che il sistema di mercato si fosse già affacciato nell'età delbronzo, il tamkarum è semplicemente un funzionario imperiale. Scrive: «IItamkarum, assiro e babilonese dipendeva direttamente e più o meno esclusi-vamente dallo Stato. In Egitto doveva sempre essere considerato a tutti glieffetti un servo del sovrano». F.M. Heichelheim, Storia economica del mondoantico, cit., p. 210.1 mercanti individuali non esistevano nemmeno fuori dagliantichi Imperi. Non lo furono neppure i Fenici. Scrive ancora Heichelheim:«L'intensità del commercio e la perfezione delle sue forme che sono stateattribuite dagli studiosi delle generazioni passate ai Fenici sono favole, cometutte le nostre fonti sul commercio estero dell'inizio del primo millennio a.C.rivelano chiaramente. I Fenici erano soprattutto pescatori». Ibid., p. 359.

11 Sui Port of trade vedi K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, cit., pp. 132,133 e Economie primitive, arcaiche, moderne (cap. X, I Port of trade nellesocietà antiche), cit., pp. 229-248.

12 F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 283.13 Ibid., pp. 297-298.M Ibid., p. 296." A. Metraux, Gli Incas, Einaudi 1969, p. 75.16 Ibid., pp. 72-73." Ibid., p. 96.

Nelle società neolitiche e tribali, autonome e tenden-zialmente autosufficienti, lo scambio avviene nella formadel dono e del controdono oppure del «baratto puro»(tu dai una cosa a me e io una a te senza star a badarese l'una valga più dell'altra).

Negli antichi Imperi, società stratificate e complessein cui i gruppi si ingrandiscono e si sparpagliano e l'au-tosufficienza non è più scontata, mentre si accentua ladivisione del lavoro, prende invece piede il concetto diequivalenza. Con l'equivalenza siamo ormai molto vicinial denaro. Diversamente dal regime del dono il valoredell'oggetto non deriva più dal piacere di possederlo edi alienarlo (ricevendone, in contropartita, prestigio);diversamente dal «baratto puro» la cosa non ha più unvalore in sé (determinato dall'utilità che ne ricavo) maha un certo valore precisato non solo dal valore dell'og-getto che ricevo in corrispettivo ma da un parametro«terzo» e generale, cioè dal raffronto con tutti gli altrioggetti teoricamente scambiabili. Questo «terzo» è lamoneta come misura di valore, che è già denaro anchese monco. Negli antichi Imperi alla funzione di misuradel valore la moneta, in forma di moneta-merce, aggiun-ge poi quelle, già sperimentate in epoca neolitica, dimezzo di pagamento e deposito di ricchezza. Inoltre ildenaro si era anche manifestato, sia pure in termini

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ancora molto vaghi, in alcune delle sue espressioni piùastratte e pure: quelle del segno e del credito. Quando,ad esempio, i funzionari dei magazzini imperiali regi-strano nei loro libri un debito o un credito creano, inrealtà, denaro.

Però le funzioni del denaro erano rimaste divise eframmentate fra oggetti diversi, tanto che, come in unpuzzle scompaginato, non c'era la consapevolezza checomponessero una figura unica, che fossero emanazionedella stessa entità Inoltre mancava ancora la funzionepiù importante e decisiva del denaro, quella di interme-diario nello scambio. E anche lo spirito del denaro (lasua essenza) aleggiava qua e là, ma non si era ancoramostrato nella sua compiutezza, né aveva preso corpo inuna forma univoca e riconoscibile. Il denaro era come lacreatura di Frankenstein, i cui pezzi però fossero sparsinel laboratorio, il più importante non fosse ancora statoforgiato e alla quale mancasse, a darne unità, immaginee vita, il soffio dell'Artefice.

E finalmente lo spirito del denaro decise di scenderesulla Terra, di incarnarsi e di palesarsi agli uomini, cheancora ignoravano la sua esistenza anche se la presenti-vano. L'evento ebbe luogo in Lidia, un piccolo regnodell'Asia Minore che era nell'orbita della cultura greca.Fu in Lidia che, fra la fine dell'VIIIsecolo a.C. e l'iniziodel VII, comparve, per la prima volta nella storia dell'uo-mo, la moneta coniata in metallo prezioso, garantita, nelpeso, nella misura e quindi nel valore, da chi l'avevabattuta, cioè dallo Stato ma anche, almeno all'inizio, daprivati1. Era nata la forma-denaro. Lo spirito del denarosi era fatto carne, corpo unico e mistico e i suoi adora-tori, nel corso di una lunga vicenda, sarebbero diventatilegione.

Insieme al denaro nacque il suo fratello gemello, ilmercato. E contemporaneamente fecero la loro appari-zione la filosofia, la scienza, l'economia, la polis, la de-

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mocrazia, la personalità, il lavoro individuale, la povertàindividuale e la solitudine dell'uomo.

Lacerate infatti in modo irreparabile, anche dal puntodi vista concettuale, le strutture tribali, l'uomo, per laprima volta nella sua storia, si trovò a doversi procaccia-re i mezzi di sussistenza da solo o con la sua famigliasenza poter più contare sull'aiuto solidale del gruppo enemmeno, com'era stato negli antichi Imperi, sull'assi-stenza dello Stato. «Nella situazione tribale» scrive Po-lanyi «la sorte economica era stata collettiva, non indi-viduale: quando essa cambiava con l'avvicendamentodei pascoli, il corso delle stagioni, il favore del sole, ilvento, la pioggia, cambiava per tutti»2. Ancora ai tempidi Omero appartenere (al gruppo) significava non dover-si preoccupare per il cibo e non appartenere il suo con-trario. Ma quest'ultima era una condizione vergognosache riguardava esclusivamente il forestiero, l'esule, l'o-spite non gradito. Adesso era di tutti.

Le Opere e i Giorni di Esiodo, che risalgono alja finedel VIII secolo a.C., in contemporanea con la nascita deldenaro, danno conto dell'avvenuta tragedia. In Esiodonon c'è più il parente, l'affine, il consanguineo, c'è ilvicino che è già un estraneo. Il parente ha degli obblighiche sono così introiettati e automatici da non apparirenemmeno tali, il vicino no. Bisogna quindi essere fortu-nati: «Il cattivo vicino è una rovina, il buono un grandeaiuto; ebbe in sorte un tesoro chi ebbe in sorte un buonvicino: neanche un bue morirebbe se il vicino non fossecattivo!»3. Oppure occorre accattivarselo: «Fatti benmisurare dal vicino ciò che ti occorre e restituiscigli lastessa misura e ancora di più, se lo puoi, cosicché, aven-done in futuro ancora bisogno, tu lo ritrovi pronto»4.

La fiducia, che è consustanziale al clan e al gruppotribale, lascia il posto alla diffidenza: «Chiama sempreun testimone: il fidarsi, infatti, e il non fidarsi rovinanol'uomo»5. La fiducia, proprio perché non è più automa-

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tica come nella società tribale, acquista un'enorme im-portanza e con essa anche il denaro, poiché il denaro èessenzialmente credito e il credito vuoi dire fiducia. Mala fiducia ora non è più data direttamente da una perso-na ma da un enigmatico cerchietto di metallo.

Compare anche un atteggiamento e un concetto deltutto sconosciuto alle sacietà precedenti: la parsimonia.Secondo Esiodo un uono non dovrebbe sposarsi fino aitrent'anni, prima è necessario acquisire gli attrezzi e laservitù e, cosa che anticipa la famiglia nucleare dei no-stri giorni, è bene averi un solo figlio «perché così au-menta il patrimonio»6. Se ne possono avere due solo seil padre pensa di arrivare alla vecchiaia. In questo casoil vantaggio di possedere più forza-lavoro può esseresuperiore all'onere dell* divisione della terra al momen-to della successione. Compaiono cioè preoccupazioniche erano ignote alla società tribale e fa capolino unaconcezione lineare del tempo, una proiezione verso ilfuturo, che è tipica di una società dove comincia a cir-colare il denaro.

Un'altra novità che, con profonda intuizione, vienesottolineata da Esiodo è la concorrenza: «II vasaio ga-reggia col vasaio, l'artigiano con l'artigiano, il poveroinvidia il povero, il cantore il cantore»7. Il lavoro diven-ta un obbligo. Meno di un secolo ancora e la pigrizia,che era stata fin lì bonariamente tollerata, sarà conside-rata un crimine, che Solone punirà con pene severe. Ma,soprattutto, Esiodo, cioè l'uomo, scopre la fame, la ter-ribile e degradante fame individuale. Solo col lavoro in-cessante si può evitare «il debito e la triste fame»8.

Col denaro si era entrati in pieno nella brutale età delferro. Ed è da questo momento che l'uomo cominciò arimpiangere una mitica età dell'oro (inteso come splen-dore, non come moneta) in cui gli Dei lo amavano an-cora e la terra dava i suoi frutti in abbondanza senza checi si dovesse affannare troppo né scannarsi fra simili.

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A quest'epoca risale anche la distinzione e la divisioneIra lavoro intellettuale e manuale. In precedenza persineil re-sacerdote degli antichi Imperi ci teneva a presentar-si, almeno formalmente e concettualmente, come unlavoratore, sia pur augusto, del braccio. Il re di Babilo-nia si autodefiniva «il contadino di Babilonia» e «l'irri-gatore dei campi». Gli stessi faraoni si consideravano iprimi lavoratori dello Stato e spesso, nei rilievi e neidipinti, sono rappresentati nell'atto di svolgere il mestie-re dell'agricoltore o dell'artigiano. Fu la scoperta deldenaro a permettere la divisione fra lavoro intellettualee manuale e certamente si deve anche a questo se paral-lelamente si sviluppano la filosofia e la scienza. Adessoc'è gente che, non più obbligata sui campi, può dedicar-si esclusivamente alla speculazione.

Coeva alla moneta coniata è anche la nascita dellapolis. Scrive Heichelheim: «Fino al 700 a.C. circa la polisnon era altro che un punto di riunione dei cittadini dipieno diritto e un agglomerato di castelli e palazzi del re,delle famiglie aristocratiche e dei loro dipendenti... manon era ancora una città nel senso economico del termi-ne. Questo significa che prima del 700 a.C. non si puòancora pensare a una maggioranza della popolazionedella polis che avesse abbandonato completamente laproduzione primaria o che fosse in grado si scambiare ipropri prodotti in cambio di moneta o di altri prodottifiniti sul mercato cittadino. Al contrario ogni famigliafacoltosa delle città greche arcaiche possedeva ancora lasua proprietà fondiaria che veniva coltivata secondo unpiano autarchico... In effetti non comparvero città gre-che nel senso economico del termine fino al 700 a.C.circa quando, contemporaneamente, furono inventate lemonete, fu introdotta l'usura, fu creato l'alfabeto gre-co» 9. «Tout se tient»: la polis vuoi dire democrazia e lademocrazia è legata al denaro e al mercato. Infatti in unmodello come quello democratico, in cui ci si aspetta

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che i cittadini si amministrino da sé, la distribuzionedegli alimenti, prima affilata in larga misura alla solida-rietà tribale o allo Stato, richiede il sistema di mercato eil denaro. È documentato che moneta e mercato (intesoin senso moderno, basato cioè sul meccanismo doman-da-offerta-prezzo) compaiono contemporaneamente.Ciò avviene al mercato a minuto di generi alimentari diSalamina all'inizio, appunto, del VII secolo a.C.10. Lacoincidenza della comparsa nello stesso tempo e nellostesso luogo di moneta e mercato non è solo storica: èlogica. Denaro, come mezzo di scambio, e mercato sonopressoché indissolubili, l'uno senza l'altro non ha sensoo ne ha pochissimo. Osserva Polanyi: «Un'economia dimercato... assume la presenza della moneta che funzio-na come potere di acquisto nelle mani dei suoi posses-sori. La produzione sarà poi controllata dai prezzi poi-ché i profitti di coloro che dirigono la produzione di-pendono da essi; anche la distribuzione delle merci di-penderà dai prezzi perché i prezzi formano i redditi edè per mezzo di questi redditi che le merci prodotte sonodistribuite fra i membri della società. Sulla base di que-sti assunti l'ordine nella produzione e nella distribuzio-ne delle merci è assicurato soltanto dai prezzi»11. E ilprezzo di cui parla Polanyi altro non è che denaro. In-fatti il prezzo viene tecnicamente definito come «laquantità di moneta che viene scambiata con una unità diun bene»12. Il denaro riceve quindi il suo massimo im-pulso dal meccanismo di mercato o, il che fa lo stesso,il denaro dà il massimo impulso al mercato.

Il denaro spersonalizza l'oggetto che viene spogliatodi quel valore emotivo, sentimentale e simbolico cheaveva invece nelle società tribali e ancora, sia pur inmaniera più sfumata, negli antichi Imperi orientali. Ilvalore economico nasce propriamente solo col denaro.Scrive Mauss: «C'è stato valore economico solo quandoc'è stata moneta e c'è stata moneta solo quando gli og-

getti preziosi, anch'essi ricchezza condensata e contras-segni di ricchezza, sono stati effettivamente monetati (sene è stabilito il titolo), spersonalizzati, staccati da qual-siasi rapporto con ogni persona morale, collettiva e in-dividuale, diversa dall'autorità dello Stato»13.

Solo col denaro il bene diventa mercé, pura e sempli-ce. Ora, almeno concettualmente, tutto, o quasi, puòessere comprato e venduto, fatto oggetto di mercato,purché ci sia una domanda. Tutto ha un prezzo, tutto èmonetizzabile, tutto è denaro. Per la prima volta ci si dada fare e si lavora non per necessità immediata e nem-meno per convenzione, in virtù di rapporti personali edi convinzioni religiose, morali o sociali, ma innanzirutto per procurarsi un guadagno pecuniario. È daldenaro che dipende ora, in gran parte, la possibilità diprocurarsi i mezzi di sussistenza oltre che, ovviamente,il surplus, ciò che viene prodotto in eccedenza.

L'invenzione della moneta, l'avvento del mercato, laproduzione per l'eccedenza e non più solo per il consu-mo, la comparsa dello spirito del profitto, han fattodefinire quello che va dal VII secolo avanti Cristo al IIsecolo dopo Cristo come il periodo del «capitalismo an-tico». E un'espressione da prendersi con le molle. Se siha in mente qualcosa di simile a ciò che conosciamo oggisi tratta di un'evidente forzatura: in quei nove secoli lalogica del capitale rimase a uno stadio poco più cheembrionale, almeno rispetto agli sviluppi che ha avuto inseguito. Troppe resistenze, e troppo forti, si opponevanoancora al denaro e al suo sviluppo. Ma dei limiti diquesto «capitalismo» parleremo un poco più avanti.

Si vuole che sia stato Gige, re della Lidia e fondatoredella dinastia Mermnade, progenitore del più noto Cre-so, a coniare la prima moneta, l'elektron, una combina-zione di oro e argento. L'esempio fu immediatamenteseguito da altre città greche dell'Asia Minore: Mileto,

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Efeso, Samo, Focea, cui si aggiunsero poco dopo Chio,Smirne, Cizico e Lampsa:o.

Nella Grecia vera e propria la moneta coniata arrivòsolo nel 630 a.C. e fu acottata in un certo numero dicittà sparse nella regione dell'istmo di Corinto. Ad Ate-ne venne introdotta una trentina d'anni più tardi, neiprimi due decenni del vi secolo a.C.14: era l'obolo, unamoneta d'argento di piccolo taglio e di valore limitatopiù adatta dell'elektron alla realtà della Grecia, assai piùpovera della Lidia, e soprattutto alla compravendita aldettaglio di cibo e altri prodotti di prima necessità almercato locale, cittadino, che fu per molto tempo il sololuogo dove le merci venissero scambiate con denaro.Infatti il commercio internazionale restò ancorato peralcuni secoli ancora al sistema del baratto sulla base diequivalenze, determinate per lo più da criteri politici.Solo nel III secolo a.C. si comincia a notare nel commer-cio internazionale di cereali l'affermarsi del sistema mo-netario e dei meccanismi propri del libero mercato: l'of-ferta si sposta a seconda della domanda e della scarsitàe i prezzi vengono determinati di conseguenza. Ciò cam-bia anche il regime dei mercati locali, al dettaglio. Iprezzi che si formano nelle varie città greche e del Me-diterraneo sono ora strettamente legati e interdipenden-ti. La città di Rodi tende a riflettere la media dei prezzi,cioè a formare un prezzo internazionale di mercato.Almeno per i cereali si era creato un vero sistema dimercato mondiale. Ma a quell'epoca la moneta coniatanon era più un fenomeno che riguardava la Lidia epoche città dell'Ellade, era una realtà che, già dalle guer-re persiane del V e IV secolo a.C., copriva quasi l'interaGrecia e si estendeva a Cirene, alla Spagna, alla MagnaGrecia, a Cipro, alla Tracia, al Mar Nero e allo stessoImpero di Ciro e Dario.

A Roma, nel Lazio e nell'Italia centrale la monetaarrivò solo alla fine del iv secolo, così come in Gallia e

nell'Africa del Nord. Si affermarono anche delle moneteinternazionali» accettate da tutti gli Stati che erano

usciti, almeno in parte, dall'economia di baratto: i tetra-drammi attici, la moneta d'oro persiana, le «tartarughe»di Egina, i poloi di Corinto.

Con la moneta arriva il capitale. La ricchezza, da sta-tica che era, diventa dinamica, non è più utilizzata ascopi di tesaurizzazione, di esibizione, per essere dilapi-data e distrutta a maggior gloria di chi la possiede o,come negli Imperi, per essere ridistribuita, ora la si in-veste per procurarsi altra ricchezza.

È un mutamento concettuale e psicologico favorito daun fatto tecnico: quando i beni sono scambiati in naturae molto complicato calcolare saldi, costituire fondi, spe-culare sul futuro. Il denaro agevola tutti questi processi.E col denaro compare, fatalmente, la sua prole: l'interes-se, anzi l'usura perché in quei primi tempi non si fadifferenza chiamandosi usura qualunque remunerazionedel capitale prestato.

Per la verità prestiti ad interesse se ne erano già vistianche prima della nascita della moneta coniata. E quibisogna fare qualche passo indietro. Nel periodo neoli-lico e nella società tribale il prestito non esiste, nemme-no a titolo gratuito. È la stessa struttura di tali società arenderlo improponibile. All'interno della comunità, delclan, della tribù le cose passano di mano secondo certelinee parentali e sarebbe addirittura obbrobrioso chie-derne la restituzione. All'esterno della comunità il siste-ma del dono esclude il prestito, anche gratuito: si donain via definitiva, l'eventuale controdono è un'obbligazio-ne di tipo esclusivamente morale che non ha contenutoeconomico ma emotivo.

Nell'età del bronzo appare per la prima volta nellesocietà rurali, là dove si sono allentate le strutture tri-bali, il prestito gratuito. Si da al vicino ciò di cui haInsogno ma si attende la restituzione se non della stessa

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cosa di un'altra dì vaore equivalente. In qualche casofa anche capolino il prestito a interesse di beni in natu-ra. Si tratta di una rudimentale usura agraria. Si presta-no frutti (datteri, fichi) o sementi di cereali che vengo-no restituiti aggiungendovi una percentuale del raccoltocalcolata in modo tracizionale, consuetudinario. Oppu-re si presta bestiame e se ne ottiene la restituzione conl'aggiunta di una percentuale dei nuovi nati. Oppureancora si prestano attrezzi, per esempio ami da pesca, ein cambio si ha diritto a una parte del pescato. Ma sitratta di fenomeni così occasionali e sporadici che, inbuona sostanza, è legittimo affermare con Heichelheimche «l'usura nelle società non urbane... non era inuso»15.

Il prestito a interesse prende invece piede con le civil-tà urbane degli antichi Imperi. I primi a utilizzarlo furo-no, a quanto pare, i Sumeri seguiti dagli Ittiti e dagliEgizi. Si presta a interesse bestiame, frutti, sementi maanche cose inanimate come il miele, il sesamo, l'aglio,l'olio, il vino, la birra, rotoli di papiro, cuoio, indumenti,armi. Ma si prestano soprattutto metalli, preziosi e non,oro, argento, bronzo, rame, piombo. Tuttavia negli an-tichi Imperi il prestito a interesse era operato esclusiva-mente dallo Stato e si inseriva nella sua politica di redi-stribuzione e di pianificazione. Così se il tasso di interes-se normale a Babilonia variava, per i cereali, tra il 20 eil 33%, per i sudditi più poveri e bisognosi erano inveceprevisti prestiti a interesse ridotto e a volte addirittura atasso zero.

In ogni caso negli antichi Imperi, che pur mostraronoper primi una certa predisposizione all'usura, il prestitoa interesse, anche per motivi pratici, mancando unamoneta vera e propria e dovendo scambiare con beni innatura, rimase un fenomeno circoscritto e riservato al-l'amministrazione statale.

È con l'invenzione della moneta che si aprono le ca-

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teratte. La Grecia arcaica non aveva conosciuto, inquanto società rurale, il prestito a interesse. Ancora aitempi di Omero e di Esiodo si parla di prestiti di semen-ti solo a titolo gratuito. Ma già con Solone, nella secon-da metà del vii secolo a.C, il prestito a interesse è pra-ticato in maniera illimitata e incontrollata da piccoli egrandi usurai. E anche l'interesse composto è ormai unfatto comune e accettato. I tassi variano, a seconda delleoperazioni, dal 10 al 33% e in ogni caso si consideravaequo un tasso che andasse dal 12 al 18% che eranoanche i valori su cui si aggirava la rendita fondiaria. E aBabilonia e in Egitto il tasso medio arrivò al 40%.

Mentre nella Grecia classica a cagione della culturaprettamente individualistica di quella civiltà, invero pre-capitalistica, e in buona parte della Mesopotamia, permotivi diametralmente opposti, il prestito a interessesfondò senza incontrare eccessiva resistenza, in tutte lealtre parti del mondo la comparsa dell'usura sistemati-ca, che rompeva totalmente con tutti i principi di soli-darietà sociale, fu uno choc difficile da assorbire. Ecominciò una lotta immane, e inane, all'interesse e alconcetto, ritenuto perverso e quasi demoniaco, che ildenaro, cosa inanimata per eccellenza, potesse produr-re, partorire, altro denaro. Dappertutto si cercò di abo-lire la mostruosità o quantomeno di contenerla. In Israe-le, ai tempi di Neemia, il prestito a interesse era proibi-to in modo assoluto. In seguito, trovandosi gli ebrei cir-condati da popolazioni che praticavano l'usura, il divie-to fu limitato al prestito fra israeliti16. Ancora al tempodi Erodoto, verso il 450 a.C., i persiani consideravanol'usura altamente disonorevole. Nell'India antica17 ilcostume vituperava l'usura e non solo proibiva alle clas-si superiori di praticarla sotto qualsiasi forma, ma persi-no di sedersi a tavola con gli usurai, considerati pocomeno che degli appestati.

A Roma l'usura ebbe una sorte più complessa. Sulle

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prime le novità che venivano dalla Grecia furono respin-te dal mondo latino legato a una realtà esclusivamenterurale. Ma già all'epoca delle xii Tavole (fine del v seco-lo a.C., circa) c'è un primo cedimento: l'interesse è am-messo entro il limite dell'8%. Una lex Duilia Meneniadel 357 a.C. lo abbassò al 4% e nel 342 a.C. la lexGenutia lo abolì del tutto. Ma con l'enorme crescitaurbana di Roma, avvenuta in seguito alle vittorie suicartaginesi, premeva ormai una realtà economica e so-ciale diversa che nessuna legge poteva contenere. Romasi avviava a diventare la società più materialista delmondo antico. Nell'ultimo secolo della Repubblical'usura sfondò il muro del 50%. Molte delle rivolte diquesto periodo, da Lepido a Catilina, sono dei tentatividi sottrarre l'aristocrazia e la plebe romana all'artigliodella nuova classe dei cavalieri (banchieri, mercanti, ap-paltatori delle tasse) che teneva per la gola l'una e l'altracon il prestito a strozzo. La situazione rimase identicanei due primi secoli del Principato. Solo nel tardo Im-pero romano, sotto l'influsso del Cristianesimo, la lottaall'usura, condotta con leggi severissime, ebbe qualchesuccesso.

Col denaro e l'usura irruppero anche molte attivitàfinanziarie prima sconosciute o circoscritte: mutui, ipo-teche, depositi a interesse, prestiti su pegno, cambi divalute. Anche la cambiale, che già aveva fatto qualcheapparizione in Mesopotamia, divenne di uso abbastanzacomune. Si discute se esistesse già allora la girata, ma ipiù accreditati storici dell'economia antica tendono aescluderlo18. Abbiamo invece almeno un precedente diquella lettera di cambio che nel Medioevo doveva costi-tuire la prima forma di cartamoneta, cioè di moneta to-talmente fiduciaria, mai sperimentata al mondo. Il fattoavvenne a cavallo del v secolo a.C., quando la monetaconiata era in uso in Grecia da duecento anni. Stratocle,un mercante di Atene in procinto di partire per il regno

del Bosforo, consegnò un'ingente somma a un giovane,originario di quella regione, che il ricco padre avevamandato a studiare nella capitale greca. In cambio silece dare dal ragazzo una lettera indirizzata al padre incui gli si chiedeva di rimettere a Stratocle, al suo arrivo,una somma equivalente. Il passaggio fu reso possibileanche perché Pasione, il più importante banchiere ate-niese del tempo e uno dei primi di cui si abbia notizia,garantì per il giovane qualora il padre fosse stato ina-dempiente19. Anche se complicata da questa triangola-zione si tratta della prima lettera di cambio a noi nota,che aveva lo scopo, come poi nel basso Medioevo quan-do divenne di uso comune nell'ambiente mercantile, dievitare a Stratocle i rischi di viaggiare portandosi ap-presso un'ingente somma di denaro in oro e argento,trovando invece comodamente i suoi soldi all'arrivo.

A parte questo caso, del tutto eccezionale, la cartamo-neta rimase sconosciuta al «capitalismo antico». Stacca-re la moneta da qualsiasi valore intrinseco, vero o pre-sunto che fosse, era operazione troppo ardita, e quasiinconcepibile, per i tempi. Gli antichi in cambio dellamercé volevano mettere le mani perlomeno su qualcosadi solido: elettro, oro, argento o, per le transazioni mi-nori, rame e stagno.

Tuttavia la moneta segno, staccata cioè in tutto o inparte da un proprio valore intrinseco, fa capolino qua elà anche in questo periodo, sia pur in modo mascherato.Il primo esempio è lo statere ciziceno. Nel IV secolo a.C.questa moneta, molto apprezzata nel mondo antico,conservava lo stesso potere d'acquisto che aveva avutoall'epoca di Creso, cioè duecento anni prima, nonostan-te il suo contenuto in oro fosse sceso dal 75 al 25% (ilresto era argento). Scrive Heichelheim: «Si tratta dellaprima moneta al mondo per cui siamo in grado di dimo-strare che il tasso di cambio era divenuto indipendentedal suo contenuto metallico... il tasso di cambio era

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determinato dal rapporto fra la domanda e l'offerta»20.Ma anche le monete di bronzo che furono coniate inseguito per agevolare il commercio locale al minuto era-no in fondo delle monete segno dato lo scarso valoreche a quell'epoca avevi questo metallo. Il loro valore inrealtà era fissato dall'autorità dello Stato. Lo stesso di-scorso si può fare, a maggior ragione, per le monete distagno emesse da Dicnigi, tiranno di Siracusa, intorno al400 a.C. Pare che i siracusani non fossero molto convin-ti ma il tiranno era il tiranno e conveniva obbedire.

Chi però, con soluzione audacissima per i tempi, siavvicinò di più alla moneta fiduciaria di tipo modernofu il generale ateniese Timoteo (inizi iv secolo a.C.) enon a caso lo scrittore Polieno ha inserito l'episodio chelo riguarda in un libro intitolato significativamente Glistratagemmi21. Dunque Timoteo, trovandosi a corto didenaro, persuase i vivandieri che seguivano l'esercito adaccettare invece che moneta sonante, in oro e argento,dei pezzi di terraglia recanti il suo sigillo personale, ga-rantendo che, quando fosse passato il momento di ri-strettezza, li avrebbe cambiati in monete vere. Quei pez-zi di terraglia erano in realtà delle «promesse di paga-mento» il cui valore era legato alla fiducia che chi leaveva fatte era in grado di mantenerle, erano cioè dena-ro nel senso più pieno e moderno. Ma un caso del ge-nere è pressoché unico nel mondo antico22.

Intorno al iv secolo a.C., in Grecia, compaiono lebanche, anche se il termine va preso in senso largo per-ché durante il periodo del «capitalismo antico» istitutidi credito specializzati esclusivamente nel concedere enel ricevere prestiti ad interesse non ci furono mai, maunirono sempre altre attività a quella finanziaria.

All'origine del sistema bancario greco c'è il cambiava-lute (kollybistes), figura diventata indispensabile dopol'introduzione della moneta coniata e la comparsa dellevalute più disparate emesse sia da Stati diversi che all'in-

terno di uno stesso Stato23 (il che comportò il significa-mo affermarsi di un altro mestiere collaterale, quellodell'obolostates, aiutante del cambiavalute, che dovevasaggiare le monete per controllare che avessero il peso e

il titolo giusto o che non fossero addirittura false)24.Presso il cambiavalute si concentrarono, all'inizio, i

movimenti di denaro e le relative attività. Ciò nonostan-te il cambiavalute «quasi banchiere» era un poveretto lacui attrezzatura consisteva in un tavolo e in una sediapiazzati nella zona del mercato. Solo quando i cambia-valute cominciarono ad accettare consistenti depositi didenaro le loro strutture divennero un po' più solide: permotivi di sicurezza e per far adeguata concorrenza aitempli e ai santuari (che all'epoca sono organismi pub-blici legati allo Stato) che da tempo immemorabile, so-prattutto negli Imperi mesopotamici, avevano la funzio-ne di custodire le ricchezze dei sudditi che ne facesserorichiesta. All'inizio questi depositi, sia presso i templiche i cambiavalute, sono dei semplici «depositi di sicu-rezza», come le nostre cassette: il depositante non ricevealcun interesse, anzi paga per il servizio e il «banchiere»(trapezites) non può usare il deposito per concedereprestiti. Non si creava cioè un fondo generale, tanto èvero che il trapezites collocava il denaro che riceveva dalcliente in singole borse sigillate e non poteva farne alcunuso senza una precisa disposizione del depositante. Co-stui poteva ordinare al trapezites di utilizzare i fondi siaper pagare un proprio debito sia per concedere un pre-stito a terzi, ma anche in questo caso, come nota Po-lanyi, il trapezites fungeva sostanzialmente da agenteincaricato e non creava credito25.

Le prime vere banche, intese come organismi cheutilizzano i depositi dei clienti per concedere prestiti,cominciarono a funzionare solo all'inizio del iv secoloa.C. e la città a dare il via fu Delo.

Questo in Grecia. In Mesopotamia pare che esistesse-

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ro banche già nel VII secolo a.C. La prima banca privatamai apparsa al mondo sarebbe stata quella dei «nipoti diEgibi», a Babilonia, seguita dai «figli di Murassu» diNippur. In ogni ciso, come s'è già detto, né le banchemesopotamiche né quelle greche (né, in seguito, i ban-chieri romani) si specializzarono esclusivamente nel cre-dito. Praticavano anche attività extrabancarie, nel com-mercio, nell'industria, nell'agricoltura, cosicché non èfacile distinguere il banchiere di qualsiasi altro uomod'affari del tempo. Tanto più che la banca, anche quan-do si strutturò in un'agenzia vera e propria, con nume-rosi impiegati, si identificava sostanzialmente con lapersona del titolare. Era lui solo ad avere credito pressoi depositanti e i finanziatori, essendo allora estraneo ilconcetto del «buon nome» della ditta nel suo comples-so. Se il banchiere moriva senza che si fosse già afferma-to un successore, la banca, quasi sempre, falliva in brevetempo.

I profitti del banchiere erano notevoli, dal 20 al 40%annuo sul capitale investito, ma egli rimase sempre, nonsolo socialmente ma anche economicamente, una figuradi secondo piano rispetto al grande proprietario terrieroe all'uomo politico, cioè alla classe nobiliare. Le sostan-ze di Pasione, il più grande banchiere della Grecia clas-sica, erano un settimo rispetto ai più cospicui patrimoninobiliari dello stesso periodo. Con i suoi 40 talenti, ra-cimolati a furia di prestiti a usura, Pasione era, fra iricchi, l'ultimo arrivato.

Accanto al banchiere appaiono altre figure nuove: ilrentier, l'imprenditore, l'appaltatore delle tasse. Nelfrattempo, già a partire dal vii secolo a.C., e quindi inperfetta coincidenza con la nascita della moneta coniata,cioè con l'invenzione del denaro vero e proprio, si eraaffermata la figura, prima del tutto eccezionale, delmercante privato che, a fini di guadagno individuale,specula sulla differenza di prezzo fra il momento dell'ac-

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quisto e quello della vendita. Come il banchiere anche ilmercante, chiamato kapelos se opera al dettaglio e empo-ros se all'ingrosso, non fu mai, nel periodo del «capita-lismo antico», uno specialista, affiancando sempre qual-che altra attività al commercio.

E, come il banchiere, anche quando si tirò fuori dallaoriginaria condizione di straniero o di meteco e salì igradini della scala sociale, il mercante non fu mai com-pletamente accettato dalla morale del tempo. Heichel-heim scrive che in Grecia «nell'età classica la classe di-rigente dei cittadini, fosse democratica o no, cercava ditenersi lontana per quanto possibile dal commercio»26.E sia nella Roma repubblicana che in quella imperiale laclasse dei cavalieri (cui i mercanti appartenevano insie-me ai banchieri e agli appaltatori delle tasse) sarà sem-pre un gradino sotto l'aristocrazia, e il costume e a voltepersino la legge proibivano ai senatori, cioè ai nobili, didedicarsi alle attività mercantili anche se spesso costorobypassavano il divieto utilizzando dei prestanome. In-somma una persona dabbene, almeno in linea di princi-pio, non doveva sporcarsi le mani col commercio.

Col denaro cominciarono naturalmente anche le truf-fe ai danni soprattutto della povera gente. La più sem-plice, la più naìf e anche, in fondo, la più innocua era dibarare sul peso e sul contenuto delle monete. Lo Statodivenne un vero specialista. Scrive Heichelheim: «Prov-vedimenti cui si ricorreva spesso per colmare il disavan-zo in situazioni di emergenza erano: diminuire il finodelle monete, coprirle con una patina d'argento e dibronzo (le cosiddette monete placcate), emettere altremonete di peso inferiore o di minor fino»27. Dal numeroimpressionante di monete placcate che sono state ritro-vate si può dire che svalutazioni occulte di questo tipofurono frequentissime nella storia greca e romana.

Poi c'era l'inflazione, fenomeno sconosciuto all'eco-nomia naturale. All'epoca di Solone (primi decenni del

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VI secolo a.C.) un medimmo di grano, alimento basenell'antichità, costava una dracma. Nel 422 a.C. era giàraddoppiato due dracme. Un bue, sotto Solone, venivapagato 5 dracme, nel 410 a.C. 51 dracme e nel iv secolodalle 70 alle 100 dracme. Nel complesso il potere d'ac-quisto della moneta, in Attica e in altre regioni dellaGrecia, era crollato, dall'inizio del vi secolo al 400 a.C.,di circa il 200% e dal 400 al 336 a.C. di un altro 400%con un decremento complessivo dell'800%. Un identicoaumento dei prezzi (800%) si riscontra, per lo stessoperiodo, in Mesopotamia. In compenso i salari non era-no affatto aumentati, anzi diminuirono, anche nominal-mente oltre che in potere d'acquisto reale. Heichelheimscrive che «tutto ciò costituiva un formidabile incentivoalla produzione, nonostante tutti gli impedimenti, tuttigli ostacoli contemporaneamente frapposti dalla politi-ca, dalla società e dall'economia»28. E la consueta tesiper cui l'ulteriore impoverimento della povera gente èinevitabile all'inizio di ogni processo di sviluppo, inquanto è necessario per costituire il capitale. Si tratta, sidice, di periodi di transizione. Peccato che non finisca-no mai.

Ma la truffa più insidiosa, e più nascosta, fu rappre-sentata dal costituirsi, molto presto, di un regime didoppia moneta: una forte a disposizione dei mercanti euna debole usata dalla gente comune. In Grecia esistevainfatti una moneta locale (piccoli pezzi d'argento e, piùavanti, in bronzo) e una moneta estera (grandi pezzid'argento come lo statere) che valeva sul mercato inter-nazionale. Il grande mercante, l'emporos, pagava i pro-dotti dei contadini e degli artigiani in moneta locale efaceva i suoi affari all'estero in moneta internazionale.Insomma il mercante paga in moneta cattiva e realizza inquella buona, che il contadino e l'artigiano non puòprocurarsi se non a caro prezzo. Tuttavia nel cosiddetto«capitalismo antico» tale sistema era ammorbidito dalla

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circostanza che il libero mercato su base monetaria eraancora piuttosto limitato. Inoltre esisteva comunque unaparziale intercambiabilità fra le due monete, quella loca-le e quella estera, cioè quest'ultima non era del tuttoinaccessibile ai ceti più poveri. Il regime della doppiamoneta, come vedremo, verrà portato al suo perfeziona-mento nell'Europa mercantile del basso Medioevo e delRinascimento e vige tuttora nei rapporti fra Terzo Mon-do e Paesi industrializzati.

Con tali premesse (svalutazioni, inflazione, regimedella doppia moneta, diversa prontezza nell'impadronir-si concettualmente di questo inedito strumento e diversaabilità nel maneggiarlo) si comprende facilmente comel'introduzione della moneta coniata, del denaro, se arric-chì in modo strepitoso alcuni individui impoverì la stra-grande maggioranza della popolazione. Scrive Hei-chelheim per il periodo che va dall'introduzione dellamoneta alle conquiste di Alessandro Magno (334-325a.C.): «Durante questo periodo non si verificò alcunmiglioramento rilevante del tenore di vita degli schiavi edei ceti bassi e medi della popolazione greca che, indefinitiva, anzi sì abbassò»29. Il discorso vale, in buonasostanza, per tutto il «capitalismo antico»: «Nell'età diPericle persino gli schiavi con i loro modesti guadagnigodevano di un tenore di vita più elevato dei bracciantiliberi e degli operai urbani qualificati di tutta la storiasuccessiva della Grecia e di Roma»30. Se nel VI secoloa.C. il lavoratore salariato poteva mettere da parte piùdella metà della paga per le spese non essenziali, già nelIV gliene restava meno di un terzo.

La condizione degli schiavi, che nel mondo anticorappresentano una quota rilevante della popolazione,forse più della metà, precipitò a livelli spaventosi. NellaGrecia e nella Roma arcaiche gli schiavi erano conside-rati come dei figli «degradati» del pater familias, deglieterni minorenni che non avevano capacità giuridica, ma

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in linea di massima erano trattati con umanità. Con l'in-troduzione del denaro e del conseguente concetto diprofitto le cose cambiarono radicalmente. Se gli schiavidei piccoli proprietari continuarono ad essere trattaticome sempre, nelle grandi imprese, nelle miniere e,come scrive Heichelheim, «in quei latifondi dove i siste-mi patriarcali erano stati sostituiti da altri più raziona-li»31, gli schiavi venivano ammortizzati nel senso lettera-le del termine, venivano cioè sfruttati fino allo sfiora-mento e alla morte. Quando a poco a poco, nel periodoellenistico e ai tempi della repubblica romana, i latifondisi ingrandirono a dismisura a danno dei piccoli e mediproprietari, queste sistema di sfruttamento selvaggio edisumano si estese di conseguenza e coinvolse una parterilevante della popolazione servile. Il destino dello schia-vò divenne quello di passare da un lavoro massacrantea una morte prematura.

Che la povertà fosse diventata una condizione diffusace lo conferma, indirettamente, l'atteggiamento dei filo-sofi. A partire dal periodo dei sofisti, nel v secolo a.C,è tutto un esaltare, in linea teorica, la penia, la povertà,e i penetes, i poveri. A loro appartengono le migliorivirtù sociali e politiche e si sprecano gli elogi alla fruga-lità e alla modestia dei costumi (Diogene vive in unabotte). È evidente il tentativo di tenere sotto controllo ilpotenziale esplosivo contenuto nell'improvviso ed ecce-zionale approfondirsi delle disuguaglianze economiche,fenomeno quasi sconosciuto prima del 700 a.C., perchéè il denaro che permette un accumulo pressoché illimi-tato della ricchezza. Così si cerca di gratificare, almenomoralmente, chi è povero.

È allora che si crea quell'etica della povertà dignitosa,peraltro assai utile per dare senso e orgoglio all'esistenzadei ceti popolari, e quindi a milioni di individui, che siapur fra alti e bassi durerà fino all'avvento della Riformae dell'industrialismo, ma che nei Paesi cattolici giungerà

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a lambire i nostri giorni, come in Italia dove era ancoraben presente negli anni Cinquanta prima che il boomeconomico e il denaro rompessero tutti gli argini e siaffermasse definitivamente il principio che solo chi ha è.

In sostanza l'arrivo del denaro, come sempre accadenel passaggio da un'economia naturale a una monetaria,portò a un certo livellamento delle caste, nel senso chesi fecero un po' meno marcate le distanze segnate dallanascita e dal sangue, ma aumentò in parallelo le disu-guaglianze economiche, fra ricchi e poveri, che divenne-ro enormi. E forse ancor più intollerabili, perché mentrenon si è responsabili di non essere nati da nobili lombi,cominciò allora, nonostante i sofisti, a insinuarsi il fru-strante e livoroso sospetto, che il protestantesimo dove-va in seguito elevare a teoria, che se uno è povero lo èper colpa sua.

Tuttavia nel periodo del cosiddetto «capitalismo and-rò» il denaro non potè dispiegarsi appieno. Perché in-contrava limiti di vario genere. Lo scambio in naturanon scomparve affatto ma mantenne un posto rilevante.Molti nuclei familiari, clan e realtà locali rimanevanoautosufficienti e non avevano bisogno dello scambio equindi del denaro. Inoltre il popolino, vale a dire lamassa, ebbe sempre una istintiva diffidenza per questostrumento e vi ricorreva solo se costretto, preferendoglidi gran lunga il baratto, che continuò a praticare anchequando la moneta coniata e garantita dallo Stato esistevaormai da secoli32. In certe realtà agricole il baratto siste-matico è restato in uso fin quasi ai nostri giorni.

Il commercio internazionale, fra polis e polis, fra Statoe Stato, si faceva ancora con il tradizionale scambio didoni e controdoni oppure attraverso il baratto secondoil collaudato metodo delle equivalenze. Solo una parte sisvolgeva in moneta.

C'erano poi i limiti posti al sistema di mercato e quin-di, indirettamente, al denaro che solo nel meccanismo

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domanda-offerta-prezzo esala il proprio ruolo. Le resi-stenze erano sociali, ideologiche e diciamo pure morali.Per Piatone e Aristotele lo stesso luogo del mercato erasospetto, qualcosa di impuro, Piatone insisteva, con tut-ta la sua autorevolezza, affinchè i giuramenti fosserobanditi dal mercato e fosse interdetto ai cittadini di ele-vato status di concludervi affari perché ciò non era de-gno del loro rango. Aristotele sollecitava la cacciata delmercato dall'agorà, luogo deputato della politica, e vole-va addirittura che ai mercanti fosse tolta la cittadinanza.Fu Aristotele ad avvertire per primo i rischi del sistemadi mercato basato sulla libertà della domanda e dell'of-ferta. E fu il primo a fare la fondamentale distinzione fraproduzione per l'uso e produzione per il profitto, condan-nando il secondo in quanto fattore di disgregazionepoiché «non naturale all'uomo»33. Aristotele non negòtotalmente la validità del mercato e del denaro, ma so-stenne che dovevano rimanere elementi accessori del-l'economia familiare (oikonomia) tendenzialmente auto-sufficiente. Se invece denaro e mercato, e con essi laproduzione per il profitto, avessero prevalso, l'economiafamiliare e per l'uso ne sarebbe uscita fatalmente di-strutta. Sulla base di questi presupposti Aristotele elabo-rò una teoria del «giusto prezzo» (nella sostanza unprezzo politico) su cui si doveva fondare buona partedella dottrina economica di Tommaso d'Aquino e dellaChiesa durante il periodo medievale.

Il pensiero dei filosofi, che avevano una grande in-fluenza, si trasfondeva nella politica. Sia in Grecia chepoi in Roma il libero gioco del mercato era ostacolatodal sistema della pianificazione e della redistribuzioneereditato dagli antichi Imperi che non fu abbandonatonemmeno nel periodo d'oro del «capitalismo antico».Scrive Rostovtzeff: «Una delle principali caratteristichedello sviluppo economico del mondo antico è costituitodal ruolo di direzione svolto dallo Stato... la polis pra-

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ticava un'interferenza dello Stato nell'attività economicadegli individui in misura che non ha uguale nello svilup-po economico moderno. E questa interferenza non èsecondaria né costituiva un ostacolo insignificante allosviluppo dell'economia privata: essa è l'attività che do-mina e dirige. "La redistribuzione della terra e l'aboli-zione dei debiti" non era soltanto uno slogan rivoluzio-nario; era un evento rilevante, anche se penoso, nellavita economica della maggior parte delle città greche»34.I1 controllo dello Stato si esercitava soprattutto sul gra-no e su altri beni di prima necessità. In Grecia unabuona parte del grano importato veniva redistribuitogratuitamente alla popolazione o venduto a prezzo «po-litico» molto inferiore a quello «di mercato». Per esem-pio la città di Lagina acquistava dai mercanti privati, aiprezzi vigenti, tutti i cereali di cui aveva bisogno e lirivendeva ai suoi cittadini al «giusto prezzo» di cinquedracme per medimmo. In altre città greche i magistratifacevano invece appello all'etica, all'orgoglio, alla vanitàdei mercanti (in loro onore si emanava un editto) perconvincerli a vendere i cereali al prezzo convenzionaledi cinque dracme. In diverse città i prezzi del grano, delfrumento, della farina erano fissati per legge e funzionaridelle città-stato controllavano, sul luogo del mercato,che fossero rispettati. Ad Atene, almeno per un certoperiodo (IV secolo a.C), si stabilì che il profitto delmercante fra il prezzo di acquisto e di vendita non po-tesse superare una certa percentuale (non più di unobolo al medimmo al di sopra del prezzo di acquistooriginario). Sempre ad Atene, una legge, per evitare l'ac-caparramento, vietava di acquistare più di cinquanta mi-sure di cereali alla volta. In Attica erano proibite leesportazioni di grano, per chi trasgrediva c'era la penadi morte. E la morte era prevista anche per il cittadinoateniese che avesse acquistato grano in qualsiasi altroluogo che non fosse il Pireo.

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Anche Roma importava il grano e lo distribuiva gra-tuitamente o lo vendeva sottocosto. Lo stesso sistema, apartire dalla fine del II secolo a.C., vale anche per il sale.Con l'ultimo secolo della Repubblica, dopo le grandiconquiste, il problema fu risolto alla radice prelevandoforzosamente il grano dalle province sottomesse e distri-buendone una patte gratuitamente o semigratuitamentealla plebe dell'Urbe (plebs frumentaria) la cui popolazio-ne era aumentata a dimensioni metropolitane e non erapiù in alcun modo autosufficiente35.

Alla luce di tutti questi dati si discute fra gli storicidell'economia se nel cosiddetto «capitalismo antico»prevalesse ancora l'economia naturale o fosse stata sop-piantata da quella di mercato a base monetaria. Per KarlPolanyi «il mercato non fu mai altro che un accesso-rio»36. Secondo Heichelheim invece il sistema di merca-to e lo scambio in denaro erano ormai dominanti, anchese al loro fianco rimaneva una consistente economianaturale. Di questa opinione è Rostovtzeff, per il qualel'ellenismo e soprattutto la Roma del Principato stavanoper dar vita a un capitalismo industriale e monetario deltutto simile al nostro se non ci fosse stato il crollo del-l'Impero37. In una posizione intermedia si colloca MaxWeber, secondo il quale nella Grecia classica e in Romaci fu un'economia su base prevalentemente monetariama non paragonabile al moderno sistema di mercato inquanto le interferenze dello Stato erano determinanti38.

A me pare di poter dire che nonostante l'economiamonetaria fosse indubbiamente diffusa non permeò disé la mentalità dell'epoca e che lo spirito del denaro,soprattutto là dove è tendenza al risparmio, all'accumu-lo e speculazione sul futuro, coinvolse soltanto ristretteélites e rimase sostanzialmente estraneo alla maggioran-za degli individui.

In ogni caso il sistema del denaro e del mercato fugeograficamente circoscritto. Riguardò solo una parte,

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culturalmente importante ma territorialmente limitata,de1 mondo antico, quella sotto l'influenza greco-romana.E nemmeno tutta. Vaste aree rimasero sostanzialmenteestranee e indifferenti al denaro e al mercato. Babiloniacontinuò a non avere una moneta come intermediarionello scambio, in Egitto, anche sotto Roma, resistevaun'economia in larga misura pianificata dove il denaroaveva scarsa importanza, mentre nelle numerosissimerealtà tribali inglobate nell'Impero prevaleva l'economianaturale. E in tutto il resto del vasto mondo, esclusa laCina, si continuava a vivere di baratto. Bisognerà aspet-tare la Rivoluzione industriale perché il denaro, in duesecoli di galoppante escalation, conquisti l'intero globo.

Il «capitalismo antico» durò fino alla fine del II secolodopo Cristo. Poi il sistema della redistribuzione centra-lizzata, praticata soprattutto, anche se non esclusiva-mente, in natura, riprese gradualmente il sopravvento.Dall'annona (il grande magazzino di Roma) il grano emolti altri beni di prima necessità, alimentari e non(olio, vino, pesce essiccato, pelli, stoffe, metalli), prele-vati sotto forma di tasse dalle province, venivano distri-buiti all'esercito e anche ai civili gratuitamente o in cor-rispondenza di servizi oppure contro altri beni39. ConSettimio Severo, agli inizi del III secolo d.C., a causadell'inflazione permanente, i soldati non vengono piùpagati in moneta ma fornendo loro alimenti e vestiario.Nacque così l'annona militaris, una tassa in natura im-posta non più solo alle province ma anche agli Italici. Ladevastante inflazione del m secolo convinse alla fine gliimperatori ad abbandonare in buona parte la monetaconiata per sostituirla con la vecchia moneta-merce,costituita sia da metalli preziosi (soprattutto oro), valu-tati a peso, che da altri beni. Con Diocleziano i dirittidello Stato sulla proprietà privata, soprattutto quelladella terra, mai completamente abbandonati, vennero

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rimodellati e rafforzati. Sotto l'influenza del cristianesi-mo il prestito a interesse fu osteggiato in tutti i modi.Sempre per reagire all'inflazione Diocleziano introdusseun nuovo sistema di tassazione (captatio e iugatio) percui la maggior parte delle entrate e delle uscite delloStato avveniva in natura. Ciò si ripercosse anche sullecontrattazioni private dove tornò in auge il baratto.Poiché in quel che restava dell'economia monetaria l'in-flazione continuava a creare gravi problemi, nel 301Diocleziano emanò un Edictum de pretiis che fissava iprezzi e i salari massimi. Malgrado le pene severissimel'editto rimase, in buona parte, lettera morta perché lemerci scomparivano dal mercato. Ciò però non fece cheaumentare la diffidenza verso il denaro.

Insomma si stava ritornando all'economia naturale eai sistemi pianificati degli antichi Imperi orientali. Ilprocesso fu accelerato e, se mi è concesso l'ossimoro,reso per il momento definitivo dal crollo dell'Impero edal suo frantumarsi in tante piccole realtà locali. Erainiziato il Medioevo. Il denaro scomparve quasi comple-tamente dalla circolazione e conobbe un'eclisse che, inOccidente, doveva durare quasi mille anni. Ma non eramorto. Era solo «in sonno».

1 Secondo alcuni i primi a coniare moneta sarebbero stati i Cinesi intornoal 1000 a.C., cioè con tre secoli di anticipo sui Lidi. Tuttavia è dubbio chequelle dei Cinesi fossero monete vere e proprie. Infatti nonostante portinosegni che ne indicano il valore e fossero eseguite su richiesta del governo,erano fuse in stampi a forma di coltelli, conchiglie e utensili agricoli, tuttioggetti di primaria importanza nel baratto. R.G. Doty, La storia della moneta,Vallardi 1992, p. 9.

2 K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, cit., p. 194.3 Esiodo, Le Opere e i Giorni, w. 346-348." Ibid., w. 349-351.' Ibid., w. 371-372.6 Ibid., v. 375.7 Ibid., w. 20-25.8 Ibid., v. 314.

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'' F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit, pp. 374-375.'" K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, cit., p. 192." Id., Economie primitive, arcaiche e moderne, cit., pp. 27-28.'- Enciclopedia dell'economia, Garzanti 1992, voce prezzo, p. 866." M. Mauss, Teoria generale della magia, cit., p. 89, n. 1.14 Ad Atene, a differenza che in Lidia, furono i nobili a garantire il peso

il fino delle monete d'argento emesse da numerose piccole zecche cittadine.Si deve al tiranno Pisistrato la creazione della Zecca di Stato unica e con essaLi coniazione delle monete attiche contrassegnate dalla classica civetta. F.M.I Idchelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 343.

15 Ibid., p. 175.16 «Non farai al tuo fratello prestiti a interesse... allo straniero potrai

prestare a interesse», Deuteronomio, 23, 20-21.17 In India l'economia monetaria conviveva con quella naturale a partire

'lai secoli immediatamente precedenti la nascita di Cristo. A. Dopsch, Econo-mia naturale e economia monetaria, Sansoni 1967, p. 51.

18 F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 549.19 Isocrate, Trapezites, xvn, 35-37.20 F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., pp. 478-480.21 Polieno, Gli stratagemmi, in, 10, 122 La Cina fa parte a sé. Qui la cartamoneta era in uso già nel n secolo

<lopo Cristo ad opera di privati. Dal ix secolo lo Stato si impadronisce delsistema e comincia a emettere cartamoneta a suo piacimento. Nel xm secolo,all'epoca di Marco Polo, la produzione cartacea era diventata impressionanterd erano in circolazione anche dei veri e propri assegni, nel senso che inten-diamo noi, che potevano essere cambiati in argento alla banca cui venivanopresentati. Il tutto provocò un'inflazione dell'80% e oltre, inaudita per itempi, e convinse la dinastia Ming, agli inizi del xv secolo, ad abolire lacartamoneta e a sostituirla con l'argento. Di banconote non si parlò più peralcuni secoli (A. Dopsch, Economia naturale e economia monetaria, cit.,pp. 42-43).

Storia diversissima ha il vicino Giappone dove l'economia naturale, cioènon monetaria, predominò fino al xvni secolo come del resto avviene semprein una società a struttura feudale. Fino a quella data il popolo adottò comemoneta il riso e molto spesso praticava il baratto puro e semplice senzaricorrere ad alcun intermediario. Ibid., pp. 44-45.

23 Lo stesso processo si ebbe nel Medioevo, non per nulla il termine bancaviene da banco di cambio.

24 Obolostates ha anche il significato, eloquente, di usuraio.25 K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne, cit., pp. 325-326.26 F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 647.27 Ibid., p. 647.28 Ibid., p. 489.29 Ibid., p. 492.30 Ibid., p. 494.31 Ibid., p. 635.32 Ibid., p. 216.33 Aristotele, Politica, i, 9, 1254 a, 6-10.34 M. Rostovtzeff, The Decay of thè Ancient World and Its Economie

Explanations, in «Journal of Economie and Business History», n, 1930,pp. 204-206.

33 Ciò creò nella città di Roma un vasto ceto parassitario («assistito» di-

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remmo oggi), ozioso e turbolento che divenne presto un grave problemasociale e di ordine pubblico.

36 K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, cit., p. 214.37 M. Rostovtzeff, Storia economica e sodale del mondo antico, La Nuova

Italia 1966, voi. in, pp. 594 ss.58 M. Weber, Economia e società, cit., cap. VTII. La tesi di Dopsch è invece

che non è mai esistita un'economia esclusivamente naturale, così comenon è mai esistita, e non esiste, un'economia esclusivamente monetaria. A.Dopsch, Economia naturale e eanomia monetaria, cit.

" M. Rostovtzeff, Sferia economica e sociale dell'Impero romano, La Nuo-va Italia 1965, pp. 135-Ì39.

VI.

«IN SONNO»

Con l'Impero crolla anche l'economia monetaria. Leinvasioni barbariche, quella dei Visigoti su tutte, sonostate devastanti. Scompaiono intere città, Milano è rasaal suolo, Roma e Napoli saccheggiate e rese deserte, altricentri, in Italia come nel resto d'Europa, si spopolanoper il timore della fame. La gente torna alle campagne.Non ci sono più strade e la possibilità degli scambi èridotta al minimo. Si sbriciola anche la sofisticata impal-catura giuridica e amministrativa che aveva tenuto insie-me l'Impero, non c'è più alcun potere in grado di farrispettare le leggi, l'incolumità fisica non è garantita danessuno. La popolazione cerca rifugio dove può. Cosìintorno alle poche grandi villae dei possidenti rimaste inpiedi si stringono non solo i loro dipendenti diretti maanche i piccoli proprietari, i contadini liberi e chiunquevoglia trovare protezione. È questo il nucleo originariodella Signoria e del feudo, un istituto che informerà l'in-tero Medioevo e le cui propaggini arriveranno fin quasiai nostri giorni. Anche i monasteri assumono questafunzione di protezione. E ogni singola villa, Signoria,feudo, monastero tende, per necessità di cose, all'isola-mento. Si torna quindi all'autarchia, all'autosufficienza,all'autoconsumo, alla produzione per l'uso. La descri-zione della vita di un monastero ci può dare l'idea dicome fossero organizzate queste unità economiche. Scri-

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ve Luzzatto: «Come la villa romana, il monastero ha isuoi granai, i magazzini, le cantine, in cui si conservanoi prodotti dell'economia diretta o le quote prestate daipoderi tributari; le sue stalle, i suoi piccoli opifici arti-giani, dove i monaci stessi e un certo numero di serviproducono una gran parte degli oggetti che possonoessere necessari alla vita quotidiana del monastero edella popolazione dipendente, raggiungendo quel mini-mo grado di autosufficienza economica che in un perio-do di decadenza dello Stato e di decadenza delle cittàera indispensabile»1.

All'interno del feudo, della Signoria, del monastero ilflusso delle merci e dei servizi avviene esclusivamente innatura: il signore concede la terra e il contadino lo ripa-ga con le corvées e una quota del raccolto, l'artigianoscambia i suoi manufatti con cibo e altri prodotti, oppu-re il contadino e, più raramente, l'artigiano lavorano alledirette dipendenze del signore che in contropartita linutre e li veste, gli fornisce, come si diceva allora, la«provenda». È la cosiddetta economia curtense.

Anche ad alto livello non si usa il denaro. Nel 1049 lacontessa di Angiò, Agnese, per acquistare un abito sacroda un prelato e donarlo ai monaci de La Trinité deVendome lo paga la bellezza di 200 pecore, un moggiodi frumento, uno di segale, uno di miglio e alcune pellidi martora2. Il meccanismo economico è lo stesso inogni gradino della gerarchia feudale. Anche il re se vuo-le, poniamo, assicurarsi i servigi di un alto ufficiale nonha che due vie: o lo assume direttamente e lo mantieneo gli cede la terra. Lo stesso deve fare il grande feuda-tario con l'uomo d'armi. Ciò creerà la filastrocca deivassalli-valvassori-valvassini e quel proliferare dei feudie dei castelli che porterà, alla fine, allo sfibramento eallo smantellamento della stessa economia curtense cheha bisogno, per esistere e resistere, del latifondo.

Il denaro non scomparve del tutto. Era ancora usato,

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d'abitudine, nella sua funzione di misura dei valori emolto più raramente come mezzo di scambio sui mercatilocali, con una circolazione limitatissima (praticamentequasi ogni feudo batteva una propria moneta che avevavalidità solo al suo interno). La sua influenza sull'econo-mia era pressoché nulla. Come scrive Mare Bloch: «Lasocietà di quel tempo non ignorava completamente lacompera né la vendita. Ma non viveva come la nostra dicompera e di vendita»3.

Dopo l'anno Mille si assiste a una graduale rinascitadelle città. Ci sono ragioni esterne come la definitivaliberazione dalla minaccia degli Arabi e degli Ungari cherende meno necessaria la protezione del signore. Ma lepiù importanti sono interne alla società e all'economiafeudale. Il continuo frazionamento dei latifondi, dei feu-di, delle proprietà ecclesiastiche e il fatto che, da uncerto momento in poi, fra il signore e il lavoratore di-pendente si inserisca un nuovo soggetto, cioè una nume-rosa e forte classe di concessionari, che non sono nobilie hanno una mentalità assai diversa da questi, molto piùspeculativa, incrina l'unità, la coerenza, l'equilibrio, l'au-tosufficienza dell'economia curtense. La situazione in-duce numerosi coltivatori a orientarsi verso la città. In-fatti non trovano più nelle curtis tutto ciò di cui hannobisogno e sono sempre più frequentemente costretti arivolgersi al mercato cittadino, per quel che ne era rima-sto. Inoltre la loro condizione è notevolmente peggiora-ta: invece di dipendere da una chiesa, da un monasteroo da un feudatario lontano e in genere, com'era caratte-ristica della nobiltà del tempo, non particolarmente at-tento ai propri conti4, adesso sono sottoposti a un con-cessionario vicino, che gli sta col fiato sul collo, interes-satissimo ad aumentare la propria rendita e quindi deci-so ad esercitare i suoi diritti in modo fiscale e micragno-so. Abbiamo un'eco di questo cambio di metodi e dimentalità nelle lagnanze, che hanno inizio proprio in

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questo periodo e che diventano via via sempre più vi-branti, contro le esazioni arbitrarie, le superimpositiones,le malae consuetudines. Coloro che possono, o i più vo-litivi, lasciano la campagna e cercano aria in città, dovediventano, in genere, artigiani. Anche parecchi signori,non i grandi ma i medi e piccoli proprietari terrieri,prendono casa in città, o stabilmente o risiedendovi unaparte dell'anno. Tutto ciò aumenta l'importanza delmercato cittadino attirandovi così altra gente con unmovimento che a partire dal 1100 diventa consistente. Sicalcola che da questa data al 1250 molte cittadine sianosalite dalle 5/6 mila anime alle 30 mila e oltre. Nascecosì, in Italia, il Comune, che ai suoi inizi è un'associa-zione privata formata da proprietari terrieri inurbati eda mercanti che accanto alla loro attività e grazie ad essasi sono comprati della terra. Costoro mettono appuntoin comune i propri diritti e poteri di carattere feudalefacendoli gestire da dei rappresentanti scelti elettiva-mente (i consoli). In seguito, abbastanza presto, il Co-mune diventa uno Stato vero e proprio che non rappre-senta più una consorteria ma tutti i cittadini. Nel XIIIsecolo il Comune è già la realtà dominante nell'Italiacentrale e del Nord-Est, le regioni, insieme alle Fiandre,economicamente più attive d'Europa.

Con l'affermarsi del Comune in Italia e la rinascitadelle città nel resto d'Europa5, il denaro, dopo quasimille anni di sonno completo, torna sulla scena e si for-mano due economie parallele: quella cittadina, moneta-ria, e quella della campagna che resta naturale.

Ovviamente la separazione non è assoluta. Da unaparte infatti l'organizzazione economica delle città tendea coinvolgere la campagna e a eroderne l'autosufficien-za. Sempre più spesso per procurarsi certi beni e serviziil contadino deve ricorrere al mercato cittadino e quindiusare la moneta, cosa che lo costringe anche a produrrenon più solo per il suo uso e consumo ma a crearsi delle

eccedenze per poter accedere allo scambio. Lo fa perchévi è obbligato. Infatti anche il contadino europeo, comegià la plebe di Roma e della Grecia antiche, ha, e con-serverà sempre, un'enorme diffidenza per l'economiamonetaria e di mercato. Così si esprimono, nel XVI seco-lo, alcuni vecchi contadini bretoni: se nelle dimore con-tadine c'è tanto meno abbondanza è perché «quasi nonsi permette a polli e a paperi di giungere a perfezioneper portarli a vendere al mercato della città per conse-gnar denaro al signor avvocato o al medico, persone...fino a ieri sconosciute; all'uno perché maltratti il pro-prio vicino, lo spogli dell'eredità, lo faccia mettere inprigione; all'altro perché guarisca da una febbre, ordiniun salasso (che la Dio mercé non ha mai provato) o unclistere; da tutte le quali cose la buonanima di TiphaineLa Bloye guariva senza tanti scarabocchi, imbrogli, an-tidoti e quasi per un Pater noster»6. Questo è un senti-mento comune nell'Europa rurale del tempo e rimarrà alungo nelle campagne anche quando, con la Rivoluzioneindustriale l'economia monetaria diventerà egemone.Ma anche per chi noti è contadino, a meno che non sitratti di mercanti, di banchieri, di gabellotti, di genteinsomma che maneggia il denaro per professione, lamoneta resta «una cabala intesa da pochi»7.

Non è assolutamente il caso però di esagerare la pre-senza dell'economia monetaria nelle campagne primadella Rivoluzione industriale. Agli inizi del 700 si puòancora affermare: «Le variazioni della moneta non inte-ressano la maggior parte dei contadini, i quali non pos-seggono numerario»8. La notazione è relativa alla Bor-gogna ma ha validità generale. E a metà esatta del 700,nel 1751, un economista attendibile come FerdinandoGaliani scrive: «I contadini, che costituiscono i tre quar-ti del nostro popolo, non regolano la decima parte deiloro consumi in denaro contante»9.

D'altro canto nemmeno tutta l'economia cittadina è

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monetaria: «Sfuggono alla moneta i contadini, i salari innatura (lardo, sale, carne salata, vino, olio); non vi par-tecipano se non di sfuggita i salari degli operai delleindustrie tessili, dei saponifici, delle distillerie di alcol aNapoli e altrove. Gli operai di queste industrie parteci-pano sì a distribuzioni di monete che però vengonorapidamente spese, il tempo di andare "dalla mano allabocca"»10. Ciò che Braudel osserva per Napoli e il suocontado è quando avviene in tutte le città europee. In-fatti nei primi secoli del basso Medioevo e in quelli ini-ziali dell'età moderna la città è ancora molto integrataalla campagna, non è fatta, come ai nostri giorni, solo dicemento e di edifici, ma comprende moltissimi orti ecampi che gli abitanti coltivano per il proprio consumoo scambiandone i prodotti nella forma del baratto. Ladivisione del lavoro fra cittadini che producono manu-fatti e commerciano e contadini che forniscono le derra-te alimentari non è così netta come diverrà poi. Molti«cittadini» sono in realtà dei contadini che lasciano lacittà la mattina per andare a lavorare la terra e vi rien-trano la sera. Costoro scambiano per lo più in natura. Iproprietari e i grossi coltivatori che risiedono in cittàvivono essenzialmente dei prodotti delle proprie terre ene dirottano solo una parte al mercato. E anche quando,più tardi, la divisione del lavoro fra città e campagna sifarà più rigida, almeno per i centri maggiori, la cittàconserverà comunque una certa quota di economia na-turale.

Né si deve dimenticare che nell'Est europeo la Signo-ria dura fino al XVIII secolo e oltre e che qui, comesempre nell'economia curtense, la circolazione moneta-ria è nulla11.

Inoltre nell'Europa occidentale una parte molto rile-vante del commercio internazionale, almeno fino allametà del '500, si basa sul baratto. Venezia, Genova, Pi-sa, le grandi città mercantili del tempo, si trovano in

questa situazione: hanno un retroterra barbaro, feudale,ad economia naturale, ma ricco di materie prime, e com-merciano con l'Oriente che ha invece un'economiamonetaria e produce beni di lusso. Fungono quindi daintermediari fra realtà molto diverse, fra loro non comu-nicanti. I mercanti quindi portano in Oriente beni nondi lusso (grano, lana, vetro) e li barattano con beni dilusso (seta, spezie, aromi) che vendono, sempre nellaforma del baratto, ai ricchi signori feudali e alle lorocorti in cambio di grano, lana, eccetera.

Per tutto il Medioevo e fin ben dentro il XVIII secolol'economia monetaria resta quindi largamente minorità-ria rispetto a quella naturale. Epperò è proprio nel bassoMedioevo che fanno il loro ingresso tre novità cheavranno un'importanza decisiva nello sviluppo successi-vo del denaro.

La prima, e determinante, è l'affermarsi della figuradel mercante. Il mercante, come sappiamo, aveva fattola sua comparsa più o meno in parallelo con l'invenzio-ne della moneta coniata, cioè, in Europa, a partire dalVII secolo a.C. Ma non era mai riuscito a conquistare,come ceto, dignità sociale. Pressoché presso tutte leculture la figura del mercante era stata sempre marchia-ta da un profondo disprezzo. Non tanto per un ricordoatavico del fatto che i primi mercanti erano stati deipirati12, questo poteva anzi essere, nella mentalità antica(e forse anche moderna) un motivo di appeal, quantoperché presso tutte le culture preindustriali, d'Orientecome d'Occidente, si è sempre pensato che ci sia qual-cosa di marcio e di meschino nel comprare e vendereoggetti a fini di guadagno. L'attività del mercante èquindi sempre stata sentita come immorale, laida, vile ecomunque indegna di un animo nobile.

I primi mercanti che operano nell'Ellade non sonogreci ma stranieri (tafi, fenici, lemnii, ciprioti, siculi) ometeci. In seguito i greci che si dedicano al commercio

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provengono dai ceti più poveri e diseredati e non sielevarono mai, nella considerazione sociale se non nellericchezze, nemmeno al livello della classe media chesecondo Aristotele era formata esclusivamente da pro-prietari terrieri. Nell'Atene del v secolo a.C., che pur eraallora il più importante centro commerciale del mondooccidentale, si disprezza il mercante perché non agisceper dovere o per onore, che sono i valori condivisi deltempo, ma per guadagno e per denaro e quindi la suaquotazione sociale non potrebbe essere più bassa. Il ka-pelos, piccolo commerciale al dettaglio, è una macchiettaabituale del teatro di Aristofane (seconda metà del vsecolo a.C.), che ne fa oggetto di ogni sorta di sberleffoda parte del popolo. Il termine kapelos ci aveva infattimesso pochissimo a diventare «sinonimo di impostore,frodatore e baro»13.

In India era fatto assoluto divieto ai brahmani di ac-quistare alcunché con denaro, mentre era ammesso ilbaratto «puro», alla pari, senza guadagno. In Giapponeil samurai riteneva vergognoso toccare la moneta e se gliveniva donata lo considerava un grave affronto. Addirit-tura il samurai non può nemmeno parlare e persinepensare in termini di denaro14.

Anche nella società romana, che fu la più materialistadel mondo antico e per molti versi, compresa la corru-zione, la più vicina alla nostra, la classe dei mercanti nonraggiunse mai il livello sociale dell'aristocrazia.

Negli ultimi secoli dell'Impero i Padri della Chiesaavevano condannato senza appello l'attività dei com-mercianti, benché allora ce ne fossero assai pochi, e se-condo San Giovanni Crisostomo dovevano essere espul-si dalla casa di Dio. Del resto aveva provveduto GesùCristo a dare l'esempio cacciando a frustate i mercantidal Tempio. È scritto nel Vangelo di Matteo: «Gesùentrò poi nel Tempio e scacciò tutti quelli che trovò acomprare e a vendere; rovesciò i tavoli dei cambiavalute

e le sedie dei venditori di colombe». E concluse l'hap-pening con queste terribili parole: «La mia casa saràchiamata casa di preghiera ma voi ne fate una speloncadi ladri»15.

Ma anche durante il basso Medioevo tutti i lacci elacciuoli che la Chiesa, attraverso le elaborazioni di SanTommaso d'Aquino e dei suoi discepoli, cercò di met-tere al commercio, soprattutto con l'obbligo del «giustoprezzo» e il divieto del prestito a interesse (economiatomista), obblighi e divieti che venivano recepiti dagliordinamenti pubblici, ci dicono che l'attività dei mer-canti, nonostante avesse ormai un grande rilievo econo-mico, era vista con molto sospetto.

Luterò - e siamo già fuori del Medioevo - va giùpiatto, secondo lui «i commercianti rapinano tutti i gior-ni tutto il mondo»16. Persino Adam Smith (1723-1790),il fondatore della teoria economica moderna, non hauna grande opinione dei commercianti, almeno di quellidella sua epoca, di cui denuncia la «bassa rapacità» e letruffe a danno della collettività17. Ed è un modo dipensare che doveva essere condiviso dai suoi contempo-ranei se nell'Inghilterra del XVIII secolo, la più avanzatasocietà mercantile del tempo, soltanto il grande com-merciante poteva raggiungere uno status apprezzatodalla comunità e solo se si nobilitava entrando nellagentry. Fino al Reform Atc del 1832 la classe mediacommerciale inglese non si vide riconosciuto alcun ruo-lo sociale18.

In verità il mercante si nobilita veramente solo dopola Rivoluzione industriale, quando diventa imprendito-re19, non solo e forse non tanto perché nel frattempo èmutata, insieme al sistema economico, la mentalità, maanche perché alcuni elementi della sua attività, come ledimensioni e l'organizzazione dell'azienda, la trasforma-zione dei prodotti, il suo ruolo di capitano d'industria edi uomini, rendono meno percepibile che, nell'essenza,

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il suo resta pur sempre un comprare e un vendere.Residui dell'attica ostilità nei confronti di chi fa com-mercio resistoio persine oggi, in pieno trionfo del mer-cato, e si possono cogliere nell'accezione negativa che sida tuttora al termine «bottegaio».

Ad ogni buon conto, nonostante tutte queste ostilitàe diffidenze e le pesanti limitazioni poste al commerciodalla Chiesa, fra Γχι e il xn secolo si forma, per la primavolta nella Storia, una forte e organizzata classe di mer-canti che si consolida ulteriormente nel xm e xiv secolocon la definitiva affermazione dei Comuni in Italia e ilrifiorire e l'espandersi delle città nel resto d'Europa. Lafortuna del mercante è infatti strettamente legata allacittà perché questa non è autosufficiente. I suoi abitantidevono approvvigionarsi, in larga misura, sul mercato eil mercato, lo dice la parola stessa, vuoi dire mercante.Ma quello che da il tono alla categoria non è il bottegaioche esercita la vendita al minuto sulla piazza cittadina,che resta un poveraccio come già lo era stato il kapelosgreco e come sostanzialmente, eccezioni a parte, lo rima-ne oggi (pur essendosi nobilitato a negoziante: uno cioèche ha un negozio, quattro mura fra cui esercitare la suaattività), ma il mercante che si collega alle piazze e allefiere di altre città, anche molto lontane, portandoviquelle merci che la produzione locale e la campagnacircostante non possono offrire. È insomma il cosiddet-to «grande mercante», predecessore dell'imprenditoremoderno. Questo soggetto appare sulla scena quando lacittà è costretta dall'evoluzione economica e sociale adaprirsi via via a un mercato sempre più vasto, cioè apartire dal xii secolo. Prima infatti la città, a causa delleforti ostilità esistenti fra i vari campanili, tende a rinser-rarsi in se stessa e a limitare gli interscambi alla campa-gna circostante o poco più.

Nel xii secolo si nota che numerosi gruppi di mercan-ti di Asti, di Chieri, di Piacenza, di Lucca, di Siena,

cominciano a frequentare le fiere della Francia meridio-nale, di Parigi, della Champagne e più tardi di Bruges edi Londra. In questi primi secoli dello sviluppo mercan-tile è infatti l'Italia del nord il centro dell'economiaeuropea e mondiale (in seguito verrà soppiantata dal-l'Olanda e poi dall'Inghilterra).

Molti di questi mercanti partecipano fin dai primitempi al governo dei Comuni insieme alla aristocraziafondiaria, altri si aggiungeranno in seguito occupandoalte cariche pubbliche. E a Firenze, a cavallo fra il xiv eil xv secolo, una famiglia di mercanti e di banchieri, iMedici, diventerà la padrona assoluta della città. È uncaso unico, a questo livello, ma è il segno, come scriveWerner Sombart, che si stava passando lentamente «dal-la ricchezza basata sul potere al potere fondato sullaricchezza»20.

Anche quando non sono direttamente classe dirigentei mercanti, divenuti un solido ceto medio che fa partedel cosiddetto «popolo grasso», sono pienamente in gra-do di far valere i propri interessi, che peraltro coincido-no, almeno dal punto di vista economico, con quellidella città. Scrive Gino Luzzatto: «Di fronte alla campa-gna si instaura una politica di sfruttamento sistematicoad esclusivo vantaggio dei produttori e dei consumatoricittadini... considerando la campagna come un propriodominio coloniale destinato al proprio vettovagliamentoe allo smercio dei suoi prodotti industriali»21.

I mercanti cercano anche di ostacolare in tutti i modila produzione domestica delle campagne - che per ilcontadino significa autosufficienza - perché danneggiail mercato e quindi i loro affari. Del resto, all'epoca, imercanti sono la classe egemone in campo economico22,sia perché la produzione industriale non è ancora svi-luppata sia perché hanno il controllo di quella che c'è.È infatti quasi sempre il mercante che, per esempio nelsettore laniero allora dominante, fornisce la materia pri-

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ma ai lavorator e alle lavoratrici a domicilio. Siamo allesoglie dell'imprenditore capitalistico, ma senza superar-le, perché l'investimento è minimo, dato che i macchi-nari sono molto semplici e poco costosi (nel caso dellalana si tratta di telai che spesso il lavoratore possiedegià di suo) e il rischio è quasi nullo poiché la domandaè ristretta e il mercante può calibrare alla perfezionel'offerta23.

L'ascesa del mercante significa ascesa contestuale deldenaro perché, come scrive Sombart, l'attività del mer-cante «viene dal denaro e al denaro ritorna»24. Anzi nelmestiere del mercante il contatto col denaro è più diret-to, immediato e costante che in qualsiasi altra professio-ne (imprenditore compreso) se si esclude quella del fi-nanziere. E in questa prima fase, in cui l'attività crediti-zia e finanziaria non ha ancora una sua precisa fisiono-mia e autonomia, il mercante è quasi sempre anchebanchiere.

Ma il fatto veramente dirompente è che col mercantedell'ultimo Medioevo nasce anche un tipo d'uomo com-pletamente nuovo, una figura sconosciuta alle societàprecedenti: il borghese. Max Weber e Werner Sombartci hanno fornito un elenco dettagliato delle attitudinidel borghese ai tempi di quello che viene chiamato il«capitalismo commerciale» o il «primo capitalismo»25:individualista, inquieto, industrioso, attivo, anzi superat-tivo, doyeristico, razionale, calcolatore, metodico, ordi-nato nelle sue cose, costante, frugale, moderato, parsi-monioso, timorato di Dio e, infine, amante del rischioma «con juicio». E certamente queste sono le caratteri-stiche del borghese, ma esistevano anche prima seppurnon tutte concentrate, forse, nello stesso individuo. Ciòche qualifica il borghese è altro. Non si tratta della setedi guadagno in sé e per sé. Come nota sarcasticamenteMax Weber «la sete di lucro... si ritrova presso came-rieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, impiegati cor-

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ruttibili, soldati, banditi, presso i crociati, i frequentatoridi bische, i mendicanti, si può dire presso all sorts andconditions of men, in tutte le epoche, in tutti i paesi dellaterra; dove c'era e c'è la possibilità obbiettiva»26. Lanovità è che il borghese, il mercante, orienta, in modosistematico, tutta la sua attività al guadagno attraverso illavoro. Questo fatto, che a noi oggi sembra scontato, èla folgore che cambierà tutti i rapporti economici, socia-li, esistenziali sui quali l'uomo aveva vissuto per migliaiadi anni. Infatti nella cosiddetta società «tradizionalista»(vale a dire in tutti i tempi che hanno preceduto l'affer-marsi della borghesia) gli uomini lavorano soltanto perquel che loro basta a mantenersi. Il lavoro serve solo allacopertura del fabbisogno. Il resto è vita.

Non che il contadino e soprattutto l'artigiano nonamino la loro attività, anzi l'attaccamento ai propri pro-dotti è uno dei motivi per cui riluttano a creare ecceden-ze e a venderle sul mercato. Infatti, a differenza dell'o-peraio industriale e della stragrande maggioranza dei la-voratori odierni, sentono ciò che producono parte di sestessi (un po' come i primitivi sentivano l'oggetto unprolungamento della persona), frutto della loro creativi-tà, ci sono attaccati emotivamente e non hanno granchévoglia di disfarsene. Scrive Sombart: «II lavoro del verocontadino, come quello del vero artigiano, consiste inun'opera solitària: egli si dedica alla sua attività in silen-zio e lontano dal resto del mondo. Egli vive della suacreazione come vi vive un artista, e preferirebbe noncederla neppure al mercato. Tra le lacrime della conta-dina la mucca prediletta viene portata fuori dalla stallae avviata al macello; il vecchio incisore lotta per la suapipa che il commerciante vuole comprargli»27. La de-scrizione è un po' enfatica ma corrisponde alla mentalitàdell'epoca preindustriale. Però l'affezione al prodottocreato con le proprie mani è solo un ostacolo in più alformarsi di un'economia di mercato come noi la inten-

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diamo, il fatto veramente decisivo è che i contadini e gliartigiani non intendono lavorare più dello stretto neces-sario. L'artigimo non va in cerca del cliente, se ne stanella sua bottega e aspetta, «il contadino vuoi starsenesulla propria ìolla come un signore e trarre da questa lasua sussistenzi nell'ambito dell'economia diretta»28. Siaccontentano di quello che hanno. Al Signore si chiedesolo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano».

Questa mentalità è talmente radicata che gli impren-ditori dureranno molta fatica a scalzarla anche quandocontadini e artigiani, con la Rivoluzione industriale, siproletarizzano e diventano operai. Ne è testimonianzaclamorosa la vicenda del cottimo. A un certo momentogli imprenditori introdussero il cottimo per aumentarela produttività Ma ebbero una spiacevole sorpresa. Scri-ve Weber: «I lavoratori risposero all'aumento dei cotti-mi non con un aumento, ma con una diminuzione delloro lavoro giornaliero... il maggior guadagno li attiravameno del minor lavoro»29. E aggiunge: «[il lavoratore]non si chiedeva "quanto posso guadagnare se do ilmassimo di lavoro", ma sibbene "quanto debbo lavorareper guadagnare quel salario che ho percepito finora eche copre i miei bisogni tradizionali". Questo è unesempio di quella condotta che deve essere definita "tra-dizionalismo": l'uomo "per natura" non vuole guada-gnare denaro e sempre più denaro, ma semplicementevivere, vivere secondo le sue abitudini e guadagnarequel tanto che è a ciò necessario»30.

Il mercante, il borghese (e, a posteriori, si può dire larazza bianca) sconvolge queste tranquille abitudini sucui gli uomini di tutti i continenti avevano vissuto permillenni. La più concisa definizione dello «spirito delcapitalismo» in contrapposizione a quello tradizionaleme l'ha data mio cugino Valerio Baldini, che ha vissutoa lungo in Sud Africa, una volta che percorrevamo ilCiskei, un bantustan nero, fra huts decorose e campi

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ben coltivati ma solo in parte: «Vedi, la differenza fra ilbianco e il nero è questa: che il nero, se ha un campo,lo coltiva per quanto gli basta, il bianco lo coltiva tutto».

Il borghese, il mercante opera una rivoluzione, ribal-tando la mentalità tradizionale e, per la verità, ancheventi secoli di storia del pensiero occidentale e orientale:«non è una virtù accontentarsi di ciò che si ha»31.

Non che lo spirito di conquista fosse mancato fino adallora agli uomini, ma riguardava solo alcuni individuipiuttosto eccezionali e soprattutto si era diretto nei set-tori della politica, del potere, della guerra, delle esplora-zioni, del pensiero, della scienza, mentre adesso, nelmercante, nel borghese, si orienta quasi esclusivamentesull'economia e diventa spirito di acquisizione. È il de-naro ciò che si vuole. Scrive Sombart: «Per costoro ildenaro viene a trovarsi al centro di tutta la loro attività.Nel denaro essi scorgono il vero, anzi l'unico fattore dipotere, perché non conoscono altro potere al di fuoridella ricchezza. Con loro si porta a termine quel proces-so di permeazione del processo economico da partedell'idea del denaro»32. Si apre «la caccia al denaro,questo simbolo di valore assolutamente astratto»33.

Poiché però, come si è detto, nel borghese e nelmercante il denaro non è il sogno di un awenturiero,che cerca il gran colpo che lo metterà a posto per la vita,o l'illusione velleitaria di un fannullone, che spera divincere alla Ruota della Fortuna, ma un orientamentosistematico e costante che ha al suo centro il lavoro quo-tidiano, egli introduce nella società non solo uno spiritoma anche una serie di stili di vita nuovi.

Il primo è il risparmio. Il denaro non si fa solo gua-dagnandolo col lavoro, ma anche non spendendolo.Lapalissiano, dirà il lettore. Eppure questo concetto, pernoi elementare, è sconosciuto nell'economia delle socie-tà tradizionali. E non c'è bisogno di risalire alle civiltàtribali dove, al contrario, vige il gusto della dissipazione

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della ricche:za e persine della sua distruzione gratuita(come nel potlach). Anche nella meno ludica Europapremoderna nessuno risparmia: i contadini e gli artigianiperché non possono permetterselo o perché, per farlo,dovrebbero lavorare più di quanto non gli garbi, i nobiliperché per loro la ricchezza, come per i primitivi, è fattainnanzitutto per essere spesa e, possibilmente, dilapida-ta. «L'economia del signore» nota Sombart «era un'eco-nomia di usate: tanto gli serviva per mantenersi secondoil suo status tanto egli prodigava e sciupava»34. Adessoa un'economia di uscite subentra una di entrate. LeonBattista Alberti, che non fu solo un grande architetto mail rampollo di una famosissima dinastia di mercanti, emercante egli stesso, così parla ai suoi figli: «Le vostreuscite non siano mai maggiori delle vostre entrate»35.Una simile filosofia proveniva da un uomo ricco a pala-te. Scrive Sombart: «In questo stava la cosa nuova einaudita: che qualcuno avesse i mezzi e facesse econo-mia... l'idea del risparmio era entrata nel mondo, non ilrisparmio obbligatorio, ma il risparmio spontaneo, volu-to, il risparmio non come necessità, ma il risparmiocome virtù»36.

Giovanni Rucellai, un mercante del Quattrocento,che aveva un patrimonio valutato in centinaia di migliaiadi fiorini, fa suo il motto: «Un picciolino che egli abbiamesso da parte ha fatto più onore di cento che abbiaspesi»37. Motto che Benjamin Franklin, che rappresental'epitome vivente dello spirito borghese dei primi tempi,decodificherà nel xviii secolo in questo modo: «Chi uc-cide una scrofa uccide tutta la sua discendenza fino almillesimo maialino. Chi getta via un pezzo di cinquescellini uccide tutto ciò che si sarebbe potuto produrrecon esso; intere colonne di lire sterline»38. E l'Alberti:«La ricchezza... non bisogna mai lasciarla inattiva: sem-pre essa deve accrescere il patrimonio del suo padro-ne»39. A differenza del nobile, che lo possiede solo, il

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mercante che lo traffica e lo movimenta, sa che il denaroè fruttifero, può partorire altro denaro. Insieme al ri-sparmio anche l'idea di investimento era entrata nelmondo.

Tutto ciò introduce un ulteriore elemento poco pra-ticato dalle società tradizionali: il calcolo. Il denaro, cheè numero, agevola enormemente il calcolo. E il calcoloorientato dal denaro finisce per investire l'intera esisten-za. Benjamin Franklin è il prototipo di questo modellodi vita. In lui tutto è ridotto a calcolo: tot tempo per illavoro, tot per il riordino, tot per la preghiera, tot per ipasti, tot per le letture, tot per gli svaghi, tot per ilsonno, tutto è conteggiato al minuto. In quanto al sesso«raramente e soltanto per la salute e per la progenie»40.

Niente deve andar sprecato. Tutto deve essere previ-sto, tutto deve essere perfetto. Franklin scriverà nellasua Autobiografia: «Volevo poter vivere senza commet-tere nessun errore in nessun tempo»41. E arriverà aquesti estremi: «Mi feci un libriccino nel quale assegnaia ciascuna virtù [Moderazione, Silenzio, Ordine, Fer-mezza, Economia, Diligenza, Sincerità, Giustizia, Misu-ra, Pulizia, Tranquillità, Castità] una pagina, vergai cia-scuna pagina con inchiostro rosso, in modo che avessesette sezioni, una per ciascun giorno della settimana, esegnai ciascuna sezione con l'iniziale del giorno. Questesezioni io le traversai con tredici righe rosse e posi al-l'inizio di ciascuna riga le lettere iniziali di una dellevirtù, per poter segnare su questa riga e nella sezionecorrispondente con una crocetta nera ciascun errore dicui mi fossi trovato colpevole, dopo un accurato esame,in quel giorno riguardo alla corrispondente virtù»42.

C'è in tutto questo bisogno di ordine, di razionalità,di pulizia, morale e fisica, di esami, di ricognizioni, diispezioni una tale crudeltà e un bisogno di punirsi chemettono i brividi. E, come nota Weber, in Franklin, cioènel borghese, nemmeno le virtù sono fini a se stesse,

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sono virtù perché sono utili: «L'onesta è utile perché dacredito, e la puntualità, la diligenza, la regolatezza idem,e perciò esse sono virtù»43. La virtù è una cosa buonaperché porta credito, cioè denaro.

E per armare al denaro bisogna utilizzare, contabiliz-zare, razionalizzare l'intera esistenza e quindi il tempoche è «la stotfa della vita»44. L'economia non è più soloeconomia di denaro ma è innanzitutto economia deltempo: «Il tempo è denaro» dice Franklin a suggello delsuo pensiero45. Ma se il tempo è denaro, il denaro è tem-po. Il denaro è diventato il padrone del nostro tempo.

E Franklin ne da un'immediata e puntuale confermacosì proseguendo: «Chi può guadagnare dieci scellini algiorno con il suo lavoro e va a spasso oppure sta sedutopigramente mezza giornata, anche se spende solo unamoneta da sei pence durante la sua passeggiata o il suoriposo, non dovrebbe calcolare questa come unica spe-sa; in effetti ha speso o piuttosto buttato via oltre cinquescellini»46.

Poiché il denaro non è solo tempo, ma tempo futuro,cambia anche la percezione e il senso stesso del tempo,che non è più il «tempo di natura», ciclico, astorico,statico, presente, delle società tradizionali, ma diventaun tempo dinamico, rettilineo, un tempo di morte. È uncapovolgimento totale del concetto di tempo ed è legatoal denaro. Non è un caso che la civiltà contadina, cioènon mercantile e preindustriale, non avesse né il sensodel denaro né quello del tempo declinato al futuro.Scrive Piero Camporesi: «L'affannoso tempo storico elineare del mercante misurato sui ritmi della partitadoppia, dei tassi d'interesse e dell'investimento produt-tivo non era il tempo dei contadini, serpentino, ciclico,ritmato dalle stagioni, dai soli e dalle lune. Nella lettera-tura popolar-carnevalesca il denaro non esiste: o è rigo-rosamente perseguito e bandito o viene consumato("strusciato") immediatamente, in una zampillante pro-

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spettiva di gioioso, perenne spreco, in guerra con l'eticadell'accumulo, della "massarizia" e della "robba", persoddisfare le esigenze primarie del corpo, più che dellospirito. Il povero coniuga i verbi al presente, non cono-sce le lusinghe ingannevoli del futuro, contrariamente alricco che costruisce strategie nel tempo tracciando pianie ipotetiche prospettive»47.

La gente della società tradizionale, che ama la vita quie ora, che coniuga, come dice Camporesi, i verbi al pre-sente, che è inserita nei cicli della natura, guarda consgomento e senza capire l'apparire della figura del mer-cante. Scrive Weber: «Che uno possa proporsi a scopodel lavoro di tutta la sua vita unicamente il pensiero discendere nella tomba carico del massimo peso possibiledi denaro e di beni, gli appare spiegabile solo comeprodotto di impulsi perversi»48. La cultura del calcolo,della contabilità, della computisteria, dell'economizza-zione, dei mezzi appropriati ai fini, del massimo risulta-to col minimo sforzo e, insomma, della razionalizzazionedell'intero esistente finirà per produrre qualcosa di to-talmente irrazionale. Scrive ancora Max Weber che neimercanti, nei banchieri, negli imprenditori, nei borghesi«il denaro... è presente come scopo a se stesso»49, suf-ficiente ad appagare una vita. È diventato un fine. We-ber fotografa però la realtà dei suoi tempi, quando laRivoluzione industriale, che darà al denaro la spinta de-finitiva, si era messa in marcia già da più di un secolo emezzo. Nel basso Medioevo e agli inizi dell'età modernail denaro che diventa fine è solo una tendenza che deveancora giungere, anche nello stesso mondo del mercantee del borghese, a completa maturazione.

Dall'attività del mercante germogliano due istituti chedaranno ulteriore sviluppo al denaro. Uno è la lettera dicambio, la prima forma di cartamoneta, una moneta cioèpriva, esplicitamente, di qualsiasi valore intrinseco, nem-

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meno immaginario. Una mon;ta, come si dice, fiducia-ria, basata sulla fiducia.

La lettera di cambio nasce dall'esigenza di trasferiredenaro in luoghi lontani senza doverlo trasportare mate-rialmente, per evitare i rischi: le difficoltà del viaggio.Funziona così. C'è un mercaite, poniamo, di Firenzeche è in affari con un suo collega, poniamo, di Bruges.Il mercante fiorentino deve pigare un terzo soggetto aBruges. Cosa fa? Spedisce a costui una lettera il cuicontenuto è la richiesta al mercante di Bruges di saldareil debito in vece sua («E per me pagherete al latore dellapresente...» è la formula di rito). Per riprendersi i suoiquattrini il mercante di Bruges o chiede al collega fio-rentino di fare un'operazione analoga oppure sconta lasomma in un affare che ha con lui. Oltre a evitare irischi del viaggio il mercante ha l'ulteriore vantaggio diconservare presso di sé il denaro liquido, che può utiliz-zare in vario modo, per esempio prestando ad interessea dispetto di tutti i divieti della Chiesa. La lettera dicambio può anche essere triangolare, quadrangolare ec-cetera (può cioè essere ceduta a terzi e da questi ad altriancora) e costituisce quindi la prima forma di circolantein cartamoneta. Il più antico esemplare conosciuto risaleal 1155: si tratta di un documento genovese50, ma è«rara avis». La lettera di cambio è ben documentata soloa partire dal Trecento. E perché prenda piede l'uso digirarla a terzi tramite firma bisogna aspettare gli inizi delQuattrocento (la prima girata nota è del 1410)51.

Con la lettera di cambio si comincia a speculare insenso finanziario, a comprar denaro con altro denaro, sicomincia a scontare: se chi è in possesso della lettera habisogno di liquidità gliela si compra a un prezzo inferio-re, scontato. Nasce anche il primo mercato finanziario:la fiera di Besancon, nel 1535, dove si traffica esclusiva-mente in lettere di cambio. Queste fiere di cambio, comevengono chiamate, fungono anche da camere di com-

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pensazione molto simili alle moderne clearing houses.A partire dalla metà del Quattrocento ci sono quindi

due tipi di moneta: a quella metallica coniata dalle zec-che, in oro, argento e rame, si è affiancata, sia pur inposizione ancora marginale, di supporto, e diffusa solonell'ambiente mercantile, la cartamoneta. Tanto che perdistinguere la prima (cioè la più rassicurante e sempreambita «moneta sonante») dalla seconda si parla di«scudi d'oro in oro». Ma per arrivare alla banconota,emessa da un istituto di credito autorizzato dallo Stato,con valore legale su tutto il territorio nazionale, bisogne-rà aspettare il 1694 e la Banca d'Inghilterra52.

Anche la banca nasce dall'attività del mercante e colmercante. Infatti prima di arrivare alla banca vera epropria, intesa come istituto con autonoma personalitàgiuridica specializzato nel credito, si passa per la figuradel banchiere singolo che del resto era già presente nellaGrecia classica e a Roma nel periodo del cosiddetto «ca-pitalismo antico». E il banchiere, almeno all'inizio, altrinon è che un facoltoso mercante che, trovandosi per lemani denaro liquido, fa prestiti occasionali e accetta de-positi da familiari e amici. Nelle città commerciali e nel-le fiere il mercante-banchiere (ma in questo caso non sitratta dei grandi) assume una funzione di carattere pub-blico scrivendo nei propri libri i trasferimenti di denarodal conto di un cliente a quello di un altro e facendo lecompensazioni.

Ma anche quando indirizza buona parte della suaattività al credito, finanziando soprattutto re, principi,grandi signori, alti prelati53, il mercante non rinuncia alcommercio e agli investimenti nell'industria. La specia-lizzazione e la professionalizzazione del credito comeattività esclusiva si ha solo con la nascita dei Banchipubblici. Il primo in assoluto è la Taula de canvi diBarcellona del 1401, seguito pochi anni dopo dal piùnoto Banco di San Giorgio aperto a Genova nel 1408. I

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Banchi pubblici (che a dispetto del nome possono esse-re anche di proprietà privata purché muniti di licenzadell'autorità locale al cui controllo sono sottoposti) ac-cettano depositi, concedono prestiti, su istruzione delcliente trasferiscono denaro da un conto all'altro consemplici scritture contabili. Ma i Banchi pubblici nasco-no soprattutto per permettere ai Comuni prima, agliStati poi, di £»r ricorso al credito per finanziare le fre-quenti campagne militari. Vengono emessi dei titolipubblici, del tatto simili ai nostri Bot e Cct anche se inalcuni casi i sudditi, quelli almeno al di sopra di un certocenso, sono obbligati a sottoscriverli in proporzione alreddito. I titoli sono commerciabili e hanno un lorocorso, funzionano quindi da mezzo di pagamento, sonocioè, anch'essi, moneta cartacea e fiduciaria. Siamomolto vicini alla banconota. Quando infatti l'Inghilterraassurgerà, nel XVII secolo, a massima potenza economicamondiale le sue cartelle diventeranno moneta correntein un ambito molto vasto. Da qui all'idea di una Bancanazionale di emissione il passo è breve.

I Banchi pubblici, con gli anticipi, i prestiti, i mutui,i titoli, le girate da conto a conto, ampliano enormemen-te i mezzi di pagamento, gonfiano cioè il volume deldenaro. L'oro e l'argento non bastano più all'arremban-te «capitalismo commerciale»54.

Più o meno in contemporanea con l'affermarsi deiBanchi pubblici compaiono le monete cosiddette «im-maginarie», cioè monete di conto che servono da unitàdi misura, per calcolare il valore delle monete effettiva-mente circolanti, fissare prezzi e salari, tenere la conta-bilità commerciale, ma che non hanno alcun corrispon-dente materiale. Nel xvi secolo, nel xv, e in alcuni casianche prima, la lira tornese, la lira parìsis, la lira sterlina,il ducato veneziano, il ducato di Spagna, nonostante iloro nomi fascinosi, non esistono in natura. Stanno solonella testa degli uomini.

La comparsa della moneta «immaginaria», di quellascritturale, e la diffusione sistematica del credito tramitele Banche fanno parte di quel processo di progressivasmaterializzazione e astrazione del denaro che ha il suoculmine ai nostri giorni. Soprattutto il credito è denaroal suo stato più puro, quasi metafisico. «Nel credito»scrive Sombart «sono cancellati tutti gli aspetti corporei:l'azione economica è diventata di natura puramentespirituale»55. Inoltre «nell'attività di credito emergechiaramente per la prima volta la possibilità di guada-gnare denaro con un'attività economica senza il sudoredella fronte; emerge la possibilità di far lavorare a pro-prio vantaggio altra gente senza l'impiego di mezzicoercitivi»56.

Se la moneta coniata era guardata con grande diffi-denza dal mondo tradizionale, il denaro scritturale, cre-ditizio, fiduciario, immaginario è addirittura incompren-sibile ai più. Osserva Braudel: «Queste monete, monetesenza esserlo, e questi giochi di denaro mescolati allasemplice scrittura e confusi con essa, appaiono non solocomplicati, ma diabolici»57. A quei tempi il riferimentoa mammona, quando si parla di questo tipo di denaroimpalpabile, è molto frequente: «Ho spesso desiderato»esclama la principessa Palatina «che il fuoco infernalebruciasse tutti quei biglietti»58. E un simile sentimentoè comune agli aristocratici, ai contadini, ai poveri cristie serpeggia, sia pure un po' più edulcorato, anche fral'intellighentia, insomma in tutti coloro che, a differenzadei mercanti e dei banchieri, non maneggiano il denaroper mestiere. Ancora nel 1752 un filosofo come DavidHume, economista per giunta, è un deciso avversariodella «carta di nuova creazione», delle «azioni, bigliettidi banca e carte dello Scacchiere», dei titoli di debitopubblico ed è scandalizzato dai dodici milioni di sterlinein cartamoneta che circolano in Inghilterra accantoai diciotto milioni di sterline in moneta sonante, tanto

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che arrivò a proporne, sic et sempliciter, l'abolizione59.All'espandersi e all'affinarsi dell'economia monetaria

corrisponde l'espandersi e raffinarsi delle relative truffe,che pare siano inseparabili dal denaro. La più semplice,la più antica, per chi è così rozzo da usare ancora mo-neta coniata, è far ricorso alla cara, vecchia e collaudatalima: si grattano i bordi esterni della moneta e si tiene lapolvere d'oro e d'argento così ricavata (da qui il moder-no grattare per rubare). Ma queste sono pratiche damentecatti cui i grandi mercanti-banchieri non rifuggo-no ma alle quali preferiscono di gran lunga i più sofisti-cati, arditi e remunerativi truffoni finanziari.

Uno, di tutta sicurezza, aveva per oggetto i titoli pub-blici, in particolare quella loro sottospecie costituitadalle rendite di Stato, non redimibili, che consentivanoai mercanti-banchieri, in combutta con i regnanti, difare ottimi affari senza correre rischi. Fernand Braudelspiega così il meccanismo per quel che riguarda la Spa-gna: «Infinite volte Filippo II e i suoi successori soddi-sfecero gli uomini d'affari in juros, rendite di Stato, va-lutate alla pari. Così rimborsati gli uomini di affari rego-lavano a loro volta con questa medesima moneta i lorodebiti con terzi, addossando agli altri i rischi e gli scac-chi del loro mestiere»60.

Più spericolato era un altro gioco. Attraverso i cambicon ricorsa e i cambi con ricambio, che sono cambialifinanziarie rinnovate ogni tre mesi, molti banchieri emercanti arrivano a emettere spudoratamente su se stes-si, cioè a mettere in circolazione ad libitum dei titoli dicredito cui non corrisponde alcun credito, alcuna ob-bligazione tranne quella che il mercante o il banchiere hacontratto con se stesso. Si crea insomma moneta corsara,senza nessun controllo. Pare che in queste pratiche fos-sero maestri i Fugger di Colonia, i più grandi mercanti-banchieri del tempo e, forse, i primi veri capitalisti.

Poi ci sono le truffe di Stato. Anche gli Stati «gratta-

no» le monete ma lo fanno, per così dire, in grande stile.Gradualmente e impercettibilmente diminuiscono ilpeso e il titolo delle monete coniate dalle loro zecche.Prendiamo per esempio il denaro: conteneva 1,7 grammid'argento all'epoca di Carlo Magno, 0,25 grammi allafine del XII secolo. Spiega Gino Luzzatto: «Variazionifrequenti e sempre in peggio della moneta... derivavanoda ragioni fiscali, perché i principi, come i maggioriComuni cittadini, consideravano la coniazione di mone-te di sempre minor valore come il mezzo di assicurarsiun'entrata che apparentemente non gravava sui contri-buenti e poteva essere riscossa con la massima facilità...non è affatto da escludere che i continui e gravi peggio-ramenti della moneta spicciola siano stati determinati daragioni di politica economica allo scopo di diminuire isalari che si pagavano infatti con quella moneta»61.

Un'altra insidia alle tasche dei sudditi, quelle almenoin cui c'è moneta, viene, come sempre, dall'inflazioneche è consustanziale al denaro. L'inflazione serpeggiaper tutto il basso Medioevo ma ha un'impennata verti-ginosa a metà del Cinquecento dopo che i conquistado-res hanno portato via agli indios del Messico e del Perùtutto l'oro e l'argento rapinabili. È la famosa «granderivoluzione dei prezzi» che dalla Spagna si estenderà aondate successive e devastanti in tutto il resto d'Europa.

E non sono solo l'oro e l'argento, denaro dei ricchi,a subire questo destino: «Proprio a causa della sua stes-sa modicità» scrive Braudel «il rame è stato, nel secoloXVII, un comodo veicolo di inflazioni elementari, poten-ti, attraverso tutta l'Europa»62.

Ma la truffa più clamorosa e iniqua è un'altra. InEuropa, fino al 1700, vige un doppio regime monetario:c'è la cosiddetta moneta grossa (o grosso), in oro e argen-to, e la moneta piccola, chiamata anche popolarmentemoneta nera, che è in rame o in una lega dove sul rameè spruzzato un po' d'argento (biclione). Ovviamente è la

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moneta usata dai poveri. Il mercanta iaga al contadino,all'artigiano, all'operaio i prodotti o 1» mano d'opera inmoneta piccola e vende quegli stessi prodotti in cambiodi moneta grossa sui mercati internadorali che, comescrive Braudel, «si guardano dalle monete di rame comedalla peste»63. In sostanza il mercante paga in monetadebole e realizza in moneta forte. H :atto è che il con-tadino, il piccolo artigiano, non può procurarsi monetagrossa se non strapagandola, e quindi gli rimane semprein mano un denaro senza valore che diversamente daquello dei ricchi, non è fruttifero, non partorisce spon-taneamente altro denaro, che può usare solo per le pic-cole spese quotidiane, che non potrà nai, anche qualoralo volesse, tesaurizzare o investire. LÌ sperequazione siaggrava ulteriormente a partire dalla metà del xn secolo,quando il rapporto fra grosso e piccolo peggiora, natural-mente a sfavore di quest'ultimo, e passa dal 26 a 1 deiprimi anni del millennio al 28 a 1 del 1269, al 32 a 1 del1282 e via degenerando64.

A dare ascolto ai testi letterari, già prima della metàdel xiv secolo il denaro si è completamente impadronitodella mente e del cuore dell'uomo. Padre Dante scagliaanatemi e scomuniche contro l'avidità di guadagno.Nella Descriptio Florentiae (1339) si dice: «Troppo sonosolleciti di guadagnar denaro in modo che si può quasidire di loro: sempre arde in essi il desiderio dell'acqui-sto»65. Nello stesso periodo il Beato Dominici tuona: «IIdenaro è molto amato dai grandi e dai piccoli, dai chie-rici e dai mondani, dai poveri e dai ricchi, dai monaci edai prelati: tutto è sottomesso al denaro»66. Del resto segià più di un secolo prima San Francesco, figlio di unricco mercante in commercio con la Francia (da qui ilnome di battesimo del Santo), aveva sentito il bisogno difare l'elogio della povertà qualche ragione doveva puresserci. Nel Quattrocento Leon Battista Alberti consi-glia: «Tutti crescano nell'industria del guadagno» e Era-

smo constata: «Pecuniae obediunt omnia», tutte le coseobbediscono al denaro. Il poeta Hans Sachs annuncia:«II denaro è in terra il dio terrestre»67. Ma forse la te-stimonianza più impressionante viene da una lettera diFrancesco Petrarca: «Per noi, buon amico, tutto oggi èd'oro, le aste, gli scudi, i ceppi, le corone... L'oro riduceschiavo chi è libero e liberi gli schiavi, assolve i rei, gliinnocenti condanna, fa i muti facondi, riduce ogni elo-quenza al silenzio. Per esso principi i servi, e servi iprincipi, audaci i timidi, paurosi gli arditi, solleciti ipigri... asciuga i fiumi, feconda i campi, sconvolge imari, adegua ai piani i monti, rompe ogni chiusa, assaltaed espugna fortezze, abbatte castelli... Ed è pur l'oroche le amicizie dei grandi, le illustri clientele e gli splen-didi matrimoni procaccia: per virtù sua infatti vengonogli uomini in fama di nobili, di valorosi, di sapienti, dibelli e (mirabile a dirsi) persin di santi: e solo i ricchioggimai sono nelle città creduti dabbene, a essi soliquella fede che ai poveri si nega»68.

Tuttavia non bisogna farsi fuorviare da queste descri-zioni apocalittiche che non a caso vengono da intellet-tuali, letterati o da santi benedetti ma un pochino estre-misti. Costoro prefigurano un futuro che sarà effettiva-mente molto simile a ciò che descrivono, e che forse perloro, classe dirigente, è già presente, ma che non toccaancora la stragrande maggioranza della popolazione. Perla semplice ragione che l'economia monetaria riguardasolo l'ambiente cittadino69, e nemmeno tutto, e non in-tacca che molto marginalmente il vasto mondo dellacampagna che, prima della Rivoluzione industriale, rap-presenta più dei quattro quinti della popolazione euro-pea. Mentre fuori d'Europa, nel vasto mondo (a partel'Isiam, assai raffinato dal punto di vista monetario, Bi-sanzio e altre città mediorientali e orientali) si continuaa scambiare nella forma della moneta-mercé quandonon del baratto puro e semplice.

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Inoltre anche nell'Europa mercantile, cioè in quelquinto della popolazione che è coinvolto nell'economiamonetaria, il denaro non può sviluppare pienamente lesue logiche. Vale anche qui, in buona sostanza, il discor-so fatto per il cosiddetto «capitalismo antico». L'econo-mia preindustriale incontra molti limiti che coinvolgonofatalmente anche il denaro: limiti al mercato, limiti reli-giosi, limiti dello stesso spirito borghese che ancora esitaa fare il grande salto e a tagliare i ponti col mondotradizionale da cui è circondato e dal quale proviene.

Il mercato, che è consanguineo al denaro, che conesso si potenzia potenziandolo, in un corto circuito si-nergico, è solo in parte libero. Innanzitutto vi sfuggonosostanzialmente due elementi fondamentali: la terra e illavoro.

Per tutto il periodo feudale la stragrande maggioranzadella terra è inalienabile. Lo sono tutte le terre collettive.Queste comprendono non solo i boschi, i pascoli, lepaludi, gli stagni, che sono di uso comune (terre indivi-sibili), ma anche quelle terre coltivate, dette commonfields, che sono divise a strisce e distribuite ai membridella collettività. «Queste terre» scrive Felloni «sonodivise con criteri che antepongono l'equità distributivaall'efficienza economica»70. Ma inalienabili sono anchequelle terre non collettive che sono però «aperte», cioènon recintate (open fields) e che costituiscono la maggio-ranza. Su tutte grava poi una serie di servitù comunitarie(spigolatura, pascolo, erbatico, legnatico, acquatico, ec-cetera) e di vincoli, il più importante dei quali è la ro-tazione a maggese.

Sono alienabili solo le poche terre chiuse, recintate(endosures), e sempre che non appartengano allo Stato(manomorta fiscale), a enti religiosi (manomorta eccle-siastica) o non siano sottoposte a fedecommessi.

La terra commerciabile è quindi ridotta al minimo. Eanche in questo caso se c'è una compravendita è vissuta

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in malo modo dalla comunità, come una cosa illegittima,che «non s'ha da fare» e che può essere giustificata solose chi vende si trova in condizioni disperate71.

Anche, anzi soprattutto, il feudatario ha delle terre.Ma nemmeno lui ne può disporre liberamente. Unaparte è assegnata in uso perpetuo ai contadini (servicasati) che in cambio forniscono al signore un certonumero di prestazioni reali o personali (una quota deiprodotti, giornate di lavoro, corvées) e che non possonolasciare i campi perché sono elementi essenziali per col-tivare la terra anche a beneficio del feudatario (da qui ilnome di «servi della gleba»)72. Un'altra parte della terrasignorile è data in locazione con contratti a lungo termi-ne (in genere della durata di 99 anni) in cambio di unaparte dei prodotti (colonia parziaria, mezzadria) o, piùraramente, del pagamento di un canone fisso (enfiteusi,colonia perpetua).

Insomma il regime feudale della terra (chiamato an-che «regime delle terre aperte») è un punto di equili-brio, sofisticato e complesso, fra comunismo e indivi-dualismo che potremmo meglio definire come comunita-rismo73. Infatti una parte rilevante della terra appartienealla comunità (intesa nel suo complesso, feudatario com-preso) e anche là dove esiste, la proprietà privata incon-tra dei limiti fra i quali, quasi sempre, l'inalienabilità.D'altro canto (tolti i pascoli, i boschi, le paludi, gli sta-gni che sono a disposizione di tutti) il possesso è inveceindividuale (su quel pezzo di terra sta solo quella fami-glia, o quel gruppo di famiglie, per generazioni) ma, purnon essendo messo in alcun modo in discussione, è sot-toposto anch'esso a vincoli comunitari perché il lavorodi ciascuno deve integrarsi con quello di tutti e non puòandare a ruota libera.

Questo è il regime della terra durante il periodo delfeudalesimo classico, quello così stupendamente descrit-to da Mare Bloch. Il feudalesimo comincia a sfaldarsi a

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partire dal xv secolo (anche se avrà significativi ritorninel xvi, xvn e addirittura nel xvm secolo) in concomi-tanza con l'affermarsi del Comune e la riurbanizzazionedell'Europa, ma la sostanziale inalienabilità del suolo glisoprawiverà a lungo. Quando infatti cadono, le servitùpersonali di tipo feudale sono sostituite da un tale gro-viglio di vincoli contrattuali e consùetudinari, fra conce-dente e concessionario, fra proprietario e coltivatore,che fino alla Rivoluzione industriale la maggior partedella terra rimane non commerciabile74.

Nel periodo del feudalesimo classico l'assenza di unmercato del lavoro discende direttamente dall'organiz-zazione collettiva della terra. Se è vero infatti che i servicasati non possono lasciare liberamente la terra è anchevero che non possono esserne nemmeno cacciati. Que-sta parte rilevante della popolazione agricola non èquindi disponibile per il mercato del lavoro. Ma anchei coloni liberi, legati da un contratto di locazione, resta-no sulla loro terra e, come vedremo meglio più avanti75,in linea di massima non c'è ragione economica che possaespellerli. In quanto ai braccianti in questo periodo sonopochissimi e, in ogni caso, possiedono tutti un po' diterra, un maso, che non li lascia, a differenza del salaria-to d'oggi, in completa balia del mercato.

Se si lavora sulla terra è quindi molto difficile rimane-re a spasso. I mendichi rappresentano l'uno per centodella popolazione e quasi sempre lo sono per loro vo-lontà.

La disoccupazione è pressoché sconosciuta e nonsolo nel settore agricolo. Infatti limiti al mercato esisto-no anche nell'artigianato e nel commercio. Le corpora-zioni medievali delle arti e dei mestieri sono un potenteostacolo alla concorrenza. Il naturale spirito associativoche caratterizza quest'epoca assicura agli artigiani inur-bati ciò che la collettività rurale, attraverso i legami co-munitari e una ripartizione della terra più equa possibi-

le, garantisce ai contadini: uno spazio vitale. In questocaso uno spazio di mercato garantito. Ciò avviene tra-mite la creazione di un monopolio cittadino che limitala concorrenza all'esterno e la regola all'interno. Il prin-cipio, per noi inconcepibile perché è l'esatto contrariodell'odierno spirito d'intrapresa, è che nessuno deve in-grandirsi e arricchirsi a spese di un altro. Ogni artigia-no e anche ogni mercante cittadino deve sapere quantasarà la mercé che è sicuro di vendere. Ciò corrispondesia alla mentalità del contadino-artigiano il cui scopo,come si è detto, è soprattutto di procurarsi i mezzi disussistenza e che non ha, in genere, ambizioni di ulte-riori guadagni; sia ai principi religiosi dell'epoca che,come vedremo fra poco, considerano immorale ogni ar-ricchimento che comporti un danno altrui; sia alle esi-genze della città almeno nel periodo del basso Medio-evo comunale. Luzzatto spiega che le piccole industrieartigiane specializzate, di cui la città ha vitale bisognoper mantenere una propria autosufficienza, indispensa-bile in mezzo ad altre città ostili, «non potevano fareassegnamento che su una clientela assai ristretta, percui sarebbero state condannate a fallire se non si fosseimpedita la concorrenza fra le botteghe di uno stessoramo»76. Lo scopo si ottiene grazie a una spartizionerigida o, se si preferisce un termine molto attuale, unalottizzazione del mercato. Gli statuti artigiani fissanopuntigliosamente una serie di precisi limiti alla concor-renza: «non toglier agli altri alcuno dei suoi clienti»,«nessuno deve allontanare clienti dal negozio altrui nédistorglieli dall'acquisto con cenni o gesti o altri se-gni»77. È assolutamente vietato vendere sottocosto e cisono istruzioni tecniche minutissime sull'acquisto el'impiego delle materie prime per garantire la bontà delprodotto. La stessa pubblicità, la sovrana assoluta delnostro tempo, il motore di tutto il processo industriale,è molto malvista perché è giudicata concorrenza, per

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giunta sleale, e perché offende il decoro del commer-cio. Ancora nel XVIII secolo in Inghilterra, mentre staper cominciare il decollo industriale, si scrive: «II fareannunci sui giornali è venuto ora più in voga. Sino apochi anni fa i commercianti di buon nome considera-vano vile e spregevole rivolgersi al pubblico per mezzodi un pubblico annuncio»78.

Il regime delle corporazioni ha la sua massima espres-sione durante il primo periodo comunale, ma pur incri-nandosi nelle città maggiori, soprattutto italiane, quandoqueste si ampliano ulteriormente e l'autosufficienza di-venta impossibile, dura fino agli inizi del XVIII secolo79.

Prima della Rivoluzione industriale non si può quindiparlare, per il settore dell'artigianato, di un mercatocompletamente libero né, tanto meno, di un mercato dellavoro. Né esiste, in questa situazione, la disoccupazio-ne. La novità venne semmai dal mondo agrario. Per laverità qui la decadenza del sistema feudale e il venirmeno dei suoi rigidi legami aveva creato sulle prime,almeno stando a Marx, una situazione quasi idilliaca80.In Inghilterra, ma con buona approssimazione, anchenel resto dell'Europa occidentale, la servitù della glebaera scomparsa già verso la fine del XIV secolo. Si eraquindi formata una massa considerevole di piccoli pro-prietari sostanzialmente indipendenti (yeomen) che pos-sedevano quattro o più acri di terra e potevano contare,come sempre, anche sull'uso comune delle terre dema-niali. L'ideale. In Inghilterra, nel xv secolo, ce n'erano160 mila che con le loro famiglie rappresentavano piùdella metà della popolazione81. Ma insieme alla libertà siinsinuò nelle campagne quell'«individualismo agrario»che, colto al volo non tanto dai piccoli proprietari quan-to dai latifondisti, doveva erodere, a partire dal XVI se-colo, l'antico collcttivismo rurale, espellere dalla loroterra i contadini e molti degli stessi yeomen e creare laprima mano d'opera teoricamente disponibile per un

mercato del lavoro. Ma di ciò parleremo nel prossimocapitolo perché il fenomeno, fino all'alba della Rivolu-zione industriale e all'affermazione definitiva dell'econo-mia monetaria, rimase limitato82.

Infine, in epoca preindustriale, c'era la religione aporre limite al mercato, al profitto, al denaro. San Tom-maso afferma che c'è «qualcosa di vile» nel commercio,ma riconosce l'utilità del mercante se la sua attività sirisolve in un vantaggio per il Paese83. La Chiesa delbasso Medioevo ammetteva perciò la compravendita eanche il guadagno purché fosse onesto, «cristiano»:doveva cioè essere ottenuto con mezzi leciti e non esseresproporzionato. I tornisti, partendo da Aristotele, sisforzano quindi in tutti i modi di definire il «prezzogiusto». Fatica improba perché se si accetta il principioche un bene non ha solo un valore d'uso ma anche unodi scambio, come i tomisti furono in pratica costretti afare davanti allo sviluppo delle attività mercantili84, il«prezzo giusto» va fatalmente a coincidere con quello dimercato. Ma il prezzo di mercato è esattamente ciò checonsente di avere quel «guadagno a spese di altri» chela Chiesa considera immorale. Infatti il concetto baseche muove gli scolastici in campo economico è quellodella giustizia commutativa di origine aristotelica «percui in tutti i casi di scambio di beni i valori intrinsecidevono equivalersi» (equalitas rei ad rem)83. Ma il valoreintrinseco di una cosa (per esempio l'acqua) può esserealtissimo e il suo valore di scambio nullo o quasi. I to-rnisti si trovano quindi di fronte a una serie di difficoltà:da una parte il valore intrinseco non può misurare dasolo l'equità di uno scambio e bisogna quindi trovare uncriterio ulteriore, dall'altra il surplus che, al momentodella compravendita, il valore di scambio assume suquello d'uso non deve essere tale da ledere il principiodella parità nella transazione. Si cerca di aggirare questecontraddizioni affermando che il prezzo di un bene non

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è dato solo dal suo valore intrinseco (bonitas intrinseca)ma anche dal lavoro umano impiegato per la sua trasfor-mazione che ne aumenta l'utilità e legittima quindi an-che un aumento di prezzo86. Quando c'è un rapportodiretto fra produttore e consumatore la dottrina tomistapotrebbe anche reggere. Ma il problema si riproponeimmediatamente quando entra in scena, come interme-diario, il mercante perché costui, nella mentalità medie-vale, «non aggiunge nulla al valore intrinseco della cosache vende»87. Fu il teologo scozzese Duns Scoto (1266-1308), il «Doctor subtilis» di un'epoca di causidici, aspingersi più in là e ad ammettere, in contrasto con itomisti, che compratore e venditore possano di comuneaccordo modificare il prezzo. Il prezzo di un bene quin-di non è definito dalla sua bonitas intrinseca, con le suevarie aggiunte, ma da un contratto, cioè, in pratica, dalmeccanismo di mercato.

In questo guazzabuglio di contraddizioni la Chiesa fuperciò costretta a tenersi sul vago, a far raccomandazio-ni più che a imporre divieti, a mettere in guardia dalguadagno «eccessivo» senza poterlo precisare, ad am-monire a non aumentare almeno i prezzi di «quellemerci di cui i poveri non possono fare a meno»88, ascagliarsi contro l'accaparramento e l'incetta.

Più preciso è invece il divieto del prestito ad interes-se. Perché, almeno all'inizio, è assoluto. Per la mentalitàmedievale, e non solo per la Chiesa, come già per Ari-stotele e Piatone, è inconcepibile che una cosa inerte,inorganica, come il denaro, possa dare dei frutti e «siriteneva che acquisire denaro non già in cambio di altrecose e beni bensì di denaro di altro tipo fosse contrarioalla natura umana»89. Inoltre poiché il tempo era consi-derato una proprietà comune, concessa gratuitamente atutti gli uomini, si pensava che il prestatore che perce-pisce interesse commette una frode.

La condanna all'usura è sancita dal Concilio Laterano

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del 1139 e ribadita in modo ancor più solenne dal Con-cilio di Vienne del 1311. Segno inequivocabile che ilprestito ad interesse, pressoché scomparso, insieme aldenaro, nell'alto Medioevo, si stava estendendo ed eradiventato un problema sociale. Il Concilio di Vienneproibisce, puramente e semplicemente, qualsiasi paga-mento che ecceda il capitale versato. È un divieto che haforza di legge perché viene recepito dagli ordinamenticomunali o statali. Solo gli ebrei ne sono esentati.

Con l'andar del tempo si ammise il pagamento di unapenalità per compensare il danno sofferto dal prestatorenel caso di mancato rimborso del capitale (titulus mo-rae). In seguito fu accettato anche un compenso per illucro cessante, cioè per le opportunità perse per averconcesso il prestito. Finché alla metà del xvi secolo ildivieto scomparve dalle leggi secolari e rimase solocome condanna morale della Chiesa.

Quasi superfluo aggiungere che i mercanti ne escogi-tavano di ogni per eludere il divieto. In genere il truccoconsisteva nel mascherare il prestito ad usura dietro duecontratti che figuravano essere stati stipulati in tempidiversi. Oppure nel giocare sul cambio delle valute, co-me avveniva nel cambio a secco o nel prestito a cambiomarittimo.

Nonostante le esigenze del mercato tendessero ormaia sfondare tutti i verboten non bisogna però sottovalu-tare l'efficacia delle pressioni della Chiesa sul mondoeconomico medievale e dei primi secoli dell'età moder-na. C'è innanzitutto da tener presente che in realtà moltiprezzi, quelli dei prodotti artigianali per esempio, nonerano già di per sé abbandonati al libero mercato mafissati dalle corporazioni, sulle quali la Chiesa aveva unanotevole influenza. Inoltre, più in generale, anche ilmercante non era del tutto condizionato dal gioco do-manda-offerta poiché si rivolgeva a un pubblico moltoristretto e poco mobile per cui era lui in pratica a fissare

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il prezzo. Ed è probabile che l'ammonizione di Dio sifacesse sentire su questa sua libertà inducendolo a unaqualche moderazione. Non si deve infatti dimenticareche quella era un'epoca di viva religiosità, che tutti era-no credenti, che i mercanti non lo erano meno degli altrie, come gli altri, anzi forse un tantino di più, avevano unsacrosanto terrore, in quei tempi di pestilenze e di epi-demie, del castigo di Dio. I libri mastri di Francesco diMarco Datini, il famoso mercante di Prato, erano intito-lati «Cho '1 nome di Dio e di guadagno» (nel nome diDio e del guadagno)90. «Con Dio» iniziavano i libri con-tabili di tutti i mercanti, usanza che si è protratta fino aiprimi del Novecento anche se ormai suonava piuttostoblasfema.

Insomma nel basso Medioevo e agli inizi dell'etàmoderna i mercanti ci sono e operano, e anche piuttostovorticosamente, ma non hanno ancora un'etica che lisupporti e li legittimi come avverrà di lì a poco conl'affermarsi del protestantesimo. E ciò li limita, li intimi-disce, gli accorcia il braccio, gli impedisce di spingere lecose fino in fondo. Lo spirito del denaro non si è ancoradispiegato del tutto nemmeno nella persona del mercan-te. E non solo per motivi religiosi. Il denaro e il guada-gno sono amatissimi e adoratissimi ma pur sempre, al-meno nelle intenzioni, per potersi meglio godere la vitanon per esaurirla in essi. I commercianti all'ingrosso diBolzano chiudevano per tutta l'estate e se ne andavanoin vacanza. Quello stesso terribile Benjamin Franklin,che anche per i tempi suoi è un caso limite e patologico,in fondo non lavorava più di sei ore al giorno, anche sele restanti le economizzava per poter lavorare meglio eguadagnare di più. E, in genere, il mercante preindu-striale è posato, misurato, non ha fretta, non corre (nonpotrebbe nemmeno con quelle lunghe palandrane cheindossa), non è frenetico, in perenne overdose, rimanecomunque un uomo del suo tempo. La stessa velocità

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del denaro che maneggia non ha niente a che vedere conquella supersonica di oggi.

Ma soprattutto era convinzione comune che il mer-cante che aveva fatto fortuna dovesse ritirarsi ancora inbuona età e vivere di rendita. Daniel Defoe (1660-1731),che non è solo lo scrittore straordinario che conosciamo,l'acutissimo osservatore della nascente borghesia, mache si occupò anche, con competenza, di questioni eco-nomiche, nel Perfetto mercante inglese scrive che per chiha guadagnato 20 mila sterline è giunto il momento diritirarsi dagli affari: «Quale altra ragione, se non la puracupidigia, può persuadere un tale uomo a precipitarsi innuove avventure?»91. E in tutti i libri commerciali italia-ni di quest'epoca si trova un'acuta nostalgia per unatranquilla vita di campagna. L'aspirazione di tutti, oquasi, è la stessa: ritirarsi con un bel gruzzolo finché siè ancora in buona salute92. Che poi ci riescano è unaltro paio di maniche. I più rimangono stritolati dalmeccanismo che li ha messi in orbita. Anche Francescodi Marco Datini, dopo trentatré anni di «marcanzia» adAvignone, era tornato nella sua Prato cullando l'illusio-ne di godersi finalmente le gioie della vita. Ma non ciriuscì: «Era un uomo ricco, rispettato. Eppure non co-nobbe mai un'ora di pace: giorno e notte rimuginava suipericoli che sovrastavano le sue navi e la sua mercan-zia»93. La «scimmia» ormai lo possedeva e la sua vicen-da è particolarmente beffarda e senza senso perché nonpoteva nemmeno accampare la scusa dei figli, non aven-done avuti, sicché, fra una peste e l'altra, finì per lasciaretutta la sua enorme fortuna ai poveri e col dubbio, chelo rose fino all'ultimo inducendolo ad aggiungere codi-cilli su codicilli al testamento, che Santa Madre Chiesa,sempre presente sul letto di morte dei ricchi, non rispet-tasse le sue ultime volontà e incamerasse il malloppo.

Il destino di Francesco Datini è quello di quasi tuttii suoi colleghi. Però dalla nostalgia per un'esistenza di-

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versa, dal programma di ritirarsi, ad un certo punto, avita privata e in molti altri particolari si coglie che ancheper costoro, per la ristretta cerchia dei mercanti, il de-naro, almeno nelle intenzioni, non è ancora lo scopoultimo. Resta un mezzo. Per ora.

1 G. Luzzatto, Breve storia economica dell'Italia medioevale, Einaudi 1958,pp. 38-39

2 M. Bloch, Lineamenti di ura storia monetaria europea, Einaudi 1981,p. 36.

3 M. Bloch, La società feudale Einaudi 1982, p. 84.4 In realtà i canoni richiesti dai signori feudali erano molto bassi, a volte

perfino ridicoli. Lo ammette anche Adam Smith: «[I contadini] pagavano unarendita che non aveva alcun rapporto di equivalenza con la sussistenza che laterra forniva loro; una corona, una mezza corona, una pecora, un agnelloerano pochi anni fa, nelle Highlands, una rendita ordinaria per delle terre chemantenevano una famiglia». A. Smith, La ricchezza delle nazioni, m, rv. Alsignore feudale interessava il potere, il dominio sugli uomini che, proprio invirtù di quella noncurante liberalità, aveva in modo indiscusso, molto più deldenaro e della ricchezza.

5 ' I I Comune è un fenomeno tipicamente italiano che si differenzia dallegrandi città straniere perché, a differenza di queste, comprende un vastocontado inglobandone i feudi.

6 N. du Fail, Propos rustiques et facétieux, 1856, pp. 32-34, citato da F.Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, le strutture del quotidiano(secoli XV-XVI1I), Einaudi 1982, pp. 406-407.

7 M. de Malestroit, Mémoires sur le faict des monneyes, in Paradoxes iné-dits du seigneur de Malestroit, a cura di Luigi Einaudi, 1937, p. 105.

8 P. de Saint-Jacob, Les paysans de la Bourgogne du Nord au dernier siedede l'Ancien Regime, 1960, p. 212.

9 F. Galiani, Della moneta, Archivi Edizioni 1976, p. 278.10 F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, cit., p. 436.11 È il cosiddetto «modello polacco». Vedi R. Ago, La feudalità in età

moderna, Laterza 1994, pp. 71-96. La differenza fra il «modello polacco»,cioè fra l'economia feudale dell'Est dell'Europa nei secoli xvi-xvni e l'econo-mia curtense dell'Occidente medievale sta nel fatto che a quell'epoca esisteun mercato internazionale perché l'Occidente europeo si è già sviluppato inquesto senso. Se quindi nell'economia curtense dell'Est non c'è un mercatointerno ne esiste però uno esterno. Il signore si fa dare le eccedenze daipropri contadini e le vende in cambio di denaro per potersi procurare igeneri di lusso. Normalmente il denaro resta pochissimo nelle mani dei no-bili, il tempo minimo necessario per farsi arrivare i beni desiderati, e ritor-na quindi quasi subito ai mercanti. È del tutto estraneo a questi nobili ilconcetto di capitale e di investimento.

12 II primo commercio marittimo non era infestato dai pirati ma era fattodai pirati (F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 385).

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E la cosa sarebbe andata avanti per molto tempo, si pensi ai «pirati dellaCorona» inglese del xvi secolo e a Sir Francis Drake.

13 K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne, cit., p. 109.14 M. Takizawa, The penetration of money economy in Japan and its effects

upon social and politicai institutions, New York 1927, pp. 333 ss.15 Matteo, 21, 12-13.16 M. Luterò, Del commercio e dell'usura, in Opere, cit., voi. 15, p. 311.17 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, iv, m, n.18 K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, cit., pp. 121-122.19 Ludwig von Mises, uno dei più estremi sostenitori del capitalismo,

scrive negli anni Trenta del Novecento: «II disprezzo si è trasformato in unrancore corrosivo quando, coll'espandersi del capitalismo, gli imprenditorihanno conquistato grandi ricchezze e grande stima popolare». L. von Mises,Problemi epistemologia dell'economia, Armando 1988, pp. 98-99.

20 W. Sombart, // capitalismo moderno, Utet 1978, p. 135.21 G. Luzzatto, Breve storia economica dell'Italia medioevale, cit., pp. 124-

125.22 Marx parla, in proposito, di «capitalismo mercantile».23 K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne, cit., p. 34.24 W. Sombart, II capitalismo moderno, cit., p. 259. «Il denaro è principio

e fine dello scambio» dice Aristotele, Politica, i, 9, 1257 b, 20-25.25 Questa è la definizione preferita da Sombart.26 M. Weber, L'etica protestante e lo spinto del capitalismo, Sansoni 1977,

p. 67.27 W. Sombart, II capitalismo moderno, cit., p. 132.28 ìbid., p. 139.29 M. Weber, L'etica protestante, cit., p. 115.30 ìbid., pp. 115-116.51 L. von Mises, La mentalità anticapitalistica, Armando 1988, p. 25.32 W. Sombart, // capitalismo moderno, cit., p. 259.33 ìbid., p. 174.14 W. Sombart, // borghese, Guanda 1994, p. 83.

35 L.B. Alberti, / libri della famiglia, Edizioni Girolamo Mancini 1908,p. 242.

36 W. Sombart, // borghese, cit., p. 83.37 G. Marcotti, Un mercante fiorentino e la sua famiglia nel secolo XV,

1881, p. 106.38 È. Franklin, Consigli per diventare ricchi, Ibis 1993, p. 30.39 L.B. Alberti, / libri della famiglia, cit., pp. 150-54.40 B. Franklin, Autobiografia, Sansoni 1925, pp. 114-119. Adam Smith

nota come l'avvento dello spirito commerciale si porti via quell'ospitalitàgenerosa e spensierata che era caratteristica della società tradizionale: «Primadell'espansione del commercio e delle manifatture in Europa, l'ospitalità deiricchi e dei potenti, dal sovrano fino al più piccolo barone, superava tutto ciòche oggi si può immaginare». A. Smith, La ricchezza delle nazioni, m, rv.

41 B. Franklin, Autobiografia, cit., pp. 111-112.42 ìbid., pp. 115-117.43 M. Weber, L'etica protestante, cit., p. 105.44 B. Franklin, Consigli per diventare ricchi, cit., p. 44.45 ìbid., p. 29.46 ìbid.47 P. Camporesi, Cultura popolare e cultura d'elite fra Medioevo ed età

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moderna, in AA.W., Storia d'ìtalia, Annali 4: Intellettuali e potere, Einaudi1981, p. 138. Vedi anche M. Fini, "La Ragione aveva Torto?, Camunia 1985,p. 22.

48 M. Weber, L'etica protestante, cit., p. 129.49 Ibid., p. 105.50 G. Felloni, Profilo di storia economica dell'Europa dal Medioevo all'età

moderna, Giappichelli Editore 1993, p. 172.'* F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, cit., p. 439.ì2 Vedi più avanti, cap. viri, p. 190.53 Vedi M.T. Boyer-Xambeau-G. Delaplace-L. Gillard, Banchieri e Prin-

cipi, Einaudi 1991.54 È stato calcolato che nell'Europa del '500 esistevano riserve d'oro pari

a 3500 tonnellate e d'argento per 37.500. La scoperta dell'America riversò sulVecchio Continente quantità gigantesche di metalli preziosi, ma nel xvn se-colo nemmeno queste bastavano più, anche perché l'Europa aveva un deficitcommerciale cronico con l'Oriente. G. Parker, Le origini della finanza euro-pea 1500-1730, in Storia economica d'Europa, i secoli XVI e XVII, Utet 1970,p. 429.

55 W. Sombart, // capitalismo moderno, cit., p. 304.56 Ibid., p. 305.57 F. Braudel, Cvnltà matonaie, economia e capitalismo, cit., p. 438.58 Ibid., p. 409.59 Ibid., p. 438.60 Ibid., p. 441.61 G. Luzzatto, Breve storia economica dell'Italia medioevale, cit., pp. 162-

163.62 F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, cit., p. 427.63 Ibid.64 G. Luzzatto, Breve stona economica dell'Italia medioevale, cit., p. 164.65 W. Sombart, // borghese, cit., pp. 19-20.66 Giovanni Dominici (Beato), Regole del governo a cura familiare, Firenze

1927, p. 128.67 Le citazioni sono tratte da W. Sombart, // borghese, cit., p. 20.68 F. Petrarca, Epistulae de rebus familiaribus, Le Monnier 1866, voi. iv,

pp. 246-247.69 Non a caso Petrarca scrive che «solo i ricchi oggimai sono nelle città

creduti dabbene», la campagna continua a vivere secondo i propri valori chenon sono di tipo economico. Secondo Polanyi fino alla Rivoluzione industria-le il denaro è affare solo di mercanti e banchieri. K. Polanyi, La sussistenzadell'uomo, cit., p. 29.

70 G. Felloni, Profilo di storia economica dell'Europa, cit., p. 107.71 M. Bloch, La società feudale, cit., p. 157.72 Sono questi limiti alla libertà personale che risultano indigeribili ai

moderni. Perché dal punto di vista economico le prestazioni richieste al con-tadino sono davvero ben poca cosa. Il contadino paga prezzi molto inferiorial valore della rendita fondiaria se questa fosse sfruttata dal signore concriteri razionali e spirito di profitto, come avverrà in seguito all'affermarsidell'economia monetaria. Vedi retro p. 140, n. 4.

73 Un ritorno al regime comunitario della terra, a un feudalesimo senzafeudatari, è propugnato da alcune correnti di pensiero americane i cui espo-nenti di spicco sono Alasdair Mac Intyre e Robert Mangabeira Unger.

74 G. Felloni, Profilo di storia economica dell'Europa, cit., pp. 148-150.

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75 Gap. x, pp. 252-253.76 G. Luzzatto, Breve storia economica dell'Italia medioevale, cit., p. 114.7 W. Sombart, II capitalismo moderno, p. 355.78 M. Postlethwait, Dictionary of Commerce, 1751, pp. 22 ss.79 Fu l'industria cotoniera la prima a svilupparsi, nel xvni secolo, fuori dal

quadro corporativo. E. James, Storia del pensiero economico, Garzanti 1963,p. 51.

80 K. Marx, // Capitale, i, vii, 24.81 Ibid.82 Anche se Marx, ai fini della sua tesi sulTaccumulazione originaria del

capitale, tende ad amplificarlo e a anticiparlo.83 Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, n, n, q. 87, art. 4; q. 77, art.

4. Sull'economia tomista, vale a dire sulla dottrina economica della Chiesa nelbasso Medioevo, vedi K. Pribram, Storia del pensiero economico, Einaudi1988, voi. i, pp. 5-61.

84 Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, n, n, q. 77, art. 2; AlbertoMagno, Sententiae, m, 37.

85 K. Pribram, Storia del pensiero economico, cit., p. 23.86 II primo ad intuire che il valore di un bene è dato oltre che disutilità

dalla sua scarsità relativa fu Ferdinand© Galiani. Scrive Schumpeter: «Galianidifferisce da Jevons e da Menger per il fatto che gli mancava il concetto diutilità marginale, ma il suo concetto di scarsità relativa si avvicina molto»,J.A. Schumpeter, Storia dell'analisi economica, cit., voi. i, p. 367.

87 K. Pribram, Storia del pensiero economico, cit., p. 32.58 W. Sombart, // capitalismo moderno, cit., p. 352.89 K. Pribram, Storia del pensiero economico, cit., p. 33; Aristotele, Poli-

tica, i, 10, 125 b, 5-10. In realtà la condanna dell'usura da parte della Chiesaha motivazioni ancora più complesse che hanno a che fare con i fondamentiepistemologici della dottrina tomista che qui è superfluo richiamare; bastidire che, in questo senso, l'usura prima ancora che immorale è «un peccatodi logica». Per chi voglia saperne di più cfr. K. Pribram, Storia del pensieroeconomico, cit.

90 Vedi la deliziosa prefazione di Luigi Einaudi a Iris Origo, // mercantedi Prato, Rizzoli 1979, p. x.

91 D. Defoe, Complete English Tradesman, Londra 1745.92 Jàcob Fugger, della grande dinastia dei mercanti e finanzieri, che pro-

clamava di «voler guadagnare finché avrebbe potuto», era guardato, dai suoistessi familiari e nel suo ambiente, come un tipo «bizzarro», un «anormale»,quasi un pazzo. W. Sombart, II capitalismo moderno, cit., p. 364.

93 I. Origo, // mercante di Prato, cit., p. 105.

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