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1 ASSOCIAZIONE ITALIANA DI SCIENZE REGIONALI (AISRe) XXX Conferenza scientifica annuale AISRe Firenze, 09-11 settembre 2009 Il concetto di capitale sociale: uno, nessuno, centomila ? Chiara Sumiraschi 1 «Da qualche tempo, il termine capitale sociale è entrato nel lessico di sociologi e politologi a prima vista come sostituto di altre parole prima usate con frequenza: reciprocità, per esempio, oppure fiducia o anche network di relazioni. (…) I cambiamenti di vocabolario non sono mai soltanto una questione di stile o di abitudine: annunciano cambiamenti più profondi nel modo di definire e affrontare problemi analitici», Arnaldo Bagnasco, 1999. 1. Introduzione Il successo del sintagma capitale sociale nelle riflessioni e negli studi sul capitale sociale negli ultimi anni giustifica la scelta di interrogarsi sul senso che ha assunto il capitale sociale nei processi di sviluppo, nonostante il “capitale sociale” rappresenti un tema ampiamente dibattuto, discusso e approfondito nella letteratura sociologica ed economica. Nello specifico, il paper si prefigge di analizzare il senso che ha assunto il capitale sociale nelle politiche di sviluppo per comprendere, per quanto possibile, se l’utilizzo di tale sintagma abbia determinato effettivamente un valore aggiunto rispetto alle altre parole impiegate in precedenza. In considerazione di ciò, sembra legittimo e opportuno chiedersi se esista un’unica definizione di “capitale sociale” buona per tutti. Ovviamente, non si tratta di una questione meramente linguistica, ma di una domanda finalizzata a capire se, utilizzando il concetto di “capitale sociale”, gli studiosi si rifacciano ad un’idea condivisa o, viceversa, richiamino significati differenti. A tal fine, il paper propone un percorso di lettura dei “classici della letteratura del capitale sociale” che esplora il significato di “capitale sociale” a partire dalla riflessione sulle differenti definizioni di capitale sociale per concludere, successivamente, con alcune considerazioni su alcuni capisaldi del concetto di capitale sociale. Per perseguire l’obiettivo conoscitivo prefissato, il lavoro è organizzato nel seguente modo: il primo paragrafo – Origini del concetto di capitale sociale – risale alla genesi del concetto di capitale sociale presentando, innanzitutto, la visione proposta da Coleman e, nel contempo, affiancandole definizioni preesistenti ad opera di autori unanimemente citati come ideatori del concetto di capitale sociale, con particolare attenzione per Loury (1977) e Bourdieu (1980); il secondo paragrafo – Una (breve) rassegna alla ricerca di una definizione condivisa di capitale sociale – si prefigge di analizzare i primi sviluppi del concetto di capitale sociale: Putnam e Fukuyama nel panorama globale, Mutti, Bagnasco, Piselli, Pizzorno, Trigilia (e altri) 1 CERTeT (Centro di Economia Regionale, Trasporti e Turismo), Università Bocconi, via Roetgen 1, 20136, Milano. +39.02.5836.5647 [email protected] www.certet.unibocconi.it .

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ASSOCIAZIONE ITALIANA DI SCIENZE REGIONALI (AISRe) XXX Conferenza scientifica annuale AISRe Firenze, 09-11 settembre 2009

Il concetto di capitale sociale: uno, nessuno, centomila ? Chiara Sumiraschi1

«Da qualche tempo, il termine capitale sociale è entrato nel lessico di sociologi e politologi a prima vista come sostituto di altre parole prima usate con frequenza: reciprocità, per esempio, oppure fiducia o anche network di relazioni. (…) I cambiamenti di vocabolario non sono mai soltanto una questione di stile o di abitudine: annunciano cambiamenti più profondi nel modo di definire e affrontare problemi analitici», Arnaldo Bagnasco, 1999.

1. Introduzione Il successo del sintagma capitale sociale nelle riflessioni e negli studi sul capitale sociale negli ultimi anni giustifica la scelta di interrogarsi sul senso che ha assunto il capitale sociale nei processi di sviluppo, nonostante il “capitale sociale” rappresenti un tema ampiamente dibattuto, discusso e approfondito nella letteratura sociologica ed economica. Nello specifico, il paper si prefigge di analizzare il senso che ha assunto il capitale sociale nelle politiche di sviluppo per comprendere, per quanto possibile, se l’utilizzo di tale sintagma abbia determinato effettivamente un valore aggiunto rispetto alle altre parole impiegate in precedenza. In considerazione di ciò, sembra legittimo e opportuno chiedersi se esista un’unica definizione di “capitale sociale” buona per tutti. Ovviamente, non si tratta di una questione meramente linguistica, ma di una domanda finalizzata a capire se, utilizzando il concetto di “capitale sociale”, gli studiosi si rifacciano ad un’idea condivisa o, viceversa, richiamino significati differenti. A tal fine, il paper propone un percorso di lettura dei “classici della letteratura del capitale sociale” che esplora il significato di “capitale sociale” a partire dalla riflessione sulle differenti definizioni di capitale sociale per concludere, successivamente, con alcune considerazioni su alcuni capisaldi del concetto di capitale sociale. Per perseguire l’obiettivo conoscitivo prefissato, il lavoro è organizzato nel seguente modo: • il primo paragrafo – Origini del concetto di capitale sociale – risale alla genesi del concetto di

capitale sociale presentando, innanzitutto, la visione proposta da Coleman e, nel contempo, affiancandole definizioni preesistenti ad opera di autori unanimemente citati come ideatori del concetto di capitale sociale, con particolare attenzione per Loury (1977) e Bourdieu (1980);

• il secondo paragrafo – Una (breve) rassegna alla ricerca di una definizione condivisa di capitale sociale – si prefigge di analizzare i primi sviluppi del concetto di capitale sociale: Putnam e Fukuyama nel panorama globale, Mutti, Bagnasco, Piselli, Pizzorno, Trigilia (e altri)

1 CERTeT (Centro di Economia Regionale, Trasporti e Turismo), Università Bocconi, via Roetgen 1, 20136, Milano.

+39.02.5836.5647 [email protected] www.certet.unibocconi.it.

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nel panorama italiano. L’obiettivo di tale riflessione è individuare una definizione convincente e condivisa di quello che si intende per capitale sociale. Come si avrà modo di verificare durante la lettura dell’articolo, la riflessione sulla letteratura sul capitale sociale evidenzia come manchi una definizione unanimemente condivisa del concetto di capitale sociale: Coleman si concentra sulla visione di capitale sociale come risorsa individuale per l’azione; Putnam e Fukuyama focalizzano l’interesse sulla caratteristica del capitale sociale di accrescere l’attitudine a cooperare che deriva da una cultura cooperativa condivisa; Mutti fissa l'attenzione sulla rilevanza della fiducia nel generare capitale sociale e, così, ogni studioso si dedica principalmente all’analisi di uno specifico aspetto del capitale sociale;

• il terzo paragrafo – Alcuni elementi di particolare interesse del concetto di capitale sociale – concentra infine l’attenzione su tre aspetti del capitale sociale – relazioni, fiducia, organizzazioni – che emergono con particolare evidenza dalle definizioni del concetto analizzate.

Prima di indagare il significato assunto dal capitale sociale per coloro che si occupano di politiche, programmi e progetti di sviluppo, sembra opportuna una breve digressione finalizzata a spiegare quali siano le ragioni per cui negli ultimi anni sia cresciuto l’interesse per il capitale sociale o, in altre parole, perché il capitale sociale sia diventato importante. Sebbene su tale questione si siano interrogati (e si interroghino) sociologi, economisti e politologi, sembra opportuno richiamare la risposta fornita da due tra gli studiosi che per primi si sono occupati di capitale sociale: Antonio Mutti e Carlo Trigilia. Entrambi gli autori sottolineano come, negli ultimi decenni, gli studi sulla globalizzazione abbiano mostrato come tale fenomeno, invece di omogeneizzare i percorsi di modernizzazione, abbia determinato delle differenze significative nei processi di sviluppo1: alcuni territori riescono ad avviare e sviluppare percorsi di sviluppo, mentre in altri contesti si assiste ad un progressivo sradicamento territoriale delle attività economiche (Trigilia, 2005). Pertanto, sembra plausibile chiedersi per quali ragioni alcuni paesi sembrino maggiormente dinamici di altri e, di conseguenza, interrogarsi sul modo in cui le dimensioni economica, culturale, istituzionale e politica influiscano sui percorsi di sviluppo. Esiste una teoria capace di spiegare da cosa dipendano le differenze e le somiglianze nei vari percorsi di sviluppo? Mutti (1998, pp. 7,8) evidenzia una difficoltà diffusa di elaborare teorie integrate e multidimensionali in grado di spiegare in che modo le differenti dimensioni influenzino i diversi percorsi di sviluppo. A suo parere, tale problematicità ha indotto la maggior parte degli studiosi a utilizzare punti di vista “parsimoniosi” sulla modernizzazione, che privilegiano poche variabili esplicative e, nello specifico, focalizzano sempre più l’attenzione sul ruolo fondamentale del capitale sociale, presente in una data società, nel definire le linee di sviluppo politico ed economico. Senza entrare nel merito della valutazione di Mutti sulle motivazioni che hanno indotto gli studiosi ad utilizzare il capitale sociale quale variabile esplicativa dei differenti percorsi di modernizzazione, si ritiene interessante sottolineare come il concetto di capitale sociale abbia indiscutibilmente assunto un ruolo fondamentale nelle teorie dello sviluppo, sostituendo, in molti casi, concetti utilizzati in passato come, ad esempio, fiducia o reti di relazioni.

2. Le origini del concetto di capitale sociale L’introduzione ha focalizzato l’attenzione sul ruolo che il capitale sociale ha ricoperto come variabile significativa nelle politiche di sviluppo. Tuttavia, per comprendere quale sia il significato

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assunto in tale contesto dal sintagma “capitale sociale”, sembra opportuno compiere un passo indietro per capire quale sia il contesto in cui nasce il concetto di capitale sociale e, successivamente, come si sviluppa tale nozione. La riflessione sulla genesi del concetto di capitale sociale assume i Fondamenti di Teoria Sociale di Coleman come caposaldo della letteratura di riferimento; nel presente paragrafo, si cercherà inizialmente di esplicitare le ragioni alla base della scelta di assumere i Fondamenti come punto fermo e, in seguito, di chiarire quali siano le teorie e gli autori che hanno maggiormente influenzato Coleman nell’elaborazione della sua teoria sociale. Per concludere questa sezione si cercherà di illustrare le motivazioni che hanno indotto Coleman a introdurre il concetto di capitale sociale nella teoria sociale, con particolare attenzione agli antesignani studiosi di capitale sociale che Coleman stesso indica come suoi riferimenti. Gli studiosi che si occupano di capitale sociale sembrano divertirsi a ripercorrere a ritroso la letteratura sul capitale sociale per identificare chi abbia utilizzato per la prima volta tale concetto. Trigilia ritiene che Bourdieu abbia introdotto la nozione di capitale sociale in una breve nota del 1980 «Le capital social: notes provisoires», presentando il capitale sociale come la chiave esplicativa in grado di spiegare le differenze di rendimento tra individui dotati dello stesso capitale culturale ed economico2. Pizzorno, invece, attribuisce l’utilizzo del termine “capitale sociale” a Loury, che, a suo parere, ha cercato di spiegare come il “capitale umano” fosse parzialmente determinato dall’apporto delle relazioni sociali nelle quali l’individuo era inserito durante il processo di socializzazione. Bagnasco ricorda che probabilmente è stata Jane Jacobs (1961), nei suoi studi sulla crisi delle grandi città americane, a «porre l’attenzione sugli aspetti informali delle strutture di relazione in società altamente organizzate, riportati (Bagnasco, 1999, p. 352). Sabatini, per contro, afferma che la prima apparizione del concetto di capitale sociale risale al 1916, quando Lydia Hanifan definì capitale sociale «quegli elementi tangibili che contano più di ogni altra cosa nella vita quotidiana delle persone: la buona volontà, l’amicizia, la partecipazione e i rapporti sociali tra coloro che costituiscono un gruppo sociale. Se una persona entra in contatto con i suoi vicini, e questi a propria volta con altri vicini, si determina un’accumulazione di capitale sociale» (Sabatini, 2004, p. 5). Al di là di questa ricerca delle “origini del concetto di capitale sociale”3, è opinione condivisa che l’idea di capitale sociale ricompaia nel dibattito grazie alla ricerca di James Coleman (1990)4. Pertanto, nonostante non siano realmente l’antesignano del capitale sociale, i Fondamenti di Teoria Sociale di Coleman, meritano di essere considerati il punto di partenza dal quale esplorare la genesi del sintagma “capitale sociale”, non solo per la qualità degli stessi, ma, soprattutto, per il fatto che la teoria di Coleman è continuamente richiamata nella letteratura successiva5. Se i Fondamenti sono un caposaldo del concetto di capitale sociale, appare opportuno illustrare brevemente quali teorie, e quali autori, abbiano maggiormente influenzato Coleman nell’elaborazione della sua teoria sociale per verificare, in seguito, se tale influsso sia rinvenibile nel concetto di capitale sociale di Coleman. In particolare, il punto di partenza di tale precisazione è fornito dalle parole dello stesso Coleman: «All’università ero stato un durkheimiano, ma per un certo periodo ho sofferto del fatto che molta parte del lavoro sociologico di questa tradizione si rivolgesse solo ad un aspetto del problema, cioè al modo in cui l’ambiente influenza il soggetto e il comportamento individuale. (...) Ma c’era poi un altro aspetto che all’inizio della mia carriera non consideravo molto importante: il modo in cui si combinano le azioni individuali all’interno del funzionamento del sistema. Questo era un orientamento molto più weberiano; Weber era più vicino di qualunque altro sociologo alla teoria dell’azione» (Swedberg, 1990, p. 56) 6.

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Il passo successivo che compie Coleman nel suo programma di ricerca consiste nel prendere posizione nel dibattito tra individualismo metodologico e strutturalismo. Coleman opta esplicitamente per quella che lui stesso definisce come una “versione speciale” dell’individualismo metodologico: egli ritiene che l’analisi delle strutture sociali dal punto di vista degli interessi dell’individuo richieda necessariamente di analizzare l’individuo in modo separato dalla società7, in quanto se si considerasse l’individuo come un soggetto inserito in un sistema sociale, non sarebbe possibile valutare le azioni del sistema o dell’organizzazione sociale8: «Non si assume che la spiegazione del comportamento sistemico risulti da null’altro che azioni e orientamenti individuali presi in aggregato. Dall’interazione tra gli individui si vedono derivare fenomeni emergenti di livello sistemico, cioè fenomeni che non erano né voluti, né previsti dagli individui» (Coleman, 1990, p. 18). Coleman, dunque, sceglie l’individualismo metodologico e, a partire da tale prospettiva, costruisce una complessa teoria sociale di stampo neoclassico, basata sul paradigma dell’azione razionale. Tuttavia, a partire dal riconoscimento di un bias individualistico nell’economia classica e neoclassica ne supera l’individualismo estremo focalizzando l’attenzione sull’organizzazione e sulle istituzioni sociali come contesti che condizionano le scelte e producono effetti sistemici (Coleman, 1990; Bagnasco, 1999; Piselli, 1999; Trigilia, 20059). In altre parole, Coleman confuta parzialmente l’approccio individualistico e, nel contempo, adotta un approccio che valorizza le interconnessioni fra ambito economico e sociale: in tale quadro concettuale, la nozione di capitale sociale rappresenta l’elemento di connessione fra economia e società (Barbieri, 1997, p. 345). Nell’introdurre il concetto di capitale sociale nella sua teoria sociale, Coleman si riferisce principalmente a quei sociologi che cercano di spiegare le relazioni sociali utilizzando termini come “risorse” e “possesso” che chiaramente indicano uno sconfinamento nel territorio dell’economia e, in considerazione di ciò, richiama direttamente Loury, Porath10, Granovetter e Bourdieu (Pizzorno, 1999, p. 374). Nello specifico, il concetto di capitale sociale inteso come “risorsa per gli individui” è stato utilizzato esplicitamente da Loury (1977), che usa il concetto di capitale sociale per indicare quali siano le risorse utili per lo sviluppo di un bambino11, e da Bourdieu (1980) che adopera il concetto di capitale sociale per designare «l’insieme delle risorse attuali o potenziali che sono legate al possesso di una rete durevole di relazioni più o meno istituzionalizzate d’interconoscenza e d’inter-riconoscimento o, in altri termini, all’appartenenza a un gruppo, inteso come insieme di agenti che non sono soltanto dotati di proprietà comuni (suscettibili di essere percepite dall’osservatore, dagli altri o da loro stessi) ma sono anche uniti da legami permanenti e utili. Il volume di capitale sociale posseduto da un particolare agente dipende dunque dall’ampiezza della rete di legami che egli può efficacemente mobilitare e dal volume di capitale (economico, culturale e simbolico) detenuto da ciascuno di coloro cui egli è legato» (Bourdieu, 1980, p. 2)12. Infine, Coleman si rifà al principale di studioso di quella che talvolta viene definita come “nuova sociologia economica”, Mark Granovetter13, cui va il merito di aver sviluppato l’idea che «l’azione economica può essere vista come “radicata” (embedded) in network di relazioni sociali» (Swedberg, 1990, p. 105), in aperta polemica con la «nuova economia istituzionalista14» che, a suo parere, si prefigge di spiegare le istituzioni sociali a partire da una posizione neoclassica come soluzioni efficienti a problemi economici15. L’aspetto che Granovetter più recrimina alla nuova economia istituzionalista è il fatto che tale filone di studi concepisce come indipendenti i comportamenti e le istituzioni che, invece, sono vincolati [embeddedness] alle relazioni sociali: «se nell’economia classica e neoclassica il fatto che gli attori possono avere relazioni sociali è

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stato trattato al più come un ostacolo frizionale che intralcia i mercati competitivi, (…) la nozione di embeddedness sottolinea, invece, il ruolo delle relazioni personali concrete e delle strutture (o network) di tali relazioni nel generare fiducia e nello scoraggiare la prevaricazione16» (Granovetter, 1990, pp. 52, 59). Per concludere, si deve rilevare come il concetto di capitale sociale di Coleman, come vedremo meglio oltre, mutua da Loury e da Bourdieu la caratteristica di essere una risorsa utile per l’azione e da Granovetter il concetto di embeddedness, in quanto Coleman (1990, p. 387) ritiene che l’idea di radicamento proposta da Granovetter rappresenti un tentativo di introdurre le relazioni sociali e organizzative nell’analisi dei sistemi economici e di rappresentare tali strutture come elementi in grado di produrre effetti sul funzionamento di tali sistemi.

3. Una (breve) rassegna alla ricerca di una definizione condivisa di capitale sociale

Nel paragrafo precedente si è osservato come, nonostante la genesi del sintagma «capitale sociale» non possa essere attribuita a Coleman, l’idea di capitale sociale si ripresenti nel dibattito degli anni Novanta grazie ai Fondamenti. Tuttavia, dalla ricomparsa negli anni Novanta, il concetto di “capitale sociale” è stato raramente utilizzato in modo univoco e preciso, mentre sovente se ne è fatto un uso approssimativo17. Con particolare riferimento all’ambiguità e alla pluralità di forme che ha assunto il capitale sociale18, Portes (1998, p. 2) avverte il rischio che la rapida diffusione del concetto possa diluirne il contenuto e in questo modo ridurne l’efficacia analitica: «Ci stiamo avvicinando al punto in cui il capitale sociale viene ad essere applicato a così tante cose e in così tanti differenti contesti da perdere ogni distinto significato». Per chiarire meglio quale sia la distanza che effettivamente intercorre tra i differenti usi del concetto di capitale sociale, si ritiene di interesse offrire una breve rassegna delle definizioni utilizzate dagli autori maggiormente riconosciuti nel campo della letteratura economica e sociologica italiana che trattano di capitale sociale19. Prima di presentare la sequenza di definizioni di capitale sociale, sembra opportuno chiarire quale sia l’obiettivo conoscitivo e le principali caratteristiche di questa rassegna. Innanzitutto la rassegna non ha alcuna pretesa di essere esaustiva: non vuole ricostruire il quadro delle definizioni di capitale sociale e rinuncia a priori ad essere rappresentativa delle definizioni di capitale sociale offerte nella letteratura economica, sociologica e politologica di riferimento; si limita, in altre parole, a offrire qualche elemento di riflessione che faccia pensare a cosa diciamo quando usiamo il concetto di “capitale sociale”. In secondo luogo, la rassegna è organizzata secondo un ordine cronologico e copre esclusivamente il decennio che va dalla pubblicazione dei Fondamenti di Coleman (1990) alla pubblicazione in Italia del n. 57 della rivista Stato e Mercato (1999). Come ampiamente evidenziato, il riferimento a Coleman è motivato non solo dalla qualità della teoria dei Fondamenti, ma, soprattutto, dal fatto che la teoria sottostante i Fondamenti sia costantemente citata nella letteratura successiva. Analogamente, al numero selezionato della rivista Stato e Mercato20 si riferiscono la maggior parte dei successivi contributi italiani sul tema “capitale sociale”. Infine, la rassegna si prefigge di desumere dalle definizioni presentate alcuni aspetti del capitale sociale che emergono con particolare evidenza o che sono generalmente condivisi dagli autori considerati per poter, nel paragrafo successivo, focalizzare l’attenzione sugli aspetti del capitale

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sociale ritenuti maggiormente interessanti per riflettere sul significato assunto dal concetto di capitale sociale. Come anticipato, per realizzare la breve rassegna delle definizioni di capitale sociale, si è scelto di considerare gli autori maggiormente rappresentativi nel decennio 1990-2000: James Coleman (1990), autore dei Fondamenti di Teoria Sociale, Robert Putnam (1993) e Francis Fukuyama (1995) le cui ricerche empiriche hanno favorito la diffusione del concetto di capitale sociale, Antonio Mutti (1998), che per primo ha pubblicato in Italia un libro dedicato al capitale sociale fin dal titolo Capitale sociale e sviluppo: la fiducia come risorsa, Arnaldo Bagnasco, Fortunata Piselli, Alessandro Pizzorno e Carlo Trigilia (1999), i quattro autori che hanno contributo alla costruzione di un numero monografico sul capitale sociale della rivista Stato e Mercato. Per Coleman, «Il capitale sociale è definito dalla sua funzione. Non si tratta di una singola entità, ma di diverse entità che hanno due caratteristiche in comune: consistono tutte di un determinato aspetto di una struttura sociale e tutte rendono possibili determinate azioni di individui presenti all’interno di questa struttura. Come le altre forme di capitale, il capitale sociale è produttivo, e rende quindi possibile il conseguimento di obiettivi che altrimenti non sarebbero raggiungibili. Come il capitale fisico e il capitale umano, il capitale sociale non è completamente fungibile, ma lo è rispetto a determinate attività. Una data forma di capitale sociale può essere di valore nel rendere possibili alcune azioni, ma può anche essere inutile o dannosa per altre. Diversamente da altre forme di capitale, il capitale sociale è contenuto nella struttura delle relazioni tra le persone: esso non si trova negli individui, né negli input fisici delle produzioni» (Coleman, 1990, p. 388). Per Putnam, «Per capitale sociale intendiamo qui la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promuovendo iniziative prese di comune accordo... il capitale sociale facilita la cooperazione spontanea» e «anche le pratiche di mutua assistenza, come le società cooperative di credito, sono forme di investimento in un capitale sociale... la maggior parte dei capitali sociali, come la fiducia, sono, secondo la definizione di Albert Hirschman, “risorse morali”, ovvero risorse la cui fornitura aumenta invece di diminuire con l’uso e che si esauriscono se non sono usate» (Putnam, 1993, p. 196, 199)21. Per Fukuyama, «Il capitale sociale è una risorsa che nasce dal prevalere della fiducia nella società o in una parte di essa. Si può radicare tanto nella famiglia, il più piccolo e fondamentale gruppo sociale, quanto nel più grande, l’intera nazione, e in tutti gli altri corpi intermedi. Il capitale sociale differisce dalle altre forme di capitale umano in quanto di solito si forma e viene tramandato attraverso meccanismi culturali, come la religione, la tradizione o le abitudini inveterate. (...) Al contrario [di altre forme di capitale umano] produrre capitale sociale richiede di fare proprie le norme morali di una comunità e, nel suo ambito, l’acquisizione di valori come la lealtà, l’onestà e l’affidabilità... il capitale sociale non può essere accumulato semplicemente mediante l’agire individuale. Si fonda sulla prevalenza delle virtù sociali rispetto a quelle individuali (Fukuyama, 1996, pp. 40, 41)». Per Mutti, «Per capitale sociale si intende una struttura di relazioni tra persone, relativamente durevole nel tempo, atta a favorire la cooperazione e perciò a produrre, come altre forme di capitale, valori materiali e simbolici. Questa struttura di relazioni consta di reti fiduciarie formali e informali che stimolano la reciprocità e la cooperazione» (Mutti, 1998, p. 8). Per Trigilia, «Il capitale sociale si può allora considerare come l’insieme delle relazioni sociali di cui un soggetto individuale (per esempio un imprenditore o un lavoratore) o un soggetto collettivo (privato o pubblico) dispone in un determinato momento. Attraverso il capitale di relazioni si

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rendono disponibili risorse cognitive, come le informazioni, o normative, come la fiducia, che permettono agli attori di realizzare obiettivi che non sarebbero altrimenti raggiungibili, o lo sarebbero a costi molto più alti. Spostandosi dal livello individuale a quello aggregato, si potrà poi dire che un determinato contesto territoriale risulta più o meno ricco di capitale sociale a seconda che i soggetti individuali o collettivi che vi risiedono siano coinvolti in reti di relazioni più o meno diffuse» (Trigilia, 1999, p. 423). A differenza degli studiosi qui citati, gli autori del n. 57 della rivista Stato e Mercato non propongono una loro definizione del concetto di capitale sociale. In particolare, Bagnasco, in modo analogo a quanto fatto da Coleman, richiama il concetto economico di capitale, in termini di capitale finanziario e capitale fisico, e il concetto di capitale umano, affermando che «L’idea di capitale sociale costituisce una ulteriore estensione del concetto originario di capitale, non necessariamente applicato all’economia, ma inteso in generale come una risorsa per l’azione». Poco oltre, cita esplicitamente Coleman affermando che «J. Coleman introduce il concetto parlando di una specifica risorsa per l’azione «lodged neither in individuals nor in physical implements of production, (but inherent) in the structure of relations between persons and among persons» e precisa che per “ragionare in termini di capitale sociale” intende «considerare la società dal punto di vista del potenziale di azione degli individui che deriva dalle strutture di relazione. In questi termini, il capitale sociale più che un oggetto specifico sembra allora costituire un punto di vista sull’insieme della società, o comunque su un insieme vasto e non ben delimitabile di fenomeni sociali» (Bagnasco, 1999, pp. 352, 353). Pizzorno22 focalizza la sua attenzione sugli elementi di innovatività del termine “capitale sociale”: «In altre parole, la novità di questo concetto consiste nell’indirizzaci a guardare agli stessi fenomeni che tradizionalmente la sociologia analizzava nei loro rapporti strutturali (di relazioni di causa ed effetto), ma in modo nuovo, assumendo, cioè, come punto di vista epistemologico quello di un soggetto d’azione il quale tratti le relazioni sociali entro le quali si muove come mezzi per il perseguimento di determinati fini. Il capitale sociale, costituito dalle relazioni sociali in possesso di un individuo costituisce allora nient’altro che un insieme di risorse che costui può utilizzare, assieme ad altre risorse, per meglio perseguire i propri fini» (Pizzorno, 1999, p. 374). Infine, Piselli abbozza una definizione di capitale sociale, richiamando esplicitamente Coleman «Il concetto di capitale sociale, dunque, inerisce alla struttura delle relazioni sociali, tra due o più persone. Come altre forme di capitale, il capitale sociale è produttivo: è una risorsa per l’azione che rende possibile all’attore (individuale o collettivo) il conseguimento di fini non altrimenti (o con costi molto alti) raggiungibili (1900, p. 302). Il capitale sociale è il risultato di strategie di investimento, intenzionale o inintenzionale, orientate alla costituzione e riproduzione di relazioni sociali durevoli, capaci nel tempo di procurare profitti materiali e simbolici» (Piselli, 1999, p. 396). Le otto definizioni presentate sono sufficienti a mostrare come non esista un’unica definizione di capitale sociale “buona per tutti”, per la semplice ragione che i differenti autori hanno in realtà idee molto diverse su cosa sia, effettivamente, il capitale sociale. Non si tratta di una questione di impotenza linguistica: semplicemente, i vari autori intendono proprio cose diverse. Eppure tutti usano lo stesso sintagma, ma, evidentemente, per indicare cose diverse. È ovvio che poi, quando si cerca di definire e circoscrivere il campo, si ottiene quello che Baricco (2002) definirebbe come un “caos babelico”.

4. Alcuni elementi di particolare interesse del concetto di capitale sociale Dalla riflessione sulle differenti definizioni di capitale sociale emergono alcuni capisaldi del concetto comuni alle complesse formulazioni evidenziate dalla rassegna proposta. Nello

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specifico, gli autori considerati sembrano concordi nel ritenere che il capitale sociale sia contenuto in (alcune) relazioni sociali, possa costituire una risorsa utile – ma potrebbe anche essere inutile o, addirittura dannosa per azioni differenti da quella considerata - per una specifica azione e, infine, che il capitale sociale sia maggiormente produttivo in presenza di alcune forme23 che migliorano l’interazione nelle relazioni sociali. Si ritiene pertanto di interesse focalizzare l’attenzione sui tre elementi che sembrano caratterizzare le diverse definizioni di capitale sociale. Innanzitutto, ad eccezione di Putnam e Fukuyama che, come si avrà modo di argomentare nel prosieguo, enfatizzano la dimensione cooperativa insita nel concetto di capitale sociale, l’elemento comune alle definizioni di Coleman, Mutti, Bagnasco, Piselli, Pizzorno e Trigilia è rappresentato dalla sottolineatura che il capitale sociale sia contenuto nella struttura delle relazioni tra le persone24. Secondariamente, la maggior parte degli autori25 si concentra sul fatto che il capitale sociale rappresenti una risorsa capace di produrre effetti positivi per una specifica azione26. Infine, il terzo elemento comune alle diverse definizioni di capitale sociale è rappresentato dalle forme attraverso le quali è accentuato il carattere del capitale sociale di essere una risorsa per l’azione. Si segnala, al riguardo, come le opinioni degli autori considerati divergano notevolmente: alcuni autori, Putnam (1993) e Fukuyama (1995), ritengono che con il concetto di capitale sociale si debba intendere la fiducia nella società o in una parte di essa, le norme che regolano la convivenza e, per estensione, le reti di associazionismo civico. Per altri autori, invece, la struttura di relazioni alla base del capitale sociale si fonda sulle «reti fiduciarie formali e informali che stimolano la reciprocità e la cooperazione» (Mutti, 1998, p. 8). Per altri ancora, il capitale sociale è un concetto dinamico, processuale e, infatti, il capitale sociale è spesso un sottoprodotto (by-product) di attività iniziate per altri scopi, come nel caso, ad esempio, di associazioni create per uno scopo possono essere utili a perseguire anche un altro obiettivo (Piselli, 1999, p. 399). Bagnasco (1999) e Pizzorno (1999) considerano che ciò che conti siano solo le forme in cui si manifestano le relazioni sociali. Coleman (1990), infine, concentra parte della sua riflessione sulle differenti forme di capitale sociale che possono costituire una risorsa utile per gli individui. Una volta abbozzata una definizione di capitale sociale riepilogativa delle principali formulazioni proposte e precisati gli elementi di interesse che caratterizzano tale formulazione, in quest’ultimo paragrafo, il paper si prefigge di concentrare l’attenzione sugli aspetti maggiormente significativi di tale definizione e, nello specifico, i) sul senso che assume la scelta di considerare le relazioni sociali come l’elemento dal quale origina il capitale sociale; ii) sulle caratteristiche che devono contraddistinguere le relazioni sociali affinché esse producano capitale sociale; iii) sulla forma che può assumere il capitale sociale. Con particolare riferimento alla forma che prende il capitale sociale, si è scelto di considerare i due elementi che sembrano essere i principali27 “facilitatori” delle relazioni sociali: la fiducia e la organizzazione sociale.

4.1. La natura relazionale del capitale sociale

«Come non averci pensato prima? Sembra l’uovo di Colombo. Chi non sapeva che le relazioni servono ad andare avanti nella vita, a trovare lavoro, a far carriera, a combinare affari, insomma, secondo il detto antico e cinico, che val molto di più chi uno conosce, che non che cosa uno conosce. Come mai allora la sociologia sembra arrivare così tardi alla nozione di “capitale sociale”?» (Pizzorno, 1999, p. 373). La risposta alla domanda che Pizzorno rivolge a sé stesso e ai suoi lettori sembra, a posteriori, piuttosto semplice: la sociologia non giunge in ritardo a studiare le relazioni sociali, che, invece, sono considerate dalla stessa con attenzione da molto tempo, ma arriva “così tardi” alla nozione

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di «capitale sociale» in quanto tale concetto scaturisce dalla determinazione di Coleman di applicare la teoria della scelta razionale nel campo della sociologia28 per valutare le strutture sociali dal punto di vista degli interessi dell’individuo. Come sottolineato nella prima parte, con Coleman l’attenzione si sposta dalla direzione micro-macro alla direzione macro-micro: non si tratta più di spiegare come nascano le strutture sociali, ma di capire come esse rappresentino una risorsa a disposizione degli individui e, solo in tale prospettiva, si può parlare di capitale sociale come di relazioni sociali di cui dispone un individuo (in un determinato momento). Prima di assumere che il capitale sociale ha una natura relazionale, sembra interessante richiamare brevemente quali siano le ragioni alla base della distinzione tra natura relazionale e natura sistemica del capitale sociale. Come anticipato nel paragrafo precedente, sia Coleman che la maggior parte dei ricercatori italiani ritengono che il capitale sociale sia contenuto nella struttura delle relazioni tra le persone e, in virtù di ciò, attribuiscono al capitale sociale una natura relazionale. Viceversa29, Putnam e Fukuyama considerano il capitale sociale come una proprietà del sistema sociale, in quanto ritengono che corrisponda all’attitudine a cooperare che sussiste nelle comunità o nelle società che sono fondate su una cultura cooperativa condivisa30. Tale assunzione culturalista conduce, secondo molti studiosi, a trascurare il ruolo dei fattori politici nei processi di sviluppo e la mancata considerazione del ruolo del sistema politico nel riprodurre o meno il capitale sociale fa sì che il capitale sociale sia visto solo come un «portato contingente del periodo precedente» e che sue origini siano spiegate esclusivamente con rimandi al passato31. Pertanto sembra opportuno seguire il consiglio di Bagnasco: superare l’applicazione dell’idea di capitale sociale da parte di Putnam e Fukuyama e ritornare alla teoria di Coleman, i cui vantaggi comparati sembrano collocarla in una posizione di netta supremazia (Bagnasco, 1999, pp. 365, 366). Se assumiamo dunque che il capitale sociale abbia una natura relazionale, appare opportuno chiedersi se sia proprio vero che ogni tipo di relazione possa costituire una forma di capitale sociale32 e, se così non fosse, quale sia la natura delle relazioni sociali che possono costituire il capitale sociale33. Nonostante sia opinione condivisa che non tutte le relazioni sociali possano costituire il capitale sociale, non vi è univocità nell’individuazione delle relazioni sociali in grado di generare capitale sociale. Pizzorno (1999)34 sviluppa la sua riflessione cominciando ad escludere le relazioni che non sono connesse al capitale sociale per poi analizzare gli elementi in comune e definire, in positivo, le caratteristiche delle relazioni connesse alla nozione di capitale sociale. Dunque, è possibile affermare che non producono capitale sociale le relazioni di scambio, di mero incontro tra persone e quelle di ostilità, di sfruttamento o conflittuali in genere35, vale a dire relazioni che non necessitano della riconoscibilità dell’identità dell’altro o che mirano ad annullare l’identità dell’altro e/o a sottrargliene componenti. In considerazione di ciò, Pizzorno (1999, p. 376) sostiene che le relazioni in grado di produrre capitale sociale si distinguono dalle altre in quanto richiedono che l’identità dei partecipanti sia riconosciuta e, inoltre, ipotizzano forme di solidarietà o di reciprocità. Nei casi in cui il capitale sociale «si costituisce grazie all’intervento di un terzo che assicura che il rapporto tra due parti avvenga senza sfruttamento o frode od opportunismo di una parte nei confronti dell’altra» si parla di capitale sociale di solidarietà. Mentre nei casi in cui «il capitale sociale si costituisce nella relazione tra due parti, in cui l’una anticipa l’aiuto dell’altra nel perseguire i suoi fini, in quanto ipotizza che si costituisca un rapporto di mutuo appoggio si parla di capitale sociale di reciprocità» (Pizzorno, 1999, p. 379).

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In particolare, la distinzione tra capitale sociale di solidarietà e capitale sociale di reciprocità richiama Granovetter e il distinguo tra legami deboli e legami forti: il capitale sociale di solidarietà si basa sui legami forti, mentre il capitale sociale di reciprocità è verosimilmente creato dai legami deboli36. Come anticipato, la riflessione sull’importanza dei legami deboli e dei legami forti come risorse individuali non è una novità nella letteratura sociologica, né in quella economica37, sebbene il dibattito non sia ancora concluso: alcuni studi, infatti, evidenziano l’importanza dei legami deboli, mentre in altri casi è sottolineato il ruolo dei legami deboli38, ma non è questa la sede per approfondire la discussione. In quest’ambito, è interessante rilevare che il capitale sociale ha una natura relazionale, nel senso che è contenuto nella struttura delle relazioni tra le persone e, in particolare, le relazioni in grado di produrre capitale sociale si distinguono dalle altre in quanto richiedono che l’identità dei partecipanti sia riconosciuta, inoltre, ipotizzano forme di solidarietà (capitale sociale di solidarietà) o di reciprocità (capitale sociale di reciprocità).

4.2. Gli elementi di valorizzazione del capitale sociale “relazionale”: la fiducia e le organizzazioni sociali

L’ultima parte del paper si prefigge di riflettere su due “forme” del capitale sociale che migliorando l’interazione nelle relazioni sociali, potenziano la capacità cooperativa tra gli attori e, quindi, valorizzano il capitale sociale: la fiducia e le organizzazioni.

4.2.1. La fiducia «Siamo così giunti al cuore del problema. Come si genera quell’elemento essenziale alla cooperazione che è la fiducia? Attraverso quali processi si estende da ambiti interpersonali ristretti ad ambiti più ampi e impersonali? Come si passa da codici e comunità morali chiusi a codici e comunità morali aperti, o, ancora, quali sono i meccanismi che favoriscono l’accumulazione allargata del capitale sociale?» (Mutti, 1998, p. 26). Sebbene il concetto di fiducia sia messo in risalto principalmente da chi ha un’idea sistemica di capitale sociale39, l’importanza della fiducia è confermata anche da chi sostiene la natura relazionale del capitale sociale, in quanto la fiducia rappresenta un espediente necessario per costruire relazioni sociali cooperative e per estendere la cooperazione da ambiti interpersonali ristretti ad ambiti più ampi e impersonali40. La differenza tra le interpretazioni del ruolo della fiducia per il capitale sociale41 può essere ravvisata nel fatto che per Putnam e Fukuyama la fiducia, come d’altronde il capitale sociale, è esclusivamente un prodotto della storia: «La produzione e stabilizzazione della fiducia sono, secondo questi autori, processi ereditati dal passato e rimandano, perciò, a complesse dinamiche storiche di lunga durata che giungono a definire diverse tradizioni civiche e diversi sistemi morali» (Mutti, 1998, p. 28). Viceversa, per gli autori che affermano la natura relazionale del capitale sociale la fiducia sembra essere un bene che può essere creato intenzionalmente e razionalmente42 o, meglio, che si sviluppa grazie ad un intermediario o ad una terza parte (Coleman, 1990, pp. 235-245), senza necessariamente dover attendere i tempi lunghi della storia. Per concludere il breve excursus sulla rilevanza della fiducia per il capitale sociale, sembra opportuno recuperare gli scritti di Mutti, l’autore che più di altri ha focalizzato l’attenzione sul concetto di fiducia, per definire che cosa si intende per fiducia e, soprattutto, comprendere come si genera la fiducia. Per Mutti, la fiducia può essere definita come: «un’aspettativa di esperienze

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con valenza positiva per l’attore, maturata sotto condizioni di incertezza, ma in presenza di un carico cognitivo e/o emotivo tale da permettere di superare la soglia della mera speranza43» (Mutti, 1998, p. 42). Tuttavia, sebbene la fiducia costituisca una condizione necessaria per la collaborazione e, dunque, per la costituzione di uno stabile capitale sociale, essa non rappresenta una condizione sufficiente affinché si abbia effettivamente collaborazione tra due individui44. Per concludere, si può affermare che la fiducia è quell’elemento che agisce sulle relazioni sociali, in modo tale da contribuire a migliorare tali relazioni, sebbene il coordinamento e la collaborazione effettivi dipendano da fattori legati all’incertezza e agli imprevisti dell’azione sociale; infatti, l’aspettativa fiduciaria si innesta su differenti fattori di incertezza, quali le caratteristiche di chi riceve la fiducia45, la natura e l’estensione di ciò su cui la fiducia verte, le caratteristiche di chi concede la fiducia, la natura del contesto strutturale e congiunturale in cui l’atto fiduciario viene espresso (Mutti, 1998, p. 46).

4.2.2. Le organizzazioni Come è stato sottolineato nell’introdurre le precipue caratteristiche dei Fondamenti, la teoria sociale di Coleman, pur utilizzando il paradigma della scelta razionale, si contraddistingue dall’uso che ne fanno gli economisti per l’attenzione all’organizzazione (e alle istituzioni sociali), come contesti che condizionano le scelte e producono effetti sistemici. Nello specifico, Coleman vede nell’organizzazione sociale uno strumento in grado di migliorare l’interazione nelle relazioni sociali senza che, per migliorare tale interazione, sia necessaria la mediazione della fiducia personale che, tra l’altro, sembra molto spesso indisponibile: così inteso, il capitale sociale è un dato dell’organizzazione sociale, in quanto rappresenta il potenziale di interazione cooperativa di cui possono disporre gli individui (Bagnasco, 2002, p. 273). Nella sua riflessione sul valore del capitale sociale, Coleman concentra l’attenzione sulle organizzazioni sociali che, a loro volta sono distinte in organizzazioni sociali appropriabili e organizzazioni intenzionali46. Nello specifico, le organizzazioni sociali appropriabili47 nascono per perseguire un obiettivo preciso, ma, nel corso del tempo, possono essere impiegate anche per altri scopi, venendo così a costituire del capitale sociale che può essere utilizzato. Le organizzazioni intenzionali derivano direttamente dall’investimento di alcuni individui che mirano a ricavare da esso un beneficio diretto (Coleman, 1990, pp. 400-403). Nel suo programma di ricerca, Coleman aggiorna progressivamente l’idea e il ruolo delle organizzazioni nell’ambito della sua teoria sociale, fino ad affermare: «Manchiamo nel riconoscere che il capitale sociale dal quale dipende l’organizzazione sociale primordiale se ne sta svanendo; manchiamo nel riconoscere che le società del futuro saranno costruite e che noi dobbiamo dirigere la nostra attenzione al disegno di queste strutture sociali» (Coleman, 1993, p. 10)48. L’idea centrale è che la “primordial49 social organization” stia progressivamente scomparendo nella società moderna, determinando una perdita nel capitale sociale informale alla base delle relazioni nelle comunità tradizionali50. Se quando l’organizzazione sociale si basa maggiormente su relazioni tra persone naturali ed è sostenuta da strutture primordiali, è relativamente più facile ottenere un comportamento responsabile verso gli altri, cosa accade nelle società moderne? Per Coleman, le società moderne hanno sviluppato la “purposively constructed social organization” come fonte di capitale sociale: le organizzazioni formali permettono una interazione efficiente poiché sostituiscono l’elemento di fiducia che era presente nelle relazioni sociali nelle comunità tradizionali.

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In continuità con Coleman, Bagnasco (2002, p. 273) sottolinea come nelle società moderne il capitale sociale sia depositato in organizzazioni formali e nelle regole fissate in nuove istituzioni razionalmente costruite: «La società moderna ha introdotto le organizzazioni formali come componente essenziale dell’organizzazione sociale. I tessuti di relazione che permettono una interazione efficiente sono appunto le organizzazioni». In aggiunta, La Valle (2002) rileva l’opportunità, nel considerare le organizzazioni, di riferirsi a quei sistemi sociali che compensano i loro membri non solo con il denaro, ma anche con la “considerazione”, elemento caratterizzante dell’organizzazione quale fenomeno sociale51. In considerazione di ciò, l’organizzazione è un fenomeno sociale che agisce quale strumento d’incentivazione, quale mezzo usato per ottenere dagli attori comportamenti di cui altri attori o il sistema nel suo insieme hanno bisogno. Con riferimento alle organizzazioni, quindi, si può affermare che la società moderna ha introdotto: le organizzazioni formali come componente essenziale dell’organizzazione sociale in quanto, sostituendo l’elemento di fiducia che era presente nelle relazioni sociali nelle comunità tradizionali, permettono una interazione maggiormente efficiente tra individui52.

5. Conclusioni Il paper ha riflettuto sul significato attribuito al concetto di capitale sociale nella letteratura economica e sociologica. Nello specifico, si è scelto di analizzare le definizioni proposte da alcuni autori (Coleman, 1990; Putnam, 1993; Fukuyama, 1995; Mutti, 1998; Bagnasco, 1999; Piselli, 1999; Pizzorno, 1999; Trigilia, 1999) e si è osservato come le diverse formulazioni non collimassero tra loro e non esistesse, pertanto, un’unica definizione di “capitale sociale”, buona per tutti. In particolare, come è stato ampiamente sottolineato, la rapida diffusione del concetto ha determinato un utilizzo dell’idea di capitale sociale in così tante situazioni e in contesti così differenti da indebolirne il significato, ridurne l’efficacia analitica e, alla fine, far dimenticare la logica sottostante l’introduzione del concetto e le caratteristiche delle diverse forme (Portes, 1998; Piselli, 1999; Trigilia, 1999; La Valle, 2002; Pasqui, 2003). Sembra pertanto opportuno considerare nuovamente la definizione proposta da Coleman dalla quale emergono distintamente i due elementi linguistici che compongono il sintagma capitale sociale. Per Coleman, infatti, il capitale sociale presenta le medesime caratteristiche delle altre forme di capitale53, e, soprattutto, consente di spiegare le relazioni e le strutture sociali e come esse rappresentino una risorsa a disposizione degli individui54. In tal senso, come ha rilevato Barbieri (1997), nei Fondamenti la nozione di capitale sociale rappresenta l’elemento di connessione fra economia e società. Tuttavia, la letteratura economica e sociologica successiva ha focalizzato l’attenzione su differenti elementi. In sociologia il capitale sociale si è affermato come la nozione in grado di contribuire a conoscere e spiegare il funzionamento della società. Per contro, nella letteratura economica il concetto di capitale sociale si è affiancato ai concetti di capitale tecnico e capitale umano per spiegare, ad esempio, le performance dei distretti industriali (Becattini, 2000). Al riguardo, si ritiene di interesse segnalare come numerosi economisti abbiano ipotizzato che il capitale sociale debba essere considerato parte integrante della funzione di produzione. Nello specifico, alcuni autori (Dasgupta, 2000, p. 395) hanno incorporato il capitale sociale nel fattore di scala della funzione di produzione55, mentre altri (Collier, 2002, p. 23) hanno introdotto il capitale sociale come input della funzione di produzione56. In considerazione di ciò, è possibile affermare

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che il capitale sociale è capitale quando conta per l’attività economica come fattore di produzione57. La scelta di includere il capitale sociale nella funzione di produzione ha, tuttavia, posto all’attenzione degli studiosi il problema della misurazione del capitale sociale. Se da un lato alcuni autori hanno sostenuto che le esigenze di misurazione del capitale sociale non potessero essere eluse, tuttavia l’individuazione di una precisa misurazione del capitale sociale è risultata assai complessa in quanto la letteratura teorica sul capitale sociale ha formulato una definizione del concetto non univoca, multidimensionale e, per certi aspetti, ambigua (Trigilia, 1999; Piselli, 1999; La Valle, 2002; Pasqui, 2003). Mentre nel corso del tempo, il connubio tra teoria economica e esperienza lavorativa ha consentito di individuare un insieme di proxy attendibili e condivise del capitale umano, per quanto riguarda il capitale sociale le opinioni sono ancora controverse e discordanti. Sembra pertanto auspicabile che letteratura e ricerche empiriche si integrino per riuscire a definire con maggiore precisione ciò che il sintagma capitale sociale rappresenta e, contestualmente, individuare delle proxy che consentano di misurare in modo meno approssimativo il capitale sociale in modo da poter valorizzare, infine, il capitale sociale nelle politiche di sviluppo.

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Note

1 Il collegamento tra “globalizzazione” e “capitale sociale” è esplicitamente richiamato prima di tutto da Mutti (1998, p. 7) che si domanda «Come mai lo sviluppo di un’economia globale non si accompagna ad una omogeneizzazione dei processi di modernizzazione, ma piuttosto ad una loro differenziazione? Come mai alcuni paesi mostrano un dinamismo di sviluppo sensibilmente più elevato di altri?», giungendo, successivamente alla conclusione che «Di fronte a domande di questa portata viene spontaneo pensare che (...) ci sia urgente bisogno di un approccio capace di integrare in modo unitario tutte queste variabili (dimensione economica, culturale, politica). (...) Questa teoria appare così facilmente condivisibile da risultare quasi banale, ma, in realtà, banale non è visto che siamo ben lontani dal disporre di una teoria in grado di spiegare in modo non riduttivo differenze e somiglianze nei vari percorsi di sviluppo». In un secondo tempo è sottolineato da Trigilia (1999, p. 427) nel momento in cui indaga sugli effetti del processo di globalizzazione sullo sviluppo locale: «La globalizzazione ha conseguenze contraddittorie per lo sviluppo locale»; l’evidenza empirica ha infatti mostrato come la globalizzazione non determini semplicemente una delocalizzazione, ma una concorrenza dei territori nei quali la risorsa capitale sociale – concretizzatasi nella forma di economie esterne di specializzazione – è cruciale. Le produzioni tendono ad andare là dove si hanno maggiori economie esterne di specializzazione: « quanto più il capitale sociale è capace di far crescere economie esterne di specializzazione e di radicare conoscenze in un determinato contesto locale, tanto meno il destino di tale area è dipendente da un generico dinamismo legato alla localizzazione di iniziative esterne». 2 Bourdieu è considerato l’inventore del concetto di capitale sociale da Trigilia che sottolinea (1999, p. 420) «L’uso esplicito del concetto di capitale sociale si manifesta a partire dagli anni ’60 e deve molto agli studi del sociologo francese Pierre Bourdieu», ma anche Cartocci (2000, p. 429) «Bourdieu ha introdotto la nozione in una breve nota del 1980, presentandola come l’unica chiave esplicativa che permette di rendere conto del diverso rendimento ottenuto dal capitale culturale e dal capitale economico a disposizione dei singoli individui. Lo stesso Coleman (1990, p. 383) ha rilevato come, oltre Loury, anche Bourdieu abbia utilizzato il concetto di capitale sociale come risorsa per l’azione individuale. 3 La ricerca delle origini del concetto di capitale sociale da parte degli studiosi del tema potrebbe dilungarsi, se si volesse individuare il “precursore” più citato, ma si discosterebbe eccessivamente dall’obiettivo conoscitivo del paper. In questa sede si è semplicemente cercato di dare il senso dell’ambiguità del concetto anche per quanto riguarda l’inventore dello stesso. 4 Si segnala come opinione altrettanto condivisa sia quella che ritiene che il concetto di capitale sociale si sia successivamente sviluppato anche grazie “concretizzazione” del concetto di capitale sociale nelle ricerche empiriche di Robert Putnam (1993) e di Francis Fukuyama (1995). 5 Sulla qualità e sull’importanza dell’opera di Coleman per la letteratura sul capitale sociale Bagnasco (1999, pp. 355-356) si sofferma ampiamente «Ho volutamente insistito sulla teoria di Coleman non solo per la sua qualità, ma perché è continuamente richiamata nella letteratura successiva. E tuttavia, nonostante i richiami, appaiono scostamenti e slittamenti della cui portata non sempre ci si rende conto. I riferimenti che seguono a Putnam e Fukuyama devono proprio essere intesi per certi aspetti come esempi rilevanti di applicazione, ma nella sostanza invece come variazioni rilevanti della teoria ora esposta». 6 La citazione è tratta dall’intervista che Richard Swedberg ha realizzato con James Coleman nella sua casa in Hyde Park a Chicago il 27 novembre 1987 (Swedberg, 1990, pp. 53-66). 7 Come osserva Trigilia (2005, p. XV) «Coleman prende subito le distanze dal modello tradizionale dell’homo sociologicus, in base al quale il comportamento individuale è spiegato in relazione ai valori e alle norme internalizzate con la socializzazione. Si noti però che la critica non è motivata in termini di inadeguatezza a spiegare l’azione individuale dal punto di vista dell’esperienza empirica. Viene invece immediatamente in evidenza la preoccupazione normativa. (...) “Con questa immagine dell’uomo come elemento socializzato di un sistema sociale è impossibile nel quadro della teoria sociale, valutare le azioni di un sistema o di un’organizzazione sociale (Coleman, 1990, p. 17)”». 8 Al riguardo, è interessante segnalare che Pizzorno sottolinea come, sebbene Coleman dichiari chiaramente di scegliere l’individualismo metodologico, alcune sue affermazioni – ad esempio, il diritto di agire – hanno indotto molti critici a considerare l’opera di Coleman più come l’opera di uno strutturalista - che in quanto tale si concentra sulla

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struttura delle posizioni sociali per spiegare le preferenze di un individuo – che non di un individualista metodologico (Pizzorno, 2006, p. 312). 9 Come afferma Trigilia nell’Introduzione all’edizione italiana dei “Fondamenti di Teoria Sociale” di Coleman, i Fondamenti rappresentano «il tentativo più ambizioso fatto negli ultimi anni, di formulare una teoria sistematica dell’azione sociale. (...) non sono solo lo scopo e lo sforzo sistematico a distinguere questo studio nel panorama sociologico, ma ancor di più la prospettiva che viene sviluppata. Si tratta di un tentativo organico e radicale di applicare la teoria della scelta razionale nel campo della sociologia. Viene proposta una ricostruzione sistematica delle relazioni e delle strutture sociali a partire da una visione dell’azione basata sul calcolo razionale dei benefici da parte dei singoli individui» (Trigilia, 1990, p. XI). 10 «Molti economisti sono partiti dalla constatazione di questa distorsione individualista nell’economia neoclassica, per cercare di modificarla. (...) Ben Porath ha sviluppato una serie di idee sul funzionamento nei sistemi di scambio di quella che definisce F-connection (Families, friends and firms) mostrando il modo in cui queste forme di organizzazione sociale influiscono sullo scambio economico» (Coleman, 1990, p. 387). 11 In tal senso, il capitale sociale è «l’insieme delle risorse contenute nelle relazioni familiari e nell’organizzazione sociale della comunità che risultano utili per lo sviluppo cognitivo o sociale di un bambino o di un ragazzo» (Coleman, 1990, 385). 12 La definizione di capitale sociale di Bourdieu è riportata integralmente da Pizzorno (1999, p. 374) e Cartocci (2000, p. 429). 13 Il suo primo contributo importante risale alla età degli anni settanta, quando pubblicò un breve saggio sulle modalità con cui le persone acquisiscono informazioni sui posti vacanti nel mercato del lavoro. Il metodo usato, e con il quale è identificato il suo lavoro, fu quello dei network sociali. (...) Il suo secondo lavoro di rilievo nel campo della sociologia economica risale agli anni ottanta, e si tratta di un tentativo di formulare il programma della “nuova sociologia economica” (Swedberg, 1990, p. 105). 14 Oliver E. Williamson è considerato tra gli esponenti di spicco di tutto quel «filone di letteratura economica, di solito indicato come nuova economia istituzionale, che cerca di mostrare sia le condizioni in cui nascono particolari istituzioni economiche, sia gli effetti di queste istituzioni sul funzionamento del sistema» (Coleman, 1990, p. 387). 15 Secondo Granovetter (1990, p. 58) la “nuova economia istituzionale” si illude fin dai presupposti: «L’idea di fondo di questa scuola è che le istituzioni sociali, in precedenza pensate come il risultato accidentale di forze politiche, sociali, storiche o legali, possono essere meglio spiegate come soluzioni efficienti a problemi economici». 16 Granovetter prosegue precisando come «La preferenza diffusa ad avere relazioni contrattuali con individui di fidata reputazione indica che pochi sono in realtà disposti a basarsi sulla moralità generalizzata o su strutture istituzionali per salvaguardarsi da eventuali sorprese. (…) L’analisi economica corrente dimentica l’identità e le passate relazioni degli individui contraenti, ma individui razionali sanno che è meglio basarsi sulla conoscenza diretta delle relazioni» (Granovetter, 1990, pp. 52, 59). Lo stesso Coleman rileva come Granovetter sostenga che «la nuova economia istituzionale non vede l’importanza delle relazioni personali concrete e dei reticoli di relazione – quello che chiama l’embeddedness delle transazioni economiche nelle relazioni sociali – nella produzione della fiducia, nella definizione di aspettative, nella creazione e nel mantenimento delle norme sociali» (Coleman, 1990, p. 387). 17 Come nota Trigilia (1999, p. 419): «Tale concetto non è però usato in modo univoco e con precisione. A volte se ne parla come sinonimo di capacità di cooperazione, fiducia, coscienza civica, qualcosa che si avvicina a una forma particolare di cultura locale; altre volte si parla di capitale sociale addirittura come una sorta di indicatore sintetico di ricche economie esterne immateriali e materiali. In altri casi si fa invece riferimento, più opportunamente e prudentemente, alla rete di relazioni che lega soggetti individuali e collettivi, e che può alimentare la cooperazione e la fiducia, e la produzione di economie esterne, ma può anche ostacolare tali esiti favorevoli per lo sviluppo locale». Parimenti, Sciolla (2003, p. 258) sottolinea come «Il concetto di capitale sociale si presenta, tuttavia, più ambivalente e controverso di quanto il suo ampio utilizzo da parte delle scienze sociali potrebbe far pensare». Per contro, Piselli (1999, p. 395) ritiene che «il concetto di capitale sociale è un concetto situazionale e dinamico; un concetto, pertanto, che non si riferisce a un «oggetto» specifico, non può essere appiattito in rigide definizioni, ma deve essere interpretato di volta in volta, in relazione agli attori, ai fini che perseguono, e al contesto in cui agiscono». In aggiunta a ciò, Piselli (1999, p. 399) rileva che «Il capitale sociale, dunque, non è un «oggetto», una «entità» specifica, identificabile e isolabile, circoscrivibile in una formula, definibile in maniera precisa. È un concetto generale che si concretizza nell’azione creativa degli attori, nella realizzazione di progetti pratici. È un potenziale di risorse che esiste – diviene capitale sociale – solo quando viene attivato per scopi strumentali (Coleman 1900, p. 300). E ogni mossa,

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ogni azione cambia il quadro degli intrecci interazionali, cambia la situazione strategica e così canalizza le scelte successive degli attori. Infatti, dice Coleman: «il capitale sociale si crea quando le relazioni tra le persone cambiano in modi che facilitano l’azione» (Piselli, 1999, p. 399). 18 Scrive Pasqui (2003, p. 120): «Alcuni dei contributi presentati in questo stesso numero della rivista (Archivio di Studi Urbani e Regionali) danno conto della ricchezza della letteratura e della molteplicità degli approcci, mostrando implicitamente come il sintagma abbia giocato il ruolo di “parola valigia”, di vero e proprio passpartout nell’ambito delle scienze sociali». 19 L’esercizio è sicuramente interessante, sebbene non sia una novità nel dibattito sul capitale sociale. Trigilia (1999, pp. 420-423) dedica un intero paragrafo “Problemi di definizione” per comprendere quale sia «l’utilizzo del concetto di capitale sociale nello studio dello sviluppo economico». Cartocci (2000, p. 423) incentra la prima parte del saggio «Chi ha paura dei valori? Capitale sociale e dintorni» sulla riflessione sui differenti significati del lemma capitale sociale: «Questa latitudine di significati impone quindi una preliminare discussione, cui sono dedicati i primi tre paragrafi del saggio». Infine, anche Pasqui (2003, pp. 119-124) nel motivare quali ragioni sono alla base della scelta di interessarsi del capitale sociale (§ 1. Perché ci interessiamo al capitale sociale?) concentra la sua attenzione sull’uso che differenti autori fanno dell’idea di capitale sociale. 20 I contributi di Bagnasco, Piselli, Pizzorno e Trigilia sono stati ripubblicati in Bagnasco A. (et al.), (2001), Il capitale sociale: istruzioni per l'uso, Il Mulino, Bologna. 21 È interessante notare come in Bowling Alone (2001), Putnam aggiorni la sua definizione di capitale sociale precisando che: «Per capitale sociale intendo quelle caratteristiche della vita sociale – rreettii,, nnoorrmmee e ffiidduucciiaa – che mettono in grado i partecipanti di agire più efficacemente nel perseguimento di obiettivi condivisi (naturalmente che questi scopi condivisi siano degni di plauso o meno è tutta un’altra questione)». 22 Nel tentativo di chiarire quale concetto si celi dietro l’idea di capitale sociale, Pizzorno prima richiama Loury come l’“inventore” del termine capitale sociale. Successivamente riporta la definizione di Bourdieu per spiegare come, a suo parere, il capitale sociale nasca dagli sconfinamenti della sociologia nell’economia, e, infine, per avvalorare la tesi della contaminazione culturale segnala come Coleman stesso dichiari che con la sua teoria sociale mira a correggere la distorsione individualistica dell’economia neoclassica (Pizzorno, 1999, p. 374). 23 Si è scelto di utilizzare la parola “forma” al posto di termini quali “dimensione”, “caratteristica, “aspetto”, ... in continuità con Coleman che dedica il paragrafo 2. Forme di capitale sociale dei Fondamenti (1990, pp. 391-403) alla disamina delle differenti forme attraverso le quali il capitale sociale può diventare una risorsa per l’azione: doveri e aspettative, potenziale informativo, norme e sanzioni efficaci, relazioni di autorità, organizzazione sociale appropriabile, organizzazioni intenzionali. 24 Per Coleman (1990, pp. 388) «(...) il capitale sociale è contenuto nella struttura delle relazioni tra le persone: esso non si trova negli individui, né negli input fisici delle produzioni»; per Mutti (1998, p. 8) «Per capitale sociale si intende una struttura di relazioni tra persone»; per Trigilia (1999, p. 423) «Il capitale sociale si può allora considerare come l’insieme delle relazioni sociali di cui un soggetto individuale o un soggetto collettivo dispone in un determinato momento»; per Bagnasco (1999, pp. 352, 353) “ragionare in termini di capitale sociale” significa «considerare la società dal punto di vista del potenziale di azione degli individui che deriva dalle strutture di relazione»; per Pizzorno (1999, p. 374), l’autore che più di altri ha focalizzato l’attenzione sull’importanza delle relazioni sociali per il capitale sociale, il capitale sociale è «costituito dalle relazioni sociali in possesso di un individuo»; infine Piselli (1999, p. 396), richiamando esplicitamente Coleman, afferma che «Il concetto di capitale sociale, dunque, inerisce alla struttura delle relazioni sociali, tra due o più persone». 25 Per Coleman (1990, p. 388) «Una data forma di capitale sociale può essere di valore nel rendere possibili alcune azioni, ma può anche essere inutile o dannosa per altre»; per Putnam (1993, p. 199) «la maggior parte dei capitali sociali sono “risorse morali”, ovvero risorse la cui fornitura aumenta invece di diminuire con l’uso e che si esauriscono se non sono usate»; per Fukuyama (1996, pp. 40) «Il capitale sociale è una risorsa che nasce dal prevalere della fiducia nella società o in una parte di essa»; per Trigilia (1999, p. 423) «Attraverso il capitale di relazioni si rendono disponibili risorse cognitive o normative che permettono agli attori di realizzare obiettivi che non sarebbero altrimenti raggiungibili, o lo sarebbero a costi molto più alti»; per Bagnasco (1999, p. 352, 353) «L’idea di capitale sociale costituisce una ulteriore estensione del concetto originario di capitale, non necessariamente applicato all’economia, ma inteso in generale come una risorsa per l’azione»; per Pizzorno (1999, p. 374) «Il capitale sociale (...) costituisce allora nient’altro che un insieme di risorse che costui può utilizzare, assieme ad altre risorse, per meglio perseguire i propri fini»; per Piselli (1999, pp. 396) «Il capitale sociale è una risorsa per l’azione che rende

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possibile all’attore (individuale o collettivo) il conseguimento di fini non altrimenti (o con costi molto alti) raggiungibili». Con qualche forzatura, forse, si può affermare che anche Mutti (1998, p. 8), con la sua definizione di capitale sociale, che consente di «favorire la cooperazione e perciò produrre, come altre forme di capitale, valori materiali e simbolici» richiami, implicitamente, il concetto di capitale sociale come risorsa per l’azione. 26 Al riguardo si segnala come Barbieri (1997, p. 366) affermi come sia «emerso in modo netto il fatto che, in quanto capitale, ricchezza socialmente valorizzabile, anche le risorse sociali sono strettamente legate all’ammontare di «privilegio» originariamente posseduto. La disparità nella distribuzione delle risorse sociali quindi non è un fattore dovuto alla maggiore o minore «apertura» degli individui o dei loro circuiti relazionali e sociali, quanto – molto più profondamente – alle loro appartenenze e caratteristiche strutturali». 27 I principali, ma non gli unici “facilitatori”, nell’ambito dei quali è doveroso ricomprendere, ad esempio, le norme e le sanzioni e l’informazioni. 28 Come sottolinea Pizzorno (1999, p. 374) «In altre parole, la novità di questo concetto consiste nell’indirizzaci a guardare agli stessi fenomeni che tradizionalmente la sociologia analizzava nei loro rapporti strutturali (di relazioni di causa ed effetto), ma in modo nuovo, assumendo, cioè, come punto di vista epistemologico quello di un soggetto d’azione il quale tratti le relazioni sociali entro le quali si muove come mezzi per il perseguimento di determinati fini». 29 In realtà, Mutti (2003, p. 515) diverge dall’opinione maggioritaria e ritiene che «La definizione di capitale sociale fornita da Putnam è di tipo relazionale e non si esaurisce in quella di rete di relazioni personali, come molti autori hanno sostenuto togliendo al concetto di capitale sociale ogni specificità rispetto a termini preesistenti quali «reticolo personale», «relazione sociale», «interazione in generale», ecc.». 30 Molti autori hanno focalizzato l’attenzione sulla natura sistemica del capitale sociale di Putnam e Fukuyama. Mutti (1998, p. 14) segnala come «La ripresa più interessante, ai fini di una teoria della modernizzazione, del concetto di capitale sociale formulato da Coleman è quella fornita da Putnam (1993) e da Fukuyama (1996). Entrambi questi autori enfatizzano la dimensione cooperativa insita nel concetto di capitale sociale, più che la componente di profitto materiale e simbolico perseguita dall’individuo quando opera per mettere a frutto il proprio capitale sociale». Piselli (1999, p. 409) rileva come ci sia «una ulteriore applicazione del concetto di capitale sociale, soprattutto da parte degli scienziati della politica: il capitale sociale, in tal caso, è considerato una proprietà dell’intero sistema sociale che favorisce la democrazia e lo sviluppo economico. I lavori più importanti in tale direzione sono quelli di Putnam (1993) e Fukuyama (1996). I due autori hanno ripreso il concetto di capitale sociale formulato da Coleman, per spiegare i caratteri dello sviluppo economico e politico di una data società e le differenze dei percorsi e dei livelli di modernizzazione dei vari paesi». Bagnasco (2002, p. 272) mette in evidenza la distanza «fra una idea che possiamo chiamare sistemica (ma si potrebbe anche dire culturalista) del concetto di capitale sociale e una relazionale (o anche interattiva). Nella prima prospettiva, il capitale sociale è l’attitudine a cooperare che deriva da una cultura cooperativa condivisa, capace di generare fiducia interpersonale diffusa. Certamente una cultura del genere facilita comportamenti individuali congruenti ed è all’origine di capitale sociale in una popolazione che la condivida. Tuttavia, come è stato da molti indicato, si tratta di un punto di vista che limita il campo di osservazione e sottovaluta gli effetti emergenti dell’interazione individuale». Infine, Cartocci (2000, p. 245) mette in evidenza come la concezione del capitale sociale di Putnam sia «rigorosamente culturale: è il capitale sociale come componente della cultura a spiegare sia il rendimento istituzionale, sia lo sviluppo economico». 31 Mutti (1998, pp. 17,18) mette in evidenza come «Il ruolo autonomo del sistema politico sul rendimento istituzionale è fortemente svalutato da Putnam (...). Le modalità di governo, la composizione partitica, la frammentazione politica, la polarizzazione ideologica e il conflitto sociale non sembrano incidere significativamente sulle prestazioni delle istituzioni politiche. (...) Questa svalutazione del contributo autonomo delle variabili politiche, nella spiegazione del rendimento delle istituzioni e nella capacità di influenzare lo stock di capitale sociale esistente in una data società, ha sollevato le critiche più puntuali al modello di Putnam». Bagnasco (1999, p. 363, 364) sottolinea, invece, la differenza metodologica di fondo che intercorre tra Coleman da un lato e Putnam e Fukuyama dall’altro: «Coleman adotta un paradigma dell’azione, Putnam e Fukuyama un paradigma deterministico, casuale», in base al quale «le spiegazioni sono elaborate esclusivamente in relazione a situazioni e condizioni precedenti» approfondendo quale sia, a suo parere, la difficoltà principale dell’utilizzo del paradigma causale: «Si tratta allora di rilevare il limite generale di un approccio determinista, che consiste nel fatto che arriva a descrivere una correlazione fra fenomeni, senza spiegarla, con difficoltà spesso a definire anche quale sia in una correlazione la variabile indipendente e quella dipendente. In tema di cultura civica è una vecchia questione, posta proprio in questi termini: è la cultura civica che spiega l’efficienza delle istituzioni democratiche o viceversa?». Infine, Trigilia (1999, p. 429) riprende le perplessità di Mutti (1998) e Bagnasco (1999) relativamente al rischio di « scivolare in una spiegazione culturalista piuttosto generica

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delle origini del fenomeno, che trascura il ruolo dei fattori politici nei processi di sviluppo» e prosegue precisando come «la sottovalutazione della politica non consente di distinguere con più precisione a quali condizioni il capitale sociale possa avere un impatto favorevole, e a quali invece possa generare clientelismo, dipendenza politica o addirittura corruzione e economia criminale nei processi di aggiustamento dell’economia locale». 32 Al riguardo, La Valle (2002, p. 307) richiama l'attenzione sul fatto che «Il legame tra la nozione di capitale e la teoria dello scambio sociale, presente in Coleman, si è perso in gran parte della letteratura successiva. Quest’ultima spesso ha finito per identificare il capitale con la rete di relazioni sociali dell’attore, allentando la connessione tra il nuovo concetto e un particolare – diverso da altri – modello di relazione sociale». Viceversa, Coleman (1990, p. 392) studia «proprio che cosa nelle relazioni sociali sia tale da costituire una dotazione di capitale utile per gli individui». 33 Secondo Pizzorno «è cercando di rispondere a tale interrogativo che si evita di dar per scontato, come succede in molta letteratura sul tema, che relazioni sociali e relazioni che formano il capitale sociale semplicemente coincidano; e che ci si veda invece a dover porre esplicitamente il problema di quali meccanismi operino nella produzione di capitale sociale e siano assenti invece in altri casi» (Pizzorno, 1999, p. 375). 34 La riflessione sulla natura delle relazioni sociali per il capitale sociale contenuta nell’articolo di Pizzorno (1999) “Perché si paga il benzinaio. Nota per una teoria del capitale sociale” è ampiamente citata dagli autori successivi proprio per dare conto delle caratteristiche delle relazioni sociali che determinano il capitale sociale. Si vedano, a titolo meramente esemplificativo, Cartocci (2000, p. 440), Bagnasco (2002, p. 272), Diani (2002, p. 475), La Valle (2002, p. 306). 35 Analogamente, La Valle (2002, p. 307) esclude «dalle relazioni connesse alla nozione di capitale sociale quelle che sono riducibili allo scambio economico e al potere», chiedendosi «Quando una relazione diventa una forma di capitale sociale, una risorsa accumulabile e spendibile anche nel futuro ma distinguibile da quella economica?» e se «il capitale sociale è generato dalle relazioni che perdono il carattere della episodicità e assumono una certa stabilità?». 36 Pizzorno esplicita chiaramente il legame tra capitale sociale di solidarietà e capitale sociale di reciprocità: «Il capitale sociale di solidarietà si basa su quel tipo di relazioni sociali che sorgono, o vengono sostenute, grazie a gruppi coesi i cui membri sono legati l’uno all’altro in maniera forte e duratura, ed è quindi prevedibile che agiscano secondo principi di solidarietà di gruppo» (1999, p. 380). Viceversa, «Affinché questo tipo di capitale sociale (N.d.R. il capitale sociale di reciprocità) si formi non occorre assumere la presenza di un gruppo coeso che intervenga ad assicurare l’operatività della relazione sociale a certi fini attraverso meccanismi di ricompensa o penalità simboliche o materiali. Esso quindi si manifesterà più probabilmente sulla base di legami deboli» (1999, p. 381). 37 Mark Granovetter è considerato il principale di studioso di quella che viene definita “nuova sociologia economica”. In particolare, il suo primo contributo importante risale alla età degli anni settanta (1974), quando pubblicò un breve saggio, Getting a Job, sulle modalità con cui le persone acquisiscono informazioni sui posti vacanti nel mercato del lavoro e i cui risultati misero in luce la forza dei legami deboli nel definire le opportunità di mobilità occupazionale. Gli individui cambiano lavoro perché grazie alle informazioni che acquisiscono accidentalmente attraverso contatti di lavoro e non grazie a familiari o amici. 38 Per quanto riguarda il dibattito tra studi che mettono l’accento sulla forza dei legami forti e studi che evidenziano l’importanza dei legami deboli, Piselli (1999, pp. 402, 403) mette a confronto «Granovetter (1974; 1994) che, come è noto, ha teorizzato la forza dei legami deboli nel definire le opportunità di mobilità occupazionale» e «Margaret Grieco (1987) che porta l’evidenza di un lavoro ultradecennale svolto in diverse regioni industriali inglesi. L’autrice dimostra che i legami familiari e di parentela costituiscono il principale fattore di reclutamento e organizzazione del lavoro». Nonostante entrambi gli autori svolgano un’analisi rigorosa, giungono a risultati diametralmente opposti, a dimostrazione, secondo Piselli, che non vi è una superiorità dei legami deboli o dei legami forti, ma, semplicemente, «In un caso, dunque, sono cruciali i legami forti, in un altro caso i legami deboli». 39 Putnam e Fukuyama considerano il capitale sociale come una proprietà del sistema che nasce dalla fiducia nella società. In particolare, per Putnam (1993, p. 196) «Per capitale sociale intendiamo qui la fiducia (...)»; per Fukuyama (1996, pp. 40) «Il capitale sociale è una risorsa che nasce dal prevalere della fiducia nella società o in una parte di essa». Nello specifico, Fukuyama (1996, p. 40) definisce la fiducia come «l’aspettativa, che nasce all’interno di una comunità, di un comportamento prevedibile, corretto e cooperativo, basato su norme comunemente condivise, da parte dei suo membri». 40 Per Mutti (1998, pp. 8) «Per capitale sociale si intende una struttura di relazioni tra persone (...). Questa struttura di relazioni consta di reti fiduciarie formali e informali che stimolano la reciprocità e la cooperazione». Per Trigilia

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(1999, pp. 423) «Attraverso il capitale di relazioni si rendono disponibili risorse cognitive, come le informazioni, o normative, come la fiducia, che permettono agli attori di realizzare obiettivi che non sarebbero altrimenti raggiungibili, o lo sarebbero a costi molto più alti». 41 Mutti (1999, p. 27) rileva come «Pur nella loro estrema varietà, le posizioni degli autori interessati all’analisi dei meccanismi di produzione ed estensione della fiducia si differenziano lungo una linea ben precisa che fa riferimento alla possibilità o meno di intervento, nel breve e nel medio periodo, su tali meccanismi. (...) Fukuyama, in particolare, insiste sul fatto che la fiducia è creata e trasmessa attraverso meccanismi culturali profondi, basati su sistemi etici e morali, su credenze religiose e convenzioni sociali tramandate storicamente». 42 Mutti (1998, pp. 53) segnala che il processo attraverso cui la fiducia si estende e si generalizza a livello interpersonale e istituzionale sembrerebbe non aver ancora trovato un inquadramento teorico soddisfacente. 43 «L’aspettativa fiduciaria sostituisce, dunque, l’incertezza con un livello di “certezza” e di rassicurazione interna che varia secondo il grado di fiducia concessa. Essa rappresenta, comunque, un investimento cognitivo più elevato della semplice speranza. In caso di errore incappa, perciò, in conseguenze più gravi» [Mutti, 1998, pp. 45]. Inoltre, a seconda del grado di intensità della fiducia si parla di “aver fiducia” oppure di “confidare” (azione che presenta un maggior grado di incertezza degli eventi) [Mutti, 1998, pp. 43]. 44 Mutti (1998, pp. 35) concentra l’attenzione sul fatto che «Disposizioni socialmente positive possono non riuscire a conseguire, senza l’ausilio di altri accorgimenti sociali, il coordinamento e la collaborazione effettivi, come risulta dal famoso esempio della telefonata interrotta: nel caso in cui si debba riprendere una telefonata interrotta, infatti, la cooperazione può fallire, e la comunicazione non essere ripresa, anche se gli individui sono entrambi altruisti perché finiscono per bloccare la linea con i loro tentativi incrociati». 45 In particolare, a seconda del destinatario delle aspettative fiduciarie si può parlare di fiducia personale (o interpersonale) o di fiducia sistemica (o istituzionale). Per Mutti (1998, pp. 38, 40) la fiducia personale può essere definita come «l’aspettativa che Alter non manipolerà la comunicazione o che fornirà una rappresentazione autentica, non parziale, né mendace, del proprio comportamento di ruolo e della propria identità». Viceversa, «i contenuti della fiducia sistemica o istituzionale vengono generalmente definiti come aspettative di stabilità di un dato ordine naturale e sociale, di riconferma, dunque, del funzionamento delle sue regole». 46 Si ritiene di interesse rilevare come le organizzazioni sociali non valorizzino necessariamente il capitale sociale. Come nota giustamente Sabatini (2004, pp. 19) «La società civile non è composta soltanto da associazioni volontarie senza scopo di lucro, ma anche da gruppi di pressione politica che si costituiscono per migliorare le rendite di posizione dei loro membri, oppure per colpire gli interessi di gruppi antagonisti per motivi economici, sociali, etnici o religiosi. Per esempio, la mafia e il Ku Klux Clan sono organizzazioni perfettamente compatibili con le definizioni di capitale sociale finora adottate, ma di certo non contribuiscono al miglioramento del benessere collettivo e allo sviluppo economico e sociale». 47 Per chiarire cosa intenda per organizzazione sociale appropriabile, Coleman (1990, pp. 400) propone il seguente esempio: «In un quartiere di case popolari costruite durante la seconda guerra mondiale in una città degli Stati Uniti orientali, vi erano molti problemi, poiché il quartiere non era stato edificato al meglio: le tubature perdevano, i marciapiedi si sgretolavano, e vi erano molti altri inconvenienti. Gli inquilini si organizzavano per aprire un confronto con i costruttori, e in generale per affrontare questi problemi. Successivamente, quando questi furono risolti, l’organizzazione degli inquilini rimase attiva e costituì così del capitale sociale che migliorava la qualità della vita nel quartiere. Gli inquilini avevano a loro disposizione risorse che non esistevano dove vivevano prima». 48 Il Presidential Address del 1992 alla American Sociological Association intitolato, in modo molto esplicito, «The rational reconstruction of society» è citato in Cella (2006, pp. 319) e Bagnasco (2002, pp. 297). 49 In relazione al primordial social organization, Bagnasco (2002, p. 298) osserva come «L’aggettivo usato per definire queste vecchie forme di organizzazione sociale e di capitale sociale è primordial, un termine che introduce una suggestiva ambiguità, sulla quale Coleman gioca, e della quale qualche volta forse resta prigioniero. Primordial significa infatti «existing at the beginning», ma anche «elementary » o «fundamental», «primary» (v. Webster’s new international Dictionary). Nel primo significato, il riferimento al capitale sociale è univoco, si riferisce al capitale sociale proprio di quelle comunità tradizionali, il solo capitale sociale esistente in quella forma di organizzazione sociale. Negli altri significati, l’aggettivo individua quella forma originaria come un tipo di capitale sociale, di cui si riconosce l’importanza decisiva anche per successive forme di organizzazione sociale».

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50 Bagnasco nota come le problematicità del passaggio dalla società tradizionale alla società moderna sia un tema importante per la sociologia (2002, pp. 274): «Da questo da questo punto di vista, che il capitale sociale tipico appartiene propriamente alla gesellschaft. La questione posta da Coleman – come rimpiazzare il primordial social capital – riprende però un tema originario della sociologia, espresso in molti modi: la sociologia classica si poneva il problema di cosa si perdesse nel passaggio dalla società tradizionale alla società moderna. Da questo punto di vista, il concetto di capitale sociale si scopre anche imparentato a distanza con i vecchi temi della gemeinschaft». 51 «Ciò a cui mi riferisco è il fatto che l’organizzazione, in quanto gerarchia, è costituita da una scala di posizioni sociali ai cui gradini corrispondono altrettante misure di considerazione. Salire lungo questa scala non è indifferente per gli individui: spesso è una ricompensa che contribuisce ad orientarne l’attività (chi entra ai livelli più bassi ad esempio in un’università, può aspirare ad arrivare un giorno ai gradini più alti; questo stimolo non è senza importanza per il funzionamento di quel sistema)» (La Valle, 2002, pp. 323). 52 Si ritiene interessante richiamare sommariamente i risultati di una ricerca sulla partecipazione nelle organizzazioni volontarie in Lombardia finalizzata ad approfondire proprio il rapporto tra partecipazione degli individui alle organizzazioni e capitale sociale. Diani (2000) adotta l’idea della natura relazionale del capitale sociale e parte dall’assunto che ogni tipo di relazione può in linea di principio operare come capitale sociale, per dimostrare come non tutte le relazioni, in realtà, siano adatte a qualsiasi tipo di scopo. 53 Per Coleman, «Come le altre forme di capitale, il capitale sociale è produttivo, e rende quindi possibile il conseguimento di obiettivi che altrimenti non sarebbero raggiungibili. Come il capitale fisico e il capitale umano, il capitale sociale non è completamente fungibile, ma lo è rispetto a determinate attività» (Coleman, 1990, p. 388). 54 In particolare, Trigilia (2005, pp. XXI) evidenzia come Coleman parta dall’assunto che come effetto degli scambi e dei trasferimenti di controllo si siano formate strutture sociali relativamente stabili che rappresentano delle risorse per gli individui: relazioni sociali fiduciarie, relazioni di autorità, norme efficaci, organizzazioni. 55 Y = A F (BM(K, H), L) dove l’output (Y) è funzione della quantità di lavoro (L) e di un indice composto di capitale che include sia il capitale fisico che il capitale umano (K e H) e A è il fattore di scala della funzione di produzione L’indice composito di capitale è BM (K, H) dove B è un fattore di scala e M è una funzione crescente di K e H. In particolare, secondo la formulazione di Dasgupta, B cattura le esternalità delle relazioni sociali. 56 Y = Af (L,K, S), dove A è il fattore di scala della funzione di produzione, L è la quantità di lavoro, K è la quantità di capitale fisico e S è la quantità di capitale sociale]. 57 Al riguardo si segnala come Solow (2000, pp. 6, 7) abbia osservato il termine capitale sia poco appropriato per il capitale sociale, soprattutto in considerazione del fatto che non è possibile stabilire un’analogia con il capitale fisico. Infatti, mentre il capitale fisico al tempo t (Kt) può essere misurato sommando il capitale fisico del periodo precedente (Kt-1) agli investimenti passati (I) al netto del deprezzamento (δKt-1) [Kt = Kt-1 + I - δ Kt-1], la stessa formulazione non può essere applicata al capitale sociale in quanto non è chiaro né quali siano gli investimenti passati e il capitale sociale del periodo precedente, né come si possano misurare.