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Erwin Panofsky Il significato nelle arti visive Parte prima Iconografia e iconologia Introduzione allo studio dell’arte nel Rinascimento I L’ICONOLOGIA è quel ramo della storia dell’arte che si occupa del soggetto o significato dell’opera d’arte. Si distinguono tre tipi di significato: SIGNIFICATI PRIMARI O NATURALI : sono significati definiti “ sensibili” (configurazioni di linee e colori, rappresentazione di oggetti naturali – uomini, animali, piante – il cogliere certe qualità espressive, come, ad esempio, il carattere doloroso di una posa, un gesto, ecc…) e che si suddividono a loro volta in 1. SIGNIFICATO FATTUALE che si apprende per semplice identificazione di certe forme visibili con oggetti a noi noti dall’esperienza; 2. SIGNIFICATO ESPRESSIVO che si apprende per “empatia”, e ciò significa che è necessaria una certa sensibilità che rientra ancora nella nostra esperienza pratica; Questo è il mondo delle pure forme, detto mondo dei motivi artistici. SIGNIFICATO SECONDARIO O CONVENZIONALE : definito anche “intelligibile”. Questo avviene quando, ad esempio, riconosciamo che una figura virile con un coltello in mano è San Bartolomeo o che una figura femminile con una pesca in mano è la personificazione 1

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Erwin PanofskyIl significato nelle arti visive

Parte primaIconografia e iconologia

Introduzione allo studio dell’arte nel Rinascimento

I L’ICONOLOGIA è quel ramo della storia dell’arte che si occupa del soggetto o significato dell’opera d’arte.

Si distinguono tre tipi di significato: SIGNIFICATI PRIMARI O NATURALI : sono significati definiti “ sensibili”

(configurazioni di linee e colori, rappresentazione di oggetti naturali – uomini, animali, piante – il cogliere certe qualità espressive, come, ad esempio, il carattere doloroso di una posa, un gesto, ecc…) e che si suddividono a loro volta in

1. SIGNIFICATO FATTUALE che si apprende per semplice identificazione di certe forme visibili con oggetti a noi noti dall’esperienza;

2. SIGNIFICATO ESPRESSIVO che si apprende per “empatia”, e ciò significa che è necessaria una certa sensibilità che rientra ancora nella nostra esperienza pratica;

Questo è il mondo delle pure forme, detto mondo dei motivi artistici. SIGNIFICATO SECONDARIO O CONVENZIONALE : definito anche

“intelligibile”. Questo avviene quando, ad esempio, riconosciamo che una figura virile con un coltello in mano è San Bartolomeo o che una figura femminile con una pesca in mano è la personificazione della Verità, ecc… Qui avviene una connessione tra motivi artistici e temi e concetti.I motivi portatori di un significato secondario sono chiamati immagini, e le combinazioni di immagini si chiamano storie o allegorie.

SIGNIFICATO INTRINSECO O CONTENUTO : che si apprende individuando i principi di fondo che rivelano la personalità e l’atteggiamento di una nazione, una classe, un periodo, una concezione filosofica e religiosa. Tali prinicipi sono rivelati dal significato iconografico. Considerando le pure forme, i motivi, le immagini, le storie o allegorie come manifestazioni di principi di fondo si danno a questi elementi valenza di valori simbolici.

La scoperta e l’interpretazione di questi valori simbolici è l’oggetto dell’ICONOLOGIA.

Avendo individuato i tre tipi di significato, questi identificano anche tre livelli di analisi dell’opera d’arte, che sono, rispettivamente:

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1. DESCRIZIONE PREICONOGRAFICA : una raccolta e classificazione di dati e oggetti, che investe quindi la sfera dei motivi artistici. Si fonda essenzialmente sull’esperienza e la pratica soggettiva e sulla familiarità con oggetti e eventi. Quando queste non bastano il PRINCIPIO CORRETTIVO DELL’INTERPRETAZIONE è dato dalla storia dello stile, che dice che “col mutare delle condizioni storiche gli oggetti e i fatti sono stati espressi in modi diversi”.

2. ANALISI ICONOGRAFICA : presuppone familiarità con temi specifici trasmessi da fonti letterarie e tradizione orale ed investe il mondo delle immagini, storie o allegorie. L’eventuale PRINCIPIO CORRETTIVO DELL’INTERPRETAZIONE è dato dalla storia dei tipi, che è “il modo in cui temi specifici o concetti sono stati espressi in oggetti ed eventi col mutare delle condizioni storiche”.Es: vedi figura 3 – GiudittaIl quadro raffigura una donna giovane e bella con una spada nella mano sinistra e un bacile su cui posa una testa umana. Inizialmente si pensava fosse Salomé con la testa di san Giovanni Battista: questo spiegava la presenza del bacile, ma non la spada, perché non fu Salomé a decapitarlo. Altri avanzarono l’idea che si trattasse di Giuditta con la testa di Oloferne: questo spiegherebbe la presenza della spada, ma non il bacile, dato che la testa di Oloferne venne messa in un sacco secondo la Bibbia. Utilizzando il principio correttivo della storia dei tipi si può percorrere uno studio che ci porti a scoprire se prima di quest’opera è mai stata rappresentata una Salomé con una spada (sapendo che è lei perché in compagnia dei parenti, ad esempio) o una Giuditta con un bacile (inequivocabilmente riconoscibile perché ad esempio in compagnia delle ancelle). La ricerca ci porterà a scoprire che sia in Germania che nell’Italia del Nord ci sono molte opere cinquecentesche raffiguranti una Giuditta con bacile.

3. INTERPRETAZIONE ICONOLOGICA : comprende i primi 2 livelli di analisi, vale a dire esperienza e pratica soggettiva, familiarità con oggetti ed eventi, conoscenze letterarie… più la cosiddetta “intuizione sintetica” condizionata dalla psicologia della persona, ciòé una familiarità con le tendenze dello spirito umano. Il PRINCIPIO CORRETTIVO DELL’INTERPRETAZIONE è dato dalla storia dei simboli, che è “come muta il modo in cui le tendenze generali dello spirito umano sono espresse attraverso temi e concetti specifici, col mutare delle condizioni storiche”.

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RIASSUMENDO

oggetto dell’interpretazione atto interpretativo corredo necessario per l’interpretazione

principio correttivo dell’interpretazione

1) Soggetto primario o naturale: a) fattuale, b) espressivo, costituente il mondo dei motivi artistici

Descrizione preiconografica Esperienza pratica (familiarità con oggetti e eventi)

Storia dello stile (studio del modo in cui in diverse condizioni storiche gli oggetti ed eventi sono espressi mediante forme)

2) Soggetto secondario o convenzionale, costituente il mondo di immagini, storie e allegorie

Analisi iconografica Conoscenza delle fonti letterarie (familiarità con temi e concetti specifici)

Storia dei tipi (studio del modo in cui in diverse condizioni storiche i temi e i concetti specifici sono espressi mediante oggetti o eventi)

3) Significato intrinseco o contenuto, costituente il mondo dei valori simbolici

Interpretazione iconologia Intuizione sintetica (familiarità con le tendenze essenziali dello spirito umano), condizionata dalla psicologia personale

Storia dei simboli (studio del modo in cui in diverse condizioni storiche le tendenze essenziali dello spirito umano sono espresse mediante temi e concetti specifici)

IIRinascimento significa, letteralmente, rinascita dell’antichità classica.

Artisti come Giorgio Vasari, Lorenzo Ghiberti e Leon Battista Alberti pensavano che l’arte classica fosse morta all’inizio dell’era cristiana, a causa delle invasioni barbariche e per l’ostilità dei primi sacerdoti.Questi AVEVANO TORTO, perché le concezioni classiche (letteratura, filosofia, scienza, arte) sono sopravvissute attraverso i secoli, ma AVEVANO ANCHE RAGIONE, perché l’atteggiamento generale verso l’antichità era mutato quando iniziò il moto rinascimentale.Esaminando le figure 5 e 6 notiamo due rilievi della facciata di San Marco a Venezia: il primo è un’opera romana del III secolo d.C., il secondo è un’opera veneziana di quasi 1000 anni dopo. Evidentemente lo scultore medievale copiò l’opera per creare un pendant. Casi analoghi a questo si ritrovano nei secoli XII e XIII nell’arte italiana e francese: riprese di motivi classici, con trasformazione dei temi da pagani in cristiani.Tipiche affinità iconografiche vedevano l’utilizzo di personaggi mitologici per la rappresentazione di temi cristiani: così, ad esempio, Ercole che trae Cerbero dall’Ade diventa Cristo che trae Adamo dal Limbo, o Orfeo diventa David, Atlante è utlizzato per rappresentare gli Evangelisti.Ciò avveniva per una differenza tra tradizione figurativa e tradizione testuale.La tradizione testuale venne mantenuta in particolare dai paesi dell’Europa del Nord (Irlanda, Nord della Francia, Inghilterra), dove venivano raccolti veri e propri commentari sulla mitologia, e grazie ai quali l’informazione mitografica sopravvisse

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e fu accessibile ai poeti ed artisti del Medioevo. Anche in Italia e in Provenza vennero pubblicati alcuni commentari di mitologia (come l’Ovidio moralizzato del francese Berchorius, o la Genealogia Deorum del Boccaccio, il primo testo di questo tipo ad essere stato affrontato con atteggiamento critico o scientifico verso l’antichità classica). Nel Nord Europa si parla di un movimento protoumanistico, dove c’è maggiore interesse per i temi classici e non per i motivi. In Italia e in Provenza il movimento protorinascimentale era più interessato ai motivi che ai temi classici.Sarà poi il Rinascimento a reintegrare i motivi classici assieme ai temi classici, che assieme si riuniscono nell’immagine classica. Nel periodo rinascimentale Giove riprende il suo aspetto di Zeus e Mercurio dell’Hermes antico.

Il Medioevo non riuscì in questa integrazione per una serie di motivi: L’epoca classica era troppo vicina storicamente a quella medievale perché

potesse essere considerata realmente come un periodo passato, un fenomeno chiuso e a se stante, staccato dal mondo contemporaneo;

Era impossibile per il Medioevo giungere all’idea moderna di storia: distanza intellettuale tra presente e passato che consente allo studioso di costruire concetti oggettivi di epoche passate;

Per la cultura del tempo e per il cristianesimo una bella figura classica era accettabile solo se rappresentata come una figura religiosa, altrimenti non ne poteva essere compresa la bellezza.

E’ importante però capire che la reintegrazione rinascimentale NON E’ UN RITORNO AL PASSATO: il Medioevo aveva cambiato lo spirito degli uomini e le loro tendenze creative. Ora con il Rinascimento la forma d’espressione stilisticamente e iconograficamente doveva essere diversa e tributaria tanto alla cultura classica che a quella medievale.

Parte secondaLa storia della teoria delle proporzioni del corpo umano come riflesso

della storia degli stili

ILa storia della teoria delle proporzioni è un riflesso della storia dello stile.Per TEORIA DELLE PROPORZIONI intendiamo un sistema che fissa i rapporti matematici tra le varie membra di un essere vivente, in particolare degli esseri umani, in quanto pensati come soggetti di una rappresentazione artistica. In particolare in questa sede ci occuperemo di come sia stato affrontato e risolto questo problema nelle civiltà egizia, greca, medievale e rinascimentale.

Tre erano le possibilità nel proporsi una “teoria delle misure umane”:1. si poteva mirare alla definizione di proporzioni oggettive (altezza, larghezza e

profondità) senza curarsi di quelle tecniche;

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2. si poteva mirare alla definizione di proporzioni tecniche senza curarsi di quelle oggettive;

3. ci si poteva considerare liberi dall’obbligo di scegliere, perché proporzioni oggettive e tecniche coincidono.

L’ultima possibilità di fatto si è realizzata solo nella civiltà egizia. C’è da considerare che ci sono anche tre condizioni che possono impedire la coincidenza di proporzioni oggettive e tecniche:

1. in un corpo organico ogni movimento altera le dimensioni della parte che si muove e insieme delle altre parti;

2. l’artista vede il soggetto sotto un certo scorcio;3. l’eventuale osservatore vede l’opera finita sotto un certo scorcio, che quindi

obbliga l’artista a compensare mediante l’abbandono voluto delle proporzioni oggettivamente corrette.

Nella civiltà egizia i movimenti delle figure non sono organici, ma meccanici: movimenti delle singole membra, non di tutto il corpo.Nella scultura il soggetto viene ad essere rappresentato in un piano geometrico: sia per la scultura a tutto tondo che per le arti bidimensionali. Nella scultura a tutto tondo il lavoro è facilitato dal fatto che il disegno veniva eseguito su blocchi: la trama geometrica è disegnata sulle facce laterali del blocco (a volte anche sulla faccia superiore) e l’artista tracciava quindi quattro disegni distinti (o 5). Nella rappresentazione bidimensionale le proiezioni non sono rese nella loro integrità, ma in un’immagine unitaria: si rappresentano testa e fianchi di profilo, torso e braccia di fronte (vedi figura pag. 67).L’arte egizia non ha quindi preferito le proporzioni oggettive a quelle tecniche o viceversa, è stata l’una e l’altra cosa insieme. Dato che la rappresentazione egizia si limitava alle vedute frontale, laterale e planimetrica, queste non potevano che coincidere con le dimensioni oggettive.Es: se l’artista egizio sapeva che la lunghezza complessiva di un essere umano doveva dividersi in 22 unità, sapeva anche che il piede era lungo 3 o 3,5 unità, ecc… e quindi sapeva anche quali misure segnare sul fondo del dipinto o sulle facce del blocco. Gli egiziani, infatti, suddividevano il piano di disegno (blocco, muro, ecc…) con un reticolo a maglie quadrate uguali. Il procedimento valeva anche per la rappresentazione di animali. E’ un reticolo che precede il disegno, a differenza del disegno preparatorio del procedimento moderno; ha una funzione costruttiva: serve per fissare le dimensioni e per definire il movimento.La figura umana creata da un egiziano era investita di una vita reale, ma solo potenziale: riproduceva la forma, non la funzione dell’essere umano (Aristotele).Per la sfinge della fig. 18 sono stati impiegati tre diversi disegni, poiché composta da tre parti eterogenee: la testa umana, il corpo di leone e la piccola dea che tiene tra le zampe (costruita secondo il canone dei 22 quadrati). Ogni nucleo è così concepito come se dovesse stare a sé.

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IIL’arte classica greca, invece, accettò quelle condizioni che non permettono a dimensioni oggettive e tecniche di coincidere: ammise il mutare delle dimensioni provocato dal movimento organico, lo scorcio risultante dalla visione e la necessità di correggere in certi casi l’impressione ottica dell’osservatore.Gli artisti greci privilegiarono quindi un procedimento che consentisse all’artista di variare le proporzioni oggettive caso per caso, limitando cioè la teoria delle proporzioni ad un’antropometria. Fu Policleto il padre dell’antropometria greca classica: la teoria delle proporzioni cercava di stabilire dei rapporti tra le membra, anatomicamente differenziate l’una dall’altra, e l’intero corpo. Secondo Policleto “la bellezza non risiede nei singoli elementi, ma nell’armoniosa proporzione delle parti, di un dito rispetto all’altro, di tutte le dita rispetto alla mano, …infine di tutte le parti a tutte le altre”.Diversamente dall’artista egizio, quello greco non partiva da un reticolo su cui poi inserire la figura umana, partiva dalla figura umana, organicamente differenziata nelle sue parti, e in secondo momento cercava di definire come queste parti si accordassero le une alle altre e al tutto.Il carattere antropometrico e organico della teoria classica delle proporzioni è connesso con un’ambizione normativa ed estetica: il canone policleteo mirava a realizzare una legge estetica.Ciò che contava, quindi, per un artista greco era l’esperienza visiva, l’osservazione diretta. Se due artisti egizi avessero deciso di costruire una statua separatamente (ognuno metà per conto proprio) con molta probabilità queste avrebbero coinciso perfettamente una volta riunite le 2 parti. Due artisti greci del V o IV secolo, pur d’accordo sul sistema di proporzioni, non sarebbero giunti allo stesso risultato, perché rimaneva sempre una certa libertà formale.

IIILo stile dell’arte medievale è definito “piatto” rispetto all’arte classica. Nell’arte egizia era esclusa la rappresentazione di una figura umana a tre quarti, cosa invece prevista dallo stile medievale, che ha mantenuto il presupposto del libero movimento dell’arte antica. Le forme erano comunque appiattite, e non si poteva più parlare di un’antropometria nell’arte medievale. Pertanto il sistema medievale rinunciò all’ambizione di determinare le dimensioni oggettive (la forma tridimensionale), per limitarsi a definire l’aspetto bidimensionale della rappresentazione. Il metodo del Medioevo è per questo detto anche schematico.Nel Medioevo, però, ci sono stati due modi di interpretare la schematizzazione planimetrica: si hanno così la soluzione bizantina e quella gotica.

La teoria bizantina realizzò il suo schema partendo, come per l’arte classica, dall’articolazione organica del corpo umano (le parti del corpo sono per natura distinte l’una dall’altra), ma le misure del corpo umano non furono definite alla stessa maniera. L’unità di misura delle dimensioni del corpo umano era rappresentata dalla testa (o viso): la lunghezza totale della figura ammontava a 9 visi. Secondo il Manuale del Monte Athos un’unità era assegnata alla faccia,

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tre al torso, due sia alla parte inferiore che superiore della gamba, ecc… (la teoria delle 9 facce penetrò poi anche nella teoria artistica delle epoche successive, fino ai secoli XVII e XVIII). Probabilmente questo canone deriva dall’Oriente, non più indietro del tardo ellenismo. L’artista sapeva che moltiplicando una certa unità poteva ottenere tutte le dimensioni fondamentali del corpo umano: determinando le singole dimensioni della figura col compasso e immediatamente riportandole sul muro. Così vennero fissate anche le lunghezze dei particolari della faccia: la lunghezza del naso corrispondeva a 1/3 di quella della faccia. E proprio la lunghezza del naso fu considerata l’unità fissa per le misure della testa, la quale era formata da tre cerchi concentrici. Il più interno (il cui raggio è dato dalla lunghezza di un naso) delinea fronte e guance; il secondo (con un raggio di 2 nasi) delinea il contorno esteriore della testa e l’ultimo (del raggio di 3 nasi) disegna anche l’aureola (vedi figura pag.83). Anche le teste viste di tre quarti erano costruite in questo modo, purché non si piegassero in avanti, ma semplicemente ruotassero verso destra o verso sinistra. L’unica differenza è che il centro dei cerchi non poteva più essere la radice del naso, ma dove essere spostato nella metà del viso più vicina all’osservatore (angolo esterno dell’occhio o pupilla). (vedi fig. 22 e 23) l’effetto di scorcio è dato dalla distanza AC che è più di metà viso nella visione a tre quarti, e sarà tanto maggiore quanto più distante si troverà il punto A.

Diversamente il sistema gotico serviva solo a determinare i contorni e le direzioni del movimento. Non c’è più una misurazione del corpo in visi o in facce. Qui c’è un sistema di linee sovrapposto alla figura umana (vedi figura pag. 87) che fungono da linee guida, non da misura: indicano la direzione in cui si suppone si sviluppino le membra. La figura è inserita in un pentagono allungato in senso verticale. Anche i visi sono costruiti non su figure “naturali”, come i cerchi, ma su triangoli o pentagoni. L’architetto francese Villard de Honnecourt provò a realizzare anche la figura in tre quarti: utilizzò sempre il sistema del pentagono, senza alcuna modificazione, se non che il semplice spostamento di una giuntura di una spalla (vedi figura pag.89): la distanza da spalla a spalla diminuisce così di 1/4 la sua lunghezza, rispetto alla distanza che c’era nell’uomo frontale.

IVIl Rinascimento fuse l’interpretazione cosmologica medievale della teoria delle proporzioni con la nozione classica di simmetria, come principio della perfezione estetica. La teoria delle proporzioni toccò un prestigio senza pari nel Rinascimento, tuttavia questo non sempre si accompagnò con la tendenza a perfezionare i metodi. Infatti, per quanto riguarda le conoscenze positive e i metodi solo due artisti italiani compirono passi decisivi nello sviluppo nella teoria delle proporzioni: Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci. Entrambi vollero innalzare la teoria delle proporzioni a livello di scienza empirica: esperienza appoggiata ad un’osservazione accurata della natura. Si accostarono al corpo umano vivente con squadra e compasso, nel tentativo

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di definire l’ideale: la normale figura umana nella sua articolazione organica e tridimensionale. L’Alberti escogitò un nuovo sistema di misure, chiamato Exempeda, dove divise la lunghezza totale della figura in 6 piedi, 60 pollici e 600 unità minime. I vantaggi di questo nuovo sistema sono ovvii rispetto al sistema di misurazione bizantino in facce, poiché le unità tradizionali erano troppo estese per delle misurazioni particolareggiate. Tuttavia i risultati che ottenne lo stesso Alberti furono limitati. Leonardo preferì ampliare il campo di osservazione: egli identificava il bello con il naturale e cercava di definire l’organica uniformità della forma umana. Il criterio alla base di questa uniformità voleva che si verificassero corrispondenze tra il maggior numero possibile di parti del corpo umano. Così determinò l’espansione o la contrazione dei muscoli connesse con il piegarsi o lo stendersi del ginocchio o del gomito. Ridusse tutti i movimenti ad un principio generale: il principio del moto circolare continuo ed uniforme.Il Rinascimento arrivò all’integrazione dell’antropometria classica con la teoria fisiologica del movimento e la teoria matematicamente esatta della prospettiva.Anche l’artista tedesco Albrecht Dürer si occupò della teoria delle proporzioni: dapprima, in quanto erede della tradizione nordica gotica, secondo il modello di Villard, poi orientò la sua ricerca sull’antropometria, spinto dall’influenza dell’Alberti e di Leonardo. Dürer superò gli italiani: rinunciò alla volontà di scoprire l’ideale di bellezza, ma sviluppò alcuni tipi caratteristici allo scopo di “evitare l’informe bruttezza” (accumulò circa 26 serie di proporzioni). Inoltre egli tentò di completare la sua teoria della misure con una teoria del movimento e una della prospettiva. Il vecchio Dürer non si preoccupava più della rappresentazione finale, si limitava a prepararla, inscrivendo unità plastiche in solidi stereometrici (vedi fig. 29).

VEgli finì però per coltivare gli studi delle proporzioni come fini a se stessi: con calcoli sempre più esatti le sue ricerche sconfinarono dall’utilità sul piano artistico, perdendo ogni contatto con l’esercizio dell’arte. Ma anche se i suoi metodi non giovarono all’arte come aveva sperato, questi risultarono importanti per lo sviluppo di discipline come l’antropologia, la criminologia e la biologia.

Parte terzaSuger abate di Saint-Denis

ISuger è una figura di singolare rilievo nella storia della Francia. Fu abate di Saint-Denis dal 1122: capo e riorganizzatore dell’abbazia, fu consigliere ed amico di due re di Francia.Suger aveva l’accortezza di un grande uomo d’affari e senso dell’equità. Era nemico della violenza, abile nell’attendere il momento opportuno e capace di vedere le cose nel loro insieme. Egli seppe sfruttare queste doti per 2 sue ambizioni:

rafforzare il potere della corona di Francia;

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potenziare l’abbazia di Saint-Denis.

Suger era convinto di 3 verità di fondo:1. un re era “vicario di Dio”, per cui il re non doveva errare mai;2. compito del re è quello di rimuovere forze che alimentino conflitti interni,

mettendo in pericolo il potere centrale;3. il potere centrale e l’unità nazionale erano legati di diritto all’abbazia.

Saint-Denis fu per secoli l’abbazia “reale” e conteneva le tombe dei re francesi. Suger attuò una “riforma” per migliorare le condizioni dell’abbazia: riforma che attirò su di sé complimenti e critiche dal mondo religioso e non. L’abbazia infatti sotto Suger acquisì maggiore indipendenza e prestigio.Amante della pace, Suger cercò di raggiungere i suoi scopi mediante trattative e accordi finanziari anziché con le armi. Migliorò i rapporti fra curia e corona francese, tesi già dal predecessore di Luigi il Grosso, Filippo I. Invece si creò così una solida alleanza che portò anche alla neutralizzazione dell’allora più pericoloso nemico per la Francia: l’imperatore di Germania, Enrico V.Suger riuscì a mantenere buoni rapporti anche con il sovrano inglese, Enrico I, nonostante la lotta per la contesa della Normandia con Luigi il Grosso.I 2 maggiori successi di Suger furono incruenti:

1. sventò un colpo di stato preparato dal fratello di Luigi VII (sovrano di Francia dal 1137);

2. respinse il tentativo di invasione di Enrico V, imperatore di Germania.

Solo in un caso Suger insistette per l’uso della forza contro i connazionali: quando i ribelli volevano violare i diritti della Chiesa e del povero, che Luigi il Grosso si era impegnato a difendere.Suger era spietato contro i signori che si comportavano da tiranni locali: vessavano i contadini, saccheggiavano le città e mettevano le mani su beni ecclesiastici; e lo fu non solo perché era dalla parte degli oppressi, ma anche perché capiva che i contadini avrebbero finito con l’abbandonare i campi se continuavano ad essere sottoposti a questo trattamento.

IILe condizioni di Saint-Denis prima di Suger non erano delle migliori: larghi squarci nei muri, colonne guaste, impegni non mantenuti verso fattori principeschi, decime passate ai laici, lontani possessi o non coltivati o disertati dai conduttori a causa dell’oppressione di nobili e baroni vicini. Già prima di arrivare a Saint-Denis, Suger aveva avuto esperienza di questa situazione: all’età di 28 anni era proabate in uno dei possedimenti dell’abbazia, Toury-en-Beauce, un posto evitato dai mercanti e sotto le vessazioni del signore locale Hugues du Puiset. Con l’aiuto dei vescovi di Chartres e Orléans e la protezione dello stesso re riuscì a far cedere il castello di Le Puiset e si occupò della ricostruzione di Toury, portandolo dalla sterilità alla fecondità.

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Allo stesso modo anche a Saint-Denis, non appena fu ristabilita la sicurezza fisica e legale, Suger si accinse ad un programma di ricostruzione e riassetto che risultò vantaggioso sia per il tenore di vita dei conduttori che per le finanze dell’abbazia. Gli obblighi dei fittavoli furono attentamente rivisti tenendo ben distinte le legittime consuetudini dalle arbitrarie esazioni. Di tutto si occupò lo stesso Suger, che seguiva tutto nei minimi dettagli, cogliendo ogni occasione favorevole.

IIINel 1127 quindi avvenne la riforma di Saint-Denis, riforma che provocò la risposta in lettera di san Bernardo, nella quale si congratula con Suger per le belle cose che ha fatto per l’abbazia. Dopo tanti complimenti però arriva a dire che la sua buona disposizione verso l’operato di Suger e l’abbazia dipenderanno anche dalla condotta dello stesso Suger in futuro. In breve, san Bernardo voleva l’eliminazione del siniscalco di Luigi il Grosso (Stefano di Garlande). Comprendendo quanto potevano nuocersi da nemici, Suger e san Bernardo vennero a patti, decidendo di diventare amici, evitando con cura di interferire negli interessi reciproci.La riforma di Saint-Denis si propose innanzi tutto di rieducare i frati dell’abbazia, per ristabilire l’Ordine. Ma la riforma fu ben lontana dal realizzare qualcosa di simile all’austero stile di vita monastica di san Bernardo: Saint-Denis continuò a dare a Cesare quel che è di Cesare.San Bernardo vedeva la vita monastica come cieca obbedienza e intransigente sacrificio. Suger, invece, era per la disciplina e la moderazione, contrario alla sottomissione. Egli vedeva il rapporto tra prelati e subordinati come quello fra i sacerdoti dell’Antico Testamento e l’Arca dell’Alleanza: come i sacerdoti protessero l’Arca, così il dovere di un abate era quello di provvedere al benessere fisico dei suoi monaci. Erano molte, quindi, le differenze fra Saint-Denis e la vita monastica di san Bernardo, ma in particolare c’era un contrasto inconciliabile: Suger non aveva nessuna intenzione di tenere i laici fuori dalla casa di Dio. Inoltre san Bernardo non accettava dipinti e sculture, gemme, perle, oro. Al contrario, Suger era un amante della bellezza e dello splendore. L’abbellimento materiale di Saint-Denis era per Suger una passione. Nel modo in cui disponeva le cerimonie di consacrazione egli sembrava anticipare i moderni produttori cinematografici, così come il suo procurarsi oggetti preziosi (vasi, gemme, perle) dimostra la stessa rapacità dei moderni direttori di museo. Suger fece della sua chiesa la più splendida dell’Occidente.

IVSuger non aveva ambizioni di uomo di pensiero: in nessuna circostanza egli mostra il minimo interesse per le controversie teologiche del tempo: disputa tra realisti e normalisti, la natura della Trinità, il dibattito fra fede e ragione. Questo fu il dramma intellettuale di Pietro Abelardo. Questi, dopo una serie di crudeli avvenimenti, trovò rifugio a Saint-Denis al tempo dell’abate Adam. Dopo essersi lasciato andare a molte critiche, la goccia che fece traboccare il vaso fu la presunta scoperta, da un passo di Beda, che attribuiva la vera identità del titolare dell’abbazia non a Dionigi l’Areopagita (come si era creduto fino a quel momento), ma a Dionigi di Corinto. Per

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una simile affermazione Abelardo fu condannato per tradimento e gettato in carcere, dal quale successivamente riuscì ad evadere. Una volta divenuto abate, Suger lasciò cadere tutta la faccenda. Più tardi Abelardo divenne abate di Clairvaux e venne attaccato ferocemente da san Bernardo e condannato.Suger non lesse mai il passo di Beda, causa della rottura fra l’abbazia e Abelardo, ma lesse alcuni scritti di Dionigi l’Areopagita. Fu proprio in questi scritti che Suger scoprì l’arma più forte contro san Bernardo e una giustificazione filosofica di tutto il suo atteggiamento di fronte all’arte e alla vita. Secondo lo pseudo-Dionigi l’universo è creato e unificato dall’autorealizzarsi di ciò che la Bibbia aveva chiamato “il Signore”. C’è un’immensa distanza tra la sfera d’esistenza più alta, intelligibile, e la più bassa, materiale: tuttavia si tratta di una gerarchia, non di una dicotomia, di una distanza insormontabile. La luce divina illumina ciò che è materiale, e il mondo materiale, per mezzo di questa luce, può ascendere a quello immateriale, secondo quello che era chiamato appressamento anagogico (ciò che porta in alto). Corrisponde esattamente a ciò che Suger praticava come protettore delle arti e organizzatore di spettacoli liturgici. Questo pensiero dava una giustificazione alla sua passione per le arti e per gli oggetti preziosi, perché questi potevano essere usati per innalzare gli oggetti materiali, per un’ascesa.Tutto ciò, tralasciando Dionigi, può essere semplicemente interpretato come simbolismo medievale. Suger, in ogni caso, utilizzò il pensiero di Dionigi anche per i suoi versiculi, che accompagnavano tutte le opere compiute sotto il suo governo. Quindi, accettando come verità i dettami di Dionigi, oltre a rendere onore al santo patrono, trovò conferma alle sue innate convinzioni e inclinazioni.

VNonostante Suger lo negasse, in realtà dagli stessi suoi monaci ebbe opposizioni. Egli, sia come scrittore che come mecenate, amava la magnificenza anziché da raffinatezza discreta. Suger aveva fatto eseguire alcune modifiche all’abbazia: aveva abbattuto la vecchia abside e la vecchia facciata occidentale, ricostruito un coro e un nartece nuovo e iniziò i lavori che avrebbero eliminato la navata. Giustificò così la sua impresa:

1. tutto quello che è stato fatto è stato deciso su regolare deliberazione presa con i frati;

2. l’opera aveva trovato grazia di fronte a Dio, che aveva rivelato i materiali adatti per costruire e aveva protetto i lavori;

3. si era avuto cura di salvare il maggior numero possibile delle vecchie pietre sacre, come se fossero reliquie;

4. la ricostruzione della chiesa era una necessità indiscutibile, date le sue deplorevoli condizioni e la relativa piccolezza.

In realtà sappiamo che, anche se Suger discusse dei lavori con i frati, non riuscì ad ottenere accordo all’unanimità. E che sia stata l’intercessione di Dio e dei santi martiri a consentire il ritrovamento dei materiali e a tenere sospesi architravi è opinabile. Non c’è alcun dubbio che l’incentivo maggiore all’azione di Suger nel campo delle arti viene da Suger stesso.

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VISuger era smisuratamente vanitoso, ma era profondamente diverso dall’uomo del Rinascimento e dalla sua sete di gloria: Suger proiettava il suo io nel mondo fino a che la sua personalità non fosse stata assorbita da tutto ciò che lo circondava. Suger era entrato in convento come uomo consacrato a san Denis e nacque da genitori molto poveri e di condizione assai umile. Una volta entrato in convento, invece di rimanere legato strettamente ai suoi parenti o di staccarsene drasticamente, Suger li tenne a distanza per poi farli partecipare in forma modesta alla vita dell’abbazia solo più tardi. Egli, sentendosi come figlio adottivo dell’abbazia, convogliò tutte le sue energie in essa. Probabilmente riuscì a realizzare il suo io solo rinunciando alla sua identità.Ma per Suger Saint-Denis significava anche la Francia, e così si sviluppò il suo mistico nazionalismo.Nel caso di Suger, in particolare, l’impulso a crescere non deriva solo dalle sue umili origini, ma anche dal fatto che, come molte grandi personalità storiche (Napoleone, Erasmo da Rotterdam, Mozart, ecc…) Suger era eccezionalmente piccolo di statura.Perché Suger affidò agli scritti le sue gesta, a differenza di altri protettori d’arte?

per il suo desiderio di giustificare la propria azione, poiché sentiva una certa responsabilità nei confronti dell’Ordine;

per la sua vanità personale e istituzionale.Concludendo si può affermare che Suger era un buon amministratore, retorico, misurato nelle sue abitudini, un gran lavoratore, vanitoso e spiritoso.

Parte quartaL’”allegoria della prudenza” di Tiziano: poscritto

IL’”allegoria della prudenza” (vedi fig. 30), di proprietà di Francis Howard di Londra, è databile fra il 1560 e il 1570. E’ la sola opera del Tiziano che può essere definita “emblematica”, più che allegorica: si tratta cioè di una massima filosofica illustrata mediante un’immagine visiva. Di fronte alle allegorie del Tiziano (fra le più famose ricordiamo anche l’Educazione di Cupido, il Festino di Venere, il Baccanale, l’Apoteosi di Arianna, ecc…) si è portati a cercare un significato astratto, anche se di recente hanno rivelato anche il loro significato neoplatonico.Dicevamo, appunto, che il dipinto Howard ha tutte le caratteristiche dell’emblema: partecipa alla natura del simbolo, dell’indovinello, del proverbio. Questo è l’unico dipinto di Tiziano con un vero e proprio motto:

EX PRAETERITOPRAESENS PRVDENTER AGITNI FVTURĀ ACTIONĒ DETVRPET

Dall’esperienza del passato, il presente agisce prudentementeper non guastare l’azione futura.

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IIGli elementi di questa scritta sono disposti in modo da facilitarne l’interpretazione: le parole praeterito, praesens e futurā servono da etichette per i tre volti umani della zona superiore (il vecchio rappresenta il passato, l’uomo maturo il presente e il giovane il futuro). Quindi i tre volti, oltre a simboleggiare le tre età della vita umana (giovinezza, maturità, vecchiaia) simboleggiano anche le tre forme del tempo (passato, presente e futuro). Inoltre queste tre forme del tempo vengono messe in relazione con l’idea della prudenza e con le tre facoltà psicologiche ad essa connessa: la memoria, che ricorda il passato e da esso impara; l’intelligenza, che giudica il presente e agisce in esso; la previsione, che anticipa il futuro.Questa coordinazione delle tre forme del tempo e le facoltà della memoria, intelligenza e previsione, connesse al concetto di prudenza, rappresentano una tradizione classica.L’arte medievale e rinascimentale trovò molti modi per rendere la tripartizione della prudenza in un’immagine visiva: ad esempio un braciere dal quale si levano tre fiamme, la figura della prudenza appare seduta in trono, in atto di guardare la sua immagine riflessa in un triplice specchio, oppure un’unica figura con tre teste (una figura di questo genere si ritrova ad esempio in un rilievo del Quattrocento, al Victoria and Albert Museum di Londra (vedi fig. 31)).

IIIPer capire le tre teste animali dobbiamo invece risalire al mondo delle religioni egizie. Una delle divinità maggiori dell’Egitto ellenistico era Serapide, la cui statua raffigurava Serapide in trono, in atteggiamento maestoso. L’elemento caratteristico è la figura che l’accompagnava: un mostro tricefalo, cinto da un serpente, con una testa di cane, una di leone e una di lupo… le stesse teste di animali dell’allegoria del Tiziano. E’ possibile che il compagno di Serapide non sia altro che una versione egizia del Cerbero di Plutone. I Saturnalia di Macrobio contengono una descrizione e un’interpretazione della statua di Serapide in Alessandria: “la testa di leone indica il presente la cui condizione è forte e fervida di azione presente; il passato è indicato dalla testa di lupo, poiché la memoria delle cose che appartengono al passato è divorata e cancellata; e l’immagine del cane indica gli eventi futuri, la cui speranza ci appare sempre attraente.” Macrobio, quindi, interpretava l’animale che accompagnava Serapide come un simbolo del Tempo. Inoltre sappiamo che Serapide e il sole hanno una sola ed indivisibile natura.

IVLa creatura a tre teste verrà poi rimessa in gioco da Petrarca, che ne riparlerà nel canto III della sua Africa. Questa volta, però, la figura con tre teste d’animale non è accompagnata da Serapide, ma da Apollo. Una scelta in fondo giustificata: Apollo è il Dio del sole (come solare era anche la figura di Serapide), e governatore delle tre

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forme del tempo. Inoltre Apollo era il protettore delle Muse, degli indovini e dei poeti, che sanno tutto quello che è stato, che è e che sarà.Sia Macrobio che Petrarca descrivono le tre teste d’animale, come legate da un serpente avvolto su di sé. Dai loro versi oggi noi capiremmo che le tre teste appartengono ad un quadrupede (come il vero Cerbero) a cui il serpente fa da specie di collare. Un lettore medievale, invece, era portato a credere che le tre teste fossero rappresentate su un corpo di serpente. Per evitare l’ambiguità il primo mitografo petrarchesco optò per questa seconda opzione, anche se sicuramente era la meno probabile. Fu così che nel Quattrocento un po’ dappertutto si ritrovano opere in cui la figura di Apollo compare accompagnata da questo mostro dal corpo di serpente con tre teste d’animale. Fu poi il Cinquecento, con la reintegrazione della forma classica con i soggetti classici, a ridonare il corpo di quadrupede al mostro. Giovanni Stradano, ad esempio, operò su questa via e ridonando ad Apollo la sua autentica bellezza. In questo caso particolare, però, l’idea per la rappresentazione di Apollo venne all’artista dal Cristo Morto di Michelangelo. Era un periodo in cui gli artisti rappresentavano Cristo a somiglianza di Apollo, perché il più bello di tutti gli uomini. Così poteva, quindi, essere vero anche il contrario.

VTra XVI e XVII secolo avviene una vera e propria emancipazione tra il mostro e Serapide. Gli Hieroglyphica di Horapollo prima e di Piero Valeriano poi dimostrano l’interesse nel Cinquecento per il mondo egizio. Quest’ultimo ricorda due volte il mostro di Serapide nella sua opera. Trenta o quarant’anni più tardi il mostro si affermò come simbolo, autonomo dal dio, con possibile interpretazione di tempo o di prudenza. L’immagine appariva in modi diversi nella mente dei filosofi del tempo. Ad esempio, secondo Maricondo “il presente è sempre anche peggiore del passato ed entrambi sono sopportabili solo grazie alla speranza di un futuro, che per definizione non è mai attuale. Questo era ben espresso dalla figura egizia… in un solo busto stavano tre teste, una di lupo volta all’indietro, la seconda di leone vista di fronte, e la terza di cane che guardava in avanti: il che mirava a mostrare che il passato affligge lo spirito con i ricordi, il presente lo tortura anche più duramente con le cose in atto e il futuro promette, ma non arreca, un miglioramento.”Secondo l’Iconologia di Cesare Ripa il mostro a tre teste di Valeriano era da includere fra i molti attributi del “Buon Consiglio”: un vecchio che nella mano destra tiene un libro dove è appollaiata una civetta (antichi attributi della sapienza), tiene i piedi su un orso (simbolo dell’ira) e su un delfino (simbolo della fretta); al collo porta un cuore sospeso a una catena (perché nel linguaggio geroglifico egizio, il “buon consiglio” viene dal cuore); con la mano sinistra regge tre teste, una di cane volta a destra, una di lupo volta a sinistra e una di leone al centro, tutte e tre su un solo collo. Questa triade rappresenta le principali forme del tempo, e quindi della prudenza.

VIAnche Tiziano probabilmente per il suo dipinto si è rifatto all’opera di Valeriano. Iconologicamente il dipinto è sia la vecchia immagine della Prudenza, con tre teste

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umane di diversa età, che la moderna immagine della Prudenza, con il mostro di Serapide formato busto. Il dipinto di Tiziano servì da “timpano”, ossia da copertura decorata a protezione di un altro dipinto. Ciò ci aiuta a scoprire che la testa del vecchio altro non è che l’autoritratto del Tiziano stesso: come riprova possiamo osservare il ritratto del Tiziano, composto più o meno nello stesso periodo, e conservato al museo del Prado (vedi fig. 46). Il maestro era molto vecchio in quel periodo (fra gli 80 e i 90 anni) e probabilmente l’Allegoria della Prudenza doveva servire a ricordare le disposizioni legali e finanziarie per provvedere alla propria famiglia. Nel 1569 ottenne che la senseria di sua proprietà fosse trasferita al figlio prediletto Orazio Vecelli, che è il presente nel dipinto del Tiziano: la riprova si ha nel Mater Misericordiae di Palazzo Pitti a Firenze (vedi fig. 47). Dal momento che il Tiziano non aveva nipoti in quell’epoca, la figura del giovane, il futuro, c’è da supporre che fosse un lontano parente (all’epoca sulla ventina) che il Tiziano si prese in casa e al quale era particolarmente affezionato: Marco Vecelli.Le figure del passato e del futuro risultano più incorporee rispetto al presente, poiché quest’ultimo è reale. Il viso giovanile è reso indefinito da un eccesso di luce, mentre quello del passato dal velo d’ombra.Il significato dell’opera è la rappresentazione dell’abdicazione rassegnata di un grande re per volere del Signore, il quale gli promise di prolungare i suoi giorni. Capire il significato di quest’opera è stato reso possibile dalla decifrazione del suo vocabolario: in un’opera d’arte la “forma” non può essere disgiunta dal “contenuto”.

Parte quintaLa prima pagina del “Libro” di Giorgio Vasari

INella biblioteca dell’Ecole des Beaux-Arts di Parigi si conserva un foglio di schizzi catalogato come Cimabue (vedi fig. 48 e 49). Il contenuto dei disegni ha resistito ad ogni identificazione, ed anche una collocazione stilistica è difficile.L’osservatore viene colpito dal carattere classicheggiante di questi schizzi: la presenza di motivi architettonici tardoantichi, come l’anfiteatro classico, la forma delle armi, ecc… Questi motivi classicheggianti appaiono però trasformati secondo lo spirito del primo Trecento. La diretta assimilazione di prototipi paleocristiani, nel Duecento, fu importante per la formazione dello stile trecentesco, così come fu importante l’ondata bizantina per il costituirsi della maniera greca.Questi schizzi sono concepibili come fra disegni a puro contorno e devono essere assegnati ad un artista attivo intorno al 1400 che abbia copiato un ciclo di dipinti realizzati circa un secolo prima.

IIPer quanto detto, quindi, probabilmente il nome di Cimabue non sarebbe mai stato associato a questi schizzi se non fosse stato per un importante indizio: la cornice. Sull’incorniciatura la paternità di Cimabue è attestata due volte: sul verso (fig. 49) da

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una scritta a mano e sul recto (fig. 48) da un ritratto incollato sopra dove si possono leggere le stesse parole. Lo storico dell’arte sa già che questo ritratto è stato stampato con uno dei legni che erano stati fatti per la seconda edizione delle Vite di Giorgio Vasari. Quindi sarà portato a pensare che il disegno provenga dalla collezione di Vasari. Infatti sappiamo che lo stesso Vasari dichiarò di possedere un foglio di schizzi che lui considerava del Cimabue e collocato proprio all’inizio del suo famoso Libro di disegni. La decorazione della cornice simula elementi di uno stile gotico: la cornice del verso (fig. 49) richiama un tabernacolo, con decorazioni nel timpano triangolare; la cornice del recto (fig. 48) imita un portale con capitelli ornati a rilievo. Anche la scritta sul verso si sforza di imitare la grafia del primo Trecento. Sorprende che Vasari, che accusa di eccesso la maniera tedesca e che considera l’arco acuto come la più riprovevole assurdità dell’architettura, volesse imitare questo stile.

IIIPer i paesi nordici, soprattutto per la Germania, non ci fu un vero “problema gotico” fino al Settecento. Gli architetti del Cinquecento erano ancora legati al passato medievale per capire che tra lo stile gotico e il Rinascimento c’era una antinomia. Se una costruzione necessitava di restauro o di aggiunte, i maestri del Nord si limitavano semplicemente a seguire indifferentemente il vecchio stile oppure il nuovo, senza porsi minimamente il problema. Per cui, in quest’ultimo caso, cupole e guglie barocche furono messe accanto a torri gotiche, ecc…Nei primi decenni del Settecento l’accettazione senza problemi dello stile gotico cominciò a vacillare. Inizialmente il problema fu risolto con una sintesi tra elementi di architettura medievale e contemporanei: in Germania questo orientamento è bene espresso dalle torri della cattedrale di Magonza, con una mescolanza di vecchio e nuovo (vedi figura pag. 181 e fig. 51). Nello stesso periodo in Inghilterra si svilupparono due movimenti: uno si proponeva la riforma dell’arte dei giardini, secondo un gusto naturale; l’altro era un voluto revival dello stile architettonico gotico. Ora il gotico era visto non solo come uno stile senza regole, ma anche come uno stile naturalistico, dove strutture gotiche in forma di rovine intendono raffigurare il trionfo del tempo sullo sforzo dell’uomo. Per cui nei paesi nordici il revival dello stile gotico serve come rievocazione di un’atmosfera particolare. Sarà poi la successiva combinazione fra classicismo e romanticismo a portare un apprezzamento per la ricostruzione archeologica del gotico nel Nord Europa.

IVA differenza del Nord Europa, in Italia il problema della purezza artistica era già sentito nel Rinascimento, che aveva ristabilito una certa distanza tra Gotico e arte contemporanea. In questo il Rinascimento italiano fu facilitato dalla sua ostilità al Medioevo e al Gotico in particolare, un’ostilità che paradossalmente permise al Cinquecento di vedere e riconoscere l’arte Gotica in Italia (cosa che al Nord fu possibile solo molto più tardi proprio per questa mancanza di distacco). Il Rinascimento italiano riuscì così a mettersi in un ottimo punto di prospettiva per

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guardare ed apprezzare tanto l’arte dell’antichità classica (staccata per il tempo, ma legata per lo stile) che quella medievale (staccata per lo stile, ma legata per il tempo).Riconosciuta così una differenza fra passato gotico e presente moderno, una fusione fra vecchio e nuovo alla maniera medievale non fu più possibile. In Italia lo stile gotico non era ammesso, ma non si poteva nemmeno violare il principio di “conformità” di Leon Battista Alberti, secondo il quale non era quindi possibile affiancare elementi di architettura gotica a elementi moderni. Per questi motivi l’Italia già nel Cinquecento si trovò a fare i conti con il problema dell’unità stilistica.Si poteva risolvere il problema della conformità in tre modi:

1. le parti preesistenti potevano essere rimodellate secondo i principi della maniera moderna (sistema che fu iniziato dall’Alberti nel Tempio Malatestiano di Rimini, o che vediamo in San Giovanni in Laterano del Borromini);

2. l’opera poteva essere continuata in uno stile volutamente goticizzante (sistema introdotto da Francesco di Giorgio Martini e Bramante nei loro disegni del tiburio del Duomo di Milano (vedi fig. 54) che fu effettivamente eretto in uno stile gotico);

3. si poteva arrivare ad un compromesso di queste due possibilità (come la facciata di Santa Maria Novella dell’Alberti e un altro modello per la facciata del Duomo di Firenze di Gherardo Silvani (vedi fig. 60), dove una composizione barocca è arricchita di torrette gotiche).

La seconda e la terza alternativa non significano però un’accettazione dello stile gotico: gli architetti che sceglievano forme gotiche non facevano altro che adeguarsi al principio della conformità e laddove potevano utilizzavano lo stile moderno.Di fatto, dei progetti che seguissero la seconda possibilità fu realizzato solo il tiburio del Duomo di Milano. Inizialmente doveva seguire questa via anche la lanterna della cupola gotica del Duomo di Firenze (vedi fig. 55), ma Brunelleschi coprì gli elementi gotici (pilastri a fasci, arco rampante) con elementi classici, quindi moderni (pilastri corinzi, voluta a spirale): la lanterna del Brunelleschi nasconde la sua anima gotica in un’apparenza moderna. Il fatto è che la possibilità di eseguire un’opera goticizzante secondo il principio della conformità poteva avvenire solo laddove il Gotico fosse realmente preferito, ecco perché fu possibile applicarlo a Milano (separata dal resto dell’isola dagli Appennini) e non in Toscana o a Roma. In Lombardia nacque, infatti, un vero e proprio partito gotico, in opposizione ai modernisti. La polemica ha però origine in antagonismi culturali, sociali e politici: per cui in realtà la preferenza dello stile gotico rimase limitata alla borghesia.Interessanti furono anche i vari progetti per la realizzazione della facciata di San Petronio a Bologna. Dopo varie proposte il Palladio decise di collaborare con l’architetto Terribilia per la sua realizzazione (vedi fig. 58 e 59): la volontà del Palladio era di non usare uno stile gotico, ma acconsentì a non modificare il basamento della facciata, sperando che ci fosse poi l’occasione di modificarlo successivamente. Alla messa in opera del progetto cominciarono le critiche, e il Palladio dovette pagare caro il suo atteggiamento conciliante verso il Gotico. Così egli tirò fuori tutto il suo risentimento represso verso il Gotico e chi lo pratica e

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aggiunge che il suo progetto originale prevedeva una trasformazione dell’ordine inferiore della facciata.L’architetto Pellegrino de’ Pellegrini risolve la questione dichiarandosi a favore della purezza stilistica: egli vedrebbe bene la completa trasformazione della chiesa secondo l’architettura antica, che è l’unica che unisce la bellezza e il decoro con la forza.

VTerribilia, il Palladio, Pellegrini e il Vignola, tuttavia, ritrovano qualcosa da ammirare nell’architettura gotica, nelle regole abbastanza ragionevoli, nelle chiese ben fatte, ed in particolare il Vignola giustifica gli errori fatti nella realizzazione della facciata di San Petronio con il tempo. Per cui comincia una valutazione storica che tiene conto dei fenomeni e li valuta in base al loro tempo.La concezione storica vasariana combina un pragmatismo, che cerca di spiegare ogni singolo fenomeno come l’effetto di una causa e che vede l’intero processo della storia come una successione di fenomeni, ognuno dei quali motivato da uno precedente, con un dogmatismo che crede in una perfetta regola dell’arte. Egli, quindi, interpretò ogni singola opera d’arte come un tentativo per avvicinarsi a tale regola.Altro metro di valutazione valido per il Vasari era il livello generale di qualità per ogni data epoca, in base al quale le singole opere d’arte, per quanto lontane dalla perfezione, potevano essere considerate meritevoli. Per cui si associava al metro della perfetta regola quello della natura dei tempi, riconoscendo che una data condizione storica imponeva limitazioni insormontabili ad ogni artista e che perciò si doveva attribuire un valore positivo alla sua opera da un punto di vista storico. Per cui anche il Vasari, fermamente opposto al Gotico, fa molti elogi ad alcune opere del tardo Medioevo.Le sue considerazioni di carattere storico ci fanno apparire la sua cornice gotica meno paradossale che a prima vista. Egli si pone il problema dell’unità stilistica nell’aggiunta della cornice ad un disegno già esistente, in modo da armonizzare il vecchio e il nuovo che sono eterogenei per i mezzi di espressione. Il Vasari non si preoccupava molto della conformità, e lo dimostra la decorazione dell’arco del suo portale (cornice), una decorazione moderna. Egli affermava che le arti figurative (architettura, scultura e pittura) sono figlie di un solo padre, il “disegno”. La gerarchia fra loro vedeva al primo posto l’architettura, al secondo la pittura e all’ultimo la scultura. Queste però sono soggette ad uno sviluppo parallelo.Secondo la già citata concezione vasariana della storia il progresso storico dell’arte e della cultura passa attraverso tre fasi predeterminate:

1. stadio primitivo, in cui le tre arti sono nella loro infanzia;2. stadio di transizione, in cui sono stati fatti notevoli progressi, ma non si è

ancora giunti alla perfezione assoluta;3. stadio di piena maturità, in cui l’arte è arrivata così in alto che si è portati a

temere un regresso anziché un ulteriore avanzamento.In questa concezione il Vasari si rifà all’autore dell’Epitome rerum Romanorum, Floro, che divideva la storia romana in quattro età. Il Vasari ne tralascia una, quella della vecchiaia, che secondo lui non costituisce un parallelo con l’evoluzione

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artistica. Il Vasari, probabilmente, nega il declino della natura perché, come umanista, sapeva che la civiltà classica era stata distrutta dai barbari e dal fanatismo religioso (senza un normale declino, quindi) e che era poi spontaneamente rinata quasi un millennio dopo con l’età moderna.L’ascesa attraverso tre fasi o età è avvenuta due volte nella storia dell’arte europea secondo il Vasari:

1. nel mondo antico prima età = pittori monocromi; seconda età = pittori a quattro colori; terza età = Policleto e il pittore Apelle.

2. nell’epoca moderna prima età = Cimabue, Giotto, i Pisani, Arnolfo di Cambio; seconda età = Jacopo della Quercia, Donatello, Masaccio, Brunelleschi; terza età = “l’artista universale” che eccelle in tutte e tre le arti.

Leonardo, Raffaello e Michelangelo.Nel costruire le sue cornici il Vasari si rifece alle costruzioni di Arnolfo di Cambio e, nonostante alcuni anacronismi, ciò che rimane di gotico nel finto portale sono proprio gli elementi derivati dagli edifici attribuiti ad Arnolfo di Cambio.

Excursus Due progetti di facciata di Domenico Beccafumi e il problema del manierismo nell’architettura

IDomenico Beccafumi (detto il Meccherino) si occupò della decorazione a Siena della facciata di “Casa dei Borghesi” (vedi fig. 64). Questa decorazione purtroppo è andata completamente perduta, ma l’edificio che ancora esiste può essere messo a confronto con un disegno del British Museum che reca una scritta antica (Micarino) (vedi fig. 63).Le proporzioni generali del disegno corrispondono con quelle dell’edificio: un edificio a quattro piani con quattro finestre per piano che poggiano direttamente sulle cornici marcapiano e sono meno alte della fascia di muro pieno sopra di esse.La Casa dei Borghesi era originariamente un edificio gotico che fu modernizzato nel Cinquecento in coincidenza dell’opera del Beccafumi: le finestre gotiche furono chiuse entro cornici rettangolari e coronate da un’architrave. Non tutti gli elementi del disegno di Londra furono in realtà realizzati fedelmente. Il Beccafumi ha ristretto nel disegno la zona morta sopra le finestre inserendo un architrave a fasce e un fregio decorato. Le zone verticali di muro fra le finestre e quelle agli angoli sono articolate in modo da costituire il supporto di questa trabeazione. Coppie di pilastri dorici, ionici e corinzi servono da appoggio all’architrave: ognuna di queste coppie forma un’edicola che ospita una figura di dio antico.

IIAltro disegno di facciata del Beccafumi (vedi fig. 66) è conservato al castello di Windsor, e si tratta di uno schema di decorazione per una casa molto modesta di soli

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due piani. Quello che sembra il pianterreno in realtà non ha nulla a che vedere con il disegno (qualcuno deve avercelo attaccato per sbaglio). Il secondo piano, non è altro che il primo piano di una bottega. Il banco della bottega è decorato con una rappresentazione dell’ubriachezza di Mosè e le zone laterali, a nicchie, sono statue di profeti. Al secondo piano (quello vero) vediamo a sinistra la presentazione di Cristo e a destra una scena misteriosa.C’è molta differenza fra questo disegno e quello della “Casa dei Borghesi”. Per il disegno al British Museum l’artista si era ispirato agli ideali del pieno Rinascimento o dello stile classico.Nel disegno di Windsor non c’è nessun tentativo di contrapporre un sistema strutturale autonomo a una superficie di fondo autonoma: al contrario il muro decorato sembra indifferenziato dalla struttura. La facciata del disegno di Windsor è, quindi, evidentemente non classica. Questa deve essere classificata come architettura manieristica. Il manierismo nell’architettura deriva dal riacuirsi di tendenze medievali nell’ambito dello stile classico.Il manierismo, che è la regola nella pittura dell’Italia centrale, rimane l’eccezione nell’architettura della stessa regione. Se la pittura del Quattrocento toscano e umbro può essere definita un’arte rinascimentale su basi gotiche, l’architettura toscana e umbra del Quattrocento può definirsi come un’arte rinascimentale su basi romaniche.A Firenze, i maggiori esponenti del manierismo in architettura sono lo scultore Ammannati, i pittori Buontalenti e Giorgio Vasari.

Parte sestaAlbrecht Dürer e l’antichità classica

Le opere di Dürer segnano l’inizio dell’arte rinascimentale del Nord. L’antichità fu per lui un regno perduto da riconquistare. Quando (prima della pubblicazione della sua Teoria delle umane proporzioni) cercò di realizzare figure classiche in movimento lo fece con l’intento di educare sé e i suoi colleghi tedeschi ad un atteggiamento classico. L’idea di far rivivere un’età aurea dell’arte fu italiana, e italiani sono gli artisti e le opere a cui Dürer si ispira.

IGli ideali che il Rinascimento trova realizzati nell’arte classica sono la bellezza del corpo umano e la forza espressiva. I temi classici che scelse Dürer sono La Morte di Orfeo, il Ratto di Europa, le Fatiche di Ercole.Ad esempio: la sua rappresentazione del Ratto di Europa (vedi fig. 69) corrisponde negli elementi essenziali alle ottave della Giostra di Poliziano. In pratica significa che questo disegno si lega all’Italia attraverso un tramite letterario, probabilmente anche attraverso una fonte figurativa; sono infatti presenti aspetti formali che legano l’opera di Dürer all’arte del Quattrocento: i putti che soffiano nelle trombe, le compagne dolenti che si strappano i capelli e sollevano le braccia con grida di orrore. Quindi, sia nel Ratto di Europa che nella Morte di Orfeo Dürer si era accostato all’antico

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attraverso la mediazione italiana (di Poliziano, che tradusse in volgare le descrizioni di Ovidio, e di un altro pittore italiano). Solo gli elementi paesistici e spaziali sono indipendenti da modelli italiani. Nel 1500 Dürer eseguì l’Ercole che uccide gli uccelli stinfalidi (vedi fig. 70). Per il Dürer giovane la classicità significava ora nudità eroica, passione animale, movimento potente. Egli fu guidato in quest’opera dall’Uccisione di Nesso del Pollaiolo (vedi fig. 71). Lo stile del modello italiano è però vincolato dalle convenzioni dei manierismi quattrocenteschi.Nel 1495 Dürer eseguì una copia parziale di un’altra opera del Pollaiolo (oggi andata perduta) e che rappresentava il Ratto delle Sabine (vedi fig. 72). Il disegno di Dürer mostra due uomini robusti che portano una donna sulle spalle.Dunque Dürer ha appreso dal Quattrocento stesso come andare oltre il Quattrocento.

IIFu il veneziano Jacopo de’ Barbari ad attirare l’attenzione di Dürer sul problema della bellezza, mostrandogli alcuni studi sulle proporzioni umane. Sulla scia del veneziano, Dürer si limitò inizialmente alle figure femminili, poi estese i suoi studi sulle proporzioni alla posa della “perfetta figura virile”. La posa di queste figure maschili si rifà all’Apollo del Belvedere, e per questo motivo sono citate comunemente come “il gruppo di Apollo”. Dapprima Dürer identificò la figura di Apollo come dio della salute (Apollo Medicus o Aesculapius), identificato dagli attributi del serpente e della coppa (vedi fig. 80). Poi lo trasformò nel dio Sole, con lo scettro e il disco solare (vedi fig. 81). Successivamente abbandonò queste idee ed utilizzò la figura classica per un tema biblico: il Peccato Originale (vedi fig. 85). Rimane da capire da dove venga l’Adamo dell’opera. I dubbi erano fra l’Apollo del Belvedere (vedi fig. 82) e il Mercurio di Augusta. Il problema non si sarebbe risolto confrontando l’opera di Dürer con queste due, ma confrontando queste due con l’Apollo Medicus. L’esame comparativo dimostra che le figure düreriane anteriori all’Adamo risultano più vicine all’Apollo del Belvedere: al braccio sinistro sollevato fa riscontro il destro abbassato, la rotazione della testa in direzione della gamba libera (che non poggia a terra), la posizione che indica un movimento, un avanzare, non una posa statica. Per alcuni aspetti l’Apollo Medicus e l’Apollo Sole di Dürer differiscono dall’Apollo del Belvedere: la frontalità del busto, lo scorciare i piedi, ecc… , ma sono differenze con una spiegazione. La frontalità del busto è frutto di uno schema costruttivo geometrico che Dürer segue, le altre differenze probabilmente sono state suggerite dal Baccanale col tino di Andrea Mantegna (vedi fig. 84).

IIIDürer, prima del Dio sole, aveva già rappresentato questa figura in una incisione del 1498 (vedi fig. 87), dove si esprime la credenza cristiana della redenzione e della ricompensa finale. Questa rappresentazione è ispirata da un rilievo gotico di Venezia. Il dio Sole, Helios o Sole toccò un prestigio altissimo nell’età ellenistica. Aureliano lo proclamò come suprema divinità dell’impero, ed è questa l’interpretazione che Dürer gli da nel suo disegno.

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Fu poi successivamente la Chiesa a sancire l’unione fra Cristo e il sole, trasformando il dio Sole in Sol Iustitiae. Il Sole della Giustizia rappresentava un dio nella sua piena facoltà di giudicare. Nell’epoca del Rinascimento, però, fu il sole pagano (Sol Invictus) a soppiantare quello biblico, finché non si ebbe una fusione delle due idee: e ciò accadde quando Dürer, dopo aver trasformato l’Apollo-Sole in Adamo, lo trasformò in un Cristo risorto (vedi fig. 86). L’incisione (fig. 87) è La Giustizia, qui concepito appunto come Sol Iustitiae, un vendicatore apocalittico, strettamente legato allo spirito del Quattrocento. La fonte letteraria da cui prende forma è il Repertorium morale di Petrus Berchorius. Le sue parole mostrano come l’immaginazione del tardo Medioevo abbia dato una terrificante vitalità all’immagine del Sol Iustitiae, che assume i poteri di divinità planetaria e di Giudice supremo. E’ insieme anche il sole nella posizione del Leone, cioè quando d’estate raggiunge il culmine della sua forza. Le fiamme del disegno sono le stesse descritte da Berchorius, e il Leone della posizione astrale è reso come un vero leone. Da un punto di vista storico-artistico, non c’è dubbio che quest’immagine derivi dall’iconografia del giudice, rappresentato nel suo lavoro di amministrare la giustizia stando seduto con le gambe incrociate.

IVIl Rinascimento tedesco non è stato in grado di assorbire direttamente l’arte classica.Lo spirito soggettivo e particolaristico dell’arte nordica del Quattrocento potè operare in due sfere: la sfera del realistico (ritratto interiore, scena in genere, natura morta, paesaggio) e la sfera del fantastico (visionario).Nel Nord il rinascimento dell’antichità fu all’inizio un fatto essenzialmente letterario e antiquario. Gli artisti prima di Dürer non vollero prendere in considerazione i monumenti classici da un punto di vista estetico. Erano di maggiore interesse l’epigrafia, l’iconografia, la mitologia e la storia culturale dell’antichità. Per accostarsi all’arte classica in quanto arte il Nord aveva dunque bisogno di un intermediario: appunto l’arte del Quattrocento italiano (infatti l’arte vista come una forma di contatto fra l’uomo e il mondo visibile era un pensiero condiviso fra il Rinascimento italiano e il Quattrocento del Nord). L’unione fra i due mondi fu sancita dallo svilupparsi del “metodo prospettico”, che stabilisce un minimo di realismo pittorico.L’atteggiamento degli artisti del primo Rinascimento è sì di imitare e resuscitare le opere classiche, ma anche di superare l’antichità classica.Per concludere: il Rinascimento nordico è opera di Albrecht Dürer; non bisogna però dimenticare che rimane pur sempre un artista tardogotico, per cui aveva una certa sensibilità al pittorico: fu il primo nordico a costruire dei nudi perfetti e proporzionati scientificamente, ma fu anche il primo a realizzare autentici paesaggi.

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Parte settima“Et in Arcadia ego”: Poussin e la tradizine elegiaca

INel 1769 sir Joshua Reynolds mostrava al dottor Johnson il suo ultimo dipinto: due dame, sedute davanti ad una tomba a contemplare l’epigrafe con commozione: “Et in Arcadia ego”. Johnson dette una traduzione errata dell’epigrafe (Io sono in Arcadia). Fu invece re Giorgio III a darne la giusta interpretazione, e la sola possibile: la morte esiste anche in Arcadia. Oggi noi saremmo portati a darne un significato diverso (I, too, was born in Arcadia), più letterale, ma il re colse il significato profondo dell’epigrafe. L’Arcadia, nella letteratura moderna, figura come un luogo primitivo di pienezza, felicità e innocenza: un luogo dove l’uomo civile veniva purificato dai suoi vizi. In realtà era quasi esattamente l’opposto da come veniva descritta dagli autori greci (l’unico pregio è che i suoi abitanti erano famosi per il loro talento musicale): si trattava di gente profondamente ignorante e dai modi rozzi. La trasformazione in un luogo quasi “magico” avviene con la letteratura latina, che fa affacciare l’Arcadia alla letteratura universale (addirittura Virgilio la idealizza, esagerando le virtù che aveva e aggiungendo attrattive che l’Arcadia non aveva mai avuto: vegetazione lussureggiante, eterna primavera, ecc…).

IICon il Rinascimento l’Arcadia di Virgilio emerge dal passato come una visione incantata, ma per lo spirito moderno questa Arcadia è un’utopia di felicità e bellezza remota nel tempo, non nello spazio: è un regno irrimediabilmente perduto e visto con malinconia (così come la vedeva Jacopo da Sannazzaro).

IIITra il 1621 e il 1623 il Guercino realizzò la prima versione pittorica della morte in Arcadia (vedi fig. 95) dove per la prima volta troviamo la famosa epigrafe. La nostra interpretazione (Io pure sono nato, ho vissuto, in Arcadia) ci porta a dare ad et il significato di “anche”, riferito a ego (io). Ma et avverbiale si riferisce al nome che immediatamente segue, per cui ad Arcadia. La corretta traduzione sarebbe “Anche in Arcadia io sono”, dove la frase è attribuita alla stessa Morte, per cui l’interpretazione di re Giorgio è ineccepibile.Nel quadro del Guercino due pastori si fermano sorpresi dalla vista di un grosso teschio umano, posato su un frammento di muro in rovina, intorno al quale si muovono un topo e una mosca (simboli del decadimento e del tempo che tutto divora). Sul muro sono incise le parole dell’epigrafe, e si suppongono pronunciate dal teschio. Il teschio era ed è il simbolo della Morte personificata (in inglese teschio = death’s-head). Sir Joshua Reynolds, quindi, conosceva e disegnò il quadro del Guercino. Anche il Cipriani dette una versione dell’opera (vedi fig. 98) in cui

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figurano i simboli della morte sormontati dalla scritta “Anche in Arcadia morte”, cioè la traduzione di re Giorgio. Ma per la composizione pittorica segue un altro filone: sostituisce il muro in rovina con una tomba classicheggiante e le figure presenti a guardare diventano sette. In quese innovazioni il Cipriani si è rifatto ad un pittore che segna una svolta nella storia di queste rappresentazioni: Nicolas Poussin.

IVPoussin aggiunge al quadro del Guercino la figura del dio fluviale Alfeo e una pastorella. Qualche anno più tardi Poussin realizzò una versione definitiva del tema, che si trova al Louvre (vedi fig. 97). In questa nuova rappresentazione è scomparso l’elemento di dramma e sorpresa. I personaggi, disposti simmetricamente ai lati del monumento sepolcrale, sembrano interrogarsi e discutere in contemplazione l’epigrafe. Il teschio è scomparso del tutto. I pastori d’Arcadia qui, per la prima volta, non ascoltano un monito per il futuro, ma meditano sul passato e sull’idea della condizione mortale dell’uomo. Mancando il teschio ora l’interpretazione corretta dell’epigrafe risulta difficile da accettare e l’ego si deve supporre riferito alla tomba stessa. Questo mutamento importante si accorda con lo spirito dell’epoca, meno teso ed angosciato, che usciva trionfalmente dalla Controriforma. Fuori dall’Inghilterra la nuova rappresentazione di Poussin venne accettata quasi universalmente.

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