IL CASO IRAQ E IL DIRITTO INTERNAZIONALE: USO DELLA FORZA...
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Università degli Studi di Genova – Facoltà di Scienze Politiche
Corso di Laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche
TESI in “Diritto Internazionale”
IL CASO IRAQ E IL DIRITTO
INTERNAZIONALE: USO DELLA FORZA E
GIUSTIFICAZIONE DELL’ILLECITO
Relatore: Professor Munari Francesco
Candidato: Damiani Francesco
Anno Accademico 2003 – 2004
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INDICE
Introduzione
Capitolo 1: La Dottrina dell’Uso della Forza armata
1.1 - Premessa
1.2 - Jus ad bellum e jus in bello prima della Società delle Nazioni
1.3 - La limitazione dell’uso della forza nella Società delle Nazioni
1.4 - Il divieto del ricorso alla guerra: il patto Briand – Kellogg
1.5 - La Carta delle Nazioni Unite e la disciplina dell’uso della forza
1.5.1 - Il divieto della minaccia o dell’uso della forza
1.5.2 - Il diritto naturale di legittima difesa
1.5.3 - Il sistema di sicurezza collettiva: il ruolo del Consiglio di Sicurezza
Capitolo 2: L’uso della Forza, il caso Iraq: le giustificazioni dell’attacco
2.1 - Premessa
2.2 - Le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
2.2.1 - La Risoluzione 678 (1990)
2.2.2 - La Risoluzione 687 (1991)
2.2.3 - La Risoluzione 1441 (2002)
2.3 - Il principio di legittima difesa, ex articolo 51 della Carta delle N.U.
2.4 - Il principio concernente l’uso della forza per Intervento umanitario
Capitolo 3: Il caso Iraq: l’uso della forza come illecito internazionale
3.1 - Premessa
3.2 - Le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
3.2.1 - La Risoluzione 678 (1990)
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3.2.2 - La Risoluzione 687 (1991)
3.2.3 - La Risoluzione 1441 (2002)
3.3 - Il ritorno di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
3.4 - Il principio naturale di legittima difesa ex articolo 51 della Carta
3.5 - Il principio concernente l’uso della forza per Intervento umanitario
Capitolo 4: Stati Uniti, O.N.U. e l’evoluzione del Diritto Internazionale nella
gestione dell’Uso della Forza
4.1 - Premessa
4.2 - La nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale dell’Amministrazione
Bush
e la guerra al terrorismo
4.4 - La Dottrina della Guerra Preventiva
4.5 - Il Rapporto dell’High Level Panel su Minacce, Sfide e Cambiamenti
4.5.1 - L’evoluzione delle N.U. e l’adattamento del Diritto Internazionale
4.6 - Il ruolo delle sanzioni nel futuro del Diritto Internazionale
Conclusione
Bibliografia
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INTRODUZIONE
Il 19 Marzo 2003 la coalizione di Stati guidata dagli Stati Uniti iniziava le
operazioni militari contro l’Iraq, che si concludevano ufficialmente il 1 Maggio
dello stesso anno. La rapida capitolazione delle forze armate irachene, non
adeguatamente numerose ed addestrate a rispondere ad un attacco quale quello
messo in atto dagli eserciti anglo-americani, e la successiva cattura di Saddam
Hussein, non hanno potuto tacere le polemiche e le discussioni che hanno
accompagnato il conflitto fin dai suoi albori, quando ancora era solo ventilata
l’ipotesi d’intervento militare nei confronti dello Stato iracheno.
Le diatribe sorte tra più Nazioni in merito alla questione irachena hanno toccato
diverse parti fondamentali del sistema di sicurezza collettiva della comunità
internazionale, creato dalle Nazioni Unite, mettendo in discussione alcuni tra i
più importanti valori legati all’uso della forza. Ciò ha fatto di conseguenza
emergere, in più sedi, dibattiti inerenti la legittimità o meno di un’azione militare
che non avesse ricevuto l’avallo del Consiglio di Sicurezza per mezzo di una
risoluzione ex articolo 42 della Carta che ne autorizzasse il ricorso.
Questo lavoro si prefigge l’obiettivo di analizzare (sulla base del diritto
internazionale consuetudinario e pattizio, delle risoluzioni delle Nazioni Unite
inerenti tale caso e di altre fonti utili a dirimere la presente questione) i fattori
che hanno costituito la base fondante delle discussioni, in modo tale da capire al
meglio quali fossero le motivazioni di quanti fossero favorevoli alla guerra, e
parimenti le ragioni opposte, portate avanti da coloro i quali abbiano ritenuto
illegittimo l’uso della forza armata in tale ambito.
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La situazione creatasi, in modo particolare, in seno alle Nazioni Unite, indirizza
parte dell’analisi che verrà compiuta in questa sede allo studio della posizione
assunta dalle Istituzioni O.N.U. riguardo al problema iracheno. Il ruolo del
Consiglio di Sicurezza, sulla base dei suoi compiti ed obiettivi, destinatigli dai
dettami della Carta, è stato al centro di aspre polemiche, sia durante i mesi in cui
si è assistito allo scontro tra opinioni divergenti sull’Iraq e l’entità delle
violazioni commesse, sia nel periodo successivo, in cui la sua autorità e
competenza, messe in discussione, hanno conosciuto difficoltà raramente viste in
passato, con tendenze individualiste manifestate da alcuni Stati, riguardo all’uso
delle armi nelle relazioni internazionali ed alla legalità della legittima difesa,
considerata dallo Statuto quale diritto imprescindibile riconosciuto alle Nazioni,
qualora sia messa in pratica in circostanze quali quelle che hanno fatto da
cornice all’invasione statunitense.
La questione irachena non ha rappresentato unicamente un interessante esempio
di crisi internazionale, ma ha anche creato un vero e proprio caso, sia per ciò che
concerne il diritto internazionale e la valutazione dell’illecito riconducibile agli
Stati, sia riguardo alla politica internazionale ed alle relazioni diplomatiche.
Sensibili, infatti, sono state le conseguenze che tale avvenimento ha prodotto
sulle norme stesse di diritto internazionale, sulla loro interpretazione, sulla loro
valenza, recando con sé il sentore che, a seguito delle circostanze che si sono
venute a presentare a partire dagli attentati dell’11 Settembre, le norme stesse che
regolano le relazioni tra gli Stati possano necessitare alcune modifiche o
reinterpretazioni, perché le nuove minacce siano affrontate in maniera più
efficace, in taluni casi con la possibilità di prevenire rischi altrimenti capaci di
provocare danni non comparabili con quanto finora conosciuto.
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Conseguentemente, verranno misurate le valutazioni compiute da quanti si sono
espressi in favore dell’attacco all’Iraq e da quanti, al contrario, si siano opposti
ad un tale disegno: ciò rispetto alle medesime risoluzioni del Consiglio di
Sicurezza ed ai medesimi principi di diritto internazionale, quali il diritto di
legittima difesa, (preventiva e non) ed il cosiddetto intervento umanitario,
praticato in soccorso delle popolazioni civili in grave pericolo di sopravvivenza
non adeguatamente protette o soccorse dalle autorità interne competenti.
L’evoluzione di alcune norme di diritto internazionale verrà analizzata anche
sulla base di quanto indicato dal High Level Panel on Threats, Challenges and
Change, pubblicato dalle Nazioni Unite il 2 Dicembre 2004, il quale,
plausibilmente, porterà grandi discussioni e probabili cambiamenti nella struttura
interna dell’Organizzazione e nel suo modus operandi riguardo alla gestione delle
crisi internazionali.
A seguito di tale lavoro, verranno raccolte le informazioni esaminate, in modo
da poter valutare, per quanto possibile, la concreta legittimità o meno
dell’attacco americano all’Iraq, con la destituzione dei suoi principali organi di
potere e l’occupazione militare che ne ha fatto seguito.
CAPITOLO 1
La dottrina dell’Uso della Forza armata
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1.1 - Premessa1:
In questo capitolo verrà effettuato un riferimento all’evoluzione che il principio
dell’uso della forza ha conosciuto nel corso del tempo, con le sue evoluzioni
normative e le situazioni storiche e giuridiche che ne hanno provocato lo
sviluppo. Oltre ad un’analisi cronologica, si vedranno i sistemi di gestione e
controllo che si sono verificati attraverso le diverse organizzazioni ed i principali
accordi internazionali che ne hanno fatto proprio il principio.
Di fronte alle norme che attualmente determinano le modalità di uso della forza,
i diversi metodi di messa in opera della forza militare nelle questioni tra Stati, e
le distribuzioni dei poteri decisionali in quest’ambito, verranno valutate le
situazioni che possono rendere necessario il ricorso alle armi, come quelle che, al
contrario, non prevedono tale eventualità.
Attraverso un’analisi giuridica del Patto Briand-Kellogg, e dall’esperienza della
Società delle Nazioni, si vedrà nello specifico cosa prevede la Carta delle
1 In riferimento bibliografico al presente capitolo, si vedano i seguenti autori: P. Picone, La Guerra contro l’Iraq e le degenerazioni dell’Unilateralismo, in Rivista di Diritto Internazionale, No. 2, 2003; L. F. Damrosch e B. H. Oxman, Editor’s Note, in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 97, Iss. 4, Oct 2003; S. R. Ratner, Jus ad bellum and jus in bello after September 11, in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 96, Iss. 4, Oct 2002; E. Benvenisti, The US and the Use of Force: Double-edged Hegemony and the Management of Global Emergencies, in European Journal of International Law, Vol. 15, No. 4, 2004; S. D. Murphy, International Law, the United States and the Non-military “War” against Terrorism , in European Journal of International Law, Vol. 14, No. 2, 2003; S. Bariatti, S. M. Carbone, M. Condinanzi, L. Fumagalli, G. Gasparro, P. Ivaldi, R. Luzzatto, F. Munari, B. Nascimbene, I. Queirolo, A. Santa Maria, in Istituzioni di diritto internazionale, Edizioni Giappichelli Torino; B. Conforti, Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, VI edizione 2002, Napoli; R. W. Tucker e D. C. Hendrickson, The sources of American Legitimacy, in Foreign Affairs, Vol. 83, No. 6, November/December 2004; G. A. Lopez e D. Cortright, Containing Iraq: Sanctions Worked, in Foreign Affairs, Vol. 83, No. 4, July/August 2004; Commento breve allo Statuto dell’ONU, La Carta delle Nazioni Unite, Edizioni Simone, 2000; J. Tragert, Understanding Iraq, Alpha Editor; G. Chiesa, La Guerra infinita, Feltrinelli, 2003; R. Magnani, Nuove prospettive sui principi generali nel sistema delle fonti del diritto internazionale, ed. Mursia, 1997; B. Conforti, Le Nazioni unite, 6ª ed., Padova, 2000; E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918–1999, Bari, Laterza, 2002; J. B. Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, Milano, Led, 1998; Giuliano, Scorazzi, Treves, Diritto internazionale, Milano, Giuffrè (Vol. I° : La società internazionale ed il diritto; Vol. II° : Gli aspetti giuridici della coesistenza degli stati)
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Nazioni Unite del 19452 riguardo all’uso della forza, con particolare attenzione
al ruolo ed ai compiti del Consiglio di Sicurezza, organo predisposto alla sua
gestione nell’obiettivo di mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Per
meglio valutare il caso specifico posto dalla guerra in Iraq dello scorso 2003, i
principi fondamentali di divieto di ricorso alla forza saranno presi in
considerazione, con un’analisi delle eccezioni che le Nazioni Unite riconoscono
a tale interdizione.
1.2 - Jus ad bellum e jus in bello prima della Società delle Nazioni:
Il concetto di uso della forza ha assunto diverse e molteplici connotazioni nel
corso dei secoli, sia per quanto concerne la realtà quotidiana dei rapporti tra
Stati, sia per quanto riguarda la sua applicazione, limitazione e codificazione
giuridica, nelle diverse tappe che ne hanno distinto il percorso formativo.
L’uso della forza nell’ambito internazionale, e pertanto nei sistemi adottati dalle
singole entità statali (monarchie, principati o qualsiasi altra forma di governo
fosse presente sulla scena della comunità internazionale) non subisce, in realtà,
alcun tipo di limitazione fino alla creazione della Società delle Nazioni,
avvenuta come integrazione al Trattato di Versailles il 28 giugno 1919, per poi
entrare in vigore tra le 42 Nazioni partecipanti il 10 gennaio 1920, e vivere la sua
prima conferenza a Ginevra il 15 novembre dello stesso anno3.
2 Carta delle Nazioni Unite, reperibile sul sito ufficiale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, www.un.org. 3 Centro italiano Studi per la Pace, www.studiperlapace.it. Patto della Società delle Nazioni, 6 gennaio 2001.
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In assenza di limitazioni, la guerra diventa, pertanto, un normale sistema di
risoluzione delle controversie, facendo sì che, in presenza di disaccordi tra Stati,
il ricorso all’uso delle armi diventava automatico, e che solo la capitolazione di
una delle parti poneva fine al conflitto e ne proclamava un vincitore.
Precedentemente a che i primi tentativi di limitazione e controllo dell’attività
bellica degli Stati venissero intrapresi, infatti, l’uso della forza era considerato
parte integrante della comunità internazionale, un principio indiscutibile nonché
un diritto inalienabile per gli Stati che avessero ritenuto di dovervi fare ricorso4.
Attraverso i secoli il ricorso alla guerra è stato il principale atteggiamento
assunto dagli Stati, sin dalla loro nascita come Stati nazionali, anche per la
risoluzione delle controversie. Prima della Società delle Nazioni il regime del
diritto internazionale classico era un regime di assoluta libertà nel ricorso alla
forza. Gli Stati potevano ricorrere alla forza non solo quando avessero subito un
illecito, ma anche semplicemente per motivi politici, e non avevano alcun
obbligo di giustificarsi sul piano del diritto internazionale.
Regole giuridiche, infatti, sussistevano solo per quanto riguardava materie
d’importanza più limitata, quali il blocco, la rappresaglia o l’intervento armato in
territorio altrui, e quali le modalità di esercizio della violenza bellica stabilite
dalle Convenzioni dell'Aja del 1899 e del 19075. L’unica distinzione che veniva
4 A dimostrazione di tale affermazione possono essere citati innumerevoli conflitti tra Nazioni, sorti fino a quando non si è presa in considerazione l’ipotesi di limitare, tramite accordi bilaterali o multilaterali prima, ed entità sovrastatali poi, l’uso della forza nelle relazioni tra Paesi. 5 Convenzione internazionale dell’Aja su leggi ed usi della guerra terrestre, 18 Maggio - 29 Luglio 1899: “Art. 22: I belligeranti non hanno un diritto illimitato quanto alla scelta dei mezzi con cui nuocere al nemico. Art. 23: Oltre ai divieti sanciti da convenzioni speciali, è segnatamente proibito: a. i far uso di veleni o di armi avvelenate; b. i uccidere o di ferire a tradimento individui appartenenti alla nazione o all’armata nemica; c. i uccidere o di ferire un nemico che avendo deposte le armi o non essendo più in grado di difendersi, si è reso a discrezione; d. i dichiarare che non sarà dato quartiere; e. i far uso di armi, proiettili o materie atti a cagionare inutili sofferenze; f. i abusare della bandiera parlamentare, della bandiera nazionale, delle insegne militari e dell’uniforme del nemico, nonché dei segni distintivi della Convenzione di Ginevra; g. i distruggere o di sequestrare proprietà nemiche, salvochè tali distruzioni e sequestri fossero imperiosamente richiesti dalle necessità della guerra.
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effettuata era quella tra jus ad bellum e jus in bello: se con la prima locuzione si fa
riferimento alle circostanze in cui si ritiene lecito il ricorrere alla guerra per
risolvere un contrasto sorto tra due Nazioni, lo jus in bello precisa le regole che
devono necessariamente essere rispettate una volta che il conflitto abbia avuto
inizio6. Fino alla Prima Guerra Mondiale, invero, il diritto internazionale
poneva su di un piano paritario i belligeranti, e va altresì ricordato che regole
scritte esistevano solo per quanto riguardava le modalità di attuazione della
potenza bellica da parte degli eserciti degli Stati, e non sussistevano al contrario
norme giuridiche aventi l’obiettivo di vietare il ricorso alla guerra quale mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali o di limitarne la possibilità di messa
in pratica da parte delle Nazioni: è infatti a partire dal 1899, grazie all’adozione
della Convenzione dell'Aja per il regolamento pacifico dei conflitti
internazionali, che si pongono alcune regole specifiche riguardanti le
caratteristiche pratiche dello svolgimento dell’atto bellico. La Convenzione,
infatti, coadiuvata poi da una successiva, firmata nel 1907, oltre a premere per
una risoluzione pacifica dei dissidi internazionali7 istituì la figura del mediatore
quale aiuto nella conclusione pacifica dei disaccordi fra Stati (art. 3): il ruolo del
mediatore, rappresentato da Potenze estranee alla questione, era quello di offrire
il proprio aiuto e la propria mediazione nel tentativo di risolvere in maniera
6 Per jus in bello si vedano, ad esempio, gli articoli contenuti nei Capitoli I, II e III della Sezione I della Convenzione internazionale dell’Aja su leggi ed usi della guerra terrestre, 18 Maggio - 29 Luglio 1899: questi riguardavano, infatti, i regolamenti da rispettarsi sui prigionieri di guerra, sui malati ed i feriti in battaglia. La Sezione II, invece, fa riferimento a questioni inerenti le ostilità vere e proprie, quali stratagemmi di guerra, assedi o saccheggi, proseguendo, nei Capitoli II, III, IV e V in altre regolamentazioni, tra cui si sottolineano la capitolazione e l’armistizio. Il testo integrale della Convenzione internazionale dell’Aja su leggi ed usi della guerra terrestre è disponibile presso il sito internet: http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=20041031201007. 7 Convenzione dell’Aja per il regolamento pacifico dei conflitti internazionali, 29 luglio 1899, Titolo I del mantenimento della pace generale.
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pacifica il dissidio internazionale8. Per la prima volta, inoltre, la Convenzione
dell’Aja creò una Commissione Internazionale d’Inchiesta (Titolo III, art. 9),
che, pur con tutte le premesse ed attenzioni necessarie nell’istituzione di
un’entità avente poteri di giudizio sulle diatribe tra Stati, ancor più in un periodo
così pregno di conflitti generalizzati quale quello in cui si trovava la Comunità
internazionale a cavallo tra il XIX e il XX secolo, era chiamata a favorire il buon
esito del litigio, mettendo in luce, in modo imparziale e razionale, i fatti
verificatisi e le argomentazioni avanzate dagli Stati9.
1.3 - La limitazione dell’uso della forza nella Società delle Nazioni:
I primi tentativi di codificazione di principi in materia di uso della forza
risalgono all’inizio del XX secolo, portando con sè i primi risultati effettivi.
L’orrore della Prima Guerra Mondiale aveva sconvolto l’umanità tutta,
mettendo l’intera Comunità internazionale di fronte alla necessità di trovare
strumenti di risoluzione delle controversie tra Stati che fossero alternativi all’uso
8 Convenzione dell’Aja per il regolamento pacifico dei conflitti internazionali, 29 luglio 1899, articolo 3: “Potenze estranee al conflitto [che] offrano di loro propria iniziativa, in quanto le circostanze si prestino, i propri buoni uffici e mediazione agli Stati in conflitto”. 9 Convenzione dell’Aja per il regolamento pacifico dei conflitti internazionali, 29 luglio 1899, Titolo IV dell’Arbitrato Internazionale: “[…] incaricata di facilitare la soluzione di questi litigi chiarendo, con esame imparziale e coscienzioso, le questioni di fatto”.
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della forza. L’impressionante numero di caduti su tutti i fronti10, la sanguinosità
degli scontri tra gli eserciti in campo e i danni che buona parte dei Paesi
partecipanti avevano riportato tra il 1914 ed il 1918, avevano lasciato un segno
indelebile anche in coloro che inizialmente erano più restii alla creazione di una
organizzazione sovrastatale avente il compito di regolamentare i rapporti tra
Stati, risolvere in modo pacifico ogni tipo di contrasto internazionale, e
soprattutto investita dei poteri necessari ad imporre alcuni obblighi ai Membri11.
Punto di partenza del sistema creato dalla Società delle Nazioni (che costituisce
pertanto il primo tentativo, anche se poi rivelatosi non efficace, di codificare e
regolamentare norme aventi quale obiettivo il non ricorso all’uso delle armi nella
gestione dei rapporti tra le Nazioni) è rappresentato dall’articolo 10 del Patto
costitutivo, il quale affermava che gli Stati membri della Società delle Nazioni
assumevano il compito di mantenere inviolata l’integrità del territorio e
l’indipendenza politica di ogni altro Stato facente parte della Società, e di
proteggere le Nazioni membro da eventuali aggressioni esterne, tramite un
Consiglio adibito a decidere in che modo agire in loro difesa12.
Sottintendendo con tale articolo l’ovvio divieto degli Stati contraenti di nuocere
all’integrità territoriale di un’altra Nazione, Membro o terza che sia, esso
coinvolge i partecipanti al Patto nella difesa e protezione di uno di essi contro
un’eventuale aggressione esterna, che possa metterne in pericolo l’indipendenza,
l’integrità o la stessa esistenza.
10 Si ritiene che il primo conflitto mondiale abbia causato un perdita di vite umana quantificabile in circa quindici milioni di caduti, comprendendo tra queste anche le vittime del cosiddetto massacro degli Armeni; tale informazione è reperibile sul sito http://www.carloanibaldi.com/tribute/cifre.htm. 11 J.-B. Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, Edizioni LED, 1998 12 Patto della Società delle Nazioni, articolo 10: “I Membri della Società si impegnano a rispettare, e a proteggere contro ogni aggressione esterna, l'integrità territoriale e l'attuale indipendenza politica di tutti i Membri della Società. In caso di aggressione, minaccia o pericolo di aggressione, il Consiglio avviserà ai modi nei quali quest'obbligo dovrà essere adempiuto”.
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La stessa produzione nonché il mantenimento e stoccaggio di materiale bellico
presenti all’interno dei singoli Stati contraenti doveva essere ridotto e circoscritto
al limite minimo compatibile con la sicurezza dello Stato e con l'azione comune
intesa ad assicurare l'adempimento degli obblighi internazionali13. Questi
particolari obblighi (concretamente l’obbligo alla limitazione degli armamenti e
il divieto dell’uso della forza e pertanto della guerra quale strumento di offesa
illecita) venivano completati dall’instaurazione di una Corte permanente di
giustizia internazionale, che nel Patto costitutivo figurava solo come un
progetto, da sottoporre successivamente all’attenzione dei singoli Membri (art.
14), avente la competenza per conoscere e decidere ogni vertenza di carattere
internazionale che le Parti le avessero sottoposto, ed esprimere quindi un parere
su qualunque controversia o questione deferitale dal Consiglio o
dall'Assemblea14. A quest’ultimo riguardo è da notare che ai fini del
raggiungimento dell'unanimità non si teneva conto del voto degli Stati interessati
alla controversia, i quali avevano l'obbligo di astenersi. Inoltre, il Patto imponeva
una moratoria ai sensi della quale gli Stati erano tenuti ad astenersi dall'uso della
forza per un periodo di tre mesi dopo la decisione arbitrale o giudiziaria della
controversia o dopo il rapporto del Consiglio.
13 Patto della Società delle Nazioni, articolo 8: “I Membri della Società riconoscono che, per mantenere la pace, occorre ridurre gli armamenti nazionali al limite minimo compatibile con la sicurezza dello Stato e con l'azione comune intesa ad assicurare l'adempimento degli obblighi internazionali”. Il Consiglio, tenendo conto della posizione geografica e delle circostanze di ogni Membro della Società, redigerà i programmi di questa riduzione, affinché i vari Governi li esaminino e provvedano. 14 Patto della Società delle Nazioni, articolo 14: “Il Consiglio formulerà e sottoporrà ai Membri della Società un progetto per la istituzione di una Corte permanente di giustizia internazionale. La Corte sarà' competente per conoscere e decidere ogni vertenza di carattere internazionale che le Parti le sottopongano. La Corte potrà anche esprimere un parere su qualunque controversia o questione deferitale dal Consiglio o dall'Assemblea”.
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La Società delle Nazioni non condannava pertanto la guerra in sè, ma solo la
guerra "ingiusta", cioè aggressiva, eventualmente portata avanti dalle Nazioni15.
E’ infatti lo stesso preambolo del Patto della S.d.N. ad affermare come per
perseguire l’obiettivo della pace e della sicurezza tra le Nazioni fosse necessario
“l’impegno di non ricorrere in determinati casi alle armi”16. Inoltre, la Società delle
Nazioni prevedeva, in caso di violazione di una o più delle norme dettate nel suo
Patto costitutivo, la possibilità di intervenire con sanzioni economiche e militari,
in alcuni ambiti simili a quelle attualmente messe in pratica dalle Nazioni
Unite17: tuttavia, queste disposizioni, anche perché utilizzate in maniera poco
efficace o limitata, non riuscirono mai a risolvere alcuna crisi presentatasi sulla
scena internazionale. Nei fatti, pertanto, la Società si mostrò essere un fallimento
(e fu concretamente sciolta il 18 aprile del 1946, alla vigilia, cioè, della
Conferenza di San Francisco che diede vita all’Organizzazione delle Nazioni
Unite, che nelle intenzioni degli Stati aderenti doveva sostituire la Società delle
Nazioni18), e molte delle speranze che essa era riuscita a far scaturire nei popoli
andarono perdute di fronte all’incapacità dell’Istituzione di far realmente fronte
15 Fedozzi, Introduzione al diritto internazionale, Parte Generale , in Trattato di D.I. a cura di Fedozzi e Romano, Padova 1940. 16 Preambolo del Patto della Società delle Nazioni: “Allo scopo di promuovere la cooperazione internazionale, realizzare la pace e la sicurezza degli Stati, mercè: l'impegno di non ricorrere in dati casi alle armi; lo stabilimento di rapporti palesi, giusti e onorevoli fra le Nazioni; il fermo riconoscimento delle regole del diritto internazionale come norme effettive di condotta fra i Governi; l'osservanza della giustizia e il rispetto scrupoloso di ogni trattato nelle relazioni reciproche dei popoli civili”. 17 Patto della Società delle Nazioni, articolo 16: “Qualora uno dei Membri della Società ricorra alla guerra, in violazione dei patti di cui agli articoli 12, 13 e 15, sarà considerato ipso facto come colpevole di aver commesso un atto di guerra contro tutti gli altri Membri della Società, i quali si impegnano fin d'ora a interrompere immediatamente ogni rapporto commerciale e finanziario col medesimo, a proibire ogni traffico fra i propri cittadini ed i cittadini dello Stato contravventore, e ad interdire ogni rapporto finanziario, commerciale o personale fra i cittadini dello Stato contravventore e i cittadini di qualsiasi altro Stato, sia o non sia Membro della Società. Sarà in tal caso dovere del Consiglio di raccomandare ai vari Governi interessati quali forze militari, navali od aeree dovranno essere fornite da ciascuno dei Membri della Società come contributo alle forze armate destinate a proteggere i patti sociali”. 18 La necessità di una Organizzazione internazionale che riuscisse laddove la Società delle Nazioni aveva fallito, vale a dire nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale con la
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alle situazioni più gravi che le si posero davanti nei suoi vent’anni di attività. Già
al momento della nascita della S.d.N., inoltre, un duro colpo venne inflitto alla
credibilità e stabilità dell’Ente: gli Stati Uniti non ratificarono il Patto della
Società delle Nazioni, non entrandone, dunque, mai a far parte, nonostante
fossero stati il principale centro motore delle trattative precedenti la stipulazione
del Patto, e ancor prima vero fautore e propositore dell’istituzione di un organo
sovranazionale avente il compito di disciplinare gli Stati e instaurare un duraturo
periodo di pace, idea avanzata in tal senso dallo stesso Presidente Wilson, che
portò avanti l’ipotesi dell’istituzione di una "Società Generale delle Nazioni" che
dovesse "fornire garanzie reciproche di indipendenza politica e territoriale ai
piccoli come ai grandi stati". Questa assenza pesò indubbiamente sulla capacità
operativa dell’Organo stesso, privo della maggiore potenza economica e militare
del pianeta.
La Società delle Nazioni non era mai stata, nell'intenzione dei fondatori, una
federazione di stati o un superstato, per via delle ancora troppo forti reticenze
che da molte parti provenivano sulla possibilità di cedere parte del proprio potere
sovrano (in modo particolare nell’ambito militare) ad un’organismo esterno
capace quindi anche di influire attivamente sulle decisioni prese dai singoli Paesi
e di imporre alcuni comportamenti limitando in tal modo l’assoluta libertà dei
governanti; specie da parte britannica si era manifestata la costante tendenza a
ridurre al minimo le attribuzioni dei suoi organi. Nella rielaborazione dei valori
morali e politici del primo dopoguerra cominciò a farsi strada più
insistentemente l'opinione che, per opporsi efficacemente al nazionalismo, lo
prevenzione e la risoluzione pacifica delle crisi internazionali, era ampiamente sentita dagli Stati alla conclusione del secondo conflitto mondiale. Per i riferimenti bibliografici si veda la nota 10.
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stato nazionale doveva essere sostituito da quello continentale e che l'Europa
dovesse organizzarsi in federazione19.
L’incapacità di rispondere in modo valido alle diverse situazioni di minaccia alla
pace o di violazioni delle norme contenute nel Patto, come nel caso
dell’invasione italiana all’Etiopia del 193520, e la consapevolezza da parte degli
Stati che l’effettiva potenza d’azione della S.d.N. fosse limitata alla sola
imposizione di sanzioni morali o comunque tali da non essere in grado di frenare
un’aggressione o un’azione armata nei confronti di un altra Nazione, posero la
parola fine sull’esistenza della Società. La formalizzazione del suo scioglimento,
tuttavia, arriverà solo dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale,
quando sulle sue ceneri verrà costituita l’Organizzazione delle Nazioni Unite.
1.4 - Il divieto del ricorso alla guerra: il patto Briand – Kellogg:
Nel corso della seconda metà degli anni ’20 la congiuntura economica mondiale
conosceva un periodo florido, accompagnato inoltre da un’ampia fiducia
generale sul sistema di sicurezza collettiva sino a quel momento costituito, che
proprio in quegli anni conosceva il suo apogeo: cominciava a prendere corpo,
soprattutto nel Primo Ministro francese Aristide Briand, l’idea di cercare di far
entrare nel sistema di sicurezza collettivo della Società delle Nazioni anche i due
grandi assenti, Stati Uniti e Germania. Il Primo Ministro francese rivolse infatti
un messaggio al popolo americano in occasione del 10° anniversario dell’ entrata
in guerra degli Stati Uniti (la dichiarazione di guerra degli Stati Uniti venne
19 A. Giardina, Diritto internazionale ed uso della forza, Università La Sapienza Roma. 20 A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, L’Età contemporanea, Edizioni Laterza, 1999
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consegnata al governo tedesco il 6 Aprile 191721), messaggio in cui era contenuta
la proposta di un mutuo impegno da parte dei due Paesi di rinunciare alla guerra
come strumento politico. Fu nel Dicembre dello stesso anno che il segretario di
Stato americano, Kellogg, rispose alla nota francese, allargando addirittura il
raggio d’azione dell’accordo, proponendo la firma di un vero e proprio patto di
rinuncia alla guerra; un trattato che non sarebbe stato semplicemente bilaterale,
come inizialmente proposto da Briand, ma che si sarebbe allargato a tutte le
Nazioni che avessero voluto farne parte. Questo tentativo americano sollevò
alcune difficoltà, in quanto la Francia, quale membro della Società delle
Nazioni, non poteva rinunciare in modo definitivo alla guerra, prevista in alcuni
casi come sanzione. Superate le difficoltà a seguito dell’accettazione da parte
degli Stati Uniti delle condizioni proposte dalla Francia per poter partecipare al
progetto, quali la concezione universale del patto, l’esclusione nel caso della
legittima difesa e l’annullamento del trattato in caso di violazione dello stesso da
parte di uno dei Membri, il 27 agosto 1928 il “Patto di rinuncia generale alla
guerra” veniva firmato a Parigi da quindici potenze22, che diventeranno poi 57,
comprensivi anche di alcune Nazioni (nove per l’esattezza) che non avevano
aderito alla S.d.N., tra cui URSS (che aveva inizialmente condannato il trattato,
decidendo di firmare un protocollo indipendente ma analogo valido solo per
l’Europa orientale presentato da Litvinov, sostituto di Cicerin - allora malato -
nel ruolo di Commissario del popolo agli Esteri), Stati Uniti, Turchia e Messico.
Esso era composto da due articoli principali, il primo condannava il ricorso alla
guerra nel regolamento delle controversie internazionali e proponeva pertanto la
21 A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, L’Età contemporanea, Edizioni Laterza, 1999 22 I quindici Stati firmatari del Patto, depositato a Washington, D.C. e proclamato il 24 Luglio 1929, erano: Stati Uniti, Australia, Canada, Cecoslovacchia, Germania, Gran Bretagna, India, Irlanda, Italia, Nuova Zelanda, Sud Africa, Polonia, Belgio, Francia e Giappone.
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rinuncia ad essa come mezzo politico23, il secondo, invece, inseriva il riferimento
all’uso di mezzi pacifici per risolvere le contraddizioni tra gli Stati24.
Questo patto va considerato a ragion veduta come l’apogeo dell’ondata pacifista,
giungendo in un periodo in cui la tendenza alla continua stipulazione di trattati
da parte degli Stati per regolamentare ogni ambito dei loro rapporti era
incondizionata, e la diplomazia internazionale, nel tentativo di portare nuovi
risultati nella limitazione dell’uso della forza, riteneva che la firma di molti patti
tra Stati, anche anodini, potesse far aumentare la fiducia reciproca e
conseguentemente il rispetto degli accordi25. Anche il Patto di Parigi, seppure
estendesse il divieto di ricorso alla guerra anche alle ipotesi in cui questa non
sarebbe stata vietata dal Patto della Società delle Nazioni, non bandiva l'impiego
di altri mezzi di violenza militare diversi dalla guerra, quali la rappresaglia e
l'intervento26. Tuttavia l’accordo conteneva norme di consistente importanza sul
piano giuridico per gli Stati contraenti, come evidenziato al suo art. 1, in cui le
parti condannano il ricorso alla guerra per la risoluzione delle divergenze
internazionali e s’impegnano a rinunziare a usarla come strumento di politica
nazionale nelle loro relazioni reciproche; in tal senso le Nazioni aderenti al Patto
riconoscono che il regolamento o la risoluzione di tutte le divergenze o conflitti
che avessero a nascere tra di loro, non dovrà mai essere cercato se non con mezzi
pacifici. L’assenza nelle disposizioni dell’accordo di qualsiasi organo o
procedimento incaricato di opporsi ad un eventuale verificarsi di una crisi
23 Patto Briand – Kellogg, articolo 1: “The High Contracting Parties solemnly declare in the names of their respective peoples that they condemn recourse to war for the solution of international controversies, and renounce it, as an instrument of national policy in their relations with one another”. 24 Patto Briand – Kellogg, articolo 2: “The High Contracting Parties agree that the settlement or solution of all disputes or conflicts of whatever nature or of whatever origin they may be, which may arise among them, shall never be sought except by pacific means”. 25 J.-B. Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, Edizioni LED, 1998
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internazionale renderanno il Trattato incapace di agire in difesa della pace,
facendo così decadere gli insindacabili principi presenti nel Patto sul
mantenimento della sicurezza internazionale. Proprio tale carenza porterà negli
anni successivi ad un nuovo conflitto mondiale.
1.5 - La Carta delle Nazioni Unite e la disciplina dell’uso della forza:
La Società delle Nazioni fu egemonizzata al suo interno dalle uniche potenze
presenti, in particolar modo Gran Bretagna e Francia, e non riuscì mai a svolgere
il compito che le era stato affidato dal suo Patto costitutivo, né riuscì a risolvere
positivamente alcuna delle crisi internazionali che si presentarono nel corso del
ventennio tra le due guerre: l’invasione italiana all’Etiopia, l’aggressione
giapponese in Manciuria, territorio cinese, l’escalation di espansione nazista
iniziata con l’Anschluss nel marzo del 1938 e l’annessione della Boemia e
culminata con l’attacco alla Polonia del 1° settembre 1939.
Lo scoppio della seconda Guerra Mondiale segnò in pratica la fine della Società
delle Nazioni, e infatti già durante gli anni del conflitto furono poste le prime
basi di un nuovo sistema di sicurezza collettiva capace di stabilizzare i rapporti
tra Stati ed assicurare un lungo periodo di pace. Già nell’agosto del 1941
Churchill e Roosevelt concordarono il documento che prese il nome di Carta
Atlantica, il quale prospettava “l’istituzione di un sistema di sicurezza generale
26 Mandels tam, L'interprétation du Pacte Briand-Kellog par les gouvernements et les parlements des
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stabilito su basi più larghe”. Nel gennaio dell’anno successivo le Nazioni in
guerra contro Germania e Giappone firmarono la Dichiarazione delle Nazioni
Unite, documento cui si aggiunse, grazie alle pressioni americane, anche
l’Unione Sovietica, seppure nell’ottobre del ’43. Fu però solo grazie alla doppia
conferenza di Dumbarton Oaks, a Washington, tra anglosassoni e sovietici
prima e con i rappresentanti cinesi poi, e nella conferenza di Yalta, sul Mar
Nero, nel marzo del 1945 che accordi più chiari e definitivi venivano raggiunti
dai Paesi vincitori del conflitto, punti quali la composizione strutturale
dell’Organizzazione, l’instaurazione della posizione permanente dei 4 paesi nel
Consiglio di Sicurezza (la Francia venne inserita solo successivamente, alla firma
della Carta), il diritto di veto dei Membri permanenti. Tra il 25 aprile 1945 e il 25
giugno dello stesso anno si riunì la Conferenza di San Francisco, che fissò la
Costituzione della nuova Organizzazione e diede vita alla Carta delle Nazioni
Unite, che entrerà poi in vigore il 25 ottobre dello stesso anno27.
Il proposito dei legislatori della Carta di San Francisco, di fronte alle atroci
sofferenze che le due guerre mondiali avevano arrecato alle popolazioni nel
corso dei primi cinquant’anni del secolo28, era quello di creare un’organizzazione
nuova, non costruita sul modello della Società delle Nazioni, dimostratasi
inefficace, il cui patto costitutivo era stato invece inserito nel testo dei trattati di
pace del 1919, e pertanto capace di far fronte alle crisi internazionali ed alle
minacce alla pace e alla sicurezza internazionali.
La Carta delle Nazione Unite, stabilendo quale obiettivo principale per gli Stati
contraenti il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, indica i
Etat signataires, Rev, GDIP 1933. 27 E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Roma -Bari, Laterza, 2000.
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mezzi con cui raggiungere tale fine, ricorrendo, cioè, a misure collettive che
permettano di arginare e prevenire le minacce alla pace o gli atti di aggressione,
agendo in modo da controllarne l’andamento e anticiparne la concretizzazione29.
La Carta mostra, inoltre, la consapevolezza che il raggiungimento di un
obiettivo così impegnativo non può prescindere dalla soluzione dei problemi di
carattere economico, sociale, culturale e dalla tutela dei diritti dell’individuo30.
Questa varietà assoluta d’intenti e di campi d’applicazione pratica31 su cui
l’Organizzazione, tramite i diversi organi che la compongono, è in grado di
operare per l’ottenimento dei fini prestabiliti, evidenzia il suo carattere
universale, e la volontà dei legislatori di renderla un ente operante in tutti i
settori, non solo quello proprio del diritto internazionale riferito alla giuridicità
del Trattato.
Tre sono i principi fondamentali sui quali si basa il sistema di sicurezza creato
dalle Nazioni Unite per quanto riguarda l’uso della forza:
- l’obbligo per i Membri di astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla
minaccia o dall’uso della forza, di cui all’art. 2 par. 432;
28 Preambolo della Carta delle Nazioni Unite, San Francisco, 25 giugno 1945: “decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all'umanità”. 29 Carta delle Nazioni Unite, Capitolo I, art. 1, par. 1: “I fini delle Nazioni Unite sono: Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo fine: prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni alla pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai principi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace”. 30 Commento breve allo Statuto dell’ONU, La Carta delle Nazioni Unite, Edizioni Simone, 2000. 31 Carta delle Nazioni Unite, Capitolo I, art. 1, par. 3: “Conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale od umanitario, e nel promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione”. 32 Carta delle Nazioni Unite, articolo 2, paragrafo 4: “I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”.
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- il diritto naturale di legittima difesa individuale o collettiva, in caso di
attacco armato contro l’integrità di un Membro delle Nazioni Unite, di
cui all’art. 5133;
- il sistema di sicurezza collettiva ad opera del Consiglio di Sicurezza, di
cui al capitolo VII della Carta.
1.5.1 - Il divieto della minaccia o dell’uso della forza:
Il divieto dell’uso della forza imposto ai Membri non ha derivazioni unicamente
pattizie, ma ha riferimenti consolidati anche nel diritto internazionale
consuetudinario34. I limiti imposti non si riferiscono solo all’uso della forza
diretta verso l’esterno, sotto forma di violenza di tipo bellico (c.d. Forza
internazionale), ma anche all’uso della forza indirizzata verso l’interno, nei
confronti degli individui, persone fisiche o giuridiche, e dei loro beni (c.d. Forza
interna). La citata forza interna è quel potere di governo, o di sovranità, esplicato
sugli individui e sui loro beni. In particolare, il potere di governo delimitato dal
33 Carta delle Nazioni Unite, articolo 51: “Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”. 34 Le norme consuetudinarie internazionali sono il risultato di due elementi distinti, che devono sussistere contemporaneamente: il primo, di carattere oggettivo, rappresentato dalla necessità che un determinato comportamento sia ripetuto in modo costante ed univoco nel corso del tempo. Il secondo, di carattere soggettivo, è rappresentato invece dall’opinione che i soggetti di diritto internazionale (primi tra tutti gli Stati) che il comportamento stesso corrisponda a quanto previsto dalla norma. L’articolo 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, infatti, facendo riferimento alle norme di natura consuetudinaria come prova di una pratica generale accettata come diritto, descrive tale consuetudine internazionale come convivenza della “pratica generale” e dell’ ”accettazione come diritto” da parte dei soggetti internazionali, che considerino l’obbligatorietà (o il divieto) dell’azione quale valore insindacabile della loro prassi.
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diritto internazionale è quel potere esercitato dallo Stato nel suo territorio, ma
con riguardo al potere d’imperio dello Stato ovunque esplicato.
L’articolo in questione vieta non solo l’uso della forza, ma anche la minaccia di
tale uso; a questo proposito, per identificare con precisione quali situazioni
possano essere considerate un’aggressione internazionale (pertanto rivolta da
uno Stato o un ente statale verso un altro), l’Assemblea Generale dell’ONU, con
la sua Risoluzione 3314 (XXIX) del 14 dicembre 1974, ha precisato che come
tale deve intendersi, che vi sia stata o meno dichiarazione di guerra, una
situazione rappresentata da invasioni o attacchi portati da uno Stato sul territorio
di un’altra Nazione, sia che essa implichi o meno un’annessione o
un’occupazione perpetua o temporanea. Il punto cruciale, in tal senso, è il
ricorso all’uso della forza, quale il bombardamento o l’uso di qualunque altro
mezzo bellico contro il territorio di un altro Stato o le sue forze militari (aeree,
navali o terrestri). La Risoluzione in questione inserisce nell’elenco delle azioni
definibili come aggressioni internazionali, quindi quali veri e propri atti di
guerra, anche il blocco dei porti o delle coste di una Nazione se effettuato per
mezzo delle forze armate di un’altra, o ancora l’invio di bande, gruppi armati o
mercenari che, per ordine di uno Stato, si dedichino ad atti violenti quali quelli
sopra descritti contro il territorio, la popolazione o l’esercito del Paese contro cui
agiscono. Infine, il caso in cui uno Stato, avente messo a disposizione di un’altra
Nazione il proprio territorio, ammetta che esso viene sfruttato dallo Stato
ospitato per perpetrare azioni di guerra contro il territorio, le forze armate o le
popolazioni di uno Stato terzo35.
35 Risoluzione 3314 (1974), descrive le caratteristiche che deve avere una situazione per essere definita aggressione internazionale: (a) L’invasione o l’attacco del territorio di uno stato da parte delle forze armate di un altro Stato, o qualsiasi occupazione militare, anche temporanea, risultante da tale
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Se fino ad allora la comprensione di quali azioni potessero essere considerate
come un uso indebito della forza verso l’integrità territoriale di un altro Stato era
difficile e in parte anche arbitrario, la Risoluzione 3314 del 1974 ha chiarito
molti dubbi in proposito: appare evidente come ipotesi limite siano comunque
chiare, quali un ultimatum o l'invio di forze militari ai confini di uno Stato
straniero o in sua prossimità con intenti non pacifici. Nessuna esitazione, quindi,
sul fatto che un’azione militare o addirittura un atto di guerra contro l’integrità
territoriale di un altro Stato o di una parte di esso sia in netto contrasto con il
principio indicato dall’art. 2 par. 4 della Carta, e che pertanto costituisca in tal
senso un illecito internazionale. La particolare gravità del fatto illecito in
questione è sottolineata dal “Progetto di articoli sulla responsabilità
internazionale degli Stati” approvato dalla Commissione di diritto
internazionale in occasione della sua 48a sessione (6 maggio - 26 luglio 1996):
in tale sede, la Commissione del Diritto internazionale delle Nazioni Unite,
avente il compito di codificare il diritto internazionale, all’art. 19, evidenzia
come un qualsiasi atto che rappresenti una violazione di un obbligo
internazionale, sia un atto internazionalmente illecito, quale che sia l’obbligo
violato o il divieto non rispettato. Inoltre, il secondo punto dell’articolo 19
invasione o da tale attacco, o qualsiasi annessione ottenuta con l’impiego della forza del territorio o di una parte del territorio di un altro Stato; (b) Il bombardamento, da parte delle forze armate di uno Stato, del territorio di un altro Stato, o l’impiego di qualsiasi arma da parte di uno Stato contro il territorio di un altro Stato; (c) Il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato; (d) L’attacco portato dalle forze armate di uno Stato contro le forze armate terrestri, navali o aeree, o la marina e l’aviazione civile di un altro Stato; (e) L’utilizzo delle forze armate di uno Stato che stazionano sul territorio di un altro con l’accordo dello Stato che le accoglie, contrariamente alle condizioni previste nell’accordo o ogni prolungamento della loro presenza sul territorio in questione oltre il termine dell’accordo; (f) Il fatto per uno Stato di ammettere che il proprio territorio, che è stato messo a disposizione di un altro Stato, sia utilizzato da questo ultimo per perpetrare un atto di aggressione contro un Stato terzo; (g) L’invio da parte di uno Stato o in suo nome di bande o gruppi armati, di forze irregolari o di mercenari che si dedichino ad atti di forza armata contro un altro Stato di una gravità tale che equivalgano agli atti sopra elencati, o il fatto d’impegnarsi in maniera sostanziale in una tale azione.
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descrive come crimine internazionale ogni atto internazionalmente illecito che
nasca dalla violazione commessa da uno Stato di un obbligo internazionale
considerato tanto essenziale, dalla comunità internazionale nel suo insieme, per
i suoi interessi fondamentali36.
Il punto terzo dell’articolo citato evidenzia, al suo primo comma, come “una
violazione grave di un obbligo internazionale di importanza essenziale per il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, quale quello che vieta
l’aggressione”, di cui all’art. 2 par. 4 della Carta delle Nazioni Unite, debba
essere a tutti gli effetti considerata un crimine internazionale, secondo le norme
di diritto internazionale in vigore.
La Carta ha inoltre una particolare forza nei confronti delle altre fonti di diritto
internazionale. Infatti, l’articolo 103 prevede che qualsiasi accordo
internazionale precedente o successivo allo Statuto delle Nazioni Unite che
risulti in contrasto con esso non avrà valore, essendo prevalenti le disposizioni
contenute nel patto costitutivo dell’ONU37. Tale principio, inderogabile, trova
un’ulteriore punto di forza grazie alla Convenzione di Vienna sul diritto dei
trattati, conclusa nella capitale austriaca il 23 maggio 1969, la quale, malgrado al
suo articolo 30 affermi come debbano essere considerati validi entrambi i trattati
che si trovino in una situazione d’incompatibilità tra loro, di modo tale da far
rilevare la responsabilità internazionale dello Stato, allo stesso art. 30 dispone
36 Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati della Commissione di diritto internazionale, luglio 1996, articolo 19: “(a) Un atto di uno Stato che costituisce una violazione di un obbligo internazionale è un atto internazionalmente illecito quale che sia l’oggetto dell’obbligo violato; (b) Un atto internazionalmente illecito, che risulta dalla violazione da parte di uno Stato di un obbligo internazionale tanto essenziale per la protezione di interessi fondamentali della comunità internazionale che la sua violazione è riconosciuta come un crimine da tale comunità nel suo insieme, costituisce un crimine internazionale”. 37 Carta delle Nazioni Unite, articolo 103: “In caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto”.
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una importante deroga a favore della Carta delle Nazioni Unite, secondo cui gli
obblighi verso l’ONU prevalgono sempre su qualsiasi altro impegno assunto in
base ad altri trattati, sia esso precedente o successivo38. Proprio l’art. 103
costituisce il fondamento del principio secondo cui l’Organizzazione delle
Nazioni Unite sarebbe gerarchicamente superiore ad ogni altra organizzazione
internazionale, abbia essa carattere regionale o universale39. Seguendo i dettami
di questo articolo, dunque, nessun accordo bilaterale o multilaterale, nessun
Trattato internazionale, né alcun soggetto di diritto internazionale, possono
avere o applicare norme che vadano in contrasto con i principi delle Nazioni
Unite, siano essi obblighi o divieti per gli Stati membri.
Il principio del divieto per gli Stati all’uso o alla semplice minaccia dell’uso della
forza nelle loro relazioni internazionali, nonché il suo carattere fondamentale
nelle relazioni internazionali non in conformità con la Carta delle NU è stato
consacrato nella sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 27 giugno
1986 sul caso delle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il
Nicaragua (Nicaragua/Stati Uniti d’America): la Corte ha affermato, con tutta
l'autorevolezza del supremo organo giurisdizionale internazionale, che il
principio di cui all'art. 2 par. 4 rappresenta anche un principio di diritto
internazionale consuetudinario generale40. Secondo tale fatto, l’obbligo per gli
Stati di esimersi dall’uso della forza armata nelle loro relazioni internazionali
risulta valevole pertanto per tutti gli Stati e non solo per gli Stati membri
dell’ONU41. La Dichiarazione del 1986 ha riconosciuto al divieto carattere di
38 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, Vienna, 23 maggio 1969. 39 Carta delle Nazioni Unite, cfr. artt. 52-54 e 56-57. 40 B. Conforti, Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, VI edizione 2002, Napoli, pag. 187 e 375. 41 Corte Internazionale di Giustizia, sentenza sulle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua: tra gli altri, punto 23: “As a matter of law, Nicaragua claims, inter alia, that the United
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norma «universale». Il divieto viene qualificato così come principio
fondamentale o essenziale del diritto internazionale generale e indicato come
l'esempio maggiore di norma di jus cogens. A questo proposito è la Convenzione
di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969 a dare una definizione
astratta e indeterminata dello jus cogens in relazione alla invalidità degli accordi
internazionali. Secondo il relativo art. 53, infatti, solo allorquando una norma
universalmente accettata, riconosciuta ed applicata non può essere in alcun
modo derogata, ed in ogni caso può essere modificata unicamente tramite una
nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere, questa
risulta essere una norma imperativa del diritto internazionale generale42. Nella
sua sentenza sulle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il
Nicaragua, la Corte ha affermato che non può considerarsi una minaccia
dell’uso della forza armata un “notevole livello di armamento”, cioè un aumento
esponenziale dell’apparato militare di uno Stato, benché possa essere
diversamente interpretato da un'altra Nazione.
Va altresì considerato che il divieto imposto dalla Carta all’art. 2 par. 4 colpisce
la minaccia o l’uso della forza armata quando esso sia diretto “contro l’integrità
territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato” nonché quello attuato “in
qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”. Viene
pertanto eliminata in modo definitivo ogni interpretazione alternativa che
preveda un uso diverso della forza armata: a questo proposito vanno intesi come
illeciti interventi comprendenti un’azione militare compiuti da uno Stato sul
States has acted in violation of Article 2, paragraph 4, of the United Nations Charter, and of a customary international law obligation to refrain from the threat or use of force”. 42 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, articolo 53: “[è] una norma imperativa del diritto internazionale generale una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo insieme come norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da una nuova norma del diritto internazionale generale avente lo stesso carattere”.
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territorio di uno Stato terzo, anche se questi vengono effettuati per la
salvaguardia o la protezione di propri cittadini in pericolo di vita all’interno dei
confini di un altro Stato. Alla stessa maniera devono essere considerati illeciti
interventi umanitari su territorio straniero qualora essi siano intrapresi senza
previa richiesta dello Stato bisognoso, o in modo unilaterale ed ingiustificato,
nonché la cosiddetta legittima difesa preventiva. La volontà dei legislatori della
Carta delle Nazioni Unite sembra infatti dover essere interpretata come
un’assoluta messa al bando dell’uso della forza da parte degli Stati e la stessa
incompatibilità con i fini delle Nazioni Unite manifesta l’intento di dare
completezza al divieto43. Tale divieto assume pertanto carattere assoluto.
Essendo tale imposizione al comportamento degli Stati rivolta unicamente
all’ambito che concerne le relazioni internazionali, essa rimane estranea all’uso
interno della forza armata: sussiste pertanto per gli Stati terzi l’impossibilità di
ingerenza negli affari interni di un altro Paese qualora esso sia afflitto da una
guerra civile. È l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella sua
“Dichiarazione sulla inammissibilità dell’intervento negli affari interni dello
Stato”44, ad imporre questo obbligo. La stessa Assemblea Generale nella
43 Uso della Forza, Dispense di diritto internazionale, www.studiamo.it. 44 Dichiarazione sull’inammissibilità dell’intervento negli affari interni dello Stato e nella protezione della loro indipendenza e sovranità, Assemblea Generale delle Na zioni Unite, Risoluzione 2131 (XX), 21 dicembre 1965: “1. No State has the right to intervene, directly or indirectly, for any reason whatever, in the internal or external affairs of any other State. Consequently, armed intervention and all other forms of interference or attempted threats against the personality of the State or against its political, economic and cultural elements, are condemned. 2. No State may use or encourage the use of economic, political or any other type of measures to coerce another State in order to obtain from it the subordination of the exercise of its sovereign rights or to secure from it advantages of any kind. Also, no State shall organize, assist, foment, Finance, incite or tolerate subversive, terrorist or armed activities directed towards the violent overthrow of the regime of another State, or interfere in civil strife in another State. 3. The use of force to deprive peoples of their national identity constitutes a violation of their inalienable rights and of the principle of non-intervention. 4. The strict observance of these obligations is an essential condition to ensure that nations live together in peace with one another, since the practice of any form of intervention not only violates the spirit and letter of the Charter of the United Nations but also leads to the creation of situations which threaten international peace and security.
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29
Risoluzione 2625, firmata il 24 ottobre 1970 durante la sua XXV sessione ha
approvato la “Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale sulle
relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati” in cui specifica ulteriormente
come, ribadendo l’obbligo gravante sugli Stati di esimersi dall’usare la forza nelle
loro relazioni internazionali, ogni Stato debba astenersi dall’organizzare e
dall’incoraggiare atti di guerra civile o atti di terrorismo sul territorio di un altro
Stato, dall’appoggiare simili atti o dal partecipare ad essi, o dal tollerare sul
proprio territorio attività organizzate allo scopo di perpetrare gli atti medesimi,
quando i menzionati comportamenti implicano minaccia o uso della forza45.
Tale principio cessa di avere valore nel momento in cui il conflitto interno ad
uno Stato evolva nel senso di portare un reale pericolo alla pace ed alla sicurezza
internazionale, di cui all’art. 2 par. 4 della Carta, situazione in cui il conflitto
intestino non ha più semplice valore interno, ma assume portata internazionale,
divenendo una minaccia alla pace che implica la possibilità d’intervento del
Consiglio di Sicurezza delle N.U.
1.5.2 - Il diritto naturale di legittima difesa:
5. Every State has an inalienable right to choose its political, economic, social and cultural systems, without interference in any form by another State. 6. All States shall respect the right of self-determination and independence of peoples and nations, to be freely exercised without any foreign pressure, and with absolute respect for human rights and fundamental freedoms. Consequently, all States shall contribute to the complete elimination of racial discrimination and colonialism in all its forms and manifestations”. Reperibile sul sito ufficiale delle Nazioni Unite www.un.org.
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30
Il divieto di ricorrere alla forza armata nelle relazioni internazionali tra gli Stati
conosce un limite alla sua applicazione, essendo presente nella Carta stessa
un’importante eccezione a tale interdizione: l’articolo 51 recita infatti che
“nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di
legittima difesa individuale o collettiva, nel caso in cui abbia luogo un attacco
armato contro un Membro delle nazioni Unite […]”46.
Viene pertanto sottolineato l’imprescindibile diritto di ogni Membro a difendersi
in caso di attacco subito da un altro Stato; l’autotutela, unico limite al divieto
dell’uso della forza armata, risulta dunque una norma di carattere eccezionale,
creata dal sistema del monopolio collettivo dell’uso della forza. Il valore naturale
che il presente articolo riconosce a tale disposizione del Trattato implica
l’identificazione di un diritto di natura consuetudinaria, formatosi e
consolidatosi pertanto in tempi precedenti alla stipulazione Carta, e quindi forte
dell’impossibilità da parte di questa ultima di modificarlo o limitarlo. In tal
senso, peraltro, si è espressa anche la Corte Internazionale di Giustizia, che, nel
caso delle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua, ha
confermato come sia particolarmente difficile giudicare il principio di legittima
difesa come non rientrante nelle norme aventi natura consuetudinaria; ciò,
peraltro, malgrado l’esistenza della Carta delle Nazioni Unite, la quale, benché
ne influenzi parzialmente il contenuto ed il significato, non sostituisce il diritto
internazionale consuetudinario, ma vi si affianca senza per questo renderlo
subordinato47. La contemporaneità del principio di autotutela nella Carta delle
45 Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale sulle relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati, Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Risoluzione 2625 (XXV), 24 ottobre 1970. www.un.org. 46 Carta delle Nazioni Unite, Capitolo VII, art. 51. 47 Corte Internazionale di Giustizia, sentenza sul caso delle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua, 27 giugno 1986: “è difficile sostenere che tale diritto (di autotutela n.d.a.) non
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Nazioni Unite e nel diritto consuetudinario, crea una sorta di interdipendenza
tra le condizioni imposte dallo Statuto e quelle preesistenti inerenti il suo
esercizio secondo la norma consuetudinaria. Tale parallelismo impone un’analisi
dell’evoluzione del principio nei due diversi ambiti, l’uno scritto e di
conseguenza immodificabile dalla sola prassi, l’altro mutevole a seconda della
convinzione degli Stati (carattere soggettivo) e dell’abitudine di comportamento
(carattere oggettivo), per poterne valutare compiutamente il valore e la
definizione48.
Secondo le disposizioni di tale principio, dunque, è lecito l’utilizzo della forza,
anche armata, da parte di uno Stato vittima di un attacco armato, che possa
mettere a repentaglio la sua indipendenza o la sua stessa esistenza. Il ricorso alla
forza da parte del Paese leso è legale solo allorquando vi sia stata un’aggressione
ai suoi danni da parte di un’altra Nazione, ed in questo ambito è chiara la
posizione dei legislatori della Carta nel precisare come sia necessario che
l’attacco sia già avvenuto, e come non sia di conseguenza sufficiente la sola
minaccia di un’eventuale offensiva successiva per attivare la liceità del diritto di
legittima difesa.
Come infatti stabilito dalla già citata Risoluzione 3314 (XXIX) dell’Assemblea
Generale del Dicembre del 1974 sulla definizione di aggressione, l’attacco in
questione non può consistere in una semplice violazione della pace, ma deve
essere un vero e proprio atto di guerra contro il territorio di un altro Stato.
Pertanto va in tal senso negata la possibilità per gli Stati d’intervenire
sia di natura consuetudinaria, per quanto il suo attuale contenuto sia stato avvalorato ed influenzato dalla Carta […] il diritto internazionale consuetudinario continua ad esistere accanto al diritto pattizio”. 48 S. Bariatti, S. M. Carbone, M. Condinanzi, L. Fumagalli, G. Gasparro, P. Ivaldi, R. Luzzatto, F. Munari, B. Nascimbene, I. Queirolo, A. Santa Maria, in Istituzioni di diritto internazionale, Edizioni Giappichelli, Torino, cap. VII, par. 5.1, pag. 431.
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precedentemente all’aggressione altrui, ed è quindi plausibile ritenere che non
possa essere accettato il principio di legittima difesa preventiva, basato cioè sulla
risposta ad una minaccia di atto violento verso lo Stato. L’anticipazione della
soglia temporale non è infatti prevista dell’art. 51, che nell’affermare che
l’autotutela è possibile “nel caso che abbia luogo un attacco armato”, lascia
supporre che quest’ultimo debba già essere stato sferrato49.
Tale eccezione alla nozione di forza vietata conosce delle importanti condizioni
per essere lecitamente riconosciuta ed utilizzabile.
Oltre alla definizione di aggressione armata fornita dall’Assemblea generale, al
cui interno deve rientrare l’identificazione dell’attacco effettivamente subito
dallo Stato, l’art. 51 fornisce ulteriori requisiti all’applicabilità del principio di
autotutela. La soglia temporale della risposta, una volta che l’attacco esterno sia
stato sferrato, assume in tale circostanza valore fondamentale: il diritto dello
Stato vittima dell’aggressione alla legittima difesa deve essere immediato, o
comunque esercitato in tempi rapidi, in modo tale da far sì che l’intervento sia
giustificato dalla necessità di proteggere il territorio, i cittadini, l’indipendenza e
la sopravvivenza dello Stato stesso. Questa norma ha valore non soltanto per ciò
che concerne la necessaria immediatezza della risposta all’attacco armato, ma
anche per quanto riguarda la conclusione di questa risposta: infatti proprio l’art.
51 permette il diritto di autotutela “fintantoché il Consiglio di Sicurezza non
abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza
internazionale”. E’ comune50 l’interpretazione che il diritto alla legittima difesa
49 S. Bariatti, S. M. Carbone, M. Condinanzi, L. Fumagalli, G. Gasparro, P. Ivaldi, R. Luzzatto, F. Munari, B. Nascimbene, I. Queirolo, A. Santa Maria, in Istituzioni di diritto internazionale, Edizioni Giappichelli Torino cap. VII, par. 5.1, pag. 434-435. 50 Tale principio, codificato dalla Carta delle Nazioni Unite nel suo articolo 51, viene sostenuto da più parti, tra cui si ricordano: S. Bariatti, S. M. Carbone, M. Condinanzi, L. Fumagalli, G. Gasparro, P. Ivaldi, R. Luzzatto, F. Munari, B. Nascimbene, I. Queirolo, A. Santa Maria, in Istituzioni di diritto
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da parte degli Stati Membri decada nel momento in cui le misure adottate dal
Consiglio siano idonee a far cessare l’aggressione, interrompendo di
conseguenza l’illecito internazionale e ripristinando così lo status quo ante.
Questa parte dell’articolo in questione ha altresì il compito essenziale di ribadire
come il completo monopolio (potenziale) dell’uso della forza all’interno del
sistema di sicurezza collettiva creato dalla Carta sia gestito dal solo Consiglio di
Sicurezza51, al quale gli Stati devono riferirsi in caso di minaccia o violazione
della pace e della sicurezza internazionale. Nonostante il silenzio dell’art. 51
circa le modalità della reazione all’aggressione subita, la Corte internazionale di
giustizia, ancora nella già citata sentenza sulle attività militari e paramilitari […]
in Nicaragua, ha affermato che il diritto internazionale consuetudinario impone
alla risposta i requisiti della necessità e della proporzionalità, in quanto né
l’articolo 51 né alcuna altra norma della Carta delle Nazioni Unite contiene
disposizioni che impongano agli Stati azioni che, nell’esercizio del diritto
naturale di legittima difesa, siano limitate nella portata e nel tempo dal principio
di proporzionalità, in quanto esso è disciplina consolidata di diritto
internazionale consuetudinario52. Tale limite implicito contenuto nella norma
configurante il diritto alla legittima difesa per i Membri trovatisi vittime di
un’aggressione armata da parte di un altro Stato non sussiste invece per
l’Organizzazione, che, in quanto detentrice unica (in particolare tramite il
internazionale, Edizioni Giappichelli Torino; R. Wedgwood, The fall of Saddam Hussein: Security Council mandates and preemptive self-defense, in The American Journal of International Law; M. E. O’Connel, International Law and the Use of Force, in The American Journal of International Law, Vol. 97, Iss. 2, Apr 2003; Williams e Hovell, Advice to Hon Simon Crean MP on the Use of Force against Iraq, in Feature, Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003; B. Conforti, in Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, VI edizione 2002, Napoli. 51 P. Picone, La guerra contro l’Iraq e le degenerazioni dell’unilateralismo, Rivista di diritto internazionale, 2003, fascicolo 2, pag. 335. 52 Corte Internazionale di Giustizia, sentenza sul caso delle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua, 27 giugno 1986: “l’art. 51 non contiene alcuna specifica regola che consenta
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Consiglio di Sicurezza) del diritto di ricorrere alla forza armata per il
conseguimento delle finalità di pace e di sicurezza internazionale, ha il potere di
decidere liberamente le caratteristiche e le modalità dell’azione da intraprendere,
che avrà l’obiettivo minimo della cessazione dell’aggressione e del ristabilimento
della situazione precedente all’attacco, ma potrà anche estendersi temporalmente
e militarmente se ciò venisse giudicato indispensabile per il ripristino della pace.
L’art. 51 della Carta riconosce il diritto all’autotutela non solamente allo Stato
che subisca direttamente l’attacco armato, ma anche a qualsiasi altro Stato della
Comunità internazionale, malgrado l’aggressione non sia diretta contro di essi.
In questo caso, infatti, la loro reazione all’attacco sferrato viene ritenuta
legittima, venendo in tal senso definita come “legittima difesa collettiva”. La
presente norma è circoscritta da alcuni limiti che ne condizionano l’applicabilità,
in quanto gli Stati terzi che intervengano in soccorso del Paese attaccato, sempre
nell’obbligo di fornire tale assistenza nei limiti della necessità e della
proporzionalità, possono farlo unicamente a seguito di una esplicita richiesta
proveniente dalla Nazione direttamente attaccata, alla quale è rimesso in ultima
analisi il compito di appurare di essere effettivamente sotto attacco53. La Corte
internazionale di giustizia54 ha ritenuto che il diritto all’autotutela collettiva sia di
natura consuetudinaria, e che pertanto la norma contenuta nell’art. 51 ad esso
riferita si rifaccia al diritto internazionale consuetudinario. Conseguentemente, si
tratterebbe di una norma generalmente applicabile nei confronti di tutti gli Stati,
e non unicamente per i Membri delle Nazioni Unite. Il “requisito della richiesta
da parte dello Stato oggetto dell’attacco”, così come la necessità che essa sia
nell’esercizio della legittima difesa solo misure che siano proporzionali all’attacco armato e necessarie per rispondere ad esso, secondo una disciplina consolidata in diritto internazionale consuetudinario”. 53 B. Conforti, Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, VI edizione 2002, Napoli, pag. 385-386.
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“ulteriore rispetto alla dichiarazione di quest’ultimo di essere stato attaccato” è
stato accertato dalla Corte nella già citata sentenza del 1986 sulle attività militari
e paramilitari […].
Il meccanismo dell'art. 51 prevede che l'azione di legittima difesa individuale e
collettiva sia immediatamente comunicata al Consiglio di Sicurezza, precisando
come essa “non pregiudichi in alcun modo il potere ed il compito [ad esso]
spettanti secondo il presente Statuto” e che quindi cessi al momento in cui il
Consiglio di Sicurezza sia in grado di adottare le misure necessarie per il
mantenimento ed il ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale.
1.5.3 - Il sistema di sicurezza collettiva: il ruolo del Consiglio di Sicurezza:
Mentre ai singoli Stati è preclusa la possibilità di utilizzo della forza armata se
non nei casi eccezionali visti precedentemente55, il Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite, l’organo cioè avente in base allo Statuto costitutivo “la
responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale” (art. 24 par. 1), che agisce in loro nome, ha il potere
54 Corte Internazionale di Giustizia, sentenza sulle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua, 27 Giugno 1986. 55 I casi eccezionali in cui agli Stati è concesso il ricorso all’uso della forza armata sono il diritto naturale dei legittima difesa individuale e collettiva e un’autorizzazione specifica concessa dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per mezzo di una sua Risoluzione. Si vedrà successivamente come anche il principio cosiddetto d’ ”intervento umanitario” possa essere
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d’intervenire anche con la forza in caso di minaccia o violazione della pace o di
aggressione subita da un Membro delle Nazioni Unite.
La scelta tra l’adozione di misure non comportanti l’utilizzo della forza armata -
di cui all’articolo 41 della Carta - e azioni in cui venga impiegata tale forza - di
cui all’articolo 42 - è sottomessa unicamente al giudizio del Consiglio. Malgrado
nessuna disposizione contenuta nella Carta specifichi come la successione
cronologica delle misure adottate per ristabilire la pace e la sicurezza
internazionale debba seguire l’ordine normativo dello Statuto dell’O.N.U. (il
quale pone come ultima risorsa il ricorso alla forza armata da parte
dell’Organizzazione), la prassi finora maggiormente messa in pratica è stata
quella di far sì che l’intervento militare contro lo Stato colpevole di un illecito
internazionale venga utilizzato solo in ultima istanza, qualora i provvedimenti
economici, commerciali, finanziari, diplomatici o di altro genere presi a seguito
dell’accertamento “dell’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione
della pace, o di un atto di aggressione” (art. 39) si siano rivelati insufficienti a
mantenere o ristabilire la pace56.
Il citato articolo 39 della Carta, il primo del capitolo VII, istituisce in pratica il
sistema di sicurezza collettiva: tale sistema, nell’idea dei redattori dell’Atto
costitutivo, doveva realizzare il fulcro dell’azione delle Nazioni Unite, in quanto
cardine unico volto a garantire la pace e la sicurezza internazionale. Tanto
secondo quanto espresso nel capitolo VI, quanto nell’ambito del capitolo VII,
l’organo a cui è affidato il compito del mantenimento della pace è il Consiglio di
ricompresso tra queste eccezioni, dovendo in tal caso valutare se e come il Consiglio di Sicurezza debba avere un ruolo nella sua gestione. Per questa questione si rimanda tuttavia ai Capitoli 2 e 3. 56 Carta delle Nazioni Unite, articolo 39: “Il Consiglio di Sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazioni o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”.
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Sicurezza, che però nel secondo caso opera in via esclusiva, essendo il solo
detentore del monopolio dell’adozione di misure implicanti il ricorso alla forza
armata, se necessarie per il raggiungimento dei suoi obiettivi57.
Il capitolo VI contiene infatti quelle disposizioni conciliative di cui il Consiglio
di Sicurezza deve farsi portatore nel caso in cui l’esistenza di una controversia tra
Stati sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale58: tra queste vengono menzionati negoziati, inchiesta,
mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad
organizzazioni od accordi regionali. L’elenco precedente va considerato come
esemplificativo dei mezzi di risoluzione pacifica delle controversie ai quali gli
Stati devono ricorrere secondo quanto posto dall’articolo 2, paragrafi 3 e 4 della
Carta, e il Consiglio può, allorquando lo ritenga necessario, invitare le parti in
disaccordo a regolare la loro controversia mediante tali mezzi (art. 33, par. 2).
Per quanto concerne le disposizioni presenti nel capitolo VII, in caso pertanto di
minaccia, violazione della pace o aggressione armata, sono tre le fasi attraverso
cui il Consiglio di sicurezza può agire per assicurare la sicurezza e ristabilire lo
status quo ante:
- misure provvisorie;
- misure non implicanti l’uso della forza;
- misure implicanti l’uso della forza.
57 S. Bariatti, S. M. Carbone, M. Condinanzi, L. Fumagalli, G. Gasparro, P. Ivald i, R. Luzzatto, F. Munari, B. Nascimbene, I. Queirolo, A. Santa Maria, in Istituzioni di diritto internazionale, Edizioni Giappichelli Torino, cap. VII, par. 6.1, pag. 447. 58 Carta delle Nazioni Unite, articolo 33: “1. Le parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, devono, anzitutto, perseguirne una soluzione mediante negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione,
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Le misure provvisorie, di cui all’art. 4059, hanno forza di raccomandazione, e
non sono quindi obbligatorie per gli Stati verso cui sono dirette. Esse non hanno
lo scopo di risolvere in modo definitivo la controversia, ma solo quello di
scongiurare l’aggravarsi della situazione. L’esempio principe di tali azioni è la
richiesta del cessate il fuoco, ma queste possono assumere anche differenti
forme, a seconda del tipo d’illecito compiuto, quali il ritiro delle forze armate dal
territorio occupato, la richiesta agli Stati terzi di non appoggiare nessuna delle
due parti in lotta o l’invito ad intavolare negoziati tra le parti in causa. Unico
limite imposto dalla norma è quello che tali misure provvisorie non devono
pregiudicare i diritti, le pretese o la posizione delle parti interessate e di
conseguenza non possono comportare nessuna condanna.
Esempi concreti di come tali misure siano state applicate possono essere ritrovati
in moltissime risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, in cui si richiedeva la
cessazione immediata delle ostilità, il rispetto di accordi regionali precedenti o il
ritiro immediato delle forze armate dal territorio straniero (Risoluzione 479
(1980), Iraq – Iran; Risoluzione 463 (1980), Rodesia del Sud; Risoluzione 502
(1982), isole Falkland)60.
L’articolo 41 della Carta, in presenza della constatazione di una minaccia alla
pace, di una sua violazione o di un’aggressione nei confronti di uno Stato,
autorizza il Consiglio di Sicurezza ad adottare quelle misure non implicanti l’uso
arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od altri mezzi pacifici di loro scelta”. 59 Carta delle Nazioni Unite, articolo 40: “Al fine di prevenire un aggravarsi della situazione, il Consiglio di Sicurezza prima di fare le raccomandazioni o di decidere sulle misure previste all’articolo 41, può invitare le parti interessate ad ottemperare a quelle misure provvisorie che esso consideri necessarie o desiderabili. Tali misure provvisorie non devono pregiudicare i diritti, le pretese o la posizione delle parti interessate. Il Consiglio di Sicurezza prende in debito conto il mancato ottemperamento a tali misure provvisorie”. 60 Documentazione interna dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, www.un.org.
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della forza armata che esso ritenga idonee a permettere di far rientrare l’illecito61.
Le possibili applicazioni di tale norma (ex art. 41) sono di natura piuttosto
ampia, e possono assumere forme assai varie, purché aventi l’obiettivo di
costringere, senza il ricorso alle armi, lo Stato resosi responsabile dell’illecito a
rispettare le decisioni e gli obblighi imposti dal Consiglio ponendo fine alla
minaccia o alla violazione della pace. Il Consiglio ha il potere di vincolare gli
Stati membri a prendere tutta una serie di misure perché le decisioni prese
vengano messe in atto e possano mettere fine alla minaccia o alla violazione
della pace e della sicurezza internazionale, quali interruzioni di relazioni
economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali,
telegrafiche, radio ed altre, o ancora la rottura delle relazioni diplomatiche.
Questo elenco va considerato a titolo unicamente esemplificativo: il Consiglio
può intraprendere qualsiasi azione non implicante l’uso della forza esso ritenga
utile alla messa in pratica delle sue decisioni; tuttavia la prassi evidenzia come la
sanzione maggiormente utilizzata in questo ambito sia l’embargo, vale a dire il
blocco totale o parziale delle relazioni economiche (com’è avvenuto in diversi
ambiti ed occasioni per Rodesia del Sud - 1966, Iraq - 1990, Libia - 1992, Haiti -
1993 ed altri)62. Tale sistema si è infatti rivelato più volte efficace, permettendo di
ottenere il ritorno alla situazione precedente l’aggressione senza ricorrere all’uso
della forza di cui all’art. 4263.
61 Carta delle Nazioni Unite, articolo 41: “Il Consiglio di Sicurezza può decidere quali misure, non implicanti l’impiego della forza armata, debbano essere adottate per dare effetto alle sue decisioni, e può invitare i membri delle Nazioni Unite ad applicare tali misure. Queste possono comprendere un’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche”. 62 B. Conforti, Diritto internazionale, Editoriale Scientifica, VI edizione 2002, Napoli, pag. 151. 63 Carta delle Nazioni Unite, articolo 42: “Se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite”.
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Contrariamente alle misure preventive ex art. 40, le quali possono assumere solo
valore di raccomandazione per gli Stati che ne sono destinatari, le misure non
implicanti l’uso della forza possono essere sia di natura non obbligatoria che
vincolanti per gli Stati, secondo quanto affermato nello stesso art. 41, il quale
stabilisce come il Consiglio possa decidere quali misure debbano essere adottate
per dare effetto alle sue decisioni.
Il Consiglio ha infine il potere (e nella sua applicazione ne detiene il monopolio),
nel caso in cui ritenga che le misure previste dall’articolo 41 siano inadeguate o
si siano dimostrate inadeguate, di intraprendere ogni azione che sia necessaria
per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Come
precedentemente sottolineato, l’ordine delle norme non è vincolante, il che
consente al Consiglio di intraprendere immediatamente un’azione armata
qualora ne ritenesse necessario il ricorso, o qualora considerasse arbitrariamente
inadeguate le misure di carattere non militare. Per permettere al Consiglio il
ricorso alla forza armata, la Carta ha predisposto un sistema strutturato tramite
l’impiego di forze militari messe a disposizione dell’organizzazione dai singoli
Stati membri, e sottoposte all’autorità di un Comitato di Stato Maggiore
composto dai Capi di Stato Maggiore dei Membri permanenti del Consiglio di
Sicurezza (artt. 43 – 47).
Lo scopo degli artt. 42 e seguenti è quello di concentrare (escludendo il diritto
alla legittima difesa individuale e collettiva) nelle mani del Consiglio di
Sicurezza sia il potere decisionale riguardante l’uso della forza, sia la direzione
ed il controllo delle iniziative militari utilizzate a tal fine. In questo modo viene
garantita l’imparzialità delle operazioni nonché la garanzia del perseguimento di
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un obiettivo preciso, e vengono negate le possibilità d’iniziativa individuale agli
Stati64.
Durante gli anni della Guerra Fredda, in cui la dura contrapposizione tra il
blocco sovietico e il blocco occidentale aveva più volte reso il Consiglio di
Sicurezza inabile ad agire a causa dei continui disaccordi tra le due maggiori
potenze, aventi entrambe potere di veto in sede di Consiglio e pertanto in grado
di ostacolarne l’operato, si è venuta a creare più volte l’impossibilità per esso
d’intervenire tempestivamente nelle crisi verificatesi. Questa situazione, ha dato
vita ad una prassi ormai accettata dall’intera Comunità internazionale,
implicante l’opportunità per il Consiglio di delegare il suo potere (esclusivo,
secondo la Carta) di ricorso alla forza armata tramite un’autorizzazione agli
Stati membri ad usare la forza per raggiungere il fine preposto dal Consiglio di
Sicurezza stesso, e che oggigiorno può considerarsi a tutti gli effetti una
consuetudine modificativa della Carta. Tale misura pone in secondo piano le
condizioni descritte negli artt. 43 e ss. sulla messa a disposizione da parte dei
Membri di forze armate nazionali poste sotto l’autorità dell’Organizzazione, che
pertanto non detiene più il controllo dell’operato dell’azione militare in atto, la
quale invece passa direttamente agli Stati che mettono a disposizione le proprie
truppe. Saranno di conseguenza i diretti destinatari dell’autorizzazione concessa
dal Consiglio a decidere autonomamente obiettivi, durata, modalità e mezzi del
conflitto, con l’unico limite di dover perseguire l’obiettivo posto dal Consiglio di
Sicurezza65.
64 Iovane, La NATO, le organizzazioni regionali e le competenze del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in tema di mantenimento della pace, CI, 1998. 65 Paolo Picone, La guerra contro l’Iraq e le degenerazioni dell’unilateralismo, Rivista di diritto internazionale, 2003, fascicolo 2, pagg. 338 e ss.
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Questa prassi è andata consolidandosi soprattutto a partire dal 1990, dopo essere
stata adoperata in larga misura nell’azione contro l’Iraq a seguito dell’invasione
del Kuwait decisa da Saddam Hussein; ma già in precedenza il Consiglio aveva
delegato agli Stati membri l’uso della forza contro un determinato paese: nel
1950, a seguito dell’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord
(aggressione che diede il via alla guerra di Corea) il Consiglio approvava le
Risoluzioni 83 e 84 del 27 Giugno, in cui chiedeva agli Stati membri
d’intervenire in aiuto della Corea del Sud, e accettava il controllo statunitense
della forza multinazionale cosi formatasi.66 Con la Risoluzione 83, infatti, il
Consiglio, dopo aver fatto richiesta della immediata cessazione delle ostilità
(Risoluzione 82), “raccomanda ai Membri dell’Organizzazione delle Nazioni
Unite di fornire alla Repubblica di Corea tutto il supporto necessario per
respingere gli assalitori e ristabilire nella regione la pace e la sicurezza
internazionale”, pur facendo richiesta agli Stati Uniti (Risoluzione 84), che
avevano ricevuto l’autorizzazione a nominare un Comandante in Capo delle
forze armate della coalizione, di “fornire al Consiglio di Sicurezza rapporti
d’importanza e frequenza appropriati concernenti lo svolgimento dell’azione
intrapresa sotto l’autorità del comando unificato”.
In altre circostanze più recenti la medesima prassi veniva messa in atto con
maggiore frequenza: nel 1992 per l’intervento militare in Somalia, nel 1993 con
le Risoluzioni 826, 836 e 844 con l’autorizzazione agli Stati ad usare la forza
contro la Bosnia, nel 1994 per il ristabilimento della pace in Ruanda, nel 1999 a
Timor a seguito del referendum sull’indipendenza67.
66 Commento breve allo Statuto dell’ONU, La Carta delle Nazioni Unite, Edizioni Simone, 2000 67 Risoluzioni 794 (1992); 826, 836 e 844 (1993); 929 (1994); 1264 (1999), Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, www.un.org.
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43
La delega dell’uso della forza agli Stati che partecipino alla forza multinazionale
incaricata di mettere fine alla minaccia o alla violazione della pace, pur con le
richieste del Consiglio di fornire frequenti rapporti sull’andamento della
situazione e sullo svolgimento delle operazioni militari in corso, mette a rischio
l’effettiva compatibilità delle azioni belliche intraprese dai Membri con le
finalità imposte dall’Organizzazione, la quale non ha modo concreto di
controllare l’operato delle forze armate in campo né di intervenire sulle strategie
utilizzate dai Comandanti in Capo, legittimi titolari di un uso della forza
altrimenti vietato dall’art. 1 par. 1 e dall’art. 2 par. 4 della Carta delle Nazioni
Unite. E’ pur vero, però, che se, com’è accaduto fino a questo momento, le
disposizioni ex artt. 43-47 continuano a non venire messe in pratica, non
fornendo di conseguenza in maniera continuativa una forza militare utilizzabile
nelle diverse situazioni in cui il Consiglio di Sicurezza si trovi ad operare, sotto il
comando ed il controllo di un Comitato di Stato Maggiore direttamente
collegato e responsabile di fronte ad esso, non esistono alternative efficaci ed
immediate che consentano di ottenere la sicurezza del raggiungimento
dell’obiettivo rimanendo sotto l’autorità diretta dell’Organizzazione.
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CAPITOLO 2
L’uso della Forza, il caso Iraq: le giustificazioni dell’attacco
2.1 - Premessa68:
In questa parte del lavoro, proprio al fine di comprendere le difficoltà che nel
corso degli anni hanno caratterizzato l’attività del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite nell’esercizio del potere di uso della forza, è utile analizzare le
68 In riferimento bibliografico al presente capitolo, si vedano i seguenti autori: R. Wedgwood, Legal authority exists for a strike on Iraq, in Financial Times, 14 Marzo, 2003; Has the War in Iraq made Preemption less likely?, A conversation with Professor Michael Glennon, anonymous Fletcher University Student; E. C. Luck, Stayin’ Alive: The rumors of the UN’s death have been exaggerated, in Foreign Affairs, Luglio/Agosto 2003; R. Wedgwood, The fall of Saddam Hussein: Security Council Mandates and preemptive self-defence, in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 97, Iss. 3, Jul 2003; W. H. Taft IV e T. F. Buchwald , Preemption, Iraq and international law, in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 97, Iss. 3, Jul 2003; J. Yoo, International Law and the War in Iraq, in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 97, Iss. 3, Jul 2003; B. Midgley, D. Perkins e H. Stabb, Special Feature – Advice on the Use of Force against Iraq, in Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003; B. Campbell e C. Moraitis, Memorandum of Advice to the Commonwealth Government on the Use of Force against Iraq, in Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003; M. Sapiro, Iraq: the Shifting sands of preemptive self-defence, in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 97, Iss. 3, Jul 2003; L. Feinstein e A-M. Slaughter, A duty to Prevent, in Foreign Affairs, January/February 2004; T. Graham Jr, National Self-Defence, International Law and Weapons of Mass Destruction, in Chicago Journal of International Law, Vol. 4, No. 1, 2003; W. J. Stover, Preemptive War: Implications of the Bush and Rumsfeld Doctrines, in International Journal on World Peace, New York, Vol. 21, Iss. 1, Mar 2004; N. Chomsky, Rogue States, Pluto Press, London, 2000; International Court of Justice, Legality of the threat or use of nuclear weapons, in International Legal
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recenti vicende relative al caso iracheno, ed in particolare ai contrasti che sono
sorti in seno al Consiglio tra Stati (principalmente Stati Uniti, Gran Bretagna ed
Australia) favorevoli all’uso della forza, e Stati (si ricordino tra tutti Cina,
Francia, Germania e Russia) dimostratisi contrari all’attacco. Particolare
attenzione sarà in oltre dedicata al problema della legittimità dell’attacco sferrato
il 19 Marzo 2003 e portato avanti ufficialmente fino al 1 Maggio dello stesso
anno (sebbene di fatto scontri armati tra le parti avverse in territorio iracheno
siano tuttora in corso nel Paese) allorché il Presidente degli Stati Uniti Gorge W.
Bush, dal ponte principale della portaerei Lincoln, di stanza nell’Oceano
Pacifico, annunciò la conclusione delle ostilità69.
Gli Stati precedentemente citati, cioè coloro i quali decisero di costituire quella
che venne diffusamente definita “Coalition of the Willing”70, avanzarono una serie
di giustificazioni basate sul diritto internazionale e sul diritto pattizio in vigore
per motivare, di fronte alle Nazioni meno favorevoli all’invasione, la loro
decisione di utilizzare la forza armata nei confronti dell’Iraq e del suo Capo di
Stato Saddam Hussein.
In particolar modo gli alleati ritennero che l’autorizzazione all’uso della forza71,
necessaria per poter iniziare un attacco armato nei confronti di una Nazione
Material, 1996; P. Picone, Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale, Padova, 1995; G. Carella, La responsabilità dello Stato per crimini internazionali, Napoli, 1985. 69 Il riferimento è all’episodio che vede protagonista Bush,il quale, atterrato sulla portarei viaggiando nel posto da copilota di un caccia S-3B Viking, ha parlato dal ponte della nave. Il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, a bordo della portaerei 'Abraham Lincoln', ha tenuto un discorso alla Nazione nel quale ha proclamato la fine della guerra in Iraq: i maggiori combattimenti in Iraq sono finiti, ha detto, e la coalizione ha vinto. La sconfitta di Saddam Hussein è "una vittoria nella guerra contro il terrorismo", che è iniziata l'11 settembre "e va avanti". 70 Tale locuzione viene ancora oggi correntemente utilizzato da tutte le principali testate italiane e straniere e citata dalla maggioranza delle televisioni. 71 Tale risulta la posizione di alcuni esponenti e giuristi intervenuti in favore dell’attacco contro l’Iraq anche in assenza di una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Na zioni Unite. Si veda, ad esempio, B. Campbell e C. Moraitis, Feature – Iraq Advice, Melbourne Journal of International Law, Vol 4, 2003, pagg. 178 – 182; M. N. Schmitt, Preemptive Strategy in International Law, Michigan Journal of International Law, Vol 24, Winter 2003; J. Yoo, International Law and the war in Iraq,
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sulla base delle regole imposte dalla Carta dell’O.N.U., potesse derivare, in
maniera diretta o indiretta, da:
1. precedenti Risoluzioni riguardanti la situazione tra Iraq e Kuwait
riferite agli anni ’90 (Risoluzioni 678 -del 1990- e 687 -del 1991-);
2. dalla recente Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1441 del 2002;
3. dal diritto automatico di legittima difesa contenuto nell’art. 51 della
Carta;
4. da una possibile eccezione alla prassi attuale del Consiglio di
Sicurezza concernente il cosiddetto “Intervento Umanitario”.
2.2 - Le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite:
Nel corso degli ultimi quindici anni, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite ha avuto modo di intervenire spesso nella vicenda irachena, attraverso
l’emanazione di diverse Risoluzioni, il cui contenuto (spesso non chiaro) ha dato
adito a contrastanti posizioni circa la possibilità di intraprendere azioni militari
all’interno del territorio iracheno.
Può essere in tal senso utile effettuare un’analisi del contenuto delle singole
risoluzioni che in modo maggiore hanno condizionato la questione legata
all’Iraq, per verificare la correttezza o meno di alcune posizioni assunte dagli
Stati.
The American Journal of International Law, Vol 97, Iss. 3, Jul 2003; M. Sapiro, Iraq: The shifting
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2.2.1 - La Risoluzione 678 (1990):
La Risoluzione 678 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, approvata il
29 Novembre 1990, risulta essere, a tutt’oggi, uno dei principali motivi di
discordia per quanto concerne l’analisi delle questioni legali che hanno portato
l’alleanza guidata dagli Stati Uniti ad invadere l’Iraq.
Con tale Risoluzione, infatti, il Consiglio di Sicurezza, organo adibito alla
gestione e all’utilizzo dell’uso della forza nelle questioni rilevanti la sicurezza e
la pace internazionale, autorizzava gli Stati ad utilizzare “all necessary means” per
porre fine all’attacco portato dall’esercito iracheno allo Stato del Kuwait, situato
sul Golfo Persico. Tale autorizzazione veniva fornita a tutti gli Stati membri
“cooperanti con il Governo del Kuwait”72. L’obiettivo dichiarato della
Risoluzione era quello di “dare applicazione alla Risoluzione 660 (1990) e a tutte
le inerenti risoluzioni precedenti e restaurare la pace e la sicurezza internazionale
nella regione”.
A seguito dell’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza della
Risoluzione in questione, l’attacco armato veniva iniziato da parte degli alleati
già il giorno immediatamente seguente, cioè il 30 novembre del 1990, e portato a
termine in breve tempo ponendo fine all’invasione irachena del Kuwait e
ristabilendo la pace e la sicurezza internazionale nell’area delle ostilità.
sands of pre-emptive self defense, The American Journal of International Law, Vol 97, Iss. 3, Jul 2003. 72 Risoluzione 678 (1990), reperibile sul sito ufficiale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, www.un.org.
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Il punto di vista esposto da coloro che ritenevano conforme alla Carta delle
Nazioni Unite ed al diritto internazionale consuetudinario l’intervento anglo-
americano (con la partecipazione di alcuni altri Paesi, tra cui principalmente
Australia e Spagna), si articola in più questioni, principalmente riguardo alla
durata della validità che può essere conferita ad una risoluzione, e a questa in
maniera specifica, ed al valore che l’autorizzazione in essa contenuta abbia
riguardo alla sua applicazione, volendo indicare con ciò se e come l’uso della
forza legittimato al suo interno possa essere ampliato ed utilizzato in ambiti
differenti, seppur collegati, a quello per cui era stata adottata.
Per quanto concerne il primo punto, la Risoluzione 678 è infatti datata 1990,
vale a dire che si è inscritta nell’ambito creatosi a seguito dell’attacco iracheno al
Kuwait. Malgrado ciò, a più di dieci anni dalla sua approvazione, gli Stati Uniti,
coadiuvati dai loro alleati principali, ritengono che una situazione che evidenzi
l’esistenza di una violazione materiale da parte dell’Iraq degli obblighi cui era
tenuto a sottostare (o ancor di più l’appurare il fatto che il regime di Saddam
Hussein possa ancora oggi rappresentare una minaccia per gli Stati vicini come
per altre Nazioni non direttamente implicate nelle questioni politico-militari
della regione, tramite il possesso illegale o lo sviluppo, anch’esso illecito, di armi
di distruzione di massa, di armi chimiche o batteriologice, e di missili aventi
portata superiore ai centocinquanta chilometri; infine la possibile
compartecipazione ad azioni di terrorismo internazionale, l’eventuale asilo e
protezione forniti ad esponenti e militanti di alcuni gruppi di terroristi, nonché la
fornitura, sebbene unicamente ipotizzata, di siti, materiali e strutture utilizzati
per l’addestramento di individui e l’organizzazione teorica e logistica di veri e
propri attentati contro bersagli considerati nemici, principalmente Stati Uniti,
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Europa ed Israele) renda immediatamente ed automaticamente attiva
l’autorizzazione all’uso della forza in essa contenuta.
A tale proposito, nessuna disposizione contenuta nella Carta delle Nazioni
Unite, né alcuna prassi stabilitasi nel corso di questi anni, porta a far ritenere che
vi sia una durata massima di validità di una risoluzione del Consiglio di
Sicurezza, ancor più in quanto una tesi volta a considerare tale eventualità
ridurrebbe di molto l’importanza, il valore e la portata del documento,
considerando sempre gli effetti vincolanti che questa Risoluzione, come molte
altre, contengono nei confronti degli Stati che ne sono l’obiettivo. Inoltre,
andrebbe giudicata l’effettiva durata limite imposta dalla Carta per una
risoluzione delle Nazioni Unite, sia essa emanazione di una votazione del
Consiglio di Sicurezza o dell’Assemblea Generale: poiché esistono, e il percorso
evolutivo dell’organizzazione lo ha dimostrato, ampie varietà di ambiti e soggetti
all’interno dei quali possono andare ad inserirsi lo scopo ed il contesto di una
risoluzione, sarebbe, in una prospettiva di tal genere, particolarmente complesso
giungere ad una soluzione che limiti in modo univoco, all’interno di un preciso
lasso di tempo, il valore di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, e di
conseguenza all’interno del quale debba essere fatta rientrare la validità della
risoluzione. Nella specifica situazione creatasi con l’aggressione alleata all’Iraq,
dunque, non può giudicarsi la Risoluzione 678 (1990) come non avente più
effetto o valenza sul piano giuridico internazionale, in quanto non sussiste una
norma scritta né alcuna regola consolidata, che possa far ritenere che una
risoluzione delle Nazioni Unite abbia una durata massima oltre la quale subisca
la perdita della sua efficacia o della sua obbligatorietà nei confronti dei
destinatari.
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Passando all’analisi della seconda questione indicata, vale a dire il valore che
una risoluzione assume rispetto al contesto storico, geopolitico e militare in cui
viene inscritta, resta da valutare se tale documento, approvato e adottato in una
situazione ben precisa, possa essere ancora considerato efficace anche in un
diverso contesto esterno.
Peraltro, come si vedrà nel prosieguo, la Risoluzione 678 presenta forti analogie
con la Risoluzione 1441 (2002), emanata ad ultimo dal Consiglio di Sicurezza
relativamente alla questione irachena: usando la stessa terminologia che è stata
successivamente adottata nella Risoluzione 1441, più di 12 anni dopo, il
Consiglio, nella 678, decise, infatti, di concedere all’Iraq una ultima opportunità
per uniformarsi agli obblighi che il Consiglio stesso aveva stabilito nelle
risoluzioni che l’avevano preceduta. Inoltre, il Consiglio autorizzò gli Stati
membri a ricorrere all’uso della forza armata (ex art. 42 della Carta di San
Francisco) a meno che l’Iraq, entro e non oltre il 15 Gennaio 1991, non si
conformasse a tali precedenti risoluzioni73. Era chiaro allora come i Membri
della coalizione non avessero il dovere di ritornare in sede di Consiglio di
Sicurezza per ulteriori decisioni nel caso in cui l’Iraq avesse (come in effetti
accadde) rifiutato di adeguarsi agli obblighi ad esso indirizzati; né, di
conseguenza, lo fecero prima di iniziare le operazioni militari.
Operazioni militari che furono intraprese a più riprese, nel corso degli anni
successivi, proprio a causa del fatto che il Governo iracheno persisteva nella
sistematica violazione dei vincoli previsti dalla Risoluzione che formalizzò il
cessate il fuoco nel 1991: nel 1993 una coalizione costituita da Stati Uniti, Gran
73 Risoluzione 678 (1990), Reperibile sul sito ufficiale delle Nazioni Unite, www.un.org; Punto 1: “[The Security Council] demands that Iraq comply fully with resolution 660 (1990) and all subsequent relevant resolutions, and decides, while maintaining all its decisions, to allow Iraq one final opportunity, as a pause of goodwill, to do so”.
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Bretagna e Francia effettuò una limitata campagna militare basata sulle sole
forze aeree nell’intento di riguadagnare l’accesso per gli ispettori ai siti
aeronautici dell’esercito iracheno; nel Marzo 1998 la minaccia delle forze alleate
giunse a lambire i cosiddetti palazzi presidenziali iracheni: in quella circostanza,
il Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan non fece alcun
riferimento alla necessità di un’ulteriore risoluzione del Consiglio di Sicurezza
per procedere con l’uso della forza armata come disposto dall’art. 42. Egli si
limitò ad affermare che perché la legittimità dell’attacco fosse assicurata, per i
Paesi che portarono avanti l’azione militare sarebbe stato sufficiente l’avviare
consultazioni con gli altri Membri74. Anche a fronte di tali affermazioni, nel
Dicembre dello stesso anno, Stati Uniti e Gran Bretagna risposero alla di fatto
espulsione dal territorio iracheno degli ispettori delle Nazioni Unite con il lancio
dell’operazione Desert Fox, una campagna di attacchi aerei contro siti strategici
iracheni, nella protezione delle No Fly Zones, senza una risoluzione del Consiglio
di Sicurezza che ne autorizzasse l’azione ai sensi del capitolo VII della Carta e
senza l’avvio di adeguate consultazioni.
Alla luce di tali esempi appare evidente come, seppure in una situazione
differente da quella per cui la RCS 678 (1990) era stata adottata, il suo valore e la
sua efficacia siano rimasti inalterati nel tempo75. Come conseguenza, di fronte ad
una perdurante violazione materiale delle disposizioni contenute nella
Risoluzione 678 (1990) da parte irachena (appurata dal Consiglio di Sicurezza in
più di una occasione, ultima –in ordine di tempo- tra queste la Risoluzione 1441
del 2002), gli Stati Uniti ed i loro alleati sarebbero stati legittimati a poter portare
74 R. Wedgwood, The fall of Saddam Hussein: Security Council mandates and preemptive self-defense, in The American Journal of International Law, Vol. 97, Iss. 3, Jul 2003. 75 M. E. O’Connel, International Law and the Use of Force, in The American Journal of International Law, Vol. 97, Iss. 2, Apr 2003.
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avanti un attacco diretto nei confronti dell’Iraq anche in assenza di una previa
ulteriore Risoluzione che autorizzasse il ricorso alla forza armata per far fronte
alla minaccia costituita da tali infrazioni.
2.2.2 - La Risoluzione 687 (1991):
Approvata il 3 aprile 1991, la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza numero 687
pose in pratica fine alla questione della Guerra del Golfo Persico, sorta a seguito
dell’invasione irachena al Kuwait dell’anno precedente. Essa, infatti, conteneva
il cessate il fuoco ufficiale imposto dall’O.N.U. a Saddam Hussein76.
Tale documento portava però con sé, alla luce dei recenti sviluppi della
questione irachena, un nuovo carattere, molto importante, in virtù soprattutto
delle ulteriori disposizioni obbligatorie in essa contenute77: subordinata
76 Risoluzione 687 (1991), Paragrafo I, punto 33: ”Declares that, upon official notification by Iraq to the Scretary-General and to the Security Council of its acceptance of the above provisions, a formal cease-fire is effective between Iraq and Kuwait and the Member States cooperating with Kuwait in accordance with resolution 678 (1990)”. 77 Risoluzione 687 (1991), Paragrafo C, punto 8: “Decides that Iraq shall unconditionally accept the destruction, removal, or rendering harmless, under international supervision, of: a) All chemical and biological weapons and all stock of agents and all related subsystems and components and all research, development, support and manufacturing facilities related thereto; b) All ballistic missiles with a range greater than one hundred and fifty kilometres, and relates major parts and repair and production facilities”; Paragrafo C, punto 9: ”Decides also, for the implementation of paragraph 8, the following: a) Iraq shall submit to the Secretary-General, within fifteen days of the adoption of the present resolution, a declaration on the locations, amounts and types of all items specified in paragraph 8 and agree to urgent, on-site inspection as specified below; b) The Secretary-General, in consultation with the appropriate Governments and, where appropriate, with the Director-General of the World Health Organization, within forty-five days of the adoption of the present resolution shall develop and submit to the Council for approval a plan calling for the completion of the following acts within forty-five days of such approval: (i) The forming of a special commission which shall carry out immediate on-site inspection of Iraq’s biological, chemical and missile capabilities, based on Iraq’s declarations and the designation of any additional locations by the special commission itself; (ii) The yielding by Iraq of possession to the Special Commission for destruction, removal or rendering harmless, taking into account the requirements of public safety, of all items specified under paragraph 8 (a), including items at the additional locations designated by the Special Commission under paragraph (i) and the destruction by Iraq, under the supervision of the Special Commission, of all its missile capabilities, including launchers, as specified under paragraph 8 (b); (iii) The provision by the Special Commission to the Director-General of the International Atomic Energy Agency of the assistance and cooperation required in paragraphs 12 and 13” […]
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all’accettazione della parte irachena, infatti, la Risoluzione 687 implicava una
lunga serie di imposizioni nei confronti dello Stato asiatico, in particolare
concernenti: il disarmo; il divieto di proliferazione di armamenti chimici,
biologici e nucleari; l’obbligo di consentire ispezioni continue ed approfondite
effettuabili da parte di personale scelto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite
in zone o siti iracheni ritenuti a rischio, per prevenire violazioni di tali
disposizioni e verificarne l’effettivo rispetto. In tal senso veniva infatti disposta la
creazione di una Commissione ad-hoc incaricata di effettuare immediate
ispezioni in territorio iracheno, previa consegna da parte del Governo di Saddam
Hussein di una completa documentazione concernente l’attuale “posizione,
quantità e genere degli effettivi indicati nel paragrafo 8 del documento”78.
La citata Commissione creata con la Risoluzione 687 dell’aprile 1991 (che
prenderà il nome di UN.S.COM., presieduta da Richard Butler e con William
Scott Ritter a capo degli ispettori) incontrerà, nel corso degli anni successivi,
sempre maggiori ostacoli e difficoltà, di fronte alla mancanza di collaborazione
esercitata dal Governo iracheno. In pratica l’Iraq, dopo aver accettato le
condizioni avanzate del Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 687 (1991), ne
violava concretamente la quasi totalità già nel periodo immediatamente
susseguente.
Nel corso degli anni successivi, il sistema creato dalla Risoluzione 687 (1991)
non veniva messo correttamente in pratica, tanto è vero che già nel Gennaio
1993 truppe irachene oltrepassavano i confini con lo Stato del Kuwait in
78 Risoluzione 687 (1991), Paragrafo C, punto 8: “Decides that Iraq shall unconditionally accept the destruction, removal, or rendering harmless, under international supervision, of: a) All chemical and biological weapons and all stock of agents and all related subsystems and components and all research, development, support and manufacturing facilities related thereto; b) All ballistic missiles with a range greater than one hundred and fifty kilometres, and relates major parts and repair and production facilities”.
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violazione delle disposizioni indicate nella Risoluzione 687 ed, in ogni caso,
contravvenendo all’obbligo di diritto internazionale che impone il rispetto della
sovranità di uno Stato, e quindi del suo territorio, nonché al principio che vieta
in maniera assoluta il ricorso alla forza nelle relazioni tra gli Stati79. Inoltre, il
regime continuò ad interferire in diversi modi con il lavoro degli ispettori;
ciascuna di queste iniziative fu classificata dal presidente del Consiglio di
Sicurezza quale una violazione delle norme contenute nella Risoluzione,
minacciando, in caso di prosecuzione di tale comportamento, la possibilità di
farne derivare alcune “serie conseguenze”80.
Di fronte all’effettivo fallimento della prima Commissione incaricata di
effettuare le ispezioni in Iraq, le Nazioni Unite ne formalizzavano lo
scioglimento nel 1998. La questione delle ispezioni su territorio iracheno veniva
allora gestita dalla UN.MO.V.I.C. (UN Monitoring, Verification and Inspection
Commission), presieduta da Hans Blix. I tentativi di ottenere dal regime di
Saddam Hussein un bilancio credibile delle armi di distruzione di massa
detenute furono continui e frequenti, spesso intervenendo direttamente nei
confronti del Governo iracheno con l’avviso che una prosecuzione della mancata
cooperazione in tal senso avrebbe inevitabilmente condotto ad un intervento più
incisivo ed, in ultima analisi, anche ad un attacco armato. Sanzioni economiche
furono attivate nei confronti dell’Iraq, in una situazione di avversità umanitaria
creata dal regime, che solo in parte veniva mitigata con il programma umanitario
“Oil for Food”, basato sullo scambio di petrolio iracheno con sussidi a favore della
popolazione consistenti principalmente in cibo e medicinali, nel tentativo di
79 Artt. 2.7 e 2.4 della Carta delle Nazioni Unite. 80 M. Weisburd, The War in Iraq and the dilemma of Controlling the International Use of Force, in Texas International Law Journal, Vol. 39, Iss. 4, Summer 2004.
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costringere lo Stato ad adeguarsi alle disposizioni impostegli dalla RCS 687
(1991), e conformarsi all’obbligo di disarmo81.
In più occasioni, il Consiglio di Sicurezza dichiarò che l’Iraq si trovava in
sostanziale infrazione (material breach) o flagrante violazione (flagrant violation)
delle condizioni imposte dalla RCS 687 (1991), e mise in guardia l’Iraq dalle
serie conseguenze (serious consequences) a cui sarebbe potuto andare incontro82. Le
Nazioni Unite non hanno dunque mai interrotto i loro tentativi di giungere ad
un pieno e completo rispetto delle disposizioni contenute nella Risoluzione del
Consiglio di Sicurezza 687 (1991), né gli sforzi compiuti con le precedenti azioni
(militari o di ispezione compiute dalle Commissioni Speciali O.N.U.) possono
essere diversamente considerati rispetto alla situazione che si è venuta a creare
con l’invasione alleata del Marzo 2003. Ciò dimostrerebbe come la Risoluzione
687 (1991) non sia caduta in desuetudine, ed anzi renderebbe palese come la
ripetuta violazione dei suoi principi ne abbia rafforzato il vigore e confermato la
validità83.
Proprio questo risulta in effetti essere il punto su cui hanno fatto forza i
rappresentanti degli Stati che si sono schierati a favore della legalità di un
intervento armato, poi effettivamente portato a compimento nel 2003. Infatti, se
è pur vero che la Risoluzione 687 (1991), adottata dal Consiglio di Sicurezza ed
approvata dall’Iraq, conteneva un formale “cessate il fuoco”, la violazione delle
disposizioni obbligatorie contenute al suo interno rendeva in concreto invalida la
81 R. Wedgwood, The fall of Saddam Hussein: Security Council mandates and preemptive self-defense, in The American Journal of International Law, Vol. 97, Iss. 3, Jul 2003. 82 Si vedano, tra le altre, Risoluzione 1134 (1997); Risoluzione 1115 (1997); Risoluzione 707 (1991); Statement by the Secretary-General Pursuant to paragraph 9(b) (i) of Resolution 687 (1991), UN Doc. S/1997/774, paragraphs 47, 48, 62, 74, visitabile su www.un.org/Depts/unscom/sres97-774.htm. 83 Vedi nota 76.
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cessazione delle ostilità e ristabiliva l’autorizzazione all’uso della forza contenuta
nella già discussa Risoluzione 678 (1990).
In tal senso Stati Uniti, Gran Bretagna ed Australia consideravano violata la
Risoluzione, in particolare per ciò che riguarda le norme rivolte alle ispezioni, al
disarmo ed alla non proliferazione di armi chimiche e nucleari84; questo di fronte
alla palese mancanza da parte del governo iracheno nell’ottemperare alle
predette disposizioni. La questione fondamentale, a questo proposito, concerne
l’effettiva possibilità che una violazione di una risoluzione del Consiglio di
Sicurezza crei un automatismo diretto a riportare in vita, riattivandone il valore,
la precedente Risoluzione 678 (1990), rendendo nuovamente valide le condizioni
che ne erano conseguenti, vale a dire la possibilità da parte degli Stati membri di
utilizzare “ogni mezzo necessario a ristabilire la pace e la sicurezza nella
regione”85. Ciò dovrebbe, in questo caso, avvenire malgrado la presenza di
un’evidente differenza nel contesto geopolitico tra le due situazioni in esame,
nonché un lasso di tempo cospicuo tra la data di approvazione della risoluzione
e la data del nuovo attacco sferrato dalle Nazioni alleate. Infatti, se quando la
Risoluzione 687 è stata approvata dal Consiglio di Sicurezza (vale a dire
nell’anno 1991, al termine delle ostilità tra le forze alleate e l’esercito iracheno
colpevole di aver invaso lo Stato del Kuwait) l’ambito in cui essa s’inscriveva era
quello di un’aggressione diretta contro un altro Paese alla quale le Nazioni Unite
si sono trovate a dover far fronte, secondo quanto stabilito nella sua Carta
costitutiva, a più di dieci anni di distanza la situazione in cui verrebbe
automaticamente riattivato il valore della Risoluzione 678 (1990) a seguito della
trasgressione alle norme disposte dal “cessate il fuoco” risulta essere
84 B. Campbell e C. Moraitis, Feature – Iraq Advice, in Melbourne Journal of International Law, Vol 4, 2003, pagg. 178 – 182.
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sensibilmente differente. Attualmente, l’Iraq non ha compiuto alcuna azione
bellica diretta, né manifestato una minaccia esplicita nei confronti dei Paesi
circostanti o degli Stati Uniti e dei suoi alleati militari in questa campagna.
La Risoluzione 687 (1991), afferma, nel suo paragrafo 1, come l’Iraq avesse
l’obbligo di “accettare senza condizioni la distruzione, la rimozione o la disattivazione,
sotto supervisione internazionale di a) ogni arma chimica e batteriologica e ogni stock di
materiale […] e b) ogni missile balistico avente portata superiore ai centocinquanta
chilometri.”
La stessa Risoluzione richiedeva inoltre all’Iraq di cedere le armi a carattere
biologico e chimico ad una Speciale Commissione nonché distruggere i missili
dichiarati illegali dalle disposizioni interne della Risoluzione, cioè quelli aventi
portata di tiro superiore ai centocinquanta chilometri, sotto la supervisione della
stessa Commissione.
I paragrafi 33 e 34 della Risoluzione 687 dichiaravano che, subordinato alla
notifica irachena della ufficiale accettazione della Risoluzione 687 (1991)
emanata dal Consiglio di Sicurezza, un formale cessate il fuoco sarebbe stato
deciso tra le due Nazioni belligeranti, Iraq e Kuwait, a seguito della sua
invasione. Tuttavia, anche successivamente ad una notifica del Governo
iracheno in tal senso, al Consiglio premeva di sottolineare come rimanesse
investito della questione, riservandosi l’esclusivo diritto di prendere eventuali
ulteriori misure nel caso in cui la situazione ne avesse richiesto l’intervento86.
85 Risoluzione 678 (1990), www.un.org. 86 Risoluzione 687 (1991), Paragrafi 33 - 34: “A seguito della notifica formale da parte irachena verso il Segretario Generale e verso il Consiglio di Sicurezza dell’accettazione delle disposizioni di cui sopra, un formale cessate il fuoco risulta effettivo tra Iraq e Kuwait e gli Stati membri cooperanti con il Kuwait secondo quanto disposto dalla risoluzione 678 (1990)”; “[Il Consiglio di Sicurezza] decide di rimanere investito della questione, e di prendere decisioni successive se dovesse risultare necessario per la messa in opera della presente risoluzione e per assicurare la pace e la sicurezza nella regione”; www.un.org.
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Nel tempo intercorso tra l’adozione della RCS 687 e i nostri giorni, il Consiglio
di Sicurezza ha riscontrato in più occasioni le violazioni dell’Iraq agli obblighi
imposti dalla Risoluzione 687 (1991)87.
Da ultimo, la sistematica violazione degli obblighi imposti dalla Risoluzione 687
(1991) ed il continuo manifesto disinteresse per le successive risoluzioni che
riaffermavano l’importanza del rispetto delle disposizioni in essa contenute,
hanno condotto il Consiglio di Sicurezza ad adottare la Risoluzione 1441
(2002)88. Quest’ultima, nel suo preambolo, richiamava il fatto che la RCS 678
autorizzava gli Stati membri ad usare ogni mezzo necessario a far rispettare la
Risoluzione 660 (1990) e tutte le risoluzioni successive ad essa, nonché a
ripristinare la pace e la sicurezza nella regione. Inoltre, venivano richiamati gli
obblighi imposti all’Iraq con la Risoluzione 687, ed altresì il fatto che essi
costituissero un passo necessario per il raggiungimento degli obiettivi in essa
contenuti, tra cui il ristabilimento della pace e della sicurezza nell’area in
questione. A tal proposito, lo stesso preambolo dichiarava che “nella Risoluzione
687 (1991) il Consiglio di Sicurezza dichiarava come il cessate il fuoco fosse subordinato
all’accettazione da parte dell’Iraq delle condizioni imposte da quella Risoluzione, ivi
compresi gli obblighi in essa contenuti”89.
87 Ad esempio, Risoluzione 1115 (1997) “condemns the repeated refusal of the Iraqi authorities to allow access to sites designated by the Special Commission, which constitutes a clear and flagrant violation of the provisions of Security Council resolution 687 (1991)”; Risoluzione 1137 (1997) “condemns the continued violations by Iraq of its obligations under the relevant resolutions to co-operate fully and unconditionally with the Special Commission”; Risoluzione 1194 (1998) “condemns the decision by Iraq of 5 August 1998 to suspend cooperation with the Special Commission and the IAEA, which constitutes a totally unacceptable contravention of its obligations under resolution 687 (1991)”; Risoluzione 1205 (1998) “condemns the decision by Iraq of 31 October 1998 to cease co-operation with the Special Commission as a flagrant violation of resolution 687 (1991) and other relevant resolutions”. 88 Risoluzione 1441 (2002), reperibile presso il sito ufficiale delle Nazioni Unite, www.un.org. 89 Preambolo Risoluzione 1441 (2002). La risoluzione 1441, nel suo preambolo, richiama esplicitamente la RCS 678 in termini direttamente riferiti ad essa come avente ancora forza.
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A questo punto risulta facilmente comprensibile quale sia la posizione assunta
dalle tre Nazioni che hanno portato avanti la teoria secondo cui la violazione
irachena di alcune delle disposizioni contenute nelle precedenti risoluzioni
giustificasse di per sé un attacco armato anche in assenza di una ulteriore
risoluzione del Consiglio di Sicurezza contenente un’autorizzazione all’uso della
forza ex art. 42 della Carta delle Nazioni Unite. A tal proposito, veniva ritenuto
che la passata e continua violazione della Risoluzione 687 (1991) da parte
dell’Iraq abbia negato le basi su cui era stato formalizzato il “cessate il fuoco” da
parte del Consiglio di Sicurezza. Da questo punto di vista, infatti, l’Iraq avrebbe
dimostrato di non avere, in concreto, accettato i termini della Risoluzione 687.
Di conseguenza, il cessate il fuoco risultante dall’adozione del documento risulta
invalido, in quanto una parte fondamentale della Risoluzione in questione non è
stata rispettata, annullandone l’effettiva ragion d’essere. Da tale affermazione
deriva un’automatica “reviviscenza” dell’autorizzazione all’uso della forza che
era stata fornita dal Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 678 (1990), e
partendo dal presupposto che l’autorizzazione del 1990 consentisse
effettivamente il ricorso all’uso della forza armata, non sussisterebbe la necessità
di adottare una nuova risoluzione contenente l’autorizzazione ad intervenire
militarmente. Se è pur vero che può essere posto in essere il problema della
desuetudine di una risoluzione antiquata e rimasta non applicata per molti anni,
è innegabile che la situazione che si è andata costituendo durante gli anni
intercorsi tra la sua approvazione e la data di inizio delle ostilità ha mostrato
come tutti gli sforzi compiuti dalle Nazioni Unite con lo scopo di vederla
rispettata non sono andati a buon fine. Sarebbe pertanto inaccettabile la tesi
secondo cui un’azione bellica nei confronti dell’Iraq portata avanti in assenza di
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un’ulteriore autorizzazione del Consiglio di Sicurezza sia da considerarsi come
un’azione unilaterale priva di fondamento giuridico basato sul diritto
internazionale consuetudinario e pattizio.
A questo proposito è parimenti da considerarsi inaccettabile l’ipotesi avanzata da
alcuni90 secondo cui parte del paragrafo 34 della Risoluzione 687 (1991) (in
particolare laddove viene evidenziato il ruolo futuro del Consiglio di Sicurezza
nel mantenere la responsabilità nella decisione se intraprendere o meno ulteriori
azioni nei confronti dell’Iraq91) precluderebbe nei fatti la possibilità ai singoli
Stati d’intraprendere essi stessi ogni tipo di azione unilaterale nei confronti dello
Stato di Saddam Hussein in assenza di una previa autorizzazione del Consiglio
di Sicurezza.
L’attacco armato sferrato da Stati Uniti ed alleati nel Marzo 2003 troverebbe
un’ulteriore giustificazione direttamente ricollegabile alla precedentemente citata
Risoluzione 687 (1991): la Risoluzione 687, infatti, secondo alcuni non avrebbe
contenuti analoghi a quelli di un Trattato di pace così come si è soliti conoscerlo.
Essa risulterebbe, piuttosto, un armistizio, vale a dire un documento congiunto
che non ponga effettivamente termine alle operazioni militari, ma ne sospenda la
messa in atto grazie ad un accordo bilaterale tra le parti belligeranti92. Posta tale
premessa, ne conseguirebbe che, di fronte alla palese violazione irachena delle
disposizioni inserite nella Risoluzione 687 (1991), la cessazione temporanea
delle ostilità attivata dal cessate il fuoco, possa riattivare l’autorizzazione
contenuta nella Risoluzione 678 (1990), e quindi consentire agli Stati di
90 Si veda, fra tutti A. Martyn, Disarming Iraq under International Law, Information, Analysis and Advice for the Parliament, Information and Research Services, No 9, 2002-2003. 91 Risoluzione 687 (1991): “Take such further steps as may be required for the implementation of the present resolution and to secure peace and security in the region”. 92 Convenzione dell’Aia, 1907: “[A] suspend[ed] military operations by mutual agreement between the belligerent parties.” “any serious violation of the armistice by one of the parties gives the other
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intraprendere una nuova azione militare nei confronti dell’Iraq per far rispettare
gli obblighi disonorati. Saddam Hussein rifiutò di conformarsi ai vincoli a lui
imposti dalla comunità internazionale per tramite delle Nazioni Unite, vincoli
quali la completa distruzione delle sue armi di distruzione di massa e dei sistemi
di lancio e utilizzo delle stesse: questa è una chiara e flagrante violazione di una
risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. che la stessa Risoluzione
1441 ha confermato al suo interno93.
2.2.3 - La Risoluzione 1441 (2002):
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la Risoluzione 1441
(2002) nella sua 4644esima sessione in data 8 Novembre 2002.
Il documento in questione è stato senza dubbio uno dei punti cardine per quanto
concerne l’invasione alleata all’Iraq, nonché uno degli ultimi capitoli di una
lunga discussione in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite.
La Risoluzione in esame è stata l’ultimo passaggio effettuato presso il Consiglio
di Sicurezza delle Nazioni Unite, prima che la decisione definitiva di sferrare
l’attacco all’Iraq (iniziato il 19 Marzo del 2003) venisse presa dagli Stati Uniti e
dalle Nazioni loro alleate, e l’invasione militare fosse iniziata.
Il testo della Risoluzione 1441 (2002) merita di essere in tal senso analizzato con
grande attenzione, contenendo alcune parti che hanno suscitato diverse
party the right of denouncing it, and even, in cases of urgency, of recommencing hostilities immediately”. 93 Risoluzione 1441 (2002): “[Il Consiglio di Sicurezza] agendo in base al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite: 1. Decide che l'Iraq è stato e rimane in violazione sostanziale dei suoi obblighi in base alle risoluzioni pertinenti, compresa la risoluzione 687 (1991), in particolare attraverso la sua non cooperazione con gli ispettori delle Nazioni Unite e l'IAEA, e il non completamento delle azioni richieste in base ai paragrafi da 8 a 13 della risoluzione 687 (1991)”.
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perplessità sul concreto significato da riconoscergli94. Per mezzo della
Risoluzione in questione è stata infatti offerta allo Stato iracheno un’ultima
occasione per rispettare le disposizioni contenute nella Risoluzione 687 (1991) e
consentire agli ispettori dell’A.I.E.A. e dell’UN.MO.V.I.C. di effettuare sul suo
territorio le ispezioni che
l’Iraq aveva volutamente ostacolato ed impedito nel corso dei dodici anni
precedenti95.
94 In particolar modo sono da sottolineare i punti 2 e 13: “2. Decide, riconoscendo il paragrafo 1 di cui sopra, di offrire all’Iraq, mediante questa risoluzione, un’ultima opportunità di adempiere ai suoi obblighi sul disarmo sulla base delle risoluzioni pertinenti del Consiglio; e di conseguenza decide di istituire un regime potenziato di ispezioni allo scopo di portare a compimento completo e verificato il processo di disarmo istituito dalla risoluzione 687 (1991) e dalle successive risoluzioni del Consiglio”; “13. Ricorda, in questo contesto, che il Consiglio ha avvertito ripetutamente l'Iraq che esso affronterà gravi conseguenze per effetto delle sue continue violazioni dei suoi obblighi”. 95 Al punto 7, infatti, la risoluzione 1441 impone le seguenti condizioni: “[Il Consiglio di Sicurezza] decide inoltre che, in considerazione della prolungata interruzione della presenza dell'UNMOVIC e dell'IAEA da parte dell'Iraq, e affinché esse portino a termine i compiti esposti in questa risoluzione e in tutte le precedenti risoluzioni pertinenti, e nonostante intes e precedenti, il Consiglio con la presente stabilisce le seguenti autorizzazioni rivedute o supplementari, che saranno vincolanti per l'Iraq, per facilitare il loro lavoro in Iraq: - L'UNMOVIC e l'IAEA determineranno la composizione delle loro squadre di ispettori e garantiranno che queste squadre siano composte dagli esperti più qualificati e competenti disponibili; - Tutto il personale dell'UNMOVIC e dell'IAEA godrà dei privilegi e delle immunità corrispondenti a quelle degli esperti in missione, previste nella Convenzione sui privilegi e le immunità delle Nazioni Unite e nell'Accordo sui privilegi e le immunità dell'IAEA; - L'UNMOVIC e l'IAEA avranno diritti di ingresso senza restrizioni dentro e fuori l'Iraq, il diritto di muoversi liberamente, senza restrizioni e immediatamente verso e dai siti oggetto di ispezioni, e il diritto di ispezionare qualsiasi sito ed edificio, compreso l'accesso immediato, senza ostacoli, senza condizioni e senza restrizioni ai siti presidenziali pari a quello a tutti gli altri siti, nonostante le disposizioni della risoluzione 1154 (1998); - L'UNMOVIC e l'IAEA avranno il diritto di ricevere dall'Iraq i nominativi di tutto il personale attualmente e precedentemente collegato ai programmi chimici, biologici, nucleari e balistici dell'Iraq e agli impianti per la ricerca, sviluppo e produzione collegati; - La sicurezza delle strutture dell' UNMOVIC e dell'IAEA sarà garantita da un numero sufficiente di guardie delle Nazioni Unite; - L'UNMOVIC e l'IAEA avranno il diritto di dichiarare, allo scopo di "congelare" un sito da ispezionare, zone di esclusione, comprese le aree circostanti e i corridoi di transito, nelle quali l'Iraq sospenderà i movimenti aerei e terrestri in modo che niente venga modificato all'interno o portato fuori da un sito in corso di ispezione; - L'UNMOVIC e l'IAEA avranno l'utilizzo e l'atterraggio libero e senza restrizioni di velivoli fissi e a rotazione, compresi veicoli da ricognizione con e senza pilota; - L'UNMOVIC e l'IAEA avranno il diritto, a loro sola dis crezione, in modo verificabile di rimuovere, distruggere, o rendere innocue tutte le armi. i subsistemi, i componenti, i documenti, i materiali e altri articoli relativi proibiti, e il diritto di sequestrare o chiudere qualunque impianto o attrezzatura per la loro produzione; - L'UNMOVIC e l'IAEA avranno il diritto di importare e utilizzare liberamente attrezzature o materiali per ispezioni e di confiscare ed esportare qualsiasi attrezzatura, materiale o documento preso durante le ispezioni, senza perquisizioni del personale dell'UNMOVIC o dell'IAEA o del bagaglio ufficiale o personale”.
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L’eventualità che il regime di Saddam Hussein non si dimostrasse pienamente
ligio alle condizioni impostegli dal Consiglio di Sicurezza era tuttavia stata presa
in considerazione all’interno del paragrafo 4 della Risoluzione 687, in cui veniva
chiaramente evidenziato come un mancato rispetto degli impegni presi con
l’approvazione della Risoluzione in questione, o una verificata omissione di
alcune sue parti circa la richiesta di dichiarazioni in materia di arsenale bellico e
missilistico detenuto dal regime, sarebbero stati considerati come un’ulteriore
contravvenzione agli obblighi istituiti nei confronti dell’Iraq, e di conseguenza
avrebbero necessariamente portato all’annullamento del cessate il fuoco indetto
nel 199196.
Dal momento in cui tale Risoluzione fu adottata, il Dr. Blix, nominato “Executive
Chairman” dell’UN.MO.V.I.C., ha fatto pervenire, come da accordi, numerosi
resoconti al Consiglio di Sicurezza, contenenti i risultati e i valori ottenuti sul
campo durante lo svolgimento delle ispezioni. Nel suo briefing del 7 Marzo 2003,
Blix espresse rilevazioni positive concernenti la collaborazione di parte irachena,
pur tuttavia notando come tale cooperazione non poteva dirsi immediata, né
considerarsi completa, in quanto alcuni settori delle disposizioni imposte dalla
Risoluzione 1441 (2002) non erano ancora stati sviluppati97. Pertanto, al
momento dell’attacco alleato, l’effettiva e dichiarata eliminazione di tutte le armi
di distruzione di massa in possesso delle autorità irachene rimaneva incerta ed in
assenza di verifica. In tal senso, secondo il parere degli alleati, non vi sarebbero
stati dubbi che l’Iraq restasse in violazione materiale degli obblighi imposti dalla
96 Risoluzione 1441 (2002): “4. [Il Consiglio di Sicurezza] decide che dichiarazioni false o omissioni nelle dichiarazioni presentate dall'Iraq ai sensi di questa risoluzione e l'inadempienza nei suoi confronti in qualunque momento da parte dell'Iraq nonché la sua non piena cooperazione nella sua attuazione costituiscono una ulteriore violazione sostanziale degli obblighi e saranno riferite al Consiglio per una valutazione conformemente ai paragrafi 11 e o 12 di cui sotto”.
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Risoluzione 1441 (2003), che fa riferimento diretto, nel suo preambolo, alla già
appurata violazione delle disposizioni di cui alla Risoluzione 687 (1991), nonché
di altre rilevanti Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Risulta evidente, pertanto, da parte alleata, come l’Iraq abbia fallito nel rispettare
appieno ed immediatamente tutte le condizioni ad esso indirizzate dalla 1441.
Il passaggio diretto alla fase militare operativa a seguito del giudizio negativo
sulla cooperazione irachena durante i primissimi mesi dall’adozione del
documento, è stato considerato automatico da parte di Stati Uniti e Gran
Bretagna, la cui presentazione congiunta98 di un’ulteriore bozza di risoluzione
autorizzante l’uso della forza veniva avanzata solo per le pressanti richieste del
Governo britannico, che fino all’ultimo ha cercato di legittimare l’attacco (già
organizzato e pronto) e di riportarlo nell’alveo della Carta delle Nazioni Unite,
oltre che, in vista del tentativo di ottenere i nove voti su quindici in seno al
Consiglio necessari per l’approvazione del testo99. Malgrado ciò, la rigida
posizione assunta dal Governo francese per voce del suo Rappresentante
permanente rendeva vana tale eventualità, e faceva sì che anche il Governo di
Putin si allineasse alla posizione di Parigi.
La situazione di palese violazione dei contenuti a carattere vincolante delle
precedenti Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza nei confronti dell’Iraq
97 Verification and Inspection Commission, Consiglio di Sicurezza, 7 Marzo 2003: “[Cooperation] cannot be said to costitute immediate co-operation. Nor do they [initiatives] necessarily cover all areas of relevance”. 98 Stati Uniti e Gran Bretagna hanno presentato, insieme con la Spagna di Aznar, una prima bozza di risoluzione presso il Consiglio di Sicurezza il 24 Febbraio del 2003, mentre, successivamente, una nuova risoluzione veniva proposta da Stati Uniti e Gran Bretagna il 7 Marzo 2003, ricevendo la promessa di utilizzo del diritto di veto negativo da parte della Francia, e, a seguire, anche di Russia e Cina. 99 La Federazione Russa, che successivamente si sarebbe schierata nel campo degli Stati contrari all’intervento armato, aveva fatto inizialmente palesare l’ipotesi di poter far pesare il suo voto favorevole all’attacco, a seguito di incontri esterni al rito delle discussioni preparative, in cui si era avvicinata alla posizione degli Stati Uniti in virtù di possibili punti d’incontro costituiti da accordi economici.
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accertata dalla Risoluzione 1441 (2002) avrebbe di fatto automatizzato il diritto
degli Stati Uniti e dei suoi alleati di porre fine al “cessate il fuoco” creato dalla
Risoluzione 687 (1991), riesumando pertanto direttamente la validità
dell’autorizzazione all’uso di ogni mezzo necessario per porre fine alla minaccia
e ristabilire la pace e la sicurezza internazionale nella regione che era stata
concessa con la Risoluzione 678 (1990)100.
Nel contesto multilaterale, infatti, è chiaro come una palese e materiale
violazione di un Trattato internazionale da parte di uno degli Stati vincolati dal
Patto, consenta agli altri Stati (ed in modo specifico a coloro i quali siano
particolarmente colpiti dalla violazione) di sospendere l’operatività del Trattato
in parte o nella sua interezza nei riguardi dello Stato trasgressore. Allorquando
l’inadempienza delle regole cambi radicalmente la situazione creata
dall’accordo, sussiste anche per Stati non specificamente penalizzati dal mancato
rispetto degli accordi la possibilità di procedere ad una totale o parziale
sospensione degli obblighi nei suoi confronti101.
Nessuna disposizione contenuta nella Risoluzione 1441 (2002), infatti, sembra,
nell’opinione dei Governi alleati, portare verso l’idea che fosse necessaria una
ulteriore risoluzione del Consiglio di Sicurezza, nel caso in cui venisse appurato,
successivamente alla sua approvazione, che l’Iraq avesse violato uno qualsiasi
100 J. Yoo, in The American Journal of International Law, Vol. 97, Iss. 3, Jul 2003. 101 Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati, 23 Maggio 1969, art 60(2) (b) e (c): “Una violazione sostanziale di un trattato multilaterale ad opera di una delle parti legittima: a) le altre parti, operanti di comune accordo, a sospendere totalmente o parzialmente l'applicazione del trattato o a considerarlo estinto: i) sia nei rapporti fra esse stesse e lo Stato autore della violazione, ii) sia nei loro rapporti reciproci; b) una parte colpita in modo particolare dalla violazione ad invocare quest'ultima come motivo di sospensione totale o parziale dell'applicazione del trattato nei suoi rapporti con lo Stato autore della violazione; c)qualsiasi altra parte diversa dallo Stato autore della violazione a invocare quest'ultima come motivo di sospensione totale o parziale dell'applicazione del trattato per quanto la riguarda se tale trattato è di tale natura che una violazione sostanziale delle sue disposizioni ad opera di una delle parti modifica radicalmente la situazione di ciascuna delle parti per ciò che riguarda l'adempimento dei suoi obblighi ai sensi del trattato”.
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degli obblighi in essa contenuti. In tal senso, dunque, il punto 13 della RCS 1441
(2002)102 andrebbe interpretato come un paragrafo che possa, in modo diretto,
provocare, di fronte ad una relazione negativa dei commissari incaricati delle
ispezioni e/o di fronte a rilevanti omissioni da parte irachena su quantità,
posizione e natura di materiali ritenuti vietati dalle precedenti RCS in materia di
disarmo, non proliferazione ed ispezioni, un ricorso all’uso della forza armata ex
artt. 42 e/o 51 della Carta delle Nazioni Unite.
Nessuna argomentazione concreta è stata avanzata nel corso dei mesi successivi
all’adozione della Risoluzione 1441 (2002) concernente il fatto che le
dichiarazioni fornite dal Governo iracheno al Consiglio di Sicurezza e agli
ispettori delle nazioni Unite presenti sul territorio fossero realmente “accurate,
intere e complete” a proposito della situazione del possesso delle sue armi di
distruzione di massa. Tantomeno è stato dimostrato che l’Iraq abbia pienamente
cooperato alla messa in pratica della Risoluzione103. Sottostando, dunque, ai
principi della Risoluzione 1441, il Consiglio aveva già decretato che qualsiasi
fallimento nella cooperazione del regime di Saddam Hussein ne avrebbe
costituito un’ulteriore violazione.
Malgrado ciò, gli Stati Uniti decisero di presentarsi nuovamente di fronte al
Consiglio di Sicurezza per esporre ulteriori considerazioni: tale azione risulta in
ogni caso essere concorde con quanto indicato dalla stessa Risoluzione 1441
(2002), la quale comprendeva alcuni passaggi riguardanti il rapporto sulle
eventuali violazioni e le relative considerazioni del Consiglio stesso. Seguendo le
102 Risoluzione 1441 (2002): “13. Ricorda, in questo contesto, che il Consiglio ha avvertito ripetutamente l'Iraq che esso affronterà gravi conseguenze per effetto delle sue continue violazioni dei suoi obblighi”; ”14. Decide di rimanere investito della questione”. 103 W. H. Taft IV e T. F. Buchwald, Preemption, Iraq, and International Law, in The American Journal of International Law, Vol. 97, Iss. 3, Jul 2003.
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predette indicazioni, gli Stati Uniti si sono impegnati a garantire il ritorno in sede
di Consiglio per le discussioni del caso104.
Nello specifico, infatti, sottostando al paragrafo 4, ogni trasgressione compiuta
dall’Iraq che costituisse un’ulteriore violazione sostanziale degli obblighi ad esso
indirizzati, doveva essere riferita al Consiglio per poter essere valutata
conformemente ai paragrafi 11 e 12. Secondo quanto indicato dal paragrafo 11,
l’UNMOVIC e l’AIEA avevano il compito di riferire immediatamente al
Consiglio di Sicurezza qualsiasi interferenza compiuta dall’Iraq nell’attività degli
ispettori, nonché qualsiasi inadempienza verso i suoi obblighi sul disarmo.
Secondo quanto previsto al paragrafo 12, inoltre, il Consiglio decideva di riunirsi
immediatamente all’arrivo di un rapporto in conformità con i paragrafi 4 o 11 “al
fine di prendere in considerazione la situazione e la necessità di una piena adempienza
verso tutte le risoluzioni pertinenti del Consiglio al fine di garantire la pace e la sicurezza
internazionale”. In nessuno dei paragrafi sopra citati viene enunciata alcuna
limitazione sulla provenienza di tali rapporti, includendo implicitamente, ad
opinione degli alleati, anche gli Stati membri nel processo di verifica e denuncia.
Non risulta, infatti, nelle disposizioni della Risoluzione 1441 (2002), alcuna
clausola che impedisca ad uno Stato membro di riferire un resoconto
concernente violazioni o mancata cooperazione che possa portare il Consiglio a
riunirsi secondo quanto disposto dal paragrafo 12105.
104 UN Doc. S/PV.4644, 3 (2002), Remarks of ambassador Negroponte; inoltre, Remarks on the Passage of a United Nations Security Council Resolution on Iraq, 38 WEEKLY COMP. PRES. DOC. 2009 – 2010 (11 Novembre 2002): “The United States has agreed to discuss any material breach with the Security Council, but without jeopardizing our freedom of action […]”. 105 La possibilità d’intervento diretto nell’invio di un rapporto al Consiglio di Sicurezza è evidente negli stessi propositi della Carta, che, all’art. 35, dispone che “Ogni Membro delle Nazioni Unite può sottoporre qualsiasi controversia o situazione della natura indicata nell’art. 34 (che fa riferimento a qualsiasi situazione che possa portare ad un attrito internazionale o dar luogo ad una controversia, allo scopo di determinare se la continuazione della controversia o della situazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale) all’attenzione del Consiglio di Sicurezza o dell’Assemblea Generale […]”.
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Parimenti, durante le discussioni tra i rappresentanti permanenti degli Stati che
compongono il Consiglio di Sicurezza che hanno preceduto la votazione della
Risoluzione 1441 (2002), il rappresentante francese disse che il documento in
questione non conteneva alcun sistema di “automazione” per la possibilità di
uso della forza armata106. In risposta, però, il rappresentante permanente degli
Stati Uniti spiegò chiaramente come esso non contenesse nemmeno una clausola
che impedisse ad uno Stato membro di agire per difendere sé stesso dalla
minaccia posta in essere dall’Iraq o per far rispettare le precedenti risoluzioni
inerenti il caso Iraq e proteggere la pace e la sicurezza internazionale107.
Ogni diverso genere di ulteriori modalità d’azione nei confronti dell’Iraq fu reso
impossibile dall’annuncio del Ministro degli Esteri francese nel Marzo 2003 che
il suo Paese avrebbe posto il veto a qualunque ulteriore risoluzione che avesse
compreso la possibilità di utilizzo dell’uso della forza. Baghdad ha concesso il
rientro degli ispettori dell’O.N.U. nel Dicembre 2002 solo dopo che novantamila
truppe alleate si furono posizionate sul Golfo Persico, mentre le prime
concessioni verso gli stessi ispettori furono offerte solo al raggiungimento delle
duecentomila unità poste ai suoi confini108. Un atteggiamento considerato
conciliante e remissivo assunto dalle autorità irachene solo di fronte
all’inevitabilità dell’attacco, allorché fino a quel momento il loro comportamento
verso gli ispettori aveva rispecchiato quello adottato nei dodici anni precedenti.
106 UN Doc. S/PV.4644, 2002, Statement of Ambassador Levitte: “France welcomes the fact that […] all elements of automaticity have disappeared from the resolution”. 107 Statement of Ambassador Negroponte: “[The resolution doesn’t] constrain any Member State from acting to defend itself against the threat posed by Iraq or to enforce relevant United Nations resolutions and protect world peace and security”.
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2.3 - Il principio di legittima difesa, ex articolo 51 della Carta delle Nazioni
Unite:
Già precedentemente all’adozione della Risoluzione 1441 (2002) e a maggior
ragione di fronte al palese rifiuto da parte della maggioranza dei Membri
componenti il Consiglio di Sicurezza, dei maggiori esponenti delle istituzioni
O.N.U. e della comunità internazionale nel suo complesso di avallare un’azione
comportante l’uso della forza armata nei confronti dell’Iraq in assenza di una
previa nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza, gli Stati componenti la
cosiddetta “coalition of the willing” avanzarono ulteriori tesi in favore della
legalità di un attacco armato verso il Governo di Saddam Hussein.
Anche mettendo da parte le questioni e le analisi delle realtà create dalle
risoluzioni delle Nazioni Unite, in particolare le tre Risoluzioni su cui si è
maggiormente concentrata la discussione concernente la legalità (secondo il
diritto internazionale) dell’invasione alleata del 19 marzo 2003, è parere degli
studiosi che sostengono la tesi anglo-americana che la guerra sarebbe stata in
ogni caso giustificata in base all’esercizio dell’autotutela (o legittima difesa)
preventiva. Secondo il diritto internazionale consuetudinario comunemente
riconosciuto ed accettato, dunque, di fronte ad una simile visione della
situazione irachena, gli Stati Uniti ed i loro alleati avrebbero potuto attaccare
l’Iraq (come hanno fatto) anche senza una nuova autorizzazione del Consiglio di
108 R. Wedgwood, The fall of Saddam Hussein: Security Council mandates and preemptive self-defense, in The American Journal of International Law, Vol. 97, Iss. 3, Jul 2003.
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Sicurezza; tale attacco sarebbe stato in ogni caso giustificato dalla situazione di
pericolo e minaccia internazionale creata dal regime di Saddam Hussein109.
Già a partire dalla crisi missilistica di Cuba del 1962, l’”Office of Legal Council”
del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti esponeva, in un memorandum
interno, come ogni Stato avesse pieno diritto di proteggersi prevenendo una
condizione nella quale potesse essere troppo tardi per farlo110. Sempre nel 1962, il
Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy riconosceva che la situazione
mondiale che si era venuta a creare non consentiva più un atteggiamento di
attesa del primo attacco per rispondere ad una minaccia111.
Nel 1967, Israele lanciava un attacco diretto e mirato verso le truppe Egiziane
presenti massicciamente lungo il confine tra i due Paesi: questo caso viene più
volte citato quale il più classico dei moderni esempi di legittima difesa
preventiva: Israele, tuttavia, giustificò tale azione bellica teorizzando che la
palese preparazione all’attacco che il Governo egiziano stava portando avanti
con il proprio esercito a minaccia delle frontiere israeliane era da considerarsi un
attacco armato112.
Ancora, nel 1981, Israele legittimò il suo attacco al reattore nucleare iracheno di
Osirak, in procinto di essere ultimato, sulla base dell’autotutela preventiva,
argomentando tale tesi con la convinzione che l’azione armata, in quel caso,
fosse vitale per la propria sicurezza nazionale e per la stessa sopravvivenza dello
Stato di Israele. In tale occasione, gli Stati Uniti, rappresentati dall’ambasciatore
109 J. Yoo, International Law and the War in Iraq, in The American Journal of International Law, Vol. 97, Iss. 3, Jul 2003, pag. 563. 110 Memorandum for the Attorney General, from N. A. Schlei, Assistant Attorney General, Office of Legal Counsel, Re: Legality under International Law of Remedial Action Against Use of Cuba as a Missile Base by the Soviet Union (Aug. 30, 1962). 111 Discorso alla Nazione sulla costruzione di missili sovietici a Cuba, 22 ottobre 1962: “[W]e no longer live in a world where only the actual firing of weapons represent a sufficient challenge to a nation’s security to constitute maximum peril”.
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Jeane Patrick, non presero posizione sull’esistenza effettiva di un tale diritto (di
legittima difesa preventiva), ma condannarono l’azione del governo israeliano in
quanto esso mise a repentaglio la pace e la sicurezza della regione, senza previo
ricorso a misure pacifiche che non prevedessero l’uso della forza armata113.
La formula classica di legittima difesa preventiva, così come tutt’ora viene
considerata e conosciuta, nasce con l’incidente della Caroline, nel Dicembre del
1837: a seguito del fallimento di una sommossa anti-britannica nei pressi di
Toronto, William Lyon Mackenzie, il leader dei ribelli, fuggì attraverso il
confine e ottenne il supporto di alcuni cittadini americani che si convinsero a
partecipare alla sua causa, vista in modo parallelo alla questione delle tredici
colonie americane. Convocò i nuovi militanti presso il fiume Niagara ed occupò
un’isola canadese inabitata con l’aiuto di una ventina di uomini al suo seguito.
Nel giro di pochi mesi il numero di individui, in prevalenza americani, aumentò
fino a raggiungere il migliaio di elementi. La risposta del Governo britannico si
concretizzò nell’appostamento di duemila uomini della milizia e nella richiesta
agli Stati Uniti di interrompere il flusso di persone e materiali verso l’isola.
All’aumentare della tensione, la marina britannica ricevette l’ordine di colpire e
catturare il piroscafo Caroline, da cui prende il nome la vicenda, che trasportava,
inviati dagli Stati Uniti, aiuti sotto forma di armamenti e personale in soccorso
degli insorti canadesi contro la Gran Bretagna. Una forza britannica proveniente
da territorio canadese si rese conto che il battello si trovava in territorio
americano, ma decise di portare a compimento l’ordine ricevuto in ogni caso;
penetrò sul suolo statunitense e incendiò il piroscafo, facendolo successivamente
precipitare dal dislivello naturale costituito dalle cascate del Niagara, le quali si
112 M. Sapiro, Iraq: The shifting sands of preemptive self-defense, in The american journal of International Law, Vol. 97, Iss. 3, Jul 2003.
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trovano al confine tra i due Paesi. Nell’operazione persero la vita due cittadini
americani114. In conseguenza di tali avvenimenti la Gran Bretagna si giustificò
sostenendo di aver agito per legittima difesa; l’allora Segretario di Stato
americano Daniel Webster pretese di conseguenza che i britannici dimostrassero
come la necessità di agire secondo tale principio fosse subordinata ad una reale
situazione in cui la minaccia fosse concretamente immediata, opprimente, tale
da non lasciare alcuna possibilità di scelta o tempo di riflessione. Aggiunse
inoltre che la Nazione attaccante aveva la responsabilità di limitare il suo agire
in legittima difesa e non effettuare misure eccessive e non necessarie. In tal
senso, infatti, deve essere circoscritto il diritto ad agire in legittima difesa per
poter essere giuridicamente accettabile115. L’anno successivo, Lord Ashburton,
inviato dalla Gran Bretagna in qualità di speciale ministro incaricato di risolvere
la questione Caroline ed altri problemi ad essa collegati, accettò implicitamente la
tesi Webster adducendo motivazioni rientranti nelle condizioni precedentemente
poste da quest’ultimo116. La formula di Webster, comprendente le condizioni
perché un’azione possa essere ricompressa nell’ambito della legittima difesa,
venne successivamente ripresa, al termine della Seconda Guerra Mondiale, dal
Tribunale Militare di Norimberga, in cui venne giudicata illegale l’invasione
nazista della Norvegia perché considerata non necessaria a prevenire un
imminente attacco alleato117.
113 Risoluzione 487 (1981), 18 Giugno 1981. 114 A. J. Bellamy, International Law and the War with Iraq, in Feature – Legalità of the Use of Force against Iraq, Melbourne Journal of International Law, 2003. 115 Lettera da Daniel Webster, Segretario di Stato degli Stati Uniti, a Henry Fox, Ambasciatore britannico a Washington, 24 aprile 1841, BRITISH AND FOREIGN STATE PAPERS 1840-1841. 116 Lettera da Lord Ashburton a Daniel Webster, 18 luglio 1842, BRITISH AND FOREIGN STATE PAPERS; anche consultabile presso www.yale.edu/lawweb/avalon/diplomacy/britain/br-1842d.htm. 117 Tribunale Militare Internazionale (Norimberga)–Giudizi e Sentenze: “preventive action in foreign territory is justified only in case of an instant and overwhelming necessity for self-defence, leaving no choice of means, and no moment for deliberation”.
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Negli ultimi due decenni, gli Stati Uniti hanno utilizzato la forza armata in
circostanze di legittima difesa preventiva in diverse occasioni, in particolare
contro Libia (in questo caso l’attacco venne giustificato in base alla necessaria
prevenzione futura ed immediata di possibili attacchi terroristici118), Panama,
Iraq, Afghanistan e Sudan.
Risulta dunque che l’uso della forza secondo il principio di legittima difesa
preventiva debba necessariamente rispettare i principi di necessità e
proporzionalità nei confronti della minaccia.
Nell’ambito delle Nazioni ritenenti legale l’attacco all’Iraq, e consideranti il caso
specifico come rientrante nel contesto dell’autotutela anticipata, è stato ritenuto
che il giudizio sull’imminenza della minaccia sia più difficile da valutare,
trovandosi in presenza di nuovi tipi di pericoli imminenti non riconducibili a
Stati, o comunque di maggiormente complessa analisi e determinazione: è il
caso delle armi di distruzione di massa di cui il regime di Saddam Hussein era
accusato di essere detentore illegale; del nuovo terrorismo internazionale, che si
è dimostrato in grado di colpire in un modo e con una portata mai raggiunta
precedentemente, grazie a risorse, finanziamenti ed equipaggiamenti in
personale ed attrezzature senza precedenti nella storia; ed infine di quelli che gli
Stati Uniti d’America hanno definito “rogue states”, stati canaglia: Paesi, cioè,
aventi un atteggiamento di opposizione ed inimicizia verso gli U.S.A. e
l’occidente in generale, e per tale ragione considerati un pericolo imminente. E’
pertanto opinione di alcuni internazionalisti - ad esempio il professor John Yoo,
docente di legge presso la University of California at Berkeley (Boalt Hall) School of
Law - che attualmente vi siano nuovi fattori da considerare, quali la probabilità
118 Lettera allo Speaker della Camera dei Rappresentanti e al Presidente pro tempore del Senato sugli Attacchi Aerei Statunitensi contro la Libia, PAPERS OF RONALD REAGAN , 1986.
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dell’attacco; l’eventualità che tale probabilità possa aumentare; la necessità di
ottenere un vantaggio rispetto ad un ristretto ventaglio di opportunità; l’effettiva
efficacia delle alternative diplomatiche; ed infine la portata che tale minaccia
potrebbe effettivamente avere. Se invece uno Stato dovesse attendere fino a che
la minaccia si concretizzi appieno, il rischio diverrebbe quello di ridurre talmente
le proprie opportunità di prevenire, o rispondere alla minaccia, da mettere a
repentaglio la possibilità di farvi fronte in maniera efficace.
Nel caso specifico costituito dalla situazione irachena, il problema delle armi di
distruzione di massa (WMD) detenute ed utilizzabili dal regime di Saddam
Hussein, direttamente o attraverso il suo supporto ed interconnessione con
apparati terroristici internazionali esplicitamente creati per (e con lo scopo di)
attaccare i Paesi occidentali ed in particolar modo gli Stati Uniti, era da
considerarsi sufficiente per valutare imminente la minaccia da esso posta in
essere, rendendo pertanto legittimo il ricorso all’uso della forza per legittima
difesa, anche preventiva.
Il 12 Settembre 2001, nonché il 28 Settembre dello stesso anno, giorno
precedente l’inizio dell’attacco americano all’Afghanistan, il Consiglio di
Sicurezza, in prospettiva dell’intenzione espressa dagli Stati Uniti di agire contro
Al Qaeda ovunque si trovi ed operi, affermò il diritto di azione in legittima difesa
individuale e collettiva119.
Le affermazioni di principio utilizzate nella Risoluzione 1373 (2001), che al suo
paragrafo 2(b) utilizza una terminologia che può far pensare ad una concessione
119 Risoluzione 1368 (2001), Preambolo: “[r]ecognizing the inherent right of individual and collective self-defence in accordance with the Charter”; Risoluzione 1373 (2001), Preambolo: “[r]eaffirming the inherent right of individual or collective self-defence as recognized by the Charter of the United Nations as reiterated in resolution 1368”
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quasi illimitata di autorizzazione all’uso della forza120, nonché la tendenza
riscontrata in altre Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in cui venga riportato
un testo che sembri poter avere un più ampio effetto o margine di
interpretazione, sembrano aver ricompreso nei limiti di legalità dell’uso della
forza in legittima difesa preventiva altre “regole” generali precedentemente non
evidenziate:
1. Attacchi terroristici – almeno nei casi in cui la loro portata sia tale da
poter essere considerata un attacco armato in piena regola, secondo le
disposizioni dell’art. 51 della Carta, seppur non realizzati da uno Stato,
ma da attori non legati ad una Governo nazionale;
2. L’assistenza e l’asilo concessi da un Paese a gruppi illegali legati al
terrorismo internazionale, o la successiva rivendicazione da parte di uno
Stato di atti violenti compiuti da individui presenti sul proprio territorio,
o anche la sola negligenza dimostrata nel controllare e bloccare le azioni
di tali individui prima che siano in grado di colpire;
3. Il diritto di risposta comprendente il ricorso alla forza militare nei
confronti di terroristi colpevoli di azioni violente o di Stati che ne
proteggano l’operato non deve comunque mai oltrepassare i limiti imposti
dalla proporzionalità, malgrado l’imprevedibilità o la clandestinità di tali
attori e delle loro azioni121.
120 M. Byers, Terrorism, the Use of Force and International Law after 11 September, in International & Comparative Law Q., 2002. Egli ritiene che la frase in cui si dice che “[all States shall] take the necessari steps to prevent the commission of terrorist acts” possa essere interpretata in senso di mandato senza limiti all’utilizzo della forma armata per legittima difesa, in questo caso preventiva. 121 J. E. Alvarez, Hegemonic International Law Revisited , in The American Journal of International Law, Vol. 97, Iss. 4, Oct 2003.
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La presente situazione chiaramente mostra come, finché il Consiglio di
Sicurezza, o comunque le Nazioni Unite, non avranno dato una univoca ed
indiscutibile definizione di terrorismo in chiave moderna, la natura delle tre
regole sopra esposte non potrà che rimanere eccezionalmente indeterminata,
lasciando di conseguenza agli Stati membri una larghissima libertà di giudizio
nel determinare quali situazioni possano rientrare nella categoria di “nonstate
actors” descritta nella regola numero uno, e quindi agire all’interno dei suoi
confini per reprimerne la minaccia.
Parimenti poco definito risulta essere il livello di evidenza necessario perché
venga provata l’imminenza di un’azione terroristica in preparazione, data la non
chiara definizione di tali atti violenti e la complessità insita nella ricerca e
nell’anticipazione di un attacco122.
2.4 - Il principio concernente l’uso della forza per Intervento umanitario:
Ricompresa tra le varie giustificazioni che sono state portate avanti dalle Nazioni
alleate (Stati Uniti, Gran Bretagna ed Australia in primis), è stata avanzata
anche l’ipotesi dell’esistenza di un principio di intervento basato sul diritto
umanitario, teso, cioè, alla salvaguarda di popolazioni civili in pericolo di
sopravvivenza, per cause epidemiche, belliche o di altra natura.
Tale ipotesi, mirata dunque alla protezione ed alla salvaguardia degli individui
vittime di situazioni contro cui la Comunità internazionale non sia stata in grado
122 Ibidem.
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di operare in maniera efficace tramite i suoi sistemi principali, quali le Nazioni
Unite o altre organizzazioni specializzate, ha recentemente preso forza
all’interno di alcuni Stati, in particolar modo di fronte alle situazioni che si sono
venute a creare in alcune zone del pianeta (un esempio per tutti siano le atrocità
che ebbero luogo in Ruanda nel 1994, le quali portarono, tra l’altro, alla
creazione di un Tribunale Penale Internazionale ad hoc con lo scopo di
condannare i responsabili del crimine di genocidio123).
Data la sua stessa natura, il diritto internazionale necessita di trovarsi in uno
stadio di continuo sviluppo, dovendosi adattare alle nuove situazioni di crisi che
si vengono a creare nelle varie regioni del mondo, quali nuove potenzialità
belliche, nuovi tipi di armamenti, nuovi attori presenti sulla scena internazionale
e nuove minacce, recentemente soprattutto nascoste, o quantomeno di
maggiormente difficoltosa esternazione.
Il principio di intervento umanitario, così come viene definito, trova la sua
ragion d’essere a partire dal conflitto che si è tenuto nella ex-Yugoslavia nel
1999, allorquando il Consiglio di Sicurezza si trovò paralizzato dalla minaccia di
veto da parte di Russia e Cina, e il principio di legittima difesa individuale o
collettiva non poteva chiaramente essere applicabile124. La gravissima pulizia
etnica perpetrata dalle forze Serbo-Bosniache nei confronti delle minoranze
kosovare albanesi, mise la Comunità internazionale di fronte alla sua
impossibilità di azione, mentre il genocidio trovava continuo sviluppo in un
bilancio di giorno in giorno più pesante.
123 Risoluzione 955 (1994) - 8 Novembre 1994, reperibile presso il sito ufficiale delle Nazioni Unite, www.un.org. 124 Williams e Hovell, Advice to Hon Simon Crean MP on the Use of Force against Iraq, in Feature, Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003.
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In quella circostanza, le forze della N.A.T.O. lanciarono attacchi militari in
assenza di un’autorizzazione esplicita del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite. Tale azione, in virtù dell’assenza di uno specifico mandato del Consiglio
di Sicurezza, face prendere corpo alla teoria dell’esistenza di una possibilità
d’intervento immediato da parte degli Stati o di una organizzazione
internazionale diversa dall’O.N.U. se di fronte ad una grave situazione di
pericolo per le popolazioni civili.
La questione rimane inevitabilmente se le presenti circostanze inerenti l’Iraq
possano giustificare un ulteriore sviluppo, ed un’ulteriore applicazione pratica di
tale principio secondo il diritto internazionale.
Di fronte alla violazione dei diritti umani perpetrata dal regime iracheno, gli
Stati alleati, per voce dello stesso Presidente degli Stati Uniti Gorge W. Bush,
hanno argomentato che l’azione nell’interesse e nella salvaguardia della
popolazione irachena era e rimane un dovere morale imperativo.
Il principio secondo cui la Carta delle Nazioni Unite imponga l’astensione
dall’uso della forza armata nelle relazioni tra gli Stati, anche e soprattutto in
presenza di dissidi nei rapporti bilaterali e multilaterali, considerato in modo così
rigido e vincolante nel caso iracheno dalla maggioranza degli Stati europei, era
apparso molto meno inderogabile proprio nel caso del Kosovo, allorquando
diciannove Nazioni europee erano intervenute militarmente in assenza di una
risoluzione del Consiglio di Sicurezza che ne autorizzasse il ricorso. Stupisce, in
tal caso, come in una situazione considerata molto simile dagli Stati Uniti e dai
suoi alleati il principio di cui all’art. 2 paragrafo 4 della Carta risulti
imprescindibile125.
125 Has the War in Iraq Made Preemption Less Likely? , in A conversation with Professor M. Glennon, Fletcher University, 2004.
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L’eventualità di utilizzare l’uso della forza a titolo di intervento umanitario
rimane, in ogni caso, un’eccezione al divieto di ricorrere a tale uso in ambito
internazionale. Il principio contenuto nell’art. 2 paragrafo 4 non può in tal senso
venire delegittimato, ma risulta in evoluzione la possibilità che un “regola” di
questo genere possa prendere corpo di fronte a situazioni particolarmente gravi e
complesse. E’ infatti evidente come un’azione effettuata seguendo questa ipotesi
non solo vada a ledere la rigidità del fondamento della Carta delle nazioni Unite,
vale a dire l’interdizione all’utilizzo della forza armata nelle relazioni, o nei
dissidi, tra gli Stati, ma violi un altro principio cardine sul quale si poggia l’intero
assetto del sistema di sicurezza collettiva dell’O.N.U., cioè quello risultante
dall’art. 2 paragrafo 7, il quale impone il non intervento e la non interferenza
negli affari interni di un altro Stato ad opera dell’organizzazione e, di
conseguenza, di uno Stato terzo. L’eccezione portata dall’intervento umanitario
ne viola l’inflessibilità di fronte a situazioni di particolare preoccupazione, e
dovrebbe inquadrarsi all’interno della disposizione conclusiva dell’articolo che
specifica come non possa essere in alcun modo pregiudicata l’applicazione di
misure coercitive a norma del Capitolo VII. L’intervento in Kosovo risulterebbe
dunque il primo atto di una nuova prassi che permetta l’intervento militare per
ragioni di imprescindibile dovere umanitario, da inserirsi nella competenza delle
Nazioni Unite, che nel corso degli anni intercorsi dalla sua fondazione è venuta
sempre più ampliandosi a seconda delle necessità.
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CAPITOLO 3
Il caso Iraq: l’uso della forza come illecito internazionale
3.1 - Premessa126:
126 In riferimento bibliografico al presente capitolo, si vedano i seguenti autori: J. Lobe, Iraq: key evidence of Hussein’s abuses has disappeared, in Global Information Network , New York, Nov 2004; D. F. Vagts, United States Hegemony and the Foundations of International Law, in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 98, Iss. 1, Jan 2004; D. Porch, Europe, America and the “War on Terror”, in Hampton Roads International Security Quarterly, Portsmouth, 2004; S. D. Murphy, Contemporary practice of the United States relating to international law, in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 97, Iss. 2, Apr 2003; J. E. Alvarez, Hegemonic International Law Revisited , in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 97, Iss. 4, Oct 2003; G. Niemann, Advice to Hon Simon Crean MP on the Use of Force against Iraq, in Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003; G. Williams e D. Hovell, Advice to Hon Simon Crean MP on the Use of Force against Iraq, in Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003; A. J. Bellamy , International Law and the War with Iraq, Feature – Legality of the Use of Force against Iraq, in Melbourne Journal of International Law, Vol.4, 2003;G. Arangio-Ruiz, Iraq: Lettera ai firmatari dell’appello del Maggio 2004 “Per una svolta ONU coraggiosa e credibile”, Roma, Novembre 2004; A. M. Weisburd, The War in Iraq and the Dilemma of Controlling the International Use of Force, in Texas International Law Journal, Vol. 39, Iss. 4, Summer 2004; N. Chomsky, Hegemonu or Survival, America’s quest for Global Dominance, The American Empire Project, Metropolitan Books, New York, 2003; G. Gaja, Il Consiglio di Sicurezza di fronte all'occupazione del Kuwait: il significato di un'autorizzazione, in Rivista di Diritto Internazionale, Milano, 1990; N. Ronzitti, Diritto Internazionale dei Conflitti Armati, Milano, 1998.
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Dopo aver analizzato, nel capitolo precedente, le giustificazioni addotte dagli
Stati Uniti per “legittimare” l’attacco armato sferrato in Iraq, si vuole affrontare
la posizione contrapposta, riscontrata in ambito internazionale, ossia la
posizione secondo cui l’attacco armato e la dottrina della guerra preventiva non
trovano fondamento nel diritto internazionale.
Infatti, il comportamento tenuto dagli Stati Uniti sia in sede di Consiglio di
Sicurezza che in altri ambiti, ha fatto riscontrare più di una voce discorde. A tal
proposito verranno analizzate le posizioni assunte dagli Stati che hanno
manifestato il proprio disaccordo, e saranno individuati i motivi giuridici sulla
cui base si sono fondate le suddette posizioni.
Per rendere più chiaro lo sviluppo e il canone di giudizio rispetto alle questioni
anglo-americane, gli stessi punti su cui si era focalizzata l’attenzione dei giuristi
favorevoli all’attacco saranno sviscerati secondo il punto di vista di coloro i quali
abbiano ritenuto l’invasione irachena del Marzo 2003 un illecito internazionale a
tutti gli effetti.
Pertanto, le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza 678 (1990), 687 (1991) e 1441
(2002), sulla base di quanto enunciato, verranno valutate in maniera opposta,
partendo da principi differenti che porteranno a conclusioni diametralmente
distanti dalle precedenti.
I principi di legittima difesa individuale e collettiva, sia essa preventiva o meno,
e di intervento umanitario, saranno misurati secondo opinioni e punti di
riferimento diversi, secondo quanto affermato e giustificato dagli oppositori
all’attacco.
Da questa analisi emergerà come le medesime fonti normative, ossia le
risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e i principi di legittima
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difesa e di intervento umanitario, siano state, in questa vicenda, oggetto di
interpretazioni (e forse anche di strumentazioni) così difformi da risultare
addirittura opposte.
3.2 - Le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite:
3.2.1 - La Risoluzione 678 (1990):
La Carta delle Nazioni Unite vieta in maniera categorica il ricorso alla forza
armata in ogni circostanza che esuli dalle eccezioni da essa concesse. L’art. 2
paragrafo 4 della Carta, infatti, proibisce la possibilità di ricorrere all’uso della
forza nelle relazioni internazionali tra gli Stati.
Secondo il principio universale pacta sunt servanda, che impone come i Trattati, e
quindi i principi che si trovano al loro interno, debbano essere rigidamente
rispettati, tutti gli Stati membri dell’O.N.U. sono rigorosamente tenuti a
sottostare a tale vincolo, senza contare che anche qualora uno Stato non fosse
Membro delle Nazioni Unite, tale obbligo risulterebbe in ogni caso cogente, in
quanto il divieto di uso della forza costituisce un principio consuetudinario, ed
anzi, secondo quanto affermato dalla Corte Internazionale di Giustizia nel caso
delle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua del 1986,
ha raggiunto il rango di principio di jus cogens127.
127 Vedi nota 47.
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Le eccezioni al divieto di uso della forza precedentemente citate fanno
riferimento a due principi all’interno dei quali sono rigidamente circoscritte, e al
di fuori dei quali l’uso della forza da parte di uno Stato nei confronti di un'altra
Nazione costituisce pertanto immancabilmente una violazione della Carta e del
diritto internazionale consuetudinario.
Tali principi sono da un lato il fatto che, secondo quanto pensato dalla Corte, il
Consiglio di Sicurezza detiene il “monopolio” dell’uso della forza, secondo i
dettami del Capitolo VII della Carta; e dall’altro lato il principio di legittima
difesa previsto all’articolo 51 della Carta.
Malgrado la Carta risulti essere in ogni caso un documento creato con l’obiettivo
di controllare le regole riguardanti l’uso della forza, è comunemente riconosciuto
come il diritto internazionale debba essere in grado di adattarsi alle nuove
minacce nonché rimanere sufficientemente flessibile da sapervi rispondere in
maniera efficace.
La prassi creata dal Consiglio di Sicurezza e dalle sue Risoluzioni mostra come
le autorizzazioni all’uso della forza siano sempre state chiare e soprattutto scritte
in maniera diretta, con termini espliciti riferiti alla possibilità concessa di
utilizzare “ogni mezzo necessario” a far rientrare la minaccia e ristabilire la pace
e la sicurezza internazionale. Tale, infatti, è stato il linguaggio utilizzato dal
Consiglio di Sicurezza nelle Risoluzioni che hanno autorizzato il ricorso all’uso
della forza in Somalia, Haiti, Ruanda, Bosnia e da ultimo nel caso dell’invasione
irachena al Kuwait, tramite la Risoluzione 678 (1990)128. Parallelamente la
Risoluzione 1368 (2001)129, relativa alla questione sussistente a causa dalle
minacce alla pace ed alla sicurezza internazionale portate da atti terroristici,
128 Risoluzione 794 (1992); Risoluzione 940 (1994); Risoluzione 929 (1994); Risoluzione 816 (1993); Risoluzione 678 (1990).
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adoperava un altrettanto esplicito, seppur lievemente differente, tipo di
espressione, concedendo agli Stati l’autorità per ricorrere ad “ogni passo
necessario”130 nei confronti dell’Afghanistan.
La Risoluzione 678 (1990) autorizzava il ricorso alla forza armata contro l’Iraq a
seguito della sua invasione del Kuwait. La dicitura del documento autorizzava
infatti “gli Stati membri cooperanti con il Governo del Kuwait […] ad usare ogni
mezzo necessario per sostenere e far rispettare la Risoluzione 660 (1990) ed ogni
altra inerente Risoluzione successiva, e per ristabilire la pace e la sicurezza
internazionale nella regione”131.
Ne risulta, di conseguenza, come il contesto della Risoluzione, nonché lo
specifico linguaggio in essa adoperato per autorizzare l’uso della forza, vincoli
tale autorizzazione alla liberazione del Kuwait.
E’ pertanto chiaro come la Risoluzione 678 non autorizzi il ricorso alla forza
contro lo Stato iracheno per rispondere alla minaccia eventualmente sussistente
a causa del possesso da parte di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa
ritenute illegali dal Consiglio di Sicurezza e dalle sue successive Risoluzioni132.
Inoltre, l’interpretare tale linguaggio come un’implicita autorizzazione all’uso
delle armi nelle attuali circostanze, creerebbe un pericoloso precedente nella
prassi futura del Consiglio.
Ne deriverebbe, infatti, una sorta di concessione in bianco agli Stati e l’uso della
forza diverrebbe inevitabilmente arbitrario ed incontrollato, se effettivamente ci
129 Risoluzione 1368 (2001), reperibile presso il sito ufficiale delle Nazioni Unite, www.un.org. 130 La Risoluzione 1368 autorizza gli Stati ad efetuare “all necessary steps” per porre fine alla minaccia terroristica provocata dall’asilo e supporto offerti dallo Stato afgano al gruppo terroristia denominato Al Quaeda. 131 Risoluzione 678 (1990): “[…] Member States co-operating with the Government of Kuwait […] to use all necessary means to uphold and implement resolution 660 (1990) and all subsequent relevant resolutions and to restore international peace and security in the area”. 132 Williams e Hovell, Advice to Hon Simon Crean MP on the Use of Force against Iraq, in Feature, Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003.
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si trovasse di fronte alla proclamata legalità di tale intervento militare anche a
distanza di più di un decennio dall’approvazione del documento ed in assenza di
ulteriori azioni del Consiglio di Sicurezza. L’ipotesi di lasciare “carta bianca”
agli Stati o ad un ristretto gruppo di essi, con riferimento alla scelta di ricorso alle
azioni militari, è infatti in netto contrasto con il sistema di sicurezza collettiva
creato e mantenuto dalla Carta delle Nazioni Unite.
Si è già visto come gli Stati Uniti ed i loro alleati ritengano che la Risoluzione
678 (1990) autorizzi ancora oggi l’uso della forza contro l’Iraq sulla base di
quanto contenuto nell’articolo 42 della Carta. Ciò, partendo da quanto
predisposto dalla successiva Risoluzione 687 (1991), che avrebbe costituito il
fondamento sul quale si poggiava il cessate il fuoco, tramite l’elencazione degli
obblighi che l’Iraq era tenuto a rispettare. Si è parimenti potuto notare come gli
Stati alleati ritengano che tali disposizioni fossero il presupposto che ne avrebbe
dovuto condizionare la perpetua esistenza, o la cessazione (in caso di violazione
irachena). Il problema fondamentale di tale ragionamento è il fatto che con esso
si ignora il contesto all’interno del quale la risoluzione contenente
l’autorizzazione al ricorso alle armi era inserita. Gli Stati erano chiamati a far
rientrare la minaccia posta in essere dall’invasione irachena del Kuwait,
nell’ambito della prima Guerra del Golfo. La situazione attualmente esistente tra
l’Iraq e la coalizione guidata dagli Stati Uniti non sembra in nessun modo poter
essere paragonabile a quella dei primi anni ’90, in cui si era di fronte ad
un’aggressione, per giunta accompagnata dall’annessione dello Stato del Kuwait
al territorio iracheno, proclamata dal regime di Baghdad durante il corso delle
ostilità. La Risoluzione 660 (1990), su cui si basava la successiva 678 a pochi
mesi di distanza, condannava l’invasione del Kuwait e richiedeva l’immediato
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ed incondizionato ritiro dell’esercito di Saddam Hussein133. L’adozione della
Risoluzione 678 era resa necessaria dal rifiuto iracheno di attenersi agli obblighi
disposti dalla precedente risoluzione, nella convinzione che, dopo aver espunto
invano le misure di risoluzione pacifica delle controversie tra Stati, rispettando la
cronologia di azioni disposte dalla Carta (che prevede il ricorso ai mezzi pacifici
prima di attuare misure comprendenti l’uso della forza134, secondo una prassi
normalmente rispettata), l’uso della forza fosse il solo mezzo utile a far rientrare
la minaccia e ristabilire la pace e la sicurezza internazionale nella regione.
Nulla di quanto contenuto nella Risoluzione 678 (1990) lascia presupporre che
essa possa riconoscere il diritto all’uso delle armi anche in una situazione
diametralmente opposta da quella sussistente al momento della sua
approvazione135, né che tale risoluzione possa mantenere inalterata, a distanza di
anni, la propria efficacia in assenza di un’esplicita affermazione in tal senso da
parte del Consiglio di Sicurezza136.
Al termine delle operazioni militari portate avanti dagli Stati Membri in soccorso
del Kuwait, vi furono opinioni negative137 a proposito della non prosecuzione
133 Risoluzione 660 (1990), reperibile press oil sito ufficiale delle Nazioni Unite, www.un.org, 2 Agosto 1990. 134 S. Bariatti, S. M. Carbone, M. Condinanzi, L. Fumagalli, G. Gasparro, P. Ivaldi, R. Luzzatto, F. Munari, B. Nascimbene, I. Queirolo, A. Santa Maria, in Istituzioni di diritto internazionale, Edizioni Giappichelli, Torino: sebbene la Carta delle Nazioni Unite non contenga alcuna disposizione che imponga il ricorso ai mezzi pacifici prima di poter adoperare l’uso della forza per far rientrare la minaccia, la prassi cui normalmente si fa riferimento richiede l’esaurimento inefficace delle misure di cui agli artt. 40 e 41 della Carta prima di intraprendere azioni con forze aeree navali o terrestri di cui all’art. 42 della Carta.. 135 G. Nieman, Advice to Hon Simon Crean MP on the Use of Force against Iraq, in Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003. 136 Di fronte ad una tale lasso di tempo sembra in ogni caso potersi affermare che un’ulteriore presa di posizione del Consiglio di Sicurezza, anche di fronte al ripresentarsi di una situazione di aggressione diretta dell’Iraq al Kuwait che possa ritenersi simile a quella avvenuta nel 1990, e quindi riattivante l’autorizzazione all’uso della forza della 678, sia auspicabile. 137 Alcuni Stati, in particolar modo taluni situati in prossimità dei confini con l’Iraq (Kuwait, Iran) di fronte all’esito delle azioni militari approvate dal Consiglio di Sicurezza con la sua Risoluzione 678 (1990), ritenevano che potesse essere utile, proseguire le operazioni oltre lo scopo inizialmente prefissato, vale a dire il ritiro delle truppe irachene dal territorio del Kuwait e il rientro della minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionale. In tal senso veniva auspicata la rimozione di Saddam Hussein dal suo Governo per favorire un avvicendamento alla carica.
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dell’intervento bellico in direzione di Baghdad, allo scopo di detronizzare
Saddam Hussein ed impedirne il ritorno al potere, facilitando in questo modo la
democratizzazione del Governo iracheno. In tale circostanza, Stati Uniti ed
Australia, risposero che un’azione di questo tipo non era stata autorizzata dalla
Risoluzione 678, e sarebbe pertanto risultata illegale sul piano giuridico
internazionale138. Di fronte all’evolversi della situazione, la posizione assunta in
sede di Consiglio di Sicurezza dagli Stati Uniti sembrava andare in contrasto con
quanto ritenuto ed appurato nelle passate occasioni, ponendosi contro il
principio di inquadramento geopolitico delle singole risoluzioni O.N.U.
Nel 2003, nei giorni precedenti l’inizio dell’attacco, Stati Uniti, Gran Bretagna
ed Australia puntarono direttamente sulla Risoluzione 678 (1990) nel giustificare
il loro ricorso alle armi.
Il diretto riferimento all’operazione Desert Fox del 1998, tuttavia, non pone un
ragionamento molto efficace per almeno due ordini di ragioni: anzitutto il fatto
che non esistano precedenti di Stati che fossero in grado di ricreare un legame
giuridico tra la 678 (1990), una successiva risoluzione non implicante l’uso della
forza ed un’azione bellica analoga a quella sferrata contro l’Iraq139 (l’operazione
Desert Fox, infatti, non veniva considerata dal Consiglio di Sicurezza come
rientrante nella legalità basata sull’autorizzazione concessa dalla Risoluzione
678 (1990), e comunque era solo ed esclusivamente il Consiglio a poter giudicare
se e come intervenire, con misure di qualsiasi tipo, per far osservare gli obblighi
diretti all’Iraq). In secondo luogo sussistono comunque valide ragioni che fanno
ritenere come l’adozione della Risoluzione 687 (1991), con il suo “cessate il
138 Il Presidente degli Stati Uniti George Bush non avallò il prosieguo delle operazioni e ne ordinò la cessazione nel momento in cui l’obiettivo prefissato era stato raggiunto con successo. 139 A. J. Bellamy, International Law and the War with Iraq, Legality of the Use of Force against Iraq, in Feature, Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003.
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fuoco”, avesse il potere di soprassedere la precedente, ossia la Risoluzione 678
(1990), instaurando un nuovo status internazionale e disabilitando in pratica in
modo perenne l’autorizzazione all’utilizzo di ogni mezzo necessario adottata nel
1990. Un ragionamento di questo genere è portato dal fatto che, malgrado la 687
(1991) contenesse alcune disposizioni obbligatorie che condizionavano il futuro
comportamento dell’Iraq, il cessate il fuoco rappresenta l’ordine a deporre le
armi in maniera definitiva, e dunque, allorquando si presentasse la necessità di
ulteriori azioni militari, la precedente autorizzazione, annullata dall’interruzione
delle operazioni belliche precedente, non potrebbe venire chiamata in causa.
Tale posizione, infatti, è stata anche espressa dal Brasile in sede di Consiglio di
Sicurezza nel 1998140. All’interno della Risoluzione 687 vi sono alcune parti che
sembrano legittimare un’interpretazione di questo tipo: in primo luogo il
paragrafo 33, che, di fatto, impone l’attuazione di un “formal ceasefire”. La
cessazione totale e definitiva delle ostilità, che il Brasile intese sottolineare nel
commentare tale punto della Risoluzione, risulta di fondamentale importanza,
ancor più alla luce del riconoscimento dato dal Rappresentante permanente
britannico presso le Nazioni Unite, Sir David Hannay, il quale dichiarava come
l’accettazione irachena fosse essenziale per permettere la definitiva cessazione
delle ostilità141. La lettera inviata dall’Iraq al Consiglio di Sicurezza, contenente
la conferma della volontà di adeguarsi al cessate il fuoco senza condizioni,
formalizzò la cessazione definitiva delle operazioni belliche.
Inoltre, il Consiglio di Sicurezza affermava chiaramente la sua esclusiva
competenza a decidere, sia in merito al fatto se il regime iracheno si fosse venuto
a trovare in violazione degli obblighi ad esso indirizzati, che in merito alle
140 UN SCOR, 53° sess, 3939° mtg, UN Doc S/PV.3939 (1998). 141 UN SCOR, 46° sess, 2978° mtg, UN Doc S/PV.2978 (1991).
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misure da prendere in una tale circostanza. Questo evidenzia in modo esplicito
come le misure che erano state adottate precedentemente, cioè l’uso della forza
armata, non potessero più venir prese in considerazione, neppure di fronte ad
una palese ulteriore trasgressione commessa dal Governo iracheno nei confronti
degli obblighi ad esso indirizzati.
3.2.2 - La Risoluzione 687 (1991):
Con la Risoluzione 687, il Consiglio di Sicurezza ha posto fine all’utilizzo delle
misure implicanti l’uso della forza contro l’Iraq attraverso la formalizzazione
dell’ordine di cessare il fuoco.
E’ stato argomentato che l’interruzione delle ostilità dichiarata dal documento in
questione risultava in realtà condizionata dal rispetto nella sua interezza delle
disposizioni obbligatorie in essa contenute, in particolare in materia di disarmo e
non proliferazione di armi chimiche e batteriologiche.
Tale punto di vista, basato sulla presenza delle imposizioni riguardanti anche il
divieto di acquisto e produzione di armi di tipo nucleare, si tratti di testate o di
strumenti di supporto utili al loro lancio ed utilizzo, è stato il principale fattore
della discussione portata avanti dagli alleati nel considerare legittima l’offensiva
contro l’Iraq.
Tuttavia, i termini concreti della Risoluzione 687 (1991), non sembrano far sì
che il cessate il fuoco in essa contenuto, che ha interrotto le ostilità della prima
Guerra del Golfo, sia da considerare subordinato al rispetto da parte irachena
delle coercizioni indirizzategli dalla stessa. La Risoluzione, piuttosto, indica
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testualmente come l’interruzione delle ostilità debba prendere effetto dal
momento in cui sia effettuata notifica ufficiale da parte del Governo di Saddam
Hussein presso il Segretario Generale e il Consiglio di Sicurezza142. Pertanto, il
ruolo effettivo della Risoluzione 687 risulta essere quello di trasformare una
temporanea interruzione delle ostilità in un cessate il fuoco a lungo termine,
basato sulla sola immediata accettazione irachena delle condizioni in essa
contenute, e non sul loro perpetuo rispetto143. Tale interpretazione risulta ancor
più evidente alla luce delle parti conclusive del documento, in cui viene attribuito
al Consiglio di Sicurezza, e ad esso solo, il compito di prendere eventuali
ulteriori provvedimenti nei confronti dell’Iraq per far rispettare i parametri ad
esso indirizzati144. Di conseguenza nessuno Stato singolarmente, né alcuna
coalizione di Stati che agiscano al di fuori dei limiti individuati nelle Risoluzioni
del Consiglio di Sicurezza, possono esercitare il diritto di intraprendere misure
comprendenti il ricorso alla forza armata nei confronti dell’Iraq, neppure per
portare a compimento le disposizioni contenute nella Risoluzione 687 (1991).
Ulteriore solidità assume tale interpretazione di fronte ai termini espressamente
utilizzati nella Risoluzione riguardo allo scopo eventuale di utilizzo della forza
secondo le norme contenute nel Capitolo VII: riferendosi all’uso della forza, la
Risoluzione indica come il suo ricorso sia rigidamente limitato alla necessità di
garantire l’inviolabilità dei confini tra Iraq e Kuwait. Il Consiglio di Sicurezza,
142 Risoluzione 687 (1991): “[Will take effect] upon official notification by Iraq to the Secretary-General and to the Security Council of its acceptance of the above conditions] . 143 Il linguaggio utilizzato dalla Risoluzione 687 (1991) non fa alcun riferimento alla necessità che l’Iraq debba rispettare nel corso del tempo le indicazioni obbligatorie in materia di disarmo e non proliferazione contenute nel documento. La sola condizione imposta dalla Risoluzione, infatti, è quella relativa alla notifica che il Governo iracheno era tenuto a far avere alle principali autorità delle Nazioni Unite, dell’accettazione formale di quanto in essa indicato. Di conseguenza, non semb ra che il rispetto degli obblighi, benché vincolante e dunque quantomeno auspicabile, sia collegabile alla messa in pratica del cessate il fuoco. 144 Vedi nota 77. “[The Security Council may take] such further steps as may be required for the implementation of the present resolution”.
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inoltre, specifica come un eventuale compito decisionale in tal senso sia di sua
esclusiva competenza, escludendo gli Stati Membri da tale autorità145.
Il Consiglio di Sicurezza, dunque, si è chiaramente riservato il diritto di valutare
le circostanze in cui ricorrere ulteriormente alla forza, ossia nel caso in cui l’Iraq
avesse violato i confini dello Stato del Kuwait (diritto in ogni caso esistente in
esclusiva per esso). L’uso delle armi non risulta utilizzabile invece
nell’eventualità che una violazione irachena avesse compreso le altre parti
contenute nella risoluzione, quali il rifiuto a procedere, come richiesto, al
disarmo.
Risulta complicato individuare un eventuale automatismo per il Consiglio di
Sicurezza nel rispondere ad una violazione dei confini kuwaitiani, ma un simile
principio diviene inconsistente nel caso in cui la contravvenzione irachena
concerna altri paragrafi del documento. In nessuno di questi casi, tuttavia, la
possibilità del ricorso alla forza è indirizzata agli Stati al di fuori di
un’autorizzazione espressamente concessa dal Consiglio stesso146.
L’argomentazione basata sul non rispetto degli obblighi riguardanti disarmo o
non proliferazione, quali giustificazione del riattivarsi dell’autorizzazione all’uso
della forza ex Risoluzione 678 (1990) non può dunque essere accettata: non può
risultare avente valore, in questo caso, il fatto che successive risoluzioni abbiano
mantenuto la validità dell’autorizzazione del Consiglio, in quanto l’autorità ad
essa riferita sussiste solo ed esclusivamente nelle condizioni che ne avevano
145 Risoluzione 687 (1991): “[Maintains the right to use force] to guarantee the inviolability of the [boundary between Iraq and Kuwait] ”. 146 J. Lobel e M. Ratner, Bypassing the Security Council: Ambiguous Authorisations to Use Force, Cease-Fires and the Iraqi Inspections Regime , in The American Journal of International Law, 1999.
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provocato l’approvazione, vale a dire il conflitto sorto tra Iraq e Kuwait nel
1990147.
Coloro i quali supportino la tesi che gli Stati possano liberamente ed
autonomamente decidere in quale momento e secondo quale modalità
intervenire militarmente nei confronti dell’Iraq, partendo dal presupposto che, in
un dato momento passato, il Consiglio di Sicurezza aveva concesso
l’autorizzazione ad utilizzare ogni mezzo necessario per far fronte alla
violazione della pace internazionale in quella regione, dimostrano in sostanza di
non riconoscere il significato e la validità della scelta del Consiglio di decidere
esclusivamente al suo interno ogni eventuale ulteriore passo per la messa in
pratica della risoluzione. Tale linguaggio veniva chiaramente utilizzato sia nella
Risoluzione 678 (1990) che nella 687 (1991), non lasciando spazio né ad
interpretazioni né a comportamenti unilateralmente differenti148.
Tuttavia, nel 1998 il Governo britannico giustificava l’operazione Desert Fox su
territorio iracheno149 proprio basando la propria linea sulla mancata
conformazione del Governo dell’Iraq alle disposizioni contenute nella
Risoluzione 687 (1991). In quella occasione, l’allora Segretario di Stato
britannico agli affari esteri e del Commonwealth, Robin Cook, sottolineava
come le successive risoluzioni del Consiglio di Sicurezza susseguitesi nel tempo,
stabilissero cosa Saddam Hussein fosse tenuto a fare, indicando inoltre il fatto
che, di fronte alla negligenza dimostrata, l’autorità per intervenire fosse
147 G. Nieman, Advice to Hon Simon Crean MP on the Use of Force against Iraq, in Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003. 148 A. J. Bellamy, International Law and the War with Iraq, Legality of the Use of Force against Iraq, in Feature, Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003. 149 Per quanto concerne i particolari giuridico-internazionali dell’operazione Desert Fox si veda, per tutti, C. Gray, From Unity to Polarization: International Law and the Use of Force against Iraq, in European Journal of International Law, 13/2002.
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chiaramente esistente150: in tal modo, egli si rifaceva al non rispetto delle norme
di disarmo della Risoluzione 687 (1991) per valutare legittimo un intervento
militare teso a farle adempiere. In tal caso, benché il Governo britannico
considerasse maggiormente opportuna una nuova risoluzione del Consiglio di
Sicurezza, questa non veniva ritenuta essenziale alla legalità dell’intervento:
l’Ambasciatore britannico presso le Nazioni Unite insisteva sul fatto che le
Risoluzioni 1154 e 1205 risultavano ampiamente sufficienti a ristabilire
l’efficacia dell’autorizzazione al ricorso alla forza della 678 (1990)151. La
Risoluzione 1154 (1998), infatti, riaffermava l’intento di agire in accordo con le
disposizioni contenute nella precedente Risoluzione 687 e metteva in guardia
l’Iraq sulle gravi conseguenze che ne sarebbero decorse in caso di mancato
rispetto delle stesse152; la 1205 (1998), invece, condannava l’Iraq per aver violato
la 687 (1991)153.
L’argomentazione concernente la riattivazione dell’autorizzazione all’uso della
forza, portato avanti dagli Stati Uniti e dai suoi alleati, non è in ogni caso,
semplice da sostenere. Nel caso specifico dell’operazione Desert Fox, dopo che
l’Ambasciatore britannico aveva definito possibile il riesumarsi
dell’autorizzazione solo nel caso in cui il Consiglio avesse ritenuto
sufficientemente seria la violazione commessa da parte irachena154, il Consiglio
di Sicurezza stesso, malgrado avesse rilevato la trasgressione commessa
dall’Iraq, non concluse che tale mancato rispetto fosse sufficientemente serio da
consentire un reiterato uso della forza nei suoi confronti. E’ importante notare
150 R. Cook: “The history and the statute book of the Security Council is full of resolutions which clearly set out what Saddam Hussein has to do […] he is clearly not doing it, so the authority is there”, L. Silber, UN Deeply Devided over the Use of Force, in Financial Times, 6 Febbraio 1998. 151 UN SCOR, 53° sess, 3955° mtg, UN Doc S/PV.3955 (1998) 152 Risoluzione 1154 (1998): “intention to act in accordance with the provisions of Resolution 687 […] severest consequences”
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come, in questa circostanza, così simile per alcuni profili alla situazione creatasi
alla fine del 2002, il rappresentante britannico avesse in effetti espressamente
riconosciuto la competenza e il ruolo del Consiglio (e non dei singoli Stati
membri) in merito all’entità delle infrazioni ed alle misure eventuali da prendere
per farvi fronte in maniera efficace.
Le due Risoluzioni analizzate costituiscono il principale strumento utilizzato da
Stati Uniti e Gran Bretagna per giustificare l’attacco compiuto contro l’Iraq.
Tuttavia, la comunità internazionale non sembra, a maggioranza, averlo
accettato; l’operazione Desert Fox rappresenta un fondamentale precedente per le
due Nazioni per dimostrare l’efficacia e la legittimità della loro linea di azione,
senza però essere riuscite, neppure in tale circostanza, a convincere la
maggioranza degli Stati. Proprio riguardo alle azioni militari compiute nel 1998,
infatti, Stati Uniti e Regno Unito si videro costretti a limitare la loro offensiva ad
attacchi aerei di portata e durata ristretta, di fronte alla rigidità del Consiglio di
Sicurezza e del resto degli Stati. Il fondamento giuridico su cui avevano tentato
di costruire la loro offensiva, in concreto, non sussisteva.
Apparentemente memori di questo precedente e della debolezza delle
argomentazioni portate avanti in quella occasione, nel 2002 essi decidevano di
proporre una nuova risoluzione che portasse al suo interno l’autorità per
riattivare la possibilità di usare la forza armata contro l’Iraq.
3.2.3 - La Risoluzione 1441 (2002):
153 Risoluzione 1205 (1998), reperibile presso il sito ufficiale delle Nazioni Unite, www.un.org. 154 Vedi nota 141.
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Dopo numerose discussioni, nel Novembre del 2002, il Consiglio di Sicurezza ha
approvato la Risoluzione 1441 (2002) con voto unanime.
Il documento consta di tre parti principali: anzitutto, prende atto della violazione
irachena nel provvedere al completo, pieno ed accurato smantellamento delle
sue armi di distruzione di massa nonché dei missili in suo possesso, e
l’ostruzione provocata nei confronti degli ispettori dell’A.I.E.A e
dell’UN.S.COM. secondo quanto preposto dalla Risoluzione 687 (1991).
Inoltre, il Consiglio sembrava concedere all’Iraq un’ultima opportunità per
compiere in maniera completa e definitiva il suo dovere riguardo al disarmo:
infatti la Risoluzione afferma che quella con essa concessa è l’ultima occasione
per uniformarsi alle precedenti risoluzioni pertinenti.
Infine, la Risoluzione mette in guardia il regime iracheno di fronte alle serie
conseguenze cui sarebbe andato incontro se non si fosse conformato agli obblighi
imposti.
Alcune questioni interpretative si pongono di fronte a tali punti: vale a dire il
giudizio su quali fatti potessero essere considerati una ulteriore violazione; chi
avesse l’autorità per emettere un giudizio sulla colpevolezza o meno dell’Iraq in
caso di trasgressioni effettivamente riscontrate; infine se fosse stata necessaria
un’altra risoluzione autorizzante l’uso della forza per far fronte a tale negligenza.
L’Iraq era tenuto, secondo il contenuto della Risoluzione 1441 (2002), a fornire
al Consiglio di Sicurezza, entro 30 giorni dalla sua adozione, una dichiarazione
completa ed accurata dei suoi programmi di sviluppo di armi di distruzione di
massa e di missili balistici; il regime doveva inoltre fornire un immediato ed
incondizionato accesso alle ispezioni effettuate dall’A.I.E.A. e
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dall’UN.MO.V.I.C.155 con pieno ed indisturbato accesso a personale, siti ed
edifici. Qualunque tipo di omissione, falsa testimonianza o negligenza nelle
dichiarazioni fornite alle Nazioni Unite avrebbe costituito una nuova violazione
materiale delle disposizioni specificate.
Per ciò che concerne chi avesse l’autorità per dichiarare l’Iraq in
contravvenzione con quanto prescritto, l’analisi risulta maggiormente
problematica. Secondo quanto indicato dall’Ambasciatore americano,
UN.MO.V.I.C., A.I.E.A. e Stati membri avevano paritario diritto di riferire al
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ogni violazione evidenziata
dall’Iraq156. Le altre delegazioni, tuttavia, dissentirono da questa versione: il
Rappresentante britannico Sir Jeremy Greenstock, sottolineò come un
immediato meeting del Consiglio di Sicurezza dovesse essere convocato solo in
caso di rapporto negativo fornito dagli ispettori sul territorio157; Sergei Lavrov,
Ambasciatore della Federazione Russa espresse opinioni anche più marcate,
considerando che solo i vertici dell’UN.MO.V.I.C e dell’A.I.E.A. avessero la
competenza per inviare resoconti al Consiglio di Sicurezza, il quale, in assoluta
esclusività, poteva convocare una riunione immediata per discutere della
questione158.
155 L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, creata nel 1957 per far fronte alle speranze ed ai timori per la recente scoperta dell’energia atomica e degli usi che potessero esserne fatti, è l’organo internazionale più importante per quanto concerne la cooperazione tra gli Stati nell’ambito della gestione dell’energia atomica. I suoi compiti principali, infatti, risultano essere quelli di promuovere una sicura e pacifica tecnologia nucleare, ed assicurare che essa non venga utilizzata per scopi poco nobili. Per ogni ulteriore informazione, si veda il sito ufficiale dell’Organizzazione, www.aiea.org; la United Nations Monitoring, Verification and Inspection Commission, è la Commissione Speciale costituita dalle Nazioni Unite con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1284 (1999), con lo scopo specifico di compiere ispezioni rinforzate sul territorio iracheno per verificare l’andamento delle operazioni di disarmo e non proliferazione richieste con alcune Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, tra le quali si ricorda la Risoluzione 687 (1991); ogni ulteriore informazione sul suo operato può essere rinvenuta sul sito ufficiale della Commissione, www.unmovic.org. 156 UN SCOR, 57° sess, 4644° mtg, UN Doc S/PV.4644 (2002). 157 Ibidem. 158 Ibidem.
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La questione della competenza nel ritenere l’Iraq colpevole di non aver
pienamente rispettato le direttive del Consiglio di Sicurezza è direttamente
connessa con quella della legittimità o meno di un automatico ricorso all’uso
della forza in caso di violazione irachena. Stati Uniti, Gran Bretagna ed
Australia hanno successivamente detto che, a loro parere, la Risoluzione 1441
conteneva una concessione implicita a ricorrere alla forza contro l’Iraq,
ritenendo le “serie conseguenze” come equivalenti ad una tacita
autorizzazione159.
In verità, essa, in concreto, non autorizza, in nessun caso, un’azione militare
contro l’Iraq. Il documento, infatti, non contiene alcun passaggio automatico che
fornisca ad uno Stato o ad un gruppo di essi il diritto di usare la forza contro il
Paese di Saddam Hussein nel caso in cui esso si trovasse in flagrante violazione
dei suoi obblighi di disarmo.
Il testo della Risoluzione è chiaro nel rivolgersi all’eventualità in cui l’Iraq si
trovasse in “material breach” delle disposizioni obbligatorie ad esso indirizzate,
facendone conseguire il dovere del Consiglio di Sicurezza di riunirsi
immediatamente per considerare la situazione160. La prassi relativa
all’interpretazione di altre precedenti risoluzioni come la Risoluzione 687 (1991)
mostrano chiaramente come i testi non siano univoci. Nel caso di specie, la
159 Conferenza Stampa del Primo Ministro Australiano John Howard, Camberra, 25 Febbraio 2003; www.pm.gov.au/news/interviews/Interviews252.html. 160 Risoluzione 1441 (2002), al punto 4: “Decide che dichiarazioni false o omissioni nelle dichiarazioni presentate dall'Iraq ai sensi di questa risoluzione e l'inadempienza nei suoi confronti in qualunque momento da parte dell'Iraq nonché la sua non piena cooperazione nella sua attuazione costituiscono una ulteriore violazione sostanziale degli obblighi e saranno riferite al Consiglio per una valutazione conformemente ai paragrafi 11 e o 12 di cui sotto”; al punto 11: “Dà istruzioni al Direttore Esecutivo dell'UNMOVIC e al Direttore Generale dell'IAEA di riferire immediatamente al Consiglio qualunque interferenza da parte dell'Iraq con le attività di ispezione, come pure qualunque inadempienza da parte dell'Iraq verso i suoi obblighi sul disarmo, compresi i suoi obblighi riguardo alle ispezioni in base a questa risoluzione”; al punto 12: “Decide di riunirsi immediatamente al ricevimento di un rapporto in conformità con i paragrafi 4 o 11 di cui sopra, al fine di prendere in considerazione la situazione e la necessità di una piena adempienza verso tutte le risoluzioni pertinenti del Consiglio al fine di garantire la pace e la sicurezza internazionale”.
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Risoluzione 1441 (2002), nella sua frase conclusiva, riferente alle serie
conseguenze alle quali l’Iraq sarebbe andato incontro in caso di rifiuto a
cooperare con le autorità O.N.U. e con gli ispettori UN.MO.V.I.C. e A.I.E.A,
non può essere interpretata come la concessione di una carta bianca all’uso della
forza armata nei confronti dell’Iraq161.
Appare evidente come Stati Uniti e Gran Bretagna abbiano tentato di proporre
una risoluzione che autorizzasse l’uso della forza, contenendo un automatismo
diretto in caso di non pieno rispetto dei vincoli imposti, e che desse agli Stati il
diritto di intervenire in modo unilaterale ed immediato. Ciò nonostante, la
Risoluzione 1441 non contiene alcuna delle sopra citate particolarità. Ad
ulteriore supporto di una tale interpretazione sussistono le discussioni che hanno
preceduto l’adozione della Risoluzione 1441 (2002), nelle quali i Rappresentanti
permanenti dei Membri del Consiglio di Sicurezza, con i loro interventi, lasciano
ben poco spazio ad interpretazioni di differente natura. Ciò partendo dal fatto
che la prima bozza di risoluzione presentata congiuntamente da Stati Uniti e
Gran Bretagna, che conteneva l’autorizzazione diretta all’uso di ogni mezzo
necessario a riportare la pace e la sicurezza internazionale nella regione, è stata
considerata inaccettabile dagli altri Membri del Consiglio, in particolar maniera
da Francia, Russia e Cina, titolari del potere di veto in seno al Consiglio di
Sicurezza: essi temevano infatti che un documento di questo tipo potesse essere
utilizzato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati per iniziare un’aggressione armata
nei confronti dell’Iraq di fronte a superficiali constatazioni, solo unilateralmente
accettate, di mancanze o fallimenti nelle risposte e nelle disponibilità fornite dal
regime. E’ stato unicamente di fronte alle garanzie fornite da Washington su un
161 Williams e Hovell, Advice to Hon Simon Crean MP on the Use of Force against Iraq, in Feature, Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003.
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ritorno in sede di Consiglio nell’eventualità in cui fossero fallite le ispezioni che i
tre Paesi si sono dimostrati disponibili ad accettare il nuovo testo della
Risoluzione.
Nelle dichiarazioni effettuate immediatamente dopo l’approvazione della
Risoluzione, molti Membri (permanenti e non) del Consiglio che avevano
partecipato alla votazione confermavano l’assenza di automatismi all’uso della
forza nei confronti di Saddam Hussein. Il Rappresentante del Messico dichiarava
infatti che il ricorso all’uso della forza andava considerato solo come estrema
ratio, e comunque solo in presenza di una necessaria previa ed esplicita
autorizzazione del Consiglio di Sicurezza162. Il Rappresentante irlandese
sottolineava come fosse un esclusivo diritto del Consiglio il decidere qualsiasi
tipo di azione successiva163. La medesima posizione veniva assunta dalla Siria,
che chiariva come la presente Risoluzione non dovesse essere interpretata,
attraverso alcuni paragrafi, come un’autorizzazione per alcuno Stato di utilizzare
la forza armata. Riaffermava inoltre il ruolo centrale del Consiglio di Sicurezza
nella vicenda irachena e nei suoi successivi sviluppi164. La Cina rivolgeva la sua
attenzione al testo, dichiarando come al suo interno non vi fosse alcun passaggio
diretto all’uso della forza armata165. Il Rappresentante britannico si rivolgeva ai
suoi colleghi confermando l’assenza di automazione nella Risoluzione; solo nel
caso di ulteriori violazioni da parte irachena rispetto ai suoi obblighi di disarmo
162 Considerazioni finali del Rappresentante del Messico presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: “The use of force is valid only as a last resort, with prior explicit authorisation required from the Security Council”. 163 Considerazioni finali del Rappresentante dell’Irlanda presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: “It is for the Council to decide on any ensuing action”. 164 Considerazioni finali del Rappresentante della Siria presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: “The Resolution should not be interpreted, through certain paragraphs, as authorizing any State to use force. It reaffirms the central role of the Security Council in addressing all phases of the Iraqi issue”.
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la questione sarebbe stata riportata all’attenzione del Consiglio di Sicurezza per
discussioni aggiuntive come richiesto dal paragrafo 12: in quel caso la Gran
Bretagna sottolineava la sua aspettativa che il Consiglio di Sicurezza si
conformasse alle sue responsabilità166.
Solo gli Stati Uniti effettuavano un intervento basato su un differente punto di
vista, sottolineando invece come, nel caso in cui, di fronte ad evidenti violazioni
irachene degli obblighi imposti nei suoi confronti, il Consiglio di Sicurezza non
agisse in maniera decisa, la presente Risoluzione non contenesse alcun divieto
per uno Stato membro di azione in difesa di sé stesso contro la minaccia posta in
essere dall’Iraq, o nell’ottica di far rispettare appieno altre relative risoluzioni del
Consiglio a protezione della pace e della sicurezza internazionale167.
Francia, Russia e Cina ritenevano inoltre che ogni eventuale successiva
risoluzione del Consiglio di Sicurezza dovesse essere costituita da due parti: la
prima concernente la valutazione sulla violazione commessa dall’Iraq sulla base
dei rapporti forniti dalle ispezioni della Commissione O.N.U. e dell’Agenzia
Internazionale per l’Energia Atomica; la seconda per decidere quali successive
misure intraprendere nei suoi confronti168.
Il nodo cruciale su cui si è focalizzata la maggior parte dei commenti alla
Risoluzione 1441 (2002) è dunque la conferma che tale documento non
165 Considerazioni finali del Rappresentante della Repubblica Popolare Cinese presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: “The text no longer includes automaticity for authorizing the use of force”. 166 Considerazioni finali del Rappresentante del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: “There is no automaticity in this resolution. If there is a further Iraqi breach of its disarmament obligations, the matter will return to the Council for discussions as required in paragraph 12. We would expect the Security Council then to meet its responsibilities”. 167 Considerazioni finali del Rappresentante degli Stati Uniti presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: “If the Council fails to act decisively in the event of further Iraqi violations, this resolution does not constrain any Member State from acting to defend itself against the threat posed by Iraq or to enforce relevant United Nations resolutions and protect world peace and security”. 168 A. J. Bellamy, International Law and the War with Iraq, Legality of the Use of Force against Iraq, in Feature, Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003.
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individui, secondo l’opinione di undici Membri su quindici, un collegamento
diretto tra un mancato rispetto delle norme che l’Iraq era tenuto ad osservare e il
ricorso all’uso della forza. Ogni azione militare compiuta nei confronti dell’Iraq,
pertanto, non può venire giustificata sulla base di quanto testualmente previsto
dalla 1441 (2002). Nell’interpretazione dei suoi paragrafi, seppure, come si è
visto, in alcune parti possano esservi delle questioni meno esplicitamente
univoche, non va dimenticato il ricorso al buon senso. Sebbene non possa essere
fatto alcun collegamento tra una Risoluzione delle Nazioni Unite ed un trattato
internazionale, in quanto i due documenti hanno valenza differente, è utile
ricordare come la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati imponga la
lettura e l’interpretazione dei testi con buona fede e seguendo il senso ordinario
da attribuire ai termini contenuti nel Trattato, quindi il loro contesto alla luce del
loro oggetto e del loro scopo169: in tal senso, risulta evidente come il linguaggio
della Risoluzione 1441 (2002) non contenga, in nessuna sua parte,
un’autorizzazione per un’azione unilaterale comprendente l’uso della forza
armata nei confronti dell’Iraq.
Ciò detto è da sottolineare come gli Stati membri delle Nazioni Unite abbiano,
nell’aderire all’Organizzazione firmandone la Carta costitutiva, espressamente
accettato il fatto di conformarsi e portare a compimento ogni decisione del
Consiglio di Sicurezza170: parimenti ad una Nazione che non rispetti i contenuti
di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, dunque, un Paese che non si
attenga a quanto deciso in sede di Consiglio o che non si ponga nella posizione
di metterne in pratica i dettami, si troverebbe in violazione delle disposizioni
169 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, 23 Maggio 1969, art. 31, paragrafo 1. 170 Carta delle Nazioni Unite, art. 25.
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contenute nella Carta, e di conseguenza agirebbe in contrasto con il Diritto
Internazionale.
Il riconoscimento, da parte del Consiglio, delle effettive violazioni compiute
dall’Iraq durante gli anni precedenti, per quanto concerne gli obblighi in materia
di disarmo e non proliferazione, concedeva in ogni caso un’ultima possibilità
allo Stato di Saddam Hussein di conformarsi alle disposizioni ad esso
indirizzate, e poneva ad esso unicamente la prospettiva di possibili successive
azioni in conformità con il Cap. VII della Carta se vi fossero state ulteriori
mancanze nelle sue risposte. Il Consiglio di Sicurezza si sarebbe riunito per
considerare nuovamente la situazione e rimanere comunque investito della
questione. Di fronte a tali affermazioni, appare evidente come la 1441 (2002) sia
una Risoluzione sorta sulla base dei principi indicati dall’articolo 41 della Carta,
dunque implicante tutte quelle disposizioni non comprendenti l’uso della
forza171. Inoltre, la frase conclusiva con cui il Consiglio decideva di mantenere
l’autorità esclusiva nel controllo e nella gestione della questione irachena,
dimostra che esso si riservava il diritto esclusivo di interagire con il regime di
Saddam, e prendere eventuali ulteriori provvedimenti nei confronti del suo
Paese.
Non vi è alcuna ragione di ritenere che le Risoluzioni 678 (1990) e 687 (1991)
abbiano il potere di oltrepassare le decisioni prese nella 1441 (2002), né che
possano essere riesumate, e quindi riprendere il loro valore e con esso la loro
obbligatorietà, successivamente all’adozione del documento che concede a
171 Si potrebbe ritenere che la Risoluzione 1441 (2002) sia basata sull’art. 40 della Carta, ma ciò appare difficilmente compatibile con l’affermazione, effettuata dal Consiglio stesso, che essa sia stata approvata sulla base delle disposizioni contenute nel Cap. VII della Carta: nella sentenza “Prosecutor vs. Tadic”, ICTY IT-94-1-AR72 (2 Ottobre 1995), la Camera d’Appello dubitava che una risoluzione basata sull’articolo 40 della Carta potesse ritenersi una misura fondata sul Capitolo VII. In ogni caso ciò non mette in discussione il fatto che non si trattasse di una disposizione riguardante l’art. 42.
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chiare lettere un’ultima occasione all’Iraq; il Consiglio di Sicurezza mantiene, in
caso di mancato rispetto delle nuove disposizioni, la piena ed unica autorità
decisionale172.
3.3 - Il ritorno di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite:
Di fronte al fallimento nel dimostrare in maniera convincente che l’uso della
forza contro l’Iraq era conforme ai contenuti delle Risoluzioni 678 (1990), 687
(1991) e 1441 (2002), Stati Uniti e Gran Bretagna decisero di tornare di fronte al
Consiglio di Sicurezza immediatamente prima dell’invasione all’Iraq.
Nella volontà di far approvare una nuova Risoluzione al Consiglio di Sicurezza
in cui venisse autorizzato l’uso della forza contro l’Iraq, i due Stati cercarono di
dimostrare che il Governo di Saddam Hussein costituiva effettivamente una
minaccia alla pace internazionale.
Meno di due mesi dopo l’adozione della Risoluzione 1441 (2002) Stati Uniti,
Regno Unito e Bulgaria presentarono una proposta di risoluzione che
dichiarasse l’Iraq in violazione degli obblighi disposti. Il testo non venne
formalmente presentato alla votazione in quanto riscontrò poco sostegno dai
membri del Consiglio.
In data 5 Febbraio 2003 Colin Powell, Segretario di Stato americano, chiese al
Consiglio di dichiarare formalmente il mancato rispetto delle disposizioni
imposte all’Iraq e di prendere le misure appropriate nei suoi confronti; Powell
sottolineò come il regime di Saddam Hussein stesse deliberatamente
172 G. Nieman, Advice to Hon Simon Crean MP on the Use of Force against Iraq, in Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003.
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nascondendo e continuando a produrre armi di distruzione di massa e
strumentazioni missilistiche in violazione dei divieti del Consiglio; aggiunse che
le informazioni in possesso dell’intelligence americana fornivano indicazioni
dell’esistenza di collegamenti tra l’Iraq e il gruppo terroristico Al Qaeda presenti
sin dal 1996, e che di fronte ad una tale realtà non vi erano alternative al ricorso
all’uso della forza contro lo Stato iracheno173.
Neppure di fronte a tali indicazioni, tuttavia, gli Stati membri furono persuasi
della necessità imminente di un attacco contro il territorio iracheno. La Russia,
in particolare, si espresse nella medesima riunione con l’auspicio che, di fronte ai
fatti riportati dal Segretario di Stato, le ispezioni fossero portate avanti ed
eventualmente incrementate. A questa posizione si associarono anche Francia,
Cina, Messico e Pakistan.
Meno di dieci giorni dopo, inoltre, la posizione americana subiva un ulteriore
indebolimento a causa del resoconto del 14 Febbraio 2003 di Hans Blix,
Direttore Esecutivo dell’UN.MO.V.I.C. il quale identificò un elevato grado di
cooperazione con gli ispettori, contraddicendo in sostanza quanto espresso
precedentemente da Colin Powell174.
La proposta congiunta di Francia e Germania consistente nell’incrementare e
rafforzare il livello e la portata delle ispezioni sul territorio dell’Iraq veniva
rifiutata dal Segretario di Stato, il quale riteneva che l’insistenza dei controlli non
avrebbe condotto all’ottenimento del disarmo iracheno.
La legalità della proposta interventista anglo-americana si assottigliava di fronte
ai rapporti sempre più positivi di Hans Blix ed era sottoposta ad un ultimo colpo
con la convocazione del meeting da parte del Consiglio di Sicurezza che invitava
173 UN SCOR, 58° sess, 4701° mtg, UN Doc S/PV.4701 (2003). 174 UN SCOR, 58° sess, 4707° mtg, UN Doc S/PV.4707 (2003).
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tutti i Membri dell’Assemblea Generale che avessero voluto esprimere
un’opinione in merito a farlo tra il 18 e il 19 Febbraio. Su sessanta interventi
effettuati, solo 8 risultarono favorevoli alla posizione fino ad allora assunta dagli
Stati Uniti175. La maggioranza si dimostrava invece favorevole ad un aumento
della consistenza delle ispezioni O.N.U. spesso anche sottolineando un
categorico rifiuto per una plausibile autorizzazione, presente o futura, ad
utilizzare la forza contro l’Iraq.
3.4 - Il principio naturale di legittima difesa ex articolo 51 della Carta:
L’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite prevede la possibilità (o meglio non
ne pregiudica l’eventualità) che uno Stato possa usare la forza armata
nell’esercizio del suo diritto naturale di legittima difesa individuale o collettiva laddove
si presenti contro di esso un attacco armato, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non
abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale.
Il diritto naturale di legittima difesa, che sorge nel caso in cui ci si trovi ad essere
vittima di un attacco armato, è stato, quasi dal principio, considerato applicabile
alle ipotesi di minaccia di un’aggressione armata verso il territorio o i cittadini di
uno Stato176. Di conseguenza è stato appurato come un Paese non sia obbligato
ad attendere che l’attacco armato abbia effettivamente luogo, ma può difendere
sé stesso già di fronte alla semplice minaccia. Tuttavia, le regole esplicitamente
indicate dall’allora Segretario di Stato americano Daniel Webster, individuano
presupposti specifici che devono sussistere perché si possa far rientrare il singolo
175 Gli Stati favorevoli ad un intervento che espressero il loro parere in tale circostanza sono stati
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caso all’interno della legalità internazionale. L’intervento, come abbiamo visto,
deve essere strettamente limitato all’interno dei parametri di necessità,
immediatezza e proporzionalità, ma, nella particolare circostanza
dell’anticipazione della risposta rispetto all’aggressione esterna, l’inesistenza di
ulteriori possibilità non riguardanti il ricorso alle armi, il rischio che l’attesa
dell’attacco altrui possa danneggiare lo Stato in modo da renderlo incapace di
rispondere appieno, o il pericolo che la sua stessa sopravvivenza sia a
repentaglio, sono valori da rispettare imprescindibilmente per rientrare nella
legalità internazionale.
Nel periodo immediatamente successivo all’attacco terroristico dell’11 Settembre
2001, in cui persero la vita alcune migliaia di civili americani a causa
dell’impatto di due aerei di linea sulle torri gemelle del World Trade Center di
New York mentre un terzo velivolo colpiva il Pentagono, a Washington, D.C.
ed un quarto precipitava nella campagna della Pennsilvania, gli Stati Uniti
riuscirono efficacemente a giustificare, di fronte alla comunità internazionale,
l’attacco compiuto contro il territorio ed il Governo dell’Afghanistan come
un’azione svolta seguendo i dettami del principio di legittima difesa. In quella
circostanza, infatti, il Consiglio di Sicurezza adottò due risoluzioni che
riconoscevano esplicitamente il diritto naturale di autotutela in risposta
all’aggressione177. Seguendo la stessa linea, la N.A.T.O. confermava che gli
attacchi terroristici davano luogo all’attivazione automatica del sistema di difesa
collettiva del Trattato Nord-Atlantico, sulla base dell’articolo 5 dello Statuto178.
Albania, Australia, Georgia, Giappone, Lettonia, Macedonia, Nicaragua e Uzbekistan. 176 Incidente della Caroline: si veda in proposito il capitolo 2, pag. 61. 177 Risoluzione 1368 (2001); Risoluzione 1373 (2001), consultabili sul sito ufficiale delle Nazioni Unite, www.un.org. 178 Trattato del Nord Atlantico, articolo 5: “Le Parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o nell'America settentrionale, costituirà un attacco verso tutte, e di conseguenza
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107
L’efficacia dell’argomento basato sulla legittima difesa nel caso dell’Operazione
Enduring Freedom, spinse le autorità americane a ritenere che un tale principio
potesse essere utilizzato anche per legalizzare un’offensiva contro l’Iraq ed altri
“stati canaglia”179. Tuttavia esistono alcune fondamentali distinzioni, che non
possono essere ignorate, tra il caso specifico della guerra all’Afghanistan e la
situazione successivamente palesatasi in Iraq. Anzitutto gli Stati Uniti erano
stati, nel 2001, vittima di un attacco armato; inoltre, Washington era stata in
grado di dimostrare come l’attentato dell’11 Settembre non fosse che l’ultimo di
una serie di attacchi perpetrati dal gruppo terroristico denominato Al Qaeda, tra
cui si ricordano l’attentato del 1993 al World Trade Center, quello del 1998 alle
Ambasciate di Nairobi e Dar es Salaam, ed infine l’attacco alla portaerei USS
Cole in Yemen nel 2001180; vi era, poi, chiara evidenza di come, attraverso le sue
basi in Afghanistan, Al Qaeda stesse preparando ulteriori attacchi terroristici
contro gli Stati Uniti; infine, gli Stati Uniti non utilizzarono il loro diritto di
legittima difesa in modo tale da impedire l’autorità del Consiglio di Sicurezza,
mantenendolo informato dei fatti.
Il tentativo di giustificare l’aggressione del 2003 all’Iraq sulla base del principio
di legittima difesa risulta piuttosto complesso, in quanto l’articolo 51 della Carta
delle Nazioni Unite insiste sul fatto che tale diritto sussiste solo ed
esclusivamente nel caso in cui lo Stato che vi ricorra sia già stato vittima di un
attacco armato. Tale interpretazione è stata altresì confermata dalla sentenza
convengono che se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse, nell'esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall'art.51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale”. 179 A. J. Bellamy, International Law and the War with Iraq, Legality of the Use of Force against Iraq, in Feature, Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003. 180 M. E. O’Connell, The Myth of Preemptive Self-Defense, in American Society of International Law Presidential Task Force on Terrorism Paper, August 2002, www.asil.org/taskforce/oconnell.pdf.
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della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Stati Uniti vs. Nicaragua del
1986181, ritenendo, inoltre, che tale particolarità fosse di origine consuetudinaria.
Prima di iniziare le operazioni militari contro l’Iraq gli Stati Uniti non sono
risultati vittima di un attacco armato compiuto da forze riconducibili al Governo
iracheno né presenti illegalmente sul suo territorio.
In assenza di evidenze che potessero far riferimento al principio classico di
legittima difesa, l’azione diplomatica americana rivolse la sua attenzione al
concetto di legittima difesa preventiva. Appare una qualche evidenza che il
principio di legittima difesa non voglia essere, di per sé stesso, limitato al solo
caso di un attacco già avvenuto per poter fornire una risposta militare: sarebbe
un errore considerare che nell’obiettivo specifico della Carta (la preservazione
della pace e della sicurezza internazionale) possa trovare spazio un principio che
impone agli Stati di subire il primo attacco prima di potersi difendere, rischiando
di non potervi far fronte successivamente182.
L’incidente della Caroline appare ancora oggi come portatore dei principi insiti
nel diritto di autotutela preventiva, malgrado alcuni abbiano ritenuto che la
Carta delle Nazioni Unite ne abbia sostituito il valore e pertanto l’efficacia183. La
pratica degli Stati, dal 1837 ad oggi, sembra tuttavia aver mostrato come esistano
alcuni punti imprescindibili secondo i quali, anche in apparente contraddizione
con l’Articolo 2 paragrafo 4 della Carta, permettano il ricorso all’uso della forza
sulla base della legittima difesa:
181 Vedi nota 54. 182 Sir Humphrey Waldock in Guy Roberts, The Counterproliferation Self-Help Paradigm: A Legal Regime for Enforcing the Norm Prohibiting the Proliferation of Weapons of Mass Destruction, in Denver Journal of International Law and Policy, 1999: “It would be a travesty of the purposes of the Charter to compel a defending state to allow its assailant to deliver the first, and perhaps blow”. 183 Yoram Dinstein, War, Aggression, and Self-Defence, 3° ed., 2001.
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1. Un attacco armato deve essere stato lanciato, o essere immediatamente
minacciato, contro uno Stato, il suo territorio o le sue forze armate;
2. Vi deve essere un’urgente necessità di azione difensiva contro l’attacco;
3. Non deve esservi alternativa alcuna all’azione militare in autotutela, né
può esservi un ente terzo (uno Stato o un’organizzazione internazionale)
che si dimostri in grado d’intervenire e prendere i provvedimenti del caso;
4. L’azione intrapresa secondo tale principio deve risultare circoscritta dai
limiti di proporzionalità rispetto all’aggressione subita184.
Nel 2002, l’amministrazione americana ripose molta importanza nell’idea che
l’articolo 51 della Carta fosse imperfetto e necessitasse di un’interpretazione
maggiormente ampliata, in modo da permettere alle vittime potenziali di un
attacco non ancora scatenato di colpire per primi. Proprio questa, infatti, era la
base fondante della dottrina Bush della legittima difesa preventiva pubblicata nel
Settembre 2002.
A tal proposito, in assenza dell’evidenza che lo Stato iracheno avesse piani
d’attacco concreti ed evidenti, o di fronte alla mancata certezza di una sua
assistenza a gruppi terroristici nell’attaccare una Nazione terza, non sussistono le
condizioni minime necessarie a rendere giustificabile un’aggressione nei suoi
confronti, né pertanto un attacco contro l’Iraq può considerarsi legittimo sulla
base del Diritto Internazionale consuetudinario o pattizio.
184 R. Jennings e A. Watts, Oppenheim’s International Law.
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3.5 - La possibile eccezione dell’intervento umanitario:
Come abbiamo visto, la questione riguardante l’intervento umanitario quale
possibile eccezione al divieto di utilizzare la forza nei confronti di un altro Stato
in una situazione di non intervento diretto delle Nazioni Unite, ha caratteristiche
ancora poco evidenti, essendo un’ipotesi sorta solo recentemente in ambito
internazionale e non essendo presente in maniera esplicita in alcun Trattato
internazionale né risultante da una prassi consolidata che lo renda a tutti gli
effetti una norma consuetudinaria.
In aggiunta all’obiettivo di eliminare la minaccia posta agli Stati Uniti e ai loro
alleati dall’Iraq, i leaders della coalizione insistettero sul fatto che la guerra
avrebbe anche migliorato la vita della popolazione civile irachena185;
argomentarono ciò con la prospettiva che sarebbe stato possibile fornire
assistenza umanitaria e creare un ambiente in cui la popolazione irachena
avrebbe potuto determinare il proprio avvenire in maniera pacifica e
democratica186. Attualmente, sono più di quindicimila le vittime stimate per
quanto concerne i civili iracheni187; è tuttavia probabile che il numero sia
destinato ad aumentare a causa delle azioni degli eserciti della coalizione e degli
attentati perpetrati dalla guerriglia.
La questione portante in questo ambito è la possibilità o meno che il caso
iracheno del Marzo 2003 possa rientrare all’interno dei parametri che un tale
185 Tony Blair e George W. Bush, Joint Statement by President Bush, Prime Minister Blair on Iraq’s Future, www.usembassy.org.uk/potus03/potus03c.html. 186 Ibidem. 187 Il sito www.iraqbodycount.org fornisce una stima compresa tra cifre minime e massime aggiornate quotidianamente, basata sulle informazioni pervenute dai media. Alla fine del Gennaio 2005 la stima è compresa tra le 15563 e le 17789 vittime civili irachene.
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principio, sebbene ancora in fase evolutiva, prevede perché si possa far
riferimento ad un intervento umanitario come giustificazione di un attacco.
Sussistenti all’interno del principio di intervento umanitario, infatti, esistono 5
principi fondamentali che devono essere rispettati in assenza di
un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, tali da permettere una temporanea
sospensione per ragioni umanitarie dei principi di divieto dell’uso della forza (di
cui all’art. 2 par. 4 della Carta) e di non ingerenza negli affari interni di uno Stato
(di cui all’art. 2 par. 7), prima di poter giustificare il ricorso alla forza armata:
1. L’urgenza dell’azione – ovvero l’analisi della possibilità di utilizzare altri
mezzi prima di ricorrere alla forza bellica;
2. L’inefficienza del Consiglio di Sicurezza – solo nel caso in cui il Consiglio
di Sicurezza si trovi concretamente impossibilitato a prendere decisioni
immediate l’uso della forza può essere giustificabile;
3. La proporzionalità – la risposta alla situazione di pericolo per la
sopravvivenza della popolazione non deve essere superiore alla minaccia
che si intende interrompere;
4. Il grado di accettazione – la maggioranza della Comunità internazionale
deve avallare tale operazione;
5. L’obiettivo – deve essere basato sul beneficio della Comunità
internazionale e non sugli interessi individuali di una parte di essa188.
188 Williams e Hovell, Advice to Hon Simon Crean MP on the Use of Force against Iraq, in Feature, Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003.
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La situazione presente attualmente in Iraq, ad ogni modo, non crea i presupposti
perché tali principi sussistano e possano legalizzare un aggressione armata
contro di esso.
In particolar modo, stando ai dati conosciuti, i punti 1, 2 e 4 risultano
difficilmente soddisfatti: la minaccia, infatti, non è mai stata descritta come
imminente; non ne risulta, pertanto un situazione tale da rendere insufficienti
altri tipi d’intervento non basati sul ricorso alle armi. Inoltre, contrariamente a
quanto era avvenuto nell’ambito della questione balcanica alla fine degli anni
’90, il Consiglio di Sicurezza non appare nell’impossibilità di agire liberamente e
nel pieno delle sue possibilità, né può essere considerato in questo modo per la
sola riluttanza dimostrati da alcuni Membri, permanenti e non, nell’approvare
un provvedimento che autorizzi l’uso di ogni mezzo necessario contro l’Iraq;
infatti va sottolineato come alcuni Stati (Francia, Cina e Russia su tutti) abbiano
mostrato la volontà di agire sottostando all’autorità del Consiglio di Sicurezza,
ma secondo canali e modalità diplomatici o comunque senza interventi militari
nei suoi confronti. Infine, in maniera evidente una ampia maggioranza degli
Stati appartenenti alla Comunità internazionale non sembrano accettare la
legalità descritta dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Prima di lanciare un attacco,
infatti, gli Stati Uniti avevano identificato appena 29 Nazioni sulle 191
complessive decise a supportare la loro volontà di ricorrere all’uso della forza189.
189 Gli Stati in questione, per voce delle autorità americane, sono: Afghanistan, Albania, Australia, Azerbaijan, Bulgaria, Colombia, Repubblica Ceca, Danimarca, El Salvador, Eritrea, Estonia, Etiopia, Georgia, Ungheria, Italia, Corea del Sud, Lettonia, Lituania, Macedonia, Olanda, Nicaragua,
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CAPITOLO 4
Stati Uniti, O.N.U. e l’evoluzione del Diritto Internazionale nella gestione
dell’Uso della Forza
4.1 - Premessa190:
L’intervento armato in Iraq ha messo in evidenza le fragilità del sistema di
sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite191.
Filippine, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Uzbekistan. Il Giappone ha indicato la sola possibilità di intervenire solo in una fase di post-conflitto nella coalizione. 190 In riferimento bibliografico al presente capitolo, si vedano i seguenti autori: S. D. Murphy, U.S. Abuse of Iraqi Detainees at Abu Ghraib Prison, in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 98, Iss. 2, Jul 2004; J. Morley, Iraq’s Civilian Casualties, in The Nation , New York, Vol. 279, Iss. 16, Nov 15, 2004; C. Stahn, Enforcement of the Collective will after Iraq, in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 97, Iss. 4, Oct 2003; D. J. Scheffer, Beyond Occupation Law, in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 97, Iss. 4, Oct 2003; M. J. Glennon, Why the Security Council Failed, in Foreign Affairs, May/June 2003; R. A. Falk, What Future for the UN Charter system of war prevention? , in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 97, Iss. 3, Jul 2003; T. D. Grant, The Security Council and Iraq: an incremental practice, in The American Journal of International Law, Wahington, Vol. 97, Iss. 4, Oct 2003; M. E. O’Connell, International Law and the Use of Force, in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 97, Iss. 2, Apr 2003; M. N. Schmitt, Preemptive Strategies in International Law, in Michigan Journal of International Law, Vol. 24, 2002-2003; K. Watkin, Controlling the Use of Force: a role for Human Rights norms in contemporary armed conflict, in The American Journal of International Law, Washington, Vol. 98, Iss. 1, Jan 2004; E. Zemenides, The Doctrine of Preemption: precedents and problems, in The Officer, Washington, Vol. 80, Iss. 3, Apr 2004; T. Graham Jr, National self-defence, international law and weapons of mass destruction, in Chicago Journal of International Law, Chicago, Vol. 4, Iss. 1, Spring 2003; D. Porch, Europe, America and the War on Terror, in Hampton Roads Security Quarterly, Portsmouth, Oct 15, 2004; A. M. Weisburg, The War in Iraq and the Dilemma of Controlling the International Use of Force, in Texas International Law Journal , Austin, Vol. 39, Iss. 4, Summer 2004; P. Gargiulo, Nazioni Unite e diritti umani: il ruolo del Consiglio di Sicure zza, in CI, 1996; Brown, The role of the United Nations in peace-keeping and truce monitoring: what are the applicable norms, in Revue belge de droit international, 1994; D. J. Halliday, Sanzioni che uccidono, in Le Monde Diplomatique, gennaio 1999; I. Berman, Preempting Preemption, in The New York Sun, 2 luglio 2003.
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114
Per far fronte ai problemi manifestatisi soprattutto in sede di Consiglio di
Sicurezza, nel Novembre 2003 è stato istituito un Panel, composto da sedici
Membri, con il compito di svolgere un’attenta ricerca su alcuni punti
fondamentali per le Nazioni Unite ed il loro ruolo sulla scena internazionale: tra
questi, infatti, si trova uno studio sui nuovi tipi di minacce, siano esse
interstatali, interne alle singole Nazioni o sussistenti a causa di entità non
riconducibili a Paesi o organizzazioni internazionali; inoltre viene fatto
riferimento alla questione delle legalità del principio di legittima difesa, al ruolo
della prevenzione nelle crisi internazionali ed alle possibili evoluzioni delle
sanzioni normalmente applicate agli Stati colpevoli di illeciti internazionali. Il
Panel conclude il suo resoconto con una valutazione delle possibili modifiche
strutturali ed istituzionali che vengono auspicate per restituire alle Nazioni Unite
quel ruolo di primo piano nella gestione e risoluzione delle crisi internazionali, e
nel mantenimento della pace e della sicurezza, sulla base del benessere e della
prosperità delle popolazioni.
In data 2 Dicembre 2004, dunque, le Nazioni Unite pubblicavano il risultato,
contenuto in un ampio dossier di 95 pagine, delle analisi compiute da tale High
Level Panel chiamato ad occuparsi di minacce, sfide e cambiamenti nel nuovo
corso che si pone oggigiorno di fronte all’O.N.U.192.
Presieduto dal Primo Ministro della Tailandia Anand Panyarachun, dopo tredici
mesi di lavoro, l’High Level Panel ha proposto una serie di conclusioni e proposte
aventi ad oggetto l’esigenza di ripensare il ruolo dell’Organizzazione delle
191 La tendenza all’unilateralismo degli Stati Uniti ha fatto sì che i principi ex Capitolo VII della Carta, che descrivono il ruolo del Consiglio di Sicurezza in materia di gestione dell’uso della forza per il mantenimento della sicurezza internazionale venissero meno, o quantomeno che fossero temporaneamente messi da parte. Sono state sollevate valutazioni pessimistiche sul crollo del sistema delle relazioni internazionali consacrato nella Carta delle Nazioni Unite, e sulla credibilità ed efficacia dell’ordinamento giuridico internazionale.
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Nazioni Unite nella mutata situazione internazionale, ed in particolare le
possibili evoluzioni strutturali da far compiere agli assetti istitutivi delle Nazioni
Unite in modo tale da renderle maggiormente efficaci ed in grado di rispondere
appieno ed immediatamente alle nuove minacce che il terrorismo internazionale
ha creato in seno alla comunità internazionale.
Il Panel è stato convocato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi
Annan: ciò non è casuale, basti riflettere sulle critiche che sono state sollevate
con riferimento alla difficile posizione assunta dal Consiglio di Sicurezza nella
vicenda irachena.
Di fronte alla nuova dottrina per la Sicurezza Nazionale, pubblicata
dall’amministrazione Bush, che formalizzava l’intenzione statunitense di far
fronte alle minacce internazionali tramite azioni preventive comprendenti, se
necessario, anche l’uso della forza, le Nazioni Unite si sono trovate costrette a
sottoporre a revisione critica il sistema di sicurezza collettivo, e ad affrontare
questioni di possibile evoluzione del diritto internazionale.
Nella vicenda irachena, la capacità di adattamento del diritto internazionale è
stata messa a dura prova, in quanto ha visto manifestarsi le tendenze a gestire le
questioni relative all’uso della forza in modo unilaterale.
In questa quarta ed ultima parte del lavoro si intende in particolare analizzare i
fattori che hanno condizionato questo nuovo corso, sorto con la questione della
guerra alleata all’Iraq, confrontando i principi contenuti nella nuova Dottrina per
la Sicurezza Nazionale americana con le norme previste nella Carta delle
Nazioni Unite, anche attraverso i lavori realizzati dall’High Level Panel, per
evidenziare quali capacità di adattamento siano presenti nel diritto
192 Il report cui si fa riferimento è intitolato: “A more secure world: Our shared responsibility, Report of the High Level Panel on Threats, Challenges and Change”, 2 Dicembre 2004.
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internazionale e per fornire una risposta al rapporto tra la lotta al terrorismo, la
guerra preventiva e la legittima difesa anticipata rispetto all’attacco esterno.
4.2 - La nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale dell’Amministrazione
Bush e la guerra al terrorismo:
A cavallo tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003, in piena discussione circa il caso
della guerra in Iraq e la sua legalità, gli Stati Uniti hanno messo in particolare
evidenza il fatto che l’articolo 51 della Carta e i principi da esso indicati
dovessero essere interpretati in modo tale da consentire ad uno Stato vittima di
una minacciata aggressione, di attaccare prima che tale attacco si concretizzi.
Tale concetto, meglio noto, in pratica, come “dottrina della legittima difesa
preventiva”, è stato formalizzato dall’Amministrazione americana nel Settembre
del 2002193 quale risposta agli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001. Si tratta
di un evidente cambio di rotta nell’atteggiamento politico internazionale
americano, che, di fronte alle nuove minacce costituite da “Stati canaglia” e
terrorismo internazionale, assumeva un nuovo ruolo sulla scena mondiale nel
tentativo di sopraffare, spesso prima ancora che nascessero, possibili situazioni
di pericolo o di crisi.
La suddetta strategia, infatti, insiste sul fatto che, di fronte agli obiettivi palesati
da queste nuove forme di nemici, la situazione non permette oltre agli Stati Uniti
di assumere quell’atteggiamento di attesa, e risposta successiva, sino ad allora
193 National Security Council (US) , The National Security Strategy of the United States of America (2002), www.whitehouse.gov/ncs/nss.html.
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maturato194. Questa nuova forma di comportamento che gli U.S.A. decidevano
di intraprendere proviene, infatti, dall’estrema difficoltà a reperire la possibile
provenienza dell’aggressione, nonché dall’immediatezza e proporzione della
minaccia causata dalle armi attualmente in mano a tali nuovi avversari.
E’ da sottolineare con particolare attenzione il fatto che lo stesso documento195,
al suo interno, argomenti come esso sia conforme al diritto internazionale, in
quanto, per secoli, è stato riconosciuto agli Stati il diritto di attaccare prima di
dover far fronte ad una situazione in cui dovessero difendersi da terzi.
Secondo il testo della Strategia, dunque, gli Stati Uniti avrebbero avuto pieno
potere di agire in autotutela preventiva contro gli Stati canaglia, semplicemente
dimostrando come essi costituissero una minaccia imminente196. Il collegamento
tra la guerra al terrorismo proclamata da Gorge W. Bush e “l’asse del male”
costituito da Nazioni quali Iraq, Iran e Corea del Nord veniva enunciato nella
lettera del Presidente allo Speaker della Camera dei Rappresentanti e al
Presidente pro tempore del Senato datata 21 Marzo 2003, ed era altresì fondato
sull’attuale impossibilità di paragonare le minacce convenzionalmente poste in
essere dagli Stati (sulla cui base era stato costituito l’art. 51 della Carta delle
Nazioni Unite) con le nuove situazioni sussistenti per via del terrorismo,
194 National Security Strategy, parte III, Strengthen Alliances to Defeat Global Terrorism and Work to Prevent Attacks Against Us and Our Friends: “defending the United States, the American people, and our interests at home and abroad by identifying and destroying the threat before it reaches our borders.While the United States will constantly strive to enlist the support of the international community, we will not hesitate to act alone, if necessary, to exercise our right of selfdefense by acting preemptively against such terrorists, to prevent them from doing harm against our people and our country”. 195 Vedi nota 188. 196 National Security Strategy, parte V, Prevent Our Enemies from Threatening Us, Our Allies, and Our Friends with Weapons of Mass Destruction: “We must be prepared to stop rogue states and their terrorist clients before they are able to threaten or use weapons of mass destruction against the United States and our allies and friends. Our response must take full advantage of strengthened alliances, the establishment of new partnerships with former adversaries, innovation in the use of military forces, modern technologies, including the development of an effective missile defense system, and increased emphasis on intelligence collection and analysis”.
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caratterizzato da incerte ubicazioni geografiche ed inattesi attacchi di portata
sempre differente.
A tal proposito, già prima che la Strategia per la Sicurezza Nazionale venisse
pubblicata, è stato evidenziato come talune nuove forme di avvisaglie197 da poco
apparse sulla scena internazionale abbiano conseguentemente ampliato il valore
del principio di legittima difesa, rendendone effettivo anche il fattore di
anticipazione dell’attacco198.
Non può, tuttavia, non venire considerata la lacuna evidente nella Strategia
americana, che in pratica omette di decifrare in modo chiaro ed efficace il tipo di
minaccia (considerata nuova) che rappresentano i cosiddetti Stati canaglia per il
mondo moderno. In realtà, un’argomentazione in tal senso risulta adeguata
allorquando venga fatta con riferimento alle minacce poste in essere dalle nuove
forme di terrorismo, meno riguardo agli Stati: infatti, per quanto riguarda il
terrorismo, molti Stati chiamati a considerare e giudicare la legittimità
dell’operazione Enduring Freedom portata avanti dagli Stati Uniti contro
l’Afghanistan tra il 2001 e il 2002, ne hanno avallato il principio, mentre la
medesima situazione non si è venuta a verificare nel caso della guerra all’Iraq.
Al contrario, gli Stati Uniti non si sono dimostrati in grado di far palesare in che
modo tali Nazioni pongano in essere una minaccia differente o maggiore rispetto
a quella finora conosciuta, e come possano essere visti come un pericolo più
immediato per la comunità internazionale, e dunque tale da giustificare
197 Il recente aumento degli attentati terroristici, compiuti da cellule indipendenti di molteplici derivazioni etniche e religiose, nonché l’inasprimento delle entità degli attacchi effettuati, in particolar modo quelli fatti risalire ad Al Qaeda, tra cui si ricordano l’attentato del 1993 al World Trade Center, quello del 1998 alle Ambasciate di Nairobi e Dar es Salaam, ed infine l’attacco alla portaerei USS Cole in Yemen nel 2001. Il ripetersi di atti di questo genere rendeva sempre più complessa la valutazione dell’imminenza dell’attacco, implicando la necessità ad un’attenzione maggiore alla prevenzione di azioni dirette sempre più contro popolazioni civili. 198 M. Glennon, The Fog of Law: Self-Defense, Inherence, and Incoherence in Article 51 of the United Nations Charter, in Harvard Journal of Law and Public Policy, 2002.
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l’adozione di un “nuovo approccio”, ossia quello della guerra preventiva. I Paesi
nei confronti dei quali gli Stati Uniti intendono agire in via preventiva, infatti,
rimangono in ogni caso Stati a tutti gli effetti, con i diritti e gli oneri che su di
essi fa valere il diritto internazionale; risulta poco chiaro, infatti, come i “Rogue
States”199 possano essere in una posizione diversa, sotto il profilo del
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, rispetto ad altre
Nazioni, che magari abbiano palesato minori tendenze offensive, ma in possesso
riconosciuto di un arsenale militare comprendente armi atomiche, chimiche e
batteriologiche200.
Pertanto la Strategia per la Sicurezza Nazionale manca nel chiarire in che modo
la nuova minaccia che il mondo occidentale si trova a dover fronteggiare, sia
posta in essere da queste Nazioni, senza al contempo riuscire a far emergere un
legame fondato sussistente tra questi Paesi e le principali reti terroristiche
internazionali.
Probabilmente anche per tali osservazioni, oltre che a causa del fondamento
giuridico del principio di legittima difesa preventiva, snaturato nel suo significato
da questo documento, la S.S.N. ha conosciuto forti critiche non solo a livello
internazionale, ma anche allo stesso interno degli Stati Uniti d’America. Henry
Kissinger, ad esempio, già prima che fosse iniziata l’offensiva contro l’Iraq del
Marzo 2003, osservava come non possa esservi alcun interesse americano o
199 Con tale locuzione gli Stati Uniti hanno inteso descrivere quegli Stati che non si siano dimostrati, o non si dimostrino, affidabili sul piano del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, ossia che abbiano palesato in modo più o meno evidente intenzioni aggressive contro alter Nazioni o contro l’intera comunità internazionale, che abbiano fornito supporto o ospitalità a gruppi illegali legati al terrorismo internazionale, che abbiano violato alcune disposizioni di Risoluzioni delle Nazioni Unite o di Trattati internazionali riguardo, ad esempio alla non proliferazione di armi atomiche, chimiche o batteriologiche o al disarmo, o che si siano macchiati di gravi illeciti internazionali, quali aggressioni, attacchi o violenze verso la propria o le altrui popolazioni. All’interno di questo gruppo relativamente ristretto, si sono fatti rientrare, a seconda delle circostanze verificatesi, più Stati, tra i quali si ricordano Iraq, Iran, Corea del Nord, Filippine, Siria, ecc.
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internazionale che consenta di sviluppare principi aventi il potere di fornire ad
una qualsiasi Nazione il diritto di ricorrere all’autotutela preventiva contro la
propria definizione di minaccia alla sicurezza nazionale201.
Analizzando il contenuto della nuova dottrina Bush, tuttavia, si riscontra come il
suo contenuto non porti in sé l’obiettivo di modificare o emendare l’esistente
principio della legittima difesa, quantomeno non a livello generale o nei
confronti dell’intera comunità degli Stati. In effetti vi sono tre profili
fondamentali che il testo del 2002 considera attentamente, e che meritano di
essere messi in luce: in primo luogo gli Stati Uniti si arrogano l’esclusivo (e non
condivisibile) diritto di giudicare quando ed in che modo uno Stato o
un’organizzazione terroristica siano in una posizione tale da porre una minaccia
concreta e imminente alla pace internazionale. Si tratterebbe evidentemente di
un giudizio unilaterale e quindi non necessariamente oggettivo.
Inoltre, la dottrina consente agli Stati Uniti il diritto di agire secondo il principio
di legittima difesa senza che sia necessario il riconoscimento da parte della
comunità internazionale che tale pericolo sia realmente presente. Ciò implica
che gli Stati Uniti agiscano senza nemmeno tentare di persuadere gli altri Paesi
della validità del proprio giudizio, con prove e resoconti specifici.
Infine, secondo la teoria espressa nella Strategia per la Sicurezza Nazionale, gli
Stati Uniti si arrogano il diritto di usare la forza senza tuttavia riconoscere che
questo comportamento integri un precedente che permetta ad altri Stati di
comportarsi parimenti. Vengono anzi messi in guardia gli altri Paesi contro
200 A. J. Bellamy, International Law and the War with Iraq, Legality of the Use of Force against Iraq, in Feature, Melbourne Journal of International Law, Vol. 4, 2003. 201 J. Harding, Albright Laments “Rush Exuberance” over Iraq, in Financial Times, 27 Settembre 2002: “It cannot be either the American national interest or the world’s interest to develop principles that grant avery nation an unfettered right of pre-emption against its own definition of threats to its security”.
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l’eventualità di ricorrere a tale principio come pretesto per aggredire; gli U.S.A.
mantengono altresì il ruolo di giudice ultimo nel considerare un attacco
compiuto da uno Stato verso un’altra Nazione quale “legittima difesa” o
“aggressione illegale”202.
Tali concetti venivano espressi dalle stesse parole del Presidente Gorge W. Bush,
il quale indicava chiaramente come non solamente gli Stati Uniti avrebbero
imposto un uso della forza preventivo ed unilaterale nelle circostanze
considerate necessarie, ma la Nazione avrebbe anche punito coloro i quali
avessero agito tramite terrore o aggressione, lavorando per introdurre una giusta
moralità al mondo intero differenziando chiaramente il bene dal male203.
I nuovi valori enunciati dalla dottrina contengono altresì alcuni punti di difficile
valutazione e condivisione. In assenza di una nuova regola concernente il
principio di anticipazione dell’uso della forza rispetto ad un attacco esterno, che
dovrebbe ricevere l’approvazione dell’intera comunità degli Stati per entrare, nel
corso del tempo, a far parte del diritto internazionale consuetudinario, non vi è
ragione alcuna per ritenere che una simile modifica dei dettami della norma
attuale possa avere luogo: infatti, l’intera comunità internazionale non ha
dimostrato di ricorrere ad un tale principio come prassi consolidata (fattore
oggettivo), né di avere la convinzione che un simile comportamento corrisponda
a quanto previsto dalla norma (fattore soggettivo): entrambi questi caratteri
devono sussistere perché una norma possa essere considerata parte del diritto
internazionale consuetudinario, o perché un principio esistente possa mutare le
202 National Security Council (US) , The National Security Strategy of the United States of America (2002), www.whitehouse.gov/ncs/nss.html. 203 M. Allen e K. DeYoung, Bush: US Will Strike First at Enemies – In West Point Speech, President Lays Out Broader US Policy, in The Washington Post, 2 Giugno 2002: “[…] Not only will the United States impose pre-emptive, unilateral military force when and where it chooses, but the nation will
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proprie caratteristiche; caso, dunque, che non sembra essere venuto a
determinarsi nella questione della guerra preventiva legata all’attacco alleato
all’Iraq. Inoltre, di fronte all’impossibilità di dimostrare in maniera efficace ed
inconfutabile che l’Iraq ed il suo Governo ponessero effettivamente una
minaccia imminente per gli altri Paesi, non appare chiaro come una regola
avente valore unicamente per uno Stato, e i cui principi non possano essere
seguiti dagli altri, sia legittima in ambito internazionale, dove, su base giuridica,
vige l’uguaglianza assoluta tra Nazioni.
A ben vedere, l’unica lettura che si può dare alla dottrina statunitense, è che essa
fa chiaramente riferimento alla necessità di adattare le direttive indicate dal
diritto internazionale in materia di valutazione della minaccia alle nuove realtà
cui gli Stati Uniti si sono trovati di fronte a partire dal 2001, allorquando, per la
prima volta, un attacco veniva portato all’interno dei loro confini continentali204.
Il principio secondo cui le nuove minacce rendano necessario un atteggiamento
sensibilmente differente rispetto a quanto previsto dalla Carta delle Nazioni
Unite ed applicato sino ad oggi, si ritrova pienamente nell’idea americana di
portare guerra al terrorismo internazionale, che ha fatto da contorno alle
operazioni militari compiute prima in Afghanistan e successivamente in Iraq: se
nel primo caso, infatti, era stata accertata la partecipazione ad attività illegali e di
sostegno a gruppi criminali, confermata anche dalle stesse Nazioni Unite205, in
also punish those who engage in terror and aggression and will work to impose a universal moral clarity between good and evil”. 204 Si ricordi, infatti, l’attacco subito dalle forze armate americane il 7 Dicembre 1941 nella base militare di Pearl Harbor, nell’arcipelago delle Hawaii, in cui era ancorata parte della flotta statunitense. 205 Risoluzione 1378 (2001), reperibile presso il sito delle Nazioni Unite: “Supporting international efforts to root out terrorism, in keeping with the Charter of the United Nations, and reaffirming also its resolutions 1368 (2001) of 12 September 2001 and 1373 (2001) of 28 September 2001 […] Condemning the Taliban for allowing Afghanistan to be used as a base for the export of terrorism by the Al-Qaida network and other terrorist groups and for providing safe haven to Usama Bin Laden,
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Iraq il tentativo americano di collegamento del Governo di Saddam Hussein con
la rete terroristica denominata Al Qaeda non ha trovato riscontro nei fatti.
La Strategia per la Sicurezza Nazionale, infatti, trova origine anzitutto nella
volontà di contrastare una minaccia non riconducibile ad un’ideologia o ad una
religione, ma a ideologie di terrore e azioni contro innocenti206: lo scopo,
dunque, di fronte alla presenza allargata di cellule terroriste in ogni parte del
mondo, diventa quello di colpire le loro organizzazioni, i loro leaders e le loro
fonti di finanziamento. I mezzi diplomatici, figuranti tra le ultime alternative
prese in considerazione dal documento, sottolineano comunque come sia una
buona capacità offensiva a rendere efficace un’azione di difesa contro un simile
nemico.
Gli Stati Uniti si ergono, con questa dottrina, ad organizzatori e gestori delle
situazioni post-conflitto, con il supporto all’instaurazione di sistemi di Governo
di tipo occidentale e democratico, valutandolo come il principale sistema
preventivo alle situazioni critiche future, descrivendo quelle presentatesi in
precedenza come provocate da situazioni istituzionali che rendevano impossibile
il progresso economico facilitando, se non in alcuni casi supportando, la
formazioni di nuclei di contrasto e violenza contro l’occidente, spesso invidiato
per il suo sviluppo economico e sociale207.
Al-Qaida and others associated with them, and in this context supporting the efforts of the Afghan people to replace the Taliban regime”; www.un.org. 206 National Security Strategy, Parte III, Strengthen Alliances to Defeat Global Terrorism and Work to Prevent Attacks Against Us and Our Friends: “The United States of America is fighting a war against terrorists of global reach. The enemy is not a single political regime or person or religion or ideology. The enemy is terrorism— premeditated, politically motivated violence perpetrated against innocents”. 207 National Security Strategy, Parte VII, Expand the Circle of Development by Opening Societies and Building the Infrastructure of Democracy: “Provide resources to aid countries that have met the challenge of national reform”.
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4.3 - La Dottrina della Guerra Preventiva:
Il principio di guerra preventiva implica un’azione militare compiuta da uno
Stato di fronte al pericolo imminente di un attacco esterno commesso ai suoi
danni da un'altra Nazione o forza armata.
Durante il “West Point commencement” del 2002, come si è visto, il Presidente
americano George W. Bush esponeva tale nuovo principio e ne descriveva il
modo libero ed arbitrario con cui gli Stati Uniti si sarebbero serviti di esso a
seconda degli obiettivi da raggiungere. Simili conclusioni venivano espresse in
altri due documenti ufficiali dell’Amministrazione americana: il Primo Rapporto
annuale del Segretario alla Difesa indirizzato al Presidente ed al Congresso208, e
la Strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti209.
Come si è già avuto modo di dire, tuttavia, tale principio si trova in palese
violazione di quanto espresso dalla Carta delle Nazioni Unite, secondo
l’interpretazione prevalente210. L’uso della forza non è infatti consentito in
anticipo rispetto ad un’offensiva esterna, e dovrebbe essere necessario attendere,
ad eccezione di situazioni estreme e di fronte a circostanze di palese
preparazione militare altrui, di subire il primo attacco per poter essere legittimati
a rispondere; ciò, come si è visto, a meno che il Consiglio di Sicurezza non
autorizzi tramite specifica risoluzione, il ricorso all’uso della forza.
208 Il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld esponeva come, grazie alla lezione appresa dalla guerra al terrorismo, “Defending the United States requires prevention and sometimes preemption. It is not possible to defend against every threat, in every place, at every conceivable time. The only defense […] is to take the war to the enemy. The best defense is a good offence”; www.defenselink.mil/execsec/adr202/index.htm. 209 Vedi nota 197. 210 Il numero di autori che abbiano espresso questa opinione è talmente grande da non richiedere una citazione in tal senso; si veda, in ogni caso la nota iniziale del Capitolo 3 per riferimenti ad alcuni di essi.
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Ciò nonostante l’attuale amministrazione americana ha proclamato una dottrina
di prevenzione militare unilaterale, inscrivendola quale punto fondamentale
della Strategia pubblicata nel 2002. Uno dei limiti palesati da un tale
atteggiamento sul piano internazionale è tuttavia quotidianamente dimostrato
dal caso iracheno, laddove gli Stati Uniti, con i loro alleati, si sono trovati a
dover fronteggiare le questioni della sicurezza, della ricostruzione e della riforma
strutturale delle istituzioni governative in assenza del sostegno logistico e
umanitario della comunità internazionale e delle Nazioni Unite.
Nel nome della protezione e del rispetto della sovranità interna degli Stati, la
comunità internazionale, basandosi sul diritto consuetudinario, ha fino ad oggi
proibito l’intervento diretto negli affari di un altro Stato, in particolar modo se
ciò dovesse avvenire tramite il ricorso alla forza armata211. L’idea dalla quale
partono i valori contenuti nella dottrina della guerra preventiva prende forma
ben prima degli attentati terroristici dell’11 Settembre 2001: già sul finire del
secolo scorso, nuove proposte di istituzioni internazionali, i primi interventi
basati sul diritto umanitario e nuovi disegni di interesse specifico nazionale
differenti da quanto visto in passato, sembravano affiorare dalle riunioni e dagli
interventi politici in varie sedi internazionali212. Le vecchie regole non
apparivano più in grado di affrontare in maniera ferma e definitiva le nuove
minacce che affioravano contro l’Occidente.
Secondo la teoria espressa dalla Strategia per la Sicurezza Nazionale del 2001, il
principio di uso della forza come mezzo di difesa preventivo è sempre stato parte
del diritto internazionale, e si è dimostrato un’opzione che gli stessi Stati Uniti
211 Si veda la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sulle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua, in cui il principio che vieta il ricorso all’uso della forza, di cui all’art. 2 paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite viene giudicato quale norma di diritto internazionale consuetudinario.
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hanno preso in considerazione, sebbene raramente, ed usato in maniera
occasionale: nel caso del terrorismo internazionale, di fronte all’evoluzione che
gli attacchi hanno recentemente conosciuto, l’attacco preventivo apparirebbe
tuttora la miglior precauzione. Tale principio trova però delle concrete difficoltà
nella sua messa in pratica di fronte alla difficoltà nel sostenerne la legalità,
essendo spesso di complessa dimostrazione la sua necessità e proporzionalità
alla possibile aggressione. Anche allorquando si sia agito in tal senso in passato,
è stato difficile poter giungere a conclusioni certe sulla imprescindibilità
dell’azione, spesso persino in fasi successive all’utilizzo di mezzi militari per
procedere all’annullamento della minaccia213.
La difficoltà nel trovare e colpire i centri considerati pericolosi perché ritenuti
sede di produzioni illegali di strumentazioni militari o impianti per il lancio di
missili contro altri Paesi, pone un insindacabile problema nelle azioni di
legittima difesa preventiva. Il caso del bombardamento israeliano al reattore
nucleare iracheno del 1981 ha fatto sì, nel corso del tempo, che gli Stati
interessati alla produzione ed al commercio illecito di tali materiali abbiano
sviluppato sistemi evoluti per rendere maggiormente difficile il reperimento delle
infrastrutture adibite al loro utilizzo214.
Gli Stati Uniti, tuttavia, hanno dimostrato in questi anni, trascorsi dall’attentato
dell’11 Settembre, di avere l’intenzione di creare un nuovo tipo di atteggiamento
nei confronti del resto del mondo. Quella che oggigiorno è l’unica superpotenza
militare del pianeta e la principale potenza economica, se fino alla fine della
212 L. Feinstein e A. M. Slaughter, A Duty to Prevent, in Foreign Affairs , Gennaio/Febbraio 2004. 213 Nel 1998, ad esempio, gli Stati Uniti colpivano un impianto farmaceutico in Sudan ritenendolo una copertura per la produzione di armi chimiche e batteriologiche. Tuttavia, anche a seguito della sua distruzione, l’evidenza dell’illiceità della produzione della fabbrica sudanese rimane piuttosto lieve. 214 I. Daalder, The Use of Force in a Changing World: US and European Perspectives, 2002; reperibile sul sito internet www.unausa.org/pdf/idaalder.pdf.
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Guerra Fredda si era trovata a confrontarsi con l’Unione Sovietica, a partire
dalla caduta del Muro di Berlino ha assunto un nuovo ruolo politico
internazionale, facendosi protagonista di tutte le principali azioni militari
compiute, singolarmente o alla testa dalle coalizioni di Stati, nel corso di questi
anni, nonché assumendo un ruolo di punta nella gestione dei rapporti
internazionali in seno alle principali organizzazioni a carattere universale o
militare.
La dottrina della guerra preventiva, che gli Stati Uniti non hanno fatto mistero di
voler utilizzare contro le minacce che verranno considerate imminenti, o
comunque meritevoli di particolare attenzione, rappresenta un’importante
evoluzione dell’atteggiamento americano sul piano internazionale, in quanto
apre le porte ad una nuova condizione che potrebbe modificare in maniera
rilevante lo scenario interstatale ed il ruolo delle Nazioni Unite quale garante
della pace e della sicurezza internazionale. L’Amministrazione di Washington,
tramite tale nuova presa di posizione, sembra aver autonomamente deciso che
l’attuale connotazione internazionale renda necessaria, di fronte alla incapacità
di agire dimostrata, a loro parere, dalle istituzioni esistenti, una nuova forma di
prevenzione delle crisi internazionali, secondo quelle che vengono ritenute
priorità da parte delle autorità americane. Nell’inserire autonomamente la nuova
dottrina nel diritto internazionale, secondo il principio che l’anticipazione della
minaccia sia sempre risultato un concetto sussistente nell’ambito della
consuetudine, gli Stati Uniti sembrano arrogarsi il diritto di imporre le proprie
scelte al resto della comunità internazionale senza che vi sia una qualche forma
di approvazione o valutazione da parte degli altri Stati.
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Non può non saltare agli occhi come un simile cambiamento di rotta
nell’atteggiamento internazionale degli U.S.A. rischi di assumere una
connotazione pericolosa, sia per l’evoluzione del ruolo assunto dagli Stati Uniti,
che per il rischio concreto che altre Nazioni possano usufruire di un diritto
parallelo per scopi poco onorevoli e con mezzi poco consoni.
Gli obiettivi della Strategia del 2002, tra i quali si notano il rafforzamento delle
alleanze contro il terrorismo e gli attacchi esterni, l’instaurazione di un più
ampio libero mercato per raggiungere una maggiore crescita economica
generalizzata, la costruzione delle istituzioni democratiche in quelle regioni del
mondo in cui esse siano assenti, nonché una maggiore cooperazione tra gli
Stati215, non possono che essere considerati validi ed onorevoli. Tuttavia, i
sistemi operativi con cui s’intende perseguire tali scopi non prendono in
considerazione alcuni tra i fondamentali principi giuridici consolidatisi nel corso
degli anni, e soprattutto le considerevoli differenze storiche e sociali che
sussistono tra diversi Paesi situati in diverse zone geografiche. Se da un lato il
ruolo degli Stati Uniti ha conosciuto un esponenziale aumento di importanza e
capacità d’azione, dall’altro lato l’instaurazione di una tale nuova forma di
atteggiamento in politica estera non può non essere esposta a rischi forti di
ritorsioni; o comunque, andando palesemente, per quanto si è visto, in contrasto
con il diritto internazionale consuetudinario e pattizio, può sottoporre l’intera
comunità internazionale a situazioni di difficile controllo da parte delle autorità
215 National Security Strategy: “III. Strengthen Alliances to Defeat Global Terrorism and Work to Prevent Attacks Against Us and Our Friends; IV. Work With Others to Defuse Regional Conflicts; V. Prevent Our Enemies from Threatening Us, Our Allies, and Our Friends with Weapons of Mass Destruction; VI. Ignite a New Era of Global Economic Growth through Free Markets and Free Trade; VII. Expand the Circle of Development by Opening Societies and Building the Infrastructure of Democracy”.
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competenti, con crescenti tendenze unilateralistiche da parte di alcuni Stati
perseguenti specifici interessi militari ed economici.
4.4 - Il Rapporto dell’High Level Panel su Minacce, Sfide e Cambiamenti:
Il 2 Dicembre 2004, le Nazioni Unite pubblicavano i risultati raggiunti
dall’”High Level Panel on Threats, Challenges and Change”. I sedici membri
componenti il gruppo, presieduti dal Primo Ministro tailandese Anand
Panyarachun, proponevano un documento di novantacinque pagine che avrà
modo di far molto discutere nel corso dei mesi a venire, per l’importanza e la
varietà di argomenti e prospettive enunciate al suo interno. Il testo si suddivide
in più parti, tra cui quelle che maggiormente interessano la questione irachena,
analizzata in questa sede, risultano essere la questione della prevenzione delle
minacce; l’analisi delle nuove crisi che si sono venute a creare nel corso degli
ultimi decenni, profondamente differenti rispetto a quanto accadeva nel periodo
precedente la caduta del Muro di Berlino; il problema del valore ed dell’efficacia
delle sanzioni spesso imposte dalle Nazioni Unite come punizione o deterrente
verso gli Stati che si macchino di azioni illegali secondo il diritto
internazionale;infine il significato che, tuttora, va attribuito all’articolo 51 della
Carta e, in generale, al Capitolo VII216.
L’importanza che un tale documento potrà avere in seno all’organizzazione, in
vista di una volontà interna di riformare alcuni organi per far sì che riacquistino
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una maggiore capacità di interpretare in modo specifico ed efficace il loro ruolo,
per ottenere quel riconoscimento universale in materia di prevenzione e
risoluzione delle crisi internazionali e ristabilimento della pace e della sicurezza
nella varie regioni del mondo, è tuttavia ancora da valutare, non essendovi
ancora stato un riscontro completo alle raccomandazioni formulate, dato il poco
tempo trascorso dalla sua pubblicazione.
La volontà dimostrata dalle Nazioni Unite di diventare a tutti gli effetti
un’Organizzazione universale, non solo per quanto concerne il grado di
adesione, quantificabile nel numero delle Nazioni membro, ma anche per
l’efficacia delle sue deliberazioni, costringe la sua struttura interna a costituirsi in
modo tale da essere in grado di affrontare questioni di ogni genere, in uno
spettro d’azione sensibilmente ampliato rispetto al presente, e pertanto tramite
un’organizzazione che metta gli organi già esistenti, ed eventualmente alcuni di
nuova creazione, nella posizione di poter costituire un punto di partenza
fondamentale nella risoluzione delle questioni di carattere economico, sociale e
di peacekeeping.
La questione della legalità dell’intervento da parte di uno Stato, tramite l’uso
della forza, secondo il principio di legittima difesa, viene attentamente
analizzato e valutato dai Membri del High Level Panel217. Il riferimento al caso
iracheno non è esplicito né diretto, ma appare palesemente come, in un ambito
quale quello in cui tale gruppo veniva convocato dal Segretario Generale,
un’analisi di questo tipo non possa non riferirsi alla questione irachena, o
comunque trarre in parte ispirazione dalle vicende che il Consiglio di Sicurezza e
216 Il report cui si fa riferimento è intitolato: A more secure world: Our shared responsibility, Report of the High Level Panel on Threats, Challenges and Change, 2 Dicembre 2004. 217 High Level Panel on Threats, Challenges and Change: Parte III, Sezione IX, Paragrafo A, punti 185, 186 e 187.
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l’intera comunità internazionale si sono trovati di fronte tra la fine del 2002 e
l’inizio del 2003.
I riferimenti cui si rivolge l’attenzione del Panel prendono spunto dalla Carta
delle Nazioni Unite, quale fonte di codificazione di parte del diritto
internazionale consuetudinario, e quale trattato internazionale universalmente
riconosciuto e adottato dall’insieme degli Stati in materia di mantenimento della
pace e della sicurezza internazionale, nonché del suo ruolo chiave nella gestione
e nella prevenzione delle crisi internazionali.
Come si è avuto modo di riscontrare, le eccezioni consentite al divieto assoluto
all’uso della forza armata imposto agli Stati (art. 2 par. 4) trovano applicabilità
pratica unicamente nel principio di legittima difesa riconosciuto dall’art. 51,
ovvero nelle misure militari autorizzate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite nell’ambito del Cap. VII della Carta di San Francisco.
Con grande onestà e ampiezza di vedute, il resoconto del Panel si preme di
ammettere come, per più di quaranta anni, il Consiglio di Sicurezza, trovandosi
paralizzato da lotte intestine tra alcuni suoi Membri permanenti, non sia riuscito
a far sì che tale divieto venisse concretamente rispettato, ed anzi conferma come
il principio in questione sia stato violato centinaia di volte, a causa di veti
utilizzati per scopi di interesse nazionale, più che in favore della risoluzione delle
crisi internazionali che prendevano forma218. Il testo riscontra tuttavia,
all’interno delle eccezioni precedentemente descritte, alcune situazioni in cui,
plausibilmente, possa esservi una valutazione specifica da compiere
nell’interpretazione del linguaggio della Carta, che deve essere, in tali
218 High Level Panel on Threats, Challenges and Change: Parte III, Sezione IX, Paragrafo A, punto 186: “For the first 44 years of the United Nations, Member States often violated these rules and used military force literally hundreds of times, with a paralyzed Security Council passing very few Chapter VII resolutions and Article 51 only rarely providing credible cover”.
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circostanze, valutata in modo specifico: anzitutto, il caso in cui uno Stato
esprima la volontà d’intervenire secondo il principio di legittima difesa, in
maniera preventiva rispetto ad una minaccia non imminente.
Successivamente, viene affrontato il problema posto dalla situazione in cui uno
Stato ponga effettivamente una minaccia per altre Nazioni o per popolazioni
civili situate al di fuori dei propri confini, ma non vi sia, all’interno del Consiglio
di Sicurezza, un accordo su quali misure prendere nei suoi confronti. L’ultima
circostanza è rappresentata dall’ipotesi in cui la minaccia posta in essere da uno
Stato sia indirizzata alla popolazione interna, presente dunque entro i confini
nazionali219.
Per ciò che concerne il primo punto, il Panel assume una posizione piuttosto
chiara e restrittiva. Nel confermare come, malgrado non esplicitamente
contenuto nei dettami della Carta, sia generalmente ammesso dalla prassi
internazionale di agire in anticipo rispetto ad un attacco armato esterno, nel caso
in cui si sia d’innanzi ad una minaccia considerabile imminente, il Panel precisa
una fondamentale distinzione tra i concetti di “pre-emptive action” e “preventive
action”220, specificando come il primo caso sia consentito dal diritto
internazionale consuetudinario, in quanto implicante una minaccia imminente
per altre Nazioni. Il secondo esempio, al contrario, non può essere considerato
legittimo, in quanto rappresenta un rischio non immediato per gli Stati. Seppur
di fronte a realtà costituite dal nuovo terrorismo internazionale, dimostratosi in
grado di colpire senza che fosse possibile compiere una stima attendibile, da
219 High Level Panel on Threats, Challenges and Change: Parte III, Sezione IX, Paragrafo A, punto 187: “First, when a State claims the right to strike preventively, in self-defence, in response to a threat which is not imminent; secondly, when a State appears to be posing an external threat, actual or potential, to other States and people outside its borders, but there is disagreement in the Security Council as to what to do about it; and thirdly, where the threat is primarily internal, to a State’s own people”.
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parte dei possibili bersagli degli attentati, dei tempi e della portata degli attacchi,
anche laddove ci si trovasse di fronte alla possibilità di evidenziare come vi siano
prove chiare ed inconfutabili che sussista la condizione di poter agire in modo
preventivo di fronte ad una minaccia non imminente, la questione dovrebbe, in
ogni caso, essere portata all’attenzione del Consiglio di Sicurezza, che avrebbe,
in tal caso, l’esclusiva competenza a decidere quali misure adottare. Nel caso in
cui esso non autorizzasse il ricorso alla forza armata, potrebbero ad ogni modo
venire intraprese altre strade, quali il negoziato, la persuasione o il
contenimento. La scelta dell’High Level Panel, in questo ambito, viene
chiaramente dettata dal fatto che, in un mondo attualmente colpito da una tale
quantità di minacce alla pace ed alla sicurezza internazionale, permettere ad uno
Stato d’intervenire in modo anticipato di fronte al possibile rischio rappresentato
da un’altra Nazione, o differenti entità, significherebbe consentire alla totalità
della comunità internazionale di agire in tal senso. In questo modo, tuttavia, il
pericolo per l’ordine globale costituito dalla Carta basato proprio
sull’impossibilità di attaccare un altro Paese, sarebbe troppo grande. A
conclusione di un ragionamento che ha determinato le predette conclusioni,
inoltre, l’High Level Panel si dichiara contrario ad una riscrittura o ad una
interpretazione differente da quella sopra descritta dell’articolo 51 della Carta.
Nel secondo caso, quello cioè indicato come minaccia attuale o presunta
presentata da uno Stato al di fuori dei propri confini, verso, cioè, altre Nazioni e
popolazioni civili esterne, o più generalmente per l’ordine internazionale
considerato nel suo insieme, il Capitolo VII viene interpretato in maniera
sufficientemente ampia da permettere al Consiglio di Sicurezza, nel caso in cui la
220 High Level Panel on Threats, Challenges and Change: Parte III, Sezione IX, Paragrafo A, punto 189.
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minaccia sia presente, di intervenire con azioni implicanti l’uso della forza per
ristabilire lo status quo ante e far rientrare il pericolo. L’H.L.P. analizzando tali
questioni inserisce nei doveri del Consiglio quello di agire in anticipo rispetto al
trasformarsi della minaccia in concreta azione illecita secondo il diritto
internazionale, ma ne pone l’esclusivo diritto nelle mani del Consiglio stesso,
dimostrando come solo in sede O.N.U. possano essere prese decisioni
riguardanti l’uso della forza, preventiva o successiva che sia. Il Panel si spinge
fino al punto di comprendere la possibilità che il Consiglio di Sicurezza, in
un’evoluzione del proprio modo di agire auspicata per gli anni a venire, si
prepari ad agire più frequentemente in tal senso, ricorrendo anche ad interventi
militari, non appena una crisi, considerata sufficientemente seria da poter
implicare successive azioni belliche, si presenti sullo scenario mondiale. In
questo modo viene in parte assecondata un’azione preventiva quale quella
auspicata dagli Stati Uniti e dai suoi alleati, ma viene sottolineata ancora una
volta la posizione insuperabile del Consiglio nel decidere ed agire in casi simili,
nonché il suo ruolo esclusivo per ciò che concerne l’adozione di misure ex
Capitolo VII.
In ogni caso, anche qualora misure di questo tipo fossero prese in considerazione
dal Consiglio in modo preventivo rispetto al concretizzarsi della minaccia, esse
non potranno evidentemente prescindere da un’analisi attenta della credibilità
del rischio in corso, né dal giudizio se l’azione militare sia l’unica
ragionevolmente utilizzabile per ottenere risultati efficaci o se altre possano
essere intraprese in alternativa. In sostanza si agirebbe nell’ottica di ottenere un
rafforzamento del ruolo del Consiglio di Sicurezza in materia di gestione delle
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crisi tramite l’uso della forza, ampliandone lo spettro d’azione, mantenendo
tuttavia inalterati i principi della Carta che ne regolano l’utilizzo.
Di fronte all’eventualità che uno o più Stati dimostrino di considerare un dovere
inalienabile, per quanto ne abbiano le capacità, quello di proteggere il proprio
territorio ed i propri cittadini da pericoli esterni al punto da voler avviare azioni
unilaterali con tale scopo, un atteggiamento del genere, se poteva essere
comprensibile ed in alcuni casi condivisibile negli anni della Guerra Fredda, di
fronte cioè ad un immobilismo forzato del Consiglio di Sicurezza, oggi non può
più essere seguito, in quanto esistono istituzioni aventi l’obiettivo, le capacità e
l’operatività per completare operazioni efficaci in questo senso. Di fronte ad
azioni prese al di fuori dell’autorità del Consiglio, infatti, sebbene per una
possibile mancanza di fiducia nei confronti delle potenzialità concrete di ottenere
risultati tangibili per questa via, si rischia di ottenere l’effetto inverso, vale a dire
quello di ridurre ancor di più ad impotenza l’istituzione creata dalla Carta per la
soluzione delle crisi internazionali. E’ pertanto chiaro per l’High Level Panel come
il Consiglio di Sicurezza sia pienamente dotato, tramite i dettami del Capitolo
VII, delle capacità per riuscire efficacemente nel ruolo prestabilito; è quindi
fondamentale, piuttosto che cercare alternative alla sua posizione esclusiva nelle
azioni militari unilaterali, riuscire a far sì che esso si trovi nelle condizioni di
poter lavorare meglio che in passato, secondo principi saldamente insiti
nell’opinione generale della comunità internazionale.
L’ultimo punto in questione si riferisce invece alla protezione delle popolazioni
civili che si trovino in situazioni di grave pericolo all’interno dei confini del
proprio Stato, per cause che possano essere ricondotte proprio ad azioni
direttamente compiute da entità nazionali, o comunque a causa di negligenze nel
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proteggere la sicurezza dei cittadini commesse dal Governo o dalle autorità
competenti. L’High Level Panel, con i suoi consigli, non omette un’ammissione di
debolezza della Carta delle Nazioni Unite in questo ambito, convenendo come,
malgrado essa difenda i diritti fondamentali dell’individuo, sia insufficiente nelle
misure a protezione concreta della loro sopravvivenza e sicurezza. Il divieto di
intromissione negli affari interni di uno Stato si è dimostrato spesso essere
proprio il punto di contrasto tra quanti si schieravano a favore di un
atteggiamento maggiormente interventista, in casi di atrocità di massa commesse
dall’uomo, e quanti al contrario ritenevano che il principio contenuto nell’art. 2
par. 7 della Carta impedisse qualsiasi tipo do ingerenza in questioni che non
oltrepassassero i confini di una Nazione, neppure di fronte ad efferatezze di
particolare rilievo. Il Panel, dopo aver ricordato il principio di cui all’art. 2 par. 7
della Carta, afferma come esso non possa in nessun caso essere adoperato a
protezione di atrocità massicce quali il genocidio o la pulizia etnica, in quanto
ciò sarebbe contrario alla Convenzione sulla Prevenzione e la Punizione del
Genocidio221. Tali crimini possono inoltre essere considerati, a tutti gli effetti,
quali minacce alla pace e alla sicurezza internazionale, e portare pertanto ad
azioni prese tramite decisioni del Consiglio di Sicurezza pienamente in linea con
quanto espresso dal Capitolo VII della Carta, articoli 41 e 42. A tal proposito
crescente importanza viene data non solo al “diritto ad intervenire”, da parte
degli Stati o dell’Organizzazione, ma soprattutto al “dovere di proteggere” che
sussiste nei confronti di ogni Stato verso i propri cittadini.
L’analisi del principio di intervento umanitario fatta precedentemente ritorna
dunque con forza anche in seno all’Organizzazione, di fronte al fatto che lo
221 Convenzione sulla Prevenzione e la Punizione del Genocidio, 9 Dicembre 1948.
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stesso Panel giudica responsabilità della comunità internazionale la protezione
delle popolazioni civili allorquando lo Stato in cui si trovano non sia in grado di,
o non sia intenzionato a, fare in modo di assicurarne la sicurezza. In caso di
atrocità quali assassinii, violenze di massa, pulizia etnica ed espulsioni forzate, la
forza può essere utilizzata, seppur come ultima risorsa, per ripristinare le
condizioni che assicurino la sopravvivenza dei cittadini. Nell’ammettere come,
sino ad oggi, il Consiglio di Sicurezza non si sia mostrato forte in questo ambito,
il resoconto del High Level Panel indica come una nuova dottrina stia nascendo in
tal senso, e conferma che, qualora una situazione di questo genere possa essere
descritta come una minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionale, il
Capitolo VII della Carta consenta di intervenire a protezione delle popolazioni,
per far rientrare il pericolo causato dalle inadempienze interne degli Stati.
Uno dei punti fondamentali analizzati dal Presidente Panyarachun e dai Membri
del Panel rimane tuttavia quello della questione della legittimità, governata, per
quanto riguarda il possibile ricorso all’uso della forza, da cinque “leggi” che
devono essere rispettate perché una situazione possa essere concretamente
considerata tale da far sì che l’uso delle armi risulti l’unica alternativa alla quale
ricorrere. In primo luogo la serietà della minaccia: la situazione internazionale
deve essere sufficientemente chiara e grave perché possa essere giustificato il
ricorso all’uso della forza come misura di risoluzione della crisi, mentre, nel caso
interno, il pericolo per le popolazioni civili deve essere riconducibile a uccisioni
di massa, genocidi o pulizie etniche, con una palese violazione del diritto
internazionale umanitario.
Il secondo punto esposto dal Panel riguarda la validità dell’obiettivo: lo scopo
primario dell’azione militare, anche qualora vi fossero altri motivi correlati
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all’attacco, deve imprescindibilmente essere quello di far rientrare la minaccia in
questione.
In terzo luogo, non può essere messo da parte il principio secondo cui l’attacco
deve rimanere l’ultima eventualità: il ricorso alla forza deve, in ogni caso, essere
preso in considerazione solo una volta stimato e accertato che ogni altro mezzo
diplomatico o comunque pacifico non sia stato efficace ai fini dell’obiettivo
prefissato.
Inoltre, la proporzionalità dev’essere rispettata: la portata, la durata e l’intensità
dell’attacco non devono in ogni caso superare il livello minimo necessario a far
rientrare la minaccia e ristabilire lo status quo ante.
Infine, l’analisi delle conseguenze: è necessario che vi sia una adeguata certezza
che l’uso della forza abbia valide probabilità di ottenere, con successo, risultati
soddisfacenti, e soprattutto che le conseguenze di tale azione non creino
circostanze peggiori rispetto a quelle contro cui si è intervenuti.
Facendo riferimento diretto al caso Iraq, le cinque regole precedentemente
enunciate non sembrano trovare riscontro, o quantomeno non nella loro
interezza: i punti (1) e (3), già nella fase precedente lo scoppio delle ostilità nel
Marzo 2003, non sembravano essere pienamente riscontrabili nella realtà della
questione irachena, in quanto non si è lasciato spazio e tempo sufficiente agli
ispettori O.N.U. di compiere in maniera efficace e completa la loro missione,
passando in modo quasi diretto alla fase bellica. Inoltre, la minaccia
plausibilmente posta dal Governo di Saddam Hussein non appariva allora seria
ed imminente come invece avrebbe dovuto essere perché si potesse agire secondo
i dettami del principio di legittima difesa preventiva.
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Alla luce dei successivi avvenimenti, inoltre, i punti (4) e (5) risultano parimenti
disattesi, in quanto, di fronte alla totale assenza di armi di distruzione di massa
di natura chimica o batteriologica riscontrata sul territorio iracheno, l’attacco
alleato non può essere considerato proporzionale alla minaccia ed allo scopo, in
quanto il pericolo creato dall’Iraq era, in sostanza, inesistente.
Né le conseguenze dell’attacco erano state efficacemente valutate, come provano
in maniera inconfutabile i continui attacchi della resistenza irachena contro le
forze occidentali di stanza sul territorio, o i sequestri di persona quotidianamente
riportati dai mezzi di stampa, con alcune esecuzioni di personale militare e civile
da parte di gruppi differenti aventi come obiettivo il ritiro delle truppe straniere
ancora oggi presenti sul territorio.
Seppur parzialmente favorevole ad alcune specifiche evoluzioni di prassi e
dottrine delle Nazioni Unite, pertanto, il Panel sembra sottolineare in maniera
forte il ruolo del Consiglio di Sicurezza, rivalutandone l’importanza e volendo
mantenere alla Carta delle Nazioni Unite, e più generalmente al diritto
internazionale consuetudinario, il ruolo di gestione dei rapporti internazionali
tra gli Stati, con l’obiettivo di limitare le tendenze di distanziamento da alcuni
suoi principi mostrate da alcune Nazioni nei mesi passati.
4.4.1 - L’evoluzione delle Nazioni Unite e l’adattamento del Diritto
Internazionale:
Il caso Iraq ha senza dubbio rappresentato un punto di svolta nella storia delle
Nazioni Unite, e soprattutto una delle maggiori crisi che l’organizzazione abbia
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incontrato sul suo cammino. La delegittimazione subita ad opera degli Stati
Uniti, che, di fronte al mancato uniformarsi del Consiglio di Sicurezza alle
proprie scelte offensive, decidevano di ignorare le decisioni e le prese di
posizione O.N.U. e passare all’azione militare, rappresenta un momento di
difficoltà dovuto probabilmente anche ad una deficienza interna a creare quel
sentimento di fiducia e sicurezza nella totalità degli Stati, in alcune situazioni
specifiche.
E’ fuori di dubbio che, nell’ottica di restituire alle Nazioni Unite quel ruolo
primario nella gestione e nella risoluzione delle crisi internazionali presenti nelle
varie regioni del mondo, non si possa ottenere un ritorno d’importanza e della
piena efficacia funzionale degli organi dell’Organizzazione senza uno sforzo a
legittimarne le decisioni e rispettarne i principi.
Tuttavia, malgrado negli ultimi anni sia addebitabile agli Stati una notevole
responsabilità (o almeno ad alcuni tra essi) nel processo che ha parzialmente
ridotto l’importanza dell’ O.N.U. facilitando la comparsa di sintomi evidenti di
tale malessere, quali l’adozione di misure implicanti l’uso della forza armata
contro altre Nazioni senza una previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza,
la stessa Organizzazione ha fatto trasparire la volontà di avviare quelle vitali
modifiche necessarie per ripristinare il ruolo chiave ed insormontabile per cui era
stata creata nel 1945.
E’ lo stesso “High Level Panel on Threats, Challenges and Change”, nella sua quarta
parte, ad aver ipotizzato alcune modifiche o evoluzioni rese indispensabili dalle
nuove realtà verificatesi in ambito internazionale, nonché dalla consapevolezza
che, se per ovviare alla tendenza naturale dimostrata dagli Stati a risolvere
alcune divergenze internazionali tramite l’utilizzo delle armi, si era fatto ricorso
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ad un’entità sovranazionale avente il potere di intervenire direttamente contro un
Paese colpevole di un illecito, l’unico sistema efficace per mantenere stabile la
sicurezza internazionale rimanesse quello di offrire sempre maggior operatività
pratica ai diversi organi che la costituiscono222.
Unico rimane l’obbligo inalienabile indirizzato oggi come allora agli Stati
membri delle Nazioni Unite, dal cui valore non si può prescindere in alcuna
circostanza: il rispetto assoluto al diritto internazionale.
La posizione presa dai Membri del Panel è coraggiosa, avendo il merito di
combinare il bisogno di ristabilire il ruolo primario dell’O.N.U. sull’arena
mondiale con la consapevolezza che la Carta, l’Organizzazione, le strutture che
ne sono alla base e lo stesso diritto internazionale necessitino di venire adattati
all’evoluzione conosciuta dal mondo in questi decenni. La realtà dei fatti e gli
avvenimenti recenti avrebbero infatti palesato come l’Assemblea Generale abbia
perso parte della sua vitalità, rendendosi spesso incapace di focalizzare i bisogni
principali e le questioni da posizionare al primo posto negli ordini del giorno
sostenuti; essa dovrebbe essere rafforzata, e rivalutata come unico vero organo
rappresentativo e pienamente democratico dell’Organizzazione, luogo in cui
ogni voto ed ogni voce abbiano eguale valore ed importanza crescente.
L’importanza e i compiti del Consiglio di Sicurezza rendono necessario che esso
raggiunga un maggior livello di credibilità, legittimità ed indipendenza
finanziaria, perché possa efficacemente rispondere alle situazioni che ne vedono
l’esigenza dell’intervento; il ruolo economico svolto dai diversi Paesi all’interno
dell’apparato distributivo degli oneri finanziari dovrebbe rispecchiarsi
maggiormente sul peso che essi possono manifestare nel processo decisionale;
222 High Level Panel on Threats, Challenges and Change: Parte IV, Sezioni XIII – XX.
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inoltre, l’importanza delle organizzazioni a carattere regionale, per la loro
conoscenza approfondita delle realtà locali e delle necessità delle zone in cui si
trovano ad operare, richiederebbe una maggiore collaborazione tra esse e le
Nazioni Unite, in particolar modo il Consiglio di Sicurezza, per renderne più
specifici ed accurati gli interventi, mirati in tal modo ad affrontare questioni
specifiche delle realtà locali, altrimenti difficilmente raggiungibili.
La Commissione per i Diritti Umani richiederebbe una maggiore visibilità e
capacità di manovra, per far sì che ne vengano cancellati i dubbi di legittimità
che ne impediscono un lavoro meritevole e minano la reputazione della stessa
organizzazione.
E’ essenziale che i rischi sociali ed economici, spesso alla base delle successive
crisi internazionali, siano combattuti con una maggiore energia dagli organi che,
sino ad oggi, si sono trovati ad assumere un ruolo di secondo piano, quali, su
tutti, il Consiglio Economico e Sociale, che dovrebbe riformarsi in modo tale da
ampliare il suo spettro d’azione e rendere più trasparenti le sue operazioni e più
legittimo il suo operato.
Infine, il ruolo del Segretario Generale dovrebbe essere potenziato, in modo da
innalzarne la figura internazionale e favorirne una maggiore eco riguardo alle
situazioni critiche cui l’Organizzazione deve far fronte. Potrebbe inoltre essere
sostenuto da un ulteriore organismo a carattere individuale, con responsabilità
specifiche riguardanti la pace e la sicurezza internazionale.
L’analisi è razionale e completa, riuscendo a fornire fattori che, in avvenire,
potranno essere fondamentali per un miglior funzionamento delle Nazioni
Unite. Tuttavia, come si è visto, tali indicazioni rappresentano unicamente
raccomandazioni, orientamenti a partire dalle quali l’O.N.U. potrà prendere
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spunto per rivalutare il suo ruolo. Non può essere ignorato, infatti, che le
Nazioni Unite non possono, di per sé stesse, variare in modo più o meno
sensibile la loro struttura interna o i loro compiti specifici: se gli Stati membri
non dimostrano di credere in tale idea, essa non potrà che decadere. L’accordo
tra le Nazioni si trova alla base di queste riforme istituzionali e operative. Come
si è detto, inoltre, la scossa provocata dal caso iracheno, che ha investito le
Nazioni Unite facendone vacillare le basi, ha dimostrato in modo evidente come
anche la Carta delle Nazioni Unite, e parzialmente alcuni principi del diritto
internazionale, andassero rivisti o reinterpretati sulla base delle nuove realtà e
delle nuove minacce che si sono presentate recentemente.
Lo stesso rapporto dell’High Level Panel del Dicembre 2004, infatti, ha
evidenziato alcuni articoli della Carta di San Francisco che potrebbero subire
alcune modifiche per far sì che le raccomandazioni avanzate in tema di
ristrutturazione interna e redistribuzione dei compiti divengano operative.
Seppure alcune delle modifiche indicate non interagiscano in modo diretto con il
funzionamento dell’Organizzazione riguardo alla protezione della sicurezza
internazionale223, un punto essenziale viene preso in considerazione, cioè
l’articolo 47, che descrive la composizione del Comitato di Stato Maggiore
avente il compito di “consigliare e coadiuvare il Consiglio di Sicurezza nelle
questioni riguardanti le esigenze militari”. Il ruolo che gli era stato conferito nel
1945 non risulta più appropriato attualmente, e il Consiglio di Sicurezza
223 I punti dal 297 al 302 del High Level Panel on Threats, Challenges and Change indicano come modifiche da apportare alla Carta gli articoli 53 e 107, contenenti il riferimento agli Stati nemici, che devono essere cancellati, in modo tale da manifestare le speranze e le aspirazioni odierne, e non le paure del passato; il Capitolo XIII, inerente il Consiglio di Amministrazione Fiduciaria, inutile in un periodo in cui la fuoriuscita dal colonialismo rende necessario il mettere da parte tali principi, valori e dettami.
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necessita oggigiorno di essere coadiuvato in modo più efficace riguardo alle
questioni di pace e sicurezza internazionale.
La Carta, tuttavia, continua a rappresentare un punto fermo per la comunità
internazionale a proposito di gestione delle crisi e di mantenimento della pace e
della sicurezza internazionale, e ha saputo dimostrare la propria efficacia in più
occasioni, soprattutto rispetto ai precedenti tentativi nel medesimo senso, nel
limitare gli scontri e favorire un lungo periodo di non belligeranza per la
maggioranza dei Paesi del mondo.
Sta oggi agli Stati riprendere energia nel rispettare i principi dettati dalla Carta, e
favorirne l’applicazione; i propositi delle Nazioni Unite su cui si erano basati i
legislatori nel formulare gli articoli continuano a restare validi, seppur con alcuni
adeguamenti possibili per alcuni punti. L’Organizzazione riconosce oggi, ancor
più che nel passato, l’importanza dello sviluppo sociale ed economico in tutte le
regioni del mondo quale principale strumento di prevenzione delle crisi e
indicatore dei rischi portati alla pace ed alla sicurezza. Le Nazioni Unite,
essendo un organismo internazionale costituito da Stati indipendenti, non può
prescindere dal loro comportamento per ottenere un miglioramento nella sua
efficacia ed ampiezza delle risorse e delle potenzialità. Rimane dunque nelle
mani degli Stati l’impegno necessario a far sì che la sicurezza generalizzata, che
viene da tutti auspicata, sia raggiunta e mantenuta.
4.5 - Il ruolo delle sanzioni nel futuro del Diritto Internazionale:
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Le sanzioni rappresentano, nel processo cronologico d’intervento indicato dalla
Carta, una sorta di via di mezzo tra i mezzi di tipo diplomatico, basati quindi
sulle sole trattative e sforzi di riavvicinamento delle parti nel tentativo di trovare
una soluzione negoziale alla situazione di crisi, e l’intervento militare, ultima
ratio del Consiglio di fronte all’impossibilità di mantenere la pace e la sicurezza
internazionale senza la forza armata. All’interno di questo contesto, le misure di
blocco economico e di embargo sono state progressivamente adottate come
strumento di gestione delle crisi messo in pratica a livello internazionale,
chiamato a sortire i risultati sperati attraverso una dosata pressione economica.
Per la sua capacità di toccare le funzioni vitali di ogni sistema sociale, la leva
economica è oggi una delle più utilizzate all’interno del sistema delle relazioni
internazionali, proprio perché apparentemente in grado di limitare le azioni
basate sul ricorso alla forza militare, e di conseguire, al tempo stesso, risultati in
linea con gli obiettivi prefissati. Di fronte alla volontà di costruire la sicurezza
internazionale su basi pacifiche, la pressione economica ha rappresentato sin
dall’antichità uno dei principali corollari all’azione politica. Il blocco economico
ha da sempre come bersaglio il rientro della minaccia portata dal Paese colpevole
dell’illecito, pur garantendo l’approvvigionamento delle materie prime in favore
delle popolazioni civili e l’afflusso di capitali derivanti dalla vendita di beni e
servizi. Le sanzioni hanno rappresentato, nel corso degli anni di operatività delle
Nazioni Unite, uno dei principali sistemi tramite cui il Consiglio di Sicurezza ha
cercato di far rispettare i principi del diritto internazionale e le Risoluzioni da
esso decise. Tale misura, adoperata più volte dall’Organizzazione224, consiste
nell’indirizzare alla Nazione responsabile di aver commesso un illecito
224 Oltre all’Iraq, si ricordino, per tutte, le sanzioni indirizzate al Governo della Libia e quelle imposte, a più riprese, al Governo dei Talebani in Afghanistan.
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internazionale una forma di punizione, consistente, tra l’altro, nel limitare in
parte o nella loro interezza, gli scambi commerciali in entrata ed in uscita
riguardanti alcuni specifici prodotti o beni. Le sanzioni sono emanazione diretta
della Carta delle Nazioni Unite, e prendono forma dai principi contenuti
nell’articolo 41 del documento costitutivo, il quale fa riferimento a tutte quelle
misure non implicanti il ricorso alla forza che possono comprendere, ad
esempio, interruzioni totali o parziali delle relazioni diplomatiche, economiche o
di comunicazione225.
L’High Level Panel on Threats, Challenges and Change ammette che le sanzioni,
abbiano rappresentato, visti i risultati ottenuti, uno strumento fondamentale
nelle azioni dell’Organizzazione, ma quantomeno imperfetto226. Questa misura
coercitiva presenta un notevole vantaggio politico e giuridico insito nella
possibilità di fare pressione sui Capi di Governo affinché rispettino impegni e
condizioni definiti in ambito internazionale, purché tali misure non producano
contemporaneamente disagi troppo gravi alla popolazione civile del Paese cui
vengono imposte. In questo modo esse possono essere adattate alle circostanze,
rappresentando un’alternativa relativamente poco costosa e di relativamente
semplice messa in pratica; non può inoltre essere messo in secondo piano il
valore psicologico che tali prese di posizione e tali misure possono avere sulle
popolazioni civili vittime della ritorsione economica, le quali rappresentano
spesso un importante fattore nel comportamento dei leaders al potere. Il regime di
sanzioni che può essere attivato dal Consiglio di Sicurezza deve potersi tuttavia
225 Articolo 41 della Carta delle Nazioni Unite: “Il Consiglio di Sicurezza può decidere quali misure, non implicanti l’impiego della forza armata, debbano essere adottate […] Queste possono comprendere un’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche”, www.un.org. 226 High Level Panel on Threats, Challenges and Change: Parte III, Sezione VIII, Punti 178 - 182.
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inserire all’interno di una serie di principi che ne garantiscano l’affidabilità,
l’efficacia e la proporzionalità nell’interesse degli individui che devono sempre
rappresentare l’obiettivo della misura limitativa. Per questo motivo risulta
essenziale che il Consiglio di Sicurezza, una volta adottate le sanzioni nei
confronti di uno Stato, possa monitorarne il processo applicativo in modo tale da
assicurare che un livello alto di efficacia sia mantenuto, e che non vi siano
controindicazioni troppo negative per i civili227. Procedendo con questi obiettivi,
dunque, si dimostra ancor più necessaria la capacità insostituibile di analizzare
in modo accurato la situazione interna al Paese, ed essere in grado di far sì che le
sanzioni vengano messe in pratica dagli altri Stati tramite linee guida specifiche
per quei settori che ne sono l’obiettivo. Di conseguenza le Nazioni Unite devono
mantenere il perenne controllo sull’applicazione delle sanzioni, attuando una
supervisione che ne permetta l’eventuale messa a punto, sospensione o
incremento. Ciò nonostante è necessario che le Nazioni che si trovino nella
situazione di dover partecipare all’aattuazione delle sanzioni, si pongano nella
condizione di poterlo fare in modo completo, aumentando i controlli doganali
alle frontiere, creando specifiche norme legali per rendere realizzabile la misura
adottata, e comprendendo l’ampliamento delle verifiche nelle zone geografiche
sottoposte a limitazioni, blocchi o embarghi. Qualora uno Stato non
ottemperasse a tali predette necessarie precauzioni, impedendo in pratica che le
sanzioni possano avere luogo o venire correttamente applicate, il Consiglio di
Sicurezza deve potersi trovare nella condizione di intervenire nei suoi confronti
227 Le sanzioni indirizzate all’Iraq a partire dalla Risoluzione 687 (1991) sono state da alcuni prese ad esempio per portare delle critiche serie contro misure di tal genere, in quanto avrebbero provocato danni irreparabili alla popolazione, ridotta a situazioni di indigenza cronica, senza tuttavia portare il Governo di Saddam Hussein verso l’adempimento degli obblighi precedentemente imposti dal Consiglio di Sicurezza. In questo mo do, infatti, sarebbe stato perso di vista il reale scopo della misura,
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con ulteriori disposizioni, sottoforma di nuove sanzioni o misure restrittive ex
articolo 41 della Carta delle Nazioni Unite. Appare dunque evidente come il
principio fondamentale che occorre perseguire in ottica futura228 sia quello di
assicurare innanzitutto che le conseguenze umanitarie delle sanzioni siano
mantenute al minimo, e di ottenere un sistema valutativo continuo che permetta
di rendere stabile tale processo, mantenendo elevato il livello di efficacia delle
misure proporzionalmente agli obiettivi prefissati in sede di Consiglio.
Il caso iracheno rappresenta senza alcun dubbio un’importante punto di svolta
nel giudizio delle sanzioni e nel loro futuro sistema di attuazione: i dati che
emergono dalle statistiche ONU, FAO, UNICEF e OMS, evidenziano effetti
legati gli uni agli altri che determinano una sorta di reazione a catena. La
mancanza pressoché totale d'acqua potabile, unita all’assenza di impianti di
depurazione delle acque reflue, alle cattive condizioni igenico-sanitarie in cui
versa la popolazione, ha reso endemiche malattie quali il tifo, il colera e la
dissenteria che nel quadro di una scarsità protratta nel tempo di medicinali, ha
aggravato sempre più lo stato di salute generale del popolo iracheno. Ciò ha
innalzato il tasso di mortalità infantile dovuto anche all’embargo di forniture
sanitarie, che si riflette in una maggiore difficoltà di curare anche le malattie
meno gravi. Tale situazione è stata inoltre aggravata dalla limitazione
all’esportazione di greggio imposta all’Iraq con la Risoluzione 986 (1995), che
riducendo le limitazioni economiche ad una rischio sociale gravissimo per il benessere del popolo iracheno. 228 Già attualmente si fa riferimento sui principali quotidiani internazionali alla possibilità che vengano prese misure in tal senso nei confronti del Sudan, a seguito della situazione d’emergenza costituitasi nella regione del Darfur, secondo quanto espresso dal Rappresentante statunitense presso le Nazioni Unite John C. Danforth, il quale, in data 1 Settembre 2004, esprimeva dal Quartier Generale delle Nazioni Unite a New York, opinioni che prendevano in considerazione tale ipotesi, seppur senza indicazioni temporali specifiche.
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fissava limiti all’estrazione di petrolio da parte dello Stato iracheno229 e ne
indirizzava i proventi verso un conto corrente gestito dalle Nazioni Unite230, da
cui veniva prelevato denaro con cui viene consentito all’Iraq di importare beni
definiti di valore umanitario, quali cibo e medicinali231.
CONCLUSIONE
Dopo aver avuto modo di valutare in modo completo i vari ambiti che hanno
contraddistinto la questione legata alla guerra contro l’Iraq del Marzo 2003, con
un’analisi delle posizioni assunte dai contrapposti schieramenti ideologici e le
interpretazioni differenti riguardo alle norme ed ai dettami su cui si basa la
229 Risoluzione 986 (1995): “1.Authorizes States, notwithstanding the provisions of paragraphs 3 (a), 3 (b) and 4 of resolution 661 (1990) and subsequent relevant resolutions, to permit the import of petroleum and petroleum products originating in Iraq, including financial and other essential transactions directly relating thereto, sufficient to produce a sum not exceeding a total of one billion United States dollars every 90 days for the purposes set out in this resolution and subject to the following conditions: (a)Approval by the Committee established by resolution 661 (1990), in order to ensure the transparency of each transaction and its conformity with the other provisions of this resolution, after submission of an application by the State concerned, endorsed by the Government of Iraq, for each proposed purchase of Iraqi petroleum and petroleum products, including details of the purchase price at fair market value, the export route, the opening of a letter of credit payable to the escrow account to be established by the Secretary-General for the purposes of this resolution, and of any other directly related financial or other essential transaction; (b)Payment of the full amount of each purchase of Iraqi petroleum and petroleum products directly by the purchaser in the State concerned into the escrow account to be established by the Secretary-General for the purposes of this resolution”. 230 Risoluzione 986 (1995): “7.Requests the Secretary-General to establish an escrow account for the purposes of this resolution, to appoint independent and certified public accountants to audit it, and to keep the Government of Iraq fully informed; 8.Decides that the funds in the escrow account shall be used to meet the humanitarian needs of the Iraqi population and for the following other purposes, and requests the Secretary-General to use the funds deposited in the escrow account”. 231 L. Buck, N. Gallant, K. R. Nossal, Sanction as a gendered instrumnet of statecraff: the case of Iraq, in Review of International Studies, Vol. 24, January, 1998.
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dottrina dell’uso della forza (e che ne regolano gli ambiti e i criteri di
applicazione) alcune conclusioni possono essere tratte in tal senso.
Malgrado alcuni pareri si siano dimostrati concordi con l’asserita legittimità
dell’intervento armato compiuto dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Iraq, alla
luce di quanto mostrato, delle posizioni assunte dai Rappresentanti di molti Stati
presso le Nazioni Unite, e delle norme di diritto internazionale consuetudinario
e pattizio, l’aggressione commessa in territorio iracheno, in quanto priva di una
previa Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, non sembra in nessun caso
rientrare nei parametri di legalità concernenti le possibilità di ricorso alla forza
armata. Nelle giustificazioni avanzate da Stati Uniti e Gran Bretagna, infatti,
permangono alcune questioni poco chiare, con interpretazioni e flessibilità
forzate appositamente nel tentativo di legittimare un attacco che sarebbe
altrimenti stato in palese violazione del diritto internazionale. Il divieto di
ricorrere a mezzi di tipo bellico per la risoluzione delle controversie e più in
generale nelle relazioni tra Stati, non può essere messo da parte, né può essere
considerato duttile o alternativamente interpretabile a seconda delle situazioni
che vengono a presentarsi.
Né le eccezioni previste alla predetta proibizione possono, in questo caso
specifico, essere considerate ammissibili, in quanto esse, secondo una prassi
condivisa dell’operato delle Nazioni Unite, e secondo una dottrina stabilita,
richiedono alcune particolari condizioni, in assenza delle quali non si può agire
seguendo la loro autorità. Le valutazioni espresse dagli alleati in riferimento alla
legittima difesa, alla validità di autorizzazioni all’uso della forza contenute in
precedenti Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, o al cosiddetto intervento
umanitario non sono apparse in grado di far emergere specifiche realtà che
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rendessero evidente come il caso iracheno avesse i requisiti minimi necessari per
renderne possibile il ricorso.
In assenza dei presupposti fondamentali, dunque, che, come si è potuto
ampiamente evidenziare, non si sono verificati, un attacco non autorizzato
contro il territorio di un altro Stato non rispetta i parametri in cui viene inscritta
la legalità dell’uso della forza, ed è pertanto un illecito internazionale. Come
tale, esso è punibile secondo i dettami della Carta delle Nazioni Unite.
Non è questa la sede per esprimere giudizi sul fatto che alcuna presa di posizione
o misura è stata o verrà presa nei confronti delle Nazioni che si siano trovate ad
agire contro l’Iraq illegalmente. Ciò nonostante, i perpetui tentativi portati avanti
dalle potenze alleate aventi lo scopo di convincere la maggior percentuale
possibile di Stati del fatto che un’azione militare contro l’Iraq fosse legale è
apparsa sintomo di consapevolezza riguardo l’illiceità di un simile evento.
La guerra contro l’Iraq, come da più parti sottolineato, è stata compiuta andando
contro il diritto internazionale e la Carta delle Nazioni Unite, e sembra poter
essere considerata come l’inizio di un nuovo corso in cui (a meno di non
restituire al Consiglio di Sicurezza quel ruolo di garante e gestore della sicurezza
internazionale, nonché rispettarne le decisioni, i vincoli e i divieti) ogni Stato
possa agire, anche militarmente, a protezione di interessi ritenuti unilateralmente
fondamentali per la propria sicurezza, o contro minacce analizzate e valutate in
modo individuale, senza che il consesso delle Nazioni, creato dalla Carta con lo
scopo di arrestare la guerra e costruire una pace duratura per le generazioni a
venire, sia investito dell’autorità che gli è stata conferita.
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