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Il cortile dei gentili Collana diretta da Ugo Sartorio

Di questi tempi c’è bisogno di rilanciare il dialogo tra credenti e non credenti. La sollecitazione giunge, tra l’altro, dalle parole di Benedetto XVI: «Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e pri- ma che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa» (Discorso alla Curia romana, 21 dicembre 2009).

Il «cortile» cui si fa riferimento è quel luogo, all’interno del tempio di Gerusalemme, riservato ai pagani e che oggi può essere inteso come spazio di incontro e confronto. La presente collana, «Il cortile dei gentili», intende ricreare idealmente quello spazio e quel clima, muovendosi negli ambiti dell’antropologia, dell’etica, della spiritualità, della mistica, senza dimenticare i rapporti della fede con la scienza e l’arte.

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CHARLES TAYLOR CARMELO DOTOLO

una religione «disincantata»

il cristianesimo oltre la modernità

Introduzione diLorenzo Fazzini

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L’intervento di Charles Taylor, Disincanto e re-incanto, è una traduzione di Lorenzo Fazzini - Serena Spelta

ISBN 978-88-250-3133-1 ISBN 978-88-250-3134-8 (PDF) ISBN 978-88-250-3135-5 (EPUB)

PRIMA EDIZIONE DIGITALE 2012Copyright © 2012 by P.P.F.M.C.MESSAGGERO DI SANT’ANTONIO – EDITRICEBasilica del Santo - Via Orto Botanico, 11 - 35123 Padova

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introduzione

di Lorenzo Fazzini

Che ci fa un giornalista in mezzo a due pensatori di vaglia, anzi di notorietà nazionale e internazionale? Charles Taylor e Carmelo Dotolo, a chi si interessa di filosofia, teologia e «bagatelle» come secolarizzazio-ne, pensiero debole, spazio pubblico del cristianesimo, non avrebbero nemmeno bisogno di presentazione, tanto è nota la loro produzione, vasta per argomen-ti, profonda per contenuti, qualificata per metodo e originalità.

Or dunque, cosa «introdurre» in questa sede, so-prattutto se io che scrivo mi trovo in una posizione di assoluta subalternità culturale, filosofica e teologica, e posso offrire solo qualche buona lettura? L’idea che proverò a sviluppare consiste nell’ibridare i campi del sapere – è il mio mestiere di cronista, render conto di altri – per argomentare, in qualche modalità più accessibile, la tesi di fondo dei due scritti che seguo-no: anzitutto, che la nostra epoca, conosciuta come il post-moderno, non è del tutto aliena alle possibili-tà del religioso; inoltre, che la secolarizzazione nasce in ambiente cristiano come un’occasione di purifica-

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zione della fede; infine, che il combinato disposto di queste due situazioni di fatto crea inedite chance di annuncio e presenza cristiana nel mondo attuale.

A certificare la «fine di Dio», ma anche la sua «ri-surrezione», sono stati spesso i romanzieri e i poeti, visto che – come scrisse Elias Canetti – gli scrittori rappresentano «i segugi dell’anima». E dunque par-tiamo dalla constatazione di un grande conoscitore di lettere quale George Steiner, critico letterario tra i più acclamati negli ultimi decenni. È stato lui a dedicare un saggio molto conosciuto all’indagine sul perché la tragedia – il genere poetico più classico della let-teratura – sia morta con la modernità. La ragione è precipuamente teologica: «Dio si era stancato della crudeltà dell’uomo. Forse non era più capace di do-minarla e non riusciva più a riconoscere la propria im-magine nello specchio della creazione. Ha lasciato che il mondo si dedicasse alle proprie azioni inumane e ora abita in qualche altro angolo dell’universo, tanto remoto che i suoi messaggeri non possono nemmeno giungerci»1.

Ma quando è il momento di cesura tra il «prima» e il «dopo», tra quel tempo in cui Dio (e allora la tra-gedia) stava davanti agli uomini come una possibilità concreta, e l’oggi in cui il cielo è vuoto? Risponde Stei-ner: «Immagino che se ne sia andato durante il XVII secolo […]. Nel XIX secolo, Laplace annunciò che Dio era una ipotesi di cui la mente razionale non aveva più

1 G. Steiner, La morte della tragedia, Garzanti, Milano 1992, p. 303.

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bisogno; Dio prese il grande astronomo in parola»2. È interessante notare che per Steiner non è quanto successo ad Auschwitz, non sono i forni crematori del nazismo, non è stato un terremoto (né sarebbe stato lo tsunami del 2005) ad aver relegato Dio nel dimenti-catoio delle galassie. È proprio quel periodo culturale, il Seicento, ad aver segnato lo scarto, quell’era in cui compaiono quei due uomini, e con loro altrettanti processi intellettuali decisivi, che segnano uno iato con l’epoca «incantata», per usare la terminologia di Charles Taylor: Cartesio e Galileo, ovvero la razionalità assoluta e la scienza sperimentale.

Ma eccolo qui l’inganno «dolce», cui tanta cultu-ra occidentale ha trascinato anche una parte (con-sistente, ahimè) del panorama cristiano: l’idea che il tentativo (riuscito in parte) di secolarizzare il mondo sia di matrice non religiosa; che abbia preso le mosse dall’idea di emanciparsi da Dio e che volesse costrui-re – per forza – un mondo senza Dio. Il processo di secolarizzazione, invece – e lo attestano diverse e au-torevoli voci – è nato dentro il cristianesimo. Esso è la proposta intellettuale di chi sa che un conto è il Cre-atore e un altro il creato; di chi conosce la distinzione tra Cesare e Dio; di chi distingue tra peccato e reato; e via differenziando.

E questo è un fil rouge che attraversa l’intera sto-ria del pensiero cristiano, se addirittura un pontefice teologo e filosofo come Benedetto XVI spende parole elogiative per l’inizio di questa secolarizzazione, ovve-

2 Ibidem.

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ro l’epoca moderna: «La modernità non consiste cer-to solo di negatività. Essa ha in sé grandi valori morali che vengono anche dal cristianesimo, che solo grazie al cristianesimo, in quanto valori, sono entrati nella coscienza dell’umanità»3. E ancora, dall’attuale ponte-fice, una nuova sottolineatura «inattuale» del caratte-re favorevole alla fede dell’era moderna: «È importan-te che cerchiamo di vivere e pensare il cristianesimo in modo tale che assuma la modernità buona e giusta, e quindi al contempo si allontani e si distingua da quella che sta diventando una controreligione»4. Insomma, per dirla con venature tipicamente filosofiche: «La post-modernità ermeneuticamente recupera la radi-ce più autentica della modernità, radice che – se la tesi non è esagerata – individuerei nella prospettiva biblico-cristiana sul mondo, sulla storia, sull’uomo, e quindi anche su Dio. In tal senso la post-modernità as-sume, nel recupero di questa radice, quella dinamica problematica ma anche affascinante che chiamo, sulla scia di una tradizione molto più ampia cui mi ispiro, dinamica o dinamismo della secolarizzazione»5.

Attenzione, però. Nessuno sguardo lusinghiero o facilone sulla modernità. Ci mette in guardia il teo-logo Michael Paul Gallagher: «Forse il più profondo danno causato da una cultura secolarizzata non ri-

3 Benedetto XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald, Li breria Editrice Vaticana, Vaticano 2010, p. 40.

4 Ivi, p. 87.5 C. Dotolo, in G. Vattimo - C. Dotolo, Dio: la possibilità buona.

Un colloquio sulla soglia tra filosofia e teologia, a cura di G. Giorgio, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2009, p. 9.

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guarda il livello della fede bensì quello della speranza o, più precisamente, il livello della nostra potenziale apertura alla rivelazione. Se la fede deriva dall’ascol-to, forse allora già viviamo la situazione di una sordità culturalmente indotta»6.

Ma cosa vuol dire allora modernità? Arthur Rim-baud, uno dei profeti di questa epoca, sintetizzava così il suo manifesto poetico: «Bisogna essere assolu-tamente moderni: possedere la verità in un’anima e in un corpo». Fabrice Hadjadj, astro nascente (anzi, or-mai ben affermato) del pensiero cattolico francese, ne è convinto: qui si celano le possibilità modernissime del grande segreto dimenticato del cristianesimo, l’in-carnazione. Ma si badi bene: quello di Rimbaud è sta-to anche il manifesto di quanti, nel mondo della cultu-ra, hanno scelto una delle due opzioni tratteggiate da Charles Taylor nelle pagine che seguono: il disincanto, nato – lo ripetiamo – per motivazioni religiose, per «de-sacralizzare» il mondo, e poi arrivato, con l’Illu-minismo, ad autofondarsi (Cartesio e Kant sono gli im-prescindibili punti di partenza di tale corrente); ma an-che il re-incanto, in chiave religiosa, in senso spirituale, della dinamica dell’uomo moderno che sente lo stri-dore tra un cielo vuoto e la propria condizione umana.

E quindi da un lato viene spesso presentata l’intera storia della cultura moderna – da Nietzsche a Heideg-ger, da Freud a Kafka, da Sartre a Pirandello; e per ve-nire più vicini a noi, Philip Roth e Umberto Eco, giusto due nomi che vanno per la maggiore – come un rosa-

6 M.P. Gallagher, Una freschezza che sorprende. Il Vangelo nella cultura di oggi, EDB, Bologna 2010, p. 34.

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rio di autori da leggersi sotto la lente del rifiuto di Dio, anzi, della non più «necessità di questa ipotesi», per parafrasare il già citato Laplace.

Anche qui, proviamo a cercare sotto la crosta dell’apparenza: chi l’ha detto che le «magnifiche sorti e progressive» della cultura, della letteratura, della fi-losofia, della poesia siano necessariamente a-religiose? Chi ha certificato che l’Otto-Novecento sono stati i secoli dell’assenza di Dio tra le righe della cultura? Uno storico, Frédéric Gugelot, in un suo interessantissimo saggio7, conteggia in ben centocinquanta gli intellet-tuali, uomini e donne di Francia, che nel cinquanten-nio 1885-1935 (quindi nell’epoca di massima distanza tra il cristianesimo e la società transalpina), scoprono o riscoprono il cattolicesimo, aderendovi in maniera pubblica e convinta. E si badi bene: sono gli anni se-gnati dalla legge del 1905, ovvero quella che non solo separa ma pone l’uno contro l’altra «armati» Chiesa e Stato. Ebbene, in quegli anni si assiste alla pubblica dichiarazione di fede di personaggi dell’élite intellet-tuale come Paul Claudel, Paul Bourget, Jules Lemaître, Louis Massignon, Gabriel Marcel, André Frossard, Max Jacob, Charles de Foucauld, Jacques e Raïssa Maritain, Charles Péguy, George Rouault, Joris-Karl Huysmans, Julien Green, Madeleine Delbrêl, François Mauriac, Léon Bloy. Giganti del pensiero, pesi massimi della letteratura, della ricerca, dell’intelletto. A dimostrare che, riprendendo un detto assodato, un’altra storia della cultura è possibile.

7 F. Gugelot, La conversion des intellectuels au catholicisme en France (1885-1935), CNRS éditions, Paris 1998.

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Cambiamo sponda della Manica e il risultato non differisce granché. Nell’epoca vittoriana l’Inghilterra si scopre patria di un Illuminismo non ateistico come quello francese ma di certo non simpatetico verso le tradizioni di Chiesa (anglicane o cattoliche che fosse-ro). E invece… Joseph Pearce, considerato dalla critica uno dei miglior biografi di Chesterton, ha messo in fila i «convertiti letterari» più noti del Regno Unito. Il suo lavoro8 risulta utile per mostrare come la vulgata di una patria letteraria senza Dio sia da considerarsi falsa e riduttiva. I nomi? Eccoli: Oscar Wilde, Evelyn Waugh, Clive S. Lewis, Malcolm Muggeridge, Graham Greene, Edith Sitwell, Siegfried Sassoon, Hilaire Belloc, Gilbert K. Chesterton, Dorothy Sayers, Thomas S. Eliot, John R.R. Tolkien, Ronald Knox, Robert H. Benson, Christo-pher Dawson. Sono questi «i convertiti delle lettere» che mostrano come, proprio nel periodo in cui Karl Marx moriva nella City, Bertrand Russell furoreggia-va sulla BBC e George Bernard Shaw a teatro sbeffeg-giava chiunque credesse in Dio, vi fossero geni (e che geni!) della cultura che guardavano a Dio non come un’assurdità bensì come il compimento della propria esistenza. Scavalchiamo l’Oceano e approdiamo negli States. Basti citare due nomi, in questo caso: quello di Thomas Merton e di Dorothy Day, due mostri sacri dello scrivere e dell’impegno pubblico, approdati al cattolicesimo da lidi marxisti e anarco-insurrezionali-sti. Questo per dire che anche nella patria del Nuovo Mondo la religione non è cosa per vecchi.

8 J. Pearce, Literary Converts, Ignatius Press, San Francisco 2000.

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Guarda caso sono proprio gli Stati Uniti il luogo, culturale e politico, che ci testimonia come «l’equa-zione fra modernità e secolarizzazione deve essere posta in questione con scetticismo […]. La situazione della religione negli Stati Uniti appare, dal punto di vista di questa teoria, irritante e incomprensibile. La società americana non può affatto essere considera-ta non moderna; ciononostante in essa la religione è indiscutibilmente presente e viva sia a livello istituzio-nale che a livello della coscienza e dell’orientamento esistenziale di milioni di persone»9.

La certificazione arriva da uno dei guru (pentiti) della teoria classica sulla secolarizzazione, quel so-ciologo della religione della Boston University che risponde al nome di Peter Berger. Il quale ha dovuto rivedere il suo schema tipico già alla fine degli anni Sessanta: quel «più modernità = meno religione» che andava per la maggiore nel dopoguerra. Uno dei suoi titoli più celebri, Il brusio degli angeli10, indicava una sua qual certa marcia indietro. Nel corso degli ultimi tempi Berger ha rivisto la sua interpretazione a favore di una rivalutazione della scelta religiosa nell’era post-moderna come una decisione qualificata, adulta, ma-tura: «L’appartenenza a questa o quella Chiesa non è più scontata, ma il risultato di una scelta cosciente […]. La declericalizzazione non può essere scambiata con l’assenza di religione»11. E ancora: «Anche la reli-

9 P.L. Berger - T. Luckmann, Lo smarrimento dell’uomo moderno, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 64-65.

10 P.L. Berger, Il brusio degli angeli [1969], Il Mulino, Bologna 1995.11 Berger - Luckmann, Lo smarrimento dell’uomo moderno, pp.

64-65.

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gione “evapora verso l’alto” e perde la sua ovvietà. Tale spostamento trasforma la fede in una “possibilità”»12.

Anche Charles Taylor ha radiografato come la perdita del «dato per scontato» sia la vera cifra del-la modernità: «Ormai da un paio di secoli viviamo in un mondo in cui questi punti di riferimento non reggono più. Oggi nessuno crede nella dottrina delle corrispondenze, quale veniva accettata nel Rinasci-mento; e né la storia divina né quella umana hanno un significato generalmente accettato […]. È divenuto impossibile fare assegnamento sulla semplice accetta-zione delle dottrine in passato pubbliche»13. In altre parole, la tendenza moderna è il credere quia più che il credere quid (compito imprescindibile delle chiese è congiungere queste due tendenze). «Tutto deve scor-rere, nell’universo, la ruota del tempo non deve arre-starsi mai – scrive Giorgio Pressburger –. È per questo che l’illuminazione non può durare, e probabilmente nemmeno la fede. Ma l’impegno sì, e anche il ricordo di quello stato. Dopo aver scoperto che è possibile go-dere per un attimo la felicità, bisogna dar credito per tutta la vita a quell’attimo, senza sperare che duri o che ritorni. La fede, secondo questa esperienza, come la passione, è fugace. Ma c’è»14.

E dunque siamo così sicuri che questo «disincan-to» – Charles Taylor sviscera tale tematica in dotte analisi, di carattere psicologico ed epistemologico,

12 Ivi, p. 86.13 C. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 1999,

p. 97.14 G. Pressburger, Sulla fede, Einaudi, Torino 2004, p. 28.

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nelle pagine che seguono – risulti negativo per la fede cristiana? Siamo così sicuri che la condizione per cui (sono parole del pensatore canadese) «l’universo in cui ci troviamo sia totalmente privo di significato per l’uomo», realtà maturata dallo sconvolgimento mo-derno delle scienze empiriche, rappresenti la pietra tombale dell’indagine su Dio? L’astrofisica Margherita Hack, coccolata dai media italiani, quando dice che, studiando l’universo, non ha trovato traccia di Dio, inconsapevolmente riecheggia la stolta propaganda sovietica di Yuri Gagarin, il primo uomo nello spazio: «Sono stato nello spazio, ma non ho visto né Dio né angeli». Ma serve ancora una posizione simile? È an-cora sostenibile una visione così banale dell’inquietu-dine umana?

Anche qui guardiamo alle lettere, a chi racconta provando a decifrare il mistero dell’esistente. Rivolgia-moci a uno dei migliori «segugi» dell’epoca contem-poranea, quel Cormac McCarthy, scrittore di stanza in Texas, acclamato per i suoi romanzi visionari e perfino intrisi di una certa violenza, ma a mio giudizio espres-sione di una «teologia negativa» secondo la quale, potremmo dire, «Dio esiste perché non lo si vede».

«Continuiamo per tutta la vita a dialogare con qualcuno che non vediamo: è infinitamente grande, come il nulla» scrive ancora Pressburger15. McCarthy è ancora più radicale nei suoi splendidi e sublimi ro-manzi: dà voce a un’umanità ferita, bastarda, cattiva, che grida a Dio il proprio sgomento per la sua assenza. Nella rarefatta atmosfera del racconto western Il buio

15 Ivi, p. 29.

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fuori, uno dei protagonisti se ne esce con una dichia-razione di fede «negativa»: «Ho visto tanta cattiveria fra gli uomini che non so perché Dio non ha ancora spento il sole e non se n’è andato»16. Un’attestazione di adesione all’esistenza di Dio – mediante una pars destruens – che salta a piè pari, per qualità e nitidezza, tanta teologia e filosofia della religione su Dio, male e onnipotenza divina. Questa di McCarthy è una di-mostrazione della benevolenza e della misericordia di Dio attraverso il suo negativo: egli «non se n’è anda-to» dagli uomini perché ha ancora fiducia in loro, no-nostante le loro bassezze (e nel romanzo mccarthya-no tali cattiverie arrivano a picchi inauditi, compresa l’uccisione di un bimbo). Si parlava di modernità alla Rimbaud, prima. Ed ecco qui un’altra folgorante intu-izione letteraria di McCarthy, il quale fa dire a un suo personaggio: «Non sono un predicatore. Cosa c’è da predicare? È tutto abbastanza chiaro. Verbo e carne. Le prediche non mi interessano granché»17. «La verità in un’anima e in un corpo»; «verbo e carne». Cosa serve di più per comprendere la verità del cristiane-simo, la sua inaudita profondità, lo scardinamento di ogni ordinamento religioso? Quale religione avrebbe potuto inventarsi un Dio che si fa uomo?

Altra storia western, altra dimostrazione teologica che ci arriva dalle lande texane: «“Secondo te Dio tie-ne d’occhio la gente?” disse Rawlins. “Sì. Penso di sì”. “Tu?”. “Sì. Visto come va il mondo lo penso anch’io […]. In un attimo non si capisce più niente. Secondo

16 C. McCarthy, Il buio fuori, Einaudi, Torino 1997, p. 163.17 Ivi, p. 26.

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me Lui ci sta attento. Altrimenti non saremmo in gra-do di sopravvivere un giorno”»18. Insomma, «la c’è la provvidenza», anche nel tormentato West di cavalli, cowboy e pistoleri: Dio «tiene d’occhio la gente» af-finché questa non si faccia troppo del male da sola, sembra dirci il Nostro.

Altrove è la natura a causare il cataclisma che fa da sfondo all’apocalittica storia di amore, sacrificio e re-denzione (questo è il cristianesimo, in pillole estreme: per questo McCarthy, a mio avviso, è un autore cristia-no, al di là della sua professione o meno di fede) che va sotto il nome di La strada. Anche qui troviamo una via «negativa» per arrivare alla figura di un Dio buono che viene impersonato dal padre che accompagna il figlio (il richiamo biblico, da Abramo/Isacco al rappor-to Padre/Cristo, è sottaciuto ma quanto mai eviden-te) verso il domani: «Si inginocchiò nella cenere. Al-zò il viso verso il pallore del giorno. “Ci sei?”, sussurrò. “Riuscirò a vederti prima o poi? Ce l’hai un collo per poterti strangolare? Ce l’hai un cuore? Sii stramaledet-to per l’eternità, ce l’hai un’anima? Oh Dio”, sussurrò. “Oh Dio”»19. Sono parole che, seppur parafrasate, si ritrovano in uno dei cuori caldi della Bibbia, il libro di Giobbe. E se in quel caso diciamo «parola di Dio» alla sua lettura, dobbiamo essere grati a McCarthy per averci sbattuto sotto il naso una storia così teologica (in forma secolare: il romanzo è tale) da risvegliare in noi l’impeto dello spirito.

18 C. McCarthy, Cavalli selvaggi, Einaudi, Torino 1996, p. 90. 19 Id., La strada, Einaudi, Torino 1997, p. 9.

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Infine. In un dialogo che ha molto del beckettiano Aspettando Godot, l’autore texano lancia la sfida tra un credente e un ateo, anzi: tra un «fondamentalista» cristiano, direbbe qualcuno, e un agnostico. Il dialogo, breve e ficcante, è tutto da gustare. Vi si scontrano le due visioni, l’una di chi tiene aperto il cielo, l’altra di chi lo considera chiuso, anzi, che non lo ritiene più re-ale. Epperò… «Credere non è come non credere. Uno che crede alla fine arriva alla fonte della fede e non deve più cercare altro. Non c’è un altro. Ma chi non crede ha un problema. Si è messo in testa di sviscera-re il mondo, ma ogni volta che becca una cosa falsa ce ne trova sotto altre due da spiegare»20. Insomma, nel cortile dei gentili invocato da Benedetto XVI come spazio di confronto tra credenti e uomini in ricerca, McCarthy sarebbe un ottimo accompagnatore. Ce lo dice, rivelatrice, la frase del Nero, uno dei due prota-gonisti del dialogo: «Chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste»21.

20 Id., Sunset limited, Einaudi, Torino 2008, p. 53. 21 Ivi, p. 54.

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disincanto e re-incanto

di Charles Taylor

I termini disincanto e re-incanto vengono spesso utilizzati assieme: il primo per indicare le principali ca-ratteristiche del processo che conosciamo con il no-me di «secolarizzazione», il secondo come la presun-ta negazione del primo, una scelta che può essere sia temuta che desiderata, a seconda del punto di vista di ciascuno di noi.

Ma il rapporto fra questi due termini è più com-plicato.

un processo irreversibile?

In un certo senso, possiamo osservare, il processo di disincanto è irreversibile. L’aspirazione al re-incanto (o il temuto pericolo insito in tale minaccia) mira a un processo diverso, che può riprodurre caratteristi-che analoghe a quelle del mondo un tempo incanta-to, senza però ridursi alla semplice restaurazione di quest’ultimo.