II. Italian Levy

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Parte III - Le legioni anglo-italiane 227 Parte II L’Armata italiana di Lord Bentinck (1812-1816)

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Extract from the book "Il Regno di Sardegna nelle guerre napoloniche 1799-1815", V. Ilari, P. Crociani and S. Ales, Widerholdt Frères, Invorio (NO), 2008

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Parte IIL’Armata italiana

di Lord Bentinck(1812-1816)

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6. LE LEGIONI ANGLO-ITALIANE(ITALIAN LEVY, ROYAL PIEDMONTESE LEGION)(1812-16)

A. Il progetto dell’Armata Italiana di liberazione(1811-12)

Tre reggimenti per sognare un Regno

Nel 1812-13 Lord Bentinck organizzò in Sicilia 3 reggimenti italiani, il primo reclutato fra i prigionieri presi in Spagna e gli altri due fra gli stranieri congedati dal servizio siciliano e sardo. Impiegato prima in Catalogna e poi in Toscana, Liguria e a Marsiglia, il corpo ebbe il nome inconsueto di “leva italiana” (Italian Levy) e, pur figurando tra i “Foreign Corps in British Pay”, fu l’unico non incluso nell’Army List. Non faceva quindi parte, formalmente, dell’esercito britannico; ma neppure di alcun altro esercito alleato. Sotto il profilo della sovranità, era in una sorta di limbo politico, che spiega anche la scarsa attenzione dedicatagli dalla storiografia militare britannica, per non parlare di quella italiana, in generale lacunosa riguardo al periodo napoleonico.

Eppure il retroscena politico dell’Italian Levy, indispensabile per comprendere fino in fondo le sue vicende militari, è di estremo interesse anche per la storia dell’Italia napoleonica e del proto-risorgimento. La “leva italiana” al soldo inglese nacque infatti nel quadro di una strategia più vasta, mirante a sollevare l’Italia centro-settentrionale contro Napoleone e a farne “una seconda Spagna”, creando a tale scopo un’Armata di liberazione indipendente; finanziata dall’Inghilterra e agli ordini di Bentinck, aveva infatti come referente politico l’arciduca Francesco d’Austria, il quale pianificò le sue nozze con la primogenita del Re di Sardegna (privo di eredi maschi) per poter rivendicare la successione al trono sabaudo e la corona di un regno esteso all’Italia centro-settentrionale.

Il colonnello Vittorio Amedeo Ferdinando Sallier de La Tour

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Il progetto, che in definitiva affidava l’Italia al protettorato inglese per sottrarla alla dipendenza dalla Francia o dall’Austria, fu animato dal comandante dell’Italian Levy, il savoiardo Vittorio Amedeo Ferdinando Sallier de La Tour, figlio del generale di cavalleria Giuseppe Maria Amedeo, marchese di Cordon. Nato a Chambéry il 18 novembre 1773, paggio reale dal 1785, aiutante di campo del padre in Savoia nel 1793, capitano dei dragoni nel 1796, maggiore in Sardegna alla fine del 1799, rimpatriato dopo Marengo, passato al servizio austriaco nel 1805 e distintosi a Caldiero, maggiore soprannumerario nel 1806, “Latour” [com’è talora indicato nei documenti] fu assegnato allo stato maggiore generale, dove lavorò a vari piani di guerra contro la Francia. Il 1° marzo 1809, promosso tenente colonnello, fu inviato a Palermo con la richiesta d’inviare una squadra inglese in Adriatico e con proposte per le corti di Palermo e di Cagliari relative a spedizioni diversive su Napoli e Genova coordinate con l’offensiva austriaca. Latour arrivò il 26 marzo, ma influì poco nella spedizione di Ischia e Procida, non essendo autorizzato a negoziati formali né a conoscenza della data d’inizio delle operazioni austriache. Dopo il ritiro anglo-siciliano da Ischia, Latour si recò a Cagliari, dove in agosto progettò operazioni combinate anglo-sardo-siciliane sulla costa toscana. A questo periodo risalirebbero, secondo il suo biografo e discendente Giuseppe Gallavresi, una proposta di organisation militaire de l’Italie e un progetto organico circa le Troupes insurrectionelles italiennes. Insieme al barone Auguste de Sourdiaux, ufficiale della marina austriaca, Latour svolse poi missioni segrete nei Balcani per conto dell’arciduca Giovanni, prendendo contatti con l’abate Giacomo Brunazzi di Lissa, stratega della resistenza sulla sponda orientale dell’Adriatico.

Le ambizioni politico-dinastiche di Francesco d’Austria Este

Rientrato a Vienna il 30 gennaio 1810, Latour riprese servizio presso il maresciallo Bellegarde, presidente del consiglio aulico della guerra, e si ventilò pure di porlo a capo della marina. Ma un articolo segreto della pace imponeva all’Austria il licenziamento degli ufficiali stranieri, e il 20 novembre Latour dovette essere congedato, col grado di colonnello onorario. Fu così libero di dedicarsi interamente alle ambizioni politiche dell’arciduca Francesco d’Austria Este, il quale, sfumati i progetti nuziali con Paolina Bonaparte e con l’arciduchessa Maria Luisa, aspirava alla primogenita del re di Sardegna, benché Maria Beatrice fosse figlia di sua sorella, l’arciduchessa e regina Maria Vittoria Teresa.

Questo matrimonio aveva una grande rilievo politico, perché in Sardegna, a differenza del Piemonte, non vigeva la legge Salica e, in

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mancanza di figli maschi del re, Maria Beatrice era candidata alla successione. In realtà la legge Salica era stata estesa alla Sardegna dai patti di famiglia sabaudi; ma senza il consenso del parlamento sardo (gli Stamenti), il che consentiva all’occorrenza di invalidare un eventuale trasferimento della successione al ramo collaterale della dinastia, e cioè al principe di Carignano Carlo Alberto, tanto più in considerazione degli atteggiamenti filo-francesi della sua famiglia (lui stesso era allora tenente dell’8e dragons). Latour ebbe un ruolo nel convincere l’arciduca a meritare la futura riconoscenza dell’Inghilterra mettendosi a capo di un grande movimento di liberazione dell’Italia, che poteva aprirgli, dopo la vittoria, non solo il riconoscimento internazionale della successione sabauda, ma anche la possibile corona di un’Italia unita.

La convenzione di Palermo del 28 agosto 1811

Nel dicembre 1810 l’arciduca partì per combinare le nozze con la principessa sua nipote, lasciando al generale austro-irlandese Nugent il compito di perorare l’appoggio inglese tramite il conte di Münster, un diplomatico annoverese esule a Londra e collegato con la resistenza antifrancese in Germania. Partirono con l’arciduca Latour e il lorenese Charles Louis Fiquelmont, nonché sette ufficiali trentini che avevano combattuto in Tirolo con Andreas Hofer e che il 18 settembre 1810 avevano ottenuto a Brod un passaporto spagnolo dal barone José Cappelletti [erano il maggiore Roberto A. Markenstein, i capitani Luigi Cristoforo Frizzi e Francesco de Campi di Campodenno e 4 subalterni: il 18 aprile 1809, alla testa di 70 volontari, de Campi aveva catturato 280 francesi a Molveno]. Durante il viaggio l’arciduca prese contatti con Brunazzi (che nel febbraio 1811 era a Scutari), sostò a Salonicco, Smirne e Malta e arrivò a Cagliari con Fiquelmont il 31 maggio 1811.

Il 23 luglio – mentre l’arciduca stava ancora combinando le proprie nozze – sbarcò a Palermo Lord Bentinck, nuovo comandante delle forze britanniche nel Mediterraneo nonché rappresentante diplomatico presso il re di Sicilia. Latour, che il 16 agosto era a Gibilterra, lo raggiunse in Sicilia per negoziare l’ingaggio di un certo numero di ufficiali inferiori licenziati dal servizio austriaco in quanto originari di province annesse all’Impero francese o agli stati satelliti. Già ai ferri corti con la corte siciliana circa l’arresto dei baroni ribelli, Bentinck si accingeva a tornare in Inghilterra per consultazioni: salpò il 27 agosto, ma la sua firma figura, insieme a quella del generale Maitland (suo temporaneo supplente), in calce ad una “convention” stipulata a Palermo con Latour in data “28 agosto 1811”, che riconosceva agli ufficiali la stessa paga dei parigrado siciliani, ma in dollari spagnoli. L’accordo prevedeva inoltre

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una guarnigione inglese a Lissa, “a standard adapted to connect and unite central all Italy”, e il trasporto a Zante di Frizzi, incaricato di mettersi in contatto con l’unico agente inglese rimasto a Vienna (mister King), il quale doveva a sua volta ingaggiare gli ufficiali (selezionati dal fratello di Latour, il colonnello austriaco Vittorio Amedeo Giano detto “Janus”) e farli arrivare a Messina.

Naturalmente l’arciduca e Latour agivano a titolo puramente personale e anzi in contrasto con la politica, ufficialmente filo-francese, del governo austriaco. Le loro istruzioni per Frizzi erano infatti di riferire unicamente a Nugent, e di tornare poi attraverso l’Italia, per riconoscere le forze napoleoniche stanziate nella penisola, appurare l’entità delle truppe italiane in Spagna e sondare gli umori della gente nei confronti della dominazione francese.

Il memorandum di Latour sulla sollevazione italiana

Per quanto la convenzione di Palermo non ne parli, nelle intenzioni di Latour gli ufficiali ex-austriaci dovevano essere impiegati per inquadrare l’“armata italiana” necessaria per dare visibilità e sostanza al progetto di mettere l’arciduca a capo dell’insurrezione anti-francese in Italia. Un suo memorandum a Bentinck sosteneva che l’Italia, con 18 milioni di abitanti, costituiva un terzo della potenza francese: sottrarla a Napoleone significava vincere la guerra. L’Austria aveva fallito nel 1800, 1805 e 1809 per aver voluto usare le sole forze regolari: «nulle connection efficace n’étant formée dans le pays, et les Italiens étaient laissés dans un telle indécision sur leur sort politique avenir qu’il y aurait eu de la folie à espérer qu’ils s’armassent pour l’obtenir». Tuttavia nel 1809, quando i proclami austriaci erano stati «un peu plus encourageants pur la Nation», si era verificata una «fermentation générale».

L’Austria era ormai fuori gioco, ma l’Inghilterra, pur avendo forze modeste e paralizzate dalla situazione in Sicilia e in Sardegna (esposta ad un colpo di mano francese), aveva l’immenso vantaggio strategico di poter scegliere, grazie alla superiorità navale, i tempi e i luoghi d’invasione; e quello politico di «offrir à la nation (italienne) la perspective d’une organisation politique conforme aux voeux de l’immense majorité des habitants».

L’imminente matrimonio dell’arciduca con l’erede del re di Sardegna indicava in prospettiva la riunione del Piemonte all’Italia centrale. Mettendogli a disposizione una forza di 3.000 italiani, pari agli effettivi regolari sardi, gl’inglesi ottenevano un sensibile aumento delle forze antifrancesi nel Mediterraneo, che si potevano impiegare in un primo

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momento per prendere la Corsica o Corfù (allo scopo i togliere i punti di riunione alle squadre navali nemiche) e in seguito per creare teste di ponte a Genova, Ancona o Venezia da cui poter sollevare l’Italia.

La missione di Alessandro Turri (14 agosto-15 settembre 1811)

Contemporaneamente al progetto di Latour, Bentinck ne ricevette un altro a carattere più politico da Alessandro Turri, sedicente emissario di un’“unione per l’unità e l’indipendenza italiana”. Organizzatore della guardia nazionale del Basso Adige, Turri si era dimesso da viceprefetto di Camerino per uno screzio col generale Lemarois. Nell’aprile del 1811 era partito da Ferrara, tentando di passare in Sicilia prima da Napoli e poi da Livorno. Di qui era invece finito in Corsica, intercettato durante la traversata da un corsaro siciliano e alleggerito – a suo dire – di 20.000 franchi oro di cui chiese il rimborso agl’inglesi. Il 14 agosto scriveva a Bentinck dalla Maddalena, dicendosi inviato dal «gran partito dell’unità e indipendenza italiana», incentrato sulla massoneria ma formato da «primari personaggi d’Italia di ogni paese e d’ogni ceto, militari, magistrati, preti, vescovi, massoni, ricchi e dotti». Costoro aborrivano gli eccessi della rivoluzione francese, rifiutavano il principio d’uguaglianza ed erano stati spinti all’azione dalle nozze austriache di Napoleone, in cui vedevano perpetuarsi la «schiavitù» italiana, e chiedevano l’aiuto inglese per una grande insurrezione che stavano comunque preparando, sicuri di contare non solo sulle truppe italiane e la guardia nazionale per impadronirsi delle piazzeforti, ma anche sugli altri «militari italiani comunque incorporati nelle truppe francesi».

Bentinck fece sondare il personaggio dal console a Cagliari William Hill, che gliene scrisse in termini abbastanza positivi il 15 settembre, allegando tre documenti redatti su sua richiesta dallo stesso Turri. Il primo era una nota di tre condizioni per avviare il negoziato, in cui si chiedeva l’impegno inglese a non aspirare alla sovranità sull’Italia, a non restaurarvi gli antichi sovrani e a mantenere segreto il negoziato anche in caso di fallimento. Il secondo era un elenco di 40 personalità che secondo Turri aderivano alla cospirazione: 17 politici del Regno italico [tra cui Melzi, Aldini, Agucchi, Prina, Testi e i bolognesi Guastavillani, Caprara e Tassoni], 10 militari [Peyri, Pino, Danna, Zucchi, Fontanelli, Arese, Cavedoni, l’ex maresciallo austriaco Manfredini e i corsi Casalta e Ristori], 3 vescovi [di Crema, Adria e Ravenna] e altri napoletani [i duchi di Monteleone e di Gallo], romani [principi Chigi e Aldobrandini, fratello del principe Borghese], veneziani [Erizzo, Dandolo e Pisani], genovesi [Cambiagi], piemontesi [Breme] e lucchesi [Lucchesini]. Aveva già preso contatti con Peyri in Spagna, e Pino, comandante della

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guardia reale italiana, si teneva pronto ad arrestare il viceré Eugenio. Agl’inglesi Turri chiedeva infine uniformi, armi e munizioni per almeno 10.000 uomini, l’appoggio di due «piccole» squadre nell’Adriatico e nel Tirreno, e un corpo di sbarco di 8-10.000 uomini, «possibilmente tutti italiani», reclutati fra i prigionieri e i disertori in Spagna, Portogallo, Inghilterra, Sicilia e Sardegna. Il corpo doveva portare in Italia la costituzione della cui redazione lo stesso Turri si diceva incaricato.

Il memorandum di Nugent e la proposta di basare l’Armata a Lissa

Il 7 settembre G. C. Smith informava il tenente colonnello sir Henry Edward Bunbury, sottosegretario alla guerra, che era stato approvato il progetto di reclutare 1.200 prigionieri italiani che si trovavano in Inghilterra per formare un corpo destinato a servire nel Mediterraneo. L’11 settembre il conte di Münster riferiva a Latour che il ministro degli esteri, marchese di Wellesley, gli aveva dichiarato di “sentire tutta l’importanza dei piani del principe Francesco”, allegando alla lettera la traduzione di un memorandum segreto sull’entrata in guerra dell’Austria e il sostegno inglese all’arciduca. Il memorandum – probabilmente concordato tra Nugent e Bentinck – sosteneva che, dovendosi creare non un semplice battaglione, ma il nucleo di un’intera armata, bisognava formarlo “sul piede” austriaco, meno dispendioso di quello britannico; e [per evitare gelosie e diserzioni] organizzarlo in un porto in cui non vi fossero truppe nazionali inglesi o altre meglio pagate. Il memorandum proponeva Cefalonia, sia perché le derrate erano lì meno care che altrove, sia perché il corpo, una volta raggiunti 2.000 effettivi, poteva efficacemente difendere l’emporio di Lissa [d’importanza fondamentale per la guerra economica contro il blocco continentale e attaccato dalla fallita spedizione franco-italiana del 13 marzo 1811]. Lissa avrebbe inoltre costituito un’ottima base strategica e politica per l’arciduca, che poteva estendere l’occupazione anche alle isole del Quarnero (Cherso, Veglia e Lussino) e aumentare le sue forze a 5.000 uomini, e anche 8-10.000.

La scelta di Lissa era insidiosa, perché, senza escludere formalmente il progetto di far insorgere l’Italia sbarcando a Venezia, Comacchio o Ancona, implicava la possibilità d’impiegare il corpo prioritariamente a Ragusa o in Dalmazia, usandolo per i piani stilati da Brunazzi e per la futura cooperazione militare anglo-austriaca, e sottraendolo al progetto “sabaudo” dell’arciduca, incentrato sullo sbarco in Toscana o in Liguria. Allarmato da Latour, l’arciduca approfittò della pausa imposta dalla necessità di ottenere la dispensa papale alle nozze con la nipote, per recarsi personalmente a Palermo a chiedere che la futura armata fosse

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organizzata in Sardegna. Maitland rispose tuttavia che per il momento era “meglio non reclutare truppe” e limitarsi ai soli ufficiali. Questi dovevano essere esclusivamente di nomina inglese: l’arciduca non poteva nominare neppure i cappellani e i chirurghi. In compenso gli ufficiali potevano risiedere in Sardegna, dove avrebbero ricevuto la paga tramite il ministro inglese a Cagliari (Rowland Hill).

I prigionieri italiani di Portsmouth e la scelta di basare il corpo a Malta

In realtà il Foreign Office aveva già ordinato il reclutamento della truppa, e, tra la dislocazione a Cefalonia oppure in Sardegna, aveva scelto una soluzione intermedia, che lasciava aperte entrambe le opzioni. Con lettera “segreta” del 7 ottobre 1811 il sottosegretario agli esteri Charles Culling Smith diceva infatti al collega alla guerra Bunbury che «il marchese di Wellesley (gli aveva) chiesto di fare passi per riunire al più presto a Portsmouth un corpo di 1.200 uomini abili al servizio e che vo(lessero) battersi contro la Francia per portarli a Malta. (Dovevano) essere presi tra i prigionieri italiani che si trova(va)no in Inghilterra, (e) il corpo (doveva) essere destinato a servire nel Mediterraneo». L’8 ottobre il conte di Münster spedì a Latour una lettera del “Com. de N” (Nugent) aggiungendo che «l’objet dont il vous parle (était) fort avancé: 1.200 prisonniers Italiens sont en chemin pour être envoyés à la Méditerranée», sotto il comando del maggiore Bourke. [Gallavresi lo identificava con l’austro-irlandese Richard, ufficiale di collegamento in Catalogna nel 1812, ma nei documenti inglesi figurano un “J. Burke” e poi un “Thomas Burke”, mentre nelle sue memorie (pubblicate nel 1845) il colonnello Montgomery Maxwell ricordava con affetto «the jovial, gay, kindhearted, hard fighting Paddy B----e.», comandante del 1° reggimento italiano a Genova e Marsiglia nel 1815].

Da Malta il battaglione poteva essere inviato sia in Adriatico che nel Tirreno: e le due opposte destinazioni erano in certo modo rappresentate dai due agenti segreti che si trovavano alla Valletta: il capitano Leveroni, uno dei capi dell’insorgenza ligure, e l’abate Brunazzi, stratega di quella balcanica, che erano tra loro ai ferri corti e scrivevano a Latour peste e corna uno dell’altro. Volendo far pendere la bilancia dalla parte del Tirreno, l’arciduca cercò l’appoggio del futuro suocero. In novembre, tornato da Palermo, gli espose il progetto di impadronirsi della Corsica turbolenta e di far insorgere l’Italia sbarcando in Liguria o in Toscana, ma riuscì a strappargli solo un avallo generico, non il consenso a sfidare apertamente la reazione della Francia accogliendo in Sardegna truppe al soldo inglese.

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Il progetto di organizzazione dell’Armata italiana (2 gennaio 1812)

Il 2 gennaio 1812, mentre l’arciduca iniziava il suo giro di quattro mesi per conoscere l’Isola che contava un giorno di ereditare da Vittorio Emanuele, Latour firmò a Cagliari uno schema di organizzazione della futura Armata indipendente (Ebauche d’un projet d’organisation pour les troupes italiennes qui se forment actuellement sous la protection de l’Angleterre). Le truppe in formazione dovevano essere impiegate per lo “sbarco in Italia”, destinandole «à former le noyau de l’Armée italienne» e considerandole «comme une espèce de cadre dans lequel seraient ensuite placées le nouvelles levées italiennes». La loro organizzazione doveva perciò contenere il principio fondamentale dell’organizzazione della futura Armata italiana, e includere anche nuclei di cavalleria e truppe tecniche. Latour prevedeva perciò non “reggimenti”, ma “quadri” di 1.400 uomini (800 fucilieri, 200 granatieri, 200 cacciatori, 50 cannonieri, 50 pionieri e pontonieri e, possibilmente, 100 cavalieri), in grado, una volta sbarcati, di trasformarsi in “legioni” di 8.400 (con l’aggiunta di 5 insorti per ogni soldato regolare), su 12 battaglioni (48 compagnie di 25 regolari e 125 reclute inquadrate dai subalterni e dai sottufficiali promossi al grado superiore), 4 squadroni, 2 compagnie d’artiglieria (una a piedi e una leggera) e 2 di pionieri (con plotone pontonieri). Lo stato maggiore sarebbe stato formato da un generale (il comandante del “quadro”), un brigadiere, 2 colonnelli (i comandanti dei battaglioni quadro), 3 tenenti colonnelli (i comandanti dei granatieri, dei cacciatori e della cavalleria), 4 ufficiali di SMG regolari e alcuni aggiunti tratti dalla gioventù locale.

Latour immaginava di poter disporre di 4 quadri legionari, sufficienti per organizzare una forza di 33.600 uomini su 4 legioni, con numero e colore distintivo (e distintivi particolari dei battaglioni e compagnie). Ipotizzando uno sbarco “anglo-italiano” a Livorno, Latour prevedeva di formare le prime due legioni a Livorno e Firenze e le altre, a seconda della successiva direzione di marcia, a Bologna e Lucca oppure a Civitavecchia e Perugia. Lo stesso si poteva fare in caso di sbarco a Venezia, Ancona o Genova, mediante leve e requisizioni di derrate e cavalli: queste ultime dovevano essere pagate in contanti, rimborsando poi gl’inglesi sulle contribuzioni imposte ai paesi conquistati. Nei centri di formazione delle legioni si dovevano infine stabilire delle riserve col sistema austriaco delle “commissioni economiche”, per ottimizzare la distribuzione delle risorse e bilanciare i carichi tra le varie province.

Altre legioni avrebbero potuto essere organizzate nei territori man mano liberati; ma con quadri tratti dalle prime legioni e non con «les officiers et corps de l’Armée Italique» (l’esercito del Regno Italico) passati dalla parte dell’arciduca. Questi ultimi dovevano essere invece

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incorporati nelle prime legioni per «fondre l’ancienne armée Italique, dans la nouvelle, sans qu’il paraisse qu’on cherche à l’annuler; au lieu que si on conservait la formation ordinaire par régiment, on aurait aucun prétexte plausible pour dessoudre les régiments italiens formés par la France, ce qui dans certains circonstances pourrait être dangereux. Les généraux italiens qui viendraient nous joindre seraient ainsi annexés comme surnuméraires, à leur rang, dans les anciennes légions jusqu’au moment où l’on croirait pouvoir leur confier des commandements particuliers de légions, places, villes, etc. Enfin lorsque le nombre des légions se multiplierait on pourrait en réunir deux ou même trois pour former ce que les Français appellent un Corps d’Armée».

Lo scopo politico dell’incorporazione dell’esercito italiano nella nuova armata era di «dividere» i residui sostenitori dei francesi, impedendo loro di «former corps» e obbligandoli a «suivre la nouvelle impulsion qui leur serait donnée». Gli altri vantaggi dell’organizzazione proposta erano, secondo Latour, di poter aumentare considerevolmente, e in modo rapido e al tempo stesso regolare, gli effettivi; di stabilire la base del futuro esercito italiano, conciliando «le Nationalisme Italien, qu’il est important de réveiller, avec l’obéissance due aux Autorités Militaires Anglaises»; e, infine, «de composer [à l’archiduc François] une armée qu’il aurait pu dès son origine pénétrer de son esprit, et qui serait ainsi l’instrument le plus propre pour l’accomplissement de ses glorieux desseins».

Il piano del capitano Pölt per sorprendere Venezia (23 gennaio 1812)

L’idea di poter amalgamare – in poche settimane, nel corso delle operazioni e su larga scala – un’accozzaglia di mercenari, insorti e transfughi del nemico era abbastanza assurda. Ma è interessante il tentativo di conciliare il progetto “italianista” con un eventuale impiego in Adriatico, facendo leva non più sulla corona sabauda, ma su quella del Regno italico di Napoleone. Del resto Latour conservava in archivio un progetto del 23 gennaio 1812, redatto dal capitano Pölt (già aiutante generale della marina austriaca), per impadronirsi di Venezia con un colpo di mano, grazie al tradimento di 4 ufficiali della marina italiana provenienti dalla k. k. Venezianische Marine (il capitano di fregata Dandolo, il capo dei movimenti del porto Gianxich e il suo vice Petrina e il comandante dell’artiglieria di marina Lugo), tutti – secondo Pölt – «decisi per la buona causa» e disposti a tradire in cambio di avanzamenti di grado e pensioni ai loro eredi in caso di insuccesso.

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Il declino politico dell’arciduca (febbraio-giugno 1812)

Il progetto di Lissa, come abbiamo visto, era ancora incentrato sulla guida politica dell’arciduca, anche se quest’ultima doveva essere resa compatibile con una cooperazione anglo-austriaca e attenta perciò a non ledere gl’interessi di Vienna. Lo spostamento a Malta dava però modo a Bentinck di assumere egli stesso la guida politica dell’insurrezione italiana, ad esclusivo vantaggio dell’Inghilterra. Ciò spiega anche perché i militari inglesi nel Mediterraneo cercavano di screditare Francesco d’Este. In una nota del 5 novembre 1811 al Foreign Office, l’ammiraglio Freemantle riferiva ad esempio di aver appreso da una spia inviata a Cagliari [Carl Metzzer, già capitano del 12° ussari austriaco] che l’arciduca dissuadeva gli ufficiali austriaci dal prendere servizio al soldo inglese, millantando di poter presto offrire loro un ingaggio migliore. La stessa spia riferiva che il cosiddetto “partito francese” della corte di Palermo lo considerava “un visionario” e aveva una pessima opinione di Latour [confidenze di un agente della polizia segreta della regina, l’esule dalmato e sedicente barone G. B. Domenico Jacobi, collegato al cavalier Castrone e rancoroso creditore di 24.000 dollari dal governo inglese].

Il declino politico dell’arciduca fu accelerato, nel febbraio 1812, dalle dimissioni del marchese di Wellesley, suo sponsor nel governo inglese, determinate sia dalla sensazione che il governo non facesse abbastanza per sostenere suo fratello (Lord Wellington) sia per il suo appoggio all’Emancipazione Cattolica.

La morte di Janus de La Tour e il reclutamento di Carlo Catinelli

Contemporaneamente anche la cellula viennese dell’arciduca subì un duro colpo. Sempre nel febbraio 1812, informato dalle spie che a Vienna si reclutavano cittadini francesi o italiani per conto dell’Inghilterra, Napoleone impose infatti al governo austriaco di arrestare Janus de La Tour e altri 14 ufficiali. L’esercito austriaco se ne indignò, anche perché erano tutti decorati dell’ordine di Maria Teresa: alla fine gli ufficiali furono scarcerati, col permesso di recarsi in Sicilia a proprie spese, ma Janus rimase a Vienna, dove poi morì di “febbre cerebrale”. Il progetto rimase così interamente in mano a Nugent, il cui referente politico non era l’arciduca Francesco, ma suo fratello Massimiliano Giuseppe, più leale al governo austriaco.

Nugent reclutò inoltre un personaggio di spicco. Nato a Gorizia il 30 marzo 1780, universitario a Vienna, volontario nella leva generale del 1797, uscito dall’accademia del genio nel 1799, Carlo Catinelli aveva combattuto a Marengo e in Trentino nel 1801 e si era distinto a Caldiero

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(30-31 ottobre 1805), dov’era stato gravemente ferito. Impiegato come invalido negli archivi della guerra, amico di Nugent, nel 1808 era stato richiamato col grado di maggiore e addetto all’arciduca Massimiliano, con il quale aveva fatto la campagna del 1809 distinguendosi ad Abensberg, Eckmühl e Ratisbona. Schiantato dal dolore fisico, nel luglio 1810 aveva ottenuto la pensione di ritiro col grado di tenente colonnello.

L’intervento di Lord Bentinck (27 novembre 1811 – 26 giugno 1812)

Il colpo finale alla leadership dell’arciduca fu inferto tuttavia da Lord Bentinck. Fin dal suo arrivo in Sicilia aveva inteso riprendere i piani di sbarco in Italia, anche se Wellesley, in una lettera del 27 novembre 1811, gettava acqua sul fuoco rammentandogli il fallimento del 1809. Bentinck aveva però una tempra ben diversa dal generale Stuart, e la sua rete informativa gli fece presto comprendere che le forze francesi in Italia erano sul punto di essere richiamate per la campagna di Russia: inoltre gli agenti mettevano in buona luce le capacità insurrezionali dei vari movimenti di resistenza. Deciso a investire il capitale di forze militari a sua disposizione, già il 25 gennaio 1812 l’energico generale proponeva a Lord Liverpool, in alternativa, uno sbarco diversivo in Catalogna o a Valencia per neutralizzare il santuario francese abilmente creato da Suchet, oppure all’Elba e/o in Corsica per farle insorgere. Il 23 febbraio Bentinck affidò al fratello Frederick, in partenza per la Spagna, una lettera per Wellington, in cui lo informava della proposta inviata a Londra: personalmente avrebbe preferito uno sbarco in Corsica, ma era in grado di distaccare 10.000 uomini contro Suchet. Nella risposta del 4 marzo, Liverpool bocciò l’opzione corsa o italiana: nonostante il diffuso malcontento delle popolazioni, non c’erano, a suo avviso, le prove di una sistematica cospirazione per scuotere il giogo francese. Lo entusiasmava, invece, l’opzione spagnola: ne aveva già scritto a Wellington, il quale avrebbe potuto amplificare gli effetti della diversione distaccando parte della guarnigione di Cadice; e l’ammiraglio Pellew, comandante della stazione del Mediterraneo, avrebbe fornito l’appoggio navale. Taceva però a Bentinck di aver appreso dall’ammiragliato che in autunno la testa di sbarco avrebbe dovuto essere ritirata, non essendo possibile rifornirla dal mare durante la cattiva stagione (lo comunicò invece il 5 marzo al solo Wellington).

Tuttavia Bentinck non archiviò l’opzione italiana. Il dispaccio di Liverpool gli dava del resto un ampio margine di discrezionalità, perché subordinava la diversione in Catalogna a migliori opportunità in Italia («unless the project of resistance to the French power in Italy should appear to rest upon much better grounds than those of which we are at

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present apprised»). Entrato in corrispondenza segreta con Nugent, il proconsole inglese continuò a progettare operazioni in Italia, rinviando la partenza delle truppe per la Spagna anche nel timore di cospirazioni fra le truppe napoletane in Sicilia fomentate dal cosiddetto “partito francese”. Ancora il 9 giugno scriveva a Wellington che le truppe erano già state imbarcate, ma che c’erano opportunità d’intervento in Italia [a seguito della partenza dell’Armée d’Italie per la Polonia] e perciò non intendeva intraprendere alcuna operazione sulla costa orientale della Spagna finché non avesse tentato il successo di un altro piano per lo sbarco sulle coste italiane. Infine consentì la partenza di Maitland, ma con forze ridotte a 247 ufficiali e 6.543 uomini (inclusi 4 e 338 del corpo franco calabrese), che, salpate il 25 giugno, arrivarono in vista di Palamos (in Catalogna) solo il 31 luglio.

L’occupazione di Lissa e l’arrivo di Nugent e Catinelli in Sicilia

Indipendentemente dalla destinazione degli sforzi, il decisionismo di Bentinck e i mezzi di cui disponeva guadagnarono stabilmente alla causa inglese gli stessi fiduciari dell’arciduca. Impaziente di agire, Fiquelmont andò in Spagna: il 14 giugno [sei giorni prima delle nozze dell’arciduca con Maria Beatrice di Savoia] scriveva da Ponferrado a Latour che era il momento di sforzi generali e simultanei in Spagna e in Italia. La decisione di Bentinck di organizzare la brigata italiana in Sicilia anziché a Malta e poi di darne il comando a Latour, sottrasse all’arciduca anche il suo agente principale.

La corrispondenza segreta tra Bentinck e Nugent riguardava anche l’organizzazione del corpo italiano e l’occupazione permanente di Lissa con parte delle truppe inglesi a Cefalonia. Partito in marzo per la Sicilia, il 2 aprile Nugent scriveva a Latour da Scutari, informandolo che era in procinto di proseguire il viaggio e che Frizzi era già in avanscoperta a Lissa assieme all’agente inglese a Vienna J. M. Johnson. Il 24 aprile l’isola fu occupata da Duncan Robertson con 1.300 uomini (460 inglesi, 280 corsi, 260 svizzeri e 300 calabresi). Intanto Catinelli e gli altri ufficiali destinati alle leve italiane, unitisi ad una carovana in transito per la Bosnia, arrivavano a Durazzo, dove si imbarcarono assieme a Nugent su una nave inglese. Il 29 giugno Nugent scriveva a Latour da Palermo di essere arrivato dopo un viaggio di 2 mesi e di essere già in procinto, su consiglio di Bentinck, di ripartire per l’Inghilterra.

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B. L’organizzazione dell’Italian Levy(1812-13)

La creazione dei primi due reggimenti (estate 1812)

Tra le accuse rivolte da Bentinck alla corte di Palermo nell’agosto 1811 c’era quella di mantenere nel suo esercito 5.000 disertori e prigionieri “francesi” che in caso d’invasione potevano essere più di impedimento che di aiuto. Ciò non gl’impedì, tuttavia, di approfittare dei tagli di truppe imposti dalla disastrosa situazione finanziaria siciliana, per trasferirne gran parte al servizio inglese. Nel febbraio 1812 il solo Reggimento Estero dell’esercito siciliano [formato da svizzeri, tedeschi ecc.] contava circa 70 ufficiali e 2.000 uomini, per metà ex-prigionieri presi in Spagna o nel Regno di Napoli. Il 1° maggio il re di Sicilia, fra “diverse disposizioni per diminuire il suo Esercito”, consentì “a coloro che lo desider(avano)”, di “passare alle bandiere britanniche”.

La cessione era collegata al contemporaneo arrivo a Malta delle reclute di Portsmouth, e all’effettiva organizzazione della “leva italiana”, disposta con le Regulations for the formation of an Italian Levy to be raised for His Majesty’s service, emanate a Palermo il 13 maggio e controfirmate dal tenente colonnello sir John Hamil Macgil Dalrymple, già ispettore dei Calabrian Free Corps e figlio del generale esonerato per la vergognosa capitolazione di Cintra. L’organico reggimentale era di 1.297 uomini (43 ufficiali, 38 sottufficiali, 32 caporali, 32 carabinieri, 18 tamburi e 1.136 comuni), su 8 compagnie di 160 (4+4+4+4+2+142) e uno stato maggiore di 17 (colonnello, 2 maggiori, aiutante maggiore, 2 aiutanti, pagatore, quartiermastro, chirurgo, aiuto, cappellano, master sergeant, 2 aiutanti, 2 sergenti maggiori e tambur maggiore). Le compagnie erano riunite in due battaglioni (“1st Right”, “2nd Left”) comandati dai maggiori e la 1a e 5a avevano anche un piffero. In ogni compagnia era previsto un pioniere scelto tra «intelligent and active privateers». Sottufficiali e truppa erano ingaggiati per 5 anni con un premio («bounty») di 14 dollari e con giuramento («oath of allegiance») di servire il re d’Inghilterra e i suoi alleati nei paesi rivieraschi del Mediterraneo. Il vestiario includeva giacca («jacket»), pantaloni, mezze ghette e 2 paia di scarpe con due suole di ricambio.

Il 20 maggio, nella lettera di accompagnamento delle Regulations spedite a Londra, Bentinck aggiungeva che gli ex-prigionieri avrebbero formato il 1° reggimento, che, una volta «clothed» a Malta, doveva essere spedito in Sicilia a Iccacia (Palermo) e inquadrato dagli ufficiali ex-austriaci, al comando del “tenente colonnello” Burke, mentre un 2° reggimento sarebbe stato costituito (a Carini, a 16 miglia da Palermo) con gli italiani licenziati dal servizio siciliano, dandone il comando al

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capitano Grant, che aveva servito ai suoi ordini in India nelle truppe dell’East India Company ed era uomo “d’onore e di coraggio”; «many» degli ufficiali ex-siciliani (piemontesi, svizzeri, austriaci) erano «very respectables».

I non italiani erano invece destinati ai battaglioni della King’s German Legion di guarnigione in Sicilia. In giugno passarono al 2° reggimento 16 ufficiali (1 maggiore, 5 capitani, 9 tenenti e 1 alfiere), 2 cadetti e 581 “reclute venute dalla Spagna”, ossia i disertori e i prigionieri delle truppe murattiane. In luglio il Reggimento Estero dell’esercito siciliano aveva già ceduto alle truppe inglesi 1.157 uomini (di cui circa 250 alla KGL e 900 al 2° italiano); i restanti formarono il “3° reggimento estero” dell’esercito siciliano [il 1° e il 2° erano formati dalle truppe napoletane, che a seguito della rivoluzione costituzionale erano state classificate “straniere”].

La conversione di Latour ai progetti di Bentinck (12 settembre 1812)

Nonostante l’ostilità del “partito francese” di Palermo nei confronti dell’arciduca, il 26 luglio la regina Maria Carolina gli fece un’apertura, scrivendo a Latour [il quale doveva trovarsi ancora a Cagliari], che a Palermo era in corso «une mauvaise parodie singerie, aber plump und ungeputz [pesante e grossolana] de la révolution française, sous la protection et la direction du ministre anglais». Questo sfogo con un’altra supposta vittima della perfida Albione era però indirizzato all’uomo sbagliato.

Tornato a Palermo, Latour fu infatti nominato da Bentinck, con o. d. g. del 12 settembre, brigadiere generale dell’esercito inglese e capo dei reggimenti dell’Italian Levy; con lo stesso provvedimento Catinelli [che era stato in precedenza incaricato d’ispezionare le difese costiere della Sicilia] fu nominato tenente colonnello nello stato maggiore del corpo: entrambi con anzianità dal 1° gennaio.

La data del 12 settembre 1812 è significativa: è quella della revisione del trattato anglo-siciliano che metteva a disposizione di Bentinck una divisione siciliana di 7.314 uomini, 681 cavalli e 24 pezzi, con impiego illimitato nel Mediterraneo, comandante inglese e brigadieri designati da Bentinck fra i generali borbonici. Ed è anche la data apposta da Latour ad un suo manifesto che segnava il suo definitivo addio all’Austria [del resto sempre detestata dalla tradizione politica sabauda] e la sua entusiastica adesione ai titanici progetti geopolitici di Bentinck; un manifesto redatto sotto forma di una Lettera [da Cadice] di uno spagnolo

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ad un italiano per incitare gli italiani a seguire l’esempio della Spagna nel difendersi e rendersi indipendenti.

L’Italia, secondo Latour, aveva tutti i requisiti per diventare non già una “Seconda Spagna”, ma addirittura il perno della resistenza contro la dominazione napoleonica. La frammentazione in piccoli stati, rivali tra loro e troppo deboli per resistere all’invasione, poteva spiegare perché l’Italia fosse caduta più facilmente della Spagna «unita in un sol corpo politico». I «piccoli stati» erano però «caduti»; «Una (era) rimasta l’Italia, siccome Uno (era) il Tiranno». Perché dunque, al contrario della Spagna, l’Italia non era risorta? La ragione era che «negli affari della Spagna, vi intervenne l’Inghilterra, e negli affari d’Italia vi intervennero dei Poteri Continentali. Onde in Spagna si cercava di liberare, cioè di dare la libertà, mentre in Italia solo si cercava di introdurre altro padrone». Un «servo popolo, Gallo, Tedesco, Russo» veniva solo per «signoreggiare», non per «liberare» gl’italiani. «L’Inghilterra chiamava il Spagnolo alla libertà, all’armi, alla gloria; il Straniero imponeva all’Italiano, obbedienza, silenzio e contribuzioni».

Esemplare era l’appoggio inglese alla rivoluzione costituzionale in Sicilia: «domandatelo ai Siciliani; ognuno d’essi vi risponderà, gli Inglesi pur armarono la libertà, e la forza Nazionale; la libertà, col formare un libero Parlamento, e un giusto governo; la forza, coll’organizzare un’armata Siciliana». Gli inglesi avrebbero fatto lo stesso a Napoli, Roma, Firenze, Milano, creando «una forte e libera Nazione italiana, che con pari virtù e più stabile Governo, forse farebbe dimenticare al mondo gli antichi Itali, comunemente chiamati Romani».

Il trasferimento del 1° e 2° reggimento in Catalogna (autunno 1812)

Il 5 ottobre Bentinck riferiva al War Office sulle nomine di Latour («an officer of disguished merit and attacked to the person of Archduke Francis») e Catinelli («who is universally considered and respected throughout the Austrian Army, and a follower of the Archduke Maximilian»). [L’indicazione dei referenti politici di Latour e Catinelli sembra suggerire che la doppia nomina intendeva bilanciare due diverse visioni circa il ruolo strategico dell’Austria e dell’Adriatico nell’impiego della leva italiana.] Bentinck si dichiarava inoltre soddisfatto del “rapido progresso” nell’organizzazione dei due reggimenti italiani, di cui aveva scambiato le sedi, trasferendo il 1° a Carini e il 2° a Palermo, per averli entrambi sott’occhio e farne il modello delle truppe napoletane (ossia del “2° Estero”, già Reali Presidi, chiamato a tale scopo a Palermo).

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Latour sperava che queste truppe fossero impiegate in Italia, come scrisse il 13 settembre a Nugent. Nella risposta del 20 ottobre il generale austro-irlandese gli spiegò invece che l’intenzione del governo inglese era che Bentinck inviasse tutti i rinforzi che poteva al generale Maitland [già sbarcato ad Alicante il 10 agosto]; lo scopo del viaggio di Nugent [in Sicilia] era proprio di portare a Bentinck questa richiesta, passando dalla Spagna per raccogliere informazioni. A Londra – spiegava Nugent – anche le persone più inclini [alla causa italiana], come Bunbury, erano convinte che lo sforzo decisivo si doveva fare in Spagna. «C’eut été inutile de lutter contre le torrent (…) l’opinion publique (était) sur ce point d’accord avec celle des ministres, et c’(était) un crime de penser d’employer de troupes autre part qu’en Espagne». Non era pensabile che le truppe tornassero dalla Spagna prima di una vittoria decisiva. E poiché solo dopo si sarebbe fatto qualcosa da un’altra parte, bisognava contribuire a decidere la guerra in Spagna. Inoltre Bentinck era il solo da cui si poteva sperare qualcosa per l’Italia, e bisognava perciò aumentare il suo credito.

Il negoziato sull’incorporazione degli esuberi sardi (autunno 1812)

Nella lettera, Nugent aggiungeva che il numero dei prigionieri italiani in Inghilterra era in continuo aumento: si poteva pensare di formare un terzo reggimento, oltre a completare i primi due. Circa un mese prima, il 26 settembre, l’arciduca aveva scritto da Cagliari a Latour che l’articolo segreto della pace di Vienna relativo agli ufficiali sudditi francesi in Austria era stato annullato. Conseguenza implicita era la possibilità di richiamarli al servizio austriaco, e dunque l’interruzione di quel canale di reclutamento per le leve italiane. In compenso se ne apriva uno nuovo in Sardegna, per la decisione di licenziare un quinto delle truppe, imposta, come in Sicilia, dalla crisi finanziaria. Probabilmente anche su consiglio dell’arciduca, il governo sardo offerse i militari in esubero agli inglesi. Il 9 ottobre il segretario di stato e di guerra, cavalier Gioacchino Alessandro Rossi, scriveva a Latour di fargli sapere se i siciliani o gli inglesi erano interessati a prendere in carico i «4-500» militari stranieri che dovevano essere licenziati, badando a specificare di non poter provvedere al loro trasporto in Sicilia per mancanza di naviglio militare idoneo e per l’impossibilità di pagare un viaggio a nolo e il vitto a bordo.

Dai sondaggi di Latour scaturì un’offerta formale, tramite il ministro inglese a Cagliari: il 4 novembre Hill informava Castlereagh di aver ricevuto l’offerta di «5-600» uomini, inclusi alcuni ufficiali, da sistemare in qualche esercito alleato o nelle truppe inglesi in Sicilia, aggiungendo di aver avuto il consenso di Bentinck; credeva che il generale intendesse

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incorporarli nell’«Italian Legion, the greater part of their recruits being from different parts of Italy». In appoggio alla richiesta, sottolineava che il governo sardo aveva agito saggiamente preferendo ridurre le truppe piuttosto che accettare il sussidio offerto dall’Inghilterra [che avrebbe compromesso la formale neutralità della Sardegna].

Gli ufficiali provenienti dal servizio sardo (marzo 1813)

Nel marzo 1813 un regio viglietto di Vittorio Emanuele autorizzò 15 ufficiali inferiori sardi a passare al servizio inglese nel 3rd Regiment Italian Levy, accordando loro anche una gratifica di 50 scudi. Gli ufficiali erano, in particolare:

3 capitani (Giovanni B. Pigner e Carlo Borra dei cacciatori di Savoia e Onorato Spinetta del corpo franco);

1 tenente (Paolo Onnis del corpo franco); 1 chirurgo maggiore (Giovanni Antonio Boini, del corpo franco); 8 sottotenenti (G. Piccaluga, Giuseppe Fancello, Giuseppe Ciusa e Luigi Grixoni

della R. marina, Carboni giubilato, Luigi Fontana del reggimento provinciale di Bosa, de Carrion de Valverde dei cavalleggeri ed E. Accordi Pastour del genio);

2 guardie del corpo (G. Mameli Clavesana e A. Mercolini).

Al servizio inglese furono trasferiti inoltre anche 7 forzati. Forse si tratta degli stessi 7 soldati del Reggimento nazionale posto di guardia al convento di San Lucifero in cui venivano acquartierate le reclute della leva italiana. L’11 marzo 1813 il capitano del 2nd italian levy Giuseppe De Bouvier (o De Boviere), di professione negoziante, riferiva al barone Sourdiaux, comandante del deposito di Cagliari, sulle aggressioni commesse da fucilieri del reggimento nazionale contro 2 reclute (tra cui il quattordicenne Loddo) e le mogli di due soldati della leva italiana, e sul tumulto delle reclute contro l’ordine di consegna in caserma. negoziante nella vita civile e capitano al servizio inglese. Il 22 marzo l’arciduca scrisse a Latour che gli avrebbe mandato il suo cavallo bruno mediante il 1° tenente Barro, uno dei tre ufficiali incaricati di condurre le reclute al [deposito] dei reggimenti italiani a Palermo. Barro, che aveva servito con molta bravura e distinzione nei cacciatori di Savoia, aveva il permesso del re di passare nelle leve italiane. Il 26 maggio, prima di partire per Zante, l’arciduca raccomandò per il grado di capitano anche De Grandis, già insegna del reggimento svizzero Christ e autore dello schizzo sulla battaglia dell’Authion (1793). [Dopo lo scioglimento del reggimento (1800), De Grandis aveva cercato impiego in Sardegna: ammesso come volontario nell’esercito borbonico, era finito come cadetto aggregato all’Officio topografico di Palermo. Da qui era andato a Vienna, chiamato dal padre che sperava d’impiegarlo nella Landwehr,

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ma il 22 novembre 1812 era partito via Smirne e Malta arrivando a Cagliari ai primi di marzo del 1813, latore di una lettera per Latour.] Nella leva italiana fu in seguito ammesso anche il capitano Gaspare Andreis, nato a Barge nel 1785, entrato nell’artiglieria francese nel 1806 e catturato in Spagna nel 1813. Infine vi fu trasferito, quale tenente colonnello del 3rd Regiment, Giambattista Ciravegna di Narzole, già granatiere volontario del Reggimento Piemonte, ferito a Tolone nel 1793, poi sottotenente degli ussari di Condé nel 1799-01. Passato al servizio inglese nel Reggimento svizzero Watteville, aveva combattuto sotto Abercrombie in Egitto, dove era stato ferito. Tornato in Egitto nel 1807 come capitano dei granatieri della fanteria leggera siciliana, aveva espugnato la ridotta di Cleopatra presso Alessandria, difesa da 600 turchi con 16 cannoni.

C. L’Italian Levy in Catalogna(1812-14)

L’Italian levy e la Brigata siciliana in Spagna (14 nov. – 31 dic. 1812)

Nello “state” del 25 ottobre il 1° Reggimento italiano (Burke) contava 40 ufficiali e 1.153 uomini. Il 14 novembre il 2° (Grant) s’imbarcò a Milazzo con 33 ufficiali e 1.184 uomini, insieme a 605 granatieri e 155 artiglieri siciliani e 2.500 inglesi. Salpato il 15, il convoglio arrivò il 25 a Port Mahon, tranne alcuni trasporti costretti dalla burrasca a tornare a Palermo. Latour e Catinelli partirono il 26 col generale James Campbell (aiutante generale dell’Armata di Sicilia) e col 2° estero siciliano, il 2/27th Foot e parte del 1° italiano (tutti gli ufficiali e circa 900 uomini: ne rimasero infatti in Sicilia 288, secondo lo “state” del 10 dicembre). Il 27 il primo convoglio proseguì per Alicante, dove le truppe sbarcarono il 3 dicembre, acquartierate nei dintorni della città a Santa Fas, San Juan e Muchamiel.

I reggimenti italiani furono assegnati a due differenti divisioni: di conseguenza Latour non ebbe il comando della brigata e rimase, come Catinelli, addetto allo stato maggiore di Campbell (e poi di Clinton). In compenso i reggimenti avevano come maggiori due sudditi sabaudi, il savoiardo Henri Joseph Milliet barone di Faverges e di Challes, e il torinese Giuseppe Righini di San Giorgio. Sottotenente dei granatieri nel 1793, Righini era passato nel 1805 al servizio di Ferdinando IV e nel 1812 a quello inglese. Faverges, nato nel 1775, ufficiale nel 1792, due volte gravemente ferito nella guerra delle Alpi, era passato al servizio

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austriaco nel 1796, ricevendo ancora una ferita nel 1799 e distinguendosi nel 1809 sull’Isonzo. Chirurgo maggiore del corpo era Thomas Shortt, già chirurgo del 20th light dragoons e futuro capo dell’équipe di cinque chirurghi inglesi che il 5 maggio 1821 eseguì a Sant’Elena l’autopsia di Napoleone certificando la morte per cancro allo stomaco.

Il 25 dicembre erano presenti ad Alicante 1.262 fanti (77 ufficiali) e 226 cavalieri (22 ufficiali) siciliani. Lo stesso giorno salparono dalla Sicilia altri 2 ufficiali e 176 uomini del 2° italiano, 14 e 325 calabresi, 22 e 204 cavalieri e 77 e 1.185 fanti siciliani (1° estero), arrivati in Spagna il 31. L’“Armata Combinata” contava 15.280 fanti, 1.000 cavalieri e 36 pezzi, al comando interinale di Campbell, in attesa di Bentinck. Oltre alla brigata “siciliana” (in realtà tutti “esteri” napoletani) comandata dal colonnello brigadiere Gaetano Pastore, e ai due reggimenti italiani, il corpo includeva la divisione Carey dei corpi franchi calabresi (352 con 16 ufficiali), 5.400 spagnoli (la Divisione “Mallorquina” formata nelle Baleari da Whittingham), 3.900 fanti (1/10th, 1 e 2/27th, 1/58th, 1/81st Foot e battaglione granatieri) e 800 cavalli (20th light dragoons e ussari di Brunswick–Oels) inglesi, 2.000 annoveresi e 400 svizzeri (Dillon). Cooperavano con l’Armata anglo-siciliana anche altri 3.500 spagnoli (Divisione Roche, 4a dell’Armata di Murcia comandata dal generale Elio).

Il disarmo del 2° reggimento italiano a Xixona (8-10 febbraio 1813)

Il 2° reggimento rivelò fin dall’inizio di essere assai meno affidabile del 1°: nei primi due mesi ebbe infatti 137 disertori, un ottavo della forza. La ragione di fondo stava nell’essere composto in gran parte da galeotti napoletani che avevano già disertato dall’esercito murattiano per passare in Sicilia con la speranza di poter tornare da lì nel continente o almeno di vivere tranquilli in qualche sonnolenta guarnigione, e che non gradivano affatto di essere riportati in Spagna, e al fuoco. Contribuiva però anche l’atteggiamento del colonnello Grant, che, secondo una nota riservata di Clinton, mancava delle qualità e dell’esperienza di Burke ed era «cordially detested by all the men of his regiment» per aver adottato «all the minute worry of the old British school». Non si può escludere, però, che le diserzioni – con passaggio al nemico – avessero almeno in parte una motivazione politica analoga a quelle che imperversavano nel battaglione di Brunswick–Oels (inquadrato nella 7th Division), i cui ufficiali scrivevano al loro sovrano in esilio in Inghilterra di richiamarli dalla Spagna per farli sbarcare alle foci dell’Elba e far insorgere la loro patria. Sentimenti – come vedremo nel prossimo paragrafo – condivisi anche dagli ufficiali delle legioni annoverese e italiana.

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Assegnato alla Divisione Clinton, il 2° era dislocato a Xixona (Jijona), poco a Nord di Alicante. L’8 febbraio Clinton avanzò in ricognizione su Alcoy col 2° e un battaglione spagnolo. Durante la marcia 2 compagnie italiane furono decimate dalle diserzioni, malgrado gli sforzi degli ufficiali per trattenere gli uomini, tanto che Clinton ritenne più prudente tornare a Xixona. Durante la notte le diserzioni continuarono e in due giorni passarono al nemico 86 uomini: l’ultimo gruppo si portò via pure un ufficiale, e solo l’intervento di un caporale evitò che l’uccidessero. Grant e gli altri ufficiali dissuasero Clinton dal rimandare il reggimento ad Alicante, dicendogli che avrebbe disertato in massa strada facendo, e il generale spedì una staffetta a chiedere istruzioni a Campbell. Arrivato di persona il mattino del 10, quest’ultimo ordinò di disarmare gli italiani e di rimandarli ad Alicante scortati dal battaglione spagnolo (Murcia) e seguiti da una colonna inglese (1/27th e uno squadrone del 20th light dragoons), arrivata alle 5 di sera. Radunati in uno spazio aperto e sotto tiro degl’inglesi, gli italiani si lasciarono disarmare senza opporre resistenza, e, una volta arrivati ad Alicante, furono messi al sicuro a bordo delle navi da trasporto e sotto il tiro dei vascelli all’ancora. L’11 febbraio Campbell ne informava Bentinck, dando atto a Grant di essere stato «unremitting and zealous» e al 1° reggimento (dislocato a 4 miglia da Alicante) di essere rimasto «steady». Dai 900 uomini che restavano nel 2° si poteva inoltre ricavare il “fondo” («foundation») di un corpo considerevole, «but much and careful needing will be required».

Clinton scrisse più tardi al cognato Whittingham che la decisione di disarmare gli italiani era stata provvidenziale, perché erano sicuramente d’accordo coi francesi, i quali, appena un’ora dopo, mossero da Alcoy per attaccare Xixona, contando certamente sulla defezione italiana e ignorando la contromisura adottata da Campbell. A Clinton era rimasto solo un debole battaglione di granatieri, ma alle 8 di sera arrivò da Palamos il 1/58th (David Walker), in tempo per respingere la colonna nemica, che perse 6 prigionieri. Secondo Clinton la cosa peggiore, se la sorpresa fosse riuscita, sarebbe stato «the moral effect which it would have produced in the country [Spain]; where it would have been generally believed that a British battalion (for, being dressed in scarlet, they would have been supposed to be Britain) had fired upon the Spaniards and joined the French. To do away such an impression would have been a work of time and difficulty». Il 13 febbraio la posizione di Xixona fu rilevata dalla brigata siciliana. Il 18, inoltrando a Wellington lettere ricevute a Cadice da Campbell, sir H. Wellesley commentava: «it seems that no great things are to be expected from the Italian levy».

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La battaglia di Biar e Castalla (12-13 aprile 1813)

Secondo i progetti il corpo doveva essere comandato da Bentinck, ma il tentativo di Ferdinando IV di riassumere il potere costrinse il generale ad annullare la partenza, e così, il 25 febbraio, il comando fu assunto dal generale Sir John Murray, il quale si propose di fissare le forze di Suchet sulla linea dello Xucar, per coprire uno sbarco di sorpresa a Valencia. Il 3 marzo la brigata siciliana prese parte alla prima ricognizione su Alcoy (ancora più a N di Xixona) e il 6 i granatieri, col 27th Foot, penetrarono in Alcoy tallonando la ritirata nemica. Il 1° italiano, partito il 5 marzo in ricognizione su Tibi, ebbe molti ammalati in conseguenza di un bivacco notturno (pneumonia tifoide) e fu colpito da oftalmia (probabilmente contratta a Palermo) in misura più ampia degl’inglesi. Occupata la linea Tibi–Alcoy, il 17 un battaglione estero fu inviato all’estrema sinistra (a Sax, presso Elda, a NO di Alicante). Il 19 tutta l’armata si concentrò a Castalla [40 km a N di Alicante e ad O di Alcoy] su tre linee, con la destra a Castalla e la sinistra alle montagne di Tibi. Il 20 la brigata siciliana avanzò su Biar, alle falde dei monti Cids, per sostenere l’avanguardia del colonnello Frederick Adam (includente i calabresi e il 1° italiano) che occupava gli sbocchi del passo. Il 26 marzo Murray ricevette però ordine da Bentinck di rimandargli 2 battaglioni per fronteggiare il colpo di stato reazionario in Sicilia. I battaglioni (6th KGL e granatieri inglesi) sbarcarono a Palermo il 1° aprile, quando la crisi era già stata risolta, ma tanto bastò per scoraggiare Murray e porre fine alla sua offensiva.

Fu allora Suchet a prendere l’iniziativa: travolta il 10 aprile una divisione spagnola a Yecla, il 12, muovendo da Villena, l’avanguardia francese attaccò il passo di Biar. Barricato nel villaggio coi soli calabresi e aggirato dal nemico, Adam si ritirò in perfetto ordine, sostenuto dal resto della brigata e poi anche dai granatieri reali siciliani. L’Armata era schierata con la destra (Clinton) a Castalla e il centro (Mackenzie e Adam) e la sinistra (Whittingham) su un fronte di 3 km ad O della città, appoggiato alle colline e fortemente trincerato.

Il 13 aprile Suchet scese da Biar e, visto impossibile l’aggiramento dell’ala destra inglese, concentrò l’attacco sulla sinistra, tenuta dagli spagnoli. Malgrado la superiorità numerica (18.716 uomini e 30 pezzi contro 13.564 e 24 francesi) e l’ottima posizione, Murray rischiò di perdere la battaglia mandando Catinelli da Whittingham con l’ordine di aggirare a sua volta l’ala destra nemica, lasciando così una falla tra gli spagnoli e Adam. Murray in seguito negò di aver dato un tale ordine; tra le ipotesi ricordate da Oman, c’è che Catinelli l’avesse equivocato per la sua scarsa padronanza dell’inglese. In ogni modo Whittingham riportò in tempo gli spagnoli sulle posizioni, mentre il 121e de ligne, che aveva

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tentato di sfondare la sinistra di Adam (2/27th), fu respinto e inseguito, provocando la ritirata di Suchet sullo Xucar. Nell’azione si distinsero ancora una volta i calabresi e il 1° italiano, le cui perdite complessive (a Biar e Castalla) furono di 59 e 103 uomini: in particolare i calabresi ebbero 8 morti e 51 feriti (inclusi 2 ufficiali), il 1° italiano 23, 52 (3) e 28 dispersi, contro 18, 92 (2) e zero del 2/27. Il 2° italiano (con Mackenzie) e il 2° estero (con Clinton, presso il quale si trovava Latour), schierati al centro e all’ala destra, furono impegnati solo nel tardivo inseguimento ordinato da Murray.

Tab. 1 – L’Anglo–Sicilian Army alla battaglia di Castalla (12-13 aprile 1813)Grande Unità Comandante Btg Forza UnitàAdvance Guard Adam,

Frederick3 1.179 2/27th (Inniskilling) Foot

1 coy De Roll’s (1th rifles)Calabrese Free Corps1st Italian Levy Regt (Burke)

1st Division Clinton, William(Latour, Catinelli)

5 4.036 1° Regg. Estero (Pastore) (2 Btg)4th Line Bn, King’s German Legion1/58th (Ruthlandshire) Foot2/67th (South Hampshire) Foot

2nd Division Mackenzie, John

5 4.045 De Roll–Dillon Provisional Bn2nd Italian Levy Regt (Grant)1/10th (North Lincoln) Foot1/27th (Inniskilling) Foot1/81st Foot

Cavalry (7) 1.036 20th Light Dragoons (2 sqs)Foreign hussars (80 men)Brunswick–Oels Hussars (2 sqs)1° Cavalleria siciliano (2 sq) Hus. de Almansa e Drag. Olivenza

Artillery - 500 30 pezzi1st Spanish Div. “Mallorquina”

Whittingham, Sir Samford(Col. Serrano)

6 3.901 Reg. 2° Murcia, Reg. GuadalajaraReg. Córdoba, Reg. Mallorca (caz. y granad.), Reg. 5° Granaderos

2nd Spanish Div. Roche Philip K. 5 4.019 ?TOTALE. Sir John Murray 24+7 18.716 30 pezziNOTA. Al 25 dicembre 1812 il 1° Estero contava 1.262 uomini (77 ufficiali) e il 1° e 2° squadrone del 1° cavalleria 226 (22 ufficiali). Nell’agosto 1813 restavano in Spagna 1.150 fanti (50 ufficiali) e 161 cavalieri (11 ufficiali). Al 1° ottobre la forza era di 597 granatieri e 1.335 fanti del 1° estero.

Il fiasco di Tarragona (31 maggio-19 giugno 1813)

Murray si limitò a rioccupare Alcoy, e giustificò la sua inazione con il richiamo di forze in Sicilia e l’oggettiva mancanza di carreggio e di rifornimenti, che arrivavano solo dalla Sicilia e dall’Algeria. Tuttavia circa un mese dopo Wellington cominciò a preparare l’offensiva contro Giuseppe Bonaparte che avrebbe portato alla battaglia di Vitoria e

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assegnò a Murray il compito di bloccare Suchet insieme alle armate spagnole dei generali Elio, del Parque e Copons, per impedirgli di accorrere a Nord in sostegno di Giuseppe. In particolare Murray doveva minacciare Tarragona insieme con le forze catalane (Copons), mentre Elio e del Parque dovevano investire Valencia. La manovra impegnava ben 75.000 uomini, 43.000 spagnoli con 34 pezzi su Valencia, e 16.052 di Murray e 15.761 di Copons su Tarragona. L’Armata di Murray conservava lo stesso ordine di battaglia precedente, con una forza di 14.345 fanti, 801 dragoni e ussari e 906 artiglieri con 24 pezzi da campagna (2 batterie inglesi e 1 portoghese), più un parco d’assedio. Il 1° italiano era sempre con Adam, e il 2° con Mackenzie: il 31 maggio avevano insieme 67 ufficiali e 1.451 uomini. Il 4 giugno l’Armata contava 739 ufficiali e 15.313 uomini, inclusi 67 e 1.041 del 1° estero, 228 e 4.624 di fanteria spagnola, 37 e 764 cavalieri (726 cavalli) e 53 e 767 artiglieri.

Imbarcatasi il 31 maggio, l’Armata sbarcò il 2 giugno nella baia di Salou, 8 miglia a S di Tarragona, e, rinforzata da 7.000 catalani, il 4 giugno investì la piazza, difesa dal generale Bertoletti con appena 1.600 uomini. Metà erano italiani del I/7° di linea, e il maggiore Faverges fu incaricato di indurli a disertare mandando nottetempo agli avamposti agenti di fiducia per convincere le sentinelle e offrire premi (16 pezzi forti di Spagna, aumentati a 20 e oltre per chi disertava con le armi e a 30 per gli zappatori). Qualche risultato fu certo ottenuto, se il maggiore A’Court chiedeva di designare un ufficiale per inquadrare i disertori.

Nonostante l’esigua guarnigione e le opere in parte diroccate durante il precedente assedio francese, la piazza resistette eroicamente al fuoco delle batterie e delle cannoniere inglesi, effettuando sortite e respingendo un attacco debolmente abbozzato contro il Forte San Carlo. Non avrebbe però potuto resistere se Murray avesse avuto il coraggio di attaccare la breccia aperta il 7 giugno. L’assalto era previsto per l’11 giugno, e il 2° italiano doveva prendere il Forte Reale: ma, respinta da Bertoletti l’intimazione di resa, e avuta notizia di movimenti di forze francesi in direzione della piazza, Murray non volle rischiare e ordinò il reimbarco, piantando in asso gli spagnoli, abbandonando 18 pezzi pesanti e 6.200 proiettili e concludendo l’assedio con 600 perdite contro 120 della guarnigione. Le truppe si reimbarcarono il 12, ma l’indomani, comparsa in lontananza una debole ricognizione francese, Murray fece sbarcare di nuovo 2 compagnie del 1° italiano, che non riuscirono però a prendere contatto col nemico. Salpata finalmente il 16 giugno, l’Armata fece scalo a Balaguer, dove incontrò Bentinck in arrivo dalla Sicilia.

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La campagna di Bentinck in Catalogna (19 giugno – 21 settembre)

Piegato con la forza il conato di Ferdinando IV e ristabilito il vicariato generale (29 marzo), e assicuratosi che Murat non avrebbe attaccato la Sicilia, Bentinck era partito il 30 maggio col vascello America, unendosi poi alla squadra dell’ammiraglio Pellew. Sbarcato a San Felipe e rilevato il comando da Murray [sottoposto nel 1814 alla corte marziale, che fu clemente], Bentinck pensò giustamente che il modo migliore di eseguire il compito assegnato da Wellington all’Armata della Spagna orientale era di raggiungere Elio e Del Parque a Valencia. Fatto saltare il forte di Balaguer per non dovervi lasciare un presidio, salpò il 19 [due giorni prima della battaglia di Vitoria]. Ritardata da una tempesta che costò 4 navi, l’Armata sbarcò il 22 ad Alicante, seguita il 25 da rinforzi siciliani. La Divisione Clinton fu riorganizzata su 2 brigate, la “destra” siciliana e la “sinistra” italiana (comandata da Latour); la cavalleria siciliana fu riunita con l’inglese agli ordini di Lord Frederick Bentinck, fratello del generale in capo, e i calabresi rimasero nell’avanguardia (Adam).

Avendo Suchet abbandonato Valencia per concentrare le forze in Catalogna, Bentinck decise di occuparla e il 3 luglio mosse su Alcoy. Lo stesso giorno riferiva a Latour di aver parlato a Wellington della situazione sanitaria della brigata italiana e che uno dei chirurghi era stato rimosso. Contava di partire per l’Inghilterra e di essere a Portsmouth entro tre settimane. Il 9 luglio l’Armata entrò a Valencia. Ripresa la marcia il 18, il 21 la 1a Divisione era a Vinaroz, dove fu raggiunta il 23 dalla 2a. Intanto si cercava di costruire un ponte sull’Ebro, traghettato poi il 26 e 27, mentre la 1a Divisione era già arrivata via mare a Balaguer, dove il 28 si riunì tutta l’Armata. Il 29 Bentinck mosse su Tarragona e il 30 investì la piazza, occupando il colle dell’Olivo. Qui si trovava la brigata siciliana, sostenuta da quella italiana, mentre Adam era al caposaldo esterno di Altafulla [sulla costa, poco a N di Tarragona]. Da un dispaccio di Clinton del 14 agosto risulta che Latour aveva qualche difficoltà con la lingua inglese: contava però sulla traduzione del capitano Shearman, ufficiale di collegamento con gli italiani. Tarragona fu comunque soltanto bloccata e il 17 agosto, fatte saltare in aria le rimanenti fortificazioni, il presidio si ritirò dietro il Llobregat presso Barcellona.

Occupate Tarragona, Reus e Villaseca, l’Amata avanzò poi sulla linea da Villafranca a Vinaroz, con posti avanzati alle gole di Ordal (tra le valli di Villafranca e il Llobregat) e un posto intermedio a S. Golgat. Il 25 agosto i due reggimenti italiani (Divisioni Clinton e Mackenzie), avevano 1.946 presenti (989+957), inclusi 71 ufficiali (35+36). Il 26 Clinton ordinava a Latour di lasciare agli spagnoli il blocco di Tortosa e d’inseguire il nemico con Sarsfield e l’Armata di Catalogna. Attestatosi

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sul Llobregat, il 12 settembre Suchet sferrò la controffensiva da Molinos del Rey. Troppo sicuro della sua posizione, Adam aveva trascurato di collocare un avamposto al burrone che proteggeva il suo accampamento: così, verso mezzanotte, i francesi poterono attraversare indisturbati lo stretto ponte, schierarsi e sorprendere il campo inglese nel sonno. Adam riuscì a malapena a ritirasi in disordine a Villafranca, con un bilancio di 600 perdite contro 270. Il 13 Bentinck ripiegò dietro Arbos protetto da 8 pezzi e dalla cavalleria di Frederick. Nell’azione si distinse la cavalleria siciliana, caricando quella francese che cercava di penetrare in Villafranca. La ritirata proseguì poi per Vendell e Tarragona, lasciando un caposaldo a Santa Cristina. Intanto Tarragona fu fortificata trasportandovi tutto il materiale da guerra lasciato ad Alicante e il 21 settembre le truppe assunsero i loro quartieri; la cavalleria e gli spagnoli a Reus, la fanteria a Tarragona.

Il ritorno di Bentinck a Palermo (3 ottobre – 4 dicembre 1813)

In Sicilia, intanto, il partito costituzionale era stato messo alle corde dall’appoggio strumentale dei reazionari alla fazione rivoluzionaria, con la paralisi del parlamento e la formazione (il 28 luglio) di un nuovo ministero reazionario. Il 15 agosto il duca d’Orléans, sostenitore della rivoluzione liberale, scriveva a Bentinck da Palermo che il “partito francese” (cioè la corte borbonica) aveva rialzato la testa e che il generale doveva tornare subito, perché la situazione stava precipitando. A suo avviso il comando del Mediterraneo non era cumulabile con quello della Spagna Orientale: sperava che le truppe siciliane, la leva italiana e qualche battaglione inglese potessero tornare per agire in Italia. Era prematuro portare la guerra in Francia, come sembrava volere Wellington; piuttosto si dovevano sollevare le province del Midi. Il duca riferiva inoltre della partenza dell’arciduca Francesco d’Austria Este per Zante, da dove gli aveva scritto il 27 luglio.

La sconfitta di Ordal consentì a Bentinck di sganciarsi dalla Spagna, ovviamente col consenso (e con sollievo) di Wellington. Imbarcatosi il 22 settembre a Tarragona, sbarcò a Palermo il 3 ottobre, e subito riprese il controllo, impose al vicario generale Francesco di Borbone la nomina di un nuovo ministero costituzionale, fece sciogliere il parlamento e, con proclama del 30 ottobre, assunse provvisoriamente i poteri di polizia. Il 4 dicembre espose al vicario generale il progetto, poi definito da lui stesso un mero “sogno filosofico”, di cedere l’isola all’Inghilterra in cambio della restaurazione sul trono di Napoli e di un ingrandimento territoriale a spese del papa.

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Le operazioni in Spagna dall’ottobre 1813 al marzo 1814

A seguito della caduta di San Sebastian e Pamplona e della ritirata francese ai Pirenei, il 22 ottobre il quartier generale e la divisione Mackenzie avanzarono a Villafranca e il 24 la brigata napoletana fu alloggiata a Torreybarra. Burke fu inviato in Inghilterra a reclutare altri prigionieri italiani, e il comando dei due reggimenti italiani fu attribuito a Righini e Faverges, promossi tenenti colonnelli. L’Armata rimase a Sud di Barcellona, sostenendo occasionali scontri a Ordal, finché il 18 gennaio Clinton forzò le posizioni di San Vicente e penetrò nella valle del Llobregat. Il 6 febbraio l’Armata bloccò Barcellona. Il 14 la brigata napoletana fu inviata con una inglese alle gole di Martorell per catturare le guarnigioni di Lerida, Mequinenza e Moncoa le quali, ingannate da un falso ordine scritto da un aiutante di Suchet (Juan van Hallen) si erano arrese a condizione di potersi liberamente ritirare a Barcellona: accerchiate, dovettero deporre le armi: tra esse c’era anche il generale Lamarque. Il 19 febbraio la brigata tornò sotto Barcellona attestandosi a San Felice e Sarria, dove il 23 respinse una sortita francese. Il 3 marzo Ferdinando VII di Spagna passò per Sarria, salutato dall’esercito, proseguendo per Molinos del Rey e Valenza.

D. La ripresa del progetto italiano(24 febbraio-3 luglio 1813)

La ripresa del progetto italiano (24 febbraio 1813)

Come scrive Oman, nell’inverno 1813 Wellington dovette «discourage side-shows», ossia progetti di distogliere forze dalla Spagna per aprire fronti insurrezionali in Olanda (capeggiato dal principe d’Orange, allora ADC di Wellington), Germania (con l’impiego della King’s German Legion) e in Italia. La sconfitta di francese in Russia sembrava infatti riaccreditare la teoria di Lord Liverpool che Napoleone si sarebbe ritirato dalla Spagna per difendere la Germania: ma questi progetti rischiavano di compromettere il piani di Wellington per la campagna decisiva, culminata il 21 giugno a Vitoria.

Il più insidioso di questi progetti riguardava l’Italia. Bentinck aspirava ad emulare Wellington con una “sua” guerra Peninsulare, e anche per questo aveva inizialmente rinunciato a comandare l’Armata di Alicante. Inoltre aveva incontrato l’ammiraglio Greig, comandante della squadra russa del Mar Nero, il quale, di propria iniziativa, aveva offerto agli inglesi 15.000 uomini dell’Armata del Danubio, da imbarcare a Odessa e

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impiegare in Italia o, in alternativa, in Spagna. Inoltre i commercianti inglesi di Messina premevano per riaprire le esportazioni nel Continente: e fu su loro impulso che Bentinck decise la rioccupazione della vecchia base borbonica di Ponza, evacuata alla fine del 1809. Il 15 febbraio 1813, a Palermo, il fuoriuscito napoletano Tommaso Reale presentò a Bentinck un promemoria su un piano insurrezionale in Piemonte, Svizzera e Tirolo. Il 24 febbraio, proprio mentre una forza navale inglese cominciava l’attacco contro Ponza, il generale scriveva a Bathurst che era necessario agire in Italia. La soluzione della guerra non poteva avvenire in Germania, perché la Russia sapeva combattere solo in difesa; le forze inglesi nella Spagna Occidentale erano sprecate, perché Wellington era troppo distante, né si poteva avanzare verso di lui, senza la cavalleria necessaria per operare in terreno aperto e con truppe spagnole buone a nulla. Senza contare che in Spagna gl’inglesi erano solo ausiliari, mentre in Italia sarebbero stati protagonisti. L’esercito siciliano finalmente funzionava, le forze francesi in Calabria erano al minimo, e una volta presa Napoli si poteva marciare al Nord con 30-40.000 uomini, sfruttando l’arciduca Francesco e il duca d’Orléans, generi dei re di Sardegna e di Sicilia, per far defezionare sia italiani che francesi. L’arciduca era poi ottimo anche come capo politico.

La stroncatura di Wellington

Sapendo che occorreva il consenso di Wellington, Bentinck indirizzò anche a lui una copia del progetto: ma il duca protestò energicamente con Bathurst, sostenendo che operazioni limitate come lo sbarco della leva italiana non bastavano a incoraggiare insurrezioni, per quanto ostili fossero ormai gli italiani al dominio francese. Per riuscire, occorreva impiegare inizialmente almeno 30-40.000 uomini. Gl’italiani preferivano certamente il dominio inglese a quello francese o austriaco, e avrebbero formato una grande armata: ma il governo inglese era pronto ad armarla ed equipaggiarla, e a sostenere una nuova guerra su vasta scala?

Reale, la “Vienna Branch”, i piani di Latour e la nota per Nugent

Reale aveva un posto nei piani di Bentinck, come risulta da una sua “Nota di persone disposte a dirigere e sostenere sollevazioni contro i francesi in diverse città d’Italia”, datata Palermo 14 marzo 1813. Il 21 marzo Bentinck informava Castlereagh di aver scelto come capo della “Vienna Branch” il maggiore Dumont, già ufficiale austriaco e fiduciario di Latour, al quale, insieme a Nugent, era ovviamente attribuita l’alta direzione del moto insurrezionale.

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In una nota per Nugent, Latour gli chiedeva di reclutare addirittura 250-300 ufficiali austriaci, soprattutto subalterni, di tutte le armi, inclusi cavalleria, artiglieria genio, facendoli passare da Giannina o da Scutari e Durazzo, perché Bentinck voleva mettere in campo un’armata di 20.000 uomini, inquadrata da ufficiali austriaci. Nugent doveva inoltre coordinare direttamente il piano insurrezionale italiano e stabilire un comitato centrale per coordinarlo coi piani insurrezionali in Dalmazia, Illiria, Tirolo e Svizzera. Doveva designare capi nelle città principali italiane, comunicando loro solo la parte indispensable del piano. Lo scopo finale era la liberazione totale dell’Italia, «à laquelle l’Angleterre désire donner une organisation politique forte, durable, libérale et nationale»; il modello costituzionale del nuovo stato restava imprecisato, perché «le voeu seul de la nation italienne décidera en dernière analise de son organisation politique future, puisque l’Angleterre, animée d’un noble désinteréessement veut se borner à la soutenir». La propaganda doveva però puntare sulla riforma parlamentare, con una camera dei pari (senato) e una dei comuni (rappresentanza delle città), sul ristabilimento del Santo Padre, sul ruolo “antinazionale” al quale i francesi avevano condannato l’esercito italiano, sull’abolizione della coscrizione e delle imposte.

Le speranze di Latour furono però di breve durata. La prova di forza con la corte di Palermo, seguita dalle aperture negoziali di Murat, misero ancora una volta in soffitta l’apertura del fronte italiano. Ancora ai primi di luglio, però, Latour approfittò dell’annunciata partenza di Bentinck per l’Inghilterra per indirizzargli un ultimo appello, in cui vantava la buona prova data dal 1° reggimento a Castalla e la fondata speranza che anche il 2° [in ricostituzione in Spagna] e il 3° [in formazione a Palermo con gli esuberi sardi] potessero comportarsi altrettanto bene. Le persone di buon senso, sosteneva Latour, dicevano di mandarli in Italia: e invece li mandavano ad Alicante, dove si tenevano inutilmente 8.000 uomini, perduti in ogni caso per le febbri. Senza pensare che, se l’Italia restava francese, avrebbe fornito nell’anno l’equivalente di 10 armate di Suchet.

Il ritorno dell’arciduca a Lissa e Fiume (luglio-novembre 1813)

Cominciando a percepire che gli ozi di Cagliari potevano costargli l’estromissione dalla questione italiana, già nel marzo 1813 l’arciduca aveva progettato di partire per Zante prima dell’estate. Il 27 maggio, dopo aver incontrato Andreis e Gregg, reduci da Castalla e in quarantena a Cagliari, scrisse a Latour che gli ufficiali della leva italiana erano disgustati di essere impiegati in una guerra e in una forma ben diverse dalle loro aspettative. Come risulta da una lettera del 26 giugno, la

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partenza fu però decisa a seguito della notizia dell’armistizio tra Napoleone e gli Alleati e della conferenza di pace, che faceva ritenere imminente l’evacuazione della Spagna. La lettera menziona anche Catinelli (aveva scritto dalla rada di Salou), Andreis (contava di andare a Mahon alla prima occasione), De Grandi (sperava di ottenere a Palermo il grado di capitano o almeno di primo tenente esibendo un attestato che lo qualificava “ufficiale matematico” del reggimento Christ) e il barone de Guenoens (intendeva andare in Catalogna per chiedere un posto di capitano nella leva italiana).

Il 3 luglio il maggiore A’Court informava Latour che il Tremendous (capitano Campbell) era diretto a Mahon per imbarcare l’arciduca e la moglie: li compiangeva, data la notoria rozzezza di Patrick Campbell. Il 27 luglio l’arciduca comunicava da Zante al duca di Orléans di essere in partenza per Cefalonia e di lì per Vienna, dove Metternich gli aveva imposto di tornare, con l’intimazione di troncare i rapporti con i suoi sostenitori italiani. La situazione mutò tuttavia radicalmente con la ripresa delle ostilità in Germania, l’entrata in guerra dell’Austria (12 agosto) e la ritirata franco-italiana (30 settembre). Tornato a Lissa e sbarcato poi a Fiume il 16 ottobre, il 6 novembre l’arciduca ragguagliava Latour sulla vittoria di Lipsia, la capitolazione del castello di Trieste, l’avanzata a Treviso, la presa delle Bocche di Cattaro da parte di Brunazzi. Il maggiore Frizzi gli aveva portato le lettere scrittegli da Latour il 9 agosto e 22 settembre da Tarragona e lo pregava di salutargli Andreis e Leveroni.

E. Il corpo Nugent sulla destra del Po(3 novembre 1813 – 17 aprile 1814)

Il piano di Nugent

Il 14 ottobre, da Palermo, il duca d’Orléans aveva affidato al capitano di SMG siciliano Francesco Saverio Del Carretto, in partenza per la Spagna, una lettera per Wellington in cui gli comunicava che Nugent era in Croazia e intendeva fare “un salto preparatorio e combinato col nostro” in Italia. L’accenno si riferisce chiaramente al progetto di uno sbarco simultaneo da Fiume in Romagna e da Milazzo in Lunigiana, per sollevare i due versanti degli Appennini, tagliare i collegamenti tra la Lombardia e l’Italia centrale e agevolare l’aggiramento dell’Armée d’Italie dalla destra del Po. L’idea di Nugent fu recepita a Palermo da Catinelli, il quale – come diremo meglio nel prossimo paragrafo –

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presentò il 7 novembre a Bentinck un piano per sbarcare in Toscana e sollevare la Lunigiana col 3° reggimento della leva italiana. Lo sbarco avvenne effettivamente il 10 dicembre, ma l’operazione si risolse in un fiasco.

Favorito dal fatto di avere un grado più elevato di quello di Catinelli, da una piena intesa con il comandante della forza navale inglese in Adriatico, ammiraglio Thomas Freemantle, dal prestigio guadagnato con la fulminea liberazione della Croazia e dell’Istria, dalla prossimità alle linee di operazione dell’Armata austriaca d’Italia e dal mutamento di fronte dell’Armata napoletana, Nugent riuscì invece a raggiungere tutti gli obiettivi che si era prefissato, anche se le esitazioni di Hiller e poi di Bellegarde, l’ambiguo atteggiamento di Murat, e la valorosa resistenza dell’Armée d’Italie non consentirono di sfruttare fino in fondo le opportunità che aveva aperto alle operazioni alleate.

Il piano di Nugent riprendeva quello già abbozzato il 27 novembre 1812 dall’agente a Lissa J. M. Johnson per prendere Comacchio, basata su una ricognizione personale dei luoghi e delle forze nemiche. L’idea di Johnson era però di una semplice dimostrazione tesa a mettere in evidenza che l’Italia era sguarnita e il nemico vulnerabile, allo scopo d’incoraggiare gl’italiani a insorgere. Quello di Nugent era invece un vero e proprio piano strategico e operativo, funzionale allo sfondamento della seconda linea di resistenza franco-italiana, al blocco di Venezia e alla manovra aggirante da Occhiobello sulla destra del Po.

La debolezza del piano era di non tener conto alcuno dell’Armata napoletana. Quello che in origine era un azzardo, si trasformò poi, col passaggio di Murat nel campo alleato, in un fattore più ambiguo; da un lato un vantaggio, perché la presenza delle forze napoletane dissuadeva una controffensiva decisa delle forze franco-italiane; ma dall’altro lato di freno, perché l’ordine di Bellegarde di cooperare a tutti i costi con un alleato infido impedì a Nugent di sviluppare fino in fondo il suo disegno strategico. Perciò si trovò spesso ai ferri corti con Murat: e non a caso fu proprio a lui che Metternich commissionò la puntigliosa confutazione (diffusa nel novembre 1814) del Mémoire historique sulla propria condotta politica e militare dalla battaglia di Lipsia alla pace di Parigi presentato da Murat al congresso di Vienna.

La preparazione della spedizione (3-13 novembre 1813)

Dopo la liberazione dell’Istria, Nugent aveva concorso al blocco di Trieste. A seguito della resa della città (29 ottobre), la sua brigata fu assegnata di rinforzo all’ala sinistra dell’Armata austriaca; concertatosi

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con Freemantle, il 3 novembre Nugent chiese al suo superiore, tenente maresciallo Radivojevich, di autorizzarlo a sbarcare alle foci del Po, riuscendo a convincerlo che 2.000 uomini in più sul fronte dell’Adige sarebbero serviti a poco, mentre, impadronendosi dei punti di passaggio del Po, avrebbero consentito all’ala sinistra austriaca di manovrare sulla destra del Po in direzione di Piacenza, tagliando le comunicazioni del nemico con l’Italia centrale e costringendolo a ritirarsi sul Ticino per evitare l’aggiramento.

Tenuto conto della cattiva stagione e della mancanza – nella sponda italiana dell’Alto Adriatico – di porti in grado di ricevere grosse navi, Freemantle e Nugent scelsero come punto di sbarco la baia di Goro, protetta dalla bora anche se esposta allo scirocco. Freemantle distaccò per l’operazione il commodoro Charles Rowley col suo vascello Eagle e col Tremendous di Campbell [quello che aveva portato l’arciduca in Adriatico], più il brick Wizard (capitano Moresby), la bombarda N. 8, 3 cannoniere austriache e 29 trasporti requisiti a Trieste e nei porti vicini. Non potendo tenere nascosti i preparativi, si cercò d’ingannare il nemico sulla destinazione della spedizione, spargendo la voce che fosse diretta a Venezia, mentre con acquisti di carte della Dalmazia e piani delle sue piazzeforti, si cercò di far credere che il vero obiettivo segreto fosse Zara.

La notte del 9-10 novembre furono imbarcati 13 compagnie (2.060) di confinari croati (GR N. 5 Warasdiner Kreuzer) e fanti ungheresi (IR N. 52 Herzherzog Franz Carl), il battaglione anglo-svizzero di Lissa (600) comandato da Robertson, mezzo squadrone di ussari (73) e 41 artiglieri con 14 cavalli e 12 pezzi (6 austriaci e 6 inglesi, inclusi 2 da montagna), molte munizioni, attrezzi e putrelle e 16 giornate di viveri. Al mattino l’Elizabeth (capitano Power) e 4 trabaccoli salparono con a bordo il capitano Zuccheri, addetto allo SM del QMG, e 1 compagnia di croati, incaricati di effettuare una diversione alle foci del Sile e del Piave. Rowley salpò invece a mezzanotte, sfilando lungo la costa meridionale dell’Istria per confondere le spie francesi. Al mattino dell’11 volse però la prora, e il 12 giunse in vista della costa italiana. La sera ci si preparò per lo sbarco, ma la bora levatasi durante la notte spinse la flottiglia fino a Rimini. I marinai inglesi riuscirono a tenere unita la flottiglia (sia pure con la perdita di 2 trasporti, uno affondato e uno, con 143 croati, disperso), anche se Rowley dovette gettare l’ancora in mare aperto per evitare lo schianto dei vascelli sulla costa. La bora aveva però favorito la diversione di Zuccheri, che il mattino del 13 prese i forti di Cortellazzo (70 uomini e 4 pezzi) e del Cavallino. Il mattino del 14 il vento si calmò e a sera Rowley poté gettare l’ancora a 3 km da terra.

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Lo sbarco a Goro e l’avanzata su Ferrara e Rovigo (15-20 novembre)

All’alba del 15 il capitano Birnstiel sbarcò con 2 compagnie croate e 1 ungherese e prese il Forte di Volano (3 ufficiali e 93 uomini). Mentre il nemico ripiegava dal Bosco Grande su Mesola, Birnstiel prese senza colpo ferire i Forti di Gorino, di Goro (armato con III-36 e I-3) e della Gnocca (II-24, I-3 e 41 uomini). Intanto Nugent sbarcava la riserva, e il capitano D’Aspre e Robertson, prese l’Opera e la Torre di Volano e 1 scialuppa cannoniera, si irradiavano a O su Pomposa e a S su Comacchio e Magnavacca.

Il 16, mentre Nugent fortificava Volano, Birnstiel si spinse a NO occupando Mesola, Ariano e l’isola di Papozze, dove, rimontando il Po di Goro, arrivarono le 3 cannoniere austriache, quella presa a Volano (con equipaggio inglese) e qualche trasporto con attrezzi da zappatore per sbarrare la strada da Ferrara. A O, il maggiore Wittman avanzò da Pomposa a Codigoro col battaglione ungherese, mentre a S, occupate Magnavacca e Comacchio evacuate dal nemico, i croati si attestarono a S delle Valli, con due teste di ponte in prima linea verso Ravenna sulla destra del Lamone, e due in seconda sulla destra del Po di Primaro (a Sant’Alberto e verso la foce del Reno). In due giorni le foci del Po erano in mano a Nugent, e il nemico si era ritirato in opposte direzioni, dopo aver perduto 11 opere, 18 bocche da fuoco e almeno 200 prigionieri.

Avvisato dello sbarco la notte del 16-17, il principe Eugenio distaccò il maggiore Merdier con 2 battaglioni (42e de ligne e V/1er étranger), 50 cavalli e 4 cannoni per coprire o riprendere Ferrara. La città, evacuata dal presidio (500 italiani), fu però occupata la sera del 18, e Birnstiel si spinse fino all’importante nodo fluviale di Pontelagoscuro, catturando un convoglio di viveri per Venezia. Il 19, raggiunto a Ferrara dagli ungheresi, Nugent spiccò partite a O (su Bondeno) e a SE (a Malalbergo e Traghetto sul Reno), per collegarsi coi croati attestati sul Lamone, e una colonna volante a sequestrare le merci dirette via Po a Venezia, e, passato il Po, a sera entrò a Rovigo, già evacuata dai francesi, dove il 20 si collegò con la Divisione Rebrovich, mandatagli incontro da Hiller e proveniente da Cavarzere. Intanto Birnstiel, con 82 fanti e 10 ussari, prese il posto di Badia Polesine difeso da 125 fanti e 60 cacciatori francesi, catturando 3 ufficiali e 50 uomini, e aprendo le comunicazioni con gli austriaci.

La fallita controffensiva franco-italiana (23 novembre – 3 dicembre)

Nugent continuava a stupirsi della facilità con cui stava affondando il coltello nel burro. Non conosceva infatti il suo avversario, il generale

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italiano Domenico Pino, un ambizioso che preferiva l’intrigo politico all’assunzione di rischi e responsabilità. Resosi finalmente conto di aver sottovalutato la pericolosità delle operazioni di Nugent, il 23 il viceré ordinò al generale di brigata Vincent Martel de Conchy di marciare dall’Adige su Ferrara con 1.200 fanti francesi e 200 cacciatori a cavallo italiani (del 3° reggimento). Mentre Conchy avanzava da Trecenta, Pino ordinò alle truppe italiane di Ravenna di attaccare Comacchio per tagliare le comunicazioni di Nugent col mare. Il 24, 500 italiani attaccarono il Forte di Magnavacca, difeso da 800 inglesi e croati: altri 250, entrati a Comacchio, furono messi in fuga dagli abitanti, mentre l’intervento del Wizard salvò il forte facendo ritirare gli italiani. Il 25 Nugent era a Ferrara con 1.000 uomini, mentre l’arciduca Massimiliano teneva Pontelagoscuro con 3 compagnie e 2 pezzi; il resto assicurava, lungo il Reno, le comunicazioni con Rowley, attestato a Volano.

Il 26 Pino e Merdier sloggiarono gli avamposti e attaccarono Porta Reno; la difendeva Robertson, che, smascherati i pezzi, inchiodò l’attacco a 50 passi dalle mura della città. Fallì anche un secondo attacco notturno, ma intanto l’arciduca vide sfilargli davanti Conchy diretto a Polesella, sul Po a valle di Ferrara, mentre Rowley comunicò che una colonna di 1.800 italiani (colonnello Scotti) era in marcia da Ravenna su Comacchio. Temendo di essere tagliato fuori, Nugent evacuò nottetempo Ferrara (occupata il 27 da Pino e Merdier) e si ritirò a Finale di Rero sul Po di Volano, mentre l’arciduca, sulla sinistra del Po, si attestò a Crespino.

Fortunatamente per gli austriaci, Pino rimase inattivo a Ferrara e Conchy si avvicinò tanto lentamente a Rovigo da dare il tempo agli austriaci di spiccarvi un battaglione, e il 29 si ritirò nuovamente su Trecenta (presso la piazza di Legnago). Ricevuti rinforzi, il 3 dicembre Conchy prese Rovigo infliggendo al nemico 611 perdite contro 48, ma stupidamente si ritirò di nuovo. Secondo Maurice Weil (III, 162-3), la mancata rioccupazione di Rovigo ebbe conseguenze incalcolabili per la campagna; impedì infatti di sbloccare Venezia e di costringere Nugent al reimbarco, e, soprattutto, incoraggiò Murat a proseguire la sua marcia su Ancona e il suo progetto di defezione da Napoleone.

La controffensiva di Nugent e il proclama di Ravenna (6-10 dicembre)

Intanto Nugent aveva ristabilito le comunicazioni con l’Armata per Mesola, e, ricevuti rinforzi, il 6 dicembre attaccò con 2.000 uomini la linea nemica alle foci del Reno, mentre Moresby, attraversata la laguna di Comacchio, sbarcava a S. Alberto. Diretti personalmente da Rowley, i marinai inglesi misero a terra alcuni battelli e, sotto il fuoco nemico,

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improvvisarono un ponte di barche consentendo il passaggio del Primaro all’avanguardia di Nugent (comandata dal valoroso tenente colonnello degli ussari barone Mathias von Gavenda). Il nemico dovette ritirarsi di nuovo a Ravenna, e Rowley consolidò il ponte e il Forte. Sfruttando il successo, il 7 Nugent proseguì su Ravenna, catturando 200 prigionieri ed entrando in città, già evacuata da Scotti, che divise le sue forze tra Cervia e Forlì. Restavano, sul fianco meridionale di Nugent, le forze napoletane in arrivo ad Ancona. E in effetti il comandante della piazza, Barbou, ne richiese l’intervento su Rimini, ma il generale d’Ambrosio rispose di non potersi muovere senza ordine del suo sovrano.

L’8 dicembre l’arciduca Massimiliano s’imbarcò per Trieste, e il 10 Nugent lanciò da Ravenna un proclama in cui spiegava agli italiani che le armi alleate erano «venute a liberar(l)i interamente»; era loro offerto «un nuovo ordine di cose, destinato a riprodurre la (loro) felicità». Essi dovevano «divenire una nazione indipendente», «un nuovo Regno indipendente d’Italia». Il proclama dichiarava aboliti la coscrizione e le tasse di successione e degli atti e contratti, la carta bollata e i diritti erariali d’importazione ed esportazione, mente le imposte di consumo erano ridotte di un terzo. Intanto il conte Carlo Comelli von Stuckenfeld, di Gradisca, indirizzava, a nome dei “capi congiurati di Francia e d’Italia” e dei “malcontenti”, un appello al governo inglese in appoggio all’idea di offrire il “trono dei Cesari” a Casa Savoia.

Il corpo franco italiano (Mistruzzi) e il corpo franco Finetti

Ben consapevole dell’esiguità delle sue forze, già il 16 novembre Nugent aveva chiesto l’invio del “corpo franco italiano” (Italienische Freikorps) formato a Trieste dal capitano Mistruzzi, che il 10 dicembre guarniva le opere costiere. I partigiani comacchiesi formarono inoltre il “corpo franco Finetti”, operante a Traghetto e Molinella per minacciare le comunicazioni tra Bologna e Ferrara, e in particolare il nodo di Malalbergo. Respinti a Longastrino [a SO delle Valli di Comacchio] a fine novembre dalla colonna Armandi, i romagnoli continuarono ad attaccare i capisaldi attorno a Bologna, tanto che il 9 dicembre, non appena arrivate in città le truppe murattiane, il generale Fontane, credendole ancora alleate, chiese loro di riaprire le comunicazioni con la Romagna. [centotrent’anni dopo, operò nella stessa area la 28a Brigata Garibaldi “Mario Gordini” comandata da Arrigo Boldrini “Bülow”; e il disegnatore Hugo Pratt vi ambientò poi una delle storie del “tenente Koinski”].

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I cacciatori franchi italiani e gl’insorgenti dell’Appennino

Intanto, il 10 dicembre, l’Hofkriegsrath ordinava al nuovo comandante dell’Armata d’Italia, maresciallo Bellegarde, di favorire la costituzione di 2 battaglioni di cacciatori franchi italiani, alla cui testa s’intendeva porre il colonnello Schneider del 2° battaglione cacciatori austriaco. Reclutato non fra i partigiani ma fra i disertori e i prigionieri dell’esercito italiano e comandato da Mistruzzi, il 1° battaglione italiano fu costituito a Ravenna (dove rimase di guarnigione) su 18 ufficiali, 67 sottufficiali e caporali, 12 tamburi e 509 volontari [Kriegsarchiv, XII, 100a]. Il 20 dicembre, da Comacchio, Nugent sollecitava la costituzione di due compagnie franche italiane anche a Ferrara.

Il 25 dicembre un centinaio d’insorgenti protessero il fianco sinistro dell’avanguardia di Nugent in marcia su Forlì, portandosi poi verso Forlimpopoli, mentre altri sbarrarono la via Emilia all’altezza della Casuca. Il giorno dopo il posto di blocco romagnolo costrinse i resti della colonna Armandi che da Forlì volevano ritirarsi ad Imola, a deviare in territorio toscano (Terra del Sole). Qui si trovavano altri 5-600 insorti toscani: nella lettera del 22 dicembre al ministro Clarke, la granduchessa Elisa diceva che s’erano già impadroniti di parecchi grandi comuni della Valdarno e premevano verso Modigliana [17 km a Sud di Faenza, la zona dove operò, centotrent’anni dopo, la Banda Corbari].

Queste forze non vanno confuse col corpo franco Finetti, che era regolarmente inquadrato nel corpo Nugent e il 30 dicembre entrò ad Argenta insieme a 2 compagnie austriache (maggiore Wittmann). Il 31 Modigliana fu attaccata dalla banda Mariani, che mise in rotta il presidio (60 guardie prefettizie e 60 finanzieri italiani e 30 reclute francesi del deposito del 53e de ligne), catturandone un terzo. A Cesenatico 1 ufficiale e 37 cannonieri litorali passarono al servizio austriaco. Il 4 gennaio furono spiccate da Firenze 4 colonne mobili [incluso il 3e Bon étranger accorso da Livorno] costringendo gl’insorti toscani ad evacuare Modigliana e a rifugiarsi a Forlì.

Le unità austro-italiane nella campagna del 1814

Con proclama dell’8 gennaio 1814 da Udine, il governatore civile e militare del Veneto, Feldzeugmeister principe Henri XV di Reuss Plauern, esortava gl’italiani ad arruolarsi nelle Legioni di volontari italiani. Con altro proclama del 14 da Ravenna, Nugent mutò il nome della commissione insediata due settimane prima in quello di Reggenza Italiana Indipendente. Il 20 gennaio Wittmann fu inviato a Ferrara, da dove distaccò Finetti davanti a Traghetto: il 23, spintosi sulla destra del

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Po Grande, staccò una compagnia in avamposto davanti alle Papozze e a Crespino. Al 31 gennaio il corpo franco Finetti era a Castel San Giovanni e il Mistruzzi con 3 compagnie a Ravenna e 1 Forlì. Il corpo Nugent includeva anche 2 battaglioni “inglesi” (croato e italiano), uno a Cesenatico e Ravenna e uno in marcia verso Bologna, nonché 5 compagnie (Lazarich) di landwehr istriana (sloveni) a Comacchio.

L’11 febbraio Nugent iniziò la marcia su Parma. Della colonna faceva parte una “legione italiana” di 4 compagnie (il 1° battaglione Mistruzzi), mentre Finetti rimase nel Bolognese [il 13 il sindaco di Molinella denunciava al prefetto di Bologna. allora occupata dai murattiani, alleati dell’Austria, i soprusi inflitti alla popolazione dal corpo Finetti.] Il 14, a Parma, Nugent ricevette l’ordine di organizzare 3 battaglioni franchi di prigionieri e disertori italiani. Intanto si spingevano distaccamenti austriaci in Lunigiana e già il 22 quello di Pontremoli segnalava 400 contadini in armi presso Cerri e Rocca. Il 1° marzo, a Guastalla, 200 uomini del Mistruzzi opposero dura resistenza alla colonna Villata (5° di linea italiano, con cavalleria e 2 pezzi), ripiegando poi a Reggio dopo aver perduto 98 prigionieri (inclusi 3 ufficiali). Il 5 marzo il corpo franco era sulla Secchia presso Sorbara; il 9 rioccupò San Benedetto. Infine il 3 aprile il corpo Finetti fu sciolto e incorporato a Sant’Ilario d’Enza nel battaglione Mistruzzi. Questo rimase a Piacenza fino al 5 maggio e fu “reduzirt” nel 1815.

L’11 aprile gli austriaci formarono inoltre a Parma una “compagnia piemontese” di disertori e prigionieri dell’esercito francese. Trasferita a Voghera, la compagnia fu ampliata e riorganizzata come 1° battaglione italiano al comando del conte Emilio Robert, e il 1° maggio passò al servizio sardo col nome di 1° reggimento di fanteria.

F. L’incursione di Catinelli in Toscana (7 novembre-15 dicembre 1813)

Il progetto insurrezionale di Catinelli (7 novembre)

La funzione dei partigiani era in realtà ancor più rilevante, se si pensa al progetto presentato il 7 novembre da Catinelli e approvato da Lord Bentinck, di sbarcare con 1.000 uomini dell’Italian Levy a Viareggio, far insorgere Lucca e Pontremoli, far disertare i due reggimenti croati e il battaglione straniero dislocati in Toscana e sfruttare le masse di disertori

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e renitenti per accendere fuochi di guerriglia in Garfagnana e minacciare le province limitrofe e le retrovie dell’Armée d’Italie.

Il piano prevedeva di installarsi nell’alta valle del Serchio e riunirvi gli insorti delle valli di Chiavari (Fontanabuona) e Pontremoli, della Secchia e del Taro: «ces vallées, aussi fortes et aussi inaccessibles que celles de la Catalogne et du Tyrol, sont habitées par des gens de la trempe des Catalans et des Tyroliens, et fourmillent de conscrits et des déserteurs qui, à la première apparition de nos troupes, s’attacheront à nous et il n’y aura de conscription ni en Toscane, ni dans le Modenais ni dans le Parmesan. Maître des Apennins à l’endroit où la Peninsule italienne s’attache à la Lombardie, je me tiendrai comme à cheval sur ces montagnes, maneuvrant tantôt dans la vallée du Po sur Parme et Modène, tantôt le long dela rivière de Gênes, tantôt dans celle de l’Arno sur Pise, Pistoia et Florence». Catinelli chiedeva solo il 3° reggimento delle leve italiane ancora in formazione a Palermo, poco denaro e poche munizioni, contando sulla diserzione delle forze francesi in Toscana, composte in gran parte di croati.

Weil interpreta il documento (PRO, WO, V, 481) come un’autonoma iniziativa di Catinelli: in effetti il piano non accenna a collegamenti con operazioni sul versante romagnolo dell’Appennino, né a Palermo poteva essere ancora giunta notizia dei successi austriaci e tanto meno della spedizione in Romagna che si stava allora allestendo a Trieste. Furono però proprio le notizie arrivate in seguito a convincere Bentinck ad autorizzare l’operazione. Il 19 mise per iscritto le istruzioni già date verbalmente il 18 a Catinelli: i soldati dovevano essere informati dello scopo della missione solo dopo l’imbarco. «Son objet (était) d’arborer sur la côte occidentale d’Italie l’étendard italien», attorno al quale si dovevano riunire tutti i patrioti civili e militari che volevano contribuire ad effettuare la librazione ed indipendenza dell’Italia. Considerati i rischi di una spedizione con forze tanto esigue, Bentinck preferiva che fosse tentata da soli volontari, lasciando a bordo chi non se la sentiva. Il 25 novembre Bentinck ne informò Bathurst, il 27 conferì ufficialmente l’incarico a Catinelli, e il 29 dette ordine al 3° italiano di prepararsi all’imbarco.

Comandato da Ciravegna (promosso tenente colonnello il 21 giugno) e dal maggiore Luigi Dell’Oste di Pisa, il reggimento contava ancora solo 900 uomini, inclusi i 600 esuberi ceduti in marzo dalle truppe sarde: fu perciò rinforzato da un reparto del 1° (pare 2 compagnie di romagnoli), portando la forza a oltre 1.000. Catinelli ricevette inoltre 2 pezzi da sei libbre con munizioni e 50.000 franchi, più il materiale per l’armamento degl’insorti, da lasciare in deposito a Ponza. La forza navale, comandata da Josias Rowley, era composta dai vascelli da 74 America (Rowley) ed

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Edinbourg (G. H. L. Dundas), dalle fregate Furieuse (William Mounsey) e Mermaid (David Dunn) da 32 e dal brick da 18 Termagant (John Lampen Manley).

Lo sbarco e il combattimento di Viareggio (10-12 dicembre 1813)

Salpati da Palermo il 29, il 30 l’America e il Termagant gettarono l’ancora davanti a Milazzo, dove furono raggiunti dalle altre unità con a bordo le truppe. Il 1° dicembre Rowley fece vela sulla Toscana; il 7 si unirono alla forza il vascello da 74 Armada (Charles Grant) e la fregata da 38 Impérieuse (Henry Duncan), incontrati lungo la rotta, e nel primo pomeriggio del 9 gettarono l’ancora a 2 miglia da Viareggio. Il mattino del 10 trenta scialuppe sbarcarono gli italiani: una dell’America affondò e annegarono il TV Moody e 2 marinai. Il fortino (armato con II-18 e I-12) si arrese nel pomeriggio. Intanto, allarmata dalla notizia che una squadra inglese era comparsa davanti alla costa, e temendo un attacco degl’insorti dell’Appennino sulla capitale, la granduchessa Elisa aveva deciso di abbandonare Firenze e ritirarsi a Lucca. Catinelli però la precedette: requisiti cavalli per il trasporto dei pezzi, in due ore era davanti a Lucca, e a mezzanotte, con un paio di cannonate, aperse la porta, occupando 3 bastioni. L’11 Rowley prese e fece saltare un fortino a N di Viareggio, ed Elisa ordinò allora al generale Pouchin, comandante la 29e Division Militaire di Firenze, di riunire tutte le truppe a Pisa. Informato del movimento, e deluso e preoccupato dalla freddezza dei lucchesi e dal loro rifiuto di ricevere le casse di fucili offerte dagli inglesi, la sera Catinelli evacuò la città per non restare tagliato fuori da Viareggio, e decise di prendere il forte di Avenza con un attacco da terra sostenuto da Rowley, e coperto da una diversione di un vascello su Lerici, all’ingresso del golfo della Spezia.

Perduti per strada 50 disertori, a mezzogiorno del 12 Catinelli arrivò a Viareggio, con l’intenzione di risalire la valle della Magra verso Sarzana e l’Appennino. Appreso però che Pouchin stava marciando in forze da Pisa, dovette rinunciare al progetto e si trincerò a difesa del villaggio. L’attacco francese scattò alle 4 del pomeriggio: i volteggiatori del 3e Bataillon étranger presero il villaggio, e avevano già passato il ponte, quando i coscritti toscani del 112e de ligne ripiegarono in preda al panico, costringendo Pouchin a richiamare i volteggiatori dietro il Serchio e abbandonare 200 prigionieri e i 2 cannoni messi in batteria davanti Viareggio, i cui conduttori (civili requisiti) erano fuggiti coi loro attiragli.

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Il combattimento di Livorno (13-14 dicembre 1813)

Appreso dai prigionieri che Livorno era quasi del tutto sguarnita, Catinelli propose a Rowley di aggirare la colonna in ritirata dal mare, imbarcando le truppe su scialuppe e barche requisite, rimorchiandole con le navi e sbarcando a N di Livorno per impedire al nemico di rientrare in città. Alle tre di notte del 13, dopo una ricognizione dell’Impérieuse, le truppe sbarcarono a Calambrone [3 km a N di Livorno], sotto il tiro inefficace della Torre. Un’unità inglese di passaggio [la fregata da 28 Rainbow, ex-francese Iris, capitano Gawen William Hamilton] si aggiunse di propria iniziativa: il capitano Dundas prese il comando delle compagnie da sbarco delle otto navi, e a sera, con parte dei volontari, occupò i sobborghi di Livorno. In città erano rimasti solo pochi veterani, guardacoste, doganieri, gendarmi e una compagnia di impiegati civili armati, ma in compenso erano arrivati da Portoferraio i brick Alacrity (CF Mackao) e Adonis (TV Lebors), col capobattaglione Armand Dubois-Aymée [già autore di rastrellamenti nell’Appennino Parmense e nell’Alessandrino], portando i difensori a circa 500.

Una ricognizione constatò che i rampari, troppo alti, larghi e protetti da fossati per essere scalati, erano dominati d’infilata da alcune case del sobborgo. Collocati i marinai in osservazione sulla strada da Pisa con uno dei due pezzi, e 3 compagnie del 3° nelle case dominanti le porte di Livorno, il resto delle truppe formò la riserva, con l’altro pezzo da sei. Il piano era di dare l’assalto notturno alle porte con i petardi, coprendolo con una diversione dal mare sul porto e col lancio di razzi alla Congrève sull’abitato: il maltempo impedì tuttavia di sbarcare le munizioni necessarie. All’alba del 14 iniziò lo scambio di fucilate tra i difensori e i volontari annidati sui tetti e nei piani superiori delle case dominanti: l’artiglieria della piazza ripose finché i serventi non furono eliminati dai cecchini.

Un gendarme toscano, offertosi di passare le linee nemiche, riuscì a raggiungere Pisa e ad avvisare Pouchin prima di morire per le gravi ferite ricevute all’atto della sortita. Alle dieci, la colonna Pouchin sboccò dalla strada di Pisa attaccando i marinai di Dundas, appostati ad un km fuori città nel cimitero di S. Antonio. Anche stavolta i coscritti del 112e rifiutarono di combattere gettandosi a terra alle prime scariche. Il 3e étranger tenne finché non cadde ucciso il comandante, capobattaglione Salles: allora ripiegarono essi pure, e 50 ne approfittarono per disertare. I marinai e il reparto del 1° italiano li inseguirono alla baionetta: 40 ussari (toscani) del 13e régiment tentarono di fermarli, ma una scarica dei marinai dell’America ne abbatté 14 (o 7?) mentre passavano, e tutti gli altri (tranne un ufficiale) furono poi colpiti alle spalle.

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Il reimbarco del corpo Catinelli (15 dicembre 1813)

La rotta della colonna di soccorso faceva credere che Livorno avrebbe capitolato: invece il comandante della piazza, colonnello Dupré, respinse l’intimazione di resa, e il consiglio di difesa avvisò il sindaco che stava per ordinare di incendiare e far saltare le case del sobborgo. Spinse così le autorità municipali ad inviare una delegazione, ricevuta da Rowley a bordo dell’America per convincerlo a desistere dall’attacco, sostenendo che sarebbe stato contrario agli usi di guerra, e di nessun vantaggio per gl’inglesi, provocare la distruzione del sobborgo, abitato da 15-20.000 persone inermi. Il commodoro promise di adoperarsi per ottenere un cessate il fuoco: uomo della blue–water school e fin dall’inizio scettico sull’efficacia della guerriglia anfibia, convinse Catinelli a desistere, perché il mare grosso non consentiva di trattenersi più a lungo davanti a Livorno ed era ormai evidente che la città non sarebbe insorta e che non era più possibile passare l’Arno e raggiungere gli Appennini. Al mattino del 15 il reimbarco era completato, anche se le navi si trattennero in rada fino alla sera del 16. Dopo aver fatto vela a N per far credere al nemico di voler proseguire l’azione sulla Spezia, Rowley virò di bordo per la Sicilia. Dai ruoli risulta che sotto Livorno furono feriti il capitano Joseph Oberhauser e il tenente Giuseppe Cella, di Piacenza, ma i rapporti di Dundas, Rowley e Catinelli non danno indicazioni sulle perdite subite dall’Italian levy: quelle francesi furono di 44 morti, 76 feriti e 100 disertori del 3e étranger (in maggioranza passati al nemico). Viceversa un certo numero di disertori “francesi” e italiani arruolati a forza da Catinelli, disertò e chiese di rientrare nei ranghi. Il 28 dicembre il principe Felice Baciocchi incorporò i “francesi” nel 112e e mandò gl’italiani a Bologna, mettendo a disposizione de1 generale Carlo Filangieri i pochi napoletani che figuravano nel gruppo.

G. La Royal Piedmontese Legion e l’Italian Levy nella campagna del 1814

La quarta leva in Inghilterra e la legione reale anglo-piemontese

In una lettera del 17 agosto 1813 da Palermo, Dalrymple informava Latour sullo stato dei reclutamenti per la leva italiana: Malta era «out of question» per via della peste e della quarantena; Lissa andava meglio, ma il suo vecchio amico Robertson era «by for the most disorganizing Genius you ever met with», mentre la compagnia croata era solo un

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mucchio di banditi, tanto che si era deciso di lasciarla di guarnigione a Lissa. Dopo la ritirata da Ordal, Burke aveva lasciato il comando del 1° reggimento per reclutare a Portsmouth altri prigionieri italiani. Il 9 gennaio 1814 segnalava al War Office che altri 700 (oltre al migliaio già reclutati) erano «ready to volunteer». Era la «quarta» leva del genere, ed era destinata in Sicilia per completare il 2° e il 3° reggimento, mentre il 1° era già sopra organico, con 1.400 effettivi. Tuttavia il reclutamento per la leva italiana fu limitato dalla concorrente iniziativa del governo sardo di prendere al proprio servizio i prigionieri piemontesi (18 dei quali, incorporati “nel 8 Battaglione del 60 Reg.to delli Cacciatori”, cioè del 60th Royal American!, avevano indirizzato una supplica al re di Sardegna).

Inizialmente Vittorio Emanuele aveva fatto chiedere dal suo ministro a Londra, conte di Front, un contributo inglese di un milione e mezzo di lire piemontesi per reclutare e mantenere per un anno un reggimento di 2.500 fanti e uno di 400 cavalli. In seguito al rifiuto di Londra, il 7 ottobre 1813 il nuovo rappresentante diplomatico (l’incaricato d’affari conte Cesare Ambrogio Saint Martin d’Aglié) presentò un projet de convention che, enfatizzando la secolare alleanza tra la Casa di Savoia e l’Inghilterra, prevedeva la creazione da parte inglese di una Legion Royale Piémontaise organizzata «en manière nationale» e destinata a combattere agli ordini di generali inglesi nell’«Italie supérieure», allo scopo di liberare non solo il Piemonte (definito «la Citadelle de l’Italie») «mais de tout le reste de l’Italie» e di favorire il ritorno del re negli stati di Terraferma. Vittorio Emanuele avrebbe però preso al suo servizio la legione solo quando sarebbe stato in grado di poterla pagare.

La bozza britannica, datata 27 dicembre 1813, prevedeva la creazione di un corpo di ufficiali e soldati piemontesi, con l’aggiunta dei necessari ufficiali britannici. Il corpo, equipaggiato e pagato dall’Inghilterra, era destinato nel Mediterraneo, ma con facoltà di essere impiegato anche fuori della Sicilia e in ogni parte del mondo, pur se di preferenza in appoggio ad un’insurrezione generale in Piemonte; il re doveva inoltre impegnarsi a prendere a suo carico la legione non appena rientrato nei suoi stati di Terraferma. Gl’inglesi gli offrivano inoltre di partecipare con un proprio contingente al corpo d’armata destinato ad operare “nella riviera di Genova e alle frontiere del Piemonte”, con “gli onori della felice condotta delle operazioni”. La bozza, tradotta in francese, fu comunicata a d’Aglié il 30 dicembre. Il 7 gennaio 1814 William Hamilton riferiva a Castlereagh che la Sardegna aveva offerto di levare “pochi” reggimenti al servizio e al soldo inglese, con gli stessi principi adottati per la “leva d’Orange”. Enfatizzando il desiderio dei prigionieri di combattere per la liberazione del Piemonte e per il loro re, e i meriti

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dell’Armata sarda, “una delle più antiche d’Europa”, che per cinque anni aveva ritardato l’invasione francese dell’Italia, il memorandum d’Aglié del 15 gennaio chiedeva di lasciare al re di Sardegna la nomina degli ufficiali e la decisione sull’impiego della legione. La convenzione, firmata il 3 febbraio da Bathurst e d’Aglié, previde infine un corpo di 3.000 uomini, da completare, in mancanza di un numero sufficiente di piemontesi, con prigionieri di altre regioni dell’Italia settentrionale.

Il corpo, organizzato sul piede dell’antica Armata Piemontese a spese dell’Inghilterra, con tre mesi di paga anticipata, doveva essere impiegato esclusivamente nel Mediterraneo e, per quanto possibile, nel modo più utile agli interessi del re di Sardegna. Quest’ultimo si impegnava a prenderlo a suo carico dal momento dello sbarco in Sardegna o in altro punto di suo gradimento: qualora le circostanze non glielo avessero consentito, la legione avrebbe continuato a servire come corpo estero al servizio inglese. Seguì in marzo un memorandum anglo-sardo sui dettagli organizzativi, che prevedeva il concentramento di 2.500 prigionieri piemontesi a Colchester, la formazione di battaglioni di 600 uomini con giacca blu a mostre rosse e bottoni gialli e l’attribuzione agli ufficiali di un premio di 20 sterline per l’equipaggiamento e di una gratifica pari alla differenza tra la paga piemontese e quella prevista per i corrispondenti gradi inglesi.

L’armistizio anglo-napoletano e l’accordo di cooperazione

Come si vede, già nel dicembre 1813 il governo britannico intendeva impiegare il corpo anglo-siciliano in Liguria, il che implicava una stretta cooperazione con l’Austria e con Napoli. Bentinck si opponeva però strenuamente al riconoscimento politico del “maresciallo Murat”, che contrastava col suo progetto d’indurre Francesco di Borbone a cedere la Sicilia all’Inghilterra in cambio della restaurazione sul trono di Napoli, e cercò di mutare in extremis la destinazione del corpo anglo-siculo. L’8 gennaio, da Palermo, comunicava infatti a Bathurst di aver concentrato 6.000 inglesi e 5.000 siciliani, con 400 cavalli e 18 cannoni, per sbarcare in Corsica e farla insorgere: un piano concordato con Neipperg, ma che fu bloccato dalle vincolanti istruzioni del suo governo di concludere la pace con Napoli. Forzando ancora una volta il suo mandato, Bentinck riuscì ad imporre a Murat un semplice armistizio, firmato a Napoli il 3 febbraio; e inoltre a dettare le sue condizioni per la cooperazione militare contro l’Armée d’Italie che resisteva agli austriaci tra il Mincio e il Po. Il piano limitava l’azione delle truppe napoletane alla destra del Po (fino a Piacenza e Alessandria) e riservava alle forze inglesi la costa tirrenica da Livorno a Genova. Incaricato da Bentinck di trattare con Murat la

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questione della linea di demarcazione anglo-napoletana, Catinelli era a Bologna l’11 febbraio, ma il re lo ricevette solo il 17, dopo aver già spontaneamente accettato di modificare il suo piano d’operazioni.

Il corpo d’armata anglo–siciliano per la Toscana e la Liguria

Intanto si allestiva in Sicilia il “corpo d’armata anglo-siciliano”, forte di 14.656 combattenti, di cui oltre 5.000 borbonici (4.500 dell’esercito siciliano e 618 calabresi al soldo inglese), 4.700 inglesi, 3.000 tedeschi, 1.200 anglo-italiani e 300 greco–albanesi.

Tab. 2 –Corpo d’armata anglo-siciliano 15 febbraio 1814 (Weil)Componenti 1st Division 2nd Division Tr. Inglesi in SiciliaComandanti Lord Bentinck Ltn Gen McFarlaneBrigadieri M. G. Montrésor

M. G. HornstedtBrig. sic. Roth

M. G. CarnetM. G. Gosselin

UfficialiImpiegati e cadettiSU e TamburiSoldatiOrdinanze non comb.

34553

5687.558

262

244-

5435.347

49

164-

180+924.200

n.d.Totale 8.786 6.183 4.636Donne 249 196 n.d.Cavalli e muli 624 353 n.d.Truppe inglesi:battaglioni

1/21st e 1/63rd Foot3rd, 6th, 8th KGL3rd Italian Levy

14th e 31st Foot 20th Light Dragoons35th e 75th Foot7th King’s German Leg.1st Greek Light Infantry

Distaccamenti Greek Light Inf.Calabrese Free C.1st Italian LevyR. Artillery

Resto dell’8th KGLArt. Italian Levy

Italian LeviesRoyal ArtilleryRoyal EngineersStaff Corps

Truppe siciliane 2° Estero (C. Mari)1 sq. 2° cavalleria

Guardie Siciliane3° Estero (del Conte)4° Estero (Catalano)2 sq 2° CavalleriaBrigata ArtiglieriaCp Pionieri

-

Su 14.656 combattenti delle due Divisioni, circa 4.500 erano regolari borbonici, 1.200 volontari italiani, 618 calabresi (inclusi 29 ufficiali, 60 sottufficiali e 7 ordinanze, più 28 donne), 300 greci e circa 3.000 tedeschi. Gl’inglesi erano circa 4.700.

La residua guarnigione inglese in Sicilia era ridotta a 4.636 combattenti. Il corpo era articolato in due divisioni, la 1a al diretto comando di Bentinck, la 2a del generale McFarlane. Inglesi erano i quattro generali di brigata, sebbene alla 1a divisione fosse aggregato anche un brigadiere “siciliano” (Filippo Roth). Borbonici erano però i

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“quartiermastri” (capi di SM) delle divisioni, capitano Roberto Desauget della 1a e maggiore Della Rocca della 2a); al comando era aggregato anche il nizzardo Pietro Vial.

Il contingente siciliano, equivalente al resto della Divisione mobile prevista dal trattato addizionale del 12 settembre 1812, includeva il battaglione guardie siciliane, i reggimenti esteri 2° (C. Mari), 3° (Del Conte) e 4° (Catalano), il 2° cavalleria su 3 squadroni, una brigata d’artiglieria su 2 compagnie e 1 compagnia pionieri. Alla 1a Divisione (8.786 uomini, con 345 ufficiali e 624 cavalli e muli) erano assegnati il 3rd Italian levy (ten. col. Ciravegna e magg. Dell’Oste) e il grosso delle truppe siciliane (2° estero, I/2° cavalleria, 2 squadre d’artiglieria a cavallo con 4 pezzi da campagna, 1 compagnia d’artiglieria a piedi con 12 pezzi da montagna, 1 compagnia ingegneri da campagna). Il resto del contingente era ripartito fra le due brigate della 2a Divisione, includente anche l’artiglieria della leva italiana.

Lo sbarco a Livorno e la marcia a M. Fascia (20.II-12.4.1814)

La 1a Divisione, al comando interinale del maggior generale Montresor, s’imbarcò il 20 febbraio a Palermo (siciliani) e Milazzo (inglesi) e il 9 marzo sbarcò a Livorno, già presidiata da un battaglione del 7° di linea napoletano. Il 3° italiano sbarcò con 1.220 uomini, al comando di Ciravegna e dei maggiori Righini e Faverges. Il 13 i trasporti tornarono a Palermo per imbarcare la 2a divisone e Montresor iniziò una lenta marcia su Pisa e Lucca, entrando il 23 a Sarzana. Il 24, approfittando di una negligenza dei francesi attestati alla batteria di Santa Croce che dominava la foce della Magra, il 5th German rifles e i canotti delle navi Edinburgh e Swallow presero le opere. Il 25 Montresor si attestò sulla Magra mettendo in batteria i suoi pezzi mentre nel Golfo della Spezia arrivava l’ammiraglio Josias Rowley con le navi America, Edinburgh, Furieuse, Swallow e Cephalus e la corvetta siciliana Aurora. Presa Lerici ed entrati alla Spezia, gl’inglesi bloccarono il Forte Santa Maria (arresosi il 30 con 3 ufficiali e 75 uomini). Il 28 marzo salpò da Palermo il 1° scaglione (4.000 uomini) della 2a Divisione, seguito il 3 aprile dal 2°. Il 1°-5 aprile Montresor si recò a conferire con Bentinck, lasciando in comando Roth con istruzioni di non muoversi.

Arrivata il 7 aprile a Livorno la 2a Divisione, Bentinck si portò alla Spezia con l’America, ordinando a Montresor di avanzare su Sestri e Chiavari. L’8 la brigata Roth attaccò i granatieri e i volteggiatori del 101e de ligne che si ritirarono dopo accanita resistenza per non essere tagliati fuori dai partigiani della Val Fontanabuona comandati dal “maggiore” Leveroni. Il 9 la squadra bombardò Recco, occupata il 10.

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L’11 la squadra fece una finta su Savona simulando uno sbarco e l’Abukir inviò un parlamentare al comandante della piazza di Genova, generale di divisione Maurizio Fresia, con proposte d’accordo. Il mattino del 12 Montresor attaccò la posizione di Monte Fascia: i francesi si difesero tutto il giorno, ripiegando poi a notte su quella di Sturla (alture di Albaro, 7 km ad E di Genova), con la destra al mare coperta da una batteria di 4 pezzi e la sinistra appoggiata a Forte Richelieu.

Il combattimento di Sturla e la presa di Genova (13-17 aprile)

Il 13 Bentinck pose il quartier generale a Nervi, dove emanò un proclama e ricevette emissari di vari partiti genovesi, e su sua richiesta la squadra di Tolone fece vela su Genova. L’arrivo dei trasporti dalla Sicilia facilitò l’avanzata a Sturla, consentendo effettuarla via mare anziché attraverso la tortuosa e difficile strada delle montagne. Dal 13 al 16 l’artiglieria preparò l’attacco finale, mentre in città si svolgevano manifestazioni con l’antica bandiera della Repubblica e inneggiando alla pace. Alle 2:00 del 17 aprile la squadra dell’ammiraglio Sir Edward Pellew giunta da Tolone (Caledonian, Boyne, Union, Prince of Wales, Pembroke) e la divisione Rowley (America, Aboukir, Iphigenie, Furieuse, Swallow e Cephalus) apersero il fuoco contro le batterie costiere e alle 5:00 iniziò quello delle batterie terrestri contro le opere di Sturla. Intanto il 3° italiano di Ciravegna prese l’opera esterna del Forte S. Tecla, evacuato dai difensori e il tenente colonnello Travers, coi calabresi e i greci scesi da Monte Fascia, ottenne la resa del Forte Richelieu. A mezzogiorno i francesi erano dietro il Bisagno. Il 18 Fresia firmava la resa a S. Martino d’Albaro. Dal 13 al 17 aprile il corpo anglo-siculo aveva avuto 37 morti (1 ufficiale) e 174 feriti (7 ufficiali), la marina 3 (1 ufficiale) e 10, più 1 disperso. Sotto Genova furono feriti il capitano Auguste Sourdeau e le insegne Paolo Mancini e Giovanni Salvi, entrambi romani. Il 25 aprile un reparto del 3° italiano raggiunse Novi Ligure e vi rimase di guarnigione, con una granguardia di 67 uomini a Palazzo Negrotti.

Imbarcatosi il 16 aprile a Tarragona, Latour sbarcò a Genova il 27 col 1° e 2° reggimento italiano e la brigata siciliana. Bentinck lo inviò subito a Torino come suo plenipotenziario per stipulare, insieme al tenente colonnello austriaco Neumann e al generale Clément de La Roncière, plenipotenziari di Bellegarde e del principe Borghese, una convenzione simile all’armistizio del 17 aprile col viceré Eugenio. Catinelli fu invece inviato in missione a Vienna presso il generale conte Fiquelmont, ADC del feldmaresciallo Bellegarde.

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Con una serie di promozioni disposte il 5 maggio 1814, l’Italian Levy assunse la struttura definitiva. Lo stato maggiore della Brigata includeva Latour, promosso maggior generale e comandante, Burke e Catinelli, promossi colonnelli, i maggiori de Andreis, Birnstiel e John Dumont (aggiunto il 1° maggio) e il capitano Frizzi. Righini, promosso tenente colonnello, sostituì Burke al comando del 1st Regiment, mentre gli altri due restarono al comando di Millet e di Ciravegna. Furono inoltre promossi maggiori i capitani Lignana (aggiunto come terzo maggiore del 1st Regiment) e Sourdeau (secondo maggiore del 3rd). Gli altri del grado erano San Martino e Leveroni del 1st, Rosenheim e Gleyesses del 2nd e Dell’Oste del 3rd.

H. L’Italian Levy in Liguria e Provenza(1814-15)

Il protettorato inglese su Genova (26 aprile 1814 – 7 gennaio 1815)

Le istruzioni del 28 dicembre 1813 del ministro della guerra Bathurst autorizzavano Bentinck a prendere possesso di Genova “in nome e per conto del Re di Sardegna” a condizione che “vi concorre(sse) la più completa adesione degli abitanti”. Forzando tali istruzioni, dieci giorni dopo la resa, con proclama del 26 aprile 1814, Bentinck dichiarò invece “ristabilita” la “costituzione degli Stati genovesi quale esisteva nell’anno 1797” (cioè la repubblica aristocratica fondata sullo statuto del 1576) e il 1° maggio nominò il governo provvisorio della Repubblica presieduto dal senatore Domenico Serra.

L’11 maggio, ancora a bordo del vascello Boyne con cui era giunto nella rada di Genova, Vittorio Emanuele chiese a Bentinck di mettergli a disposizione la leva italiana, “composta in gran parte di suoi sudditi”, per riprendere possesso dei suoi stati. Bentinck rispose l’indomani che accettava di mettere l’Italian Levy a disposizione del re di Sardegna “per mantenere il buon ordine nei suoi stati” e di aver dato disposizioni in tal senso a Latour, promosso “maggior generale” inglese.

Lo stesso 11 maggio, da Downing (Street), Bunbury informava Bentinck che il governo inglese aveva fatto un passo formale col re di Sardegna offrendogli di prendere al suo servizio l’Italian Levy. In attesa nulla poteva essere deciso riguardo allo sbandamento della brigata o al passaggio di ufficiali o soldati al servizio di altre potenze. In caso di scioglimento, Bentinck doveva accordare sei mesi di paga agli ufficiali e

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semplici lettere di raccomandazione [senza gratifiche speciali] a Latour, Catinelli e altri di particolare merito. Il ministro Bathurst (aggiungeva il sottosegretario) temeva che accordare a questi ultimi “un compenso più cospicuo”, potesse indurre gli altri ufficiali a tempestare il ministero di suppliche per ottenere gli stessi benefici.

Sbarcato il 14 maggio, il re intendeva dare il comando della piazza a Latour, col grado di tenente generale piemontese. Bentinck lo convinse però a trattenerlo a Torino, dal momento che la leva italiana doveva essere impiegata per occupare il Piemonte. Quanto al passaggio della brigata al soldo sardo, era per il momento fuori questione per mancanza assoluta di risorse finanziarie. Il comando della piazza di Genova rimase così a Dalrymple, e, in assenza di truppe piemontesi, la guarnigione rimase formata da truppe britanniche e da un nucleo di ricostituite truppe locali.

Il 24 maggio Vittorio Emanuele scrisse a Bentinck che gli austriaci stavano per evacuare il Piemonte a causa delle elevatissime spese, e gli chiese di ordinare ai tre reggimenti, dislocati a Nizza, Savona e Acqui (1°), di avanzare al primo cenno che avrebbe fatto da Torino, su Fenestrelle, Alessandria e Novara «ou autres endroits du Piémont», e, possibilmente in Savoia, dove aveva nominato maresciallo e governatore il padre di Latour. Il 25 maggio Torino fu occupata dall’unico corpo di cui il re poteva direttamente disporre in Terraferma, ossia il citato 1° reggimento del conte Robert [poi “battaglione cacciatori italiani”].

Biasimato dal suo governo per il proclama di Genova e per aver incoraggiato gli appelli indipendentisti del governo provvisorio di Milano, e richiamato ad astenersi da ogni atto potenzialmente in contrasto con le decisioni delle Alte Potenze, il 29 maggio Bentinck partì per Palermo, lasciando il comando delle truppe al generale Hornstedt e a Dalrymple l’incarico di regolare sul posto le questioni relative alla leva italiana.

Latour e la brigata italiana dal maggio 1814 al gennaio 1815

Non più necessaria nel Piemonte settentrionale per la costituzione di nuovi corpi sardi formati coi reduci napoleonici, la leva italiana finì per restare nella parte meridionale dello stato sabaudo, col 3° reggimento a Nizza, il 2° a Savona e il 1° ad Acqui. Fino a giugno il 3° ebbe due distaccamenti a Novi e Gavi (capitani Pigner e Kregg), probabilmente sostituiti poi dal 1° battaglione genovese. In agosto il 2° aveva uno ad Albenga e Oneglia (capitano de Campi, che ebbe poi dei grattacapi per via di una barca rubata da un disertore). Per Novi passarono anche i

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tenenti Robertson e Marco Stoppani di Roma, il sottotenente de Cravero, gli ufficiali Ignazio Arduini, Bartolomeo Catanzaro, Giovanni Michelis, Berardo Mojardeau e Pedro Sova (spagnolo), i cannonieri della Royal Artillery Marcantonio Umer della Valcamonica e Gervaso Pevestrelli di Nerviano (MI) (passati il 17 aprile 1815) e 29 militari congedati dal servizio inglese (19 maggio 1815).

L’organizzazione della legione reale piemontese era stata ritardata dagli ammutinamenti dei prigionieri che temevano di essere mandati a combattere in Francia e da un’inchiesta del colonnello, conte Spiridione Bommio di Robassomero, sulle frodi del maggiore Carlo D’Aprotis denunciate dagli ufficiali. L’unica cosa che sembrava funzionare era la banda musicale di 38 elementi: formata dai francesi e catturata in blocco in Spagna, s’era portata in prigionia gli strumenti. Finalmente il 16 giugno la legione (1.884 uomini, inclusi 38 ufficiali, 4 chirurghi, 78 sergenti e 15 tamburi, con un costo di 3.693 sterline per tre mesi di paga) partì da Colchester per Harwick, dove s’imbarcò il 19. La partenza slittò tuttavia di 5 settimane per i venti contrari; salpata il 24 luglio, la legione sbarcò un battaglione a Villafranca il 9 settembre e l’altro a Genova il 12, passando il 16 al servizio e al soldo sardi col nome di “legione leggera”. Il 5 ottobre fu costituito il 2° battaglione genovese (a Savona?). Alla fine dell’anno la leva italiana fu concentrata nello stato genovese: uno dei reggimenti sbarcò a Genova il 6 dicembre. Gli altri erano a Spezia e Portovenere.

Latour rimase a capo della brigata, occupandosi dell’organizzazione dei servizi logistici e dell’avanzamento dei quadri, con l’intento di trasformarla in un elemento permanente di un’armata regolare. Non rinunciò tuttavia agli studi politici, sempre ispirati alla visione liberale di Bentinck, come risulta da un Abbozzo sul futuro del Piemonte, in cui collegava la possibilità di ripristinare l’antica forma di governo (temperata comunque da un consiglio di stato composto dai «primari impiegati» e dalle «persone più cospicue del paese») al mantenimento delle frontiere d’anteguerra; riteneva infatti che l’annessione della Lombardia avrebbe comportato inevitabilmente l’adozione del governo costituzionale.

La questione del comando a Genova (7 gennaio - 1° marzo 1815)

Il 14 agosto 1814 Vittorio Emanuele conferì all’incaricato d’affari a Londra, conte Cesare Ambrogio Saint Martin d’Aglié, i pieni poteri per negoziare la riunione al suo dominio e alla sua sovranità della città di Genova e delle sue riviere e dipendenze. Nonostante la protesta formale del marchese Antonio Brignole Sale, ministro plenipotenziario della

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repubblica e inviato straordinario al congresso di Vienna, il 12 dicembre Genova fu riunita al Piemonte. Il 26 Dalrymple, a nome del suo sovrano e delle Potenze Alleate, dichiarò cessate le funzioni del senato repubblicano e assunse il governo provvisorio dello Stato. Con lettere patenti del 30 dicembre fu nominata una regia delegazione per l’impianto dell’amministrazione sabauda nello stato genovese e con proclama del 3 gennaio 1815 il re di Sardegna formalizzò l’annessione. Il 7 gennaio Dalrymple rimise i poteri al governatore sabaudo, cavalier Ignazio Thaon di Revel e di S. Andrea, conte di Pratolongo, e il 10 le truppe genovesi giurarono fedeltà al re di Sardegna inalberando coccarde e sciarpe da ufficiale azzurre (colore sabaudo).

Bentinck non aveva però ancora gettato la spugna: aveva infatti mandato Catinelli in missione a Londra per chiedere cavillosamente se il possesso rimesso al re di Sardegna si dovesse considerare definitivo oppure provvisorio e lo stesso 7 gennaio scriveva a Castlereagh da Firenze che l’Inghilterra non doveva apparire nell’«odious light of the supporters of the most odious measure and most odious administration». Comunicava peraltro di aver ottenuto dal conte Vallesa la rinuncia a far occupare Genova dalle truppe piemontesi, e di aver rinforzato il presidio anglo-genovese con un secondo reggimento italiano fatto venire da Nizza: la popolazione, essendo abituata all’Italian Levy, «would not have observed the change», mentre si creava così l’occasione buona per trasferire la brigata italiana al servizio piemontese e liberarsi di quella spesa. Il 17 gennaio, con evidente imbarazzo, Bunbury scriveva però a Dalrymple che il ministro non poteva dare istruzioni circa la natura del possesso, e neppure sul comportamento da tenere finché il presidio inglese restava a Genova e in quale misura il comando piazza potesse dipendere da un generale piemontese (come Revel). Aggiungeva che il 3 gennaio Latour gli aveva scritto da Torino di essere il più adatto, in virtù del suo doppio grado sardo e inglese, a comandare a Genova, chiedendo l’appoggio del governo inglese alla sua candidatura; quanto a Dalrymple, avrebbe potuto conservare il comando dell’“auxiliary British corps”.

Il 15 gennaio, sempre da Firenze, Bentinck scriveva che l’Italia amava Murat e che l’Inghilterra doveva sostenere l’unità italiana per erigere una barriera tra l’Austria e la Francia, onde evitare il ripetersi di un’alleanza continentale com’era avvenuto nella guerra dei Sette Anni. Il 21-22 ebbe bruschi colloqui a Roma col cardinal Pacca e Pio VII e stava per recarsi a Napoli quando un’improvvida lettera del ministro degli esteri napoletano, marchese di Gallo, gli fece mutare idea. Il 17 febbraio il re di Sardegna giunse a Genova in visita ufficiale, accompagnato da uno squadrone di dragoni del Re; il 23 assistette alle manovre a fuoco delle

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truppe di Dalrymple nella spianata del Bisagno e il 1° marzo nominò Dalrymple comandante la guarnigione di Genova. In compenso rifiutò la richiesta di Bentinck di poter insediare di nuovo il QG del Mediterraneo a Genova, mentre i cacciatori piemontesi (ex 31e léger) occuparono Savona e il reggimento Saluzzo Novi e Gavi. Il 22 marzo il reggimento genovese partì per Torino, destinato di guarnigione a Chieri. Fu inoltre concesso un indulto, a condizione di presentarsi entro 15 giorni per riprendere servizio, ai soldati liguri della legione reale piemontese che al momento dello sbarco avevano disertato per tornare alle proprie case, e che a seguito dell’annessione di Genova avevano perso l’asilo politico.

Il dibattito parlamentare inglese sulla questione di Genova

Contemporaneamente l’avallo del governo inglese all’annessione di Genova al Piemonte fu oggetto di dibattiti parlamentari, il 13 e 21 febbraio e il 27 aprile alla camera dei Comuni e il 25 aprile alla camera dei Pari. La tesi dell’opposizione, riassunta da sir James Mackintosh, esprimeva una concezione storicista e romantica del diritto pubblico, ispirata a Savigny e diffusa tra gli avversari del trattato di Vienna, che, trasportata dal diritto civile al diritto pubblico, non riconosceva alla politica di gabinetto il diritto di mutare le forme di governo, considerate “opera della natura” e non dell’uomo. Il punto di vista del governo, esposto da Lord Liverpool, da Charles Grant jr e infine dallo stesso Castlereagh di ritorno da Vienna, era ispirato al realismo politico: il congresso di Vienna non si era riunito per discutere di principi morali, ma per risolvere questioni pratiche e prevenire la guerra. L’assetto precedente dell’Europa aveva lasciato “un’arena aperta tra Francia ed Austria, in cui queste due potenze potevano impegnare guerra senza intaccare materialmente i loro propri territori”; per eliminare quest’arena occorreva rinforzare Belgio e Piemonte in modo da metterli in condizione di potersi difendere da soli e da dissuadere perciò i potenziali perturbatori della pace, in primo luogo il militarismo francese. Lo stesso William Pitt aveva conosciuto, in una lettera del gennaio 1805 al conte Woronzov, che era stata la vulnerabilità geostrategica del Piemonte, determinata dall’insufficiente sbocco al mare, a consentire a Bonaparte d’invadere e conquistare l’Italia. L’unione di Genova e Piemonte era il miglior baluardo possibile per la difesa della frontiera (occidentale) italiana. Il popolo genovese non poteva lagnarsi, perché “per la natura aristocratica del governo, l’interesse (generale) dello stato era stato sempre sacrificato a quello (particolare) della città”. I trasferimenti di territori senza il consenso delle popolazioni rientravano infine nel diritto pubblico europeo fondato sulla pace di Vestfalia, ed erano confermati da innumerevoli precedenti, come, ad esempio, la cessione del Canada nel

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1763 dalla Francia all’Inghilterra, o lo scambio tra la Sicilia e i territori balcanici occupati dalla Francia proposto dallo stesso Napoleone a Ferdinando IV di Borbone.

Latour al comando del corpo piemontese (12 marzo-25 maggio 1815)

Se le resistenze di Bentinck erano in qualche misura collegate con la polemica dell’opposizione inglese, i termini della questione mutarono improvvisamente con la notizia della fuga di Napoleone dall’Elba. Catinelli s’imbarcò immediatamente per Genova, Bentinck vi tornò il 10 marzo per riassumere il comando e stavolta il re di Sardegna dovette concedergli di stabilirsi a Genova: in compenso Ciravegna fu inviato col 3° reggimento di rinforzo alla guarnigione di Nizza, dove sbarcò il 15 marzo, mentre il 1° e il 2° furono riuniti a Genova. In una lettera del 16 a Bathurst, Bentinck riconobbe che la riunione della brigata comportava la riassunzione del comando da parte di Latour; ma di conseguenza «officers having king’s commission» sarebbero stati posti agli ordini di un generale sardo. Bentinck comunicava di aver risolto la questione assumendo egli stesso il comando dell’Italian Levy, in attesa dell’arrivo dalla Sicilia «of an officer of superior rank». Nelle direttive del 29 marzo sul riordino delle guarnigioni di Malta, Messina, Corfù e Genova, Bathurst ordinava a Bentinck di sospendere ogni trasferimento di militari dell’Italian Levy al servizio piemontese, e di aumentare anzi gli effettivi fino a 5.000 uomini «if good recruits are to be obtained at a low rate».

Il 23 marzo Bentinck inviò Dalrymple in missione esplorativa presso Murat e attese il 5 aprile per dichiarare lo stato di guerra [misura che, ai sensi dell’armistizio anglo-napoletano del 3 febbraio 1814, dava ancora un termine di tre mesi prima dell’inizio delle ostilità]. Il 9 aprile il ministro degli esteri sardo Vallesa scriveva ad Hill che, partendo da Torino, Bentinck aveva incaricato Latour di presentare al re il piano delle opere da realizzare per la difesa di Genova (preparato da Catinelli). Intanto Bentinck ricevette il colonnello Macirone, inviato di Murat. Il 14 aprile Gallo gli trasmise la richiesta di re Gioacchino di intavolare un negoziato per potersi conformare interamente ai voleri dell’Inghilterra.

La malattia di Revel riaperse la questione politica di Genova. Il re incaricò infatti Latour di assumere provvisoriamente il governo dello stato genovese. Il 23 aprile Bentinck riferiva però a Bathurst che il re aveva accettato di rinunciare all’occupazione di Genova, lasciando Latour e le truppe ad Alessandria, in funzione di corpo d’osservazione alla frontiera con la Lombardia. Invece di aumentare l’Italian Levy, il 27 aprile Bentinck suggeriva a Castlereagh di sciogliere il corpo con raccomandazioni per il passaggio degli ufficiali nei nuovi eserciti dei

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sovrani restaurati e qualche mensilità di buonuscita per la truppa, annunciando di avergli mandato il tenente colonnello Charles Ashe A’Court [aiutante generale delle forze inglesi in Italia] «to explain more fully the circumstances of the levy and to receive your orders».

Il censimento dei 167 ufficiali in servizio all’11 maggio 1815

Proprio in vista dello scioglimento, Bentinck fece disporre uno stato degli ufficiali in servizio all’11 maggio 1815, che in seguito si portò a casa e si trova oggi nel suo archivio presso l’Università di Nottingham. Alla data la Brigata contava 167 ufficiali, inclusi:

il maggior generale Latour;

15 ufficiali superiori: colonnelli Burke e Catinelli, tenenti colonnelli Righini, Millet e Ciravegna, i maggiori de Andreis, Birnstiel, Dumont (Brigade Staff), San Martino, Leveroni, Lignana (1st Regt), Rosenheim, Gleyesses (2nd), Dell’Oste e Sourdeau (3rd);

10 ufficiali degli stati maggiori (capitano Frizzi, 2 assistant inspector, 3 aiutanti maggiori, 2 quartiermastri, 2 pagatori);

9 chirurghi (3 maggiori e 6 aiutanti);

3 cappellani (due siciliani e un corso);

129 ufficiali di compagnia (32 capitani, 62 tenenti e 35 insegne).

Gli italiani erano 109: 32 siciliani, 24 piemontesi, 13 napoletani, 7 sardi, 3 romani, 3 toscani, 3 veneziani, 2 liguri, 2 bolognesi, 2 calabresi, 2 trentini, 2 triestini, 1 goriziano, 1 valtellinese, 1 istriano, 1 dalmata, 1 anconetano, 1 elbano, 1 piacentino, 1 modenese e 6 senza indicazione di nascita. Dei 58 non italiani, 16 erano tedeschi, 7 svizzeri, 7 corsi, 5 nizzardi, 3 savoiardi, 3 francesi, 2 scozzesi, 2 irlandesi, 2 maltesi, 2 austriaci, 2 ungheresi, 1 moravo, 1 inglese, e 3 senza indicazione di nazionalità. I sudditi delle Due Sicilie (47) superavano quelli del re di Sardegna (41), ma tra questi ultimi c’erano il generale, metà degli ufficiali superiori, un terzo dei capitani (10 su 32) e un quarto dei tenenti (16/62). I sudditi austriaci (16, di cui 11 italiani) erano il triplo dei britannici (5, di cui uno solo inglese).

Il rapido successo della controffensiva austriaca a cavallo degli Appennini comportò intanto l’inserimento dell’Armata austriaca in Italia nel piano generale di guerra contro la Francia e la richiesta austriaca di aggregare il corpo d’osservazione sardo all’Armata di Frimont. Il 2 maggio, mentre iniziava la battaglia di Tolentino, Latour scriveva a Bentinck da Torino di essere stato nominato comandante del contingente piemontese (15.000 uomini) in radunata tra Pinerolo e Rivoli per coprire la frontiera alpina e cooperare poi con Frimont; e gli chiedeva di fargli

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sapere se poteva conservare il grado inglese e il comando dell’Italian Levy. Per tutta risposta il 5 maggio Bentinck comunicò a Bathurst la decisione di sospendere la cooperazione militare con gli austriaci e il 10 gli inoltrò la richiesta di Latour, ma informò il suo sottoposto che il comando delle truppe piemontesi non era compatibile con quello dell’Italian Levy e con la conservazione del grado e del soldo britannici. Questa sfida agli alleati costrinse il governo inglese, su perentoria richiesta di Metternich, a richiamare Bentinck in patria, sopprimendo il comando delle forze terrestri del Mediterraneo. Il 21 maggio, in visita di commiato a Torino, Bentinck revocò la sospensione della paga.

La British Army of the Mediterranean fu ufficialmente sciolta il 24 maggio, lo stesso giorno in cui il generale Macfarlane sbarcava a Napoli con le truppe anglo-siciliane imbarcate a Milazzo. L’indomani Bentinck partì da Genova, lasciando il comando dell’Italian Levy al colonnello Thomas Burke, e il comando generale a Macfarlane, che l’11 giugno s’imbarcò per Genova con le truppe inglesi di Napoli.

L’Italian Levy a Marsiglia (4 luglio 1815 – 16 gennaio 1816)

L’Italian Levy non prese dunque parte alle operazioni contro Murat né alle operazioni anglo-piemontesi in Savoia e nel Delfinato, cessate con l’armistizio dell’11 luglio. Tuttavia il reggimento a Nizza (3° Ciravegna) fronteggiò l’Armata del Varo comandata dal maresciallo Brune, e gli altri due, con Burke, Faverges, Andreis e 1.406 effettivi, presero parte alla spedizione in Provenza in sostegno delle forze monarchiche contro i bonapartisti irriducibili. La forza di spedizione, che includeva anche 800 fanti del 2/14th Foot, 600 piemontesi (1° Asti) e una batteria leggera (Gamble’s, del 6th Bn), salpò da Genova il 4 luglio al comando di Hudson Lowe e il 14 sbarcò a Marsiglia con 500 marines (capitano Cox) della squadra di Lord Exmouth. Rinforzato dagli Ussari di Brunswick e da compagnie del 31st Foot e del 6th e 7th King’s German Legion arrivati da Napoli, Lowe avanzò insieme alla guardia nazionale di Marsiglia e ai volontari realisti su Tolone, che il 24 luglio innalzò infine la bandiera del re. Pur formalmente dipendente da Macfarlane, Lowe era a disposizione di Wellington, mentre la forza austro-napoletana sbarcata a Genova e arrivata in Provenza via terra era comandata da Nugent.

Dopo la capitolazione di Tolone Lowe ed Exmouth chiesero di essere impiegati per la spedizione all’Elba, ma la missione fu affidata alla sola marina e alle truppe toscane. Quando Lowe partì per Sant’Elena, fu sostituito interinalmente dal colonnello sir Montague Burrowes, cui subentrò in settembre il maggior generale Charles Philips, richiamato da Messina.

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Il 5 settembre il brigante G. B. Grondona, detto “Bacicciola”, compì con altri 4 malviventi una sanguinosa rapina sulla strada della Bocchetta. Ferito e catturato il 16 settembre dalla gendarmeria genovese, fu portato in lettiga al Molo di Genova, dove fu impiccato. I due briganti catturati con lui erano disertori del 3° italiano e dei cacciatori Robert.

Lo scioglimento della leva italiana (29 settembre 1815 – gennaio 1816)

Tornato in Italia dopo Waterloo, il 15 settembre Bentinck scrisse a Latour da Firenze che le ultime informazioni da lui apprese prima della partenza da Londra circa la sorte della leva italiana erano che sarebbe stata drasticamente ridotta, dando agli ufficiali congedati una parte della paga, come si era fatto per i mercenari svizzeri. Il re Ferdinando VII di Spagna gli aveva inoltre dato 20 decorazioni dell’ordine del merito per l’Armata britannica della costa orientale: volendo riservarne metà per gli ufficiali inglesi e darne 5 ai siciliani e 5 alla leva italiana, chiedeva a Latour di indicargli 5 nomi, assicurandogli però che avrebbe messo in cima il suo. Il 28 settembre, in una lettera ad Harrison, Bunbury scriveva a sua volta che la leva italiana, dal momento della sua formazione, si era comportata bene, ma che era ormai arrivato il momento di congedarla.

Il 6 dicembre sia MacFarlane che il capitano Lorenzo Paoli, ispettore del corpo, scrissero a Latour di aver ricevuto ordine da Wellington di licenziare immediatamente i reggimenti italiani, a meno che il re di Sardegna o il granduca di Toscana non intendessero prenderli al loro servizio. MacFarlane aveva già informato il governo sardo e spedito un ufficiale a chiedere istruzioni più dettagliate a Torino, e invitava Latour a prendere accordi con i conti Perey e Vallesa. Paoli aveva l’ordine di recarsi a Torino solo dopo il previsto trasferimento della brigata da Marsiglia a Genova: se il re di Sardegna voleva negoziare al riguardo, riteneva che il progetto migliore fosse quello elaborato l’anno prima dallo stesso Latour. La brigata era del resto completa ed equipaggiata: dall’Inghilterra era appena arrivato il nuovo vestiario, «more complet and excellent in every respect». L’armata sarda era però già stata ricostituita e mobilitata per la campagna di Grenoble e doveva essere rimessa sul piede di pace: il 20 dicembre il segretario agli esteri sardo Vallesa scriveva alla legazione a Londra che gl’inglesi lasciavano l’Italia e il Piemonte prendeva al suo servizio la leva italiana solo per effettuarne lo scioglimento, congedando gli uomini in base allo stato di appartenenza: se possibile imbarcati, o altrimenti scortati alla frontiera da truppe piemontesi.

Su richiesta di San Marzano, il 25 dicembre Latour gli trasmise la lista nominativa degli ufficiali sudditi del re, da considerare «comme l’élite

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de ce corps», raccomandando i colonnelli Righini, Faverges e Ciravegna, i maggiori conte di St Martin, Birnstiel (badese) e Leveroni (i primi due, entrambi provenienti dal servizio austriaco, per lo stato maggiore generale, l’altro per la marina), e infine il capitano irlandese Odeven, aiutante maggiore della brigata italiana e cognato di Righini, esperto del servizio di dettaglio e delle manovre di fanteria. Quanto al maggiore Andreis, il suo ingaggio lo obbligava a restare ancora per qualche tempo al servizio inglese.

Il 15 gennaio 1816, da Roma, Bentinck manifestò a Latour il suo rincrescimento per l’«unjust decision» di sciogliere il corpo, ma «la fattura è fatta e non c’è rimedio». Ormai era rassegnato, e «only afraid of future intrigues». Aveva consigliato ad Andreis e Raverskill (?) di passare anch’essi al servizio piemontese e ringraziava Latour di essersi adoperato per trovare una sistemazione anche per Catinelli: era «a man excellent and an excellent friend». Almeno 32 dei 41 sudditi sardi in servizio come ufficiali dell’Italian Levy all’11 maggio furono ammessi nell’Armata sarda: otto (incluso Ciravegna) furono compromessi nei moti del 1821, mentre uno (Barolo) fu insignito dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro per la fedeltà dimostrata in quella circostanza. Degli ufficiali superiori, divennero generali Milliet, Righini e San Martino.

Secondo i conteggi delle “Foreign and Colonial Troops in British Pay” comunicati dall’ufficio dell’aiutante generale britannico il 6 marzo 1816, al 25 dicembre 1815 l’Italian Levy aveva ancora in forza 2.772 uomini (869, 813 e 958 dei tre reggimenti e 132 della “garrison company”, certo quella di Lissa). Da una lettera del 30 ottobre 1815 di Andreis, allora maggiore, sappiamo che era ad Aubagne insieme a 3 compagnie del 2° reggimento, comandate dal capitano F. de Campi.

I benserviti ai congedati

I benserviti a stampa, riquadrati, datati, timbrati con la ceralacca e sottoscritti dall’aiutante maggiore, dal comandante la compagnia e dal colonnello, recavano l’indicazione dell’unità di appartenenza (“Terzo reggimento italiano / al servizio di S. M. britannica”) sormontata dallo stemma britannico sorretto dal leone coronato e dal liocorno col motto “Dieu - et mon – Droit”. Il testo recitava: «Certifico io sottoscritto che il …. della … Compagnia del detto Reggimento / ha servito per lo spazio di …. non avendo in tutto questo tempo mai dato motivo di lagnarsi di / lui, essendosi sempre diportato con buona ed onorevole condotta dando prove d’attività ed esattezza nel / servizio, per i quali motivi gli rilascio il presente perché se ne possa valere dove il crederà necessario».

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Tra gli attestati di servizio e le lettere di raccomandazione che ci sono rimaste, citiamo quella di Righini (ora tenente colonnello) per il cadetto diciottenne Giuseppe Rossetti di Nizza, figlio di Marco, capitano del 1° reggimento, e fratello di Filippo, cadetto della Brigata Aosta. Altri riguardano il carabiniere Giuseppe Pedri del 3° reggimento (compagnia Gaffori) e Gaetano e Federico Bardet, tenenti del 3° reggimento e figli di Luigi, ufficiale del genio borbonico alla difesa di Gaeta, poi direttore dell’officio topografico di Palermo, divenuto maresciallo di campo e ispettore del genio a Napoli. Il 2 aprile e il 1° agosto 1816 furono creati cavalieri dell’Ordine sabaudo dei Santi Maurizio e Lazzaro i capitani inglesi John Shearman, già Brigade Major dell’Italian Levy, e Alexander Machlachlan, già comandante dell’artiglieria aggregata alla brigata in Spagna. Le due mogli del bigamo tenente Jonas Oxley si contesero dal 1826 al 1832 la pensione vedovile, finché il governo dette finalmente ragione alla prima, scozzese, e torto alla seconda, irlandese.

Tra i 586 sudditi pontifici reduci dalle guerre napoleoniche che dopo la restaurazione presentarono domanda di impiego [v. Elenco dell’ASR, cit. in Bibliografia] troviamo il bolognese Filippo Pellizzari (1782), aiutante insegna delle leve italiane, e il romano Gabriele Mordini di Luigi (1783), tenente delle guide inglesi in Portogallo (ammesso come tenente nei carabinieri pontifici nel 1817, in ritiro nel 1843 come tenente onorario). Il cadetto Francesco Donati, nato a Messina il 1° aprile 1793, fu ammesso nel 1817 al servizio napoletano; capitano del Reggimento Borbone nel 1845, passò poi alla gendarmeria e infine ai carabinieri a piedi, di cui era aiutante maggiore nel 1850 e colonnello comandante nel 1860: fu congedato in settembre, al termine della campagna di Calabria, e morì a Napoli il 14 gennaio 1882.

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I. Il dopoguerra dei protagonisti(1814-1869)

Il penultimo duca di Modena (1814-1846)

Per togliere ogni illusione a Murat, che il 21 gennaio 1814 aveva occupato Modena, il 7 febbraio Francesco d’Este fu frettolosamente riconosciuto duca di Modena, che lui definiva “un guscio di castagna” e di cui si rassegnò infine a prendere possesso il 15 luglio come IV sovrano del nome. Non rinunciò tuttavia al tentativo, sostenuto dalla regina sua sorella e suocera, di far sancire dal congresso di Vienna i diritti della moglie nella successione di casa Savoia. Vittorio Emanuele non volle però mutare i patti di famiglia che prevedevano la successione del ramo secondogenito dei Carignano, e i suoi inviati a Vienna, Rossi e San Marzano, riuscirono a spuntare il riconoscimento dei diritti del giovane Carlo Alberto. Riaccese nel 1821 dall’abdicazione di Vittorio Emanuele e dalle esitazioni di Carlo Felice, le speranze del duca furono di breve durata. Detronizzato dai rivoluzionari il 6 febbraio 1831 e rientrato in possesso dei suoi stati il 9 marzo, il duca affidò la riorganizzazione della polizia politica e della sicurezza interna al principino di Canosa, che dovette però allontanare nel 1834. L’anno seguente il fratello Massimiliano divenne gran maestro dell’ordine teutonico. Morto il 21 gennaio 1846, Francesco d’Este fu ricordato dalla storiografia risorgimentale unicamente come uno spietato reazionario e un temibile avversario dell’indipendenza italiana.

Il primo governatore generale dell’India (1815-1839)

Il 18 giugno 1815, lo stesso giorno di Waterloo, Bentinck indirizzò da Londra a Bathurst un memoriale difensivo dai toni aspri e risentiti, e il 20 ottenne inutilmente un nuovo incarico presso Wellington. Tornato privatamente a Napoli in settembre, fu convinto dal ministro austriaco a reimbarcarsi come persona non grata, con grande sollievo di Ferdinando IV (“se a voi ha reso l’appetito – disse a Circello – a me ha procurato una nottata tranquilla!”). Caduto in disgrazia e rimasto senza impiego fino al 1821, nel 1827 fu nominato governatore generale del Bengala, dove giunse nel luglio 1828. Nel 1833 fu il primo a ricoprire la nuova carica di governatore generale dell’India istituita con l’East India Company Charter. Costretto da motivi di salute, nel 1836 lasciò l’India per Parigi, dove morì nel 1839.

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Il capitano generale dell’esercito napoletano (1815-1862)

Nell’aprile-maggio 1815 l’ardita marcia attraverso la Toscana e lo Stato Pontificio per tagliare la ritirata a Murat con una piccola brigata rinforzata dalle truppe toscane e romane, confermò le qualità militari e politiche di Nugent. Creato principe romano da Pio VII, insignito della commenda di S. Leopoldo e autorizzato a passare al servizio napoletano, Nugent fu dal 1817 al 1820 capitano generale dell’esercito borbonico. Comandò poi le Divisioni di Vicenza (1820) e Padova (1826) e il Küstenland (1829). Promosso feldzeugmeister (1838), fu comandante generale in Moravia (1839), dei confini militari (1840) e dell’Austria interna (1842). Nel 1848 ottenne di poter organizzare una spedizione di soccorso a Radetzky in Lombardia: passato l’Isonzo il 25 aprile, batté gli italiani ad Onigo rigettandoli su Montebelluna. Ceduto il comando per malattia, organizzò poi un corpo di riserva sulle frontiere della Stiria e dell’Ungheria, col quale sottomise i comitati di Szalàd, Somogy, Baranya e Tolna, occupò Essegg il 213 febbraio 1849 e iniziò l’assedio di Comorn, di cui lasciò il comando il 26 settembre, poco prima della resa. Promosso feldmaresciallo il 16 ottobre, nel 1859 volle seguire come volontario il quartier generale dell’imperatore Francesco Giuseppe in Italia e assisté alla battaglia di Solferino. Morì presso Carlstadt il 21 agosto 1862.

L’ultimo maresciallo di Savoia (1814-1858)

Licenziato dal servizio inglese nel 1816, Latour fu promosso tenente generale dell’armata sarda e comandante la Divisione di Novara (di cui suo padre era stato governatore). Nel 1819 sposò Marietta Galleani, figlia del 4° conte di Agliano, da cui ebbe sette figli e che gli premorì nel 1837. Nominato da Carlo Felice governatore generale degli Stati di Terraferma, l’8 aprile 1821 vinse i costituzionali a Novara. Sostituito il 19 aprile dal luogotenente generale Ignazio di Revel, fu primo segretario di stato per l’estero dal 10 gennaio 1822 al 21 marzo 1835, luogotenente generale nel 1829, governatore generale di Torino dal 1835, vice presidente annuale del consiglio di stato (nel 1835 e 1847), senatore del regno dal 3 aprile 1848. Morì a Torino il 19 gennaio 1858. Divenuto conte nel 1820 alla morte del padre, ne ereditò il titolo di marchese di Cordon e fu insignito degli stessi onori e gradi (cavaliere della SS. Annunziata e generale di cavalleria nel 1821, maresciallo di Savoia nel 1835). Era cavaliere di gran croce (13-VII-1815), e poi gran cordone (9-XII-1831) dei SS. Maurizio e Lazzaro, commendatore dell’ordine militare di Savoia (4-III-1816) e cavaliere dell’ordine civile (30-XI-1831). Insignito della medaglia Mauriziana (17-XII-1839), ebbe anche le

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principali onorificenze straniere [cavaliere di gran croce degli ordini di San Luigi, di Leopoldo, di Alexander Nevskij, della Rote Adel e di S. Stefano, e cavaliere degli ordini Supremo del Cristo (Santa Sede), Costantiniano di S. Giorgio di Parma, e di Carlo III di Spagna.]

Ciravegna, Righini, Faverges, Odeven e Andreis

Colonnello della Brigata Aosta dal 1817, poi maggior generale comandante la Divisione di Torino, noto per franchezza e generosità, considerato un progressista per la sua estrazione popolare, nel gennaio 1821 Ciravegna si adoperò per moderare l’esagerata repressione del moto studentesco e in marzo firmò – del resto come tutti gli altri comandanti di corpo presenti a Torino – l’appello per la concessione della costituzione spagnola, salvo poi ad obbedire all’ordine di Carlo Felice di portare le truppe a Novara: Latour gli conservò il comando e lo mandò poi di rinforzo a Genova, ma la sua carriera fu stroncata. Morì a Collegno in data a noi ignota.

Tenente colonnello dei cacciatori italiani (ex-Robert) nel 1816, comandante la Brigata Alessandria dal 1817, nel marzo 1821 Righini obbedì all’ordine di Santarosa di marciare da Chambéry a Torino, ma, inviso alla truppa, arrivato a San Giovanni di Moriana fu arrestato dai liberali insieme al cognato Giorgio Odwen, capitano aiutante maggiore. Confermato al comando della brigata (che assunse il nuovo nome di “Acqui”), fu promosso maggior generale nel 1823 e tenente generale nel 1834. Comandò le Divisioni di Genova (1823) e Torino (1830) e fu governatore di Novara (1834) e di Alessandria (1838). Collocato a riposo nel 1841, morì nel 1871. “Odeven” fu poi colonnello del 2° reggimento della Brigata Aosta e morì nel 1834.

Colonnello della Brigata Piemonte dal 1816, maggior generale e governatore interinale di Cuneo nel 1820, nel marzo 1821 il barone di Faverges era commissario regio presso l’armata austriaca intervenuta a Napoli. Raggiunta la sua brigata a Novara (dov’era stata condotta dall’energico maggiore Morra), prese parte al breve scontro dell’8 aprile e il 10 rioccupò Torino. Ispettore delle scuole d’equitazione, nel 1823 accompagnò Carlo Alberto nella spedizione del Trocadero. Governatore di Nizza (1827-30), poi di Cuneo (1830-35) col grado di tenente generale, lasciò il servizio nel 1835 e morì nel 1839. Rimasto al servizio inglese fino al 1817, Andreis fu poi ammesso come capitano del 2° reggimento dell’artiglieria di marina sarda. Comandante di varie fortezze marittime e terrestri, raggiunse il grado di maggior generale nel 1839. A riposo nel 1843, morì a Torino nel 1865.

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Il presidente della Società goriziana di agricoltura (1816-1869)

Incaricato da Bentinck di riattare le fortificazioni di Genova, Catinelli fu licenziato nel 1816 per la sospensione dei lavori decisa dal governo sardo [oberato dalla contribuzione di 930.000 franchi pretesa dagli inglesi per evitare di distruggere le opere all’atto del loro ritiro, come avevano fatto invece gli austriaci ad Alessandria]. Tornato a Gorizia, si sposò nel 1818. Richiamato nel 1821 per riorganizzare la scuola militare di Modena e fatto nobile dal duca, tornò a casa nel 1824. I suoi studi sulla questione agraria gli valsero la presidenza della Società goriziana di agricoltura. Nel 1848 accompagnò Nugent nel Veneto, recandosi poi a Vienna quale deputato di Gorizia al Reichstag. A seguito del congresso di Parigi del 1856 redasse importanti Studi sulla questione italiana, poi tradotti in francese dal dottor Henri Schid e pubblicati a Bruxelles nel 1859. Morì quasi novantenne a Gorizia il 27 luglio 1869.

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Allegato Scarlet or Blue?

L’uniforme prescritta alla leva italiana dalle Regulations di Bentinck del 13 maggio 1812 era blu con fodere e filettature rosse. La citata lettera di Clinton al cognato, datata 22 febbraio 1813 da San Juan, attesta però inoppugnabilmente che già in Spagna (e dunque fin dall’inizio) la leva italiana (o almeno il 2° reggimento) era «dressed in scarlet», cioè indossava la giacca rossa, tipica della fanteria inglese, e anche della maggior parte dei corpi stranieri. Rossa è anche la giacca del capitano F. de Campi conservata nel Museo del risorgimento di Trento, e i figurini delle truppe inglesi a Genova e la stampa del Comune del 3° Regg.to Italiano al servizio Inglese conservata nella civica raccolta delle stampe “A. Bertarelli” di Milano rappresentano la leva italiana in giacca rossa con mostre verdi, fodera bianca e nidi di rondine (distintivo delle truppe leggere), shakot alto con pennacchio verde e pantaloni grigi infilati nelle mezze ghette nere. Una spiegazione della difformità tra le prescrizioni e le testimonianze potrebbe essere che Bentinck ci abbia ripensato, per non confondere i “suoi” reggimenti con quelli siciliani, vestiti tutti di blu. Oppure che gli uomini destinati a formare il 1° reggimento, una volta arrivati a Malta, abbiano ricevuto, per economia, uniformi ivi immagazzinate, forse un surplus del Sicilian Regiment, che vi era di guarnigione e vestiva in giacca rossa con mostre verdi. O forse, più semplicemente, che i commercianti inglesi di Messina abbiano imposto al precipitoso Bentinck una variante di loro convenienza.

L’attribuzione alla leva italiana dell’uniforme riprodotta dal poliedrico Charles Hamilton Smith (1776-1859) nel manoscritto dell’Università di Harvard (e nella copia del 1814 posseduta dalla Bibliothèque Nationale de Paris), e ripresa nel 2000 da René Chartrand, è senza dubbio erronea. Infatti (come provano le stesse tavole che corredano il saggio dello studioso canadese) l’uniforme attribuita alla leva italiana da Smith non differisce in alcun modo da quella della Legione piemontese, e deve dunque identificarsi con quest’ultima. Del resto la diversità del colore di fondo (blu anziché rosso) riflette non a caso il diverso inquadramento politico dei due corpi, reclutati in concorrenza fra loro fra i prigionieri di Portsmouth, e manifesta proprio l’intenzione di distinguerli, anche perché la legion era comunque destinata a passare presto al servizio sardo. La giacca del figurino è blu con colletto, risvolti e paramani rossi e bottoni gialli; i pantaloni sono grigi, lo shako cilindrico e nero con visiera, coccarda nera, pennacchio e il corno da caccia distintivo delle truppe leggere. Come nota Chartrand, il colore verde delle spalline e del pennacchio indica un carabiniere, armato di moschetto con baionetta.

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I 167 Quadri dell’Italian Levy (Genova, 15 maggio 1815)

Italian Levy Officers – A) U. superiori e capitani Brigade Staff Italian Levy

Major General Vittorio Della TorreColonel Thomas BurkeColonel Charles Catinelli

Major Antonio (sic) D’AndreisMajor Henry BirnstielMajor John Dumont

Captain Franz Frizzi Assistant Inspector: Sigismund Hogam – John BauerGradi 1st Regiment 2nd Regiment 3rd Regiment

Regimental StaffLt Col Righini Joseph Millet de Faverges Hen. Ciravegna JohnMajors S. Martino Charles

Leveroni EmanueleLignana Luigi (FG *)

Rosenheim LouisGleyesses Francis-

Dell’Oste LuigiSourdeau Auguste-

AM Erdmann Friedrich (cap) Platen William (ten.) Marchesan LuigiQM - Ferndenthal Charles Longo FrancescoPay M. - Payass Giovanni B. Tedeschi VincenzoSurg. Calley William Black Elia White PietroAdj. Surg.

Gemellaro Joseph *Cerale Giuseppe

Rossi AlessandroRoveri Franceso

Boini Giovanni Ant.Fiorenza Rosario

Chap. Lorenzo don Louis Scivori Giambattista Belloassai Bonav.Companies

Captain Rossetti Marc(o)Martinich Giovanni B.Barolo GioacchinoAndreis Domenico *Damiani ValentinoLightemberg RichardFilippini Giuseppe *Salomone JosephMauro GerolamoArmand Louis

Nidrist Rudolph(De) Campi FrancisCapezzalis StefanoSeidler AlessioRistori StanislaoOdeven GiorgioLebotti PasqualeReveroni AngeloDiversi RaffaeleBermingham Giovanni

Schmid PasqualeGaffori PaoloKubner GiorgioPignier Giovanni B.Spinetta OnoratoKrautz CarloKregg Giuseppe CarloPozzo di Borgo FeliceOberhauser Gius. FLBorra Carlo

BdeCap Edlinger Joseph - Perini Michele* distaccato a Monaco. FL = ferito a Livorno (14.12.1813). FG = Ferito a Genova (14 e 18.4.1814). Fonte: Nottingham University, Ms, Bentinck’s Papers, Pw Jd 6133-6139.

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Segue Italian Levy Officers – B) U. subalterni Gradi 1st Regiment 2nd Regiment 3rd RegimentLtn Tiscker Charles

Basadonna PierreTamajo 1° LouisSgambella PhilipMinigrod FrederickDavico JosephLoya DominiquePasio CharlesSaracco PaoloTamajo 2° JohnBlater FriedrichRecco FrancisBragale RaphaelPirra JosephLozza RodrigheRosemberg JosephGallina JosephRoderors Blaise *Carlos AugustBentivegna Mari(o) *Falletti Gaetano

Colinet Giovanni B.d(ella) Guardia Giov.Genovese GiovanniOxley JohnClarenza EnricoFanelli AntonioGagliani LiborioOdeven SalvatorePaternò GirolamoFrank ValentinGraham HenryCaneo GiuseppeDonati FrancescoCaracciolo VespasianoSpadaro AlessandroPaternò FrancescoFlorelli FrancescoPulalla FrancescoDonati SalvatoreFerrante Giuseppe-

Canelles AntonioFancello GiuseppeCiusa GiuseppeFontana LuigiSchiena AntonioMetzker CarloScilhorst GiorgioDe Grandis GiuseppeDais FilibertoCarbone GiovanniBardet FedericoCiaulandi GiuseppeJenner FedericoGrixoni LuigiBariel GaetanoOnnis PaoloMameli Clavesana Olivieri GabrieleCella Giuseppe (FL)Marcovich SalvatoreMessineo Francesco

Ensign Locascio Giovanni B. *Desio AntonioLabianca Giovanni B. *Fighiera GiuseppeGambini LuigiKoe FrederickPaternò Camillo *Mirone PaoloPaggi GiuseppeKutter Francis-

Rivarola GiovanniAmorosa LuigiMassimi LuigiVecchi GiuseppeMoletti GiuseppeSchmidt CarloMarini GiuseppePappenheim ChristianEden TeophilusBermingham Edward Torelli Paolo

Martines StefanoSantallo RomoloMarchetti CosimoVial GiuseppeMa(y)da EugenioMancini Paolo (FG)Salvi Giovanni (FG)Proto SilvestroD’Amico FilippoDalmass GiuseppeDemontand Luigi

BnAdj Pellizzari Philip Fioravanti Giovanni B. Lidonnici Ag. Dom.* distaccato a Monaco. FL = ferito a Livorno (14.12.1813). FG = Ferito a Genova (14 e 18.4.1814). Fonte: Nottingham University, Ms, Bentinck’s Papers, Pw Jd 6133-6139.

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Nazionalità degli Ufficiali dell’Italian Levy Regno di Sardegna (41)

Nazionalità U superiori Chir. aiut. Capitani Tenenti InsegneSavoia (3) Latour

Millet- Pignier - -

Nizza (5) - - RossettiSpinetta

- FighieraTorelliDalmass

Piemonte(24)

D’AndreisRighiniS. MartinoLignanaCiravegna

CeraleRoveri

RossettiBaroloAndreisArmandBorraPerini

Davico, LoyaPasio, Saracco,PirraFalletti, DaisCiaulandiOlivieri

VialMayda

Sardegna(7)

- - - CanellesFancelloCiusa, OnnisFontanaGrixoniMameli

Liguria (2) Leveroni - Ristori - -TOTALE 8/16 2/19 9/32 16/62 5/35

Regno delle Due Sicilie (47)Palermo (13)

Capitano Bermingham. Tenenti: Tamajo 1 e 2, Fanelli, Gagliani, Paternò G. e F., Caracciolo, Florelli, Pulalla, Donati S.. Insegne: Rivarola, Amorosa

Milazzo (1) Insegne: Proto, D’AmicoMessina (4) Capitano Mauro. Tenenti Donati F., Spadaro, FerranteCatania (4) Tenente Clarenza. Insegne: Gambini, Mirone. Chir. aiut. Gemellaro.Sciacca (1) Cappellano Lorenzo. Sicilia (9) Maggiore Rosenheim. QM Longo. Capitano Tedeschi. Ten. Genovese.

Insegne Paternò, Moletti, Bermingham. Chir. aiut. Fiorenza. Cappellano Belloassai.

Calabria (2) Tenente Carbone. Insegna Lidonnici.Napoli (13) Capitani Odeven e Lebotti. Tenenti Recco, Bragale, Lozza, Odeven,

Bardet G. e F., Marcovich. Insegne Paggi, Desio, Schmidt, Marini.

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Segue: Nazionalità degli Ufficiali dell’Italian Levy Impero Austriaco (16)

Venezia Capitano Reveroni. Tenente Caneo. Insegna Fioravanti.Trieste Capitano Martinich. Insegna Vecchi.Gorizia Colonnello Catinelli.Illiria Tenente Messineo.Istria Ven. Capitano Salomone.Valtellina Tenente Schiena.Trentino Capitano SM Frizzi. Capitano De Campi.Austria Capitano Edlinger. Insegna Kutter (Domdorff).Moravia Tenente Rosenberg (Laschitz).Ungheria Capitani Kubner e Krautz.

Altri Stati Italiani (18)Roma (3) Tenente Sgambella. Insegne Mancini, Salvi.Ancona (1) Insegna Martines.Toscana (3) Magg. Dell’Oste (Pisa). Ten. Colinet. Chir. aiut. Rossi (Siena). Elba (1) Insegna Demontand.Bologna (2) Insegne Pellizzari, Massimi.Piacenza Tenente Cella.Modena Tenente De Grandis G. Imprecisati(6)

Capitano Filippini. Ten. Basadonna, Bentivegna. Insegne Locascio, Labianca. Chir. aiut. Boini.

Altri Stati Non Italiani (43)Inghilterra Chir. magg. Calley. Scozia (2) Tenente Oxley. Chir. magg. Black.Irlanda (2) Colonnello Burke. Tenente Graham. Malta (2) Capitano Marchesan. Pagatore Payass.Corsica (7) Capitani Damiani, Capezzalis, Gaffori, Pozzo di Borgo. Insegne Santelli,

Marchetti. Cappellano Scivori.Svizzera (7)

Maggiore Gleyesses. Capitani Nidrist, Diversi, Schmid. Insegne Gallina, Jenner, Blater (Berna).

Prussia (2) AM Platen (Berlino). Tenente Carlos (Festenberg).Svevia (1) Assistant Inspector Hogam.Coblenz (1) Tenente Tiscker. Hannover Capitano Erdmann. Ten Minigrod. Insegna Eden. QM Ferndenthal.Baden (2) Maggiore Birnstiel. Assistant Inspector Bauer. Francoforte Tenente Franck. Insegna Pappenheim.Westfalia Tenente Metzker.Alsazia (1) Capitano Seidler. Germania Capitani Kregg, Oberhauser. Insegna Koe.Francia (3) Mag. Sourdeau. Ten. Roderors (Tolone) e Della Guardia (Perpignano).Sconosciuta Maggiori Dumont. Ten. Scilhorst. Chir. magg. White.

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I Quadri della Legione Reale Piemontese (1814)

Tab. – I 42 ufficiali della Royal Piedmontese Legion (1814)Stato Maggiore

Ufficiali Superiori Chirurghi Colonnello S. Bommio di Robassomero Maggiore Emanuele MalvaniMaggioreMaggiore

Carlo D’Aprotis (*)Gaudin

Assistente Giuseppe BoschiAiutanteAiutante

Federico Perpano (?)Lorenzo De Simone

CapitaniJoseph de BonneBarthelemy BonnetCresiLazzaro Riccardi

Antonio De TorreGaetano PanarioPico PallaviciniOreglia

TenentiGugliemo PaniettiVictor WallinCarlo Pedio

Louis ArnaudCristoforo FontanaGiuseppe Pellati

Sottotenenti Stn soprannumerariSimone NicolinoFrancesco SagliettiTommaso VignaGiuseppe EmperoniVincenzo RosinoGiuseppe Cansona (?)Ferdinando Rossi (?)

Jean Joseph DeluyBartolomeo MartinLuigi CiampoliGalinaLorenziniGiovanni PlassoGiovanni B. Granara

Mario MonforteDiego MaglioneFleury CatalanFrançois Louis LeblancTommasiLaureRaffetti

(*) In congedo a tempo indeterminato dal 1° giugno 1814 per recarsi in Piemonte.Paghe al giorno (sterline): colonnello 22:6, maggiore 16:0, capitano 10:6, tenente 6:6, sottotenente 5:3, chirurgo maggiore 11:4, chirurgo assistente o aiutante 7:6. Inoltre 78 sergenti a 0:6, 15 tamburi a 0:4, e 1.749 caporali e soldati a 0:3. Totale per tre mesi, sterline 3.693.

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Fonti

British National Archives (Ruskin Avenue, Kew, Ricmond, Surrey):

WO 164/233 Royal Hospital Chelsea. Prize Records – Tarragona 1813. Payment of Foreign Troops (Artillery Co., 1st and 2nd Regiment of Italian Levy).

WO 43/337 Secretary at War – Correspondence. Widow’s pension claimed by two persons married, as to one in Scotland and one in Ireland. Scottish marriage valid. Case of Lieut. Jonas Oxley, late Italian Levy. Legal opinion (1826-30).

WO 65/167 e 168 – Two manuscript Foreign Army Lists containing details of foreign and mercenary units which are missing from the printed Army Lists of the period.

AO 1/232/805 Auditors of the Imprest and Commissioners of Auditor Declared Accounts (or Rolls). Roll 805 Capt L. Pauli, Inspector of the Italian Levy.

Nottingham University – Library Department of Manuscripts and Special Collections Papers of Lord William Cavendish Bentinck (1774-1839) soldier, politician and statesman (Pw J):

Italian Levy. Pw Jd 5556 Commission as Commander of the forces on the Islands and coasts of the Mediterranean (1 March 1811). 5562/1 Memoirs of conversations at Cagliari (15 july 1811). 5563 Return of the Sicilian army (1 August 1811). 5564 Papers relating tho the Sicilian Flotilla (8 August 1811 – 21 june 1812). 5570 Heads of what was agreed upon in a conference between Lord W. Bentinck, Col. de la Tour and Lt Gen. F. Maitland (28 August 1811). 5571 Memorandum explanatory of the accompanying papers relative to the Archduke Francis (29 September 1811). [Attached to 5570]. 5605/2 Mem. from Count La Tour (1811). 5642 Arrangements for the passage of Austrian officers through Turkey (2 June – 8 July 1812). 1836 Mem. of Sir John Dalrymple about Italian Levy. 3032 Return of strenght of Italian Levy 1814. 6040 Mem. of money advancement to the Italian Levy. 6045 Statement of sum paid on account of the Italian Levy. 6046 Statement of sums advanced for service of the Italian Levy (1814). 6130-6132 Returns of strenght of 1st, 2nd and 3rd Italian Regiments (7 may 1815). 6133-6139 Registers of Officers of the Italian Levy (11 May 1815). 6147 Note on the Italian Levy (1815?). 3023 Proposals to Count Vallaise for transfer of Italian Levy to Piedmontese service (1803-1918). 574 Copy of a petition to the Prince Regent from Oberhausen, late of the Italian Levy (1790-1839).

Campagna di Alicante. Pw Jd 5848 – Weekly state of the British and Sicilian forces commanded by Bentinck in Spain (30 July 1813). 5898/2 Letter of thanks from the Italian officers taken prisoner (2 September 1813). 5899/1-4 Reports on the affair at Ordal (15-17 September 1813). 6190 Mem. on siege of Tarragona. 6267-6269 Sketch maps of roads, mountain passes and “osteology” around Tarragona.

Questione italiana. Pw Jd 5565-67 – Memorial of Mr de Turris on the views of Italy towards independence (14 August 1811). 6233-6234 Mr Sario’s plans for Italy. 5938 Proclamation by Marshall Bellegarde to people of Italy (5 February 1814). 5946 Bentinck’s proclamation to to the Italians (14 March 1814). 6013 Memorandum by Bentinck on Italian Constitution (15 May 1814). 6126 Extracts from dispatches from Castlereagh (9-22 January 1815). 6127 Memoir on

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proclamations issued by Bentinck at Leghorn and Genoa (1 March 1815). 6179 Mem. on Sardinia. 6218 Mem. on Piedmont.

Campagna del 1814. Pw Jd 5953-5963 Some account of proceedings at Reggio, Verona and Bologna with Murat, Bellegarde etc. (March 1814). 5952/1-7 Reports on siege of Santa Maria (30-31 March 1814). 5976 Return of killed, wounded and missing of the allied British and Sicilian force before Genoa between 13 and 17 April 1814. 5973 State of French Garrison at Genoa (15 April 1814). 5977-5978 Plan of attack on Genoa (17 April 1814). 6140 Grant of prize to the captors of Genoa (1 August 1815). 6077 Original plans of operations of Count Neippeg. 6092 Note on combined operations of corps of Bentinck and Count Nugent. 6076 Statement on capture of Ft Richelieu. 6091 Return of reinforcements received by the Franch. 5979 e 5982 Capitulation of Genoa and articles additional (18 and 20 April 1814). 5988-5989 Austrian project of a convention with Price Borghese (22 April 1814). 5995 Convention between governor of Gavi and Count de la Tour (24 April 1814).

Questione Genovese: Pw Jd 5666 Papers relating to Genoa (4 October 1812). 6006, 6011 Requests to Bentinck and Note to Castlereagh by the Genoese government (29 April and 11 May 1814). 6068-6069 Proclamations. 6072 Memorandum by Dalrymple on future of Geona. 6080 Adress from people of Liguria to Bentinck. 6082 Mem. for marquis de Brignole. 6083 Mem. on conditions of reunion of Genoa and Kingdom of Sardinia. 6088 Mem. on proposed lines of Genoese frontier. 6089 Mem. By Dalrymple on future limites of the Genoese state. 6235 Papers relating to Genova from M. Brignole. 6236 Mem. on Genoa.

Piazzeforti di Genova e Savona. Pw Jd 5999 – Return of engineer store at Genoa (27 April 1814). 6012 and 6129 Report on defenses of Genoa (11 May 1814 and 26 April 1815). 6029 Report on Savona (May 1814). 6015 e 6023-27 Note and Papers relating to Island of Capraia (17 May 1814). 6128 Brigading of the army proposed for embarkation (21 April 1815).

Intelligence. Pw Jd 5655-5656 e 5661-5664 Secret service receipts and accounts (24 June – 3 November 1812). 5855-5597 Intelligence.

Proclami e diari di Bentinck. Pw Jd 5996-5998, 6001, 6005, 6007, 6030-36 – Proclamations. 6093-6125 Proclamations and addessses (1811-14). 6454 Diary 1811. 6254-6264 Jornal ( January 1812-1 May 1814).

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