Il Calendario del Popolo - Venezuela, la rivoluzione della settima arte

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Un’ Amarcord – Sarebbe sempre la stessa cosa. Sareb- be un… amarcord. Racconterebbe qualche cosa accadu- ta prima, cogliendo la carica che anticipa il dopo. Forse non bisognerebbe neppure pensare all’amarcord, per- ché la base del cinema – in fondo – è sempre la stessa. La realtà è piena di storie stupende e noi continuiamo a chiederci “Perché siamo al mondo?”, “Chi siamo?”. Anche una piccola storia d’amore può essere una cosa stupenda. Di recente pensavo alla scena di un film di Tarkovskij: all’incontro tra padre e figlio in Solaris. Il figlio cosmonauta che sta volando nello spazio profon- do, al di là dell’atmosfera, rischiando la vita, e il povero padre che attende il ritorno. Mi chiedevo come sarebbe stato l’incontro, cosa avrebbero fatto i due personaggi, quale espediente avrebbe utilizzato lo sceneggiatore. E alla fine la scelta è di non introdurre niente di eccessivo o di falso: nessuna forzatura dell’immaginazione. Il pa- dre apre la porta, guarda il figlio che cade in ginocchio e abbraccia le gambe del genitore, sommità d’affetto in- nanzi a lui. È una scena piena di naturalezza eppure ri- splende di fantasia. Torniamo, quindi, a pensare a cose più piccole, più semplici, ma proviamo a guardarle con maggiore attenzione. Sono un uomo che ama guardare. Adesso guardo la pioggia. Prima c’era il sole, adesso tut- to è grigio. Non mi chiedo quasi niente. Penso a chi ver- rà a trovarmi e attendo. Quest’attesa è già un film ed è l’attesa di chi, a novantadue anni, sta andando incontro alla morte. Descrivere un simile istante di sospensione, con tutti i ricordi che piombano in un paesaggio grigio, è già una cosa bella. Poi arriva qualcuno che ti dice “Buon- giorno, parliamo di cinema?”. E va bene così. 1

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L’hanno chiamata “Hugowood”. Così è stata definita la Cinecittà di Caracas da molti media europei. Secondo questa interpretazione falsa della realtà, negli studi cinematografici statali fondati in Venezuela nel 2006 si realizzerebbero esclusivamente film inneggianti all’ex-presidente Hugo Chávez.

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Un’ Amarcord – Sarebbe sempre la stessa cosa. Sareb-be un… amarcord. Racconterebbe qualche cosa accadu-ta prima, cogliendo la carica che anticipa il dopo. Forse non bisognerebbe neppure pensare all’amarcord, per-ché la base del cinema – in fondo – è sempre la stessa. La realtà è piena di storie stupende e noi continuiamo a chiederci “Perché siamo al mondo?”, “Chi siamo?”. Anche una piccola storia d’amore può essere una cosa stupenda. Di recente pensavo alla scena di un film di Tarkovskij: all’incontro tra padre e figlio in Solaris. Il figlio cosmonauta che sta volando nello spazio profon-do, al di là dell’atmosfera, rischiando la vita, e il povero padre che attende il ritorno. Mi chiedevo come sarebbe stato l’incontro, cosa avrebbero fatto i due personaggi, quale espediente avrebbe utilizzato lo sceneggiatore. E alla fine la scelta è di non introdurre niente di eccessivo o di falso: nessuna forzatura dell’immaginazione. Il pa-dre apre la porta, guarda il figlio che cade in ginocchio

e abbraccia le gambe del genitore, sommità d’affetto in-nanzi a lui. È una scena piena di naturalezza eppure ri-splende di fantasia. Torniamo, quindi, a pensare a cose più piccole, più semplici, ma proviamo a guardarle con maggiore attenzione. Sono un uomo che ama guardare. Adesso guardo la pioggia. Prima c’era il sole, adesso tut-to è grigio. Non mi chiedo quasi niente. Penso a chi ver-rà a trovarmi e attendo. Quest’attesa è già un film ed è l’attesa di chi, a novantadue anni, sta andando incontro alla morte. Descrivere un simile istante di sospensione, con tutti i ricordi che piombano in un paesaggio grigio, è già una cosa bella. Poi arriva qualcuno che ti dice “Buon-giorno, parliamo di cinema?”. E va bene così.

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L’occupazione del Teatro Valle – che dura ormai dal 14 giugno, da più di due mesi e mezzo – è uno degli atti di disobbedienza civile più importanti nella Repubbli-ca Italiana dal dopoguerra. È stata la Costituzione – che nella forma dell’art. 9 e dell’art. 43 regola la tutela della cultura e del pae-saggio da parte dello stato e la possibilità di trasferire mediante espropriazione allo Stato servizi pubblici es-senziali o di interesse generale – e sono stati i cittadini italiani – che hanno iniziato finalmente a riprendere in mano il loro destino tramite i referendum del 12 e il 13 giugno – a ispirare la lotta delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo che stanno occupando il Teatro Valle.Il Teatro Valle non è stato infatti solo “occupato”, ma è stato anche “aperto”, messo a disposizione della cittadinanza tramite spettacoli che hanno richiama-to migliaia di persone e sul suo palco sono transitati centinaia di artisti nella logica della programmazione/

flusso che ha consentito a chiunque ne facesse richie-sta di avere la possibilità di esprimersi. Ma non solo questo: il Teatro Valle Occupato ha affrontato di petto anche la questione della Formazione e dell’Istruzione – ridotta ai minimi termini dal governo Berlusconi – aprendo il teatro durante il giorno e organizzando un corso di tre settimane per maestranze e tecnici di sce-na di teatro, e dei workshop di scrittura scenica, reci-tazione e fotografia a cui, per ragioni politiche, non si è voluto mettere il numero chiuso. Insomma il Teatro Valle, da possibile “gallina delle uova d’oro” per pochi, espressione che, anche se sem-plificando, riassume le politiche culturali degli ultimi quindici anni del nostro paese, sta diventando un’op-portunità per molti di avvicinarsi al teatro, di avere un luogo d’incontro e di stimolo delle proprie qualità umane. Per questo la lotta del Teatro Valle non è solo una lotta per impedire una privatizzazione nella logica di profit-

COM’È TRISTE LA PRUDENZA di Teatro Valle Occupato

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to del liberismo più selvaggio, una logica che vorrebbe privatizzare anche la cultura per controllarla e disin-nescare tutti i suoi meccanismi sovversivi di creazione di consapevolezza e di arricchimento dell’umano, non è solo una lotta di difesa, ma è una lotta per rendere il Teatro Valle un Bene Comune, ovvero qualcosa che va al di là sia del concetto di profitto del privato che del concetto di lottizzazione e burocratizzazione del pub-blico; il Teatro Valle dovrebbe essere gestito da una fondazione e dovrebbe avere al suo interno anche una scuola per maestranze tecniche del teatro e un centro italiano di drammaturgia contemporanea che formino nuovi tecnici, nuovi drammaturghi e nuovi artisti, una specie di vivaio e un continuo stimolo per tutte le pro-fessionalità artistiche e tecniche legate al teatro. In questa logica, come collocare una visione del ci-nema italiano all’interno dell’articolata e innovativa proposta del Teatro Valle Occupato, una proposta che sfida a viso aperto l’esistente andando oltre i concetti

di pubblico e privato, prospettando una gestione alter-nativa alle lobby e agli usi privatistici della cultura? Il cinema non è un palazzo, non è un teatro, non è un bel paesaggio, insomma non è identificabile immedia-tamente con un Bene Comune, anche se è qualcosa di cui tutti dovrebbero godere. Saltiamo a piè pari il discorso moralistico film belli/film brutti, film da pro-durre, film impegnati, eccetera. Ma segnaliamo con forza che se il cinema, come tutti i mezzi di comuni-cazione che veicolano valori ed emozioni e hanno la possibilità di costruire un immaginario, diventa un monopolio culturale, ovvero viene prodotto con le stesse modalità produttive e gerarchiche dello sta-tus quo, veicola gli stessi temi e gli stessi generi (un esempio potrebbe essere la contemporanea “comme-dia frizzante” di successo) con gli stessi attori, le stesse attrici, tutti appartenenti a una determinata categoria estetica dominante (“i belli”) e a una determinata età anagrafica (“i giovani”), la nostra coscienza ci obbliga

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a protestare, a ribellarci e a porci, insieme al pubblico, una serie di domande. Come imprimere un cambiamento al cinema, andan-do nella stessa direzione del Teatro Valle, ovvero co-struendo uno scenario diverso per il suo futuro, che tuteli non solo lo stesso Teatro Valle ma il teatro in generale come bene culturale collettivo?Come si può rendere il cinema un bene culturale col-lettivo, senza ricadere nelle pastoie della logica “pub-blica” dei finanziamenti statali, dei vari articoli 28, 8, delle commissioni che si riuniscono, dell’amico che ti può dare una mano durante la discussione della sce-neggiatura da finanziare, delle produzioni che nasco-no solo per “gestire” un finanziamento di un film che non uscirà mai e che se uscirà sarà comunque senza una distribuzione decente. Forse la soluzione si potrebbe trovare in una famosa frase di Angelo Guglielmi, il direttore che creò la Rai Tre che ha innovato il nostro panorama televisivo, «la cultura non è una cosa ma una maniera di fare le cose». E quale può essere questa maniera nuova, in-novativa di fare le cose? Una nuova legge? Una nuova normativa, nuovi meccanismi?Innanzitutto una legge che consenta al cinema di ave-re risorse non legate direttamente alla legge finanzia-ria, quindi ai voleri delle varie cricche e commissioni d’affari, ma legate a un meccanismo di finanziamento autonomo.Sul piano normativo, la legge che finanzia il cinema avrebbe potuto pure funzionare nel contesto in cui era stata prodotta, perché istituiva di una commissione composta da tutte le figure professionali e sindacali del mondo del cinema che valutava le sceneggiature da finanziare. Ma da quando il legame e il patto di fiducia tra i cit-tadini e i partiti si è spezzato, da quando il cittadino non elegge più il suo candidato ma vota per una lista di “nominati” dalle segreterie dei partiti, da quando le nomine della commissione sono pura espressione dei partiti, ci ritroviamo personaggi molto discutibili a presiederle, personaggi che non hanno nessuna com-petenza ma sono solo i nuovi censori e dispensatori di favori per conto terzi. Come restituire il cinema agli italiani? Come innescare quel meccanismo di riappropriazione dei beni comuni

che dai referendum del 12 e 13 giugno al Teatro Valle Occupato sta sorgendo come una necessità vitale nella società italiana?Come restituire il cinema italiano ai cittadini italiani, che ne sono i veri finanziatori?Come far sì che il cinema italiano sia gestito da veri produttori e non da appaltatori di denaro pubblico che il più delle volte, a fine produzione, vanno simpa-ticamente a casa con una nuova macchina di grossa cilindrata?Come permettere alla politica – quella vera, quella formata dalle passioni, dalle speranze e dagli ideali dei cittadini – di tornare a essere il motore della nostra società?Il cinema Bene Comune è quel cinema che i cittadini vogliono vedere perché affronta i nodi più spinosi della nostra società, come succedeva nel dopoguerra, è quel cinema che arrivava nei paesini sperduti dell’Italia ru-rale e che tutti andavano a vedere, perché sapevano che quel cinema aveva qualcosa da dire e non aveva paura di farlo. Il cinema bene comune è anche quel cinema che non è solo e unicamente “spettacolo” e “intrattenimento”, che non è solo una macchina per far soldi costruito sui gusti del pubblico, su emozioni preconfezionate e “già sentite”, ma è un cinema che vuole riflettere su sé stesso, sulla sua funzione e sulla società di cui è espressione. Inoltre la chiusura delle sale piccole e storiche nei cen-tri cittadini – come per esempio il cinema Metropolitan di Roma – a favore dei grandi multiplex, dove si con-centra il pubblico in cerca di cinema d’azione o d’eva-sione, sta cambiando il modo di fruizione del cinema: da esperienza “culturale” a esperienza di consumo di emozioni, lasciando sempre meno spazio al cosiddetto cinema d’autore, in favore di un cinema “industriale” – dove cioè i temi, le storie e il confezionamento delle emozioni sono gestite a tavolino, facendo tabula rasa di qualsiasi visione del mondo non collegata a uno stu-dio di marketing. Anche se il cinema “industriale” nel passato e nel presente continua a produrre capolavori, non è pensabile che rimanga il solo cinema esistente, ma questa purtroppo è la tendenzaIl cinema Bene Comune – al contrario – dovrebbe es-sere un cinema adulto, parte integrante della nostra

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cultura, nostro specchio e nostro spauracchio. Questa funzione adesso è in parte realizzata dal cinema e dalla letteratura di genere, ma non possiamo pensare che non ci possano essere prodotti mainstream che non siano anche bei film. Perché oggi in Italia è inimma-ginabile un prodotto come Ultimo Tango a Parigi e perché non viene prodotto ogni anno un prodotto di-scutibile come La meglio gioventù, intriso di una rara consapevolezza della storia non tanto del nostro pae-se, ma dei suoi cittadini? Perché negli ultimi anni in Italia non è mai stato fat-to un film sgradevole – se non per quanto riguarda l’idiozia – che per esempio descriva le organizzazioni criminali o terroristiche dall’interno prendendo il loro punto di vista? Perché – soprattutto dopo il coperchio sollevato dall’allenatore Zdenek Zeman sul doping, sulle combine e sulla corruzione arbitrale pochi anni fa – non è mai stato fatto un film duro sul mondo del calcio e sugli interessi che lo regolano? Perché non esi-ste un film italiano – che non sia un pamphlet o un do-cumentario – sulla vita di Berlusconi o sugli scandali finanziari e sessuali della Chiesa Cattolica? La cultura cinematografica è stata quasi azzerata, e i film che meritano di essere visti si contano sulle dita di una mano; l’autore cinematografico è quasi completa-mente sganciato dalla società e il più delle volte resta impantanato in vuoti esercizi solipsistici. Il livello di conflitto su temi considerati “leggeri”, come l’amore o l’amicizia, è ampiamente superato dai fumetti. Perché la fantascienza, che è anche un’ottima opportunità per costruire potenti metafore che parlano della contem-poraneità, è così poco praticata in Italia?Perché gli autori non parlano più fra loro, perché non si scambiano storie, suggestioni? Perché non litigano ferocemente, perché in Italia non si scontrano due concezioni di cinema? Perché non è il cinema a colo-nizzare gli altri prodotti audiovisivi ma è il contrario? Perché – a parte poche eccezioni – in Italia le serie televisive e le soap sono sempre un’occasione perdu-ta e negli altri paesi abbiamo prodotti come Walking Dead, Lost, Dexter o Twin Peaks?Perché in Italia la formazione delle professionalità cinematografiche – soggettisti, sceneggiatori, regi-sti, direttori della fotografia, produttori, tecnici del suono, attori, truccatori, scenografi, segretari di edi-

zione, montatori, tecnici degli effetti speciali e della post-produzione, eccetera – è delegata al solo Centro Sperimentale di Cinematografia, una struttura insuf-ficiente ed escludente, il cui compito sembra essere quello di riproporre le classiche gerarchie del cine-ma italiano, oltre a quello di mettere lo studente al centro di una rete di contatti che lo inseriranno nel mondo del lavoro?Senza addentrarci nella qualità della formazione, la riflessione che si può iniziare a fare sulla struttura di via Tuscolana è che è “sperimentale” solo di nome, ha pochissimi posti e oggi non favorisce certamen-te il ricambio di autori e professionalità; soprattutto non ha risorse, e quelle di cui dispone le consuma per la maggior parte nel suo mantenimento, essendo diventato un centro di scambio di favori e di mercato di posti di lavoro. Perché in televisione non c’è un dibattito sul cinema che non sia gestito da personaggi tipo Gigi Marzullo, Anselma Dall’Olio o – se va bene – Gian Luigi Rondi?Perché i registi di oggi che lavorano in Italia assomi-gliano più a piccoli carrieristi disposti a tutto che a persone che hanno qualcosa di importante da dire? Perché in Italia le cosiddette major sono soltanto due, Raicinema e Medusa? Benché la prima in alcuni momenti abbia sostenuto il cinema italiano e il do-cumentario, pur sempre nella logica delle clientele e delle conoscenze, in maniera cioè affatto trasparente, ci troviamo di fatto di fronte a un monopolio, allor-ché il padrone di Medusa controlla anche la RAI, e questo negli ultimi vent’anni è stato praticamente lo status quo.Perché alcune major americane non riservano una parte del proprio budget a produrre film che affron-tano temi assolutamente lontani dalle loro produzioni tradizionali, come per esempio la Columbia con Adap-tation (Il ladro di orchidee) di Spike Jonze?Perché non si rischia più? Com’è triste la prudenza!

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SOMMARIO

Amarcord

Com'è triste la prudenza

Editoriale

Introduzione e questionario Intervista a Mimmo Calopresti

Intervista a Ettore Scola

Intervista a Daniele Vicari

Intervista a Massimo Gaudioso

Intervista a Wilma Labate

Intervista a Stefano Rulli

Intervista a Daniele Segre

Intervista a Roberto Andò

Intervista a Andrea Segre

Intervista a Luciana Castellina

Com'è arrivato sugli schermi il primo film italiano sulla Grande Guerra

Intervista a Roberto Silvestri

Il cinema, il lavoro

I- Cinema

Dalla sintesi digitale a RCL Apulia Film Commission

Milano 55,1 Cronaca di una settimana di passione

Venezuela, la rivoluzione della settima arte

La Nouvelle Vague romena

Holliwood e l'ebreo combattente

Cinema ed Ebraismo

Cinema, bene comune

Elenco Sostenitori / Librerie

Tonino Guerra

Teatro Valle Occupato

Sandro Teti

a cura della Redazione

Ugo Casiraghi (n. 182 / 1959)

Antonio Medici

Sergio Bellucci

Massimiliano Carboni

Silvio Maselli

Barbara Sorrentini

Barbara Meo Evoli

Daniela Mogavero

Luigi Bruti Liberati

Moni Ovadia

Stefania Brai

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Proprietà editoriale© Nicola Teti & C. Editore

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Stiamo lavorando alla creazione di un archivio fotografico, filmico e cartaceo de Il Calendario del Popolo. Cerchiamo vecchie fotografie, anche non professionali, volantini, appelli, annunci e manifesti riguardanti la rivista o le edizioni de Il Calendario, la Teti Editore ed eventi a cui hanno partecipato (feste de l’Unità, banchetti, convegni, eccetera. Metteremo poi a disposizione, anche attraverso Internet, tutti questi materiali, che costituiscono la memoria storica del Calendario. Inoltre, se avete vecchi numeri de Il Ca lendario e soprattutto degli Almanacchi, vi preghiamo di mettervi in contatto con la redazione, poiché stiamo ricostruendo l’archivio di tutti i numeri della rivista.

Fotografie Tutti i fotogrammi riprodotti in questo numero sono tratti dalla trilogia L’armata Brancaleone, Brancaleone alle Crociate (© Cecchi Gori) e La nuova armata Brancaleone di Mario Monicelli, a cui questo numero è dedicato, in occasione dell’anniversario della sua scomparsa, avvenuta il 29 novembre 2010.L'editore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto per le foto di Mario Monicelli presenti in questo numero.

In copertina:Mario Monicelli a Firenze sul set di Amici miei (Archivio ANSA)

Il Calendario del Popolo èsocio del CoordinamentoRiviste Italiane di Cultura

Periodico associatoall’Unione Stampa Periodica Italiana

Ringraziamenti Archivio del Movimento Operaio di RomaAndreina AlbanoGiorgio BaraggioniRenzo BaraggioniGreta BarboliniEmiliano ChiusaCineteca LucanaPierangela LiuzziMaria Minoletti TetiPaola Scarnati

Per le riprese audiovideo di alcune interviste ringraziamo:Iacopo VenierSimone BucciRoberto PietrucciLe interviste sono disponibili sul sito www.libera.tv

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EDITORIALE

di Sandro Teti

Cari abbonati e cari lettori, innanzitutto una buona notizia, anche se in parte amara, perché Nicola Teti non ha potuto gioirne: il gigante Mondadori del magnate Silvio Berlusconi è stato sconfitto in tribunale, anche in sede civile, sul caso del libro L’Oro da Mosca di Valerio Riva, nel quale mio padre veniva ripetutamente calunniato. Già dopo la condanna penale di Riva, Mondadori era stata costretta a rimuovere completamente le false accuse dalle successive edizioni del libro. Quella che abbiamo ottenuto in sede civile è una grande vittoria sul piano morale, etico e politico, anche se putroppo marginale sul piano economico.Desidero scusarmi con voi per il ritardo con cui ricevete questo numero de Il Calendario del Popolo, dedicato allo stato della cinematografia italiana. Lo sforzo che stiamo compiendo è grande, mentre le risorse – per numero di persone e mezzi economici – sono limitatissime. Questi ultimi mesi sono stati dedicati al pesante e oneroso trasferimento di tutto l’archivio storico e delle tirature dei volumi della Nicola Teti Editore, dal magazzino di via Rezia a Milano a un deposito di Pomezia (Roma), trasferimento a cui ho atteso personalmente con i collaboratori e i sostenitori della rivista, diviso tra il peso dei libri e l’emozione data dallo scorrere tra le mani di tutta la storia de Il Calendario. Purtroppo siamo stati costretti a effettuare questo trasloco per via dei costi di locazione non più sostenibili.Siamo impegnati a garantirvi per l’inizio dell’anno prossimo la consegna dell’ultimo numero del 2011, di cui è già iniziata la redazione. Recupereremo quindi il ritardo accumulato, sperando nella vostra comprensione.Nonostate tutte le difficoltà, siamo confortati nei nostri sforzi dai giudizi positivi che ci arrivano numerosi da più parti. Anche i consigli e le critiche dei lettori rimangono per noi un prezioso contributo, e vi invitiamo a scriverci numerosi.

Stiamo continuando l’opera di messa in sicurezza di tutti i numeri de Il Calendario pubblicati dal 1945 a oggi, attraverso la scansione digitale. Stiamo prodigandoci per far conoscere in tutti i modi la rivista a nuovi lettori e possibili abbonati. Vanno in questa direzione le nostre iniziative nella distribuzione e diffusione: troverete infatti in questo numero un elenco di molte decine di librerie dove la rivista può essere ora acquistata. Inoltre abbiamo consolidato la presenza de Il Calendario del Popolo su Internet attraverso più canali, quali il nostro sito, il nostro blog, Facebook, Twitter e Flickr. Dal 7 all’11 dicembre Il Calendario del Popolo avrà un proprio stand alla Fiera dell’Editoria di Roma, dove il giorno 9 sarà presentato questo numero.Da quando, dopo la scomparsa di Nicola Teti, ci siamo presi il difficile impegno di rilanciare la rivista e dargli un nuovo orizzonte, molti storici abbonati hanno risposto all’appello. Nuovi lettori stanno leggendo queste righe. Tuttavia tanti tra di voi, pur avendo frequentato queste pagine per molti anni, non hanno ancora rinnovato l’abbonamento. A questi amici e compagni voglio dire che Il Calendario è cambiato – è vero. Non solo è cambiato nella veste grafica, ma ha coinvolto, nella stesura degli articoli, un ventaglio di intellettuali, politici ed esponenti della società civile, compresi operai e minatori – come nel numero 751, dedicato al Lavoro – che descrivono il complesso mondo di oggi dal suo interno. Ma tutto questo non ha in nessun modo intaccato la vocazione originale de Il Calendario del Popolo, che è quella di essere strumento di divulgazione, di salvaguardia della memoria storica e di difesa dei valori della Resistenza e della Costituzione.Rinnovo pertanto l’appello a lettori, abbonati vecchi e nuovi, a sottoscrivere l’abbonamento per il 2012 e a diffondere la rivista come facevano, tanti anni fa, i “calendaristi”, autentiche staffette della Cultura.

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INTRODUZIONE

Nel progetto di diffusione della cultura popolare, sostenuto da Il Calendario del Popolo nei sessantasei anni della sua storia, il cinema ha costituito un imprescindibile oggetto di ricerca e analisi. Era la fine degli anni quaranta. L’Italia si lasciava alle spalle l’incubo della guerra. La fatica della ricostruzione già volgeva al Miracolo economico e ai fasti scoppiettanti del Boom, che saranno tali solo per una parte della società italiana. Nei cinematografi, intanto, esplodeva il fenomeno del neorealismo. Comincia in quel periodo la collaborazione di Ugo Casiraghi con Il Calendario del Popolo. Da lì in avanti, la riflessione sulla cinematografia – italiana e internazionale – passerà dalla sua penna acuta e raffinata, impermeabile a postulati dogmatici e vezzi di provincia, sempre capace di collegare l’interpretazione dello stile artistico alla lettura dei rapporti sociali ed economici. Sei decenni più tardi Il Calendario del Popolo dedica un numero monografico alle tendenze della filmografia del Belpaese. Lo fa con la curiosità dell’indagine più che col piglio sicuro dell’asserzione, proponendo i risultati di un’inchiesta sul campo che ha coinvolto registi, sceneggiatori, critici ed esperti in un dialogo polifonico e in un ragionamento aperto sullo stato dell’arte. Ai nostri interlocutori abbiamo chiesto di misurarsi con i nodi irrisolti e i motivi cruciali della produzione cinematografica contemporanea, all'incrocio tra questioni antiche e nuove urgenze. Partendo dalla prassi dell’“impegno”, l’engagement, abbiamo provato a riflettere sulla rappresentazione critica della realtà e delle sue contraddizioni che – da qualche tempo – sembra animare la renaissance del cinema italiano. In quest’ottica era inevitabile esplorare i rapporti tra cinema di finzione e documentario, mentre la televisione continua a imporre i dogmi del reality e del «tempo reale». Il discorso ci ha portato lontano, avanti e indietro nel tempo: dalla grande fabbrica, la cattedrale

del “secolo breve”, ai mille rivoli della produzione post-fordista e del lavoro precario, dalle poetiche novecentesche alle nuove frontiere dell’innovazione tecnologica, lungo le dorsali della rete telematica, nelle mille pratiche di fruizione e condivisione dei prodotti dell’ingegno. Abbiamo cercato di cogliere le trasformazioni di un genere come la commedia, capace di dominare una leggendaria stagione della nostra filmografia prima di consegnarsi agli stereotipi del filone sentimentale o generazionale. Gli assetti produttivi e le concentrazioni distributive del settore, insieme alla sconfortante mancanza di politiche pubbliche, hanno rappresentato un’altra, inevitabile occasione di confronto, rivelandosi metafore dei vizi oligopolistici e delle disposizioni straccione del capitalismo italico. Infine, era davvero impossibile non rievocare la lezione di un oppositore irriverente e tenace come Mario Monicelli. A un anno dalla morte, abbiamo menzionato quella «rivoluzione», a cui continuò a invitare fino alla fine, per cogliere l’apporto che l’arte può offrire al mutamento del reale. Monicelli sapeva quanto costa il riscatto. È «doloroso», diceva. E aggiungeva: «L’Italia affronti il dolore sennò vada in malora». Lo ricordiamo con le parole che, lo scorso autunno, campeggiavano sugli striscioni del movimento studentesco: «Ciao, Mario, la facciamo ‘sta rivoluzione». Proprio da un’indimenticabile pellicola di Monicelli, L’armata Brancaleone, abbiamo mutuato la selezione iconografica: non solo come giusto tributo, ma nella convinzione che quella miscela d’ironia e crudezza, miseria e ingegno, cialtroneria e vitalità, rimanga la più puntuale autobiografia di una nazione chiamata Italia. Mentre chiudiamo questo numero, si conclude la permanenza di Silvio Berlusconi a palazzo Chigi. Termina, com’era cominciata diciassette anni fa, l’avventura del tycoon che voleva governare un Paese come si amministra un’azienda. Termina con un videomessaggio trasmesso dalle televisioni: inquadratura bloccata, monologo e ancora bugie. Di certo non s’incrina il senso comune sedimentato dalla mutazione antropologica che, all’alba degli ottanta, consegnò l’Italia all’analfabetismo iconico e al soliloquio della videocrazia. Alla fissità di quest’ultima ripresa, incorniciata dal piccolo schermo, speriamo di sostituire – col tempo – i campi lunghi e i controcampi di una democrazia rinnovata.

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11QUESTIONARIO

Oggi è ancora possibile parlare di cinema impegnato?

La realtà è tornata al centro della cinematografia italiana più attenta alle contraddizioni dell'esistente. Si può parlare di "neo-neorealismo"?

Quanto incide la mancanza d'una vocazione industriale nel circuito cinematografico e quanto pesa l'oligopolio della distribuzione?

Come spieghi l'ostilità che l'Italia berlusconiana ostenta nei confronti del cinema?

È possibile immaginare un'inversione di tendenza? E quale prospettiva dovrebbe orientare le nuove politiche pubbliche per il cinema?

Il nostro cinema è stato reso celebre dalla commedia, capace di offrire caustiche rappresentazioni della realtà. Più tardi quel genere è andato appiattendosi su stereotipi sentimentali e generazionali. Cos'è accaduto alla commedia italiana?

Mario Monicelli diceva: «Ci vorrebbe un'altra rivoluzione». Sei d'accordo? E il cinema può cambiare il mondo?

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Credo di no, perché il Novecento è finito. Siamo in un’altra epoca in cui la definizione

di impegno è tutta da rielaborare. Forse, oggi il problema è proprio questo: dare una risposta all’interrogativo. Credo, comunque, che si tratti di qualcosa in divenire.

Sono profondamente legato al documentario. L’ho praticato e lo pratico con estrema libertà, e anche più spesso del cinema di finzione. Credo che non esista alcuna differenza in termini di valore intrinseco. Possiamo perfino ipotizzare che un giorno il documentario finirà per

diventare il cinema tout court e magari quello di finzione non passerà più nelle sale. Lo sviluppo di nuovi canali di circolazione dei contenuti produrrà dei mutamenti radicali. Il documentario potrebbe diventare, in virtù delle sue specificità visive, il vero prodotto per il grande schermo. Quindi, soprattutto in questo momento, la distinzione tra le due forme espressive è destituita di ogni fondamento. Un altro aspetto che occorre valutare è la fruizione di massa a livello televisivo. In quel contenitore indifferenziato, nel frullatore televisivo, cinema di finzione e documentario annullano le loro specificità. Nei margini del piccolo schermo, il cinema come grande spettacolo – colto e popolare, insieme – smarrisce la sua essenza.

Difficile da dire. Non esiste una “scienza” o un criterio oggettivo. Dal mio punto di vista un buon

documentario è quello capace di vivere la realtà che racconta. Il grande documentarista è colui che riesce a mettere le mani nella merda di tutti i giorni. Questa aderenza a una realtà controversa e contraddittoria è – per necessità – meno intellettualistica di quella praticata dal cinema di finzione.

Un tema fondamentale dei miei lavori è la memoria, perché ritengo che il racconto della realtà non possa eludere il confronto col passato. Memoria e adesione al reale – a mio avviso – devono procedere intrecciate, insieme al profondo rispetto per gli altri di cui si narrano le storie.

Non credo alla definizione di “neo-neorealismo” e vorrei che ci

liberassimo dalla costrizione di formule e gabbie. Vedo una profonda trasformazione in atto e quindi penso che dovremmo evadere dagli schemi precostituiti. È chiaro che il neorealismo rappresenta un momento cruciale della nostra storia. Tuttavia, quando si fa cinema, si lavora per definizione sul futuro, proiettati in avanti. Ecco perché le definizioni non mi convincono. Dovendo descrivere questa fase, è impossibile non riscontrare la centralità della rappresentazione realistica. Non possiamo farne a meno, perché sono aumentate in maniera esponenziale le fonti dell’informazione. Ad ogni modo occorre stare attenti, perché la televisione offre un grado zero di rappresentazione della realtà nella forma del reality. Per questo, quando penso al cinema, penso a uno strumento che ti proietta in avanti: non basta raccontare una realtà, bisogna porsi il problema di come trasformarla. La TV è impermeabile a questo tipo di tensione, interessata a una meccanica restituzione dell’esistente da confezionare per uno spettatore complice. La televisione non regge il vero realismo. A Torino mi è capitato d’incontrare Danis Tanović, il regista di No Man’s Land. C’erano a confronto due nostri documentari, realizzati negli anni del conflitto nei Balcani. Lui aveva raccontato la storia di un mutilato di guerra che riabbracciava la sua famiglia. C’erano scene fortissime che la televisione non potrebbe sostenere. Io, invece, avevo narrato le vicende dei profughi che fuggivano da quella guerra e arrivavano in Italia. Erano storie terribili e quasi

intervista a MIMMO CALOPRESTI

Regista, sceneggiatore e attore, presidente dell’Archivio

Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico fino al 2010.

Suoi i film: Preferisco il rumore del mare (2000), La felicità non costa

niente (2002), L’abbuffata (2007). Ha scritto con Mario Monicelli il

suo ultimo lavoro La Nuova Armata Brancaleone (2010).

Impegno

Che differenza c’è tra

raccontare la realtà

attraverso il documentario

e rappresentarla attraverso

la finzione narrativa?

Il documentario è una forma

espressiva minore o un altro

punto di vista?

Quali sono le caratteristiche

di un buon documentario?

Neo-neorealismo

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mi ero dovuto censurare per renderle fruibili dalla televisione. Lo spettatore al cinema ha una soglia di sopportazione assai più elevata rispetto a quello della televisione, permettendoti maggiore libertà. La TV ha modificato complessivamente la fruizione dell’immagine, finendo per condizionare tanto il cinema di finzione quanto il documentario.

Non credo che esista un problema di censura preventiva. Certo, gli anni settanta sono un periodo molto delicato, ma la questione non riguarda una limitazione della libertà a monte. In questi anni,

per dire, volevo raccontare la storia di Guido Rossa, ma sono stato preceduto. Probabilmente si dubitava che potessi narrare la vita di un comunista secondo

Ne La seconda volta, a metà dei

novanta, ti sei misurato – prima

di altri – con un periodo delicato

come gli anni di piombo.

Esiste un problema di censura -

autocensura dei cineasti italiani

su temi scottanti o periodi

controversi?

i crismi della sinistra più ortodossa. In questo caso, la censura non è venuta dall’esterno, ma ha agito dall’interno, per così dire. Spesso, nel confrontarsi con certe questioni e determinati periodi, si indulge al romanzesco, smarrendo il filo della realtà. Trovare il giusto punto di mediazione tra finzione e accadimenti reali è complicatissimo. Ne La seconda volta penso di esserci riuscito. Sono partito da eventi reali. Ho frequentato Liviana Tosi, militante di Prima linea in regime di semilibertà, che mi ha raccontato la storia a cui è ispirato il film: l’incontro con un uomo a cui aveva sparato vent’anni prima e di cui non aveva il minimo ricordo. A mio avviso, non c’è un problema di censura, ma una difficoltà oggettiva di confrontarsi con una stagione irrisolta come gli anni di piombo. Col tempo mi sono convinto che quella non fu una guerra civile. La vera tragedia shakespeariana sta nella vicenda di Guido Rossa, nei proiettili esplosi per assicurarsi il monopolio sull’identità di veri

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Succederà che questo schermo rimarrà nero,senza immagini, senza parole.

A proposito dello sviluppo

delle nuove tecnologie,

cosa pensi della diffusione

del cinema sul web?

Che posizione hai rispetto

alla libera circolazione

dei contenuti?

Industria e

Distribuzione

Cinema e Stato

comunisti. Raccontare il terrorismo da questa particolare angolazione – senza retorica – sarebbe stato particolarmente interessante.

Le due cose rappresentano una combinazione disastrosa. La mancanza di vocazione industriale determina l’oligopolio distributivo.

In assenza di strutture produttive serie, capaci di confrontarsi – e scontrarsi – con il sistema di distribuzione, finiscono per prevalere inevitabilmente gli interessi consolidati. È come per il sindacato. Se c’è una produzione forte, allora è possibile contrattare determinate condizioni. Il nostro circuito, purtroppo, è vecchio. Manca di vocazione industriale e capacità finanziaria. Il cinema italiano da questo punto di vista ricorda un manufatto indefinito, qualcosa che manca sempre la condizione di prodotto finito, ed è facilmente orientabile dai guadagni facili. Se va bene la commedia, allora s’impone la monocultura della commedia. Da questo punto di vista, il circuito cinematografico riproduce i peggiori vizi del sistema economico italiano.

Mi piacerebbe rispondere che sono contrario, ma credo che gli interventi pubblici siano

opportuni se vincolati a obiettivi precisi: ad esempio, a supporto della formazione. Il cinema non lo si impara nelle scuole. Bisogna esordire, produrre opere prime. Sono favorevole a finanziare i giovani per affrancarli dai vincoli di mercato. Non sono favorevole a un cinema di stato, ma credo che si possa fare del cinema insieme allo stato. Il principio, del resto, vale – o dovrebbe valere – per tutti i settori economici. Se un settore è in crisi andrebbe supportato da una politica industriale seria. Se la politica pubblica è indirizzata in questo senso, va benissimo, perché avere trenta autori che producono cento film all’anno non m’interessa. Al contrario credo che sia strategico favorire tanti esordi, immettere sul mercato idee nuove. Peraltro, oggi i mezzi tecnici consentono di realizzare film a costi bassissimi. In questo senso le nuove tecnologie rappresentano una frontiera, anche se non basta una videocamera per fare cinema. E quindi la formazione è sempre più importante.

M’interessa molto. Negli Stati Uniti mi raccontavano di un incontro durante il quale un grande produttore, danneggiato dalla cosiddetta “pirateria”, rispondeva che – senza la libera diffusione dei contenuti – non avrebbe visto

milioni di opere d’arte. La libertà di socializzare e condividere contenuti è sempre esistita nella storia della cultura. Se i miei film vengono scaricati dal web, alla fine sono contento. Non posso obbligare nessuno ad andare in sala, però posso costruire dei film per cui andarci ha ancora senso. E poi mi capita che i ragazzi mi vengano a incontrare al cinema dopo aver visto le mie cose sul web in un circuito virtuoso che implementa i vari tipi di fruizione. La libertà non va limitata. La libertà va vissuta.

È stato un grande gioco, iniziato per sostenere l’agitazione degli studenti dell’Istituto per la cinematografia “Roberto

Rossellini”. Stavano facendo una lotta per difendere la scuola e ci contattarono chiedendoci un sostegno. E noi decidemmo di rispondere. Era bello vedere Mario cimentarsi con quei ragazzi, compiere un gesto quasi surrealista. E così facemmo La nuova armata Brancaleone: un piccolo video realizzato dagli studenti a supporto della lotta, con me e Monicelli presenti. Direi che è stato un atto di pirateria e il comandante della ciurma era proprio Monicelli. Alla sua età, rimaneva il più giovane di tutti noi. Sapeva stare nel mondo rivendicando una piena libertà. Ricordo quando lo chiamai l’ultima volta. Dovevo fargli un’intervista. Gli chiesi come stava e lui rispose: «Male». Non tollerava di non essere autosufficiente e aveva il coraggio di dire le cose che di solito nessuno dice. In più praticava questa vicinanza alle forme di protesta, anche a quelle non precostituite. Aveva una formazione socialista e diceva delle cose scomode anche a sinistra. In un mio lavoro intitolato Anch’io ero comunista, ho raccontato il PCI attraverso il cinema, chiedendo a certi registi come vedevano i comunisti e usando i loro materiali. Bertolucci, Monicelli e altri partecipavano alle campagne elettorali e conservavano una documentazione preziosa, girata con grande maestria, che colpisce per la sua modernità. Quella era una grande generazione di cineasti, capaci di mischiare avanguardia, cinema classico, cinema di botteghino, impegno politico. Ricordo una scena tratta dal materiale di Bertolucci, in cui un edile spiega agli artisti la sua vita in modo che la possano rappresentare. Ecco, questo era impegno. Alla fine Monicelli non l’ho intervistato perché non stava bene, ma nel film ho messo il pezzo di una registrazione che aveva fatto a Roma con gli

Con Mario Monicelli

hai realizzato

La nuova armata Brancaleone.

Raccontaci com’è andata.

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Succederà che questo schermo rimarrà nero,senza immagini, senza parole.

Monicelli e

la Rivoluzione

studenti. Beh, li attaccava frontalmente. Gli diceva che erano viziati, che i genitori gli compravano le case, che erano solo preoccupati di difendere il loro tenore di vita, lamentandosi, mentre c’è gente che deve lottare tutti i giorni per una casa. Insomma li bacchettava e aveva il coraggio di dire cose scomode. La cosa che mi ha sempre colpito di Mario era l’idea del gioco come momento di trasformazione della realtà. Ma proprio quella è la forza del cinema, che ti permette di giocare anche su cose serissime. Questa lezione, lui l’ha sempre praticata, aggiungendo – alla fine della sua vita – quel pizzico d’infantilismo che l’ha reso indimenticabile.

Ci ho ripensato di recente in Calabria, vicino ai luoghi in cui Monicelli ha girato una parte del film. Ne

L’armata Brancaleone Mario è riuscito a restituire una confusione particolare, unica. Ovvero quella condizione che permette ai cialtroni di esistere. Al sud domina, a metà strada tra realtà e finzione,

il personaggio del fanfarone, la cui natura oscilla tra carica vitale e pose da guitto ignorante. Ecco, questa figura riassume e condensa la quintessenza dell’Italia.Sì, sono d’accordo, ma credo che la rivoluzione sia in atto. Molto dipenderà da come le persone la interpreteranno e la vivranno. È in atto una grandissima trasformazione. La “marcia dei morti viventi” organizzata dagli indignados americani è una roba potentissima, oltre che una citazione cinematografica eloquente. Io m’illudo che il cinema possa cambiare il mondo, ma non ne sono sicuro. Un giorno, però, ho incontrato Olmi che mi ha detto: «Continuiamo, perché il cinema cambierà il mondo».

Succederà che questo schermo rimarrà nero,senza immagini, senza parole.

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Qual è la forza metaforica

di un film indimenticabile

come L’armata Brancaleone?

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intervista a ETTORE SCOLA

Credo che non abbia mai avuto senso parlare di un particolare tipo di cinema impegnato.

C’è stato un cinema più strettamente politico in una stagione in cui esisteva ancora il PCI e venivano commissionati alcuni interventi. Per esempio ci si prestava a intervistare Berlinguer in occasione delle feste dell’Unità. In realtà, in termini generali si potrebbe dire che tutto il cinema è impegnato, perché – esercitando presa sul pubblico – produce comunque degli effetti e delle conseguenze. In questo senso, anche Walt Disney e perfino la farsa possono essere considerati forme espressive “impegnate”…

Senza dubbio il grande cinema italiano è stato quello del neorealismo e della commedia

all’italiana. Soprattutto il primo è stato una vera e propria rivoluzione capace di modificare schemi, tipo di produzione e forme di coinvolgimento degli autori. Per la prima volta dopo il fascismo, si capì che il cinema poteva essere un’altra cosa, che poteva

raccontare un paese emerso dalla guerra, distrutto, da ricostruire. Per esigenze pratiche, per mancanza di mezzi, il neorealismo fu necessariamente un cinema d’invenzione. Mancavano gli studi per le riprese, le attrezzature, i macchinari. Per questo fu un fenomeno della strada, della presa diretta, con attori presi dalla vita di ogni giorno. Questa rivoluzione segnò il cinema di tutto il mondo e anche il cinema americano è figlio del neorealismo. Lo ripetono gli stessi cineasti d’oltreoceano. Figlia ed erede del neorealismo fu la commedia, dedita a un altro lato dell’uomo: al divertimento, alla leggerezza, all’allegria. Eppure dal neorealismo la commedia non mutuò solo la lezione formale del fare, ma anche la filosofia di Amidei e Zavattini che raccomandava di seguire l’uomo. Tutte le storie possibili sono dentro l’uomo e non c’è bisogno di cercarle con l’immaginazione o nel fantastico: basta conservare lo sguardo fisso sulla realtà. La commedia all’italiana ha rappresentato questo tipo

Impegno

Commedia

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di approccio sul versante satirico. Certamente, col tempo, è diventata una formula generica, buona per qualsiasi cosa: da Fellini a Franchi e Ingrassia. A un certo punto anche Pasolini fu ricompreso nel genere. La commedia ha duemila anni e non finirà mai. Attualmente le tematiche sono più legate al privato, ai contrasti generazionali. A mio avviso, oggi il genere non annovera film memorabili, benché ci siano delle eccezioni, s’intende. Per Sorrentino, per esempio, è possibile evocare la commedia all’italiana, ma non il neorealismo. Sorrentino – piuttosto – fa un cinema neoespressionista, impostato su una meritevole ricerca di linguaggi. Negli ultimi vent’anni la filmografia italiana ha rinunciato a questo tipo di ricerca, adesso invece c’è la produzione di “vocabolari” differenti e questo è un merito – tra gli altri – di Sorrentino. Comunque, la commedia continua e continuerà mutando ancora e ancora. Io non sono un sostenitore del passato. Ogni tempo si

specchia in qualcosa, ha la propria prospettiva, la propria musica, il proprio cinema. Ci sono stagioni, come quella odierna, in cui si procede in “pianura”. Ma anche la pianura serve, fa parte della natura, può esser fertile, dà frutti e fiori. Non ho nulla contro la pianura, ma è inutile cercarvi le vette di De Sica o di Fellini. Quella – semplicemente – era un’altra stagione. Non ho mai creduto a questa distinzione e non l’ho mai fatta mia. Per me e per molti miei colleghi, un imprescindibile punto d’arrivo fu proprio la capacità di conciliare il cinema d’autore, con le sue istanze autoriali ed espressive, le sue inclinazioni morali e le sue prese di posizione politiche, con un cinema di grande popolarità. Di sicuro esistono tendenze sperimentali, ma il cinema nasce e rimane un’arte popolare: anche – e soprattutto – quand’è sperimentale.

Ha ancora senso

distinguere tra

cinema d’evasione

e cinema d’autore?

Attualmente i due

generi si intrecciano?

Regista e sceneggiatore - Breve filmografia: Se permettete parliamo

di donne (1964), Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico mis-

teriosamente scomparso in Africa? (1968), C’eravamo tanto amati

(1974), Brutti sporchi e cattivi (1976), Una giornata particolare

(1977), Ballando ballando (1983), La famiglia (1987),

Gente di Roma (2003).

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Le vecchie borgate non esistono più. Ora esistono le periferie, che – in una città plurietnica e multiculturale come Roma – sono realtà composite, variegate, complesse. Se si è imborghesito, il borgataro ha cominciato a farlo proprio a partire dagli anni settanta, quando ha assorbito

sogni e desideri del piccolo-borghese, consegnandosi al consumo. Al di là della piacevolezza della formulazione, non credo che il borghese si stia “imborgatando”, perché – per l’appunto – la borgata non è più una “meta”. Essa non ha più neppure una precisa collocazione. Nella città diradata, le borgate sono state assorbite, sono nati nuovi quartieri, altre propaggini. Sono emerse realtà differenti, accomunate dal fatto di aver abdicato alle cellule compositive, rinunciato a radici e culture proprie, per

vivere intorno alla metropoli, per disporsi intorno al “grande banchetto”, contentandosi di poche briciole. Eppure si continua a rimanere ai bordi di quello che viene percepito come un “centro”, dove accadono le cose e si prendono le decisioni. Certo, anche altre città hanno periferie, ma Roma offre un ampio ventaglio delle possibilità di questo tempo. Piazza Vittorio è il quartiere dove sono nato: oggi è un quartiere orientale, che non per questo ha rinunciato alle abitudini e ai costumi dei romani. I cinesi si sono romanizzati, parlano romanaccio.

Cultura, mentalità, costumi sono ormai in un cambiamento continuo e irreversibile. Direi di no. Si lavora su figure come il commissario Calabresi oppure su momenti complessi come il G8 di Genova. Mi pare ci sia una nuova tendenza dei

Brutti, sporchi e cattivi

tratteggia un indimenticabile

affresco dei sobborghi romani.

Trentacinque anni dopo

sono le borgate che

si stanno imborghesendo

oppure è la borghesia

che si sta “imborgatando”?

Esiste un problema

di censura - autocensura

dei cineasti italiani

su temi scottanti o

periodi controversi

come, per esempio,

gli anni di piombo?

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registi italiani a trarre ispirazione dalla realtà e dalla storia del proprio paese. Abbiamo vissuto un periodo negativo, segnato da un cinema brutto, fragile, tra gli anni ottanta e i primi anni zero, allorché dominavano film gracili, poco interessanti, spesso di taglio autobiografico, dedicati per esempio al Sessantotto e cristallizzati nel punto di vista del reduce. Il problema è che quel cinema non ha contribuito a produrre giudizi articolati, non ha messo davvero in discussione i passaggi complessi e neppure ha delineato una prospettiva forte. Da qualche tempo mi sembra che le cose stiano cambiando in meglio.

La netta affermazione della televisione, sia sotto il profilo del potenziamento tecnico, sia come strumento di costruzione del consenso e di rafforzamento del potere, ha di certo inciso

sul cinema. Prima di tutto sono i lunghi tempi di realizzazione che fanno del cinema un mezzo espressivo incontrollabile, più indisponibile a piegarsi alle necessità contingenti dei potenti e meno incline alle lusinghe del potere. Dal 1944, il cinema è sempre stato osteggiato dal potere. Oggi non si può parlare di vera e propria censura come ai tempi di Mussolini e del Minculpop o di Scelba e della Democrazia Cristiana. Tuttavia, esiste una forma più moderna di controllo, basata su tagli sistematici, comprese le ultime disposizioni sul Fondo Unico dello Spettacolo. La censura è, per così dire, finanziaria e da questa procede una sottile forma di autocensura in virtù della quale i giovani registi si orientano verso temi, schemi e soluzioni meno rischiosi: per esempio verso la commedia o verso le ambientazioni di un passato remoto o di un futuro improbabile. Rispetto alle contraddizioni del presente, invece, ci si muove con troppa cautela.

Esiste un rapporto di causalità

che, negli anni ottanta,

ha legato l’affermazione

delle televisioni commerciali

al progressivo declino

del cinema italiano?

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ebbe una distribuzione locale proprio grazie a certi proprietari di sale. Attualmente un paio di soggetti accentrano la distribuzione, dividendosi le pellicole e risultando sostanzialmente intercambiabili. Poi c’è qualcuno, come De Laurentis, che si specializza nella distribuzione di certi generi, ma certe soddisfazioni non lo incoraggiano a puntare su opere più impegnate o diverse, bensì a reiterare la formula del successo. Un tempo la distribuzione – perfino quella regionale – sapeva pesare anche sulle scelte realizzative. Per non dire dell’America, dove un film distribuito dalla Paramount era distinguibilissimo da uno distribuito dalla Metro-Goldwyn-Mayer. Esprimevano filosofie, prospettive e punti di vista diversi.

Non è questione di essere favorevole o meno. È un elemento imprescindibile e obbligatorio. Qualsiasi Stato serio non

può esimersi dall’investire nella cultura così come dovrebbe investire nella scuola e nella sanità. È quello

Hanno sempre inciso e pesato, perché il cinema italiano non è mai stato un fenomeno industriale. Quando è nato il neorealismo non si parlava

d’industria, al massimo di artigianato. Ognuno si faceva il suo cinema, inventando praticamente tutto: dalle luci alla pellicola. Si trattava letteralmente di un’attività manuale. Certo, ci sono stati degli imprenditori illuminati. Ma adesso anche quei pochi mi pare che abbiano lasciato il posto a dei contabili, gente che prima d’investire calcola il massimo margine di guadagno, puntando su televisioni e coproduzioni. Oggi non si può davvero parlare di industria cinematografica. Anche la distribuzione è un problema. Ho attraversato molte stagioni di cinema e ricordo un periodo in cui la distribuzione non esisteva neppure. C’erano degli esercenti locali in varie regioni che avevano coraggio e curiosità. Alcuni miei lavori sono stati distribuiti proprio da loro. Per esempio, Trevico-Torino, un mio film non di grande successo,

Cinema

e Stato

Industria e

Distribuzione

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che accade in paesi come la Francia o l’Inghilterra. Rinunciare a investimenti pubblici sarebbe come pensare di chiudere le scuole solo perché, in una certa annata, il rendimento degli studenti è stato particolarmente basso. Lo Stato non deve guardare all’esito commerciale dei film, deve garantire un servizio che è di sua competenza.

Sono d’accordo sulla rivoluzione, meno d’accordo sul cambiare il mondo. Il cinema non ha mai cambiato nulla,

però può – e deve – aiutare a comprendere il mondo. È la gente che, dopo aver compreso, deve provare a modificare l’esistente. Tocca al popolo, non al cinema. Per quanto riguarda la rivoluzione, è innegabile che se ne percepisca l’urgenza. Ma si tratta d’inventarne una nuova, fuori dagli schemi e diversa dai grandi mutamenti del passato. L’Italia non ha mai fatto una vera e propria rivoluzione. È tempo di farne una che sia dei giovani e che sappia guardare al lato luminoso

della vita. Non si può continuare a ripetere: «Ha da passà ’a nuttata». Bisogna cominciare a pensare che «Domani è un altro giorno». Comunque vedo segnali incoraggianti, che lasciano ben sperare.Ho cominciato a leggerlo nel secondo dopoguerra, intorno al 1947-48. Carlo Salinari era mio professore al “Liceo Umberto” e quindi cominciai a interessarmi alla rivista grazie a lui. Non ostentavamo alcun atteggiamento di spocchia e non consideravamo Il Calendario del Popolo una rivista per operai o analfabeti. Coltivavamo il mito di Di Vittorio e leggevamo i suoi interventi sul quindicinale. Ho continuato a leggere la testata negli anni cinquanta e sessanta. Da giovane comunista figurava tra i miei riferimenti, insieme ai titoli degli Editori Riuniti e via dicendo. Ha senza dubbio contribuito alla formazione della mia generazione come “nutrimento” culturale.

Leggeva Il Calendario?

Ha conosciuto i suoi

direttori storici?Monicelli e

la Rivoluzione

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intervista a DANIELE vICARI

Se la domanda si riferisce al cosiddetto “cinema d’impegno civile”, credo che

in tutto il mondo ci siano registi che continuano instancabilmente a fare film incarnati nella realtà, critici e non accomodanti. È un fenomeno che è nato con il cinema e morirà con il cinema. Stesso discorso vale per l’opposto, il cinema cosiddetto “d’evasione”. Sono tendenze connaturate al mezzo che è nato come fenomeno da baraccone, non dobbiamo mai dimenticarlo, a fatica ha conquistato la nobiltà dell’espressione artistica. La verità è che le tendenze si mescolano a volte imprevedibilmente e meravigliosamente, e il più grande errore che possa fare un cineasta è rinchiudersi da solo in un recinto, anche se nobile come quello del “cinema d’impegno civile”.Oggi il cinema, dopo aver dominato senza rivali la scena dei media, svolge un ruolo meno rilevante, ma conserva lo scettro della creatività e della narrazione audiovisiva. In questo senso il “cinema d’impegno civile” ha una maggiore responsabilità che in passato: quella di portare lo sguardo laddove la televisione e gli altri media audiovisivi non possono o non sanno portarlo, cioè nelle zone d’ombra dell’animo umano e dell’organizzazione sociale. Da questo punto di vista la “pura denuncia” non regge più la sfida del grande schermo, perché il ruolo della denuncia si esaurisce nell’incredibile velocità dell’informazione in tempo reale, basta pensare alle riprese effettuate con i telefonini dai manifestanti della primavera araba, che all’istante finiscono nella rete allertando il mondo intero, scavalcando censure feroci e pericolosissime. I “film di denuncia” non possono più solo essere tali, devono essere sempre più complessi, meno schematici. Questi film, senza perdere la capacità di comunicazione, devono andare sempre più al fondo dei fenomeni che rappresentano, cioè devono partire dalla denuncia e approdare in territori meno cronachistici, altrimenti sono inutili.

Sono almeno due decenni che si parla di “neo-neorealismo”. Ma la definizione secondo me non regge se non in termini genericamente morali. Il neorealismo è stata una delle avanguardie cinematografiche più importanti e influenti

della storia del cinema (insieme al cinema russo degli anni venti, alla Nouvelle Vague francese e alla New Hollywood degli anni settanta). Dentro questa avanguardia si sono fuse varie tendenze cinematografiche che, a ridosso del boom economico, si sono dissolte e hanno dato vita al fenomeno degli “autori”. Noi siamo in una fase storica che certamente ha bisogno di una nuova spinta “morale” e artistica, ma temo che, se non si individua una strada davvero innovativa e incisiva, non si potrà parlare di una nuova “ondata”. Ciò non esclude che ci siano o possano esserci dei grandi autori all’altezza dei “padri” del neorealismo. Il nostro cinema sta scandagliando la “realtà” a trecentosessanta gradi. Credo che l’aggancio con la realtà l’abbiamo certamente ritrovato. È per questo che il cinema italiano, con tutte le sue difficoltà e insufficienze, dà ancora fastidio ai padroni delle ferriere. La questione di fondo però è: le opere che stiamo realizzando sono all’altezza del compito?

Beh, ho già accennato a questo argomento nella prima risposta. Dal mio punto di vista non esiste mai una separazione netta tra generi e tendenze, se non nella produzione seriale. I generi sono la tavolozza sulla quale il regista mescola i colori. E qui entrano in gioco due cose: la libertà espressiva e la capacità artistica di ciascun cineasta. Il

Con Il passato è una terra

straniera (2008) hai scan-

dagliato la Bari segreta del

gioco d’azzardo, portando

sul grande schermo il

romanzo di uno scrittore

come Gianrico Carofiglio,

ritenuto un esponente della

crime story italiana.Cinema

d’evasione e d’autore

si intrecciano o si

distinguono ancora?

Impegno In Velocità massima (2002)

hai raccontato gli scorci

d’una Roma obliqua e

sotterranea: quella delle

corse clandestine.

Quale “realtà” sta al centro

della tua cinematografia?

Regista e sceneggiatore. Vincitore di due David di Donatello, nel

2003 come miglior regista esordiente con Velocità Massima e nel

2007 con il documentario Il mio paese.

Breve filmografia: Il passato è una terra straniera (2008)

Diaz. Non pulire questo sangue (2011).

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cinema contemporaneo deve poi fare i conti con un pubblico davvero sfuggente, che reagisce a pulsioni imprevedibili, a volte dettate da dosi massicce di marketing, altre volte da sotterranei sommovimenti che portano in sala persone che normalmente non ci vanno. Il più delle volte il pubblico contemporaneo si sente respinto dai film “impegnati” o “d’autore”. Questi fenomeni non possono lasciarci indifferenti, bisogna comunicare con gli spettatori, accettare la sfida, individuare un pubblico, altrimenti si smette semplicemente di fare il cinema. Oppure si deve avere il coraggio di fare scelte radicali come quella di Corso Salani: fuori da ogni schema, fuori da ogni sistema. Con tutti i rischi di marginalità e anche di mancanza di mezzi che comporta. Nella marginalità non è detto che non si possano fare grandi cose, basta pensare a Jean Vigo.Nel mio piccolo io perseguo la strada opposta, non disdegno il confronto con modelli narrativi di “genere”, e con il “sistema” produttivo, prima di tutto perché il cinema è il mio mestiere, per me non è una missione astratta, poi perché ritengo che certi modelli non siano né esauriti, né scandagliati fino in fondo, né tantomeno ingabbianti se frutto di una scelta libera e consapevole. Il cinema “dei generi” non è un fenomeno commerciale e basta, altrimenti dovremmo buttare alle ortiche l’esperienza di cineasti come Kubrick, Scorsese, Cronenberg, i Cohen e molti altri che, in un continuo “dentro-fuori” con i generi, hanno rivoluzionato e rivoluzionano il cinema.

Provo a fare un ragionamento a ruota libera. Secondo me il problema principale è la mancanza di coraggio da parte di autori e produttori. Se queste due categorie prendono in mano il

loro destino, si può parlare di tutto, non c’è al mondo nessuna entità che possa fermare o deviare un progetto ben strutturato, a meno che il regista o il produttore non siano disposti a mollare o non vengano eliminati fisicamente come si fa in Iran, dove i cineasti finiscono in galera come fossero assassini o stupratori. Che poi ci siano soggetti che non hanno piacere che si trattino certi argomenti non c’è dubbio, ma questo fa parte della normale dialettica che deve esserci tra Titti e Gatto Silvestro: se non c’è la dialettica non c’è la storia. Purtroppo noi molto spesso tra Titti e Gatto Silvestro scegliamo la Nonnina che vuole farli convivere a ogni costo, e finiamo per fare film indecisi e fragili. Non c’è dubbio poi che i dirigenti delle grandi società che dovrebbero avere come scopo quello di finanziare bei film e realizzare grandi incassi a prescindere dall’appartenenza ideologica del regista, siano molto sensibili ai temi che possono dar fastidio a chi comanda. Ma altrettanto importante è il fenomeno delle “vestali”, delle verità assolute che si appropriano di fatti e pezzi di storia, ne fanno quando va bene una missione e quando va male un mestiere, e allora tutto si cristallizza in dibattiti stucchevoli su chi ne sa di più e chi ha diritto di parlarne e chi no, così la libertà di interpretazione di un fenomeno va a farsi benedire ancora prima che un film venga realizzato. Questo problema però riguarda anche la produzione legislativa e persino quella industriale. L’Italia, tra veti incrociati e lotte intestine, sta dando uno spettacolo desolante dinanzi al mondo intero: ecco che i diritti civili o la costruzione di un inceneritore diventano casus belli che durano decenni, senza che nessuno si prenda la responsabilità di proporre soluzioni serie ed efficaci. Per tornare al cinema, qui da noi può facilmente verificarsi il fenomeno tragicomico dei film di cui si è solo parlato ma che non ha mai visto o non vedrà mai nessuno. Per me esiste “il luogo” solo come “personaggio” del film. Se un luogo non vive e non significa,

Hai appena finito di girare

Diaz. Non pulire questo sangue.

Il G8 di Genova è uno dei coni

d’ombra della recente storia italiana.

Pensando a ciò che è accaduto con

La prima linea di Renato De Maria,

credi che ci sia un’avversione nei

confronti di chi tenta di narrare

determinati momenti del passato?

Quanto conta l’aderenza

ai luoghi nel tuo

approccio al cinema?

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In Europa nessun paese ha abolito il finanziamento pubblico per il cinema, ma in tutti i paesi si è sviluppato un sistema

produttivo basato su un mix di finanziamenti. Il presupposto per il buon funzionamento di questo mix è la limpidezza assoluta del percorso produttivo e distributivo dei film. Mi chiedo da molto tempo chi da noi ha davvero interesse a fare chiarezza. Basta veramente poco per far sì che il cinema finanzi sé stesso, attraverso lo sbigliettamento, una tassa di scopo, un sacrosanto obbligo per le TV di finanziare i film visto che spolpano il cinema vecchio e nuovo in ogni modo.

Mario era un uomo dolcissimo e intelligentissimo, di sicuro non si sarebbe stupito se gli avessi chiesto:

«scusa, ma qual è la prima?» Non saprei se il cinema può cambiare il mondo, di certo può contribuire a addormentare le coscienze o a svegliarle, dipende però anche da quanto sonno hanno queste coscienze.

Monicelli e

la Rivoluzione

Cinema

e Stato

Industria e

Distribuzione

magari va benissimo per andarci in vacanza ma non va bene per il cinema.

Per rispondere a questa domanda ci vorrebbe un trattato di storia economico-politica del cinema italiano. Siccome l’ultima impresa di

questo genere la fece il dimenticato Lorenzo Quaglietti, mi limito a dire tre cose banali:1. In Italia ci vuole una seria normativa “antitrust”. Questa cosa è più urgente della legge sul conflitto di interessi, perché l’Italia è il paese degli oligopoli. La quotazione dei diritti per la TV dei film italiani la fanno due o tre soggetti, che generalmente sono d’accordo fra loro nel tenerla talmente bassa che nessun produttore può farci conto per produrre un film (problema che non tocca le nobildonne dell’Est Europa). Addirittura può succedere, a causa di questo oligopolio, che un film di grande successo commerciale oltre che di enorme successo critico come Il Divo non venga acquistato da nessuna televisione per due anni, finché La7 non decide di mandarlo meritoriamente in onda, ma con una valutazione economica ovviamente commisurata alla dimensione della rete. Ecco che il produttore la prossima volta ci penserà bene prima di impegnarsi per una cifra che il “mercato” italiano non mette a disposizione.2. In Italia, nei posti dirigenziali come in quelli intermedi, ci vuole gente che si assuma la piena responsabilità delle proprie scelte, delle proprie opinioni e dei propri errori, altrimenti non usciremo mai dal pantano in cui siamo. Questo vale purtroppo per quasi tutti i settori dell’apparato pubblico e privato, quindi anche per il cinema.3. Una seria industria cinematografica ha bisogno di un quadro normativo che renda agevole realizzare vendere e distribuire film di ogni genere, forma e dimensione. Il quadro legislativo che abbiamo in Italia fa il mestiere contrario, complica. E complica davvero molto.

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intervista a MASSIMO GAUDIOSO

Essendo cresciuto in un’epoca in cui la parola “impegno” era pane quotidiano,

non posso dire – soprattutto a posteriori – di non averci mai creduto. Finita l’infatuazione, però, e con l’esperienza maturata nel tempo, posso affermare che, quando sento parlare di cinema impegnato oggi, avverto qualcosa che non mi piace affatto. Preferisco parlare di cinema fatto bene, con onestà, passione e competenza: ecco, se c’è un impegno, è quello morale con sé stessi e con la materia che si decide di raccontare.

È difficile parlare di una sola realtà, oggi come sempre, le realtà che

vengono rappresentate nel nostro cinema sono molteplici così come molteplici sono le interpretazioni di quelle realtà e gli stili, i linguaggi con cui vengono rappresentate. Quando ero un semplice spettatore non riuscivo a comprendere le suddivisioni in categorie, anche se ammetto che mi aiutavano a distinguere uno stile, un approccio da un altro; ora che il cinema “lo faccio” sono diventato ancora più refrattario alle categorie, non riesco a riconoscermi in nessuna di esse. Il termine neo-neorealismo non so cosa sia, di sicuro non è una definizione che userei per i film che ho fatto, nemmeno quelli fatti insieme a Matteo. Ma se s’intende che nella scelta e nella creazione di una storia non sono uno che ama viaggiare di primo acchito con la fantasia ma preferisce prendere spunto dalla realtà, dalle cose che vive o che conosce, allora va bene.

Quando faccio un film devo conoscere a fondo la realtà che racconto, mi sembra una cosa normale o perlomeno è una cosa che faccio naturalmente.

Se è una realtà che non conosco ma suscita per qualche motivo il mio interesse allora mi ci devo

compenetrare completamente. Non ho una grande fantasia, o meglio non ce l’ho durante la costruzione di uno scenario o dei personaggi, preferisco “appoggiarmi” alle cose che conosco, al mio vissuto o a quello di qualcun altro. Se, come spesso succede, si tratta di realtà che non conosco, cerco di farle mie, di conoscere le problematiche dei vari personaggi che ne sono protagonisti, le loro contraddizioni, i sogni, le paure, le motivazioni che li spingono a compiere determinate azioni, insomma tutto quello che mi può aiutare a farli agire in un modo “naturale” e ovviamente in questo rientrano anche i paesaggi, gli ambienti in cui vivono...Che vuol dire autorialità più aperta? Che non c’è un solo autore? Certo, il cinema è un’arte collettiva nel senso che è il risultato di diversi contributi “artistici”; ci sono gli autori della sceneggiatura, della fotografia, del suono, del montaggio, delle musiche… e naturalmente c’è il regista, che sceglie i suoi collaboratori, il progetto da realizzare e gli dà la sua impronta decisiva durante tutte le fasi di lavoro, a cui danno il loro contributo creativo i suoi collaboratori. Io amo fare quello che faccio: in un certo modo credo sia lo stesso approccio al cinema che ha Matteo, per questo ci siamo subito trovati, perché avevamo delle affinità nel modo d’intendere questo mestiere, di pensare e di fare un film, che è un approccio sicuramente diverso da quello di altri… non migliore né peggiore, solo diverso. La nostra non è una relazione esclusiva, lo diventa però nel momento in cui decidiamo di intraprendere una nuova storia che è un po’ come partire insieme per un viaggio. Quando faccio film con altri registi cerco innanzitutto di ricreare la stessa intesa che ho con Matteo, ma non è così facile trovare sempre

Quanto conta l’aderenza

ai luoghi, alle città,

l’interesse per la più remota

provincia italiana,

nelle tue sceneggiature?

Impegno

Neo-neorealismo

Regista, sceneggiatore e attore, vincitore del David di Donatello 2003

per il soggetto per L’imbalsamatore con Ugo Chiti e Matteo Garrone

(Garrone, 2002), firma la sceneggiatura di Gomorra (Garrone, 2008).

È regista de Il caricatore (1996), Un caso di forza maggiore (1997),

La vita è una sola (1999).

La scrittura cinematografica presuppone

un’autorialità più “aperta” di quella let-

teraria. Come influisce sul tuo lavoro il

rapporto privilegiato con Matteo Garrone?

In che termini l’occhio del regista e le

attitudini degli attori mutano lo script?

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delle persone con cui sei in perfetta sintonia, delle cui scelte ti fidi ciecamente, a cui non devi spiegare il motivo per cui fai o dici una determinata cosa. Una sceneggiatura subisce sempre delle modifiche durante le riprese. È inevitabile. Un film viene riscritto sul set e ancora una volta durante il montaggio, io la penso così ed è una cosa che accetto, non ho la tipica frustrazione dello sceneggiatore che resta sempre deluso dal risultato finale e pensa: “io non l’avrei fatto così”. Insomma… diciamo che mi succede meno quando lavoro con Matteo perché so esattamente come lavora e quello che vuole, anzi quello che non vuole, e quasi sempre lo condivido… Per questo cerco di essere presente il più possibile anche durante queste due fasi del lavoro. L’occhio del regista conta eccome! Nel caso di Matteo questo è ancora più evidente dal momento che lui è anche l’operatore alla macchina dei suoi film e poi ama girare le scene in ordine cronologico, modificando la dinamica della storia giorno per giorno se necessario o perlomeno seguendo le suggestioni che derivano

dalla realtà dei posti e, perché no, anche dalle attitudini degli attori. Quindi sono sempre pronto a “riscrivere” quella che è diventata per sua natura una cosa diversa da ciò che avevamo scritto.

Il libro di Roberto era talmente vasto che ci siamo subito resi conto dell’impossibilità di farne un solo film. Questa è stata la nostra fortuna, perché abbiamo deciso in pochissimo tempo che strada prendere e

cosa lasciare fuori. Con Matteo ci siamo subito trovati d’accordo nell’eliminare il personaggio che fa da collante nel libro, cioè il giornalista che gira in vespa (ovvero lo stesso Roberto), che con tutto il materiale che c’era risultava anacronistico. In quel modo era chiaro che non ci sarebbe stato né un protagonista, né un trait d’union ma tanti protagonisti e tante

Quali difficoltà hai incontrato

nell’adattare per il grande schermo

un libro sfuggente e inclassificabile

come quello di Roberto Saviano?

Perché nella trasposizione filmica

avete modificato l’inquietante scena

iniziale al porto di Napoli con una

concitata sequenza di conflitto a

fuoco in stile gangster movie?

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storie. Siccome un film ti costringe (per la sua durata limitata) a delimitare i confini, e siccome a Matteo (come a me) piace soffermarsi sui personaggi – sulla loro umanità (o disumanità) – dilatare certi momenti, era naturale che restringessimo il campo a pochi personaggi e a poche storie, un po’ sull’esempio di Paisà di Rossellini (un film che abbiamo rievocato spesso). Anche la scelta dei personaggi e quindi delle storie è stata una naturale conseguenza di questo ragionamento e della nostra predisposizione verso l’aspetto “umano” piuttosto che quello politico-sociale.La scena iniziale al porto di Napoli è quella che ci ha fatto innamorare del libro (come credo sia successo a molti). Matteo ci teneva molto a metterla ma piano piano si è (o meglio, lo abbiamo) convinto che non aveva nulla a che vedere con il resto del film e come spesso succede l’immagine “ispiratrice” è scomparsa dal film. L’agguato iniziale invece era parte integrante della storia di ben tre personaggi – anche se inizialmente non era stato pensato

così, Matteo è stato ispirato da quello che ha visto durante i sopralluoghi – oltre a essere una scena perfetta per introdurre il contesto in cui si svolgeva l’intero film.Lo conservo, certo, ma dal momento che non mi piace perseguire in modo monolitico un’idea lascio anche che prenda il sopravvento… è normale, nel mio metodo di lavoro, che questo succeda, ma forse più che prendere il sopravvento direi che la mia “ispirazione” è continuamente sollecitata da fattori esterni che attraverso un processo mentale tortuoso e spesso imprevedibile me la rendono un po’ alla volta sempre più chiara...Io ho sempre pensato che i grandi film popolari fossero anche grandi film d’autore, questo perché i film con cui sono cresciuto erano film di grande successo e solo in seguito ho scoperto che erano di Kubrick, Spielberg,

Come autore conservi

sempre il controllo sulla

storia che stai narrando

o a volte hai l’impressione

che prenda il sopravvento?

Ha ancora senso

distinguere tra

cinema d’evasione

e cinema d’autore?

Attualmente i due

generi si intrecciano?

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Coppola eccetera… Si trattava di film innovativi sul piano del linguaggio e dei contenuti, oppure erano ottimi film di genere. Ho sempre cercato di fare cinema seguendo quell’esempio ma evidentemente i primi risultati non sono stati all’altezza delle mie aspettative. È chiaro che quando si fa un film si vorrebbe che venisse visto da più gente possibile, ma non sempre i gusti, le idee, la sensibilità degli autori sono in sintonia con quelli del pubblico. Magari mi sbaglio ma purtroppo oggi i film d’evasione mi sembrano sempre meno “cinematografici” e sempre più vicini a uno stile televisivo, quindi sempre più inconciliabili col cinema d’autore. Ultimamente ho finalmente convinto i produttori che ero in grado di fare film popolari, come le commedie che ho sempre adorato, che i film cosiddetti di genere non devono essere per forza volgari, stupidi, da TV... Intorno a me vedo che qualcosa sta cambiando, che si sta recuperando quella tradizione tutta italiana che riusciva a coniugare l’intrattenimento con la “autorialità”, se così si può dire.

Ovviamente incidono tanto. L’assistenzialismo statale è stato smantellato (per me giustamente…) ma la politica non è ancora

stata capace di creare un sistema industriale non assistito. Comunque io ho poca fiducia nelle istituzioni e credo che le soluzioni siano sempre altrove. Purtroppo non potremo mai contare su un mercato “colonizzato” come la Francia e l’Inghilterra, e come al solito dovremo sperare negli sprazzi di genio italico… La televisione, che ha avuto uno sviluppo di tipo industriale, avrebbe dovuto investire anche nel cinema ma purtroppo la maggior parte dei produttori televisivi ha avuto sempre una visione ristretta, esclusivamente incentrata sul guadagno e sulla crescita personali. Ma anche in questo caso le cose stanno cambiando. Ci sono produttori più “illuminati” che producono film che non hanno solo una destinazione televisiva. Poi ci sono realtà come la rete, che, mi auguro, saranno in grado di scardinare le modalità della distribuzione e dunque anche l’oligopolio attuale potrebbe essere superato dal nuovo che avanza… perlomeno per un po’... Sono convinto che grazie alle nuove tecnologie, che sono sempre più accessibili a tutti (come auspicava cinquant’anni fa Truffaut, facendo il paragone con la diffusione della scrittura), non solo si possono fare i film senza produttori ma si possono mostrare a

un pubblico altrettanto vasto di quello che va nelle sale senza bisogno delle grandi distribuzioni, anzi nonostante loro. Lo stato, anziché sperperare i soldi continuando a creare istituzioni che negli intenti dovrebbero essere di sostegno al cinema, mentre nella realtà servono soltanto a elargire ennesime cariche e poltrone che a chi fa cinema non servono affatto, potrebbe pensare e mettere in funzione forme di sostegno al cinema italiano, più mirate e meno settarie del finanziamento pubblico. Forme che tengano conto dei grandi cambiamenti che ci sono stati, che a esempio aiutino la diffusione del cinema nelle scuole, che ne favoriscano lo sviluppo con un’autentica politica culturale senza lasciare che tutto venga delegato alla logica del mercato (una logica assurda). Ma appena dico queste cose mi rendo conto di quanto siano ingenue...

Si dice che la destra attacca il cinema perché lo avverte come uno strumento della sinistra e in parte è vero, se si

pensa che il 99% di chi fa cinema (ma vale anche per il mondo dell’arte e della cultura in generale) si dichiara di sinistra o professa idee cosiddette di sinistra. Ma se così non fosse stato dubito che avrebbe fatto chissà che… Berlusconi invece avversa l’assistenzialismo statale in parte per gli stessi motivi e in parte perché, essendo a capo di una società che per motivi che è ormai vano riesumare è diventata leader nel settore, ovvero la Medusa, non capisce perché lo stato debba buttare via i soldi per un cinema che non solo non corrisponde ai suoi gusti personali (e a quelli dei suoi sodali) ma non riesce quasi mai a risultare “attivo”, economicamente parlando (anche in questo caso i motivi per cui questo accade sono noti a molti e riguardano proprio la politica culturale sviluppata in questo ventennio da Berlusconi e la situazione di duopolio distributivo). Ma non è che la sinistra, dopo varie solenni dichiarazioni, avesse fatto granché. Non c’è stato il tempo! Così si suol dire…

Industria e

Distribuzione

Cinema

e berlusconismo

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intervista a WILMA LABATE

Credo che il concetto di cinema impegnato sia superato e obsoleto. All’ultima

edizione della Mostra del cinema di Venezia, in una congiuntura di pesante crisi economica e di profondi mutamenti politici come quelli in atto nel Maghreb, ha vinto il film – particolare e meraviglioso – di Aleksandr Sokurov. È un segnale che fa riflettere inevitabilmente sull’usura di una formula canonica come quella di “cinema engagé”.

A mio avviso è una categoria fuorviante, anche perché – oggi – la

realtà è in un’evoluzione continua, sorprendente e imprevedibile. Il cinema ha un dovere, lo stesso che ha avuto durante il Novecento: quello di prevedere, di precorrere i tempi. È una tensione che ha sempre animato la ricerca cinematografica, evidente in un movimento come quello della Nouvelle Vague. Essere un passo avanti rispetto alla storia significa interpretare il futuro prima che accada. Oggi è tutto più complesso, perché una realtà sfumata e sfuggente spinge al racconto del presente secondo una rappresentazione confortante e stereotipata. E invece il confronto con il reale dovrebbe essere condotto sulla base dell’invenzione di nuovi linguaggi, di una nuova scrittura. Mi piacerebbe che il cinema italiano raccontasse il demone del denaro, svelasse il grande bluff della finanza internazionale, palesasse l’inganno del capitalismo. Per articolare questo tipo di narrazione, però, bisognerebbe inventare un linguaggio profondamente diverso ed emancipato dall’eredità novecentesca.

Devo confessare che ho scelto di raccontare quella storia perché volevo comprendere l’oggi e non per il fascino di un evento di ieri. M’interessava

raccontare l’inizio della fine, l’incipit di una tendenza articolata di cui – oggi – vediamo il punto estremo. Ho un grande interesse per il cosiddetto materiale di repertorio. Nel 1996 realizzai Lavorare stanca, un film di puro montaggio. Ne posso parlar bene, perché non ho girato neppure un metro di pellicola. Era un film sul lavoro, realizzato interamente con materiali delle Teche RAI. A volte dimentichiamo che la RAI è stata una grande televisione. Gli ultimi vent’anni non devono occultarne il valore passato. Gli archivi rappresentano una risorsa straordinaria, ma – al tempo stesso – possono costituire una trappola, perché tendono a forzare la mano e rischiano di risultare didascalici. L’uso che ne fa Pietro Marcello ne La bocca del lupo è di grande spessore, perché si basa su un esercizio di appropriazione e destrutturazione, perfino di stravolgimento. Rispetto alla problematicità dei racconti su certi eventi della storia, senza dubbio esiste un inveterato pregiudizio dei produttori: la paura è che il pubblico non sia interessato a narrazioni di quel tipo e diserti i botteghini. La questione del gusto degli spettatori è un problema complessissimo, perché – in realtà – è impossibile dire con esattezza ciò che il pubblico desidera vedere. Forse le commedie riscuotono tanto successo perché, per venticinque anni, si è girato poco altro. In Francia, per esempio, questo non accade. Un film crudo, durissimo come Hunger, con Steve McQueen alla regia, in Italia è andato malissimo. A me, dall’altra parte delle Alpi, è capitato di vederlo sottotitolato, in una normale multisala piena di spettatori. Quello che bisognerebbe fare è ragionare sulla distribuzione, sui meccanismi che la governano e su quanto incide nella formazione del gusto. È vero che il pubblico tradisce un certo tipo di film, ma è anche vero che, se continuiamo a imporre la dittatura della commedie, il risultato è inevitabile. Una vera produzione cinematografica dev’essere capace di garantire un’offerta molteplice.

Impegno

Neo-neorealismo

In Signorina Effe (1980) hai parlato

dei trentacinque giorni ai cancelli di

Mirafiori. Era l’ultima battaglia di una

stagione ormai al tramonto.

Come ti rapporti all’uso dei materiali

storici? Credi che ci sia un’avversione

nei confronti di chi tenta di narrare

determinati momenti del passato?

Regista di La mia generazione (1996), Un altro mondo è possibile

(2001), Domenica (2001) e Signorina Effe (2007). Sceneggiatrice di

La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010). Attrice nel documentario

Fuori fuoco (Federico Greco, Mazzino Montinari, 2005).

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Negli anni sessanta le commedie erano “cattivissime”: potremmo dire impegnate. Oggi non si riesce a raggiungere quel livello, perché è indispensabile fare i conti con le pretese dei produttori e con il presunto gusto del pubblico.

Ho scelto di misurarmi col tema del lavoro operaio perché oggi percepiamo tutti i più brutali effetti della crisi del fordismo e delle ristrutturazioni in fabbrica. In Signorina Effe ero interessata a rappresentare l’uomo a

lavoro fissandolo nell’interazione con la macchina. È una cosa che generalmente si vede pochissimo, perché purtroppo è quasi impossibile girare in fabbrica. Rispetto a quello che avrei voluto in partenza, emerge poco anche in Signoria Effe. Evidentemente il cinema riesce a confrontarsi più agevolmente con i temi della disoccupazione, del precariato, delle migrazioni, occultando la ferocia del rapporto tra lavoratore e mezzo di produzione. Volendo forzare, potrei dire che siamo quasi fermi a Chaplin. E poi c’è il pregiudizio che la classe operaia non esista più.

L’Italia berlusconiana è televisiva. Lui ha avuto il genio di modellare un intero paese sul registro Mediaset. Ha reso tutto TV, compreso il cinema, imponendo alla cultura lo “stile del

tanga”. Basterebbe questo per andare alla rivoluzione che auspicava Monicelli.

Ti sei misurata con un

tema delicatissimo come quello

delle condizioni del lavoro

in fabbrica. Proviamo a fare

il controcampo: cosa pensi della

rappresentazione cinematografica

del lavoro precario inchiodata

nella cornice della commedia

sentimentale e generazionale?

Cinema

e berlusconismo

Monicelli e

la Rivoluzione

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intervista a STEFANO RULLI

Impegno C’è stato un periodo storico in cui quest’espressione ha avuto un significato

univoco. Parlo del dopoguerra in particolare, ma anche degli anni sessanta e settanta. La necessità, l’utilità, di quel cinema era legata alla consapevolezza dell’esistenza di cose che non venivano messe a conoscenza dei cittadini. Così, il cinema – oltre a produrre racconto, fare “romanzo”, suscitare emozioni, creare personaggi – aveva il dovere morale di informare, di fare emergere realtà segrete o sconosciute. Una pietra miliare di questo approccio è Salvatore Giuliano, in cui si mescolano grande cinema, modernità di stile e analisi giornalistica. In altre parole: tutti i requisiti del miglior cinema impegnato. I lavori di Rosi, per esempio Le mani sulla città, nascevano da un clima politico, ma anche dall’intenzione di rivolgersi a un pubblico ampio. Oggi le cose sono cambiate. Il problema non è il difetto, bensì l’eccesso di informazione che finisce per disinformare. Oggi il grande pubblico è disorientato dalla televisione, dal surplus di notizie, pareri, analisi. Davanti a una situazione di questo tipo il cinema deve assumersi la responsabilità di offrire allo spettatore uno sguardo sulla realtà. È nello sguardo, nella capacità d’interpretazione, nella definizione di un punto di vista, che il cinema rende il massimo servizio. In questo senso si può ancora parlare di impegno, anche se la parola non è la più adatta a designare questo tipo di attitudine: ovvero quella di aiutare lo spettatore a guardare con occhi diversi ciò che sembra ovvio e scontato. Spesso nel linguaggio non conta tanto il significato delle parole, bensì quello che le parole nascondono. Il cinema ha una capacità di racconto superiore ad altre forme di arte, perché intreccia immagini e parole. Per me, come sceneggiatore, scrivere non significa scommettere su battute che illustrano o spiegano un personaggio, bensì insistere sul rapporto tra ciò che un personaggio dice e quello che fa, il modo in cui si comporta, la

gestualità che usa, quello che non fa vedere immediatamente. Credo che ci sia ancora spazio per un cinema che aiuti a comprendere la realtà. Non so se si possa parlare di impegno vero e proprio, ma di una utilità critica, sì. E oggi, rispetto al passato, il discorso sullo stile è ancora più importante. Lo sguardo è stile, e quindi il problema del come raccontare è davvero ineludibile. La piovra è stato il primo tentativo di portare in televisione temi che non erano propri della fiction. Attraverso una narrazione “romanzesca”, abbiamo cercato di restituire il sentimento politico di un’epoca. La TV si prestava bene come mezzo espressivo per impostare il racconto della storia d’Italia in quanto storia di misteri. Avevamo scelto dei meccanismi narrativi che ammiccavano esplicitamente alle tecniche del romanzo popolare: storie truci, rimbalzi attraverso il tempo, fatti remoti che rimandavano al presente e via dicendo. Era impossibile comprendere le vicende della prima Repubblica senza considerare l’attività del controspionaggio americano. Alcuni personaggi ambigui, legati alla politica, ai servizi segreti, al crimine organizzato, hanno attraversato gli anni cinquanta, sessanta e settanta, dipanando il filo rosso – o meglio “nero” – di un’invisibile continuità. Questi motivi non erano frutto dell’invenzione, bensì parte costitutiva della nostra storia. Oggi ho l’impressione che prevalga la sufficienza dei modelli narrativi, cui non corrisponde il disvelamento delle dinamiche politiche e sociali di un periodo. Romanzo criminale è stato un tentativo di narrare, attraverso le vicende di un gruppo di proletari romani, una pagina degli anni settanta segnata dall’attività dei servizi e dall’ombra lunga di un enigmatico burattinaio. In altri lavori che ho seguito, la questione

Oltre che per il cinema,

lei ha scritto per la TV.

Tra le altre cose, è l’autore

di alcune serie di una

fiction leggendaria come

La piovra. In che termini

si è trasformata la scrittura

televisiva di argomento

criminale?

Sceneggiatore. - Breve filmografia: Il muro di gomma

(Marco Risi, 1991), Il ladro di bambini (Gianni Amelio, 1992),

La tregua (Francesco Rosi, 1997), La meglio gioventù

(Marco Tullio Giordana, 2003), Romanzo criminale (Michele Placido,

2005), Baciami ancora (Gabriele Muccino, 2010).

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della mafia, ad esempio, si è piegata maggiormente alle necessità del manicheismo buoni-cattivi. In questi casi l’elemento dell’indagine politica si perde negli schemi delle narrazioni popolari, nei motivi universali della vendetta o delle grandi passioni. Ne La piovra, al contrario, praticavamo una lettura plastica, alludendo al rapporto tra mafia e P2, tra P2 e politica. Cambiano gli stili, mutano i periodi storici, ma l’importante è continuare a interpretare il reale, a offrire una prospettiva, un punto di vista. Bisogna preservare quest’approccio dall’omologazione stilistica dei format odierni, dal taglio paternalistico con cui ci si rivolge a un pubblico, trattato – troppo spesso – alla stregua di un bambino spaventato.

Faccio sempre un discorso di tendenza, perché ogni film ha una storia diversa. Credo che la

comicità di Virzì sia erede della commedia all’italiana e del suo rapporto con la realtà. Pensiamo al tema del precariato, per esempio.

Senza dubbio ci sono altre commedie che concedono troppo al meccanismo del racconto sentimentale, a volte bozzettistico, in cui prevale l’istanza dell’intrattenimento, del coinvolgimento spensierato. Nel cinema, però, c’è posto per tutto. La lezione della commedia all’italiana rivive – a mio avviso – ne La scuola di Luchetti, in cui si sviluppava una critica a un certo modello di istruzione. Ho fatto altri tentativi con Petraglia in lavori che non hanno avuto particolare successo, per esempio in Arriva la bufera. Raccontavamo di un giudice che andava al Sud, finendo per misurarsi con una corruzione pervasiva e diffusa. Erano gli anni in cui si contrapponeva la politica corrotta alla società civile onesta. Si trattava di una dicotomia banale che volevamo smontare. Il film non ebbe successo, forse perché il pubblico non si divertì a riconoscere certe condotte nella vita d’ogni giorno. Tangentopoli andava bene finché il corrotto era il politico o il banchiere, ma quando la mazzetta

Commedia

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All’inizio degli anni ottanta,

lei ha realizzato dei documentari

sui sobborghi romani.

Tre decenni dopo sono le borgate

che si stanno imborghesendo

oppure è la borghesia

che si sta “imborgatando”?

potevi prenderla anche tu o il tuo vicino, allora c’era poco da divertirsi. Realizzammo in grande libertà un prodotto parossistico che provava a dislocare su un altro piano la satira politica. Il Divo di Sorrentino non è un film comico, però ha degli elementi di satira così alta che rappresenta un avanzamento rispetto ai modelli della commedia all’italiana. In fondo, lo stesso Nanni Moretti, regista particolarmente serio, ha la capacità di esprimere una comicità a tratti surreale. Se decidiamo di non applicare uno schema rigido e proviamo a emanciparci dalla grande tradizione che – a volte – finisce per gravare sulle nostre spalle, credo che esistano autori in grado di sperimentare innovazioni significative. La comicità nasce quando ci si rende conto che la risata non è frutto della battuta facile, ma un aspetto intrinseco della realtà da cogliere ed evidenziare. Questa disposizione comica si esprime in altre forme, pur non costituendosi come genere, al contrario della comicità sentimentale.

Ricordo le demolizioni del vecchio Tiburtino e la costruzione delle nuove abitazioni a trecento metri di distanza. La gente traslocava con carretti e camioncini. Raccogliemmo le testimonianze di chi viveva al Tiburtino III, le storie del dopoguerra, delle lotte per le nuove case. Parlavano con l’orgoglio di chi aveva un’identità, di chi aveva lottato per un’esistenza dignitosa. Finalmente avevano vinto. Li filmammo mentre si traferivano e la cosa che emergeva era un sentimento di disorientamento. Cessavano di essere proletari, poveri ma con un’identità, e si ritrovavano in queste abitazioni moderne, col balconcino privato, dopo trent’anni di ballatoi, di un’esistenza condivisa, della cultura di una comunità, del tempo trascorso insieme nella piazza o all’osteria. I gruppi di vicini

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non erano stati trasferiti in modo omogeneo, bensì divisi secondo criteri matematici. La stessa “stecca”, costruita lungo un viale privo di piazza, finiva per cancellare una storia. Istintivamente mi viene da dire che questa vicenda è emblematica dell’incompiuto passaggio dallo stato popolare alla condizione piccolo-borghese. Si tratta di una sospensione tra un’identità legata al passato e un presente profondamente segnato dalla crisi economica. Forse, l’imborghesimento più che ascesa a un paradiso è transito in un purgatorio. Ricordo San Basilio in quei «deliziosi anni di merda», come Altan definì gli ottanta. Colpiva il vuoto, il soffocamento, la rabbia dei giovani delle borgate. Credo che la modernità abbia appiattito le vecchie connotazioni sociali, e che la conseguente insoddisfazione, l’assenza di ruoli, la claustrofobia riguardino ormai l’intera società.

Il vero problema è la difficoltà delle piccole produzioni indipendenti a trovare spazi. È

vero che si registra la moltiplicazione del numero di sale, ma questa crescita riguarda solo un certo tipo di cinema. Da una recente rilevazione risulta che le pellicole di registi di fascia alta, come Virzì, Archibugi, Luchetti, puntano su una distribuzione legata a sale generalmente collocate nel centro delle città. Parlo di cinema come il Metropolitan a Roma che stanno scomparendo. In una città come Perugia, nell’arco di quindici anni, sei o sette cinema hanno chiuso. Eppure in periferia hanno aperto due grandi multiplex. Tecnicamente Perugia ha più sale di prima, ma bisogna chiedersi per quale tipo di film. Per i lavori dei registi cui ho fatto riferimento prima, diventa tutto più difficile. L’incasso tende a diminuire del 10-20%, ma non perché vanno meno bene nelle sale in cui erano passate le pellicole precedenti. Semplicemente perché quelle sale non esistono più e quindi l’incasso complessivo si riduce. È vero che dall’inizio degli anni novanta il cinema

Industria e

Distribuzione

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italiano ha ricominciato a crescere dal punto di vista dei numeri, ma bisogna ragionare anche sul tipo di pubblico. Come associazione degli autori, i Cento Autori, abbiamo il dovere di elaborare un modello di fruizione che sia radicalmente alternativo a quello dei multiplex, caratterizzati da precise ragion d’essere, da uno specifico tipo di prodotti, dall’organizzazione di determinati spazi intorno ai cinema. Bisogna fare qualcosa di analogo per favorire non solo la fruizione di un cinema diverso, ma anche un uso diverso del tempo libero. Il cinema non è mai stato solo il momento della proiezione, bensì un evento che crea un tessuto di relazioni, forme di socialità, momenti di confronto. Quando chiude una sala, si disgrega questa trama di rapporti sociali. Nelle città in cui il centro storico perde sale, è un modello intellettuale e relazionale a disgregarsi. È fondamentale preservare, e rilanciare, differenti forme di aggregazione culturale e sociale.

Il primo livello dell’intervento pubblico dovrebbe orientarsi – in termini di agevolazioni fiscali o di accesso ai finanziamenti – verso quei gestori che favoriscono le aggregazioni socio-culturali. Parlo di un’ampia platea di soggetti che comprendono non solo privati, ma anche associazioni culturali disseminate in provincia. Puntare sulla digitalizzazione, per esempio, mi pare una scommessa imprescindibile. Non credo che si debba semplicemente riaprire le sale che hanno chiuso. Penso che occorra anche rinnovarle. Non si deve proiettare solo il cinema di finzione, ma bisogna valorizzare anche generi alternativi come il documentario. Inoltre, lo sviluppo delle nuove tecnologie, offre la concreta la possibilità di organizzare un vero e proprio palinsesto, di pianificare una programmazione. L’esercente è in condizione di trasformarsi in operatore culturale, scommettendo sull’accostamento tra offerta tradizionale e prodotti

Cinema e Stato

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nuovi. Dobbiamo puntare su un rilancio complessivo di progettualità, perché c’è tanto cinema che travalica il formato classico della pellicola da novanta minuti con l’attore più o meno noto. Si tratta di prodotti più sperimentali, magari a volte confusi, ma d’indubbio interesse, a cui occorre dare spazio e visibilità. Credere che esista un solo pubblico è una semplificazione. La domanda è molteplice. Poi è fondamentale sostenere i piccoli produttori indipendenti che non hanno la forza di accedere ai festival o ai mercati stranieri. Non è possibile pensare che un prodotto italiano transiti all’estero solo nello spazio limitato di un singolo evento. Il cinema italiano deve poter essere fruito oltre i confini nazionali per dodici mesi all’anno. L’intervento pubblico deve affiancare le strutture private, senza risultare soffocante e invasivo perché – per esempio – ci sono situazioni in cui la libertà del privato viene rivendicata come autonomia produttiva.

Lo stato deve offrire sponde, da un lato, e compiere investimenti strategici dall’altro. Il sostegno al Centro sperimentale o all’Istituto Luce è un elemento davvero imprescindibile. La digitalizzazione del patrimonio archivistico rappresenta una cruciale sfida in termini di conservazione, rilancio e divulgazione della memoria.

Deriva dal fatto che il cinema è percepito come pregiudizialmente ostile a questa destra. In realtà esso

è uno dei pochi spazi in cui è possibile esprimere coscienza critica, libertà di giudizio, ricerca stilistica. Nonostante la crisi delle risorse, il cinema ha difeso il perimetro di questa autonomia, guadagnandosi rispetto e stima anche all’estero. La vitalità della nostra filmografia a fronte della mancanza di mezzi è una cosa di cui dovremmo essere orgogliosi. Da parte del governo c’è un’ostilità esplicita nei confronti dei lavoratori del cinema, accompagnata

Cinema

e berlusconismo

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dal disprezzo per un mezzo espressivo considerato marginale rispetto alla televisione e al suo potere di persuasione. Giudico questo modello superato. Prima di tutto perché la rete telematica disloca altrove i meccanismi di formazione del consenso. Questo ovviamente rappresenta anche per noi autori una sfida fondamentale. La creatività si esprime attraverso strumenti nuovi. Cresce un pubblico fuori dalle sale. Sorgono pressanti interrogativi sul diritto d’autore. Anche se poi c’è la misteriosa forza del cinema, per cui – all’improvviso – si realizza quel film capace di riassumere lo spirito di un tempo in maniera così profonda da produrre effetti dirompenti. Questa forza enigmatica del cinema, capace di emanciparsi da una condizione di marginalità per entrare prepotentemente nell’immaginario collettivo, spaventa il potere. È un cortocircuito meraviglioso e inspiegabile.

Non credo che il cinema possa cambiare il mondo. Penso che possa cambiare lo sguardo sul mondo, diventando – in questi termini – preludio di trasformazioni successive. Bisogna capire cos’è oggi una rivoluzione. Credo che occorra puntare su una mutazione che riesca a garantire condizioni di vita più degne. E per prima cosa occorre trasformare lo spazio in cui ciascuno si trova ad operare. Forse la somma di tutti questi piccoli cambiamenti può dare origine a una società diversa.

Monicelli e

la Rivoluzione

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intervista a DANIELE SEGRE

Regista, fotografo, docente di regia del Centro Sperimentale di Cin-

ematografia di Roma. - Breve filmografia: Vecchie (lungometraggio,

2002), Mitraglia e il verme (2004), Futuro presente (2005/2006),

Conversazione a Porto (2005/2006), Morire di lavoro (2008), Lisetta

Carmi, un’anima in cammino (2010).

Posso solo dire che, da quando esisto come regista e produttore indipendente, ho sempre fatto ciò

che volevo, finendo per costituire un’anomalia sotto tutti i punti di vista. La mia è una pratica di resistenza. Vado avanti resistendo e credendo fermamente in quello che faccio.

Il termine “documentario” mi sta stretto. Credo che abbia finito per designare una specie di ghetto, di classe inferiore all’interno di una scala di valori. Considero il cinema una cosa sola: che poi sia di realtà o di finzione dipende da come viene girata o raccontata una storia. Senza dubbio il documentario, nel

senso più ampio del termine, è un genere fortemente contaminato, condizionato, dalla televisione. Adesso si usa la formula “docufiction” o s’impiegano terminologie di questo tipo. E quindi c’è grande confusione. Tutto dipende dalla necessità, dall’urgenza di narrare e mettere in scena una storia. Il problema è che troppo spesso la forma del racconto è frutto di una serie di condizionamenti esercitati dai committenti. Il risultato è l’inevitabile svilimento dell’integrità e dell’identità dei prodotti.

Ritengo che l’Italia sia un paese privo di industria cinematografica, in cui manca lo spazio per

sperimentare, praticare l’innovazione, fare ricerca sui nuovi linguaggi e sulle forme della rappresentazione. Come accade nelle “periferie”, una volta che si fissa un modulo commercialmente vincente, lo si reitera fino all’esasperazione.

Il tema del lavoro è uno dei motivi centrali della mia attività di regista. Fra poco uscirà un mio film, dedicato a questo tema e legato

al referendum dello scorso gennaio a Mirafiori. In passato mi è capitato di raccontare il lavoro in miniera

o in altri luoghi della produzione. Di recente si registra un’attenzione diffusa rispetto alla questione delle condizioni lavorative: penso, ad esempio, all’ultimo prodotto di Fiorella Infascelli sui lavoratori sardi ritiratisi all’Asinara per rivendicare il diritto al lavoro. Come per il tema dell’immigrazione, questo interesse crescente è un dato positivo, ed è una tendenza che interessa anche il cinema di finzione, benché in Italia manchi la tradizione anglosassone. Qui da noi non esiste un maestro come Ken Loach, capace di rappresentare il presente nelle sue contraddizioni, partecipando dall’interno e contribuendo al cambiamento della realtà.

Beh, qui torniamo al discorso della commedia e dei suoi confini. Ci troviamo davanti a un’ambiguità quasi surreale, nel senso che la rappresentazione in chiave

comica dei giovani soggetti precari tende sovente a sconfinare nella macchietta. E questo sinceramente lascia sorpresi e perfino amareggiati. Non credo che siano la soluzione e lo stile giusti per creare consapevolezza intorno a un tema tanto delicato.

Le parlo da un confine che assomiglia a una trincea e devo dire sinceramente che trovo quasi tutte le porte chiuse

rispetto ai canali che ha appena menzionato. Il lavoro della mia società, I Cammelli S.a.s., è paragonabile a una vera e propria attività di resistenza culturale, che impatta con l’insormontabile difficoltà di penetrazione nel mercato, malgrado la qualità di alcuni prodotti. Uno degli ultimi lavori, Morire di lavoro, realizzato nel 2007 e diffuso a partire dall’anno successivo, è stato presentato alla Camera dei deputati, a Roma, e al Parlamento europeo, a Strasburgo. Ha raccolto un appello-adesione di Articolo 21. Continua a girare grazie ai nostri sforzi e – di recente – è stato proiettato al Festival del cinema documentario di Lussas. Eppure la

Impegno

Che differenza c’è tra

raccontare la realtà

attraverso il documentario

e rappresentarla attraverso

la finzione narrativa?

Il documentario è una forma

espressiva minore o un altro

punto di vista?

Commedia

Come giudica la

rappresentazione cinematografica

del lavoro in voga nel cinema

italiano degli ultimi anni?

E per quanto riguarda

il racconto cinematografico

del lavoro precario, più sul

versante del terziario che

della fabbrica?

Industria e

Distribuzione

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RAI non ha mostrato alcun interesse. Un capostruttura mi ha risposto che prendono solo capolavori. Capolavori, sì… ma secondo me non l’hanno neppure visto.

Innanzitutto occorre cambiare la classe dirigente. Solo così si può cominciare a pensare, a ragionare. Bisogna rimuovere

tutti i parassiti che gravitano intorno alle istituzioni culturali e mangiano pane a tradimento. È l’unico modo per immaginare un futuro. L’inquinamento tossico, cancerogeno, si dà a quel livello. La situazione è davvero drammatica. Esistono delle lobby e dei clan praticamente inamovibili. Intaccarne le rendite di posizione è l’unico modo per provare a praticare soluzioni di cambiamento radicale. Sono consapevole della difficoltà di queste proposte, ma temo che non ci sia altra strada.

Io credo che sia una questione più generale. Il problema è la cultura, e il diritto di fare cultura, di sviluppare

consapevolezza non solo dei problemi, ma anche delle occasioni di libera scelta. Ecco, è questa libertà che quotidianamente cercano di comprimere e limitare.

Io faccio cinema perché voglio cambiare il mondo, altrimenti non avrei compiuto scelte impegnative come

quelle che ho fatto. Monicelli aveva ragione, anche se bisogna dire che, perfino nel nostro campo, prevalgono gli opportunismi. Si rivendica, ma poi si finisce per negoziare il proprio posto al sole. Tutte le istanze di libertà diventano moneta di scambio per attutire valenza e impatto che una certa filmografia poteva – o potrebbe – avere. Purtroppo mancano gli uomini e le donne coraggiosi o, se ci sono, finiscono per dire che il sistema è troppo forte e che non esiste la capacità di coagulare le energie in vista di un cambiamento reale. Questo è un problema che riguarda anche me. Sono il primo a pensare di non impegnarmi abbastanza in nome di questa trasformazione.

Cinema

e Stato

Cinema

e berlusconismo

Monicelli e

la Rivoluzione

intervista a ROBERTO ANDÒ

Gran parte dell’arte di cui ci siamo nutriti e in cui ci siamo riconosciuti era impegnata. Evidentemente l’arte vive sempre di un impegno intrinseco ed esaustivo, legato al fatto di trattare i grandi problemi dell’uomo e della vita. In questo senso c’è sempre engagement. Tuttavia stiamo parlando della capacità degli artisti di levare la propria voce e declinare dei temi in modo originale: come solo gli artisti sanno fare, manifestando una fortissima capacità di coinvolgimento nel sociale e nel politico. Questa è una tensione che, a mio avviso, rimane valida ancora oggi.Shoah di Claude Lanzmann ha praticamente messo fine a questo tipo di querelle. Si tratta del più grande film mai realizzato a cui è applicabile l’etichetta di documentario ed è anche un capolavoro assoluto del cinema tout court, capace di scardinare generi e classificazioni. Come disse Lanzmann, il documentario può arrivare a raccontare l’“immemorabile”. Dando voce ai protagonisti del genocidio, la pellicola realizzò un “evento originario” che finì per “completare” l’oggetto stesso della narrazione. Per la prima volta che veniva data voce all’immemorabile, a qualcosa che non aveva avuto modo di trovare forma espressiva, rimanendo confinata nel ricordo. Quel film ha risolto i problemi circa lo statuto del documentario. Ciò che conta, quindi, è il modo con cui si giocano gli elementi della realtà e nel caso di Lanzmann è una realtà “delicata”, avvolta dal pesantissimo silenzio dei sopravvissuti. Quella pellicola ci dice che il documentario dovrebbe sempre essere la misura espressiva dell’immemorabile e dell’indicibile. Ovunque c’è materia di questo tipo e del documentario mi ha sempre interessato la capacità di riportare un fatto al presente. Ciò vale per qualsiasi argomento: mafia, guerra, stragi, reticenza

Impegno

Che differenza c’è tra

raccontare la realtà

attraverso il documentario

e rappresentarla attraverso

la finzione narrativa?

Il documentario è una forma

espressiva minore o un altro

punto di vista?

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nei confronti di un potere e via dicendo. Ecco perché lo considero alla stessa stregua del cinema di finzione.

Senza dubbio il cinema italiano è rimasto fortemente legato all’esperienza dei “padri”,

ai numi tutelari che fondarono il neorealismo: De Sica, Visconti, Rossellini. Questo filone appartiene geneticamente al nostro cinema, ma in qualche modo credo abbia finito per intrappolarlo, divenendo un limite. Così ha finito per farsi strada, in maniera più eccentrica, un altro filone che definirei “romanzesco” e in cui colloco i lavori di Bertolucci, Bellocchio e Sorrentino. A essere sincero credo che l’attenzione per la realtà incontri numerosi ostacoli nel suo concretizzarsi. Ci sono stati dei casi che comunque giudico eccezioni. Per il resto la mia impressione è che i film in grado di raccontare in maniera efficace i problemi primari della società italiana sono di là da venire. E quindi questo nuovo neorealismo è un desiderio: senza dubbio molto forte, ma non del tutto compiuto.

Direi che questo è l’aspetto più evidente e si ricollega direttamente a quello che ho appena detto. In Italia siamo entrati in una

crisi strutturale di settore e la mia impressione è che questa crisi sia stata agevolata come se ci fosse un preciso progetto di ridimensionamento dell’industria cinematografica. Se il governo Berlusconi aveva degli obiettivi in tal senso, li ha conseguiti perfettamente. Ma questa situazione è anche il frutto di un processo, perché in Italia, dove pure si è sviluppata una cinematografia maggiore, non si è mai realizzata quella condizione che caratterizza altri paesi europei come la Francia. Di certo l’Inghilterra può contare su una lingua che consente ai suoi prodotti l’accesso a un mercato molto diverso da quello italiano. Tuttavia in Italia si sarebbe dovuta proteggere la forza del cinema anche – e soprattutto – in virtù della debolezza della lingua. Invece non s’è fatto nulla per tutelare il mercato che oggi è in mano a un duopolio innanzi al quale soffrono entrambe le tendenze di cui parlavo: sia la vocazione realista, sia l’approccio romanzesco.

Penso proprio di sì. Il romanzesco come luogo del possibile mi ha sempre interessato. Quell’intreccio è figlio di un’ispirazione labirintica. L’avevo immaginato pensando a Romain Gary, uno scrittore

che – da qualche tempo – sta tornando di moda in Italia, protagonista di una particolare vicenda di pseudonimia. Praticamente cambiò pseudonimi per tutta la vita fino a quando, dopo aver vinto il premio Goncourt con un nom de plume, tornò a vincerlo con un altro pseudonimo. Paul Pavlovitch, un suo parente, era colui che impersonava davanti alla stampa l’identità fittizia di Émile Ajar. Da tutto ciò nacque un terribile conflitto esistenziale. Romain Gary, peraltro, era il marito di Jean Seberg, l’attrice. È una storia molto bella che finisce tragicamente col suicidio di entrambi. La verità venne fuori alcuni anni dopo la morte dello scrittore. Ecco cosa ha ispirato questo film sull’identità e sul rapporto tra identità e scrittura.

Sì, il tema del film è proprio quello: l’idea che si possa stabilire un patto appropriandosi – per

così dire – di una storia altrui. Quest’ambiguità ci appartiene profondamente e il mondo ebraico l’ha indagata a fondo, abitandola anche in maniera ironica e labirintica. In Italia le declinazioni del tema sono praticate da Pirandello. E non è un caso che si tratti di un autore siciliano che – anche biograficamente – si è scontrato con la follia. Ma la vera chiave di lettura, a mio avviso, riguarda il potere dell’immaginazione come capacità di accogliere le vite degli altri e quest’aspetto è parte sia della cultura ebraica sia di quella siciliana. Ovviamente il gioco può diventare rischioso traducendosi in una cosa come Zelig. Non a caso il film di Allen è dedicato proprio a quel tema.

Bisognerebbe tornare a quel bellissimo intervento di Fellini ai tempi del dibattito sulle interruzioni

pubblicitarie durante la messa in onda dei film in TV. Ci fu una chiamata generale. Tutti i cineasti decisero di rispondere, e anche Fellini. C’è un filmato in cui dice più o meno: «Io penso che non possiamo cedere ad Al Capone la nostra pelle perché la possa fare a pezzi». Fellini è considerato un regista “solitario” e individualista. Invece in quel frangente capì il pericolo, cogliendone la portata politica. Spesso persone che paiono estranee ai grandi dibattiti sono dotate di antenne sensibilissime. Esiste un rapporto inconscio tra questo Paese e la televisione la cui sintesi è il berlusconismo. Sembra quasi che ci si senta offesi dalla bellezza, che taluni ne abbiano quasi paura. Per questo la bellezza va mortificata e il mondo saturato da

Neo-neorealismo

Industria e

Distribuzione

Nel 2004 hai realizzato

Sotto falso nome, un film

in cui affronti il complesso

problema dell’autorialità.

È un esempio del registro

romanzesco di cui parli?

È un grande motivo

che solleva interrogativi

sulla proprietà delle storie…

Cinema

e berlusconismo

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oggetti volgari o mostruosi. La televisione è la chiave di questo processo insieme alla punizione simbolica del cinema. Poi ovviamente c’è il lento, profondo cambiamento di prospettiva di cui parla Nanni Moretti. È la società stessa a inoculare e diffondere questi germi. Si tratta d’un disastro già compiuto, che oramai rende del tutto inspiegabili i motivi per cui una pellicola incontra il successo e un’altra no. Altrove questo non è avvenuto, perché un contesto politico civile protegge l’identità culturale di un Paese, creando ammortizzatori e cuscinetti, che arginano il dilagare del mostruoso. In Italia, al contrario, il mostruoso è diventato imperante. Siamo al compimento del kitsch come forma del potere.

La Francia è un paese che ha il senso del mercato e, tuttavia, ha reso prospera l’industria cinematografica mediante un

opportuno prelievo che serve a finanziare il circuito. Basta poco e immediatamente un piccolo avamposto di resistenza diventa industria: questa è la differenza tra la Francia e l’Italia. Dall’altra parte delle Alpi esiste l’allure dell’industria. Di per sé questo non vale da assicurazione circa la produzione di buoni film, però è una garanzia di diversificazione dei prodotti cinematografici. Consente, cioè, di non imporre “monoculture” e di avere, accanto alla commedia, il cinema della realtà, il genere e tanto altro. In Italia è accaduto il contrario e la diversità è sempre più episodica, sporadica. Prevale per esempio la linea “editoriale” della stupidità, in un Paese in cui la commedia non è mai stata stupida o demenziale.

I maggiori interpreti della commedia all’italiana erano personalità libere.

Monicelli era un uomo libero e questa libertà l’ha dimostrata fino alla fine. Si muoveva con la particolare spregiudicatezza che deve competere ai cineasti, capaci di coniugare rigidità ed elasticità. I grandi registi di commedie avevano quest’attitudine unica, tipica del cineasta calato nel mercato e nell’industria. Monicelli ha fatto tantissimo cinema, realizzando prodotti di diversa qualità, eppure ha sempre mantenuto e difeso l’unicità del suo sguardo. Oggi manca la ricerca e la difesa di uno sguardo, di una prospettiva. Chi finanzia il cinema non cerca l’originalità, bensì l’omologazione e la ripetitività, considerate alla stregua di salvacondotti per il successo. Si pensa che ciò che ha funzionato prima debba necessariamente funzionare ancora. È una convinzione davvero assurda, ma tant’è. Ed ecco

perché gli elementi si sono semplificati e la narrazione si è adagiata sul privato, sulle piccole storie e su un certo tasso di comicità volgare. Il risultato è che non si apre mai lo squarcio liberatorio della risata. Il problema è l’omologazione, manifesta – per esempio – nella scrittura televisiva. Non nutro pregiudizi nei confronti del piccolo schermo, di cui Rosselini aveva intuito le enormi potenzialità, realizzando prodotti capaci di sollecitare riflessioni mediante il racconto delle storie. Oggi, invece, tutto si riduce al privato: qualsiasi narrazione, perfino le narrazioni collettive, virano verso vicende e aspetti personali. A me questo non interessa, perché finisce per ridurre la portata del messaggio. Ormai le sceneggiature vengono pilotate verso canoni e criteri di una certa commedia. È una ricetta. Questo meccanismo si rompe quando emerge una personalità capace di difendere il proprio lavoro e la propria “visione”. Però si tratta dell’eccezione che conferma la regola. A quel punto l’eccezione si cristallizza e altri cercano di ripeterla con risultati poco significativi. In quell’intervista Mario aggiungeva: «Ma in Italia non le hanno mai fatte le rivoluzioni». E questo è un dato di fatto, lo stiamo vedendo ora: c’è un paese in agonia, dove ci sono forme sparute di resistenza, inadeguate alla tragicità del momento. Credo che questo Paese non abbia ancora trovato la propria voce. Eppure c’è un senso diffuso di mortificazione. Non mi aspetto una “rivoluzione”, piuttosto una transizione machiavellica. Una drastica inversione di tendenza sarebbe necessaria innanzi agli inganni di chi predicava la “rivoluzione liberale” e ai falsi presupposti di un certo modello economico. Non so se il cinema possa cambiare il mondo. Di certo, come tutta la grande arte, può produrre quelle trasformazioni interiori che sono il preludio di tutti i veri cambiamenti. Come i grandi romanzi, il cinema è un nutrimento indispensabile.

Cinema

e Stato

Commedia

Monicelli e

la Rivoluzione

Regista e sceneggiatore. Si forma come assistente alla regia con Fran-

cesco Rosi, Federico Fellini, Michael Cimino e Francis Ford Coppola.

- è anche regista teatrale e di opere liriche. Breve filmografia: Il mano-

scritto del Principe (2000), Sotto falso nome (2004), Il cineasta e il

labirinto (2004), Viaggio segreto (2006).

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intervista a ANDREA SEGRE

Regista documentarista, esperto di analisi etnografica della

produzione video, dottore di ricerca e docente di Sociologia della

Comunicazione presso l’Università di Bologna. - Breve filmografia:

Magari le cose cambiano (2009), Il sangue verde (2010), Io sono Li

(lungometraggio, 2011).

Rispetto all’arte impegnata del passato, oggi manca un riferimento organizzato della politica

a cui l’artista debba sentirsi integrato. Nel Novecento, “impegno” significava mettere le proprie capacità narrative, rappresentative, a disposizione di un percorso politico organizzato. Gramsci riassunse questo approccio nella formula dell’“intellettuale organico”. Attualmente non esiste più nulla a cui si debba essere integrati perché la forma di organizzazione politica è disintegrata. Quindi, l’arte impegnata cresce nell’esercizio della denuncia, rischiando – a volte – di scivolare nel sentimento della frustrazione. Negli ultimi anni mi è capitato di diventare interlocutore di realtà o di singoli che credono alla necessità di un cambiamento sociale. Ma nessun artista è in sé un agente di cambiamento: al massimo può contribuire a una mutazione culturale. Diventare “punto di riferimento”, catalizzatore di aspirazioni, rischia di generare delusione. D’altronde la libertà di movimento aumenta, perché il non essere integrati a una forma politica allarga l’orizzonte ed emancipa l’impegno da taluni vincoli.

È una forma espressiva diversa, comunemente ritenuta minore. Si tende a considerare il film senza attori un prodotto di genere “inferiore”. Essendo un documentarista che – di recente – ha praticato il cinema di finzione, posso dire che lo sforzo intellettuale e creativo richiesto

dalle due forme espressive è lo stesso per intensità, pur differendo rispetto a caratteristiche e attitudini. Nel documentario l’attenzione creativa si appunta più sul rapporto con la realtà e sul montaggio. Nei film con attori si cura maggiormente il momento delle riprese. Il buon lavoro di documentazione è quello che si fonda su un rapporto di complicità con la realtà narrata, e non su una relazione di verticalità autore-reale.

No, io credo che la possibilità di criticare una realtà proceda da una relazione di complicità anche se ciò che scelgo di raccontare coincide con ciò che

intendo denunciare, perché non mi è consentito semplicemente di giudicare una realtà. Il giornalista può arrivare in un luogo, osservare ed esprimere un giudizio. Il documentarista, al contrario, può raccontare solo dopo un percorso di preparazione e solo dopo aver costruito una complicità con l’oggetto del racconto. Si tratta di un diverso modo d’intendere lo spazio e il tempo. Ecco perché impiego la parola “complicità”: per indicare un’intima condivisione di spazio e tempo con la realtà che intendo rappresentare. Solo dopo inizio a metterla in discussione, ragionando – al contempo – su come quella porzione di reale ha messo in discussione me stesso.

Esagerando potrei dire che il punto di partenza fondamentale è la delusione nei confronti di ciò che si sta vivendo. Solo se non si è appagati dalla propria vita, si è curiosi e disponibili nei riguardi delle vite degli altri.

Questo poi finisce inevitabilmente per arricchirti. Io ho cominciato proprio da questa attitudine, senza aver mai frequentato scuole di cinema. Ho iniziato a fare questo lavoro, perché a ventun anni ho capito che la vita nella provincia padovana – piccolo, comodissimo mondo – rappresentava un punto di vista la cui unicità aveva smesso d’interessarmi. E allora sono andato in cerca di altre prospettive e ho trovato il punto di vista – radicalmente “altro” – degli stranieri. E per conoscere quella gente bisognava compiere un viaggio

Impegno

Che differenza c’è tra

raccontare la realtà

attraverso il documentario

e rappresentarla attraverso

la finzione narrativa?

Il documentario è una forma

espressiva minore o un altro

punto di vista?

Colpisce l’uso della parola

“complicità”. Ci si aspetterebbe

una rappresentazione critica,

e non complice, del reale,

che lasci intravedere possibilità

di trasformazione…

A proposito di mettersi

in discussione, in più

occasioni ti sei misurato

con un tema delicato

come quello dei soggetti

migranti. Quale disposizione

occorre assumere per

affrontare l’altro da sé?

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in direzione opposta: andare verso il “fuori”. A questo aggiungi una forma di militanza politica, per così dire, e la rabbia per ciò che la “fortezza Europa”, e l’Italia in particolare, hanno fatto – e continuano a fare – a quei soggetti, disconoscendone i diritti, ed ecco cosa mi ha portato a incontrare i viaggi dei migranti e a costruire la mia vita nel rapporto con l’altro. La cosa che mi piace di più del titolo del mio ultimo film è che in realtà io sento di essere Li, ho proprio voglia di essere Li, perché, se sto solo qui, alla fine perdo una delle grandi occasioni della vita: quella di non essere chiuso in me stesso.

Allargando il discorso agli ultimi trent’anni, parliamo di uno dei luoghi d’Europa maggiormente attraversato da mutamenti repentini e dirompenti. Nell’arco di una generazione, la stessa persona può aver vissuto la povertà estrema della pellagra, la migrazione in Australia, uno sviluppo

accelerato, la ricchezza vera, la decadenza di quel benessere e l’arrivo dello straniero. Non sono molti i luoghi in cui si sono prodotte trasformazioni di tale portata. I veneti del mio film hanno vissuto questo tipo di cambiamenti. Ho grande rispetto per il loro disorientamento, per l’incertezza diffusa. E non tollero chi, invece di scommettere sulla ricchezza culturale, e non solo economica, cavalca l’insicurezza e diffonde la paura. Quel territorio, attraversato da una consapevolezza storica del rapporto con sé come soggetto migrante, e potenzialmente accogliente, potrebbe diventare un prezioso laboratorio sociale. Invece troppo spesso il disorientamento, non interpretato come occasione di crescita culturale, viene giocato come malessere: strumento di costruzione del consenso e fondamento di un potere che finisce per distruggere il territorio stesso. Parlano di “protezione dell’identità” senza capire che in un momento di profonda crisi non esiste alcuna identità da preservare.

Le definizioni sono un terreno scivoloso. Comunque, sì, credo che

– negli ultimi dieci, quindici anni – i più interessanti prodotti del cinema italiano siano quelli che hanno ripreso la tradizione del realismo, rielaborandola

all’insegna di una temperie culturale profondamente segnata dalle tecniche digitali. I nuovi strumenti modificano le forme espressive in rapporto alla realtà, intervenendo sulla capacità di racconto e indicando nuove forme di interlocuzione tra il cinema e il reale. Comunque, sì, Matteo Garrone, Pietro Marcello, Daniele Gaglianone, Francesco Munzi sono alcuni esponenti di un cinema che entra nella realtà per dialogarci in maniera densa e sporca, nel senso materiale – non morale – del termine, s’intende. È senza dubbio molto faticoso. Esistono spazi che, per esempio, si conquistano solo passando dall’estero. Bisogna avere grande pazienza davanti a questa situazione ingiusta, frutto di un anomalo rapporto tra politica e comunicazione. Prima che per noi registi, la relazione tra politica e cultura – oggi – genera un enorme deficit di democrazia. Nel cinema questo gap significa non avere uno spazio reale di confronto sui contenuti, faticare a illustrare progettualità forti, assistere a consistenti investimenti produttivi frutto di relazioni che nulla hanno a che fare con un progetto culturale, bensì con i meccanismi di un gigantesco conflitto d’interessi. Non ho alcun dubbio sul fatto che la cultura sia un terreno strategico per gli investimenti pubblici. Non farlo sarebbe come consegnare ai privati settori quali la mobilità o la sanità. La cultura è un tassello imprescindibile nello sviluppo di un Paese. E l’attacco berlusconiano è funzionale alla diffusione dell’ignoranza e del populismo. A questo punto non si capisce perché chiedere maggiori investimenti sia tout court sinonimo di statalismo. Il vero problema riguarda i meccanismi di distribuzione delle risorse che non devono essere regolati da appartenenze a clan, ma da criteri di qualità, contenuto, merito. Purtroppo questo implica una rivoluzione genetica difficile da compiere in Italia, dove impera la distribuzione clanica delle risorse pubbliche. Se io non avvertissi il bisogno di cambiare il mondo, probabilmente non farei questo mestiere. Poi spero sempre che ci siano persone capaci di trasformare l’esistente anche svolgendo mestieri un po’ più “concreti” del mio. Fare cinema è importante ma i problemi veri si affrontano combattendo le ingiustizie. E bisogna avere il coraggio di farlo collettivamente.

Con Io sono Li hai scelto

un’ambientazione molto

particolare, carica

d’implicazioni: un angolo del

controverso Nord-Est.

Com’è cambiata negli ultimi

vent’anni quella parte d’Italia,

un tempo modello produttivo,

oggi attraversata da pesanti

contraddizioni sociali?

Neo-neorealismo

Industria e

Distribuzione

Cinema e Stato

Monicelli e

la Rivoluzione

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intervista a LUCIANA CASTELLINA

Il Calendario del Popolo ha avuto una funzione molto importante in un’epoca che ricordo con nostalgia, in cui la politica e la cultura erano strettamente intrecciate. Oggi non è più così. Di recente mi è capitato di ragionare su chi era presente alla fondazione dell’Archivio Visivo del Movimento Operaio. Mi ha molto colpito la partecipazione di quasi tutti i dirigenti del Partito Comunista: Amendola, Alicata, Ingrao. Non c’era solo chi faceva cinema, ma anche gli esponenti di un grande partito. Attualmente è impensabile che il gruppo dirigente di un’organizzazione politica spenda tempo e fantasia nella costruzione di un archivio audiovisivo, strumento prezioso di conservazione di documenti che altrimenti sarebbero destinati al macero per mancanza delle risorse necessarie a digitalizzarli. Una riflessione analoga è possibile farla per altri campi della cultura. Ho scritto nel mio recente libro autobiografico che le prime mostre di arte figurativa a cui ho partecipato erano fatte nelle sedi di partito. Era una cosa che avevo dimenticato e che ho ritrovato nel mio diario. Venivano esposti i lavori dei pittori contemporanei. Dentro ai partiti, soprattutto nel PCI, ferveva il dibatto su arte astratta e arte realistica. Oggi fa ridere pensare che i partiti possano allestire mostre di pittura. Il Calendario del Popolo ha contribuito a far sì che questo grande sforzo non rimanesse circoscritto alle élites intellettuali, ma diventasse parte di una straordinaria formazione culturale di massa, di un ampio processo di acculturamento e alfabetizzazione, sostenuto – in quegli anni – dal Partito Comunista. La rivista giocò un ruolo cruciale anche oltre l’impegno diretto del PCI, contribuendo a protrarre una stagione in cui il cinema fu semplicemente imprescindibile. Il Calendario rese il grande cinema italiano accessibile a uno strato della popolazione che oggi è caduto nell’analfabetismo di ritorno sotto i colpi della “cultura” diffusa dalle televisioni berlusconiane o indirettamente berlusconiane come la RAI.

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Credo che sia fondamentale ribadire come il corto e il documentario non siamo generi minori rispetto a un cinema nobile, identificato con quello di finzione. Sono soltanto differenti modi di espressione. Sovente s’incorre nell’equivoco di equiparare il documentario alla TV. Al contrario del reportage televisivo, il documentario appartiene a pieno titolo al cinema. La TV riporta in presa diretta la realtà che la camera riprende, quindi esclude ogni soggettività, riducendo tutto a mera tecnica. Nel documentario come nel cinema di finzione, invece, è presupposta la distanza. Si sceglie di documentare qualcosa non nell’istante in cui accade, ma perché si decide di ricostruire una storia. E così, grazie alla prospettiva temporale, interviene la soggettività dell’autore, che è cosa ben diversa dalla tecnica del reporter che registra in tempo reale. In questo senso il documentario è – a pieno titolo – cinema. In questo momento, si registra un grande ritorno al documentario da parte dei cineasti più giovani, dopo che quella forma espressiva sembrava consegnata all’oblio. I documentaristi stanno tornando. Realizzano lavori molto belli e hanno successo nei festival. Lizzani fu il primo a portare i documentari ai grandi festival, quand’era direttore della Mostra del cinema di Venezia. Poi seguì una progressiva marginalizzazione, ma adesso tutti i maggiori festival cominciano ad avere importanti sezioni dedicate ai documentari. Tuttavia, quel filone rimane sconosciuto al grande pubblico, anche perché la televisione italiana è in assoluto quella che – a livello internazionale – gli accorda minor visibilità. Ed ecco perché il documentario rimane nel perimetro circoscritto dei festival. Riprendendo un vecchio slogan, mi sento di dire: «Dieci cento mille festival». Sono davvero fondamentali: non tanto come grandi eventi, ma perché finiscono per configurarsi come un circuito distributivo alternativo. Anzi, bisognerebbe ribattezzarli con un altro nome, che ne esalti le potenzialità aggiuntive o sostitutive rispetto

alla distribuzione legata a certo cinema di finizione. I festival consentono al pubblico di vedere prodotti a cui altrimenti non avrebbe accesso. Sarebbe possibile aumentarne il raggio di diffusione. Non è nemmeno detto che non possano incontrare un gusto ampio o che sarebbero percepiti necessariamente come elitari. Il punto è che il pubblico non li vede e non è neppure abituato a vederli. In Italia, la distribuzione costituisce una strozzatura tremenda. I film arrivano nei capoluoghi di regione, ma già nei capoluoghi di provincia non passa quasi niente. Per non dire di altre città, magari popolose, magari caratterizzate da una vita culturale stimolante, che restano tagliate fuori dal circuito. La selezione è draconiana, perché gli esercenti, per coprire le spese, hanno bisogno di film che muovono miliardi di pubblicità e garantiscono significativi rientri. In assenza di alternative i festival assumono un’importanza cruciale. Rispetto al rapporto tra cinema italiano e realtà, starei attenta a tirare in ballo il neorealismo che corrispondeva a una stagione politico culturale in cui la realtà s’imponeva all’insegna del rapporto intellettuale-società di cui oggi non è rimasta traccia. Toti Scialoja, parafrasando una fase di un autore dell’Ottocento applicabile anche al cinema, diceva che la Storia ci ha afferrato e ci ha imposto in qualche modo di implicarci con essa. Pensare all’arte per l’arte è semplicemente assurdo. Non viviamo una stagione segnata dalla concezione dell’arte pura, ma – al tempo stesso – la relazione intellettuale-società è talmente lacera che credo sia improprio parlare di “neo-neoralismo”. Rispetto al cinema di finzione che si cimenta con la realtà e le sue contraddizioni più evidenti, voglio menzionare i lavori di Virzì, il primo regista a occuparsi di call center e precariato. Non è l’unico, ovviamente. C’è un lavoro realizzato dagli stessi precari che ha portato sullo schermo il fenomeno attraverso una prospettiva molto soggettiva e immediata. Sulle medesime questioni Daniele Segre ha fatto una ricerca preziosa, realizzando cose belle e coraggiose. Ha da poco girato un film sulle vicende del referendum a Mirafiori e con Morire di lavoro s’è misurato con un altro tema colpevolmente occultato. Voglio riconoscere, infine, i meriti dell’Unione dei circoli del cinema dell’ARCI, l’UCCA, che promuove – attraverso il premio “Obbiettivo sul lavoro” – il cinema dei più giovani legato ai temi delle condizioni lavorative.

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COME È ARRIvATO SUGLI SCHERMI

IL PRIMO FILM ITALIANO

SULLA GRANDE GUERRA

di Ugo Casiraghi

Anche se altri lo hanno preceduto, si trattava di film patriottardi e insinceri: ecco perché La Grande Guerra di Monicelli rappresenta un fatto nuovo nel nostro cinema.Ora che La Grande Guerra ha vinto uno dei due Leoni d’Oro di San Marco distribuiti quest’anno dalla giuria della Mostra di Venezia, con una generosità veramente insolita nei riguardi del cinema italiano (l’altro, come tutti sanno, è toccato al Generale Della Rovere); ora che La Grande Guerra è candidato per l’Italia al Premio Oscar riservato al miglior film straniero proiettato in America (e il secondo candidato è il film di Rossellini); ora che La Grande Guerra sta travolgendo ogni primato d’incassi e suscita, nel più vasto pubblico che si sia mai recato a un film di nostra produzione, o l’entusiasmo più vivo, o quanto meno il più sincero e appassionato interesse; ora che tutte queste cose succedono, varrebbe forse la pena di ricordare il clamore di proteste e di paure, a suo tempo elevatosi per la penisola al semplice annuncio che si stava progettando un film di questo genere. Varrebbe la pena di ricordare, per esempio, che La Stampa di Torino si assunse l’onore di aprire le ostilità, col sommo buon gusto di rivolgere ai propri lettori, con la massima evidenza, la retorica domanda: «Sono dunque per sempre obliati i sacrifici immani, i seicentomila morti di quella guerra?». Varrebbe la pena di ricordare che Il Giorno di Milano non rimase fuori dalla mischia, ma buttò sulla bilancia, il giorno dopo, un articolo di fondo del suo direttore: «Non ci uniremo alla retorica del ventennio che faceva di questi morti i migliori, ma ancor meno al sorriso di scherno dell’antiretorica nuova». Dal Nord al Sud, gli articoli di fondo si sprecano, e il solo fatto che negli animi dei due anonimi eroi di un film sulla Prima intoccabile guerra mondiale possa albergare il normale desiderio di non morire, manda in bestia un altro direttore: quello del Mattino di Napoli, secondo il quale «soltanto una ristretta minoranza, ben qualificata come carognesca, osava esaltare la propria paura come

se fosse una regola di condotta, osava levarla come una bandiera morale, osava dire che era sana»; mentre invece, in tutti gli altri, spirava «il soffio di sentimenti potenti, gagliardi, eroici». Nella breccia aperta da questi giornalisti (Paolo Monelli, Gaetano Baldacci, Giovanni Ansaldo) e, purtroppo, da altri, irrompono in massa associazioni combattentistiche, federazioni grigioverdi, sodalizi che custodiscono il santo retaggio dei valori patriottici, comandi militari. Stigmatizzano «l’immonda e pagliaccesca speculazione che oltraggia la memoria dei morti ed umilia il sentimento nazionale». Segnalano «il pericoloso decadimento morale di una simile cinematografia». Affermano «il più profondo disgusto per quest’incosciente smantellamento della dignità nazionale». Questo film non s’ha da fare!, urlano come tanti bravi di Don Rodrigo. Ma, se per dolorosa disgrazia fosse messo in lavorazione, non lo si faccia, comunque, «nei luoghi ove si compì il sacrificio della Nazione in armi»; non lo si giri, almeno, «sulle terre sacre del Friuli e della Venezia Giulia, che furono copiosamente bagnate dal sangue degli invitti nostri soldati». E, naturalmente, i ministeri si rifiutino di fornire qualsiasi appoggio: né soldati, né armi (entrambi servono ad altri scopi). In questo almeno, sono compendiati abbastanza efficacemente, ci sembra, un certo formalismo e un certo spirito di ricatto, che hanno fornito il sale a tutta la campagna di cui andiamo discorrendo e di cui, ahimè, ci sarebbe ancora molto da dire e da citare, se non ci trattenesse carità di patria, e se non fosse già intervenuto, con lapidaria energia, un maestro di giornalismo come Filippo Sacchi, inventando per il complesso delle manovre una nuova sigla: O.I.O., che significa: «Operazione Incretinimento Occidentale». Giustizia vuole, però, che si ricordino anche i difensori del film: i giornali di sinistra, alcuni critici cinematografici, il direttore dell’Espresso. «Da noi tutto è in discussione – scrisse Arrigo Benedetti – tutto diventa sacro, tutto diventa eroico, tanto che a un certo punto diventa difficile per le generazioni più giovani capire per quali ragioni gli eserciti nemici siano sbarcati in Sicilia, abbiano occupato Roma e siano arrivati alle Alpi...». A chi, per gettar fango sul presunto disfattismo del film, opponeva gli esempi delle altre cinematografie, fu fin troppo facile replicare che né americani, né inglesi, né francesi, né tedeschi (addirittura i tedeschi occidentali!) hanno mai considerato le loro guerre e i loro eserciti, i loro comandi e le loro truppe, le loro vittorie e le loro

(dal n° 182 del 1959)

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sconfitte, alla stregua di miti e di tabù, come in Italia. Nessuno di quei paesi, e di altri, ha dovuto aspettare oltre quarant’anni, prima di offrire al pubblico un film civile sulla grande guerra. E questo film, come abbiamo ricordato, ha dovuto superare un notevole fuoco di sbarramento per riuscire a giungere in porto.

Ci è giunto secondo le intenzioni degli autori, oppure la campagna di denigrazione e di intimidazione ha ottenuto qualche risultato? [...] si può rispondere che, in sostanza, produttore e cineasti non hanno avuto paura. Col suo piglio un po’ grossolano, ma con un’audacia di cui, in questo caso, gli va dato merito, Dino De Laurentiis dichiarò alla stampa: «Tengo ad affermare che non cambierò di una virgola il soggetto del film, che non metterò in scena eroi da fumetti, che non mi lascerò intimorire da nessuna campagna di stampa,

che realizzerò la pellicola volenti o nolenti i demagoghi pseudo-patriottici. I difensori di un cinema vuoto e mediocre. Cercherò di fare un film onesto, sincero, vero; non farò un film conformista, retorico, falso. Non ho paura di questo genere di attacchi: e sono anche sicuro che essi non saranno ascoltati negli ambienti ufficiali». Il ministro della Difesa, infatti, diede il suo nulla osta quando seppe che il battagliero produttore aveva già preso accordi per la realizzazione del film in Jugoslavia. L’onorevole Andreotti è troppo esperto diplomatico, per non fare buon viso a cattivo gioco. E allora piovvero sulla troupe permessi, soldati e fucili; e cicchetti sullo Stato Maggiore e sulle associazioni combattentistiche. In verità Andreotti, che è una vecchia volpe in fatto di cinema, aveva capito benissimo che il film non presentava eccessivi pericoli. Sì, per i patriottardi più accesi e più sciocchi, e per la consuetudine fino ad oggi tenuta dal cinema italiano sul problema della guerra, l’opera può apparire quasi rivoluzionaria; ma basta pensare che l’esame storico vi è del tutto abolito, basti confrontare il testo del film con i testi lasciati non soltanto da scrittori, ma perfino da generali sulla Prima guerra mondiale, per rendersi conto che quella della Difesa è stata una ritirata, ma non una disfatta. E poi i cineasti si rendevano benissimo conto, da soli, dei limiti in cui operare. «Trovare un ubi consistam fra la realtà e quello che si può dire»: ecco il loro problema. «Invidiamo molto la libertà che ha avuto Kubrick in Orizzonti di gloria – essi affermano –. È l’unico film storicamente vero sulla grande guerra, perchè mette in risalto l’inefficienza dei comandi, la superficialità degli ufficiali superiori, gli inutili macelli cui erano votati i soldati. Questi film stranieri – dicono – sono pieni di libertà. Noi siamo pieni di divieti». Il merito degli sceneggiatori è di aver saputo giocare di abilità in questo campo minato. Il merito del regista Monicelli è di aver saputo imprimere al film una forza di convinzione con uno stile estremamente popolare e diretto. In Italia «un film è il risultato di innumerevoli sottrazioni». Il nostro pubblico, che questo sente o sa, si rallegra oggi che le sottrazioni subite in partenza da La Grande Guerra, non abbiano però impedito la somma di ottimi risultati, che vengono quotidianamente applauditi.

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intervista a ROBERTO SILvESTRI

Il neorealismo di allora dovette fare i conti con un paese in macerie, spaccato

in due. Questo paese, oggi, è pieno di macerie, per ora, soprattutto “spirituali” e “morali” ma che riguardano tutti. L’importanza del neorealismo cinematografico e letterario del dopoguerra fu di esporsi a vari strati di realismo: 1. Esistere e lottare intensamente, prima e dopo il fascismo, per due-tre anni, come movimento etico-politico popolare mai populista “di parte”, per poi passare, dopo la sconfitta (piuttosto fraudolenta) del ’48, ad altre sperimentazioni sulla realtà anche più complesse, senza irrigidirsi, a macerie levate, in dogmi e ideologie estetiche passatiste. Fellini, Antonioni, Rossellini furono in questo senso neorealisti conseguenti. 2. Riportare l’Italia nel flusso vivo della cultura internazionale, dopo un ventennio autarchico, colonialista, razzista e oscurantista. Come scrisse, non paradossalmente, André Bazin, la sua grandezza fu di rielaborare il realismo sociale fotografico pittorico e cinematografico del New Deal rooseveltiano (anche lì alle prese con l’orrore della depressione e i disastri del modello capitalistico “puro”) arricchendolo emozionalmente e visualmente. Così influenzò profondamente non solo il cinema dei paesi emergenti affamati di nazional-popolare, in senso gramsciano, ma perfino Hollywood e la off Hollywood. 3. Abbassare enormemente i costi di produzione innestando nuove tecnologie di ripresa con l’alto “artigianato industriale” di Cinecittà, e rigenerando star system e politica dei generi. Nacque così “l’autore cinematografico” (Rossellini, De Sica, Visconti, Lattuada, De Santis, Zampa, Germi, Monicelli…) divenendo il perno produttivo del cinema (da cui gli attacchi censori forsennati). E per la prima volta in Italia il cinema fu considerato un’arte, e il cineasta fu riconosciuto artista, allo stesso livello di uno scrittore, un musicista, un pittore. La Nouvelle Vague partì da Rossellini. Oggi i nostri cineasti più esposti alle radiazioni salubri del reale che cambia, non possono godere della “disattenzione” del potere pubblico o privato postbellico.

Il cinema, sbriciolato industrialmente, schiavizzato dalla televisione e dall’audience, è ferreamente sotto controllo dello stato, cioè di chi fa giochi privati con soldi pubblici. La società civile che, fino alla metà degli anni ’70, permetteva al cinema di esistere in maniera quasi “nordamericana”, cioè il sistema era misto e operazioni di mercato pure erano ancora possibili e i nostri film vendevano all’estero sul mercato di serie A, non ha più alcun potere. La forbice tra cinema di sperimentazione e cinema di qualità commerciale si è molto allargata, e se c’è chi riesce a stento a utilizzare qualche brandello di finanziamento pubblico, ha estremamente bisogno di copertura “estera”, di coproduzione (penso a Michelangelo Frammartino, Carlo Hintermann, Alba Rorhwacher, Pietro Marcello, Matteo Garrone…). Oppure è costretto alla autoproduzione (Ciprì, Torre, Maresco, Gianikian-Ricci Lucchi…). O alla fuga all’estero. I neo-neo realisti sono soprattutto scappati.

Non ha senso e non lo ha mai avuto. Da Shakespeare a Hawks il successo popolare è frutto di sperimentazione permanente. I fiaschi di un tempo infatti se troppo inattuali possono diventare grandi successi nel futuro. Ma lo stesso Straub che vende

film in tutto il mondo (civile), e li vende da parecchi decenni, incassa sempre più di Brizzi. Fa film più d’evasione. Anche perché in una civiltà che incarcera le brave persone e tiene liberi i criminali, il problema è far evadere le brave persone.

Basta pensare ai Guzzanti, a Moretti, Verdone, Benigni, Bisio, Manetti br. e a

tanti giovani guerrieri caustici che resistono. Certo, investiamo soprattutto in “false commedie” da un po’ di tempo. RAI e Mediaset, l’oligopolio che comanda tutto, i due funzionari che controllano l’immaginario – e gli hanno ordinato di tenerlo a bagnomaria, e spero che prima o poi pagheranno per questo perché a me sembra un crimine – sono ossessionati dallo standard “comico” già collaudato (cinepanettoni) che permette alla quota cinema italiano di non farsi sempre schiacciare dal prodotto estero e impedisce disoccupazione nel settore. Nonostante ciò, nonostante una legge del cinema atroce, nonostante il sistema del punteggio per finanziare i film che premia sempre gli stessi attori obbligati a interpretare sempre la stessa parte, e sempre gli stessi autori, premiati in festival più o meno fittizi, e gli stessi sceneggiatori, direttori della

Neo-neorealismo

Ha ancora senso

distinguere tra

cinema d’evasione

e cinema d’autore?

Attualmente i due

generi si intrecciano?

Commedia

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fotografia, musicisti, montatori e costumisti, la “falsa commedia” tiene, piace, riempie un po’ perfino i grandi schermi dove si allargano facce e corpi di star TV anche se non ci sono più Tognazzi, Gassman, Manfredi, Sordi, e pure Villaggio non compare più. Ma di questo “bagno di stupidità” analiticamente, magneticamente al centro del prodotto medio italiano inesportabile non si può incolpare nessuno in particolare. Tutti hanno il loro grado di responsabilità, da Veltroni a Rutelli, da Bondi a Galan. Da chi si bea del conflitto di interessi a chi glielo permette. Evidentemente il mondo del centro destra e del centro sinistra è attratto dall'idiozia in maniera irresistibile e fatale. Non si capirebbero i programmi subumani delle TV pubbliche e private (in sostanza indistinguibili), Alberoni a capo di un istituto per cui non ha alcuna competenza, affidare a un produttore privato il cinema pubblico.

La critica cinematografica (e anche teatrale e musicale) non esiste più (a parte isole irraggiungibili). Solo recensioni, palline e apologie (scioviniste).

E linciaggio per tutti quelli che vorrebbero essere utili ai cineasti lavorando perché si esprimano meglio. E che trattano di film e artisti che tutto il mondo conosce ma qui nessuno. Le opere di Weerasethakul Apichatpong quando arriveranno in prima serata RAI? Almeno gli verrebbe un colpo, benefico, a Claudio Petruccioli.

Le spese in Italia per la cultura sono bassissime. Non si supera l’1%, peggio

del Burkina Faso. La cultura è il mezzo, non il fine, per lo sviluppo, la crescita e anche per la decrescita. Bisognerebbe investire nelle scuole di cinema di buon livello, in strutture, laboratori, tecnologie di produzione e postproduzione, nel settore della sperimentazione, del documentario, del corto e dell’animazione. A quel punto, come succede nel resto d’Europa, lo stato potrebbe farsi carico di finanziamenti mirati e misti pubblici-privati, e in coproduzioni collegate a specifici progetti.

Non si riferiva al cinema, Monicelli, ma ai Soviet, che sono durati solo dieci anni in URSS… Era solo un primo esperimento.

Anche perché il cinema è un mondo a parte. Capace eccome di interferire anche rovinosamente con questo, come dimostra il caso Aristarco, Eisenstein, Panahi. Nell’ultimo film di Lars von Trier si assiste proprio alla deflagrazione del mondo del cinema – Terra, nell’ultima emblematica scena.

Quale prospettiva

dovrebbe orientare,

oggi, l’esercizio della

critica cinematografica?

Cinema e Stato

Monicelli e

la Rivoluzione

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I termini in questione: da un lato i film, fiction e non, su qualsiasi supporto e di qualsiasi lunghezza, dall’altro il lavoro, i gesti, i tempi, le condizioni. Si vuole indagare in che modo le immagini in movimento hanno rappresentato e rappresentano il lavoro, le tracce lasciate e da lasciare, e ci si presenta subito, anche a una prima ricognizione, la storia di un occultamento, di una sottrazione allo sguardo o al massimo di un travestimento. Presso i mezzi di comunicazione che fanno della visibilità la condizione di esistenza dei loro significati (il cinema, la televisione), la quotidiana “dannazione biblica” al lavoro è invisibile – proprio nei termini di ciò che si ripeterebbe uguale ogni giorno, ogni ora, per gran parte della vita. Constatazione non priva di tendenziosità, poiché segnata da una netta istanza politica ed estetica, che certo è il caso di dichiarare. In genere, il film lungometraggio di finzione – la tipologia di film più conosciuta, che per il comune spettatore è il “film” tout court – ha pur sempre impresso ai suoi personaggi (eroi ed eroine, comprimari buoni e cattivi), l’attributo di una qualche mansione lavorativa: cowboy, detective, commissario, poliziotto, avvocato, medico, giornalista, artista, cantante, imprenditore, manager, spia, soldato, generale... Il catalogo è lungo. Per prima cosa, l’evidenza dell’enumerazione induce a chiedere: e gli operai? E i contadini? Certo si sono visti di rado agire sullo schermo da protagonisti, e bisogna chiederne ragione, ma sarebbe una sorta di petizione vertenziale e il problema innanzitutto non questo. Ciò che non è visibile, che non viene raccontato, così ci pare, è il lavoro, qualsiasi lavoro, nei suoi aspetti veritieri, problematici. Insomma, la finzione non ha voluto o saputo immaginare, se non raramente, il lavoro come parte integrante, condizionante, di una vita (almeno fino a oggi); il lavoro come processo, sequenza di gesti, fatica e soddisfazione, relazione con utensili, macchine o con altri uomini, tempo quotidiano dell’esistenza, fondamento o meno di identità… Al contrario, non oggetto di racconto, né soggetto, ma pretesto o contesto,

il lavoro declinato nella inverosimiglianza, nel mito o nell’agiografia è quello che ha popolato gli schermi e gli immaginari del secolo fordista. Sotto questa lente, è prima di tutto nelle zone del lungometraggio di finzione e nel contenitore televisivo che il lavoro è occultato, travestito, reso invisibile. Sono gli apparati di comunicazione più potenti, che più hanno contribuito e contribuiscono alla circolazione di modelli e valori, alla costruzione di senso e di identità. Del resto, bisognerà decidersi a scrivere la storia parallela dell’invenzione del cinema e della nascita dell’industria fordista, ora che per molti aspetti ambedue sono tramontati (o trasformati)1. Appena nato, il cinema si pone subito al servizio del capitale: ne documenta il progresso, rende visibile la grande espansione del benessere, la città, comunica l’ottimismo di una borghesia volta a raggiungere traguardi sempre più audaci e a consacrare il trionfo della merce, e il proprio trionfo sociale. Il visibile è circoscritto a questi dati. Fuori campo è la condizione di vita negli “slums” e nelle “banlieues”, i cieli plumbei di fumo industriale e così via. È che il cinema, fin da subito, è proprietà dei proprietari dei mezzi di produzione e i suoi spettatori sono coloro che vendono forza lavoro ai capitani d’industria.Ma scaviamo ancora in questa lunga storia di opacità. Il dato costante di cento e passa anni di immagini in movimento, è che la cine-video-camera non ha avuto (e non ha) accesso ai luoghi di lavoro, e in particolare alla fabbrica, luogo di lavoro per eccellenza del Novecento. La proibizione a vedere e a registrare non entra nel conto delle teoriche del cinema, ma certo è il singolare pendant di tutte quelle riflessioni sul nuovo linguaggio che ne hanno magnificato l’occhio meccanico, rivelatore dell’“uomo visibile” e di dimensioni della vita prima inconcepibili2. E invece, uno dei punti di resistenza del “mito” della visibilità è la fabbrica, proprio il luogo fondamentale per comprendere la forma più determinante di lavoro (e di vita) nell’epoca fordista:

IL CINEMA, IL LAvORO

di Antonio Medici

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sottratto alla visibilità, protetto gelosamente, è precluso all’occhio rivelatore della macchina da presa (m.d.p.). In fabbrica, però, ci sono entrate molto spesso le cine-video-camere del padrone e ce ne hanno consegnato un’immagine di parte, di grande interesse per storici e studiosi, ma che ancora sottrae qualcosa al visibile: la fatica e la pena degli uomini, a volte la violenza inaudita delle condizioni di lavoro. Insomma, il cine-occhio non ha mai registrato tutto, anche se era lì, di fronte alle cose: ha sempre inscritto il suo sguardo nella parzialità di un punto di vista. Del resto, oggi che il grande stabilimento industriale ha perso la sua centralità, è stato abbandonato e svuotato della sua massa umana e lavorante, delle macchine e degli utensili, ridotto a puro involucro, oggi che sarebbe percorribile in lungo e in largo dalla mitica m.d.p. continua a rimanere un luogo oscuro e invisibile, verso cui non si rivolge più lo sguardo. Ecco già due gradi diversi di invisibilità: un tempo, l’impossibilità fisica di gettare lo sguardo dentro un luogo cercato e desiderato; oggi, ai margini del desiderio di guardare. Ciò è sufficiente per spostare il discorso della visibilità su un piano diverso da quello della m.d.p., verso cui aveva già sollevato un devastante sospetto il Comolli di Tecnica e ideologia. Parte per il tutto del cinema, figura centrale e modello del dispositivo cinematografico, la macchina da presa posta al centro della pratica come della riflessione era e rischia di essere una forma dell’“ideologia dell’occhio”, che moltiplica e conferma i codici della visione affermatisi con l’umanesimo occidentale. Così Daney aveva fatto notare che il cinema «postulava che dal “reale” al visivo e dal visivo alla sua riproduzione filmata una stessa verità si riflettesse all’infinito, senza distorsione né perdita alcuna»3.Spostato sul piano dell’ideologia (o, se la parola non piace, della cultura in senso antropologico), il discorso della visibilità ci permette intanto di ri-collocare una serie di osservazioni: la tensione a vedere è selettiva, essendo determinata dalla scala dei valori sociali

propri di una data epoca. L’occhio della cine-video-camera vede o tenta di vedere ogni volta solo ciò che è determinante come valore nell’ideologia (cultura) di chi guarda. Così, ovviamente, la cine-video-camera che entra in fabbrica per conto del padrone vede un luogo completamente opposto alla cine-video-camera che vi entra (o tenta di entrare) per conto degli operai. Ma qui siamo alle polarità estreme, facili da identificare. Per l’oggi, dovremo cercare di capire se la visibilità del lavoro è negata, prima ancora che da un persistente divieto fisico di entrare nei luoghi di produzione, dalla marginalità del lavoro stesso nel sistema dei valori dominanti.Un secondo livello di osservazioni riguarda, diciamo così, il catalogo di ciò che ha visto il cinema (fiction e non) del lavoro in fabbrica: la fabbrica come luogo infernale, l’operaio come schiavo o come ribelle. Se talvolta vediamo la fabbrica, di certo non vediamo il lavoro come processo, come tecnica, come insieme di conoscenze che vengono applicate a un determinato oggetto. Si tratta di un lavoro ripetitivo e alienato, forse irrappresentabile. Insomma, il cine-occhio rimane più impressionato dal gigantismo del luogo, dal groviglio delle macchine, dalle merci stivate a perdita d’occhio nei magazzini. C’è solo un soggetto in grado di contrappesare la grandezza di questo luogo che si impone allo sguardo (perché si è già imposto nella cultura): la massa operaia, sia quando varca i cancelli, sia quando riempie i mezzi di trasporto, sia soprattutto quando sfila con i suoi cortei negli spazi della fabbrica o per le città. Insomma, il cine-occhio non si ferma sul singolo per registrare il suo lavoro.Per il documentario, il cinegiornale, il reportage cinematografico o televisivo, cioè per quelle immagini il cui materiale deriva direttamente dalla realtà e non dalla messa in scena, il discorso è ancora più intrigante. Nella maggioranza dei casi, le immagini vengono utilizzate ancora come fotografie animate (la magia del cinema delle origini) a illustrazione di un discorso.

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Quando poi si utilizza il repertorio, si perde ogni traccia del contesto in cui le immagini sono nate, e il criterio diventa la scelta delle illustrazioni più belle in relazione al discorso che una voce over (di uno speaker o di un testimone) va sviluppando. Utilizzo più che legittimo – dopo la benjaminiana riproducibilità dell’opera d’arte. Peccato che vi domini, pressoché totalmente, la relazione tra parola e suo corrispettivo iconico, mentre di rado si stabiliscono nessi significanti tra inquadrature, o strutture più complesse che mettono in gioco immagini, parole e suoni (musiche e rumori). Metodo costruttivo che perpetua l’ideologia del visibile: la fabbrica e i luoghi di lavoro entrano nelle storie e nei discorsi come un album di foto antiche di persone mai conosciute e di cui si è persa ogni traccia. L’importante è che si veda qualcosa, anche se non si capisce ciò che si vede. L’equazione vedere uguale capire si mantiene intatta per forma ma è svuotata di significato.Lo spazio filmico di questo tipo documentario (spesso visto in televisione) è paradossalmente più astratto di quello del film di finzione. Perché il vedere qui è subito piegato al logos verbale della dimostrazione. Tanto che oggi, quando ci mettiamo alla ricerca di immagini del lavoro, e abbiamo a che fare con film, siano essi di finzione o di carattere documentario, esercitiamo continuamente prelievi chirurgici, partiamo dai frammenti e li leggiamo come fotografie, nel senso letterale del temine: arresto sull’immagine, scansione analitica dello spazio inquadrato, per vedere se qualcosa di ciò che cerchiamo (il lavoro), intenzionalmente o non, ha lasciato una traccia. Non dico che questo è il solo modo di leggere i documenti, dico che spesso dobbiamo farci strada nella struttura compositiva del film, sfogliandone gli strati più esterni ed evidenti, ma meno interessanti: il plot narrativo o il discorso propagandistico…Il fatto è che le immagini, che per fede nell’ideologia dell’occhio dovrebbero parlare da sole, sono alla fine vittime della propria autoevidenza. Balbettano

significati, mentre potrebbero essere lo straordinario racconto o l’efficace rappresentazione di uno spazio-tempo concreto in cui si consuma il gesto del lavoro. Vale la pena di ricordare certi esperimenti che andava facendo Gilbreth – un allievo di Taylor – quando registrava lo svolgimento di determinati lavori mettendo un grande cronometro in campo: il cinema gli si presentava come uno strumento prezioso per scoprire e correggere i tempi morti, intenzionali o meno, del lavoratore durante le sue mansioni produttive. Per un’istituzione come l’Archivio audiovisivo del Movimento Operario e Democratico il tema del lavoro e della sua rappresentazione ha evidentemente un valore centrale sia nell’ambito delle sue attività istituzionali di recupero, conservazione e catalogazione di documenti filmici, sia nel contesto delle iniziative che ha promosso e che intende promuovere. Il lavoro fin qui svolto4 ha lasciato in deposito un prezioso materiale di documentazione e una metodologia di approccio, attraverso iniziative specifiche come produzioni audiovisive, ricerche e pubblicazioni, convegni e rassegne. Tutto ciò costituisce innanzitutto un raro patrimonio di memoria, ma ancor più importante, a nostro avviso, è il ruolo che tale patrimonio può svolgere nel contesto di riflessioni e iniziative che investano il presente. Negli ultimi decenni, profonde trasformazioni nel modo di produzione capitalistico, trasformazioni tuttora in corso, hanno modificato radicalmente il mondo del lavoro e con esso la società, la cultura, la politica. Queste trasformazioni hanno mutato il volto di interi territori e hanno determinato nuove articolazioni sociali: un esempio per tutti è la perdita di centralità della grande fabbrica fordista, i cui giganteschi edifici già entrano a far parte dell’archeologia industriale, svuotati delle masse operaie, inutilizzabili da un’organizzazione del lavoro che punta tutto sull’innovazione tecnologica, sulla snellezza delle aziende (downsizing) e sulla flessibilità della forza lavoro. Come raccontare e/o documentare queste grandi trasformazioni?

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La domanda convoca un nodo intricato ma cruciale di questioni: il ruolo che le immagini in movimento possono avere quali fonti della storia, il discorso sul progressivo “occultamento” del lavoro, il ruolo che i media audiovisivi, per il loro carattere di mass media, rivestono nella costruzione di senso e identità, le modalità di rappresentazioni del lavoro in generale, e in particolare delle nuove forme del lavoro (precarie, a distanza, alle prese non più con oggetti concreti ma con linguaggi, con oggetti “immateriali”). Se le grandi mobilitazioni operaie degli anni sessanta e settanta del Novecento avevano trovato un’eco nel cinema, persino in quello di genere, il loro tramonto ha reso “inattuale” anche il lavoro. Il cine-occhio si è volto altrove, mentre la fabbrica e la società cambiavano, approdando a quel modo di produzione che avremmo chiamato post-fordismo. Così che le immagini del lavoro e dei suoi mutamenti di cui oggi disponiamo sono purtroppo largamente insufficienti a rendere conto di questo passaggio epocale. In quel periodo, coincidente grosso modo con gli anni ottanta e novanta, il lavoro è stato respinto ai margini dell’universo della comunicazione audiovisiva, che tanto spazio occupa nella nostra vita quotidiana. E ancora oggi, nonostante la rinascita del documentario nel nostro paese, e l’interesse di alcuni cineasti e giornalisti televisivi verso il mondo del lavoro, questo rimane tutto sommato ai margini della comunicazione mainstream. Peccato capitale, poiché là dove il cinema, fiction e non, si è incaricato di raccontare e rappresentare, ha dimostrato la straordinaria capacità delle immagini in movimento di testimoniare il cambiamento del paesaggio umano e sociale. Con forza e passione, dunque, la Fondazione Archivio audiovisivo ha sostenuto e continua a sostenere il ruolo che il linguaggio filmico può avere nella rappresentazione del mondo (dei mondi) del lavoro, della sua storia, delle sue trasformazioni nel corso del secolo che si è appena concluso e, soprattutto, nel presente e nella sua complessità.

1. In un certo senso, la “struttura sintattica” della fabbrica fordista è monomediale: organizza la produzione secondo una linea sola di progressione, come un racconto che ha un inizio, uno sviluppo e una fine. È la fabbrica dell’epoca del film in cui prevale la narrazione classica: in ambedue prevale lo sviluppo lineare e la parola chiave è “montaggio”. La fabbrica post-fordista è l’equivalente dei linguaggi multimediali? Di certo, non c’è più una sequenzialità rigida, ma la coesistenza di diverse forme produttive (dal lavoro in azienda, al lavoro domestico, al telelavoro) e lavorative (dal rapporto di dipendenza, al lavoro in affitto, alle consulenze esterne), così come negli ipertesti multimediali coesistono diversi linguaggi (verbali, iconici, audiovisivi) e non vi è una sequenzialità rigida di lettura.2. Il riferimento è a quella parte della riflessione sul cinema, presente fin dalle prime teoriche (da Ricciotto Canudo e Luis Delluc fino a Béla Bálazs e Rudolf Arnheim), che rileva le possibilità artistiche connesse alle virtù riproduttive della macchina da presa. Nel dopoguerra, Andrè Bazin ne ha fatto una sorta di assoluto estetico, costituendo il punto di riferimento di una linea di riflessione che giunge fino ai giorni nostri.3. Citato in J. L. Comolli, Tecnica e ideologia, Parma, Pratiche editrice, 1982, pag. 25.4. L’Aamod fu costituito a Roma il 20 novembre 1979. Per ripercorrerne la storia, si veda A. Giannareli e P. Scarnati, Vent’anni: memoria e futuro, in Annali dell’Archivio audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico – Vent’anni, Roma, Aamod, 1999, pp. 13-40. Il volume citato è dedicato al ventennale della costituzione dell’Archivio.

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I-CINEMA

di Sergio Bellucci

L’avvento del cinema rivoluzionò la possibilità di raccontare il mondo. Molto più di altre invenzioni, segnò l’ingresso nel “secolo breve”, prima della radio e della TV. Per la prima volta, infatti, una tecnologia integrava modalità espressive che, fino ad allora, erano rimaste separate e fortemente specialistiche. All’autore cinematografico era consegnata la possibilità di “ricostruire” una sintesi narrativa che coinvolgeva due dei sensi principali, l’udito e la vista, e tutti i linguaggi sviluppati intorno a essi. Era una rivoluzione. Immagini in movimento e testo, prima, suoni, parole e colore, poi, accelerarono sia la possibilità espressiva per l’autore, sia la conoscenza del mondo per chi fruiva di quel racconto. Le possibilità di raccontare esplosero in fiume di proposte, soggettività, emozioni. La potenza della tecnica cinematografica e la codifica di uno specifico linguaggio, contribuirono fortemente alla costruzione, nel Novecento, di un mondo nel quale la produzione cinematografica svolse un ruolo centrale

sia sotto il profilo culturale, sia sotto il profilo politico e sociale. Ma nulla più del cinema era predisposto all’ondata rivoluzionaria prodotta dall’incessante trasformazione delle tecnologie digitali. Il cinema ha sempre lavorato su sé stesso per modificare la propria tecnologia e, quindi, il suo linguaggio e la sua fruizione. A differenza della TV, che ha vissuto lunghi tratti di tecnologia costante, il cinema è sempre stato come alla ricerca del suo stesso superamento, della rottura degli stessi confini che la tecnologia del momento metteva a disposizione dell’autore. La sperimentazione, quindi, è un suo codice interno e spesso è proprio nella “settima arte” che vengono sperimentate forme che anticipano novità, come sta accedendo intorno al passaggio al 3D. Dagli 8 mm e poi al 16 mm, si arrivò presto al più importante formato, quello dei 35 mm, con le versioni di Vistavision, Panavision o Cinemascope, ma anche le sperimentazioni del 70 mm o del Cinerama; le innovazioni dei formati dei supporti (e quindi di quelli

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della visione, a essi strettamente correlati) si sono susseguiti alle innovazioni che venivano “create” sul set, ove le stesse macchine da presa erano portate al loro limite alla ricerca di nuove possibilità espressive e di linguaggio, e negli effetti speciali per ricreare ciò che non era possibile che accadesse realmente. Ma cosa cambia per il cinema con l’arrivo delle tecniche digitali? Proviamo a fare il punto di un processo che sembra non avere pause, anche se qualche linea di tendenza sembra man mano consolidarsi.Il problema del linguaggio:La modifica del linguaggio cinematografico corre di pari passo con le innovazioni tecnologiche che sono progressivamente rese disponibili. La capacità espressiva “tradizionale” è stata fortemente integrata dalle potenzialità delle tecnologie digitali sia sotto il profilo dei supporti produttivi, sia sotto quello delle immagini integrabili o degli scenari costruibili. Completamente stravolto il settore degli effetti speciali,

via via integrato dalle grafiche 3D, la stessa “capture motion” ha reso possibile un livello di integrazione tra reale e virtuale che esplode le potenzialità espressive e mette in condizione il regista di “costruirsi” letteralmente il mondo e l’ambientazione nel quale far vivere il proprio racconto. Nelle grandissime produzioni come Titanic o Avatar, che consentono o di riprodurre la realtà come prima era impossibile, nel caso del primo, o addirittura costruirsi interi ecosistemi planetari nei quali ambientare storie, come in quello del secondo, le potenzialità tecnologiche mirano direttamente al raggiungimento di spettacolarità ineguagliate. Ma le potenzialità del digitale arrivano ad allargare le capacità produttive, affidandole a versioni “low cost” di ripresa e di montaggio offerte nelle tecnologie di largo consumo come gli smartphone o tablet. Queste “produzioni di massa” stanno ibridando il formalismo del linguaggio cinematografico attraverso una sperimentazione di massa delle potenzialità insite nelle tecnologie a

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disposizione, che offrono visione sia alla spontaneità delle riprese “amatoriali”, sia alla ricerca più avanzata degli autori più esperti o sperimentali. In questo quadro, possiamo far riferimento a “Machinima”, il cinema di Second Life. In questo particolare ambiente totalmente virtuale, la sperimentazione fatta nella produzione di film, definiti in 4D, ha consentito un importante salto qualitativo nella sperimentazione, sia di linguaggi, sia di forme produttive e, ovviamente, quelle di consumo. Tale forma espressiva, infatti, non ha sperimentato una progettazione spaziale della scena come è impossibile con le normali forme di espressione cinematografiche, anche quelle a 3 dimensioni, ma ha provato a modificare la sua costruzione attraverso la disponibilità di oggetti e ambientazioni fruibili in maniera immersiva. Inoltre, gli oggetti e le scene sono a disposizione su cataloghi e, quindi, a bassissimo costo. La possibilità di generare scene e personaggi risulta totalmente in mano all’autore, che può scegliere in totale libertà. Questa tipologia di film, inoltre, consente, in alcune sperimentazioni, visioni da punti di vista differenziati che affidano allo spettatore la scelta. Il grande obiettivo dell’avanguardia del Gruppo ’63, quello dell’opera aperta, sembra concretizzarsi sotto i nostri occhi soprattutto se pensiamo alla possibile integrazione di tali forme con quelle sperimentate sia per la produzione collettiva delle sceneggiature sia nel lavoro specifico della produzione condivisa. Forme già concretamente sperimentate in esperienze come quelle dell’i-Cinema, una installazione a 360° sviluppata in Australia in cui il pubblico è chiamato a interagire con la storia proiettata e un software basato sull’Intelligenza Artificiale reagisce modificando la storia in proiezione, o quella dell’italiana Cineama ove la collaborazione si spinge dal processo di scrittura e selezione del contenuto fino ad arrivare alla ricerca dei fondi per la produzione

del film stesso. Per questo progetto, proprio per le caratteristiche “open” della filiera produttiva, la scelta della tutela del diritto d’autore e del copyright è ricaduta proprio in quei Creative Commons che, prodotti dagli autori di nuova generazione della rete, provano a trovare sintesi tra uso aperto e libero e il giusto riconoscimento dell’utilizzo commerciale di una idea. La produzione cinematografica, quindi, sta subendo una rivoluzione profonda. Il passaggio dalla pellicola al digitale sta producendo fenomeni di abbassamento dei costi di produzione e post produzione, di alta flessibilità, di allargamento della base produttiva, di un abbassamento della soglia di ingresso, di modifica del linguaggio, di forme nuove di distribuzione nelle sale. Il superamento della pellicola sta ridescrivendo, in larga misura, l’approccio con la scelta di produrre o meno una sceneggiatura. Dopo il terremoto, in Giappone, è partito un progetto per la produzione di un documentario crossmediale (come ormai sono molte delle opere cinematografiche) che poggia sulla produzione comunitaria di riflessioni, immagini, foto, video, eccetera… Dalla sala allo schermo del PC o al tablet, oggi è tutto un gioco di sponde e di rimandi perenni. Non esiste film che non abbia una sua specifica forma di comunicazione o di interazione sul web o un gioco connesso che sappia rilanciare la fruizione nella sala o nel salotto di casa. Alta definizione e schermi panoramici spingono a un consumo casalingo che, sempre più spesso, non sostituisce quello in sala ma si moltiplica nelle seconde e terze visioni. La possibilità di vedere film sul proprio PC, pur ponendo questioni inedite sul diritto d’autore, ha esploso il consumo di film ormai impossibili da vedere nelle sale. L’integrazione prossima tra schermo TV e Web, allargherà ancora di più le potenzialità di fruizione casalinga e, quasi sicuramente, i film si trasformeranno in “App” da scaricare. Questo moltiplicarsi della possibilità di produrre opere cinematografiche impone all’intero settore un problema di ridefinizione della intera filiera produttiva e, credo, anche delle leggi a supporto della produzione nazionale. Fino a ora, invece, i governi degli ultimi dieci anni sembrano evitare di avanzare una proposta di ridefinizione delle regole e delle forme di intervento nello scenario in enorme trasformazione. Mentre la lentezza della riforma delle regole sembra ignorare l’accelerazione che l’innovazione tecnologica produce, le potenzialità di queste novità conquistano i nativi

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digitali che si impossessano della “camera da presa” e sperimentano in maniera performativa la realtà del mezzo cinematografico.Nuovo realismo e nuova virtualità. Le tecniche digitali consentono o di raccontare la vita in diretta o la costruzione completa di una realtà altra, completamente virtuale. Tra questi due estremi c’è l’ampia gamma di possibilità che spetta all’autore di scegliere per sé e per lo spettatore. Mai come in questi anni, infatti, abbiamo potuto osservare la realtà così esplosa. Da un lato il cinema documentario e i reportage hanno potuto utilizzare le potenzialità di ripresa messe a disposizione dall’innovazione tecnologica. Dall’altro, ogni ipotetico scenario o ambientazione che potesse essere pensata dall’autore è stato possibile realizzare attraverso le nuove apparecchiature digitali. Ogni ibridazione tra questi due estremi è sotto la lente della ricerca di nuove forme di espressione e di linguaggio. L’intero alfabeto e la stessa grammatica cinematografica ne è ri-descritta e rimodulata.Anche la sala potrebbe essere investita da una nuova forma di rinascita. La distribuzione digitale, oggi, consente di avere sale che assumono la flessibilità di un palinsesto televisivo. I costi di affitto del contenuto, la possibilità di variare enormemente il catalogo, la possibilità di costruire micro-sale specializzate, o di costruire retrospettive difficilmente realizzabili con il vecchio supporto in pellicola offrono la possibilità di rompere il gigantismo monopolista che ha fortemente condizionato il settore della distribuzione e produrre una moltiplicazione delle possibilità e del pluralismo delle voci.Nuove tecnologie produttive e nuovi linguaggi, nuovi prodotti e nuovi supporti distributivi, nuove forme di mercato, tutto sembra essere ridescritto dall’arrivo delle tecnologie digitali. Il cinema, troppo spesso dato per morto, metterà le radici in questo nuovo ambiente e continuerà a far sognare, indignare o sorridere ancora molte generazioni.

DALLA SINTESI DIGITALE A RCL*

di Massimiliano Carboni

«Buongiorno Roberto... che fai ci porti sei caffè...?»«...oggi pomeriggio chiudo e me ne vado a Freggene che c’è maestrale... pijo la moto... a padre famme ‘na preghierà pe’ ‘r vento che vado a serfà’...»«...buongiorno Roberto...»«...bbella padre!»

Roberto Simonelli è il proprietario di un bar a Piazza Guadalupe qui nel mio quartiere, Monte Mario a Roma. È quel che si può definire un coatto antico dalle spiccate doti teatrali, il suo palcoscenico è il piccolo spazio dei tavolini di fronte al bar dove noi diligenti ci accomodiamo a prendere il caffè mentre lui ci intrattiene con performance a tema. In quel bar io ci vado principalmente per questo. Il parroco di Monte Mario invece è un tipo poco piacevole e quel giorno ha avuto la sfortuna di interrompere Roberto già in piena windsurf performance.Il mestiere del regista è quello di guardare, dice un mio anziano amico regista, e di ascoltare, aggiungo io. Quando ci si siede a riorganizzare i pensieri per costruire una storia, le frasi e i personaggi di tutti i giorni entrano prepotenti e popolano il racconto, determinano le scelte e ci aiutano a riflettere.Il macellaio di via Fabiani è un signore molto curato, calmo, serafico, occhi chiari, un bell’uomo; recita per hobby nella parrocchia del quartiere. Nel suo negozio tre seggioline pieghevoli in legno, sistemate di fronte al banco parlano chiaro: ENTRA QUI E RILASSATI, IO CI METTO IL MIO TEMPO MA TI DO LA MIGLIOR CARNE!E così è. Serve ognuno di noi con lo stesso riguardo e finché il pezzo di carne non è pulito e preparato come dice lui, non solo non te lo dà, ma non lo pesa proprio. Mentre lavora parla, ragiona, ascolta, insomma trascorre la giornata così, godendosi il quartiere che passa a trovarlo:«...hai visto aprono un altro supermercato?!...»«eh... sì ho visto, ho visto...»

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«...riciclano soldi, sono tutti conti che si fanno loro, poi ci mettono a lavorare le cooperative, assumono a tempo, gli danno 4 euro lordi l’ora, o così o vai!»«...io ve lo dicevo che lo scherzetto che Marchionne stava facendo l’altr’anno agli operai di Pomigliano era solo la prova generale!»Al contrario di quanto ci ha convinti a pensare la TV con la sua prepotenza comunicativa unidirezionale, le cose sono chiare a tutti, o perlomeno a molti; le persone le conoscono e le restituiscono nelle conversazioni e negli atteggiamenti di tutti i giorni. Ma come fare a riportare queste conversazioni dando il giusto spazio alle persone reali nei racconti? Come fare a riproporre la realtà senza incorrere nel linguaggio documentaristico spesso troppo distaccato, o nell’inchiesta giornalistica dove la voce dell’autore è troppo forte? Come evitare il meccanismo delle trasmissioni televisive santoriane o ballaronesche, dove la realtà viene usata solo come motore per far procedere lo scontro becero e avvilente tra esperti e politici di professione presenti in studio, comodamente seduti, adeguatamente illuminati e inquadrati? Come ricostruiamo una narrazione di questo Paese? Il cinema ci ha sempre aiutati a comprendere il quotidiano. Gli autori che più ammiriamo sono proprio quelli che meglio hanno saputo raccontare storie, senza perdersi in ridondanti esibizioni stilistiche, riportando la realtà nei loro film, affidando agli attori dialoghi credibili, vicende verosimili raccolte dalla strada. Ma in questa epoca in cui le persone hanno ormai preso così tanta confidenza con l’utilizzo della propria immagine, forse si può tentare, a volte, il salto, facendo rappresentare proprio dai diretti interessati. Mantenendosi a un tempo fedeli alla narrazione cronachistica e a quella emotiva propria della fiction. Rivolgere in positivo tutta questa sovraesposizione della nostra immagine, utilizzando anche il linguaggio del reality che tanto ci ha avviliti in questi anni. Senza affezionarsi troppo alle proprie scelte. Nessun dogma, nessuna formula magica, nessun primato narrativo, solo un pezzetto del cammino che

molti stanno intraprendendo in questi anni; partecipi di uno sforzo collettivo indirizzato alla scoperta di linguaggi da utilizzare per arricchire la narrazione e renderla più viva. In tutto questo l’utilizzo delle apparecchiature digitali nella produzione audiovisiva gioca un ruolo determinante: amplifica le possibilità, riduce i costi, apre a nuove soluzioni, determina spesso il linguaggio favorendo la sperimentazione. La tecnologia digitale restituisce alla nostra generazione la possibilità di essere protagonista: attrice principale della attuale fase evolutiva dei nuovi mezzi di ripresa che cambiano e migliorano continuamente, anche grazie alle forzature imposte dall’utilizzo che video-maker e film-maker ne fanno in tutto il mondo. Da un lato le aziende produttrici (Canon, Nikon, Panasonic...) determinano il mercato, dall’altro gli autori provano soluzioni non ancora brevettate, montando ottiche, supporti di ripresa, accessori alternativi. Come spesso è stato detto: l’avvento del digitale ha invertito la gerarchia nella trasmissione del sapere; non più dagli anziani ai giovani ma spesso in senso inverso. L’uso delle piattaforme digitali nella produzione audio-video come in altri campi, inoltre, favorisce l’intervento dell’autore in tutte le fasi di lavorazione del progetto, dato che spesso egli è in grado di utilizzare sia i supporti di ripresa che i software di edizione. Anche questo aspetto è del tutto nuovo rispetto al passato. Del resto per quanto mi riguarda è molto semplice da spiegare: senza l’avvento della tecnologia digitale oggi non farei questo mestiere. In generale non mi occuperei di comunicazione.Le sempre più ridotte dimensioni delle apparecchiature di ripresa ci permettono di guardare e riprendere dove prima era difficile arrivare e questo condiziona necessariamente il nostro sguardo e la nostra curiosità visiva. La maggior capienza di dati immagazzinabili dai nuovi supporti di registrazione fa sì che oggi si possa sperimentare con più facilità di quando si avevano a disposizione pochi metri di pellicola montati su un oggetto piuttosto ingombrante, la macchina da presa.

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Anche i costi di produzione cambiano, diminuiscono, e questo facilita l’accesso al linguaggio audiovisivo per i nuovi autori. Non si può dire altrettanto per la distribuzione che arranca e non dà soluzioni efficaci, almeno per ora; speriamo che l’uso dei supporti digitali venga adottato massicciamente anche in questo settore; favorirebbe sicuramente una maggiore diffusione delle opere. Un esempio: produrre RCL è costato meno che stampare la prima copia del film in pellicola, necessaria per la distribuzione in sala. Anzi in verità la prima, preziosissima copia non finisce in sala ma nell’archivio del Ministero, depositata per il visto censura, e muore lì sepolta. Ne serviranno delle altre per raggiungere finalmente i cinema.Ma che cosa è in sostanza RCL – Ridotte Capacità Lavorative? È un film. O meglio è un esperimento filmico che si inserisce interamente nel quadro tratteggiato fino a ora: abbiamo provato a mescolare più linguaggi, dalla fiction al reality, supportati dal lavoro giornalistico, durato due anni, di Alessandro di Rienzo e dalle capacità attoriali e soprattutto improvvisative di Paolo Rossi. Io ci ho messo molta della mia curiosità registico-digitale accumulata in questo ultimo decennio. Utilizzando telecamere per la ripresa in HD ma di piccole dimensioni per poter girare velocemente per le strade di Pomigliano. Il tutto, per raccontare più direttamente possibile, senza troppe mediazioni, una vicenda e un territorio che a nostro avviso sono stati trattati molto male dai media nazionali. L’idea è molto semplice: riprendere una vera, piccola troupe cinematografica arrivata a Pomigliano alla ricerca di elementi utili per scrivere un film. La troupe è composta da un regista (il maestro), un accompagnatore musicale, un assistente, un fonico e un operatore (operatore operaista). Sotto il sole implacabile di luglio del 2010 i nostri eroi si aggirano per il paese incontrando i protagonisti delle vicende relative al referendum agli stabilimenti FIAT. Parlano, fanno domande, tentano di capire, provano a riordinare le idee accampati sul terrazzo dell’hotel

che li ospita, partecipano a cene a casa di operai FIAT. Vengono fermati per strada da alcune signore in fila allo sportello pagamenti di Equitalia. Le persone prendono la parola, non si fanno spaventare dalle riprese, parlano con il maestro, Paolo Rossi, ma anche tra loro, ignorando le telecamere. Sono prese dalle questioni che affrontano e non da una remota ipotesi di film (quando abbiamo girato non avevamo nessuna speranza di finire in sala e non sapevamo bene neanche se saremmo riusciti a montare il materiale). Anche la telecamera in campo è un personaggio, l’operatore interviene con domande dirette da dietro l’obiettivo e i nostri interlocutori si ritrovano senza accorgersene a parlare con il pubblico che vedrà il film. La nostra troupe fa di tutto per comprendere la realtà di Pomigliano e dell’Italia di oggi, attraverso le parole della gente di questo piccolo paese, ma alla fine tutto è sempre più confuso; la realtà è fantascienza.Per fare il film sono serviti dieci giorni di lavorazione: due per scrivere il canovaccio, tre passati in un bad and breakfast di Roma a impastare le idee con Paolo Rossi e Alessandro di Rienzo, cinque a girare a Pomigliano. Per il montaggio ci è voluto un po’ di più. Il tempo che scorre nel film è lo stesso che abbiamo passato a girare. Cinque giorni appunto. È stato presentato al Festival di Torino e poi in giro per i festival di tutta Italia, da Bari a Bolzano, isole comprese. Ha avuto un’uscita nazionale in sala, prima di Natale, ed è stato tolto velocemente per lasciare il posto ai film natalizi; la critica lo ha accolto molto bene; anche il pubblico che è riuscito a vederlo lo ha apprezzato. Per quanto ci riguarda lo consideriamo un esperimento riuscito. A Pomigliano è stata organizzata la proiezione dal parroco don Peppino Gambardella, uno dei protagonisti del film, e c’è andato un bel pezzo di paese. La TV non lo ha voluto, peccato! Ma tutto non si può avere. Speriamo di poter tornare nuovamente sulla scena del crimine.

*RCL – Ridotte Capacità LavorativeUn film punk... un punk/folk/reality/digital-movie.

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APULIA FILM COMMISSION

di Silvio Maselli

Se ami la tua terra, se ne conosci i luoghi, i fornitori, i ristoratori, gli albergatori, gli amministratori pubblici, non è difficile fare una film commission.Ma tutto questo conoscere non bastava, da solo, a fare una film commission come la volevamo noi. Perché siamo convinti che della propria terra, si devono conoscere anche i sapori, gli odori, le genti, le tradizioni, i costumi, lo spirito di popolo, le movenze sociali, le tendenze spirituali, la struttura economica. Beh, se si conosce tutto questo, allora si può fare davvero una buona film commission.Per questo quando siamo nati, nel 2007, abbiamo pensato che dovessimo inventare un modo nuovo di curare le relazioni con le produzioni cinematografiche allo scopo di attrarle e aiutarle a girare sul nostro territorio ponendoci dal lato del loro punto di vista, squisitamente industriale.In Puglia si è sempre fatto cinema. Sin dai primi anni trenta del Novecento, alcuni pionieri coraggiosi

hanno prodotto cinema di non eccelsa qualità, ma generoso negli slanci espressivi e nel candore dello sguardo incantato sulla campagna assolata della profonda provincia agricola oppure sulle contorte teorie di strade cittadine e metropolitane.Durante il fascismo, poi, sono innumerevoli i cinegiornali che ritraggono città pugliesi pronte a essere fotografate dai cineasti di regime, nel loro splendore d’inizio secolo e precedenti alla nefasta distruzione bellica. Guerra che, nel suo declinare incerto, a cavallo tra guerra di liberazione, guerra civile fratricida e guerra tra ex alleati, consentì alla Puglia di conquistare un posto nell’immaginario collettivo, sia per la ricchezza culturale della sua principale città, quella Bari spensierata del Petruzzelli fotografato anni dopo da Alberto Sordi in Polvere di stelle, sia per la scelta di riunire, proprio nel suo capoluogo, il primo CNL: i dagherrotipi che immortalano Benedetto Croce o

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Umberto Terracini sortire dal centralissimo teatro comunale Piccinni, sono parte della formazione civile e democratica delle generazioni successive.Ma solo negli anni settanta la Puglia conoscerà una vera esplosione a livello di immaginario nazionale, grazie alla autoctona Daunia Film e a molte altre produzioni che superarono il fiume Ofanto per venire ad ambientare, prevalentemente a Trani e dintorni, buona parte della commedia sboccata e sexy che allietò – e in parte, drammaticamente, allieta tutt’ora, ai tempi di internet – i maschi italiani sofferenti d’insonnia e di matrimoni infelici.Nacque così anche una lingua, un esperanto pugliese per così dire, il cui cantore più noto e talentuoso fu per anni Pasquale Zagaria, detto Lino Banfi che ci ha condannato suo malgrado, sino almeno ai tardi anni ottanta, a essere dileggiati da chiunque incontrassimo fuori regione con insostenibili “effettivamende”, “noci del capocollo” e “vieni aventi cretino”. Eppure il suo

slang era irresistibilmente comico e irrompeva nel cinema romano centrico, con la forza di una lingua inesistente, eppure fervida di invenzioni, di frizzi, di felicità terrona e un po’ farsesca.Una condanna, si diceva, certamente felice, perché la pugliesità ha significato per anni lontananza dai centri propulsivi economici e sociali europei e il silenzio della sua produzione culturale – fatta eccezione per un’accademia attiva nelle scienze sociali e una letteratura pressoché esclusivamente scientifica e mai narrativa, a differenza della iperletteraria e immaginifica Sicilia –, e allora anche lo sfottò dava l’impressione di essere ancora vivi.Nel mondo del teatro, intanto, un geniale – e dunque incompreso dai coevi – Carmelo Bene, strapazzava spettatori e critica con il suo teatro “di parola prima che di testo”, e il foggiano trapiantato a Roma Renzo Arbore, in radio come in TV, inventava nuovi modi di intrattenere con intelligenza il pubblico della notte.

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In letteratura ovunque intorno a noi fiorivano narrazioni meridiane: la Sicilia, con l’entomologo Sciascia, vivisezionava tra le proprie piaghe mafiologiche la storia regionale e la Campania produceva una messe di autori capaci di travalicare i confini regionali; la Lucania si fermava a Eboli e la Puglia, invece, non partiva nemmeno, incapace – come si discorreva dietro – di produrre altra letteratura se non saggistica e accademica.La musica che girava intorno era quella che affascinava Ernesto De Martino e i suoi allievi. Ma occorreva attendere che una tabacchina venisse morsa dalla taranta per scatenare danze indemoniate e chitarre battenti, vissute ancora nei primissimi anni ottanta, come fenomeno ancestrale e contadino. Dunque marginale e inutile a rendere vivo un racconto della modernità. Ecco: la modernità è quel che – solo in apparenza – è sempre mancata alla Puglia delle contrade, dei borghi di abbacinante bellezza, della borghesia barese rapace e levantina, del Gargano impervio o del basso Salento intricato in una teoria di microscopici paeselli. A meno di non considerare moderno – e allora lo era – la teoria di ciminiere e di sogno industriale di una Taranto bella e martoriata dallo sviluppismo idiota appartenuto anche alle classi dirigenti della sinistra sindacale e politica.Ma in definitiva per oltre un quarantennio la Puglia non è esistita, se non come operoso lembo di terra gettato nel mare Adriatico a cavallo con lo Jonio, perché è stata incapace di produrre una immagine di sé, perché priva di una identità certa e riconoscibile: troppo lunga, troppo varia, troppo diversa al proprio

interno, troppo piena di tutto per essere una sola intellegibile cosa. E priva, come dicevamo, di storie e di narratori capaci di raccontarla.Ma la vera svolta fu, innanzitutto, culturale e creativa. E arrivò come una scossa feroce per gli occhi e la pancia di occidentali assisi sulla propria montagna di benessere e ignoranza delle altrui vicende umane ed economiche.L’8 agosto del 1991, in pieno rivolgimento sociopolitico dei paesi dell’est europeo, dopo alcune settimane di mare calmo e di ripetuti piccoli sbarchi di migranti albanesi sulle coste del basso Salento, fece il proprio ingresso nella storia la nave “Vlora”, carica di quasi 20.000 cittadini albanesi che la notte precedente l’avevano requisita nel porto di Durazzo intimando al capitano di seguire la rotta a dritta verso le nostre coste. Quello sbarco, il primo esodo di massa del mondo nuovo, alla fine esatta del “secolo breve”, ha rappresentato, a detta di molti analisti e pensatori meridiani, l’inizio di una nuova vicenda storica per noi pugliesi e per i meridionali dell’est della penisola calata nel brodoso Mediterraneo. Nanni Moretti verrà ad attendere invano la nuova nave degli albanesi sul molo del porto di Brindisi per il suo Caro diario e Gianni Amelio racconterà le tentazioni razzistiche e predatorie dei padroni italiani che fiutarono l’affare di fine secolo ne Lamerica.«La Puglia è lo schermo bianco sul quale prendono corpo i fantasmi del Potëmkin in avaria, gli ammutinati di corazzate di altri mari, i naufraghi del “mondo ex”, i relitti dell’impero. Ombre rosse, e gialle, nere, olivastre che disorientano la nostra prossimità all’Oriente. Per loro il West, la frontiera

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vista come opportunità e sogno di un futuro migliore, è la Puglia. Solo così si spiega l’inattesa e inedita rilevanza simbolica di questa regione che da qualche tempo fa addirittura parlare di un “cinema pugliese”. È la frontiera a produrre immaginario collettivo, come d’altronde accadde a Hollywood, che sorse nella polverosa, anarchica vicinanza al confine messicano, e che si rigenerò negli anni settanta proiettandosi nelle paludi e nelle giungle del Vietnam, dove Francis Ford Coppola per primo fiutò l’apocalisse interiore ben più sconcertante di una semplice guerra: il conradiano Cuore di tenebra dell’America orfana di una Nuova Frontiera».Solo negli anni novanta, dunque, ci spiegava il critico Oscar Iarussi già nel 2001 con il suo Ciak si Puglia edito per i tipi di Laterza – oggi anche Presidente della Apulia film commission – si afferma una leva di autori e attori completi sotto il profilo artistico, capaci, pur emigrando a Roma o altrove, di mantenere un legame con la terra di origine che fosse altro dal mero cordone ombelicale della nostalgia canaglia. Edoardo Winspeare, Alessandro Piva, Michele Placido, Sergio Rubini innanzitutto. E poi e via via tanti altri più o meno giovani interpreti di un’arte cinematografica rinnovata, anche tecnologicamente, e capace ormai di affrancarsi dalla “teoria degli stabilimenti di posa” romani.Il modo nuovo che ci siamo immaginati quando, nel 2007, è divenuta operativa l’Apulia film commission, ha tratto origine da queste considerazioni e prese le forme di molti progetti. D’Autore, per esempio: un circuito di schermi di

qualità in cui il pubblico potesse sempre trovare buon cinema internazionale senza sorprese di rapsodiche programmazioni commerciali alternate all’essai. Una rete di buoni festival di cinema documentario, generalista, sperimentale confezionati all’interno di tre format che amiamo, come sono la festa del cinema del reale di Specchia in provincia di Lecce; il Bari International Film & TV Festival e il nuovissimo e avveniristico Frontiere, entrambi a Bari. Ancora, due Cineporti, business center a disposizione delle produzioni che trovano uffici pronti ad accoglierli in fase di pre produzione e produzione, sale casting, trucco e parrucco, sala proiezione e promozione dei propri film. Il Progetto memoria, un modo per sostenere e produrre per intero storie di fatti, personaggi e situazioni storiche del Novecento pugliese scritti e diretti da giovani talenti regionali.E Puglia Experience, workshop itinerante per le più incredibili location regionali rivolto a sedici sceneggiatori euro-mediterranei che, accompagnati e seguiti da story editor professionisti, hanno il compito di scrivere un soggetto in venti giorni, il migliore dei quali, dopo una sessione di pitching all’interno del Forum Euromediterraneo di Coproduzione, viene acquistato e sviluppato dalla nostra giovane film commission.Sì, perché a noi piace il sostantivo giovane, perché sa farsi anche aggettivo qualificativo. Sa dire di un’attitudine, la nostra, alla scoperta, alla navigazione in mare aperto, magari anche in solitaria, se occorre tracciare una linea sulla quale poi altri ti seguiranno; seguaci, appunto, di un modello innovativo, che

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MILANO 55,1*

CRONACA DI UNA SETTIMANA DI PASSIONE

di Barbara Sorrentini

«Ciao bella! Sono Bruno (Oliviero), si pensava di fare un documentario collettivo sul ballottaggio. Ci vediamo stasera a Filmmaker con Luca Mosso, stiamo telefonando un po’ in giro. Sai questa cosa va raccontata a tutti, io sono di Napoli e vista da fuori, questa cosa è straordinaria».

Non chiamatelo il film su Pisapia, per favore. Perché Milano 55,1 di Pisapia fa vedere poco. E però diciamolo subito: quando Pisapia compare nelle immagini del film il momento è emozionante e travolgente. 30 maggio 2011, metà pomeriggio, sul palco di una sala straripante di gente del Teatro Elfo Puccini, il nuovo sindaco di Milano appare per commentare la vittoria. E lì sono lacrime, urla, ed emozione vibrante. Ma prima di arrivare qui, a questo finale noto, il film è la cronaca di una settimana di passioni, come suggerisce il titolo. Più di cinquanta partecipanti, tra registi, autori e tecnici coordinati dal documentarista Bruno Oliviero e il critico cinematografico Luca Mosso. Per una settimana intera, l’ultima prima del ballottaggio Moratti-Pisapia, i film maker hanno seguito con piccole telecamere i due candidati degli opposti schieramenti: Matteo Salvini (attualmente capo gruppo della Lega in consiglio comunale) e Stefano Boeri (ora Assessore alla cultura, expo e moda per il Comune di Milano). Due modi così diversi di fare ed intendere la politica, alternati nella loro quotidiana attività pre-elettorale crea un corto circuito. Da una parte il populismo furbo, che spara nel mucchio e la dice grossa assecondando gli umori stomacali di chi teme la diversità. Dall’altra, l’apertura culturale, il rispetto e la curiosità per un mondo altro da inglobare nella propria metropoli. Matteo Salvini e Stefano Boeri. Le scene esilaranti con questa sorta di Alberto Sordi lumbard, che buca lo schermo con espressioni e battute degne di un cinepattone, si intrecciano con le immagini rubate a convegni sul futuro dell’Expo, con interventi esperti e calibrati dell’architetto ora

metta al centro dell’iniziativa il cuore del territorio.La vera innovazione che abbiamo introdotto è quella regolamentata dal nostro film fund: il fondo a sostegno delle produzioni audiovisive. L’epicentro, insieme alla erogazione di servizi gratuiti, della nostra attività quotidiana.Non ha una dotazione finanziaria enorme, tutt’altro. A meno di non considerare tale il milione di euro che annualmente destiniamo allo scopo. Ma funziona con estrema semplicità e garantisce ai produttori tre certezze: rapidità, trasparenza, sicurezza del finanziamento a fondo perduto.Fondo perduto che – dimostra l’analisi che abbiamo commissionato all’Istituto per l’economia dei media della Fondazione Rosselli – garantisce un rapporto di moltiplicazione di 1 a 6.Per ogni euro speso dalla Apulia film commission per sostenere una produzione, circa 6,3 euro vengono spesi dalla stessa sul territorio regionale. Tale spesa, a sua volta, produce un impatto sull’indotto pari ad almeno altre 3 volte la stessa.Ebbene a fronte del contributo erogato alle produzioni, noi chiediamo in cambio essenzialmente tre cose: che venga assunto almeno il 35% di personale pugliese; che spenda almeno il doppio di quanto diamo loro in regione; che giri il lungometraggio o la serie televisiva in Puglia per almeno tre settimane. Così viene dimostrato un assunto contrario al tremontismo più sempliciotto: di cultura si vive, soprattutto se la spesa pubblica viene orientata a esiti di natura industriale.Il cinema, infatti, rappresenta la fusione perfetta di elementi creativi con elementi tecnologici. Non può esistere il cinema senza la capacità di produrlo e organizzarlo.Per questo, anche per questo e sempre di più, in assenza di un quadro strategico nazionale di sostegno e liberazione delle energie di mercato (compresso da un duopolio di fatto insostenibile e aggravato dal più clamoroso conflitto d’interessi dell’occidente), il ruolo dei territori sarà decisivo.Sia per innovare artisticamente le narrazioni cinematografiche, sia per apportare energie umane e finanziarie svincolate dalla ossessione del controllo politico sull’arte.Il futuro, dunque, è nei territori.

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assessore, per illustrare il vuoto lasciato dalla giunta Moratti. Il confronto tra questi due atteggiamenti sideralmente distanti è emblematico e riguarda l’Italia intera. L’idea di un film collettivo sulle ultime battute di una campagna elettorale durata più di un anno, con il coinvolgimento attivo sempre più insistente dei cittadini, è nata improvvisa e urgente. Le parole di Alberto Sansone, uno dei registi coinvolti, ne spiegano i toni: «Squilla il cellulare, è Marina Spada. Ha un tono d’urgenza. Le dico che sono in Francia, prometto di richiamarla al mio ritorno. Mi torna in mente la bordata sparata da Bossi su Zingaropoli. È l’ultimo TG che ho visto prima di partire. La Milano che lascio è carica di tensioni, la sera prima si era registrata una scaramuccia tra i sostenitori di Pisapia e della Moratti, una vecchietta era caduta durante un comizio di Pisapia e la cosa era stata strumentalizzata, appelli per abbassare i toni. Avevo lasciato la mia città con la sensazione che qualcosa di brutto sarebbe successo di lì a poco. Chiamo Marina Spada, mi accenna del film collettivo. C’è una riunione il giorno dopo, ci vado. Ci saranno una ventina di persone, alcuni li conosco, altri no, nel complesso la situazione sembra positiva. Il gruppo di lavoro è già avviato e io sono disponibile soltanto l’ultimo giorno di campagna elettorale». L’urgenza diventa operativa e si traduce nell’inseguire gli incontri pubblici, i mercati per i volantinaggi, i gruppi autoconvocati e i convegni istituzionali. A questo, si aggiungono, i due concerti di chiusura di campagna e i giorni del voto tra seggi e quartier generale. Ore e ore di materiale girato, selezionato e montato senza perdere mai di vista lo sguardo e il taglio cinematografico. L’atmosfera dei concerti di chiusura in Duomo è premonitrice: la defezione di Gigi D’Alessio per la Moratti e quella sensazione squallida e triste da fine impero, efficacemente documentata da Giovanni Calamari. «Quel giovedì mattina precedente il ballottaggio ero un uomo tranquillo impegnato nelle mie cose. Luca Mosso mi chiama, prima mi chiede se voglio partecipare al film collettivo e poi mi sbatte al concerto della Moratti in Duomo previsto per la stessa sera. Vado a riprendere volentieri e così con la mia camera sono in Duomo nel tardo pomeriggio pronto per fare rec. Provo a fare qualche inquadratura, dei totali, dei primi piani di facce da Pdl, niente non mi riesce di fare niente. Passano le ore, mi metto una

maglietta dei sostenitori della Moratti e vado dentro ai gazebo per girare e tutti mi chiedono per quale TV sto girando. Ho girato poco e male, ancora dei totali, delle panoramiche ma niente di niente. Cala la sera, sono in mezzo alla piazza, la poca folla è sotto il palco per seguire Brian Ferry, un’icona degli anni ’80, vestito in abito scuro e cravatta pare un promotore della libertà, non a caso ha due cubiste che gli saltellano ai lati. Nel backstage arriva lei e la folla la acclama. Io sono sempre in mezzo alla piazza e sul maxischermo compare Letizia. Transennata saluta i fan, accenna qualche passo di ballo assieme a Formigoni, poi la musica dance cambia e si trasforma in qualcosa di nostalgico. Lei saluta, sorride a tutti, io inquadro quel maxischermo, il suo volto pare dire che questa è l’ultima volta. È solo giovedì ma quel volto nello schermino della mia telecamera diventa meta-volto sul maxischermo e per me è il segno che il vento sta per cambiare».Il giorno successivo la festa è arancione, in Piazza Duomo non c’è un buco, tutti sotto la pioggia con un arcobaleno che scalda i cuori, la musica è quella di Daniele Silvestri, di Elio e le storie tese e dei Bluebeaters (Tutta mia la città). Sembra anticipare il trionfo di lunedì 30 maggio 2011. Però Milano 55,1, come si diceva all’inizio, non è un film celebrativo e nemmeno un “biopic” incentrato sulla figura di Giuliano Pisapia, come politico o come uomo. Il film vuole essere una narrazione documentaria in presa diretta, un nuovo modo di fare cinema a ridosso degli eventi, con una forma espressiva differente da quella televisiva. Lo spiega così Bruno Oliviero: «Due sono le forze che hanno prodotto questo documentario. Da un lato c’era la lunga campagna elettorale di Giuliano Pisapia, arrivata all’ultima settimana carica di energie fortissime con l’idea del cambiamento come tema centrale. Dall’altro, la natura e lo stato del cinema indipendente milanese e, in generale, delle culture di racconto della realtà, che in Italia vivono un momento complesso, con poche entità ancora determinate a trovare forme e modi produttivi che contrastino l’apatia».

*Milano 55,1 è un’opera collettiva realizzata da 73 lavoratori dello spettacolo.

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vENEZUELA, LA RIvOLUZIONE DELLA SETTIMA ARTE

di Barbara Meo Evoli

L’hanno chiamata “Hugowood”. Così è stata definita la Cinecittà di Caracas da molti media europei. Secondo questa interpretazione falsa della realtà, negli studi cinematografici statali fondati in Venezuela nel 2006 si realizzerebbero esclusivamente film inneggianti all’attuale presidente Hugo Chávez. Qualcuno ha perfino osato comparare la nuova casa di produzione “Villa del Cine” alle istituzioni create da Stalin e Mussolini. Ma la realtà è ben diversa da quella che rappresentano i grandi network occidentali.Negli ultimi sei anni il governo bolivariano ha deciso di investire nel cinema locale muovendo una battaglia contro la “tirannia di Hollywood” e così ha creato la fondazione “Villa del Cine”, diretta a promuovere lo sviluppo dell’industria cinematrografica venezuelana e la democratizzazione del cinema. Dalle parole ai fatti: da un film all’anno si è passati alla realizzazione di trenta prodotti cinematografici. Oltre a disporre di un maggior finanziamento rispetto al passato, la “Villa del Cine” offre la possibilità di finanziamenti per momenti specifici della realizzazione di un’opera, così facilitando il lavoro dei giovani alle prime armi. Si sostengono, per esempio, separatamente dalla produzione generale, anche la redazione della sceneggiatura o la post-produzione. Oltre alla “Villa del Cine” e ad altri enti statali come il Centro nazionale autonomo di cinematografia (CNAC), il ministero della Cultura o i consigli comunali sparsi su tutto il territorio del paese, ovviamente ci sono anche tante società private pronte a finanziare produzioni audiovisive.Sono stati fatti passi avanti anche nella formazione cinematografica senza però arrivare alla qualità dei percorsi di studio di altri paesi come il Messico o l’Argentina, che in America latina hanno una lunga tradizione di realizzazioni cinematografiche conosciute a livello internazionale. È stata così creata a Caracas la “Fondazione dei nuovi realizzatori” che offre corsi di produzione, montaggio, redazione di

copioni e tanti altri a prezzi molto bassi rispetto a quelli del mercato, dando la possibilità anche a coloro che sono cresciuti nei “barrio” i quartieri poveri abusivi, di formarsi e trovare lavoro nel campo.È innegabile che, grazie a un grande investimento sia nella formazione che nella produzione, sono stati scoperti molti giovani talenti nel cinema, come in molti altri settori. Basta guardare al trentenne regista del lungometraggio Hermano che ha vinto il premio di miglior film, il premio dei critici russi e quello del pubblico al 32esimo Festival internazionale di Mosca. La pellicola finanziata dal CNAC racconta la storia di due fratelli che lottano per avere un futuro migliore in un “barrio” segnato dalla violenza, in cui è molto difficile non cadere nella droga e nell’alcol, non essere tentati dal guadagnarsi un profitto immediato attraverso attività illecite e non vivere nella logica della vendetta che porta a bagni di sangue. Spesso quando le iniziative sono portate avanti dai giovani, questi decidono di cambiarne il modus operandi. E infatti il regista Marcel Rasquin ha deciso di sviluppare, assieme al film, un progetto di “comunicazione per lo sviluppo” tenendo corsi di cinema per le comunità dove è stato realizzato Hermano, costruendo un campo da calcio e promuovendo una “caccia ai talenti”. Rasquin inoltre ha scelto di lavorare con attori professionisti e non professionisti, e infatti Eliú Armas, che ha interpretato il fratello maggiore Julio, viveva in un “barrio” nella periferia di Caracas e non aveva mai visto una cinepresa nella sua vita.Anche Angel Palacio, il regista del documentario sul colpo di stato del 2002 Puente Llaguno: le chiavi di lettura di un massacro è convinto che il mondo del cinema stia cambiando velocemente in Venezuela: «La comunicazione non è un lavoro solo da professionisti – afferma –, deve liberarsi dall’estetica dominante». Secondo Palacio infatti, una delle tante prove della qualità del cinema e della comunicazione alternativa è un documentario che è stato girato dagli

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stessi contadini senza terra senza l’aiuto di nessun regista né di un cameraman professionista, da lui definito come “il migliore lungometraggio su quel tema”.I registi venezuelani non sono i primi a lavorare con attori non professionisti per le parti primarie e secondarie, ma ben prima, nel secondo dopoguerra, i Neorealisti italiani avevano fatto la stessa scelta. Questo movimento culturale aveva prediletto le trame ambientate fra le classi disagiate e lavoratrici ed era stato il simbolo, in un’Italia semi-distrutta, della volontà di riscatto di un popolo. Anche il Venezuela è animato dallo stesso desiderio: rinascere e affrancarsi dalla dipendenza culturale degli Stati Uniti.Negli ultimi sei anni sono stati realizzati per lo più tre tipologie di lungometraggi: docu-film come Swing con Son (2009), Fantasmo (2009), Memorias del gesto (2009), Sin ti contigo (2011); film storici come El Caracazo (2005), Francisco de Miranda (2006), Postales de Leningrado (2007), Zamora (2009), Venezzia (2009) e film che trattano di problematiche sociali come Punto y raya (2005), Secuetro Express (2005), Libertador Morales (2009), Hermano (2010), La Hora Cero (2010), El chico que miente (2011).Oggi le sale del cinema in Venezuela non sono, come descriveva dieci anni fa Román Chalbaud, il regista di El caracazo, «ristoranti dove la gente si ingozza di pop corn e parla al cellulare». Attraverso l’opera lungimirante del governo bolivariano, la mentalità dei venezuelani abituati a vedere esclusivamente film di Hollywood sta cambiando.Dopo gli anni ottanta e novanta caratterizzati da un’esigua produzione cinematografica, a partire dal 2000 il cinema è stato tutto in crescita e si è caratterizzato per una forte componente giovanile e la compresenza di persone di estrazione sociale diversa. Prima del governo Chávez il settore audiovisivo era riservato a pochi eletti, oggi sono tanti gli attori, scenografi, produttori, montatori che provengono da classi poco agiate. Oltre quindi a essere stato democraticizzato l’accesso al cinema, si è reso possibile far conoscere i problemi, le aspirazioni, i timori e le gioie di una grande percentuale della popolazione che vive in luoghi dove prima non si avventuravano le telecamere. A dicembre è stata inoltre approvata una nuova legge del cinema che promuove la distribuzione delle

pellicole venezuelane sul grande schermo imponendo una relazione di diretta proporzionalità fra il numero di spettatori e la permanenza dei film in sala. La normativa ha l’obiettivo non solo di proteggere il cinema nazionale dall’invasione del mercato di produzioni nordamericane, ma anche di rendere possibile la visione, fino a adesso impossibile, di film italiani, francesi, russi e di tanti altri paesi. Bisogna considerare che la proiezione, a parte il piccolo circuito pubblico “Cinemateca nacional”, è tuttora in mano all’oligopolio Cinex-Cines Unidos, che propone un numero molto esiguo di film e quasi esclusivamente statunitensi. Ancora al giorno d’oggi nelle sale cinematografiche di Caracas si possono vedere solo 12 pellicole nordamericane, mentre a Roma se ne possono vedere oltre 30 di diversi paesi del mondo.L’occidente ha criticato fortemente gli studi cinematografici della “Villa del Cine” insinuando che tutte le realizzazioni fossero strumenti di propaganda della politica del governo, ma gli stessi film prodotti dimostrano che si tratta di una notizia faziosa. Basta guardare al recente film Habana Eva in cui la protagonista è una giovane impiegata di una fabbrica tessile statale dell’Avana combattuta fra l’amore per un capitalista venezuelano e un lavoratore cubano. Eva è obbligata a sfornare sempre gli stessi modelli di vestiti, ma sogna di diventare una grande stilista e aprire la propria impresa privata.La “Villa del Cine” è il primo complesso costruito in Venezuela che oltre a possedere l’infrastruttura, le risorse umane e finanziare per produrre film, fornisce anche corsi di scenografia, produzione, montaggio e confezionamento di vestiti d’epoca, insomma possiede tutti gli strumenti per essere indipendente dalle grosse case di produzione statunitensi. Il suo obiettivo è produrre un corpo sostanziale di opere nazionali così da poter definire una nuova forma di fare cinema. Di fatto negli ultimi dieci anni sono stati realizzati numerosi film, prima impensabili, che hanno contribuito alla costruzione di una nuova identità latinoamericana sganciata dall’occidente. Ditemi se questa non è rivoluzione.

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LA NOUvELLE vAGUE ROMENA

di Daniela Mogavero

Un cinema dimenticato in cantine buie, frutto di una distruzione dovuta all’odio e all’abbandono, figlio di un periodo storico difficile e oppressivo. Un cinema “verista”, nel senso più alto del termine, una generazione di cineasti che non rifiuta e non rinnega la propria storia e l’era del Conducator, affrontandola e affondando a pieno le mani in una realtà ormai dissolta che ha lasciato, però, segni tangibili anche nella società di oggi. Un’industria cinematografica ancora scarna, scevra di effetti speciali e tecnologie digitali spinte, ma che racconta con trame semplici e intrecci affascinanti e toccanti, passioni e sentimenti della gente comune. Un cinema apprezzato dalla critica internazionale, ma che lascia ancora tiepido il pubblico, soprattutto in Italia. Tutto questo racchiude il mondo della cinematografia romena, paragonato in più casi al “neorealismo italiano”, ma che cela in sé elementi di genere propri e personalissimi.Al di là dei riconoscimenti pubblici, l’ultimo in ordine di tempo è arrivato al Festival di Locarno, dove la pellicola di Adrian Sitaru, Best Intentino, ha vinto i premi per la miglior regia e il miglior attore protagonista. Non è sfuggito ai critici lo sviluppo progressivo che il cinema romeno ha avuto dagli anni novanta a oggi. Registi come Cristi Puiu (Moartea domnului Lăzărescu – La morte del signor Lazarescu), Cristian Mungiu (4 mesi 3 settimane 2 giorni), Corneliu Porumboiu (A est di Bucarest), Andrei Ujica (L’autobiografia di Nicolae Ceausescu) e Radu Mihaileanu (Train de vie – Un treno per vivere) vengono accolti con favore e curiosità dalle giurie più prestigiose delle kermesse internazionali e in particolare a Cannes sono tra i più apprezzati della nouvelle vague. Basti pensare alla Palma d’oro assegnata proprio a Mungiu per lo struggente 4 mesi 3 settimane 2 giorni nel 2007 o, due anni prima, sempre sulla Croisette, il Prix un certain regard conferito a Cristi Puiu per La morte del signor Lazarescu, una dark comedy che ha fatto il giro del

mondo incassando apprezzamenti anche oltreoceano. Il Washington Post, infatti, lo ha definito “un tour de force nel cinema verità”, il New York Times “il film più convincente degli ultimi anni”, solo per citare alcuni giudizi sulla pellicola, che è stata quella che ha incassato di più in Romania al box office e che è stata la più premiata della storia della Romania. I critici sono concordi nel ritenere la nuova cinematografia romena, quella post-Ceausescu, una vera opera di rinascita. Su trame scarne e passioni forti lavorano registi e attori che fanno parte di una nuova generazione che prende spunto dal contesto post-dittatoriale, dalla libertà ritrovata e dalla voglia di ricostruzione dopo gli anni bui. «So che il mio film è pessimista, ma cosa posso farci? Questa è la vita. Comunque, ho provato a mettere in luce la parte più “leggera” di questa storia che è piuttosto autobiografica», spiega Sitaru parlando, per esempio, del film premiato a Locarno. «Per essere più precisi, il 90% degli eventi qui rappresentati sono parte della mia vita. Così, al fine di raccontare questa storia, ho semplicemente dovuto seguire lo svolgersi di eventi e personaggi; per me è stato molto terapeutico». Ogni cineasta interpreta questi elementi utilizzando il proprio occhio e la propria esperienza ma con una comune sensibilità. Registi come Porumboiu (vincitore della Camera d’Or), però, smentiscono di avere «un unico dogma, ma condividiamo uno stesso gusto cinematografico. Facciamo un tipo di cinema che proviene dalla vita reale, con personaggi che solitamente non vengono trattati, film che parlano della Romania di oggi. Soprattutto cerchiamo di non mistificare, diversamente da quanto avveniva prima della rivoluzione», ha sottolineato il regista in alcune occasioni. Un comune sentire che proviene forse anche dall’età anagrafica dei protagonisti del cinema romeno di oggi: tutti registi tra i trenta e i quarant’anni, frutto del baby-boom seguito alla legge che proibiva l’aborto degli anni sessanta e

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quasi tutti diplomati all’Accademia di Arte teatrale e cinematografica di Bucarest. I temi che vanno per la maggiore nella Romania di oggi e che quindi vengono trasposti sulle pellicole sono la diaspora romena all’estero, figlia della voglia di fuga e di riscatto, e la vita della periferia e della provincia del Paese, luoghi dimenticati ma assolutamente veri e pieni di Storia e storie. Esemplare in questo senso il racconto corale rappresentato da I racconti dell’età dell’oro (2009), cinque episodi girati da altrettanti registi che, in una sorta di Decameron alla romena, ricreano sullo schermo le leggende metropolitane degli ultimi anni della cosiddetta età dell’oro della fine del regime di Ceausescu tra spunti comici e momenti realisti. «Il film vuole essere una insolita storia sugli ultimi anni del comunismo in Romania raccontata dal punto di vista di persone comuni attraverso leggende metropolitane» recita la nota dei registi. «Noi rumeni consideriamo le leggende metropolitane come storie vere tramandate di bocca in bocca. All’epoca del comunismo rappresentavano il maggior tema di conversazione durante le lunghe file per comprare il cibo. L’umorismo è quello che ha tenuto in vita i rumeni durante quegli anni. Il film vuole rievocare in modo nostalgico la nostra gioventù durante gli anni ottanta, attraverso la musica, le abitudini e gli oggetti citando tutti gli stereotipi di quell’epoca».Un altro esempio recente della Nouvelle Vague romena è rappresentato dal film di Anca Damian Crulic, che racconta la storia emozionante e di denuncia di un trentenne accusato ingiustamente di furto durante un viaggio in Polonia. La tecnica, scarna ma assolutamente efficace, è il punto di forza del film che racconta a ritroso la vita del protagonista, che si scopre morto dopo poche scene, a causa dello sciopero della fame intrapreso dopo l’ingiusta carcerazione. Crulic tiene in sé l’essenza del cinema romeno di oggi: tenerezza, amarezza, linguaggio semplice e

diretto e spesa ridotta. Le produzioni romene, infatti, hanno anche questo tratto in comune, il basso costo di produzione, legato sia alla scelta di non utilizzare grandi produzioni e di non ricorrere a effetti speciali, promuovendo la visione diretta della realtà con ciak il più delle volte da presa diretta. Resta il rammarico per quelle centinaia di film realizzati prima della dittatura e all’inizio del Novecento che sono andati perduti. Rimangono solo foto o pochi frame di pellicola, grazie allo sforzo fatto dal 1965 in poi dall’Archivio nazionale del film (ANF) per ricostruire l’oscura storia della cinematografia romena che ha tra i suoi pezzi più rari O noapte furtunoasa (Una notte tempestosa), completato nel 1942, punto di riferimento per l’industria del settore per molti anni. Al di là dei premi e dei film che hanno ricevuto riconoscimenti anche da parte del grande pubblico, bisogna notare che in Italia questo è accaduto solo per Train de vie e in parte per 4 mesi 3 settimane 2 giorni. È indubbio riconoscere al cinema romeno l’appellativo di nuovo fenomeno della cinematografia internazionale, al pari dell’industria del settore iraniana.

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HOLLIWOOD E L’EBREO COMBATTENTE*

di Luigi Bruti Liberati

Quando uscì nel 1948, I giovani leoni era il primo romanzo di Irwin Shaw. Lo scrittore, un convinto antifascista di origine ebraica, si era arruolato volontario nel giugno 1942 e si era congedato nell’ottobre 1945. Era arrivato in Francia poco dopo il D-Day ed era stato testimone delle ultime fasi della guerra.Nei tre anni dopo il suo congedo Shaw lavorò a un romanzo, I giovani leoni appunto, che avrebbe dovuto rappresentare un affresco della guerra europea. Alla sua uscita, nel 1948, l’accoglienza della critica fu buona, ma fu soprattutto il pubblico a decretarne il successo. Entrato subito nella classifica dei bestseller, venticinque anni dopo la sua prima pubblicazione il libro aveva venduto più di due milioni di copie. Proprio per questo grande successo di vendite, il li-bro attirò ben presto l’attenzione delle case cinemato-grafiche. Dopo un inizio un po’ travagliato, nel 1956 un colosso come la Twentieth Century-Fox acquistò i diritti e scelse come regista il famoso Edward Dmytryk. Questi abbandonò una prima sceneggiatura dello stesso Shaw e ingaggiò un altro professionista sotto la sua diretta supervisione. Il risultato fu il grande film I giovani leoni uscito nel 1958 con attori del calibro di Marlon Brando, Montgomery Clift e Dean Martin.La storia che uscì sugli schermi presentava l’epopea della guerra mondiale attraverso le vicende di tre diversi protagonisti che alla fine si ritrovavano sullo stesso campo di battaglia. Sono Noah Ackerman, un giovane e sensibile ebreo-americano, il cinico e disincantato playboy Michael Whiteacre e Christian Diestl, un maestro di sci austriaco arruolato nella Wehrmacht. In questa sede é opportuno soffermarsi sulla figura dell’ebreo Ackerman. Nel suo libro, Shaw ne aveva fatto un personaggio centrale. Il giovane aveva dovuto sopportare persecuzioni e discriminazioni razziali nell’esercito del proprio paese. Questo era

servito a Shaw per denunciare le contraddizioni della società americana alle prese con uno scontro epocale contro il nazismo. La conclusione del romanzo era amara. Ackerman non sfuggiva al destino di tanti suoi confratelli europei e restava ucciso nell’incontro finale con il nazista Christian. Nel suo film Dmytryk volle attenuare questa cupa rappresentazione dell’antisemitismo americano. Mostrò senza infingimenti i tormenti subiti dal giovane ebreo, ma introdusse un lieto fine. In America l’antisemitismo dei superiori di Ackerman veniva scoperto e punito dalle gerarchie militari. In Europa il soldato sopravviveva allo scontro finale e poteva tornare a casa dalla sua famiglia. Una scelta rassicurante, in un momento in cui prevalevano le incertezze della Guerra Fredda e i timori per il pericolo comunista. Peraltro Dmytryk, in un clima politico difficile, riuscì ugualmente a rappresentare sullo schermo un’immagine non convenzionale dell’ebraismo americano e della persecuzione antisemita. Anzitutto nel 1958 il film I giovani leoni violò finalmente una norma non scritta. Gli orrori dei campi di sterminio nazisti non andavano mostrati per non disturbare il nuovo clima di amicizia e alleanza che si era creato con la Repubblica Federale Tedesca. E comunque, il pubblico americano sembrava aver dimenticato cosa fossero stati davvero i nazisti. Nelle scene finali del film Dmytryk, un regista ebreo, provvide a ricordarlo. È il momento in cui il reparto di Ackerman e Whiteacre entra in un lager. Mai sino ad allora gli spettatori avevano visto simili immagini sugli schermi di Hollywood. Resta indimenticabile la scena in cui, apertasi una delle baracche, si fa incontro ai soldati una specie di spaventapasseri. È un fantasma che sorge dal mondo dei morti per guardare in faccia quegli strani esseri viventi. Uomini sani, ben vestiti e ben nutriti che sono il ricordo di ciò che lui era stato un tempo prima di essere travolto dalla macchina infernale dello sterminio nazista. I soldati americani

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e i loro ufficiali, pur temprati dalle battaglie, sono sconvolti.Per realizzare questa scena, che resta a buon diritto nella storia del cinema, il regista aveva girato in un vero lager presso Strasburgo, conservato dai francesi come un memoriale delle persecuzioni naziste. Alcune delle comparse utilizzate in queste sequenze erano stati dei prigionieri di quel campo. In particolare, il cadavere vivente che appare agli occhi degli americani era un ex internato che non si era mai ripreso dal trauma di quell’esperienza. Tutto questo, accentuato dalla fotografia in bianco e nero, dava alla scena un carattere di crudo realismo. Ma Dmytrik, in questo basandosi fedelmente sul libro di Shaw, aveva violato anche un altro tabù. Aveva messo al centro del suo racconto la figura del “fighting Jew”, dell’ebreo combattente Ackerman che si batte sia contro il razzismo a casa che contro i nazisti in Europa. Un’immagine scomoda. Per il pubblico poteva essere accettabile la rappresentazione dell’ebreo come vittima sacrificale di un olocausto che si fa condurre docilmente al macello. Ma vedere sullo schermo un ebreo che ha lo spirito del “vero americano”, duro, energico, coraggioso e capace di sfidare la morte, poteva essere disturbante e mostrare la vacuità di tanti stereotipi antisemiti ancora presenti nella società degli Stati Uniti. Ed è proprio per dare più forza all’immagine del “nuovo ebreo” che Dmytryk decise di fare sopravvivere Ackerman allo scontro finale con il nazista Christian. La strada era aperta per ulteriori riflessioni cinematografiche e non a caso due anni dopo, nel 1960, apparve il kolossal Exodus in cui questa nuova immagine dell’ebreo era direttamente collegata all’epopea della nascita di Israele. Un vero e proprio tributo al coraggio e allo spirito di sacrificio degli ebrei di Palestina e del mondo intero. In Exodus, però, il tema della Shoah e della lotta al nazismo era soltanto accennato. Per vedere di nuovo un ebreo in armi contro il nazismo bisognerà attendere il 1998. È l’anno in cui Steven Spielberg, un regista ebreo particolarmente impegnato sul tema del ricordo della Shoah, uscì con Salvate il soldato Ryan, dove appare il ranger di religione ebraica Stanley Mellish che mostra con sfida e orgoglio la sua stella di David ai tedeschi catturati dopo lo sbarco a Omaha Beach. Peraltro Mellish, un duro combattente, non sfugge al fato dei suoi confratelli europei. Nell’ultima battaglia narrata nel film si batte

come un leone contro l’agguerrita fanteria tedesca e alla fine, in un drammatico corpo a corpo, viene trafitto dalla baionetta del suo avversario. Un ebreo bellicoso dunque, e niente affatto disposto a farsi massacrare docilmente.L’apoteosi di questo tipo di ebreo è stata però rag-giunta nel 2009 da Quentin Tarantino nel suo Inglourious Basterds. Con la geniale intuizione di mettere in campo contro i mostri nazisti due diverse tipologie di protagonisti. I “bastardi”, un gruppo di soldati americani ebrei paracadutati in Francia con l’unico scopo di uccidere tedeschi nel modo più barbaro e crudele, un feroce contrappasso. E Shosanna Dreyfus, una giovane ragazza francese la cui famiglia è stata sterminata dalle SS. L’ebraismo americano e quello europeo sono qui in armi insieme contro Hitler e i suoi accoliti. Alla fine del film i “bastardi” e la ragazza si ritrovano uniti, pur senza saperlo, per compiere la missione suprema e avverare il sogno di ogni ebreo del mondo: uccidere Adolf Hitler. Shosanna è la padrona di un piccolo cinema parigino dove si sta proiettando l’ultimo film di propaganda di Josef Goebbels. Nel cinema è raccolta la “crema” del Terzo Reich. Shosanna ha offerto il suo locale con un preciso scopo. Modificherà la pellicola nella sua parte finale e darà fuoco all’edificio facendo perire i capi nazisti e i loro scherani. Le immagini che lo spettatore di oggi si trova davanti sono esaltanti. Sullo schermo del cinema parigino appare l’immagine finale. Il primo piano dell’eroe tedesco che domanda: «Chi vuole mandare un messaggio alla Germania?». Ed ecco il volto fiero di Shosanna: «Io ho un messaggio per la Germania! Voi state per morire tutti! E voglio che guardiate bene in faccia l’ebrea che vi ucciderà. Io mi chiamo Shosanna Dreyfus e questo è il volto dell’ebrea che vi ucciderà». Mentre il cinema è avvolto nelle fiamme, i due ultimi “bastardi” irrompono nel palco delle autorità e massacrano a colpi di mitra Hitler e Goebbels. Il cinema, pieno di nazisti terrorizzati, urlanti e scalcianti, si polverizza in un’apoteosi finale e liberatoria. Questa fiaba antinazista di Tarantino è senza dubbio la parola finale scritta da Hollywood sul tema del “fighting Jew”.

*Questo articolo riprende, con alcune modifiche, un capitolo del libro di L. Bruti Liberati, Hollywood contro Hitler, Milano, Libraccio, 2010.

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CINEMA ED EBRAISMO

di Moni Ovadia

È impossibile tracciare una storia del cinema prescindendo dall’apporto artistico e dalla vocazione industriale del mondo ebraico. Non credo che ci sia stata un’altra minoranza capace di contribuire in modo tanto determinante allo sviluppo di quella forma d’arte. La celebre Hollywood, la fabbrica dei sogni, in principio fu l’affaire di un pugno di produttori ebrei. Il cinema era un’attività economica di tipo nuovo, permeabile alle diversità, in un momento in cui gli ebrei – negli Stati Uniti – erano sottoposti a forme di discriminazione e ostacolati nell’accesso ai settori economici tradizionali. Ma la presenza ebraica giocò un ruolo fondamentale anche per il cinema espressionista tedesco e risultò determinante nell’affermazione della cinematografia sovietica, radicandosi in aziende statali come la Mosfilm o la Lenfilm. La ragione di questo legame va cercata nell’essenza stessa del grande schermo: ovvero

nel narrare storie, antica specialità ebraica. Non a caso John Huston diceva più o meno: «Se apri la Bibbia a una qualsiasi pagina, c’è già pronta la sceneggiatura». Il cinema, inoltre, è lo spettacolo popolare per antonomasia, nato in un momento in cui la televisione non esisteva e inevitabilmente destinato a interpretare i grandi filoni della comicità e del grottesco. Gratificare i ceti popolari con la visione del potente sbeffeggiato e irriso divenne un elemento fondamentale della nuova arte. Ed è noto come la comicità sia il registro privilegiato di attori, sceneggiatori e registi ebrei, che ancora oggi, negli Stati Uniti, rappresentano l’80-85% dei comici professionisti. Pochi ricordano che il primo film sonoro della storia del cinema, The Jazz Singer con il celeberrimo attore e cantante Al Jolson, racconta una storia ebraica, un vero e proprio rite de passage. La pellicola, infatti,

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73narra la storia di una diversità: dell’ebreo ortodosso che rimarca anche esteriormente la propria differenza. Ma il personaggio del cantore, il figlio del rabbino, è attratto dal mondo rutilante dello spettacolo, al punto da abbandonare la cultura d’origine per provare a radicarsi nella società americana come cantante di varietà: the jazz singer, per l’appunto. Legato alla tradizione e alle origini, il padre si ammalerà di dolore, ma prima di morire, nel giorno dell’espiazione, lo Yom Kippur, il figlio tornerà e intonerà nella sinagoga la preghiera più bella e commovente della liturgia ebraica: il Kol Nidre, “tutte le promesse”.Il film sembra suggerire, e anticipare, ciò che avverrà nella società americana: il costituirsi degli ebrei come imprescindibile componente dello show business e, quindi, della cultura d’oltreoceano. A dispetto dei cliché sulle attività finanziarie, il vero terreno d’eccellenza degli

ebrei è il campo della cultura: sia popolare, sia “alta”. Nel cinema questo processo si palesa con straordinaria evidenza.Quando si pensa all’antisemitismo, cioè a quella sottocultura della ferocia razzista e dell’intolleranza, si tende a non legarlo mai agli USA. In realtà, gli Stati Uniti hanno conosciuto un’ampia diffusione degli orientamenti antisemiti, sostenuti – per esempio – da un grande industriale dell’automobile come Henry Ford. Il cinema non è servito soltanto a raccontare storie, ma ha anche indicato nuove forme di vita e differenti modelli di comportamento. Grazie al registro comico gli ebrei sono riusciti a diventare parte integrante della società americana, partecipando in maniera attiva ai movimenti progressisti e alle grandi battaglie civili. A fronte di una presenza relativamente esigua nella società statunitense, prossima al 2%, il radicamento

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degli ebrei nello show business è impressionante: soprattutto nel musical. Gli autori di grandi song del periodo d’oro, con l’eccezione di Cole Porter e di Hoagy Carmichael, erano ebrei: da Gershwin a Irving Berlin, da Rodgers a Hart e via dicendo. Attraverso il cinema gli ebrei combatterono l’intolleranza nei confronti di tutte le minoranze. Quando il senatore McCarthy, dopo la Seconda guerra mondiale, cominciò la sua “caccia alle streghe”, Hollywood fu colpita in modo violentissimo. Tuttavia in pochi ricordano che quella fu – a tutti gli effetti – una campagna antisemita. Secondo alcune statistiche quasi il 70% delle vittime di McCarthy era costituito da ebrei o mezzi ebrei. Hollywood venne accusata di complicità con i comunisti, perché le pellicole, soprattutto quelle della grande stagione roosveltiana, raccontavano l’ingiustizia sociale o denunciavano benpensantismo e razzismo. Tendenzialmente il cinema mostrerà, al netto di periodi retorici e olografici come quello della Seconda guerra mondiale, l’altra

faccia dell’America. E così gli ebrei, come intellettuali, come intellighenzia dei partiti progressisti e dei movimenti per i diritti civili, svolgeranno un ruolo cruciale nell’industria cinematografica in vista di una trasformazione della società. Ed è proprio mediante l’umorismo che si faranno conoscere e diventeranno familiari al mondo americano. L’elenco degli ebrei che, attraverso lo spettacolo, sono entrati nelle case statunitensi, come se fossero più americani degli stessi americani, è lunghissimo e comprende – tra gli altri – i nomi di Danny Kaye, Jerry Lewis, Mel Brooks, Woody Allen fino ad arrivare a Ben Stiller.Questa capacità di ridere anche di sé stessi assumerà una funzione strategica e la mentalità anti-idolatrica, auto-derisoria, diventerà una caratteristica dell’America tout court. Se si può ridere degli ebrei con gli ebrei, allora è possibile ridere anche di sé. L’uso sociale della narrazione, finalizzato alla denuncia delle ingiustizie d’una società in tempestosa trasformazione, è tipica del

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melting pot in cui provenienze diverse si sono mescolate tra loro. Un ruolo altrettanto importante fu ricoperto dall’intellighenzia ebraica in Unione Sovietica. Gli ebrei costituirono una delle componenti più vitali, attive, dinamiche della Rivoluzione bolscevica e – più tardi – diedero un apporto fondamentale all’industria culturale dell’URSS. Il popolo ebraico è il popolo del Libro. Esso è legato alla cultura, alla narrazione, alle storie che permettono all’uomo di evolvere, crescere, capire, interpretare. Tutto questo doveva necessariamente trovare nel cinema, forma espressiva affrancata dalla moralità dei benpensanti, un perfetto ambito di ricezione. Il cinema è un luogo adatto agli spiriti eccentrici, irregolari, e per tutto il corso della diaspora, nello sradicamento dai piccoli villaggi e dai ghetti, tra le ombre della catastrofe nazista, nel dopoguerra e fino agli anni settanta, gli ebrei sono stati esseri eccentrici. Cinema, teatro, musica rappresentano attività adatte a chi non deve mostrare pubbliche virtù, nascondendo

vizi privati. All’attore o al regista sono consentiti comportamenti e condotte che non sono consentiti ad altri. Ma anche l’industria cinematografica è eccentrica: gode di ampi margini di movimento e di libertà, descrive la società denunciandone storture e difetti. Per questo gli ebrei non ebbero difficoltà a fondare l’industria cinematografica e a diventarne – per diversi decenni – i principali interpreti. Le tracce di quella presenza sono visibili ancora oggi. Basta guardare un qualsiasi film hollywoodiano e scorrere i nomi nei titoli per trovare provenienze ebraiche: soprattutto quelle del centro-est Europa. Il cinema è un mezzo ideale per indicare verità scomode ai ceti popolari, imbastendo narrazioni aspre e proponendo – mediante la denuncia o l’happy ending – modelli sociali differenti. E così il raccontar storie, l’umorismo, il gusto del paradosso resero gli ebrei protagonisti leggendari della storia del cinema.

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pubblici. Mi riferisco, più in generale, a una idea – e quindi a una politica – di trasformazione di tutto ciò che produce cultura in “azienda”, a una idea – e a una politica – di dismissione di fatto del ruolo dello Stato in favore del mercato come “filtro regolatore”, ad una idea di cultura come “grande evento” da elargire ogni tanto – le notti bianche ne sono un esempio lampante. Una politica i cui assi portanti sono stati la concentrazione del potere decisionale ed economico in pochissime mani e la privatizzazione di fatto dei luoghi di formazione, produzione e fruizione della cultura.Così i governi Berlusconi si sono trovati la strada già aperta per quell’opera di privatizzazione e mercificazione della cultura e, in essa, del cinema, che tanta devastazione ha provocato. Per capire il perché di un attacco di tale e inedita gravità alla cultura bisogna avere bene chiaro che questo non è motivato né determinato dalla crisi economica e dalla “necessità” di tagli (i circa 200 milioni tolti al Fondo per lo spettacolo hanno annientato la produzione artistica ma non sono certo stati determinanti per la crisi economica), ma rientra esattamente nell’idea tutta strategica di demolizione della democrazia, del pluralismo e delle conquiste dei lavoratori. Questo governo ha cioè ben chiara l’importanza della cultura come strumento fondamentale di crescita individuale e collettiva, di conoscenza della realtà, di formazione del “senso comune” e di sistemi di valore. E ha ben chiaro che il cinema, tra tutte le forme di produzione culturale e artistica, è forse il mezzo più potente e meno controllabile, proprio per le sue caratteristiche: forma d’arte e insieme industria, ma “industria di prototipi”. Ogni film è un’opera e un’impresa a sé stante, unica e irripetibile. Per controllarla devi impedirne o condizionarne la nascita o non farla circolare. Per questo lo si combatte con tanta violenza e spregiudicatezza. Nei primi governi in maniera più “soft”, varando una legge sul cinema che condizionava l’attribuzione dei fondi pubblici non più soltanto alla

CINEMA, BENE COMUNE

di Stefania Brai

È difficile parlare delle politiche per il cinema – di quelle che bisognerebbe mettere in atto, a mio parere – senza parlare prima delle politiche attuate da questo governo nei confronti della cultura e quindi del cinema: senza avere presente cioè lo stato delle cose che vogliamo cambiare. Ma per fare questo bisogna anche avere bene presenti gli errori compiuti dai governi di centro-sinistra e, per essere ancora più chiari, le politiche veltroniane nei confronti della cultura (e non solo, ovviamente). Mi riferisco alla trasformazione delle istituzioni culturali pubbliche in fondazioni di diritto privato per dare loro “efficienza, efficacia, economicità”, trasformazione che somiglia molto a una privatizzazione e che consente – per esempio nel consiglio di amministrazione della Scala di Milano – la presenza di imprenditori, banchieri, commercianti e politici e di un solo “addetto ai lavori”: Stéphane Lissner, in quanto direttore artistico. Mi riferisco all’eliminazione di qualunque rappresentanza delle forze culturali, sociali e produttive dalla gestione di quelli che un tempo erano “luoghi pubblici” della cultura, riducendo le nomine delle istituzioni a un fatto “privato”, in senso oggettivo e soggettivo, e di esclusiva competenza dei governi, cioè dei ministri di turno. I lavoratori di quei settori, i lavoratori della cultura, non hanno motivo di avere voce in capitolo. Sono state così, nei fatti, azzerate le grandi riforme realizzate all’insegna della democratizzazione e della partecipazione nella metà degli anni settanta: Biennale di Venezia, RAI, Enti cinematografici di Stato.Mi riferisco – per quello che riguarda in particolare il cinema – alla liberalizzazione delle licenze per le sale cinematografiche, che ha permesso l’espansione senza controllo sul territorio nazionale dei multiplex (le “case del cinema americano”, come le chiama Fernando Solanas) e la conseguente morte delle cosiddette “sale di città”, le “case” del cinema italiano ed europeo. Ancora, e sempre per il cinema, la trasformazione delle “film commission” – nate sui territori per fornire servizi alle produzioni – in strutture private che gestiscono soldi

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qualità dell’opera cinematografica, ma a dei cosiddetti “parametri di mercato”. Si instaurava così il famigerato “reference system” in base al quale avrebbero potuto ottenere finanziamenti solo quelle opere i cui registi, sceneggiatori, attori, produttori, costumisti, scenografi, direttori della fotografia avevano partecipato a film con grandi incassi di mercato. Ma questo non è stato sufficiente a uccidere un cinema indipendente e d’autore e quindi iniziano prima gli attacchi di Brunetta («il mercato deve essere “la medicina amara” che il mondo dello spettacolo deve ingoiare) e poi la scure delle diverse finanziarie ai fondi per lo spettacolo e per il cinema». La realtà di oggi parla di una produzione cinematografica indipendente messa in ginocchio dalle politiche di questo governo. In termini reali il Fondo unico dello spettacolo dal 1985 (anno in cui è stato istituito) a oggi è diminuito del 51% e la quota per il cinema è diminuita del 64% (vorrei ricordare, per avere ben chiare le scelte politiche degli ultimi governi, che la spesa militare dal 2000 a oggi è aumentata del 49%). I fondi del FUS riservati al cinema per il 2011 ammontano a 75,8 milioni di euro e dovrebbero servire a finanziare la produzione, la promozione (festival, Biennale di Venezia, Centro sperimentale di cinematografia, Cinecittà-Luce, associazionismo, promozione all’estero, eccetera) e la distribuzione. In Francia solo per il cinema il finanziamento pubblico è stato di 576 milioni nel 2010, di 750 milioni nel 2011.In Italia si producono mediamente 100-120 film l’anno (di cui solo 60 hanno un’uscita “nazionale”, almeno sulla carta), in Francia 230. In Italia si staccano, sempre mediamente, 100 milioni di biglietti l’anno, in Francia più di 200 milioni.Per uscire da questa situazione la richiesta unanime del mondo del cinema e della politica (quella all’opposizione, ovviamente) è una legge di sistema, che affronti cioè tutti i nodi e i passaggi: dall’ideazione, alla produzione, alla distribuzione, all’esercizio, alla promozione.

Fin qui, appunto, l’unanimità. Se poi però si entra nel merito delle soluzioni concrete iniziano a volte i distinguo a volte e molto più spesso le ambiguità. E su queste ambiguità io credo occorra fare molta chiarezza. Per capire, per misurare le differenze, per confrontarci realmente, ma soprattutto per non rischiare di ritrovarci ancora una volta ad appoggiare programmi generici e quindi apparentemente condivisibili, ma che in realtà per essere attuati sottintendono la necessità di scelte politiche ben precise e sulle quali non c’è affatto unanimità, perlomeno a mio parere.Provo quindi a elencare i nodi di fondo da sciogliere e le scelte sulle quali occorre pronunciarsi con chiarezza. E per maggiore chiarezza dico che le proposte che io condivido in pieno sono quelle elaborate dalla parte più attiva e fattiva del cinema italiano (ma non condivise da tutta la politica) nel seminario promosso dalle Giornate degli autori alcuni anni fa, ma tutt’ora validissime.Il primo riguarda la filosofia di fondo, l’anima di qualunque testo di legge: l’intervento dello Stato e i finanziamenti pubblici. Abbiamo davvero sgombrato il campo dal concetto di assistenzialismo? Siamo davvero tutti convinti che la cultura sia non solo un bene comune ma anche un diritto inalienabile e come tale ambito strategico di investimento pubblico? Strategico non solo per lo sviluppo economico del nostro paese, ma strategico per lo sviluppo culturale e dunque sociale che produce. Strategico per la democrazia. Siamo davvero tutti convinti che solo l’investimento pubblico può consentire la nascita di opere fuori dai meccanismi del mercato, consentendo un reale pluralismo culturale e produttivo e quindi una reale circolazione delle opere e delle idee? Che, infine, dalla crisi si esce non con più mercato ma con più Stato e più cultura? Non credo: molte ancora sono le voci politiche e culturali che sostengono – a volte sommessamente, a volte più apertamente – che il cinema deve trovare solo sul mercato le sue fonti di finanziamento. Ma da qui, da questa “scelta” dipendono e discendono tutte le altre.

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Secondo. Il Centro Nazionale di Cinematografia. Anche qui un’apparente unanimità, per lo meno sul “titolo”. Il Centro Nazionale di Cinematografia, sul modello francese, dovrebbe essere un organismo autonomo dal governo, indipendente nella gestione economica e negli indirizzi culturali, gestito dalle forze del settore e che assorbe tutte le attuali funzioni della direzione generale per il cinema del ministero dei Beni e delle Attività Culturali. Il Centro gestirà tutte le risorse provenienti sia dalla fiscalità generale (FUS, lotto, lotterie e quant’altro) che dalla fiscalità di scopo. In cosa consistono le apparenti convergenze e le reali divergenze? Sulla forma giuridica del CNC: se deve essere ente di diritto pubblico, come io credo, oppure no. Sulla sua reale autonomia dal governo: se si propone, come alcuni propongono, che il direttore generale sia nominato dal ministro di turno – al quale deve rispondere di tutto – e non dal consiglio di amministrazione del CNC è difficile sostenere che si vuole l’autonomia del

Centro. Se contemporaneamente non si indica nel testo di legge che il consiglio di amministrazione è formato da rappresentanti delle forze produttive, culturali e sociali del settore, è difficile negare che in realtà si sta proponendo un organismo fotocopia del ministero e per di più in formato “privatistico” e quindi ancora meno democraticamente controllabile.Terzo. La fiscalità di scopo. È un prelievo, chiesto da tutto il mondo del cinema, su tutti i soggetti che a vario titolo e con diverse tecnologie utilizzano le opere cinematografiche traendone profitti. In Francia è un sistema ormai stabile che viene applicato a tutta la filiera che utilizza il cinema (sala, free, pay tv, dvd, TV, telefonia, internet, eccetera). Quali sono le forze politiche che si impegnano a toccare interessi tanto forti? Anche questa è una scelta politica di fondo e va esplicitata con chiarezza, adesso.Quarto. Finanziamenti selettivi e finanziamenti automatici. Siamo davvero tutti d’accordo nel sostenere

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che la quota maggiore di investimento va finalizzata al finanziamento selettivo e che questo riguarda non solo le opere prime e seconde (le terze non arriverebbero mai) ma a tutti quei film che senza intervento pubblico non potrebbero mai nascere? E siamo davvero tutti d’accordo che la parte automatica non può essere erogata in base agli incassi e cioè al mercato – come quasi tutte le proposte di legge prevedono – perché così i ricchi sarebbero sempre più ricchi? Perché così sopravviverebbero solo alcune, poche, grandi produzioni? Ultimo, ma non certo di importanza, l’antitrust (parola che in questi anni non si è quasi potuta pronunciare, anche a sinistra). Se si vuole «un mercato realmente dinamico dal punto di vista della concorrenza e pluralistico nei contenuti… è necessario impedire un’integrazione verticale che consenta di assommare per ciascun soggetto proprietario, più di due attività tra le seguenti: emittenza radiotelevisiva, produzione,

commercializzazione, diffusione, esercizio. È necessario assicurare la circolazione delle opere cinematografiche limitando, su base annua, la quota di mercato di una società di distribuzione e la sua simultanea presenza sugli schermi su scala nazionale e territoriale» (dal “seminario delle Giornate degli Autori”). Tradotto: RAI e Mediaset non possono essere in contemporanea emittenti radiotelevisive, produttrici e distributrici di film, proprietarie di sale cinematografiche. Se non si fa questo, se si continua ad accettare un mercato “drogato” come quello attuale, si impedisce non solo una reale libertà d’espressione ma si lede nei fatti il diritto di ogni cittadino ad accedere alla cultura.È in questo momento di crisi del paese, di una crisi così grave dal punto di vista economico, sociale e culturale che la sinistra deve assumersi la responsabilità di indicare con chiarezza quali sono gli interessi e i diritti che si impegna a difendere. Quale progetto di società vuole andare a costruire.

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3° ELENCO SOSTENITORI 2011ALESSANDRIAIl Libraccio via Milano, 32/A 15121 Tel. 0131 266077

ANCONALibrerie Feltrinelli c.so Garibaldi, 35 60121 Tel. 071 2073943

ASCOLI PICENOLibreria Rinascita di Giorgio Pignotti piazza Roma, 7 63100 Tel. 073 6259653

BARILa Feltrinelli Libri e Musica via Melo, 119 70121 Tel. 080 5207501

BENEVENTOAlisei libri s.r.l. viale dei Rettori, 73/f 82100 Tel. 082 4317109

BERGAMOLibreria Fassi l.go Rezzara, 4/6 24122 Tel. 035 220371Il Libraccio via San Bernardino, 34/C Tel. 035 221182Il Libraccio via Europa, 9 24040 c/o Le Vele Curno Tel. 035 462953

BOLOGNALibreria Mel Bookstore via Rizzoli, 18 40125 Tel. 051 220310Librerie Feltrinelli p.zza Ravegnana, 1 40126 Tel. 051 266891Librerie Feltrinelli via dei Mille, 12/a/b/c 40121 Tel. 051 240302Librerie Feltrinelli p.zza Galvani, 1H 40124 Tel. 051 239990

BOLZANOLibreria Mardi Gras via Andreas Hofer, 4 39100 Tel. 0471 301233

BRESCIALa Feltrinelli Libri e Musica c.so Zanardelli, 3 25121 Tel. 030 3757077Il Libraccio corso Magenta, 27/d 25121 Tel. 030 3754342

CAGLIARILa Feltrinelli Village via della Serra, 20

Centro Comm. Le Vele Quartucciu 09044 Tel. 070 8801001

CASERTALibrerie Feltrinelli c.so Trieste, 7 81100Tel. 082 3279090

CATANIALa Feltrinelli Libri e Musica via Etnea, 283/287 95125 Tel. 095 3529001

CESENALibrerie Feltrinelli p.zza della Libertà,4 Cesena (FC) 47521

COMOIl Libraccio NOSEDA via Cantù, 51 22100 Tel. 031 263051Il Libraccio via Giulini, 10 22100 Tel. 031 272458

COSENZALIBRERIA UBIK via Galliano, 4 87100 Tel. 0984 1810194

FERRARALibreria Mel Bookstore p.zza Trento/Trieste (pal. S. Crispino) 44100 Tel. 0532 241604Librerie Feltrinelli via Garibaldi, 30/a 44121 Tel. 0532 248163

FIRENZELibrerie Feltrinelli via De’ Cerretani, 30/32r 50123 Tel. 055 2382652Libreria Mel Bookstore via De’ Cerretani, 16/R 50123 Tel. 055287339

FOGGIALibreria Ubik piazza Giordano, 76 71121 Tel. 0881 587853

FOLIGNOLibreria Carnevali via Mazzini, 47 06034 Tel. 0742 353174

GENOVALa Feltrinelli Libri e Musica S.r.l. via Ceccardi, 16-24 rossi 16121 Tel. 010 573331Il Libraccio p.zza Rossetti, 2r 16129 Tel. 010 532503Il Libraccio via Scaniglia, 21R 16151

Tel. 010 468524Il Libraccio corso Giannelli, 2 16043 Chiavari Tel. 0185 598378

GORIZIAProspettive Libreria via Rastello, 59 34170 Tel. 0481 281683

LECCELibreria Liberrima (Socrate S.r.l) Corte dei Cicala, 1 73100 Tel. 0832 242626

LUCCALIBRERIA UBIK via Fillungo, 137/139 55100 Tel. 0583 998041

MACERATALibrerie Feltrinelli c.so della Repubblica, 4/6 62100 Tel. 0733 280216

MANTOVALibreria Mel Bookstore via Verdi, 50 Tel. 0376288751

MESTREFeltrinelli Libri e Musica p.zza XXVII Ottobre, 1 (Centro Le Barche) 30175 Tel. 041 2381311

MILANOAnteo Service via Milazzo, 9 20121 Tel. 02 6597732La Cerchia s.r.l. via Candiani, 102 20158 Tel. 02 39314075La Feltrinelli Libri e Musica c.so Buenos Aires, 33/35 20124 Tel. 02 2023361Libreria CLUP SOCIETA’ COOPERATIVA c/o Politecnico di Milanovia Ampere, 20 20133 Tel. 02 70634828Libreria Hoepli via Hoepli, 5 20121 Tel. 02 86487264Libreria Popolare di via Tadino via Tadino, 18 20124 Tel. 02 29513268Librerie Feltrinelli via Manzoni, 12 20121 Tel. 02 76000386Il Libraccio via Arconati, 16 20135 Tel. 02 55190671Il Libraccio via Candiani, 102 20158 Tel. 02 39314075Il Libraccio

Alemagna Nicolò 10,00 euro Amati Raimondo 300,00 euro Baglio Aurelio 15,00 euro Bellosi Piero 25,00 euro Bettiol Gino 25,00 euro Bini Guido 40,00 euro Boiardi Rino 15,00 euro Canducci Nello 15,00 euro Carulli Michele 15,00 euro Caruso Giuseppe 15,00 euro Casero Renza 15,00 euro Chiarlone Fabrizio 35,00 euro Chiodi Egidio 5,00 euro Cignitti Nazzareno 15,00 euro Ciugini Fernando 5,00 euro Cuscini Orario 5,00 euro Di Tommaso Angelina 15,00 euro Francesconi Gualtiero 15,00 euro Folci Arturo 15,00 euro Folloni William 10,00 euro Garbini Adriano 10,00 euro Ghilardi Bruno 5,00 euro Gitto Antonino 5,00 euro Giuliano Francesco 20,00 euro Giusti Alvaro 15,00 euro Grippo Angelo 5,00 euro Hrovatin Stanka 65,00 euro Lazzaretti Egisto 15,00 euro Luoni Angelo 15,00 euro Manzon Vincenzo 15,00 euro Mariani Orlando 15,00 euro Marsiglio Zini Elda 15,00 euro Mazzali Valter 15,00 euro Montanucci Fabio 15,00 euro Morrone Francesco Paolo 15,00 euro Nicolini Luigi 25,00 euro Papi Fulvio 15,00 euro Peratello Giuseppe 15,00 euro Reali Mario 100,00 euro Riv Giordano 15,00 euro Sacchi Cristina 15,00 euro Salaris Carlo 50,00 euro Scarin Paolo 5,00 euro Schiavon Carlo 5,00 euro Sorci Gino 10,00 euro Vincenzi Andrea 5,00 euro Visco Gilardi Leonardo 40,00 euro Zangirolami Sergio 5,00 euro

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IL C

ALEN

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via Corsico, 9 20144 Tel. 02 8323230Il Libraccio via S. Tecla, 5 20122 Tel. 02 878399 – 02 878699Il Libraccio via Veneto, 22 20124 Tel. 02 6555681Il Libraccio viale Romolo, 9 20143 Tel. 02 89410186Libreria Cuesp c/o Facoltà di Scienze politiche via Conservatorio, 7 20122 Tel. 02 781813Libreria Utopia via Moscova, 52 20121 Tel. 02 29003324Libreria Aleph p.zza Lima 20124 Tel. 02 29526546Cuesp/IULM via Carlo Bo, 8 20143 Tel. 02 89159313

MODENALibrerie Feltrinelli via Cesare Battisti, 17 41121 Tel. 059 222868

MONZAIl Libraccio p.zza Indipendenza, 4 20052 Tel. 039 323412Il Libraccio via Vittorio Emanuele, 15 20052 Tel. 039 3900433

NAPOLILa Feltrinelli Express (Int. Stazione F.S.) varco c.so Arnaldo Lucci 80143 Tel. 081 2252881La Feltrinelli Libri e Musica via Cappella Vecchia, 3 (PIANO MENO 2) 80121 Tel. 081 2405401Librerie Feltrinelli via T. D’Aquino, 70 80144 Tel. 081 5521436

NOVARALibreria Mel Bookstore Corso Italia, 21/25 28100 Tel. 0321331458

PADOVALibrerie Feltrinelli via San Francesco, 7 35121 Tel. 0498754630Libreria Mel Bookstore via Martiri della Libertà, 5 35100 Tel. 0498360584

PALERMOBroadway Libreria dello Spettacolo via Rosolino Pilo, 18 90139 Tel. 091 6090305

La Feltrinelli Libri e Musica via Cavour, 133 90133 Tel. 091 781291

PARMALibrerie Feltrinelli via della Repubblica, 2 43121 Tel. 0521 237492

PAVIALibrerie Feltrinelli via XX Settembre, 21 27100 Tel. 0382 33154

PERUGIALibrerie Feltrinelli c.so Vannucci, 78/82 06121 Tel. 075 5726485Libreria Grande di Calzetti e Mariucci via della Valtiera, 229/L/P Ponte S. Giovanni (PG) 06135 Tel. 075 5997736

PISALibrerie Feltrinelli c.so Italia, 50 56125 Tel. 050 24118Il Libraccio via Del Carmine ang. Della Foglia 56125 Tel. 050 503163

PRATOLibrerie Feltrinelli via Garibaldi, 92/94A 59100 Tel. 0574 29334

RAVENNALibrerie Feltrinelli via IV Novembre, 7 48121 Tel. 0544 34535

REGGIO EMILIAAssociazione MAG 6 via Vincenzi, 13/a 42122 Tel. 0522 430307

RICCIONESAVE s.r.l. v.le Ceccarini c/o Palariccione 47838 Tel. 0541 1812000

ROMAARION MONTECITORIOp.zza Montecitorio, 59 00186Tel. 06 6781103La Feltrinelli Librerie via del Babuino, 39\40 00187 Tel. 06 36001842La Feltrinelli Libri e Musica p.zza Colonna, 31/35 (centro commerciale) 00187 Tel. 06 69755001La Feltrinelli Libri e Musica v.le Libia, 186 00199

Tel. 06 8622611La Feltrinelli Libri e Musica Largo di Torre Argentina, 5/10 00186 Tel. 06 68663267Librerie Feltrinelli via V.E. Orlando, 78\81 00185 Tel. 06 4870171Libreria il Corsarovia Macerata, 46Tel. 06 97603760Libreria L’Eternauta via Gentile Da Mogliano, 184 00176 Tel. 06 27800534 Libreria del Cinema via dei Fienaroli 31d, 00153 Tel. 065817724 Fax: 0697251494Librerie Mel Bookstore via Modena, 6/8 00187 Tel. 064885405Libreria Asteriscoviale colli portuensi 379 00151 Tel. 0665740992

SALERNOLa Feltrinelli Libri e Musica c.so V.Emanuele, 230 84122 Tel. 089 225655

SASSARILibreria Internazionale Koinè via Roma, 137 07100 Tel. 079 275638

SAVONAIl Libraccio c.so Italia, 235r 17100 Tel. 019 805287

SIENALibrerie Feltrinelli via Banchi di Sopra, 64\66 53100 Tel. 0577 44009

TORINOLa Feltrinelli Libri e Musica p.zza Comitato Liberazione Nazionale, 251 10121 Tel. 011 5620830Libreria Comunardi di Barsi Paolo via Bogino, 2 10123 Tel. 011 19785465Librerie Feltrinelli p.zza Castello, 19 10123 Tel. 011 541627Il Libraccio via Ormea, 134/B 10126 Tel. 011 6670325

TRENTOLa Rivisteria s.n.c. via San Vigilio, 23 38122 Tel. 0461 986075

TREVISOLibrerie Feltrinelli

via Canova, 2 31100 Tel. 042 2590430

TRIESTELa Feltrinelli Libri e Musica via Mazzini, 39 34122 Tel. 040 630310Libreria Einaudi di Paolo Deganutti via Coroneo, 1 34133 Tel. 040 634463

UDINELibreria Friuli S.a.s. di GianCarlo Rosso via dei Rizzanti, 1 33100 Tel. 043 221102Libreria R. Tarantola di G. Tavoschi via V.Veneto , 20 33100 Tel. 043 2502459

VARESELibrerie Feltrinelli c.so Aldo Moro, 3 21100 Tel. 0332 282182Il Libraccio p.zza XX settembre, 2 21100 Tel. 0332 282333Il Libraccio via Bonsignori, 9 00163 Busto Arsizio Tel. 0331 321991Il Libraccio via Rizzoli, 18 40125 Tel. 051 2960476

VENEZIALibreria LT2 Toletta S.r.l. Dorsoduro/Toletta, 1214 30123 Tel. 041 5229481

VERONALibreria Rinascita corso Porta Borsari, 32 37121 Tel. 045 594611

VICENZAGalla Libreria corso Palladio, 11 36100 Tel. 044 4225200

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Il premio Nobel per la Fisica russo Zhores Alfe-rov, collaboratore e amico de Il Calendario del Popolo, massimo esperto mondiale di ener-gia solare e pannelli fotovoltaici, ha nominato l’editore Sandro Teti rappresentante in Italia dell’Università dell’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo, di cui Alferov è rettore. Sandro Teti, che già ricopriva il ruolo di direttore della filiale italiana della Fonda-zione Alferov per l’Istruzione e la Scienza di San Pietroburgo, si occuperà delle re-lazioni istituzionali dell’università in Italia. Zhores Alferov, 81 anni, è il più anziano de-putato della Duma della Federazione Rus-sa, eletto con il Partito Comunista; è Vice Presidente dell’Accademia delle Scienze e rettore non solo della già citata Università dell’Accademia delle Scienze di San Pietro-burgo, ma anche dell’Istituto Ioffe, il più gran-de laboratorio di ricerca di fisica al mondo. Sandro Teti Editore ha pubblicato nel 2006 la sua autobiografia, Scienza e Società.In basso, il logo dell'Università seguito da quello della Fondazione Alferov Italia.

Il Premio Nobel Alferov descrive, in questo libro di memorie, il panorama scientifico sovietico e postsovietico attraverso i suoi incontri con scienziati di fama mondiale e con uomini politici di grande levatura. È tra i lea-der mondiali nella ricerca sull’energia solare. I suoi innovativi pannelli a concentrazione ad altissimo rendimento sono già in produzione, anche in Italia. Il professore, fortemente impegnato nel sociale e nella politica, fin dagli anni ottanta, inizialmente come membro del Soviet supremo dell’Urss, poi come deputato della Duma – di cui è decano – si è battuto e si batte in favore della scienza e della ricerca. Nei primissimi anni novan-ta, quando i contributi statali per la scienza vennero ridotti di ben trenta volte e gli stipendi dei ricercatori furono pressoché azzerati dall’iperinfla-zione, Alferov fece di tutto per far sopravvivere il famoso Istituto Ioffe, il più grande istituto di fisica al mondo, che dirige da oltre venti anni, riuscendo a ottenere addirittura diverse commesse dal Pentagono. Vice presidente dell’Accademia delle Scienze della Federazione Russa, Alferov è consi-derato uno dei padri dell’informatica, di Internet e della telefonia mobile, per le sue ricerche nel campo dei semiconduttori, che gli sono valse il premio Nobel per la Fisica nel 2000. Scienza e Società, ampiamente illustrato, descrive cinquant'anni di storia della scienza e della politica sovietica e russa attraverso le vicende personali e l'esperienza di vita del professore.

COMUNICAZIONI AI LETTORI

Алфёровский фонд

Prezzo: 20 € Pagine 331

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Il maggio scorso è mancato prematuramen-te il nostro autore e amico Roberto Morrione. La sua carriera, tutta interna alla RAI, inizia nel 1962, quando da giovane giornalista entra subito a Tv7 chiamato da Enzo Biagi. Questi lo porta poi con sé anche al Tg1, dove Morrione vive la sua stagione più intensa e importante, fino al 1992. Successivamente è una delle colonne portanti del glorioso Tg3 di Sandro Curzi, quindi vicedirettore del Tg2.Il suo percorso continua in Rai International, e nel 1999 fonda RaiNews24, di cui è il pri-mo, storico direttore; qui coniuga successo di pubblico e qualità dell’informazione come pochi altri hanno saputo fare in televisione. Negli ultimi anni, nonostante la grave ma-lattia, è stato attivissimo alla testa di Libera Informazione, da lui stesso fondata, parte della rete di associazioni di Libera guidata da Don Ciotti. Partecipa senza sosta a incontri e dibattiti, senza smettere mai di scrivere sui temi della legalità, della libertà dell’informa-zione e della lotta alle mafie.Il Calendario lo ricorda con grande affetto e commozione, in particolare per avere contri-buito al numero dedicato ai sessantacinque anni della nostra rivista – che conosceva e sosteneva da molti anni – con uno scritto di grande lucidità e spessore, inviatoci quando già la malattia lo aveva ormai molto provato. Nasce ora un premio di giornalismo televisi-vo dedicato all’inchiesta investigativa, il pre-mio “Roberto Morrione”, a cui diamo ampio spazio in questa pagina. Auguriamo a que-sto premio di affermarsi e di conquistare lo stesso rispetto che riceveva il giornalista di cui porta il nome.

Il Premio "Roberto Morrione" e’ rivolto ai giovani giornalisti, free lance, studenti, volontari dell'informazione ed ha l'obiettivo di promuovere, sostenere e incentivare concretamente la realizzazione di inchieste televisive di giornalismo investigativo nel nome di Roberto Morrione che, nella sua lunga carriera di giornalista, ha sostenuto con forza l'importanza dell'inchiesta per restituire

un contesto alle notizie e far comprendere i fatti. I tutor dei �nalisti saranno tre grandi giornalisti d’inchiesta:

Ennio Remondino, Sigfrido Ranucci, Maurizio Torrealta.

L’inchiesta premiata sarà trasmessa da Rainews. La premiazione si svolgerà durante le giornate del Premio Ilaria Alpi.

Premio Tvper il giornalismo investigativo

www.premiorobertomorrione.itIN COLLABORAZIONE CON: LIBERAINFORMAZIONE.ORG, ARTICOLO21, FNSI, USIGRAI, MISTERIDITALIA.IT

MEDIA PARTNER: INTERNAZIONALE, IL CALENDARIO DEL POPOLO

COMMUNICATIONS

Il Premio "Roberto Morrione" e’ rivolto ai giovani giornalisti, free lance, studenti, volontari dell'informazione ed ha l'obiettivo di promuovere, sostenere e incentivare concretamente la realizzazione di inchieste televisive di giornalismo investigativo nel nome di Roberto Morrione che, nella sua lunga carriera di giornalista, ha sostenuto con forza l'importanza dell'inchiesta per restituire

un contesto alle notizie e far comprendere i fatti. I tutor dei �nalisti saranno tre grandi giornalisti d’inchiesta:

Ennio Remondino, Sigfrido Ranucci, Maurizio Torrealta.

L’inchiesta premiata sarà trasmessa da Rainews. La premiazione si svolgerà durante le giornate del Premio Ilaria Alpi.

Premio Tvper il giornalismo investigativo

www.premiorobertomorrione.itIN COLLABORAZIONE CON: LIBERAINFORMAZIONE.ORG, ARTICOLO21, FNSI, USIGRAI, MISTERIDITALIA.IT

MEDIA PARTNER: INTERNAZIONALE, IL CALENDARIO DEL POPOLO

COMMUNICATIONS

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Page 88: Il Calendario del Popolo - Venezuela, la rivoluzione della settima arte

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di Vo Nguyen Giap

alla FIERA DELL'EDITORIA DI ROMASala Diamante – 7 dicembre, ore 19:00

intervengono:

MILENA GABANELLIALESSANDRO POLITI

TOMMASO DE LORENZIS SANDRO TETI

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"INTERVISTA AL CINEMA" – PRESENTAZIONESala Rubino – 9 dicembre 2011, ore 19:00

intervengono:

Luciana CASTELLINAMimmo CALOPRESTI

Sandro TETI

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