Il cinema del silenzio

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Rogate ergo N. 4 / 2012 29 SPECIALE IL CINEMA DEL SILENZIO IL CINEMA DEL SILENZIO di Alberto Di Giglio di Alberto Di Giglio

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di Alberto Di Giglio Ed. Rogate

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Rogate ergo N. 4 / 2012 29

S P E C I A L E

IL CINEMA DEL SILENZIOIL CINEMA DEL SILENZIOdi Alberto Di Gigliodi Alberto Di Giglio

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i brandelli del quotidiano rivelano lo smarri-mento dell’uomo di fronte alle grandi domandedell’esistenza.

C’è un cinema esplicitamente del silenzioche è quello più propriamente religioso (anchese ogni “sguardo del silenzio”, come in Ber-gman, nasconde un interrogativo metafisicoprofondo). Perché in ultimo, di fronte all’irru-zione tremenda del Sacro, come in Tarkovskij,nessuna esclamazione è più possibile,

Noi ci occuperemo divarie dimensioni di questache è anche una gramma-tica del linguaggio-cinema,dove i silenzi danno valorealle immagini e ai suoni co-sì come in musica le pauseci rivelano il valore dellenote: e lo faremo attraver-so alcuni capolavori ed au-tori esemplari; dando tutta-via un certo spazio preferenzia-le a un cinema più recente checi mostri come anche e soprat-tutto nei nostri tempi rumorosisia irrinunciabile questa pro-spettiva.

LA VOCEDELLA LUNA

La luna rubata dal cielo efatta prigioniera in terra,una fantasmagorica disco-teca esemplare, una granfesta paesana, l’ossessionetelevisiva... Fellini racconta ildisordine, la frammentazione e la de-realizza-zione del mondo contemporaneo, privo diideologie, privo di senso: e insieme racconta lanostra assuefazione al caos, la speranza che intanta assurdità sia possibile ritrovare la partepiù profonda e integra di sé, il ricordo del per-ché si viva e di quanto vivere sia inevitabile ebello. Stupore, poesia, scherzo, tutte le caratte-ristiche più amabili e amate di Federico Fellinisi ritrovano qui di nuovo insieme, per un atti-mo: come non provare una profonda simpatiaper il Benigni-Pinocchio che veste i panni del-l’ingenuo sognatore Ivo Salvini, partecipandoalla sua struggente rincorsa delle varie «voci del-la luna»? L’Italia è brutta, volgare e meschina e

c’e poco spazio per chi sogna, ci ricorda a ognipiè sospinto il regista: tutto è rumore e caos.[...]Fino al finale toccante: “Eppure io credoche ci sarebbe bisogno di un po’ di silenzio, setutti facessero un po’ di silenzio, forse qualcosasi potrebbe capire”.

IL DECALOGOQuando sui teleschermi polacchi, e poi di

molti altri paesi, esplose il “caso Decalogo”,Krzysztof Kielowski era un re-gista di mezza età con molti do-cumentari e poco cinema allespalle, anche per alcuni inter-venti censori del regime comu-nista. Era insomma l’ultimo e ilmeno famoso dei registi uscitida quella scuola di Lodz chedalla fine degli anni ’50 avevasfornato tra gli altri Wajda ePolanski, cineasti di livello

mondiale. Col Decalogo i valoridovevano cambiare e Kielowskitrasformarsi nell’autore che, an-

che grazie al contributo dello sce-neggiatore Piesiewicz, improntavadi sé la cinematografia di fine ‘900.Anche le date aiutavano. Uscito nel1988, questo film tv in dieci episodidi un’ora, ispirati ai rispettivi co-mandamenti, scattava una fotogra-fia di impressionante realismo della

società comunista europea al suo tracollo. Edelle domande: cosa può l’Uomo se dimenticaDio? E Dio, è il Dio della Assenza lontana e im-potente o il Dio della Parola giusta e consolatri-ce?

Già l’atmosfera – i palazzoni di una periferiadi Varsavia omologata nell’allucinazione, sim-bolo antropologico del fallimento di un’epocastorica, gli scenari invernali dove tutto è in sor-dina e attutito da una grande neve – ci riportaa quelle vibrazioni nel silenzio di cui ci stiamooccupando.

In tutti gli episodi i dialoghi sono ridotti al-l’essenziale. Molto più spazio è dato agli sguar-di, alle attese, ai dettagli delle cose che ci dico-no – per la via taciturna e veloce del simbolo –quale destino attende i personaggi: sempre se-guiti dalla taciturna – ma non sappiamo se dav-vero impotente – contemplazione dell’Angelo.

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“Se tutti facessero un po’ di silenzio”…(da La voce della luna di Federico Fellini)

Tocca al “lunatico” Roberto Benigni,esprimere questo concetto ne La vocedella luna, ultima pellicola felliniana,

manifesto di una poetica contro le manifesta-zioni assordanti del mondo contemporaneo.

Un pensiero, quello del silenzio, ricorrentein tanta parte della storia del cinematografo, findagli inizi, quando il cinema muto, destinato aessere soppiantato dal sonoro, espresse con Itempi moderni di Chaplin la protesta di un’ar-te costretta dalla tecnologia alla parola, alla co-lonna sonora modaiola, all’enfasi della decla-mazione retorica. Così che il personaggio cha-pliniano, in quel memorabile film-libello, cantaIo cerco la Titina con parole senza senso senon quello di ricordarci di quante voci e rumori

inutili si potrebbe fare ameno.

Nel cinema dei grandiautori, la ricerca del silen-zio, intesa come un andareall’essenziale della vita edel racconto, si è manife-

stata tante volte. E gli esempi possono essere acampione, svariando nell’ampio spettro dell’ar-te: in John Ford, dove la narrazione più inten-sa è affidata ai luoghi selvaggi, grandiosi o inti-mistici del Far West; in Hitchcock, dove a par-lare sono le emozioni primordiali della paura edell’attesa; in Kubrick, dove è eloquente l’oriz-zonte geometrico delle forme; nelle illumina-zioni millimetrate di un Bresson; nelle deforma-zioni surreali di Bunuel; nei tempi dilatati e so-lenni di un Theo Anghelopoulos, recentemen-te scomparso; nel Kielowski del Decalogo dove

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Da Fellini a Tarkovskijda Bergman a Gröning

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Verità.Si impone il silenzio

dell’attesa, non affretta-re la realizzazione del-l’opera sacra, ma conse-gnarsi ad un viaggio dipurificazione interiore.Sulla tavolozza non ap-paiono né forme, nécolori, il pennello ripo-sa. Silenzio dei colorisulla tavolozza, il silen-zio dall’ispirazione di-vina. Il protagonista,ossia ciò che costitui-sce la vita del film eche rimane comepunto di vista costante inogni inquadratura, non ètanto il pittore, ma piut-tosto la sua Trinità. Ilfilm si chiude con l’im-magine dei cavalli, simbolo di una vita che rina-sce (a causa della resurrezione); quei cavalli sicontrappongono al cavallo nero del primo epi-sodio che, rantolando a terra, simboleggiava lavita ferita.

NOSTALGHIALo spirito per il regista è dentro le cose, è

dentro la materia, è intrinseca ad essa. In unadisarmante semplicità, Tarkovskijesprime l’unità fino alla commozioneumana, esplicitando i rapporti più ge-nuini e sinceri fra gli uomini. In questofilm del 1983, sceneggiato con ToninoGuerra, seguiamo il viaggio di Gortãa-kov, un poeta sovietico che viene inItalia per studiare la vita di un compo-sitore russo del 1700. Venne giratonella Toscana della Val d’Orcia, tral’abbazia di San Galgano e Bagno Vignoni, lun-go le tracce di una “nostalgia” che è soprattut-to nella difficoltà di ricomporre la trama sdruci-ta dell’anima.

Nel precedente Stalker, le mura grondava-no d’acqua, bottiglie di vetro raccoglievano pic-cole lacrime dal cielo, le piante selvatiche per-correvano gli spazi adibiti all’uomo. Qui, anco-ra una volta, troviamo il recupero dell’armoniatra uomo e natura, come creature indissolubil-

mente legate, in quan-to bisognose della stes-sa acqua, della stessaterra e dello stesso cie-lo. Sul finire del film,Domenico pronunciala propria arringa. Lapoesia ha il suo trion-fo. Magnifica la scenadove lo scrittore, sedu-to con il proprio cane,guarda verso di noicercando un dialogo disentimenti. La macchi-na da presa, arretran-do, scopre la cattedra-le scoperchiata di SanGalgano sovrappo-nendosi nella casa enella steppa russa, nel-la quale la neve cadedolcemente. Nostal-

ghia ci educa, ci forma, ci porta a ritrovare lastrada verso la Riconciliazione.

SACRIFICIOIn quest’ultimo film-testamento ci sono tutti

i temi trattati in precedenza: la terra (l’alberoimpiantato nel terreno e bagnato ogni giorno),il “pazzo di Dio” e il suo angelo (il postino cheaddirittura viene colpito dall’ala dell’angelo),

Bach, Leonardo, la figura del padre,l’Amore, il sacrificio, cioè la fedeltà al-la vocazione (di artista) che genera unamoralità, che genera un uomo vero, ungrande uomo; il sacrificio è appunto ildissolversi nella volontà di un Altro pergli altri. Mettersi all’ascolto, fare silen-zio dentro di sé. Cristo stesso disse:“chi vorrà salvare la propria vita, laperderà; ma chi perderà la propria vi-

ta per amor mio, la troverà” (Mt 16,25). Ale-xander non perderà la vita, ma ciò che di piùprezioso aveva trovato in essa; lui, “pensato-re”, perderà l’uso dell’intelletto trasformandosiperò lui stesso in un pazzo che è diventato taleper Amore verso Dio, un “pazzo di Dio”. Taceil pensiero. Trionfo di Dio.

Il genio di Tarkovskij è tutto lì: nel suo comu-nicare per immagini mediante una limpida etrasparente espressione lirica. Non a caso, è

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Sintomatico, e valga per tutti, il primo epi-sodio, dove il tema del “Io sono il Signore Diotuo” si manifesta nel modo più paradossale: unpadre, che crede solo nella scienza, calcola cheil ghiaccio su cui dovrà pattinare il suo figliolet-to “sicuramente” ne reggerà il peso: dovrà in-vece accettarne la morte, risuc-chiato dalle acque tragicamen-te silenziose del lago. E alla fi-ne, il suo inchino all’altaredi una Madonna non capia-mo se è un abbandono ouna ribellione.

Poche le parole che ipersonaggi si scambiano,eanche per questo, oltre cheper una scrittura fortemen-te concentrata, restano be-ne impresse quelle che ven-gono dette. È soprattutto ilpudore a coprire col suovelo silenzioso atti, doman-de e risposte impossibili(cosa sta sognando la ma-dre lontana? Il computerdel bambino non sa dirlo.Perché si muore? Chiedesempre il bambino dopoaver visto un cane stramaz-zato sulla neve …). Anchele immagini della tragediaci testimoniano che qui, ilsilenzio non è soltanto diparole: un’unica inquadra-tura lontana ci mostra la scena dell’am-bulanza e dei soccorritori e di qualcosache viene alla fine ripescato dall’orridobaratro che ha inghiottito il bimbo inno-cente. La violenza della vita – vero Ta-rantino? – non ha bisogno della retoricasanguinolenta dell’azione o meglio della coa-zione a ripetere.

Qui non vediamo neanche un secondo delbambino che corre alla morte. Il Male si erapresentato molto più fortemente, con la me-morabile sequenza della boccia di inchiostroche allaga il foglio del padre che sta scrivendoproprio allora. Il piccolo evento inspiegabile –la rottura spontanea del contenitore di vetro –fa da misterioso preannuncio del dramma: ilghiaccio del laghetto “può” rompersi perché

l’uomo “non” può calcolare tutto. Ma il Diodella Parola, arriverà al cuore di vetro degli uo-mini senza speranza? Nel Silenzio è la risposta.

Tre film di Andrej A. TarkovskijANDREJ RUBLEV

Il personaggio principale del film, AndrejRublëv, è il grande iconografo russo vissuto al-l’inizio del XV secolo. In questa pellicola del

1966, che attraversò va-rie difficoltà con la censu-ra sovietica, Tarkovskji cioffre un poderoso affre-sco, una parabola umanaed artistica di grande por-tata.

Rublëv viene fattochiamare da Teofane ilGreco per dipingerel’Apocalisse. Quandoesce per la prima voltadal suo monastero si tro-va di fronte ad un mondoostile che lui ben prestoinizia a conoscere attra-verso uno sguardo quasiinfantile. Superbia, im-moralità, paganesimo,violenza; l’uomo è minac-ciato da ogni parte. Alculmine di tutto questoRublëv decide di non po-ter più dipingere per

un’umanità tanto spietata ed offre il si-lenzio come riscatto del proprio peccatoche, non dimentichiamo, è l’omicidio.Ma la vita e l’arte non sono né un pen-siero né una dottrina, non sono il fruttodiretto della conoscenza e della saggez-za, ma un dono consegnato all’artista

senza alcun suo merito “per ricordare ai popo-li di essere popoli”, questo è l’errore in cui ca-de Kirill, un confratello invidioso di Rublëv. Ilgiovane fonditore rivela a Rublëv di non sapereil segreto per la costruzione delle campane: lavocazione e il genio puro riconsegnano la vitanelle mani di un popolo affranto da anni diguerre e oppressioni. Così Rublëv comprende,come in una sorta di rivelazione, di non poter-si sottrarre, pur con le mani macchiate da unantico peccato, alla chiamata suprema della

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l’isolamento. Film russo digrande impatto emotivo spiri-tuale presentato fuori concor-so alla mostra cinematografi-ca di Venezia nel 2006.

1942. Durante la SecondaGuerra Mondiale, un rimor-chiatore russo viene bloccatodai tedeschi sul Mar Bianco,ed un giovane marinaio rus-so, preso dal panico, per con-quistarsi la fiducia dei tedeschie salvarsi la vita, obbedisce al-l’ordine di un nemico ed ucci-de un suo compagno, ma po-co dopo il rimorchiatore af-fonda.

Una trentina di anni dopo, inaufraghi, si ritrovano in un mo-nastero su un’isola del Mar Bian-co dove aspettano l’aiuto di Ana-toly, un monaco guaritore. Anatoly però, si ri-tiene un peccatore e forse esiste un legame tralui ed il marinaio che uccise il suo compagnodurante la guerra...

La storia del film è una parabola, ma alquan-to verosimile: contiene in sé le diverse realtàdella vita russa e i tratti caratteristici di una esi-stenza da eremita.

IL GRANDE SILENZIOÈ il film di Philip Gröning, presentato al-

la mostra d’arte cinematografica di Venezianel 2005

Ecco il Signore passò. Cifu un vento impetuoso egagliardo da spaccare imonti e spezzare le roccedavanti al Signore, ma il Si-gnore non era nel vento.Dopo il vento ci fu in terre-moto. Dopo il terremoto cifu un fuoco, ma il Signorenon era nel fuoco. Dopo cifu un mormorio di un ven-to leggero. (1 Re 19, 11-13)

Questa la citazione di apertura delfilm.

L’incontro con Dio è possibile solonel vento leggero, nel mormorio, nelsoffio leggero della Ruah…

Il grande silenzio dice ilregista, è un film simile aduna nuvola. Ma cosa è unanuvola? Difficile spiegarlo.Ce ne sono di vari tipi. Moltodifferenti, e tutte sempreintegre. Non ho mai vistouna nuvola “corrotta”. Di fat-to un film “normale” si basasul linguaggio – ed il linguag-gio sovrasta il tempo. Credoche l’esperienza più profon-da che uno spettatore possaavere quando guarda un filmè di avere la percezione deltempo. Di solito questa espe-

rienza è nascosta dalla storia.In un film sul silenzio – “un film

silente”- questa esperierienza deltempo è portata alla superficie. Non è distur-bata da nulla. E questo è direttamente con-

nesso al modo in cui i monaci vivono: in base aquanto qualcosa deve essere fatto e alle regolesecondo le quali deve essere fatto.

In un tempo di cinema chiassosamente so-noro, che tutto riempie e trabocca, diventa ne-cessario sperimentare il silenzio. Quello grandee silente “registrato” nel monastero certosino

de La Grande Chartreuse, situato sullemontagne vicine a Grenoble. A saliresulle Alpi francesi con la macchina dapresa è stato il regista tedesco PhilipGröning, che per diciannove anni ha

cullato il desiderio di realizzare un docu-mentario sulla vita deimonaci e sul tempo:quello della preghiera equello del cinema. Per-ché quel tempo potessescorrere sulla pellicola, ilregista ha condiviso coimonaci quattro mesi del-la sua vita: partecipandoalle meditazioni, allemesse, alle lodi, ai ve-

spri, alla compieta (l’ultima delle orecanoniche), ritirandosi in una cella inattesa di ripetere nuovamente l’uffi-cio delle letture.

Il film, apparentemente immobilee privo di uno sviluppo narrativo, tro-

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stato definito dalla critica come un poeta del ci-nema, capace di dare definizione e concretezzaall’astrattezza pura del sentimento elegiaco -poetico. Egli osserva la metamorfosi dell’uni-verso dietro le finestre della Russia, mitiga i suoidoni lirici, li contempla nella sua manifestazio-ne per poi donarli silenziosamente all’umanitàintera.

La trilogia del silenziodi Ingmar Bergman

La parte centrale della carriera di Bergmanè caratterizzata dalla trilogia del silenzio, sull’as-senza di Dio: Come inuno specchio, del 1961,Luci d’Inverno e Il Silen-zio, del 1963.

In questa trilogia si av-verte la condizione natu-rale dell’uomo in una con-dizione di sofferenza cheaumenta con i dubbi, con isilenzi ricevuti in rispostaad ogni invocazione. Ilmalessere fisico dei perso-naggi che si scoprono senza fede è pari almalessere dello spettatore, capace di provarequesta mancanza improvvisa, questa vertigi-ne specchiandosi nel vuoto dove un attimoprima credeva esserci l’anima.

Tutto ruota nel nulla, non un lume di fededa qualche parte, ci si avvita tra nuvole, neb-bie, oscurità, rassegnazione.

LUCI D’INVERNOMentre fuori è tutto bianco di neve il pasto-

re Tomas Ericsson sta celebrando la Messa ac-compagnata dal canto gregoriano, nella chiesaparrocchiale di Mittsunda e distribuisce, ai cin-que fedeli che si avvicinano alla balaustra la co-munione recitando preghiere.

Un crocifisso di legno in primo piano, unamamma rimprovera la figlia.

Al termine della funzione il sagrestano Algotchiede al pastore di potergli parlare e costui glifissa un appuntamento più tardi.

Giunto alla parrocchia, prima di iniziare lamessa, ascolta Algot che gli parla di alcune ri-flessioni fatte in seguito alla lettura del Vangelo.Secondo Algot il momento di maggior soffe-renza di Cristo fu quando invocando il Padre

disse “Dio, perché mi hai abbandonato?” dimo-strando di aver sofferto per il silenzio di Dio.Quelle parole, le stesse pronunciate dal pasto-re, risvegliano in lui qualche Speranza, una luced’inverno.

Il film termina con le parole di Marta “Se riu-scissimo ad essere sicuri... se riuscissimo a cre-dere in una verità... se riuscissimo a credere...”e con l’immagine di Thomas che, iniziando la

funzione, recita: Santo, Santo, San-to...”.

Scandagliando il proprio ani-mo e la propria vita, il regista ha

voluto raffigurare l’ango-sciante condizione del-l’uomo, chiuso nel suomicrocosmo, ma conti-nuamente accecato dallanecessità di una provaconcreta dell’esistenza diDio, che possa rivelarenell’immanenza terrena latrascendenza divina. Èchiaro che Bergmanesplora il suo rapporto

con il padre, il pastore luteranoErik Bergman, per delineare lasottile psicologia di Tomas, il pro-tagonista, un pastore che, dopo lamorte della moglie, perde il sensoultimo della sua fede, smarrendol’importanza della sua funzione.

Alla fine troverà risposta nelleparole di un umile sagrestano: anche Gesù Cri-sto, col suo grido di abbandono, ha sofferto incroce la stessa sofferenza, e cioè quella che sca-turisce dal silenzio di Dio.

OSTROVL’ISOLA DEL SILENZIO

Il film di Pavel Longuin racconta l’esperien-za sofferta tra fede ed espiazione, tra i silenzi ele preghiere dei monaci, la storia personale di-venta un confronto personale in chi lo vede.

Signore Gesù Cristo abbi pietà di me! Si-gnore Gesù Cristo abbi pieta di me… la pre-ghiera del pellegrino russo, è insistita dal mona-co peccatore protagonista del film interpretatoda Pyotr Mamonov, l’ex rockstar che porta sudi sé i segni di una vita spericolata, approdatacome quella del suo personaggio alla fede e al-

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va invece un suo modo straordinario di proce-dere inserendo un dialogo muto tra l’uomo e lanatura, scandito fuori dal monastero dalle sta-gioni e dentro le mura, vecchie di quattro seco-li, dalla rigorosa liturgia dei monaci. Separatimaterialmente dal mondo mantengono con es-so una solidarietà espressa attraverso un’inces-sante preghiera. Il silenzio è la caratteristicaprevalente. Il regista sceglie di non fare un do-cumentario verità scandagliando ad esempio lemotivazioni o le personalità dei monaci che so-no stati ripresi, ma preferisce mostrare la lorosemplicità ed i loro visi luminosi e quasi stupitidi fronte ad una macchina da presa. Non li sen-tiamo quasi mai parlare, senon per cantare e l’uni-co ad avere la parola èun anziano monaconon vedente che mettea parte il regista di alcu-ne sue riflessioni molto bre-vi come: “Non bisogna averepaura della morte. Più ci si avvi-cina a Dio, più si è felici”.

Per il resto possiamo sentiresolo i suoni che illustrano l’ope-rosa attività del convento, le for-bici che tagliano la lana, la palache scava nella neve friabile ed ipassi dei monaci nel chiostro ca-vernoso. Talvolta il regista mo-stra anche il lato giocoso dei frati, ad esempioriprendendoli mentre si divertono a discenderelungo un dirupo innevato.

La partecipazione dello spettatore alla vitadel monastero è affidata unicamente alle im-magini, che non si aggrappano quasi mai a unsuono, a una voce esplicativa fuori campo, auna musica applicata alla pellicola, a una paro-la, se non a quella di Dio. Il regista “officia” lasua funzione lasciando libero lo spettatore e lasua percezione di cogliere nel montaggio icommenti impliciti, nel silenzio i suoni compre-si. Il film mostra il cambiamento del tempo ed ilsusseguirsi delle stagioni, dai riti di tutti i giorni,e dalla preghiera. Volti. Un mondo sensoriale,quasi metafisico: una mela tagliata, un pasto at-traverso le celle, le lunghe camminate nei cor-ridoi…

La grammatica del cinema al servizio del lin-guaggio dello spirito.

THE ARTISTÈ un film muto, il film rivelazione del 2011.La pellicola ha incassato gli Oscar 2012 co-

me miglior film, miglior regia, miglior attoreprotagonista, con Jean Dujardin e, ancora, mi-glior colonna sonora e migliori costumi

«The Artist» è diventato il film-evento del-l’anno già dalla sua premiére mondiale al Festi-val di Cannes, quando è riuscito a mettere d’ac-cordo tutti, dal pubblico più compiacente allacritica più intransigente. Ora che è arrivato an-che nelle sale italiane la domanda da porsi è laseguente: perché un film muto in bianco e ne-ro ambientato nella sfavillante Hollywood degli

anni Venti (1927, per la precisione)sta divertendo e commuovendo leplatee di tutto il mondo? Forse per lastoria? Come scrive il critico MarcoLuceri: “L’originalità dello sguar-do che ci fa apparire «The Artist»come un film fresco, sincero, per-fettamente adattabile ai gusti delpubblico di oggi? La risposta ri-siede paradossalmente, proprionella scelta del linguaggio, cheadatta lo stile del cinema mutoalla sensibilità moderna, giocan-do con gli stilemi di un melo-dramma in cui, grazie proprioall’assenza di parole, ogni gesto,

ogni sguardo, ogni postura degli attori e ognielemento della scena, dal décor generale alsingolo costume, diventa un segno ingiganti-to, una traccia visuale che stuzzica in conti-nuazione la nostra attenzione, spingendoci aleggere le immagini nella loro complessità.La forza del cinema muto sta(va) proprio inquesto, nel tenere alta la tensione attraversoun movimento contemplativo, che Hazanavi-cius ci restituisce nella sua interezza, soprat-tutto nei passaggi «comici» del film (la magni-fica sequenza del poliziotto che corre dietroal cane è degna di Buster Keaton), quelli piùestremi e meno addomesticabili”.

In conclusione, la storia del silenzio nel cine-ma potrebbe occupare volumi: ma è soprattut-to la vita a rammentarci come il non detto,l’inespresso, il potenziale, soverchino il chiac-chiericcio di sempre.

Come scriveva Alfred De Vigny: “Solo il si-lenzio è grande; tutto il resto è debolezza”. l

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