Il cambio del passo

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di Andrea Quattrocchi, sentimentale

Transcript of Il cambio del passo

Andrea Quattrocchi

Il cambio del passo

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IL CAMBIO DEL PASSO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Andrea Quattrocchi ISBN: 978-88-6307-340-9

In copertina: foto di Salvo Sportato

Finito di stampare nel mese di Gennaio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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I Bu, buu, buuu. Emettendo un suono ingolfato, cupo e ferroso, la macchina si fermò. Strano, molto strano, non aveva notato nessuna spia luccicare nel display del cruscotto. Eppure quella vettura era alquanto costosa, l’ultimo modello della premiata casa automobilistica che fa dell’affidabilità il proprio punto di forza. «E meno male…» osservò con ironico livore «che il punto di forza non è la sicurezza…» Ermo era un tipo polemico, molto polemico, ne era consapevole, ma in fondo buono. Uno, per intenderci, che a furia di brontolii riesce a rovinare la giornata di tutti quelli che lo circondano fino a che, sbollita la rabbia, arriva a chiedere innocentemente: “Ma che avete tutti quanti oggi, si può sapere, eh?” Chiaro come questa vena, questo tratto, venisse fuori soprattutto nei momenti di difficoltà. Proprio in quei momenti in cui le complicazioni, che si presentano piuttosto sotto forma di fastidi, sono perfette per tirar fuori uno stato d’animo covato ma che non si ha ancora avuto un accettabile motivo per palesare. Almeno fino a che non giunge, provvidenziale appunto, una sana sfiga: il solo elemento presente in natura che consente all’uomo di far esplodere, e quindi valorizzare, lo strano sentimento di rabbia sotto vuoto che porta nascosto dentro all’impermeabile lungo. Ecco in che contesto si poteva inquadrare l’evento del guasto: era stato un pretesto per dare selvaggio sfogo ai tanto amati lamentii. Tanto che gli improperi utilizzati in quel momento di alta pressione arteriosa avevano sconfinato ben oltre il momento della rottura in sé. Affermazioni come “che vita di merda”, “ma che cacchio ci faccio io qui”, “ma dove voglio andare di questo passo”, avrebbero dovuto far

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illuminare ben altre spie e su ben altri cruscotti. Ma tant’era, la sfiga aveva colpito la macchina? Pace, questo c’era al momento. A ogni modo, non poteva immaginare che la sorpresa gliela avrebbe potuta riservare proprio quella macchina anche se, a pensarci proprio bene, c’era di che sospettare. Con quell’ammasso di fili, cavi, lucette di natale, spie, scampanellii ripetitivi, era stata reciproca e sleale antipatia da subito. Come quella, per capirci, che si respira solitamente durante il primo incontro fidanzata-suocera. I sorrisini si sprecano, sicuramente, ma le mani sono ben ferme sotto il tavolo a stringere fra le dita un coltello, una bomba, una fiala di cianuro, un filo di nylon. «Siamo sicuri che non mi lascerà in panne? Sì, insomma, che non dovrò essere io a trasportare lei?» «Ma scherza avvocato? Questa è tecnologia sopraffina, progettata da gente lauriata, robba di lusso, robba di valore, capisce lei di macchine? Stia sicuro, guardi, ce lo giuro su…» «Non c’è bisogno che mi giuri niente» aveva interrotto Ermo «solo che c’è troppa tecnologia, troppa elettronica…» A questa affermazione l’addetto alla vendita della concessionaria lo aveva guardato torvo, come se bestemmiasse. Poi, preso dall’incredulità per ciò che le sue orecchie commerciali avevano dovuto sentire, era passato a uno sguardo offeso. Ermo si era subito accorto del turbamento che doveva aver provocato nell’uomo così, generosamente, si era sentito in dovere di ammorbidire. «Sì, diciamo che ci hanno lavorato troppi laureati, come dice lei, troppi, capisce? E poi io non ne capisco niente, lei lo avrà capito. Capisce?» No, l’affermazione di Ermo non poteva essere perdonata, non era questione di comprendere o non comprendere. Ne aveva visti passare Marino, così si chiamava, di avvocati, notai, professionisti in generale. Tutti uguali erano, tutti fatti con lo stampino. Arrivavano in giacca e cravatta, profumati come le femminucce, sempre di fretta a guardare quei loro orologi costosi. E poi, soprattutto, tutti a parlare delle sue macchine con una sufficienza e un qualunquismo da denunzia alla magistratura. In quel momento Marino forse ne ebbe abbastanza. L’individuo innocente che fino a quel momento, pamphlet in mano, era stato pazientemente in attesa che i suoi insegnamenti potessero produrre un qualunque segno di conversione, doveva mutarsi in belva feroce se voleva sortire un qualche effetto significativo. Nulla di personale, ma punirne uno per educarne cento: la voce sarebbe circolata e Marino

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avrebbe finalmente risolto ogni problema con quell’esasperante categoria di acquirenti. Come in preda a un raptus si fece rosso in viso, guardò fisso Ermo e strizzò gli occhi come un tubetto di maionese per farne uscire una rabbia eloquente, immediatamente riconoscibile. Un muro doveva costruire, una specie di linea Maginot che il signor Avvocato non avrebbe avuto la forza di oltrepassare. Sì, lo avrebbe trattato male, anzi maltrattato che poi è la stessa cosa o quasi. Prese coraggio e disse: «ma lei lo sa che, parlando con rispetto per i presenti quindi io, lei e sta macchina, che…» «Va bene, la prendo, e che la sorte mi assista» aveva concluso Ermo, già stufo per aver perso troppo del suo prezioso tempo a parlare di quell’ammasso di ferraglia con quel tizio. In fondo, aveva pensato, la macchina gli sarebbe servita solo per muoversi in città ed era categoricamente escluso di poter andare da un altro concessionario. «Minchia!» aveva commentato Marino fra sé, prolungando stancamente il suono della prima “i” di minchia come solo un siciliano stupito ha imparato a fare dai propri avi. Quella tecnica di persuasione era una vera bomba, aveva funzionato anche prima del previsto. «Bene» aveva balbettato Ermo spiazzato dalla reazione di quell’uomo che, da qualche minuto oramai, continuava a gettargli addosso due occhi stretti come in segno di concentrazione o di chissà che altro. In ogni caso l’idea di precarietà che la macchina gli aveva trasmesso di primo acchito non l’aveva mai abbandonato. Pregiudizio? Forse, ma la prima impressione conta anche per coloro che si dicono categoricamente immuni dal condizionamento più naturale del mondo. E a quanti gli chiedevano cosa potesse mai avere per lamentarsi di quella splendida vettura, di quel miracolo, replicava: «è come essere sposato con una delle bagnine di Bay Watch: sono bionde, sono belle, sono maggiorate ma non hanno né cuore, né cervello. Capisci qual è il problema?!» Nessuno capiva mai quell’esempio, forse sarebbe stato il caso di cambiarlo, ma a Ermo piaceva, faceva molto cultura pop. La situazione non era migliorata con il passare del tempo: giorno dopo giorno quel sentore di sfasciume si era acuito tanto che, ogni volta che

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si accomodava alla guida, non riusciva a pensare ad altro che al complotto che quella carretta tramava alle sue spalle solo per il piacere della vendetta. Fortuna che il momento dell’harakiri era giunto in movimento, almeno aveva potuto accostarla quella disonesta, seppure alla buona. Provò a riaccendere senza scomporsi troppo, non doveva farsi vedere debole, non voleva lasciar trasparire preoccupazione o paura. I malvagi sono come gli squali con il sangue: le fiutano certe sensazioni. Una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto volte. Niente, manco l’accenno di un rumorino incoraggiante. Morta, fredda. E sì che non ci si poteva certo aspettare un atteggiamento collaborazionista. «Maledetta! Sarai finalmente contenta! Ti voglio vedere come ridi quando ti porto personalmente allo sfasciacarrozze!» aveva urlato scalciando con violenza nell’abitacolo. Nono tentativo, niente. Così, quando anche la violenza psicologica fallì, Ermo sorrise in preda a una nevrotica rassegnazione. Poteva ben rimproverare a se stesso di aver adottato una linea sin troppo morbida con quell’aggeggio: un tipo di reazione del genere poteva essere adatta semmai a una signorina in panne. Mentre un uomo, al contrario, avrebbe dovuto almeno frantumare un vetro o sfasciare la radio. In quella situazione, poi, tutto sarebbe stato lecito, poteva a ragione considerarsi come un generale in guerra al quale si giustifica la violazione della Convenzione di Ginevra articolo per articolo. A ogni modo lui era Ermo ed Ermo non si scomponeva facilmente. Era una sua regola, una di quelle cui non si contravviene facilmente, che si rispettano a prescindere dalla direzione in cui vanno le norme condivise dagli uomini di una stessa cultura. Quindi perdere il controllo avrebbe generato in Ermo la stessa afflizione che potrebbe provare un cristiano nel bestemmiare, un indù nel mangiare carne di mucca, un politico nel dire la verità (ma proprio tutta la verità). La calma, la freddezza e il controllo erano dei “segreti”, oltre che dei precetti, di cui aveva potuto sperimentare l’utilità nei momenti più sconvenienti. E quello attuale era assolutamente un momento sconveniente. Due ampie boccate d’aria per allargare i polmoni e quando il pallone si sgonfiò Ermo d’improvviso si sentì stanco, ebbe il bisogno di riposarsi. Staccò la cintura, disattivò l’auricolare del telefono e con un gesto repentino della mano destra afferrò la valigetta di pelle. Quel movimento era ampiamente rodato, andava quasi in automatico.

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Con la sinistra prese le chiavi dalla plancia torcendo il polso e il braccio. Non era stato agevolissimo questo movimento, ma la cartella si prende con la mano destra, è così, pensò. Scese della macchina e scosse il bacino per fare in modo che la stoffa dei pantaloni scivolasse per benino, uniformemente, su entrambe le gambe. Completata la delicata operazione si voltò, puntò la chiave verso la macchina e, con il pollice, schiacciò energicamente il tastino per azionare la chiusura delle portiere. Sorrise sarcastico immaginando che il telecomando non funzionasse, ma quell’ammasso di ferraglia era mica scemo e tutt’altro che prevedibile. Con una legnosa doppia torsione, prima a destra poi a sinistra, si guardò intorno perlustrando rapidamente la zona circostante. Voleva trovare un posto per riposare, era necessario comprendere cosa potesse offrire il posto. La macchina, quella vigliacca, aveva preparato quel piano con cura e si era fermata in un luogo isolato. Quasi isolato, a un’occhiata più attenta: testimonianze della presenza umana erano rade ma presenti. Alle sue spalle, al di là delle sei corsie della strada, tre per un senso di marcia, tre per l’altro, si trovava il ristorante di una nota catena di fast food. Le ampie e colorate vetrine erano tappezzate da manifesti pubblicitari che rappresentavano fotograficamente i menù del giorno. Grandi lettere maiuscole componevano parole in grado di descrivere con spietata sintesi gli innumerevoli servizi offerti per rendere veramente speciale ogni lunch o brunch. Sembravano convenienti, oltre che appetitosi, quei piatti. E quanti premi attendevano solo di essere scartati, come doveva essere piacevole quel luogo ricco di comfort. Sbatté le palpebre, la visione lo aveva incantato tanto che dovette inumidire la congiuntiva di quegli occhi stracchi e pesanti. Orientò lentamente l’asse del proprio corpo, con tutta l’intenzione di imboccare la direzione del locale: fra le poltrone di pelle la siesta sarebbe stata prevedibile e rilassante. Non avrebbe neanche dovuto attraversare l’autostrada esponendosi al pericolo, a poca distanza si poteva vedere una costruzione di cemento del tutto simile a un sottopasso.

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Si fermò improvvisamente, assalito dal sospetto di non essere stato abbastanza scrupoloso nella scelta. Un lampo nella mente lo convinse che valeva la pena di esaminare anche la parte opposta del circondario, giusto per esser certi di aver agito secondo a una valutazione razionale. Certo, stando a quanto visto sino a quel momento, il ristorante sembrava non temere confronti ma, ecco, Ermo decise lo stesso di vagliare tutte le alternative in quel momento a sua disposizione. Ancora una torsione, questa volta inversa, un dietro-front. A breve distanza dai suoi piedi un guardrail segnava il confine fra l’asfalto e l’aperta campagna. Un’aperta campagna rigogliosa, fresca, generosa. Fece scivolare gli occhi sulle prime zolle di terreno disponibile oltre il manto stradale e, sempre con lo sguardo, cominciò a percorrere in verticale il campo fino a che non si perse nel fitto bosco. Erano straordinarie, pensò, le gradazioni di colore che la natura conferiva alle proprie creature e alla vegetazione. Dallo scuro della terra, infatti, gli occhi di Ermo passarono dal chartreuse del prato, al giallo delle piante che spontaneamente popolavano quell’angolo, al marrone deciso di un tronco, al verde intenso delle fronde di quell’albero. Un leccio, sì doveva essere proprio un leccio. Che possente che era, fu incredibilmente colpito dalla maestosità di quel gigante buono. Bello, rugoso, sicuro, quella creatura era posta all’ingresso del bosco vero e proprio di cui sembrava rappresentare insieme la porta e il custode. Oltre che colpito Ermo ne fu anche incuriosito, sentì una specie di richiamo, un invito. Voltò il viso distraendo un momento lo sguardo dal leccio per dedicarsi nuovamente a fissare le vetrine. Ma nel frattempo, come catturato da una strana forma di gravità orizzontale, cominciò ad avanzare a forza di passi decisi in direzione di sua solennità. Un richiamo irresistibile proveniva dalla fronde di quell’albero, Ermo si sentiva come un innamorato e più si avvicinava e più chiaramente poteva sentire, invece dei violini, il canto di libertà intonato dalle verdi foglie. Camminava, camminava, un passo tirava l’altro e così via. Sembrava pedalasse, sembrava avere fra le gambe la catena Galle tanto il movimento era rapido e meccanico. Aumentò ancora la frequenza di una falcata che da veloce diventava impaziente. Con la mano destra nel frattempo sciolse il nodo della cravatta, poi ripose il blackbarry in una tasca a caso.

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Era quasi a destinazione, quel breve tragitto sembrava non terminare più. Ed eccolo, con un colpo di reni finale come se avesse dovuto tagliare un traguardo era giunto sotto il leccio. Non aveva sbagliato a pensare che fosse imponente. Il diametro del tronco era tanto esteso che, da vicino, non si riusciva a vederlo per intero. Notò le due curve laterali, ma riuscì solo a immaginare il punto dove il cerchio si chiudeva. Il cappello, poi, che ampiezza. Si sentiva come dentro a un’enorme campana fatta di una lega molto speciale. Un venticello accarezzò un gruppetto di rami che si inchinarono emettendo un fruscio. Ermo considerò quella movenza, un inchino, come un messaggio di benvenuto: «ti ringrazio, sono anch’io molto lieto di fare la tua conoscenza!» Ripose con cura la valigetta per terra e con dita delicate accarezzò la corteccia. Poi chiuse gli occhi e si concentrò per visualizzare mentalmente ogni curva e dosso di quella superficie che grazie al proprio tatto stava esplorando. Pensò che quel posto fosse perfetto per una breve pausa. Quella scelta era stata azzeccata, il ristorante tutto sommato doveva essere, ed era, un luogo come un altro, per nulla speciale, grigio persino. Il leccio invece no, non era un posto solito. Almeno non per un professionista del calibro di Ermo, uno che si sente soffocare se non ha nelle immediate vicinanze un router, una postazione wireless, tecnologia avanzata in genere o quantomeno una semplice presa elettrica. Bene, fra qualche minuto avrebbe chiamato al lavoro per avvertire del suo ritardo. Sarebbero venuti a prenderlo, Vannina avrebbe organizzato tutto, anche il recupero della macchina. Adesso però voleva solo riposare qualche minuto, sotto il leccio. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che era stato seduto sotto un albero? Molto, doveva essere stato bambino. Era stato bambino Ermo, c’erano anche dei testimoni affidabili. Socchiuse le palpebre, poi si voltò e si inclinò sbilanciando il peso indietro per sedere. Quando si sentì ben fisso sul terreno si assestò appoggiando la schiena al fusto.

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Notò la borsa alla sua destra e provò un’immediata colpa al solo pensiero di potersi concedere una pausa dal lavoro. Preso da questa sensazione di difetto la aprì credendo, con quel gesto, di aver improvvisamente cambiato programma: «se non posso proprio riposare, almeno mi concederò un’oretta di lavoro all’aperto!» Tirò fuori una cartellina e, da questa, un blocco di venti o trenta pagine. Si trattava di un contratto che Vannina gli aveva preparato. Ci avevano lavorato a lungo, quasi un mese. La questione era stata delicata da risolvere, in ballo c’erano diversi milioni di euro, Ermo non si scomodava più per gli spiccioli. Adesso la pratica era chiusa e il lavoro doveva solamente pagare. O meglio essere pagato. Dunque quel blocco inanimato di carta aveva molto più valore di quello che si poetesse credere. Era buffo, pensò Ermo, come le persone siano disposte a pagare cifre astronomiche per pezzi di carta del genere. Anche se quelle righe, a dire il vero, non erano sistemate lì a caso ma, al contrario, esprimevano un profondo ragionamento, nozioni apprese in anni di studio faticoso. Si sentì consolato; in fondo poteva considerarsi speciale, qualcosa sapeva farla e anche decisamente bene. Sorrise di un sorriso lucido e consapevole. Tutti quegli anni spesi solo per vedersi riconoscere una posizione all’interno di una comunità. Quando il crine, per chi riesce a conservarlo, si macchia di grigio qua e là. Una vocina dallo stomaco lo spronò: «dai Ermo, è sufficiente firmare. Coraggio, non è che l’ennesimo riconoscimento del tuo acume.» Da qualche anno la sua carriera era decollata, aveva preso una strada dritta dritta. Non rimpiangeva i tempi passati, quella posizione l’aveva sudata. Odiava quelli che con grande maestria fingono nostalgia per ciò che nel corso della discussione viene più volte definito come “il più bel periodo della mia vita” o “gli anni della mia sofferta giovinezza” o più semplicemente “i bei tempi andati”. Li considerava degli ipocriti. Ogni volta che le sue orecchie captavano, anche solo di traverso, un discorso del genere gli veniva l’irrefrenabile voglia di chiedere: «perché allora non lasci tutto quello che hai e ritorni a vivere come prima? Ora, sì, dai, vendi la Porche, il “ventidue metri”, l’appartamento in centro e quello in campagna. Non ne hai bisogno, no? Tu sei felice in un bilocale, arredato alla buona, di una palazzina periferica, no? Potresti dare il ricavato in beneficenza e tornare allo stile

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di vita sobrio che conducevi fino a qualche anno fa; pensa, due piccioni con una sola botta!» Quella domanda non l’aveva mai fatta a nessuno, non è necessario chiedere qualcosa di cui si conosce già la risposta. Ermo conosceva bene l’argomento ed era ben felice di come aveva modellato il proprio presente. Dopo anni di impegno, di giornate senza orari, di logorio fisico e mentale, era finalmente giunto il momento di goderne i meritati frutti. Frutti che non disdegnava di raccogliere con l’avidità di chi non ha mai avuto niente e si trova a dover recuperare tutto d’un colpo anni e anni d’indigenza. Avere le pezze al culo non era mai stato affar suo e non si vergognava affatto della propria ricchezza. Il giovane Ermo sentiva che prima o poi avrebbe fatto il botto, credeva di essere una specie di predestinato. Chi ha fegato riesce, non si arrende, lotta. Era stato disposto a tutto, sarebbe diventato ricco con le buone o con le cattive. E ora era finalmente ricco, soprattutto con le buone. E un ricco non deve rimpiange i tempi andati, quelli peggiori. Un ricco sa di essere ricco anche grazie ai terribili momenti che ha passato. Ma li tiene lì, in bella mostra, come un trofeo da mostrare con orgoglio solo a una ristretta cerchia di amici. Quelli che possono comprendere, quelli che nella scala occupano i gradini più bassi. Loro solamente possono avere un’idea del mal di testa che stritola le tempie di chi vorrebbe girare ma non ha i gettoni per far muovere la giostra. Gli altri, quelli nati nella parte alta della scala, non capiranno mai e, all’occasione, non mancheranno di storcere il naso per manifestare il proprio sdegno personale. Rievocare, quindi, al limite poteva anche andar bene, ma solo in precise occasioni ed esclusivamente in presenza di una selezionatissima tipologia di spettatori. Mai abusare di questo argomento, mai lasciar trasparire rimpianto. Solo gratitudine, semmai, nei confronti di una tempra straordinaria, del destino amico e, diciamolo, anche del proprio culo. Infilò una mano nella borsa in cerca di una penna, doveva stare attento a ciò che firmava.

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«Ahi!» sussurrò. La fede si era incagliata su un ferretto della borsa e impediva alla mano di entrare fino in fondo. Sbrogliò il pasticcio, con calma, e una volta libero penetrò in profondità senza ostacoli. Finalmente la penna, quella blu. Adesso aveva proprio tutto quello che gli serviva. Stava proprio bene in quell’ambiente, pensò che quando sarebbe tornato in ufficio avrebbe subito dato disposizioni perché si preparasse un tavolo di lavoro all’esterno. Ora che ci pensava, infatti, Ermo stava ricordando che allo studio avevano un’ampia terrazza che il precedente proprietario dell’appartamento aveva utilizzato come giardino. Lo ricordava chiaramente, sì, e altrettanto chiaramente ricordava il momento in cui aveva disposto che quel giardino pensile fosse eliminato per far spazio a un archivio. Niente paura però, presto avrebbe riparato. Seguendo questi pensieri, un irregolare tratto blu stava invadendo la prima pagina del documento che aveva in mano. Una linea, poi un’altra. Un cubo, uno scarabocchio sul cubo proprio per cancellare il cubo. Sfogliò la pagina, insoddisfatto del primo tentativo. Allora, una linea, un’altra, un gesto deciso, una lieve curva. Cominciava a intravedersi un disegno, seppure piuttosto naif, raffigurante un tavolo, delle sedie, dei cilindri che davano l’idea di poter somigliare a dei vasi. Sembrava il progetto di un giardino pensile, i suoi pensieri si stavano tramutando in immagini. E tanta era la sua voglia espressiva che, sul momento, non tenne nella minima considerazione il fatto di scrivere su un contratto milionario. Un ticchettio, il rumore della fede che batteva sul corpo metallico della penna lo riportò alla realtà. Scomposto com’era seduto non riusciva a tenersi in un equilibrio stabile, oltre ai pensieri anche la penna gli ballonzolava fra le mani. Quanto al disegno, ormai era fatto. Avrebbe potuto discolparsi con Vannina dicendo genericamente “non sono stato io”. Sorrise e pensò fra sé: «e chi potrebbe essere stato sennò?!» Vannina non avrebbe mai creduto a quella storia, figuriamoci. La sua socia era l’unica donna che avrebbe potuto dire di conoscerlo veramente fino in fondo. Lavorava con Ermo da un numero ormai imprecisato di anni, lo aveva seguito praticamente da sempre, conosceva la sua parabola professionale a menadito. Lei c’era stata quando Ermo era un semplice nome scritto a penna sulla targhetta bianca dell’anonima porta di un condominio. E c’era ancora

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oggi. Oggi che Ermo rappresentava un nome stilizzato su una grande placca color oro all’esterno di un elegante palazzo ottocentesco. Gli venne in mente la pubblicità di un elettrodomestico e ne adattò lo slogan: “Vannina, ieri come oggi al tuo servizio!” Sorrise, quello slogan faceva veramente schifo; non avrebbe mai potuto lavorare in pubblicità. E poi aveva paragonato Vannina a una lavatrice. Perché una lavatrice? Semmai la bella Vannina avrebbe potuto essere una vettura tedesca, sicura e affidabile come solo un prodotto nato dal teutonico ingegno sa essere. Non come… Si fermò prima di proseguire, volle darci un taglio coi paragoni. Ma forse si sarebbe concesso giusto l’ultimo: qualche anno prima Vannina era stata una Ferrari, altro che. Ermo l’aveva conosciuta nel fiore dei trenta, gli anni migliori. Da subito si era convinto di come quella donna incarnasse il suo ideale femminile. Sveglia, intelligente, organizzata, meticolosa, cortese, discreta, elegante, raffinata, bella… fulva, gambe snelle, seno abbondante, pelle liscia, labbra carnose, occhi sensuali. Quando aveva varcato la porta del suo studio per il colloquio di assunzione il posto era già stato suo, anche solo per gli ultimi dei pregi che aveva appena rievocato. Ora Vannina era un po’ cambiata, ma non di molto in fondo. Una bellezza del genere è al tempo stesso un patrimonio e una responsabilità. Bisogna accettarne i benefici nella consapevolezza che prima o poi si esauriranno gli effetti dell’incantesimo. E Vannina era stata intelligente anche in questo. Si era sempre curata, la femminilità che possedeva era genuina, ma allo stesso tempo aveva accettato le modifiche che gli anni le avevano imposto con serenità, di buon grado. Succede, c’est la vie, panta rei. Ma era proprio grazie a questo approccio che sarebbe stata per sempre bellissima. Ermo inarcò le sopracciglia e concluse: «la mia Vannina merita veramente un Oscar, anzi due: uno alla carriera, uno all’eleganza, uno come migliore attrice protagonista! Ecco, gliene ho dato anche un terzo!»

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Le voleva il bene che si vuole a un punto di riferimento, forse anche di più. Sarebbe stato impossibile, ma veramente, immaginare una vita senza Vannina. Si rabbuiò, di colpo. Una sinapsi maligna aveva portato alla sua attenzione un pensiero ancora più maligno: avrebbe potuto fare a meno molto più facilmente di Barbara che di Vannina, di sua moglie più che della sua socia. Era triste quel pensiero, ingiusto. Era come ammettere che la sua vita consisteva nel trascorrere quotidianamente tredici o quattordici ore nella difesa di criminali, sbarellati, truffatori in giacca e cravatta, colletti bianchi neri, ladri di futuro mascherati da analisti finanziari. Tutti manigoldi di un certo livello, della peggior specie, insomma tutta e solo feccia. Sempre le stesse storie, sempre lo stesso mondo. Quante volte aveva sentito nominare la parola “clausola” nella sua carriera? E contratto o derivato o fusione o plusvalenza? Troppe, sicuramente più di quanto un medico possa mai sentir parlare di sangue in una carriera intera. Inizialmente era rimasto impressionato dai racconti dei clienti. Lo turbavano le ricostruzioni dei fatti delittuosi, non comprendeva come un uomo potesse ricordare tanti particolari orrendi prendendone allo stesso tempo le distanze. Certe volte pensava che sarebbe stato meglio aver a che fare con assassini, con gente che agisce il più delle volte in preda alla rabbia o alla disperazione. Poi, invece, si era abituato. Lo stomaco si era corazzato, le orecchie erano rimpicciolite insieme agli occhi, le mani si erano fatte più capienti. In fondo era un mestiere, proprio come fare il panettiere. E poi chiunque aveva diritto a essere difeso, figuriamoci uno che poteva pagare bene. Una farfalla, la seguì volteggiare con naturale flemma. Quel volo era lento, l’insetto sembrava non rispondere ad altro stimolo che non fosse il suo istinto. Volava con i propri tempi, con il proprio ritmo. Ermo pensò che avrebbe avuto molto da imparare, per un attimo si credette incapace di mantenere il passo che gli dettava la propria indole. La sua esigenza era solo di correre, sprintare. Ma non era pure quella un’espressione di indole? Arrestò il flusso mentale prima di poter prendere una decisione, già un altro pensiero: ma come si stava bene sotto quel leccio.

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Che insolita sensazione di benessere che provava. Il cielo si colorava di scuro, ma lui non voleva andar via. Avrebbe passato la notte lì. In fondo era ancora estate, la serata era fresca. Fra un po’ avrebbe chiamato Vannina, ma solo fra un po’. Come si stava bene lì sotto il leccio. Fra un po’ avrebbe, ma solo fra un po’. Sì, fra un po’.

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II «Vannina ha il culo alto» aveva detto Ezio poco prima di perdere la mano decisiva con un tris di dieci servito «io quella me la sposo appena finisco l’università, ve lo faccio vedere!» Mai farsi prendere dall’euforia durante una partita di poker, soprattutto nel momento decisivo di una partita e con un punto bello che servito. Per la cronaca dopo quell’annuncio dettato dal cuore, che aveva lasciato trasparire un’euforia spontanea non giustificabile dalla situazione corrente, il clima di concentrazione del tavolo si era bruscamente frantumato. Dopo qualche colpo di tosse forzato emesso ad arte per rompere il silenzio, gli occhi dei giocatori si erano lanciati in quella vorticosa danza propiziatoria che è tipica del cercare alleanze sotto banco. Incroci, segnali, occhietti accennati a uno e poi confermati a un altro. Così per almeno due o tre interminabili minuti, almeno fino a che il primo, Pollastrin il debole, si era convinto a passare. Manzolini e Covacic, figli rispettivamente di industriale e contrabbandiere di armi, invece no: quei due avevano rincarato la dose. Fino a che anche Ezio era stato costretto a una resa, con gli onori militari ma pur sempre una resa. Quanto alla conclusione, la partita, il piatto per intenderci, era andata a Covacic, uno che per patrimonio genetico era abituato a leggere con una certa chiarezza le situazioni difficili. Si sbaglia chi pensa che fra i genitori di Covacic il peggiore fosse il padre contrabbandiere. Dell’episodio, comunque, Ezio era andato sempre fiero: quella solenne promessa, seppure pronunziata in un contesto dove l’unica verità è la menzogna, era stata onorata. Quattro mesi dopo la laurea in medicina un grazioso ometto sulla sessantina vestito di bianco e con il fiato di vin santo aveva chiesto: «vuoi tu Vannina prendere Ezio come tuo legittimo sposo eccetera, eccetera, eccetera?» Ed era così iniziato quello che la morale comune sicuramente etichetterebbe come un matrimonio felice. Gli ingredienti, del resto,

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erano quelli. Ed erano anche presenti in dosi piuttosto abbondanti. Lui, un giovane medico sensibile, scrupoloso, generoso, giudizioso, gioioso, delizioso. Per dirne solo alcune. Uno che tende a considerarsi imprevedibile se una mattina, davanti alla credenza, decide di indossare un paio di calzini a righe invece che i soliti monocolore. Blu, entrambi blu, si capisce. Un ragazzo d’oro, capace di farsi in quattro per un amico, in due per un nemico. Ezio che c’è sempre quando lo cerchi, che non si fa mai negare al telefono di casa per dare un consiglio o un parere, che ti accoglie col sorriso anche se sei arrivato in un momento sbagliato, che non ti fa pesare la tua inadeguatezza. Un uomo insomma, un uomo fermo, dotato di un coraggio roccioso ma che preferisce restare nell’ombra. Ezio, Ezio che ama anche quando non è amato perché dice che va bene così. E poi lei, la ragazza con gli occhi profondi e tristi. Una giovane donna che, suo malgrado, non riesce a nascondere un ingombrante passato di sofferenza dietro al velo di uno sguardo distratto da snob. Una persona all’apparenza distaccata, algida, incapace di sciogliersi; ma che allo stesso tempo pare morire dalla voglia di dimostrare a tutti i costi il proprio valore. Lei, una individualità complessa sempre combattuta fra il bisogno di rivalsa e il desiderio di dolcezza e quiete. Una con un’aura ben definita, tutta sua, riconoscibilissima. Sfuggente, difficile da giudicare, incapace di attirare odio su di sé. E poi attraente, proprio per questi elementi, capace di generare attorno al suo personaggio una curiosità profonda, morbosa addirittura. Vannina, una che per catturala non sarebbe sufficiente una battuta di caccia. Quei due rappresentavano un quadretto ideale, stando almeno a ciò che pensavano i personaggi che gli gravitavano intorno. Ezio e Vannina erano universalmente riconosciuti come una specie di inno alla famiglia, un manifesto al ripopolamento della più sana razza italica. Dopo le nozze, comunque, andarono a vivere in un appartamento situato in una zona residenziale circondata da eleganti palazzetti e perfettamente servita dai mezzi pubblici. Nelle vicinanze, peraltro, erano presenti supermercati, farmacie, pizzerie, orologerie, pasticcerie, birrerie e, in breve, tutta una gamma di esercizi commerciali che avrebbero consentito a uno qualunque degli abitanti di quel quartiere di viver bene una vita intera anche non allontanandosi di un passetto da

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quei confini. Se non per diletto, s’intende. Quella casa era stata scelta con cura e attenzione. L’avevano vista più e più volte, ne avevano scandagliato ogni angolo, ogni caratteristica. Subito, quindi, erano entrati in empatia con quelle mura. Quanto alla convivenza, poi, non aveva presentato il minimo problema. E Dio solo sa quanto sia difficile condividere lo spazio vitale con qualcuno, specie se la notte ha i piedi freddi e non capisce la funzione del giornale in bagno. Marito e moglie, in quel caso, sembravano regolati dallo stesso orologio biologico, parevano nati per condividere una casa con un unico servizio. Si alzavano più o meno alla stessa ora e mentre uno si vestiva l’altro si lavava e poi cambio e poi un bacio di buona giornata e passala meglio tu e non ti affaticare e dai che ci vediamo stasera e già mi manchi e minchia non esagerare e dai che scherzo e lo sai e stasera che mangiamo? E che ne so e poi vediamo e ciao e ciao. Bene, dunque, tutto filava benone. Di settimana, durante i week-end, nei periodi di vacanza. Succedeva tutto e non succedeva niente come solo accade in quei matrimoni, fortunati, che possono a ragione definirsi felici e sobri. In una parola: rassicuranti. In due: prevedibili e rassicuranti. Che, come unico elemento di differenziazione rispetto agli stereotipi, aveva conosciuto solo un momento di crisi al terzo anno, invece che al settimo. La tempesta era arrivata a sera, qualche tempo dopo che Vannina era andata a lavorare per Ermo. Ezio non poteva sapere quanto velocemente sarebbe andato a male lo champagne usato qualche tempo prima per brindare alla notizia. Ma ben presto il medico di famiglia buono e comprensivo aveva accusato una serie di fastidi al fegato. E siccome specialista in epatologia non era e del metodo scientifico, in quella situazione, non sapeva che farsene, aveva attribuito la causa del fastidio alla moglie. Troppo lavoro, orari impossibili, non ci sono fine settimana, e quello si arricchisce e tu niente, aveva commentato Ezio. Ma tu non capisci e non capirai mai, ma che ne sai tu, ma lo saprò io, aveva risposto Vannina. Ma cosa c’è da sapere o da capire, sei avvocato e apri uno studio per fatti tuoi, aveva proposto Ezio. E no che non lo apro, ora sarebbe una follia da Ermo ho tanto da imparare e forse lo farò in futuro, aveva ribattuto Vannina. Lo voglio proprio vedere, aveva commentato Ezio, e lo vedrai, aveva chiuso Vannina.

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Stanco. Così si era sentito Ezio: stanco. Non gli piaceva litigare in generale, figurarsi con la moglie. A ogni modo, dopo quella discussione la crisi si era chiusa. Ezio se n’era fatto una ragione e ci aveva messo una pietra sopra. Vannina, invece, ci aveva messo una lapide, perché da quel momento l’argomento lavoro era diventato un tabù. Vannina era riuscita a passare come vittima della contesa. Tipico di un avvocato e tipico di una donna aveva pensato, senza malizia, Ezio. Per questo, pochi giorni dopo la funesta sfuriata, una mattina lei gli aveva fatto trovare, accanto alla tazza del latte, un foglietto di carta con delle scritte. “Legge: non si può mai parlare del lavoro di Vannina. Regolamento: non lo si può fare a casa, nei luoghi di divertimento, negli spazi aperti, nei supermercati. Circolare esplicativa: in relazione al regolamento di cui sopra si precisa che il divieto è in vigore dal lunedì alla domenica 24 ore su 24”. Lui l’aveva letto, lei era sbucata di sorpresa da dietro a una parete. Avevano riso, Ezio aveva sorriso amaro, poi si erano abbracciati con grande affetto, non più di quello. Bene, aveva pensato Vannina, un vero peccato, aveva pensato Ezio. Ma quello era il prezzo che la coppia avrebbe pagato per la visione professionale che Vannina aveva avuto su quel giovane uomo che, a suo dire, possedeva il fuoco rosso negli occhi. Aveva ambizioni precise Ermo, questo aveva pensato lei. E poi era coinvolgente in tutto quello che faceva. Era allegro, convinto, deciso. Lottava, non demordeva mai. Sembrava fosse sempre dalla parte della ragione, dalla parte della verità. Era geniale, imprevedibile come chi ha sempre la carta vincente tra le mani. Era uno spasso vederlo all’opera, osservare come si muoveva, in toga, dentro agli spazi angusti delle aule di giustizia. Non era solo convincente, no, c’era qualcos’altro: Ermo doveva aver imparato da qualche parte la lingua della sirene, ecco cos’era. E parlandola riusciva a sovvertire senza troppi affanni anche le più prese delle decisioni già prese. Vannina conosceva bene il mondo degli studi legali, non era certo una sprovveduta. Aveva avuto modo di lavorare con altri avvocati prima, ma nessuno le era mai sembrato a quel livello, neanche lontanamente.

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Così, in breve tempo Ermo era diventato una specie di metro, un’unità di misura dedicata alla rilevazione delle capacità professionali degli altri avvocati. In confronto, quindi, tutti gli altri professionisti con cui la donna avesse mai lavorato potevano essere considerati una schiera di venduti, corrotti, senza spina dorsale. E poi sicuramente mercenari, sì, e mercenari era un eufemismo. La sua era un’opinione attenta, maturata sul campo dopo aver visto Ermo all’opera. «Ma perché hai scelto quel semisconosciuto?» aveva obiettato la sua vecchia collega Giada. «È difficile da spiegare a parole… diciamo che è stata un’intuizione fortunata, confermata dai fatti di ogni giorno, Giada mia! Lavorare insieme è veramente gratificante, sto imparando a rivedere anche la mia scala di priorità professionali. È stimolante, divertente persino, di sicuro ti prende molto. Ti dico solo che certe volte sembra più un giudice che un avvocato… e, non ci crederai veramente, sturati le orecchie, preparati, tieniti forte alla sedia: non fa alcuna preferenza fra casi in base alla parcella! » «Seee…» Ma era proprio così. Passione e convinzione ecco tutto. Accettare quel lavoro era stato più difficile di quello che potesse prevedere sin dall’inizio, davvero. Oltre al problema nato con Ezio, infatti, Vannina si era presto resa conto di dover riprogrammare per intero la propria vita lavorativa. Ermo diceva di aver scoperto la sua vera vocazione, sosteneva che Vannina aveva dentro la tempra del manager più che dell’avvocato. Non che non la considerasse un ottimo professionista, le aveva precisato cento e una volta, lei era una che dove si applicava, riusciva. Solo che, se proprio Ermo doveva essere onesto, come manager, ecco, la donna avrebbe dato il meglio. Vannina sul momento non l’aveva presa bene: provò rabbia, non erano stati quelli i patti iniziali. Ma qualcosa la incuriosiva terribilmente tanto da non riuscire a dire di no, non in quel caso, neanche in quel caso in cui qualcuno le chiedeva di dimostrare il suo valore. Ma l’uomo si adatta a ciò che lo circonda e la donna è ancora più maestra in questa primordiale arte. Così, poco a poco, si era convinta di come sarebbe stato entusiasmante lavorare per un vulcano come quello, di gestire e cadenzare tempi e modi di una mole di lavoro che cresceva a vista d’occhio.

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Gli stimoli li trovò nei castelli di note e incartamenti di una scrivania senza neanche un lembo di spazio vacante. Un affollamento tale c’era da non riuscire neanche a vedere il colore del legno di cui doveva essere fatto quel mobile. Che poi forse era di ferro. Grazie a quell’esperienza, che per costruirsi una via di fuga mentale definì provvisoria, ebbe modo di sperimentare sulla propria cute capacità di gestione che non aveva mai immaginato di possedere. Ermo, poi, non l’abbandonava, le stava sempre al fianco, la supportava e l’incoraggiava di continuo. Scoprì che ogni santa giornata può cominciare e terminare sotto una fioca luce, senza sole. Ma il suo senso di felicità cresceva, montava vistosamente. Grazie a quell’occupazione poteva dimenticare il significato della parola noia, sì, e il suo lemmario personale si stava arricchendo della conoscenza profonda di altre espressioni come fatica, pressione, stress. Sentiva di essere sul punto di completare un puzzle. Uno di quelli in cui non è determinante la figura che ordinando ogni singolo pezzo si andrà a comporre. Un albero, una montagna, una foto, un paesaggio, che importa. In quel momento, la cosa che veramente aveva contato per Vannina era mettere ogni tassello al proprio posto, assegnare un nome e una funzione a elementi del caos. Esserne capaci contava, svolgere quel compito con rapidità ed efficacia. Durante quella fase di vita, infatti, Vannina aveva solo voluto allontanare con un gesto violento la noia. Perché ne aveva rispetto, un rispetto che sconfinava nella paura. Vannina non aveva mai sopportato l’idea di sentirsi inutile, era una sensazione che detestava, che le procurava un senso di pericolo più forte di quello che le avrebbe dato vedersi puntata sul viso un’arma. I suoi pensieri al riguardo non erano campati in aria: l’aveva sperimentata, la noia, e sapeva come potesse lasciare ferite profonde, difficili da guarire. A differenza di un taglio, non colpisce zone dell’epitelio che, stando ferme, possono rimarginarsi dando il tempo alle piastrine di lavorare in santa pace. No, a differenza di un taglio, la noia va a insediarsi nella mente, un organo che risulta costantemente sollecitato, sempre in azione. La cura

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richiede quindi tempo, per chi ce l’ha, pazienza, per chi se la può permettere, e una medicina forte, per chi la trova. Ed Ermo era stato una medicina. In quel momento lui era lì, in bella mostra fra le mensole della farmacia con la sua grande scatola grigia e una vistosa etichetta con la dicitura: panacea. E Vannina ne aveva assunta di sostanza. Ne aveva assunta parecchia e con costanza, con meticolosità; tanta da esserne diventata dipendente. Ma era in buona compagnia. Ben presto, infatti, la schiava aveva catturato uno schiavo, tanto che Ermo arrivò al punto di non muovere un dito senza il via libera di lei. Inizialmente il compito di Vannina era stato quello di consigliarlo su questioni in cui Ermo avrebbe comunque avuto l’ultima parola. Con la collega discuteva e si confrontava sulle casistiche più complesse, sulle problematiche più ostiche, quelle che non si potevano risolvere solamente con lo studio e con la conoscenza tecnica. Era stata proprio la sagacia dimostrata in quest’attività a permettere alla donna di guadagnarsi la fiducia incondizionata di Ermo. Così da un giorno all’altro, oltre a un considerevole aumento di stipendio, Vannina aveva trovato sul suo tavolo, già stracolmo, ancora e ancora responsabilità. E sempre più raramente si trattava di gestire situazioni che avessero a che fare meramente col diritto. Diciamo che Vannina fu chiamata ad assumere le deleghe su responsabilità e oneri propri di un capo: dalla gestione dei clienti più importanti, alla tessitura delle relazioni con il potere, alla partecipazione agli eventi mondani di rappresentanza. Fu una conferma quella, una grande conferma personale per la Vannina adulta ma anche per la bambina. Mentre lo studio era cresciuto in maniere esponenziale, aveva cambiato sede, professionisti, fornitori, tutto, Vannina era rimasta sempre lì, con Ermo, con l’elmetto ben calato sul viso e la gambe salde al posto di combattimento. Non l’avrebbe mai abbandonato, conosceva troppo bene quel lancinante dolore che viene dal distacco. E non si tratta solamente di male fisico. Chi è lasciato, abbandonato senza un motivo plausibile, prova una forte umiliazione oltre che un profondo senso di disorientamento. Ripete a sé stesso e agli altri di essere stato idiota a non aver compreso subito quanto male avesse riposto la propria fiducia. Non sarebbe stata lei a tradire la fiducia di Ermo, mai. Vannina aveva imparato molto dalla vita. Sapeva che le chiavi di casa si danno solamente alle persone di fiducia, anzi di estrema fiducia.

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E stava attenta, non voleva mai più provare quel dolore o umiliazione che ben conosceva. Per questo manteneva sempre una distanza di sicurezza da tutti, dal mondo. Anche se la sua indole non era quella della persona solitaria aveva dovuto applicarsi sul controllo degli istinti, per così dire, filantropici. E sì che la testa l’aveva fracassata più di una volta, ma pareva non imparare dalle delusioni che, puntuali come un esattore, si presentavano a un certo punto di ogni rapporto umano che intraprendeva. Sembrava come una malata che rischia la morte perché è talmente ghiotta della propria fonte di veleno da non riuscire a dire no, non posso, non ne voglio. Ma poi aveva dovuto imparare e, se non era morta nel corpo, aveva cominciato a camminare da sola. Così inizialmente aveva pensato che fidarsi è bene, poi che fidarsi non è così bene, poi ancora che fidarsi è difficile, e ancora molto difficile, per non dire rarissimo, a dire il vero impossibile. E non era una presa di posizione infantile, decisa a tavolino, la sua. Ogni volta che aveva conosciuto una nuova persona verso la quale, per qualche motivo, avrebbe potuto provare interesse, doveva sfogliare a ritroso ognuna di quelle dolorose istantanee della propria vita per non ricadere nell’errore, per non avere altre foto da aggiungere a quell’album dalla copertina nera. Ma questi erano ragionamenti suoi, che non potevano essere condivisi. Se avesse deciso per un’apertura su questo punto avrebbe mandato all’aria anni di duro lavoro interiore di controllo. Il rischio di dipendere affettivamente da un’altra persona era sempre dietro l’angolo, l’aspettava al varco. Il destino sembrava provare un certo qual diletto nello scegliere proprio lei come vittima. Non si poteva dunque negoziare una posizione, non c’erano confini territoriali da disegnare sulle mappe: Vannina non avrebbe mai più permesso a nessuno di ferirla. Con Ermo naturalmente il rischio di un coinvolgimento si era posto, proprio così. E in quel momento Vannina aveva fermato il passo, come sua abitudine. Il giorno che aveva realizzato di essere entrata in un meccanismo pericoloso aveva respirato profondamente, chiuso gli occhi e ripercorso.

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In cima alla lista suo padre. Lei credeva di ricordarlo come un uomo brillante, molto impegnato e sorridente. Ricordava grandi pacchetti con fiocchi colorati, gite in barca e caramelle, molte caramelle. Questo era l’esordio del pensiero, il bello veniva subito dopo ed era la parte decisiva di tutta quella rievocazione. Una notte, delle urla, rumori di una porta che sbatte. In stanza sua madre, madida di sudore o forse di lacrime. Il giorno successivo quella donna era distrutta, inconsolabile, spenta, morta per sempre. Il punto era dunque che suo padre le aveva abbandonate, aveva deciso di non vederle più, di non avere più rapporti con una famiglia di cui era stato parte fino a quel momento. L’uomo era scappato come un ladro durante la notte, non aveva avuto neanche il coraggio di guardarla negli occhi. Che uomo era questo, un uomo? E poi le promesse, che fine avevano fatto, che valore avevano avuto? Nessuno le era stato accanto durante la sua infanzia, nessun uomo. Ma perché non ricordare anche il professor Guaretti, illustre studioso di diritto penale e chiarissimo relatore della tesi. Perché non ricordare le promesse di matrimonio, le frasi amorevoli, la buffa storia dell’uomo solo, abbandonato dalla famiglia? Che batosta anche quella. Che schiena dritta che le era venuta, che le era dovuta venire. Vannina aveva odiato quegli uomini, aveva odiato tutti gli uomini. E che dire di quel crudele senso di competizione, di quella sindrome del predatore? Quanti sensi di colpa aveva provato Vannina per i suoi primati, quanto inadeguata l’avevano fatta sentire per essere stata più brava di un uomo. E poi perché, che senso poteva avere colpevolizzarla, frustrare le sue capacità? Il flusso che attraversava la sua mente ogni qual volta cominciava a pensare a quegli episodi non riusciva ad arrestarsi una volta partito. Vannina se ne accorgeva, si rendeva conto di divagare, di non riuscire a concentrare il livore verso un unico bersaglio. Di sassolini nelle scarpe ne aveva tanti. Ma ora punto. Si sentì forse anche di ringraziare la misoginia, la meschinità di quei personaggi. Del resto, pensava, se era venuta su così era solamente merito suo, della sua intelligenza e del suo coraggio. Sì, coraggiosa era stata Vannina, coraggiosa come un maschio non avrebbe mai potuto essere. I traumi erano stati archiviati, superati, appartenevano oramai a un passato troppo lontano per cercare ancora spiegazioni o interpretazioni. Le ferite, invece, erano rimaste e non si potevano nascondere sotto uno strato di fondotinta.

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A ogni modo adesso lei era cresciuta, adulta d’età, e non si faceva più condizionare. Quell’uomo, Ermo, era interessante, sicuro, ma bisognava tenerlo a distanza. O quanto meno all’oscuro di ogni sentimento. Non sarebbe stato difficile per una che, come Vannina, è una maestra in quell’arte. Mai perdere il controllo, mai lasciarsi andare, mai farsi guidare, mai dare modo ad alcuno di pensare di averti in pugno: ecco le norme della regola di Vannina. Una regola semplice, facile da spiegare, ma impegnativa da praticare. Nessuna deroga era ammessa, quella era una questione privata, personale. Fino a quel momento, anche a costo di grandi rinunce, il sistema aveva retto tanto che, per quanti la conoscevano, Vannina sfuggiva alle facili classificazioni. Non c’era persona che potesse dirla prevedibile, nessuno avrebbe potuto guardarla negli occhi senza distogliere uno sguardo sfiancato dall’impermeabilità di lei. La sua fiducia doveva essere guadagnata con il sudore, sul campo. Ma mai nessuno, Ezio incluso a malincuore, aveva avuto il permesso di bendarle gli occhi. Non si era mai lamentato Ezio per questa mancanza anche perché, semplicemente, non aveva mai considerato l’ipotesi che potesse esistere questo cassetto segreto. Che proprio perché segreto, non doveva mai essere conosciuto. Ezio era stato una benedizione e lei lo adorava di riconoscenza, proprio come si fa con una persona che è capace di portare solo elementi di positività nella vita altrui. Lo aveva messo alla prova tante volte e quell’uomo generoso non era mai stato una delusione. Mai. Si erano conosciuti per caso, l’unica modalità in cui la vita ci presenta i suoi veri regali. Entrambi erano studenti, entrambi si mantenevano agli studi con quel lavoretto da camerieri in quella bettola di infima categoria. Finita l’università, erano ritornati qualche tempo dopo a trovare il proprietario di quella taverna ma l’avevano trovato tanto ubriaco da non riconoscere neanche la propria figura allo specchio, che novità. Ezio l’aveva amata da subito, anche se solo molto dopo ebbe il coraggio di ammetterlo. Lei, invece, aveva imparato ad apprezzarlo con il tempo tanto che

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adesso provava un sincero e sconfinato affetto nei suoi confronti. Non dipendeva da Ezio, beninteso, ma avrebbe sentito la sua mancanza se per qualche strana ragione fosse andato via. Vannina gli era grata. Lo avrebbe ringraziato se solo la sua regola glielo avesse concesso. Avrebbe detto: «grazie Ezio, per essere stato l’unico uomo sincero, buono e fedele con me.» E poi avrebbe anche voluto ricambiare l’intensità del suo amore. Forse anche a questo sarebbe arrivata, ma sarebbe servito altro tempo. Comunque ora arrivava un’altra figura maschile nella sua vita. Era arrivato quest’uomo che sembrava un alieno che niente sembrava poter spartire con le creature umane generalmente note, nessuna affinità nessuna. La guardava in quel modo, negli occhi, la riempiva di rispetto. Lo allontanava, d’accordo, ma non senza sforzi. La stima di Ermo le era necessaria per chiudere un cerchio ed essere soddisfatta nella vita privata e completa dal punto di vista professionale. O almeno per raggiungere un ragionevole livello di appagamento in entrambi i fronti. Vannina cominciava a sentirsi indispensabile, sapeva che la sola sua presenza era in grado di condizionare le decisioni altrui, le decisioni degli uomini. Non era solo una questione di lavoro, dunque. Nella dieta di Vannina si era da poco insinuato un nuovo, delizioso, pasto. Uno di quelli rari di cui non si fa a meno perché sono buoni e gustosi. Mentre si sa che il cibo più ha gusto, più bisognerebbe non abusarne. E in tutto questo, poi, la sua parte privata non era stata violata. Riusciva comunque a mantenere il proprio muro senza dare troppo nell’occhio. Ciò che provava veramente lo sapeva solo lei, profondamente lei. Meglio di così! Non c’era niente di male, dunque, nel mostrare un’apertura particolare nei confronti di quella che, nei fatti, era la persona con cui trascorreva la gran parte della giornata e della settimana. Apertura, sì, ma da tenere sotto la più vigile delle sorveglianze. Dopo qualche anno di collaborazione e conoscenza, i rapporti fra lei ed Ermo erano diventati diretti, le discussioni franche e senza locuzioni edulcoranti. Nessun giro di parole, insomma, mai una perifrasi per arrivare al punto. Chi fosse indotto a pensare che il rapporto fra i due potesse essere litigioso si sbagliava di grosso. FINE ANTEPRIMACONTINUA...