Il badante

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Simone Scala, fantasy contemporaneo. Edmondo Cipolla vive da sempre in compagnia di sua madre, chiamata da tutti la Bersagliera per i suoi trascorsi militari, in un immaginario e minuscolo paesino di montagna, Virillo, abitato da un pugno di anime. L’uomo conduce un’esistenza “scioperata” grazie ai soldi della pensione della Bersagliera, dedicandosi solo allo studio e ai suoi tanti svaghi “particolari”, finché un giorno non è costretto a trasformarsi in badante, a causa delle cattive condizioni di salute della madre. Nonostante non sia abituato al lavoro, Edmondo si rivela all’altezza anche se la sua esistenza cambia radicalmente, finché una tragedia improvvisa non lo pone con le spalle al muro. Costretto perciò a una drammatica scelta, il badante si troverà invischiato in un’avventura surreale dal finale davvero imprevedibile. Dopo “La ragazza di Venezia”, ecco una nuova fiaba moderna sul difficile rapporto intergenerazionale e sulla mancanza di lavoro nel nostro Paese. Con la speran

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In uscita il 30/9/2015 (14,00 euro)

Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2015

(2,99 euro)

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SIMONE SCALA

IL BADANTE

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IL BADANTE Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-915-9 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Settembre 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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A mia moglie.

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Solo nei sogni siamo veramente liberi. Il resto del tempo abbiamo bisogno di un salario. TERRY PRATCHETT

Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo

portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca. Sei la canticchiante e danzante merda del mondo!

TYLER DURDEN, Fight Club.

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IL BADANTE

Start A Virillo lo conoscevano tutti. Era nato lì. Da cinquantadue anni non si era mai allontanato. O quasi. Quattro case abbarbicate alle pendici del monte Carpione, bianco latte d’inverno e verde raganella d’estate, cima compresa. Ogni tanto - ma di solito nella stagione estiva - capitava pure qualche turista che, fra una foto e l’altra, si guardava intorno e si chiedeva come accidenti si potesse vivere in un posto simile. Poi magari si sedeva a uno dei tavolini bianchi di Matunde e imprecava per il caldo. Beveva se aveva sete, si riposava, fumava se voleva fumare e alla fine se la svignava. Era un’equazione matematica. Invece per Edmondo Cipolla quel luogo era tutto e Virillo rappresentava il mondo, l’universo, l’ultimo orizzonte e il confine estremo. In verità la grande città, la metropoli, lui l’aveva anche conosciuta, perché una volta era stato a Parigi. Ma fin dal primo istante in cui si era ritrovato nelle fauci di una linea del metrò con un ragazzo sbronzo accanto, sommerso da tanfi di piedi, aliti pesanti, uova marce, nicotina e stipato come se fosse una sardina,

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aveva detestato Parigi e gli era apparsa nella mente sudata come il corpo l’immagine di Virillo: trecento abitanti, solitari e puliti. Puliti e solitari. Almeno la stragrande maggioranza. Per giunta a Parigi non si arrivava mai, per andare da un punto all’altro occorreva un sacco di tempo. Regnava il caos, la vita costava un occhio della testa. Insomma l’esperienza cittadina era stata traumatica e dal giorno dei tanfi e della trasformazione in sardina aveva deciso di non rimetterci più piede. Molti anni erano trascorsi e il signor Cipolla aveva mantenuto la promessa. Era stato in altri luoghi, conosciuto qualche altro spicchio di mondo ma sempre per periodi molto brevi, aveva respirato con il suo nasone storto l’aria di altre località (non troppo lontane da Virillo però) tuttavia in una metropoli non era più tornato. Mai. E pensare che a Parigi voleva trovare lavoro, dare una svolta, sbarcare il lunario… Il lavoro già, quanto entusiasmo a quel tempo, quanta forza di spirito! Perché bisognava lottare, diventare qualcuno e avere la grana. Che non dava la felicità però aiutava. “Homo faber fortunae suae”. Adesso sapeva che si diceva così; all’epoca, ignorante com’era, non conosceva il latino, ma possedeva l’energia e le illusioni tipiche della gioventù. Stravolgere il mondo e raggiungere il successo. Ricco e con molta gente intorno. Causa ed effetto, azione e reazione, fatica e impegno.

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Merito. Più dolce del miele. Merito. Fantasmagorico come una Testarossa. Merito. Gustoso quanto un piatto di sushi anche se lui non aveva mai mangiato il sushi. E una grande dose di culo, naturalmente. Dogmi solenni del suo ottimismo. Fede cieca nella vittoria e in Parigi che valeva molto più di una messa. Lui ci credeva, oh se ci credeva… Nonostante le disfatte scolastiche, nonostante il fallimento del suo primo lavoro in Italia dopo l’interruzione degli studi. Fabbro. Per pochi anni era stato questo. Alle dirette dipendenze di Norberto, spilorcio lungagnone e gran puttaniere nonché suo capo. In quella topaia di merda piena di calendari di donne nude appesi alle pareti, con due piccoli rettangoli che lo stronzo si azzardava a chiamare finestre. Non c’era mai il ricambio d’aria giusto. Lui non faceva che respirare fumo e polvere in continuazione, imprecava e moriva di caldo. Per quattro spiccioli, poco fuori Virillo, in nero. Un posto talmente brutto da sembrare la succursale dell’Inferno sulla Terra. Alla fine, però, la sua soddisfazione se l’era presa, lo aveva derubato ed era scappato via. Incidente di percorso, tutto qui. Era agli inizi, giovane, inesperto, poteva capitare. Il suo ottimismo non era stato per nulla intaccato. Troppo presto. Era ancora troppo presto per rinunciare al merito e ai sogni di

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gloria. Aveva persino cercato di convincere il ragazzo sbronzo del metrò. Un cinese, occhi da insetto e capelli più scuri della pece, abbastanza tarchiato, indossava jeans strappati e una maglietta Adidas fuxia piuttosto sporca, se non ricordava male. Pareva molto giovane, ogni tanto apriva gli occhi e ruttava. Erano quelli i momenti in cui lui attaccava bottone e pazienza se quello non capiva l’italiano tanto il concetto era universale. «Mettiamo che tu possiedi un cane, che so… un bassotto nano, per esempio. Cinque anni, nero focato, di nome Gluck. E mettiamo che un bel giorno, all’improvviso, il tuo grazioso amico non cammini più. Zampe posteriori paralizzate per colpa di un’ernia alla spina dorsale. Ti chiedi come sia possibile… che cazzo sia successo… lo hai sempre trattato come un re, lo hai rimpinzato, viziato ma l’ernia è venuta lo stesso e adesso hai davanti a te tre possibilità: lo tieni così com’è - magari gli compri un carrellino e chi se ne frega - oppure lo uccidi perché tanto è inutile farlo vivere in questo modo e insomma viva l’eutanasia oppure…» a questo punto si era fermato per riprendere fiato e per la suspense, «oppure prendi la macchina, fai più di cento chilometri e lo fai operare. Spendi una bella sommetta in una clinica veterinaria poi lo riporti a casa. Cosa scegli? Dov’è il merito?» Il cinese intanto aveva richiuso gli occhi. «Te lo dico io dov’è il merito…» continuava lui, «è nella terza possibilità naturalmente, è in quella più rischiosa e costosa, ma tu hai le palle e ti butti, tu agisci perché non ami i compromessi e le mezze misure. O quel cavolo di bassotto cammina o cammina. Non ci sono alternative e al diavolo i soldi. Adesso, però, c’è

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bisogno anche di una cuccia nuova perché sul divano non può più salire e allora riprendi la macchina, ti sorbisci altri sessanta chilometri e gli compri - anzi ti fai costruire su misura - una cuccia modello deluxe con le sbarre in metallo, spaziosa, confortevole e alta che riempi di coperte, cuscini e senza il tetto perché altrimenti sa troppo di galera. Bene. Benissimo. Hai fatto la cosa giusta. Hai risolto il problema, il bassotto è tornato a camminare e ad alzare la zampetta posteriore per la pipì. Il bassotto è di nuovo felice e contento. Soprattutto “TU” sei felice e contento. Merito. Merito. Il merito è del merito e scusa il giro di parole. Merito tuo, ovviamente. Ti sei impegnato, dato da fare, non hai perso tempo e hai speso abbastanza grana. Hai trionfato, hai fatto tutto quello che potevi e non è poco» nuova pausa, si guarda intorno, riparte. «Godere il tuo cane. Adesso. Puoi. Rifarlo. E pazienza se magari domani o fra una settimana o fra tre anni morirà sotto una macchina o sopra una bassottina in calore o per un’overdose di wurstel al salmone… tu non sei Dio, non puoi prevedere il futuro. Oggi però hai fatto il tuo dovere, sei stato meritevole!» Nuovo rutto del cinese, occhi sgranati. «Ehi amico, mi ascolti?» Un grugnito. Due grugniti. Molto rumorosi. Occhi chiusi. Occhi aperti ma sempre più stravolti. Filo di bava alla bocca, parole incomprensibili, forse una bestemmia e uno sguardo in cagnesco che lo costringe a tacere. Cipolla chiude gli occhi, aspetta la sua fermata. Non ne può più, il tizio è un idiota. Uno scemo. Inutile cercare di fargli capire la nobiltà del merito e dell’impegno personale. La strada del successo non è per questo ceffo anche se la parabola del bassotto era perfetta. Finalmente Piazza d’Italia, è

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arrivato al suo albergo. Scansa il cinese, scende, si perde fra la folla metropolitana e chi si è visto si è visto.

La strada del successo… Ma gli eventi in seguito sono andati in maniera ben diversa. Soggiorno a Parigi brevissimo nonostante l’ottimismo. Fallimento. Perché non sapeva il francese, perché aveva un curriculum scolastico disastroso e perché i colloqui di lavoro erano gestiti da energumeni in giacca e cravatta con la puzza sotto il naso. Perciò ritorno all’ovile. Davanti ai calendari delle donne nude aveva cercato di farsi riassumere da Norberto ma non c’era stato verso. Già era tanto che non lo avesse denunciato per il furto dei soldi, gli disse mandandolo via. Cercate quindi vanamente altre occupazioni, Cipolla si era ridotto a tirare l’aratro per un contadino suo conoscente, al posto del vecchio bue morto di morbillo. L’aratro in ogni caso era durato poco. Troppa fatica, le pedate e gli insulti del villico non li sopportava proprio. Il campo poi era un rettangolone immenso e lui non ce la faceva ad andare più veloce. Una volta, c’era una nebbia che non si vedeva al di là del naso, si era perfino azzoppato. Una buca, forse di una talpa, la caviglia sinistra andata giù di botto, si era subito gonfiata. E quello screanzato, nonostante il parere contrario del medico, pretendeva di riprendere il lavoro il giorno dopo. Con quella caviglia gonfia come un melone era praticamente impossibile. Allora lui gliene aveva dette quattro, minacciando ritorsioni e ipotetiche vendette perfino sull’aratro. Perché non era ammissibile trattare un lavoratore in quella maniera, pagarlo una miseria e ovviamente in nero. Tuttavia non furono lo sfruttamento o il suo infortunio la causa

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principale della definitiva rinuncia all’impiego agreste quanto un evento ben più doloroso: la morte inaspettata di suo padre avvenuta poco tempo dopo. Morte che lo lasciò con la sola compagnia della madre e che, soprattutto, lo fece sprofondare in un abisso di totale follia per alcuni mesi. Fu così che le sue scarse conoscenze scolastiche vennero a galla insieme a un inconsueto amore per la cultura. Allora lui si credette - almeno per qualche settimana - la reincarnazione di Ugo Foscolo e andò in giro per Virillo declamando i versi immortali de “All’amica risanata”: “Qual dagli antri marini/

L’astro più caro a Venere/ Co’ rugiadosi crini/ Fra le fuggenti tenebre/ Appare, e il suo viaggio/ Orna col lume dell’eterno raggio…” poi fu la volta di Hegel: “Conoscere la ragione come

la rosa nella croce del presente e in tal modo godere di questo, questa intellezione razionale è la conciliazione con la realtà, che la filosofia procura a coloro, nei quali una volta è affiorata l'intera esigenza di comprendere, e altrettanto di mantenere in ciò che è sostanziale la libertà soggettiva, così come di stare con la libertà soggettiva non in un qualcosa di particolare e accidentale, bensì in ciò che è in sé e per sé.” Divenne quindi Maria Antonietta, si mise un veliero in testa e ripeteva in continuazione: “Come potevo sapere che lo Stato versasse in

simili condizioni? Quando chiedevo del denaro me ne veniva dato il doppio del richiesto!” Alla fine, anche per le proteste di chi lo conosceva, optò per il regno animale e si camuffò da pavone anoressico; vi restò fino alla guarigione. La vecchiaia, invece, colse sua madre come un terno al lotto. La donna appassì di colpo sia per la morte del marito sia per colpa

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della sua follia. Per giunta quella dipartita fu una vera beffa, visto che un’improbabile testa di pesce spada caduta a chissà chi da chissà dove, bastò per distruggere l’onesta vita di un altrettanto onesto lavoratore e padre di famiglia. Il muso lungo e appuntito dell’animale, infatti, s’infilò nel testone dell’uomo con la stessa facilità con cui un coltello penetra nel burro. Ruggero si chiamava suo padre, come quello di un famoso poeta il cui nome gli sfuggiva sempre. Per un certo periodo si sospettò del calzolaio del paese, scorbutico rivale politico, ma non fu trovata alcuna prova. Perciò la storia terminò lì e il presunto omicidio fu archiviato. Fu quello, in un certo senso, l’inizio di tutto; fu quello a fargli scegliere una vita al di sopra delle righe. Una vita speciale. Edmondo lo sapeva bene e se lo ripeteva anche adesso, seduto su una panchina nell’unico giardino pubblico di Virillo a gustarsi una Marlboro light. Non c’era nessuno e lo spazio verde appariva ancora più minuscolo. Un giardino minuscolo per un paese minuscolo. Le tre del pomeriggio di una giornata d’agosto che scottava. Nel 2013, un anno dopo la bufala sulla fine del mondo. Le televisioni sparavano a palla Berlusconi e il Royal baby. Non c’era altro. Non esisteva altro. Sole, foglie secche e cicche spente; formiche, passeri e quiete gli facevano compagnia mentre l’afa lo avvolgeva come un sudario. E il termometro che si portava dietro segnava trentasei gradi. Da qualche parte i miagolii di una gatta in amore graffiavano l’aria infarcita di moscerini catturati dalle lucertole. Forse era

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Vittoria, occhi verdi e lunghi baffi bianchi, deliziosa micia del Bengala che pareva una tigre. Una tigre in scala ridotta che voleva qualche maschio per trastullarsi. La gatta apparteneva alla signora Inga, vecchia matrona pelosa della Vestfalia che, lasciato il lavoro, si era trasferita qui insieme al marito che poi l’aveva mollata per una ragazza molto giovane. La notizia aveva destato scalpore e per alcuni mesi non si era parlato d’altro a Virillo. Per il dispiacere, Inga non era quasi più uscita di casa e aveva lasciato che i peli la trasformassero in uno yeti. Finché per vincere la noia e la solitudine non aveva trovato di meglio che acquistare questo animale. Ormai erano anni. Nel frattempo, Vittoria aveva generato gatti su gatti, perché Inga era contraria alla sterilizzazione e perché anche quello era un modo per tirare avanti e per sopportare meglio la vecchiaia irsuta. In compenso, Virillo era diventato un paese di gatti e di vecchi. Di vecchi e di gatti. Persino lui non era più un ragazzino. Questa verità non gli piacque; Cipolla strinse il termometro e sorrise: il galinstan schizzava alle stelle. Quella del termometro era un’autentica ossessione; dovunque andava se lo portava, poiché la curiosità di conoscere la temperatura era una tentazione troppo forte da vincere. Modello di ultima generazione, precisissimo in ogni dettaglio e molto ben equipaggiato: illuminazione autonoma, antifurto, resistente al fuoco, alle intemperie e con (se attivata) una suadente voce femminile che indicava numero dei gradi, avanzamento o arretramento della febbre, quantità di secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi ed eventualmente anni necessari al riposo, speranze di guarigione e probabilità di morte

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(in percentuale). Nessuna possibilità di errore, costava un mucchio di soldi. L’ossessione fioriva dalla fine della primavera fino al termine dell’estate, dato che nella restante parte dell’anno il clima era troppo freddo per essere rilevato dallo strumento. In realtà, Cipolla confondeva la temperatura del corpo con quella dell’ambiente circostante, convinto com’era che fossero la stessa cosa e non c’era stato modo di fargli cambiare idea. Una volta tale errore gli aveva procurato perfino dei guai, poiché non trovandosi d’accordo con la temperatura evidenziata dal display elettronico del Comune lui non aveva esitato a romperlo. Imbracciata una mazza ferrata comprata di nascosto da sua madre su “Vestro” aveva agito. Naturalmente prima aveva tentato con le buone e indirizzato alle autorità cittadine la bellezza di diciannove raccomandate, in cui elencava con dovizia di particolari tutti i casi in cui quel misuratore elettronico si era mostrato in disaccordo con il suo super termometro acquistato all’asta da Vanda, la farmacista tettona di Virillo che in gioventù era stata una pornodiva. Un mercoledì d’inizio giugno si era anche recato dall’assessore all’urbanistica per trovare una soluzione. L’assessore era un tipo sportivo, tutto baffi, che lui conosceva fin dalle elementari; grande opportunista, fissato con il jogging e figlio del becchino. Soprattutto sapeva di vaniglia. Un giovedì di metà luglio era andato a trovare quello all’ambiente che era poi la stessa persona: stessi baffi, stesso opportunismo, stesso jogging, soprattutto stesso diffusore alla vaniglia. «Insomma Edmondo continui a fare confusione, non vuoi proprio capire.»

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«Credi?» «Ma sì… quante volte te lo devo ripetere? Si tratta di due temperature diverse.» «Il sindaco… cosa dice il sindaco?» «Che devi darci un taglio.» «Il mio termometro non sbaglia.» «Ma non misura la temperatura dell’ambiente è questo il punto, accidenti!» «Il tasto argento lo vedi?» Cipolla teneva il termometro in mano, il profumo alla vaniglia irritava il suo nasone storto. «Sulle istruzioni c’è scritto che se schiaccio questo tasto il termometro si attiva in modalità ambiente.» «Le istruzioni erano in cinese se non ricordo male… parli cinese?» «Modalità ambiente, ho tradotto bene.» «Hai tradotto una lingua che non conosci?» «Intuizione, sesto senso, due più due ed ecco la soluzione.» «Stronzate.» «Il tuo display non funziona, è sempre sotto di due o tre gradi» disse lui starnutendo. «E tu lo sai.» «È precisissimo.» «No invece, non è attendibile… non è attendibile come chi lo difende.» Secondo starnuto di Cipolla e sguardo dell’assessore brutto. Molto brutto. Quasi truce. «Vuoi parlare col sindaco? Allora accomodati di là, è nel suo ufficio. Vai, vai pure.» E lo aveva sbattuto alla porta. Cipolla si era rimesso il termometro in tasca, aveva starnutito di nuovo, se n’era andato.

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Niente sindaco. Oltretutto quel vecchio democristiano rieletto per la seconda volta gli stava proprio sulle balle. No. Basta esitare, era ora di agire. Aveva letto su una rivista scientifica che gli esseri umani ricordano il 65% di ciò che annusano. Bene, grazie alla vaniglia non avrebbe dimenticato tanto facilmente quella conversazione. Se l’assessore tutto baffi voleva la guerra lui avrebbe combattuto, anche in nome del suo naso. Così aveva scelto la forza e travestito da Grisù, in una notte estiva di diversi anni prima aveva punito il display truffaldino. Erano all’incirca le quattro del mattino, ora l’insopportabile canicola lo confondeva, nella piazzetta “Garibaldi” in cui sorgeva il dispositivo non c’era anima viva, lui si era arrampicato su per una grondaia e gli era saltato addosso. Soddisfazione. Ottenerla. A. Qualunque. Costo. Un drago vs un termometro elettronico. Ma era armato quel drago e arrabbiato. L’esito scontato. Colpi sferrati senza pietà e la rottura di parti metalliche e di plastica, lo schianto di bulloni, viti guizzanti nell’aria addormentata e lo spegnersi a poco a poco del display. Ultimi sguardi di un moribondo che si chiedeva perché quel killer mascherato ce l’avesse proprio con lui. Poi via, libero e felice. Libero e felice nella notte tinta di stelle. Fra lucciole colorate che gli danzavano intorno. Blu, verdi, rosse, gialle, azzurre dominavano l’oscurità come tanti piccoli occhietti luminosi. Quella delle lucciole era la più bella attrattiva di Virillo e non era stata ancora spiegata dalla scienza. Erano state fatte ricerche, studi, spesi parecchi soldi, ma non si

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era arrivato a niente. E dire che lo spettacolo toglieva il fiato, con il cielo che al tramonto si accendeva di colpo grazie a quei microscopici insetti che pullulavano a casaccio, inconsapevoli del loro splendore. Cascate e cascate di lucciole dipinte che stupivano, finite persino in un documentario del National Geographic. Il fenomeno durava dalla fine di maggio fino a metà luglio, poi le lucciole sparivano e bisognava attendere un anno intero prima di rivederlo. Ma lo spettacolo si ripeteva sempre, senza eccezione, almeno dagli inizi del Novecento. Forse era colpa dell’inquinamento, sosteneva qualcuno persino a Virillo, restava il fatto che era davvero magnifico. Il sindaco precedente ci aveva allestito anche una sagra di successo, ma in seguito a una storia di tangenti mai chiarita la sagra se ne era andata, sparita come le lucciole dopo metà luglio. Lui, dunque, correva beato per l’assassinio del termometro, immerso nella luce variopinta che gli volava intorno e, smessi i panni di Grisù, aveva raccontato l’impresa a Poldo, il merlo indiano di Enrico, reduce della Guerra di Crimea e suo inossidabile vicino di casa. Enrico era l’essere più anziano di Virillo e probabilmente del mondo, almeno fra gli uomini, ma si vergognava a dirlo perché non voleva finire nel Guinness dei primati. Credeva che Vittorio Emanuele II, Cavour e perfino il suo generale La Marmora fossero ancora vivi e sperava in una nuova chiamata alle armi. Voleva rivedere Sebastopoli un’ultima volta, morire da soldato e amen. La puntura di una zanzara riportò Cipolla al presente. Un bubbone bianco sulla mano bianca che reggeva il termometro. L’uomo se la grattò contro la superficie sporca della panchina

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stando bene attento a non rovinare il prezioso strumento, mentre il silenzio e i miagolii di Vittoria continuavano a fare a pugni. Rilesse la temperatura e sorrise. L’assassinio del display elettronico gli era costato una multa salata e una denuncia, perché quando pensava di averla fatta franca era invece spuntato un testimone che lo aveva riconosciuto nonostante il travestimento da Grisù. Però almeno aveva ottenuto giustizia. Quello era stato in ogni caso un periodo positivo, pensò schiacciando la zanzara, d’accordo suo padre era morto e sua madre aveva preso diversi anni nel giro di pochi mesi, tuttavia lui era sfuggito alle turbe mentali e non aveva più dovuto preoccuparsi del lavoro. Perché sua madre, buona donna, soprannominata da tutti la Bersagliera sia per il carattere autoritario sia perché era stata, in effetti, l’unica donna soldato in Italia per molti anni (almeno fino a quando non era divenuta orba in un occhio, per colpa di una granata difettosa scoppiatale in mano durante una missione a Macondo) fu talmente felice della sua improvvisa guarigione da impedirgli di cercare un altro impiego. Glielo disse in salotto intorno alle dieci di sera mentre lui guardava un vecchio film con Stanlio e Ollio. Erano gli inizi di novembre. «Edmondo ascoltami… e smettila di metterti sempre la penna nelle orecchie!» «Sì mamma, che c’è?» «Guardami. Guardami bene.» Lui la fissò. «Tu non farai nulla.» «In che senso?» «Non dovrai più lavorare.»

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«Ah no?» «No.» «Perché?» «Perché solo i fessi lavorano…» ed era scoppiata a ridere, mentre Edmondo aveva paura di averla contagiata con la pazzia come si fa con la varicella. La Bersagliera invece non scherzava affatto, non era il tipo. Da quella sera di novembre persino le faccende domestiche gli furono risparmiate e azioni come quelle di rifare il letto, cucinare, stirare, lavare, spazzare, apparecchiare e quanto altro divennero doveri a cui lui era immune. La donna temeva, infatti, che si ammalasse di nuovo, voleva evitargli qualsiasi tipo di stress, desiderava preservarlo dall’umiliazione del chiedere e del cercare, salvarlo dall’abbrutimento in nome del denaro e dello sforzo. Del resto - gli fece notare lei questa volta, però, senza ridere - se lavorare significava sgobbare per pochi spiccioli e senza nessuna garanzia, tanto valeva restare disoccupati e andare a rubare. Il che, detto proprio dalla Bersagliera, equivaleva a una resa talmente mostruosa da parte del sistema da restare sbigottiti. Lei avrebbe pensato a entrambi - aggiunse con un tono stranamente materno - i soldi non erano un problema vista l’ottima pensione che lo Stato le elargiva per le sue precedenti imprese militari e per l’infortunio dell’occhio. Oltretutto, si diceva a Virillo che avesse vinto una discreta somma di denaro alla Lotteria Italia, ma tale diceria non poté mai essere svelata da Cipolla, perché ogni volta che le tirava fuori il discorso sua madre, da brava Bersagliera, gli ordinava di farsi gli affari suoi e di non rompere le scatole. L’unica condizione era quella di non sposarsi e di vivere insieme,

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almeno per quegli anni che le restavano ancora davanti. Lui aveva subito accettato e messo da parte il merito e “l’homo faber” che tanto non era “faber” di niente. Con un risolino stampato sul volto aveva detto sì, barattando l’amore con la libertà dal lavoro, perché le donne in fin dei conti non lo avevano mai interessato. Ne aveva ammirato la bellezza, perfino la sensualità, ma non c’era stata nessuna che lo avesse colpito nel profondo, nonostante la gioventù e la vita da scioperato concessagli dalla sua primordiale follia. La vita, insomma, non significava sesso. Almeno per lui. Unica presenza femminile era la Bersagliera e lei bastava a riempire qualsiasi vuoto o mancanza. Per la felicità non occorreva una compagna né il piacere, bastava essere liberi. Liberi dentro e fuori. In verità, Cipolla libero del tutto non era visto che si prendeva cura di sua madre, ma andava bene così. La libertà totale era un dono esclusivo della morte. Questo compito, però, era divenuto via via più gravoso nel corso degli anni, data l’età avanzata della donna. E negli ultimi tempi aveva assunto persino contorni grotteschi, con lui che cercava in ogni modo di alleviare quelle sofferenze che la cattiva salute dell’anziana non faceva che aumentare. Quasi cieca anche nell’occhio buono, inchiodata su una carrozzina a causa dell’artrosi galoppante, convinta di essere perseguitata dal fantasma del marito che le appariva con la testa trafitta dal muso aguzzo del pesce spada, la Bersagliera era divenuta l’ombra di se stessa. Ormai vaneggiava sempre più spesso e sopportarla diveniva un’impresa.

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«Tuo padre… c’è tuo padre con quel pesce orrendo che mi fissa.» «Dove?» «Lì, lì, dentro la televisione! È piegato sulle ginocchia, mi guarda cattivo.» «No mamma tranquilla, quello è Sylvester Stallone.» «Quanti anni ho?» «Ottantasei, come oggi pomeriggio.» «Che ore sono?» «Le sette, me lo hai appena chiesto, ricordi?» «È in anticipo.» «Chi?» «Tuo padre… ieri è comparso che mangiavamo… su Canale 5, era buio.» «Quello era il conduttore del telegiornale, smettila di torturarti.» «Lo vedi? Eccolo lì, ce l’ha con me perché sono viva… perché non ho trovato il colpevole… si è alzato in piedi, mi lancia il malocchio… cambia canale Edmondo, svelto!» e si copriva la faccia con le mani incartapecorite. Edmondo allora sceglieva i cartoni animati su un’emittente locale, l’abbracciava, la calmava e Ruggero spariva fino all’apparizione successiva. In compenso la Bersagliera non confondeva mai nessun personaggio dei cartoni con suo marito e ciò era un mistero. Ruggero veniva quasi sempre di notte e spesso non c’era verso di mandarlo via. Ma lui sopportava tutto, perché lei era sua madre e inoltre non aveva niente altro da fare. Quello era diventato il suo lavoro, quel lavoro da cui era fuggito, e Cipolla lo aveva accolto fra le braccia come un’inevitabile fatalità, come un fardello impostogli dal destino. Perciò si era fatto badante, unico pilastro e sostegno di una povera vecchia

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prossima alla fine. In casa non c’era stato bisogno di assumere nessuno per tale compito visto che c’era lui. Si era dimostrato abile in questo ruolo anche perché si era preparato, aveva studiato, approfondito, domandato, si era insomma specializzato, formato, e ora poteva ritenersi uno dei migliori badanti della nazione. C’erano voluti parecchi anni per scoprire la sua vera vocazione, ma alla fine ce l’aveva fatta: si era trovato un lavoro perfino molto richiesto, ed era divenuto talmente in gamba da essere assunto anche dalle amiche di sua madre, Adina e Adelina, due sorelle - pure loro sulla carrozzina - che vivevano insieme, di qualche anno più anziane della Bersagliera. Il successo gli aveva sorriso battezzandolo “professionista della Terza Età”; il suo merito alla fine era stato premiato. Si rammentava bene Edmondo, mentre rimetteva il termometro in tasca e dopo aver preso in mano un’edizione dozzinale dei “Ricordi” di Guicciardini, che in quel periodo non aveva un secondo libero, poiché doveva spostarsi come una trottola da una vecchina all’altra per aiutarla, pulirla e confortarla. Fortuna che Adina e Adelina vivevano vicinissime a casa sua altrimenti sarebbe stata un’impresa. Per ottenere il suo intervento bastava che quelle usassero un fischietto di terracotta, creato da lui stesso a imitazione di uno visto nel Museo dei fischietti di Moncalieri. Se fischiava Adina lasciava Adelina e viceversa, se invece fischiava sua madre le mollava entrambe e correva da lei. Sua madre era un donnone di quasi cento chili - lievitata a dismisura negli anni della pensione - e trasportarla in carrozzina era una

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fatica del diavolo; le passeggiate per Virillo con lei, quando c’era il sole, erano una vera faticaccia. Gli rammentavano l’impegno all’aratro e quello non era certo un bel ricordo. Così nell’infinita monotonia di giorni e di notti, di mesi e di anni. Ma tutto ciò, passeggiate a parte, non gli pesava più di tanto, sia perché quello era il suo compito sia perché le due vecchiette - peraltro benestanti - lo pagavano bene per ogni sforzo. Se sua madre, insomma, gli forniva vitto e alloggio insieme ai denari da tutta una vita, con l’aiuto prestato ad Adina e Adelina, Cipolla metteva insieme un buon stipendio mensile. Che in un paesino dimenticato da Dio com’era Virillo e senza l’aggiunta di altre spese equivaleva a una piccola fortuna. Ma lavoro e guadagno imponevano sacrifici ed ecco allora svanire le lunghe passeggiate nelle valli circostanti, passeggiate rivolte alla ricerca del famoso asino bianco che si raccontava vivesse ancora in zona; e dire che l’aveva cercata tanto quella bestia. Ecco svanire le assidue letture, la possibilità di riflettere nel “pensatoio” e di chiedere la carità per strada insieme a Piero, ecco svanire il gioco con l’uomo delle facce strane, ecco svanire un sacco di cose del passato in nome del dovere, della fedeltà a un impegno preso. Ma tutto ciò, come detto, non gli era pesato. D’un tratto, però, la realtà aveva cambiato pelle come un serpente e lui era stato costretto a fare una scelta. Adesso aveva di nuovo tutto l’ozio che desiderava e le antiche abitudini fiorivano rigogliose, tranne quella dell’asino bianco a cui comunque non sapeva rinunciare completamente. Perciò era tornato a chiedere ogni tanto l’elemosina, soprattutto per scrutare da vicino chiunque passasse per quegli angusti viottoli. Gli

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abitanti del borgo li conosceva tutti e molti di loro se ne erano andati. Tuttavia, qualche straniero, qualche forestiero continuava a capitare e lui non si stancava mai di osservarlo. Perché li voleva vedere bene questi esseri strani che provenivano da mondi altrettanto strani, confusionari e caotici. Vestiti alla moda, spendevano e si godevano Virillo per qualche ora, sperando magari di imbattersi in qualche lucciola colorata anche se c’era il sole. Con quelli poi che masticavano un’altra lingua dava il meglio di sé, poiché era l’unico nel giro di chilometri e chilometri e chilometri e chilometri, a padroneggiare perfettamente inglese, francese e tedesco. Se qualcuno proveniente dall’estero finiva qui per un qualsiasi motivo e voleva delle informazioni era con il nasone storto che doveva parlare. «How do I get to the church of S. Caterina?» chiedeva una donna pelle e ossa, vestito di lino striminzito, ventaglio sfilacciato in mano, aria un po’ svampita. «Go straight ahead, turn left at the next crossroads, take the second turn on the right, keep going until you get to the bar, the church is in front of you» rispondeva Cipolla tutto tronfio. «Thank you.» «You are welcome.» «Your English is very good.» «Thank you very much.» Complimenti. Li adorava. Evviva i complimenti. Forse la pronuncia di qualche parola non era perfetta, ma chi se ne fregava. Era a Virillo, non a New York. Perché di occasioni per studiare l’inglese lui ne aveva a bizzeffe, ne aveva avute prima di diventare badante e anche adesso, dopo

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che si erano verificati quegli eventi.

Eventi. Fatti. Casi. L’idea lo fece sobbalzare, tornò a guardarsi intorno pieno di timore. Da due anni viveva in questo modo, nella paura e nell’angoscia per ciò che era accaduto. Paura e cultura, ultime compagne di vita, principi intorno a cui ruotava la sua singolare esistenza. Persino ora, sulla panchina, sfogliava un libro scritto da un toscano del Cinquecento che conteneva massime interessanti. La sua preferita parlava della morte: “È certo gran cosa che tutti sappiamo avere a morire, tutti

viviamo come se fussimo certi avere sempre a vivere”. Quante volte aveva pensato alla morte? Quante volte l’aveva incontrata nel corso degli anni? Sulla morte aveva riflettuto molto, sia prima del lavoro di badante sia dopo. Naturalmente dopo le cose erano state diverse, ma restava il fatto che la morte aveva rappresentato uno degli enigmi che più lo avevano affascinato. In fondo non era cominciato tutto con la morte di suo padre? Guicciardini aveva ragione. Giorni e giorni di riflessione avevano condotto Cipolla a quella granitica conclusione: il politico fiorentino aveva visto giusto. Fine anteprima.Continua...