I Vitelloni

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I vitelloni La dolce vita. Critica: "Come cinegiornale, il film è splendido: divertente e tragico, mosso e svariante. È nella sua estrema libertà di composizione, ricchissimo: senza principio né fine, così stratificato, è lungo tre ore e potrebbe durarne due o sei. Immagine del caos, sembra caotico ed è calcolatissimo; e il suo linguaggio è tenero e aggressivo, smagliante e profondo. Infallibile, viene la tentazione di dire: quasi che il dinamico e pittoresco barocchismo di Fellini avesse raggiunto - non sembri una contraddizione - un classico rigore." (Morando Morandini, "La Notte", 6 febbraio 1960) "Pur tenendosi costantemente a un alto livello espressivo, Fellini pare cambiar maniera secondo gli argomenti degli episodi, in una gamma di rappresentazione che va dalla caricatura espressionista fino al più asciutto neorealismo. In generale si nota un'inclinazione alla deformazione caricaturale dovunque il giudizio morale si fa più crudele e più sprezzante, non senza una punta, del resto, di compiacimento e di complicità, come nella scena assai estrosa dell'orgia finale o in quella della festa dei nobili, ammirevole quest'ultima per sagacia descrittiva e ritmo narrativo." (Alberto Moravia, L'Espresso", 14 febbraio 1960) "C'è una certa monotonia, sia pure assai colorita, di tipi, di scorci, di accenti. Se codesta monotonia fosse stata soltanto apparente, e allora calibrata in un suo ritmo rigoroso, dalla sordina sempre più ossessiva, tutto ciò avrebbe potuto avere un'altra sua non meno straordinaria efficacia. Così, invece, i tipi si stingono talvolta l'uno sull'altro, o si ricalcano. Dovrebbe giustificarli un loro minimo comun denominatore; ma questo è così esplicito che, lungo il cammino, per forza di cose si attenua, e si fa risaputo." (Mario Gromo, "La Stampa", 6 febbraio 1960) La dolce vita 2/7 Scheda film a cura di Igor Francescato "Il film - uno dei film più terribili, più alti. e a modo suo più tragici che ci sia accaduto di vedere su uno schermo - è la sagra di tutte le falsità, le mistificazioni, le corruzioni della nostra epoca, e il ritratto funebre di una società in apparenza ancora giovane e sana che, come nei dipinti medioevali, balla con la Morte e non la vede, è la "commedia umana" di una crisi che, come nei disegni di Goya o nei racconti di Kafka, sta mutando gli uomini in

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I vitelloni

La dolce vita.Critica: "Come cinegiornale, il film è splendido: divertente e tragico, mosso e svariante. È nella sua estrema libertà di composizione, ricchissimo: senza principio né fine, così stratificato, è lungo tre ore e potrebbe durarne due o sei. Immagine del caos, sembra caotico ed è calcolatissimo; e il suo linguaggio è tenero e aggressivo, smagliante e profondo. Infallibile, viene la tentazione di dire: quasi che il dinamico e pittoresco barocchismo di Fellini avesse raggiunto - non sembri una contraddizione - un classico rigore." (Morando Morandini, "La Notte", 6 febbraio 1960)

"Pur tenendosi costantemente a un alto livello espressivo, Fellini pare cambiar maniera secondo gli argomenti degli episodi, in una gamma di rappresentazione che va dalla caricatura espressionista fino al più asciutto neorealismo. In generale si nota un'inclinazione alla deformazione caricaturale dovunque il giudizio morale si fa più crudele e più sprezzante, non senza una punta, del resto, di compiacimento e di complicità, come nella scena assai estrosa dell'orgia finale o in quella della festa dei nobili, ammirevole quest'ultima per sagacia descrittiva e ritmo narrativo." (Alberto Moravia, L'Espresso", 14 febbraio 1960)

"C'è una certa monotonia, sia pure assai colorita, di tipi, di scorci, di accenti. Se codesta monotonia fosse stata soltanto apparente, e allora calibrata in un suo ritmo rigoroso, dalla sordina sempre più ossessiva, tutto ciò avrebbe potuto avere un'altra sua non meno straordinaria efficacia. Così, invece, i tipi si stingono talvolta l'uno sull'altro, o si ricalcano. Dovrebbe giustificarli un loro minimo comun denominatore; ma questo è così esplicito che, lungo il cammino, per forza di cose si attenua, e si fa risaputo." (Mario Gromo, "La Stampa", 6 febbraio 1960)

La dolce vita 2/7 Scheda film a cura di Igor Francescato

"Il film - uno dei film più terribili, più alti. e a modo suo più tragici che ci sia accaduto di vedere su uno schermo - è la sagra di tutte le falsità, le mistificazioni, le corruzioni della nostra epoca, e il ritratto funebre di una società in apparenza ancora giovane e sana che, come nei dipinti medioevali, balla con la Morte e non la vede, è la "commedia umana" di una crisi che, come nei disegni di Goya o nei racconti di Kafka, sta mutando gli uomini in "mostri" senza che gli uomini facciano in tempo ad accorgersene." (Gian Luigi Rondi, "Il Tempo", 5 febbraio 1960)

"E sbigottiamo anche noi. Due volte. La prima perché non è possibile affacciarsi senza un brivido su questa babilonia disperata che Fellini ha dipinto senza abbandonarsi a sciocchi anatemi, senza volerle infliggere altra punizione che quella di vedersi allo specchio in tutti i più minuti particolari. La seconda perché siamo di fronte a un cinema altissimo per originalità di linguaggio, aggressività di stacchi e cadenze, incisiva compiutezza di immagini; un cinema che, superando i confini riconosciuti, ci mostra risultati la cui vastità era nota finora solo alla grande letteratura e alla grande musica (a proposito: magnifico per incalzante funzionalità il commento musicale di Nino Rota). (Guglielmo Biraghi, "Il Messaggero", febbraio 1960)

"Visto a distanza, col senno del poi, 'La dolce vita' fa figura di spartiacque nel panorama del cinema italiano del dopoguerra. In un certo senso, anzi ne segna la fine, e l'inizio di una nuova epoca. La sua importanza e il suo significato possono essere riassunti in questi punti: 1) rappresentò, nella carriera del suo autore, l'approdo alla maturità espressiva; 2) contribuì a quel rinnovamento dei modi narrativi che fu il fenomeno più vistoso nel cinema degli anni sessanta; 3) ripropose, come già avevano fatto Rossellini prima e Antonioni poi, quel problema del neorealismo e del suo

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superamento che in quegli anni costituì la cattiva coscienza - e, in qualche caso, il tormento - della critica cinematografica italiana; 4) segnò una svolta fondamentale nella storia della libertà d'espressione in campo cinematografico." (Morando Morandini, in "Storia del cinema" a cura di Adelio Ferrero, Marsilio, 1970)

"C'è dunque una differenza profonda tra 'La dolce vita' e le altre opere di Fellini, ma è una differenza di quantità, non di qualità. Vi appaiono personaggi di tragedia, vi si agitano passioni dalle proporzioni inconsuete che Fellini non ci aveva mai raccontato, ma a cosa porta tutto questo accumularsi di materiali nuovi? Sembra che saggiando fino in fondo - su misure mai prima raggiunte - la inconsistenza (la «vanità») della realtà cosiddetta vera (l'idolo dei realisti, a cui tutto andrebbe sacrificato), Fellini voglia, una volta per tutte, sgombrare il campo dagli equivoci e darci la risposta che più gli sta a cuore, offrirci in forma definitiva, lacerante e incontrovertibile, la sua dichiarazione di fede. La realtà è questo vuoto, questo nulla, questa materialità vacua. Quindi la scintilla del sentimento, la vitalità dello spirito, il vero esistere non può che scoccare nel momento della sconfitta della realtà stessa. La vita dell'anima si accende come un palpito nel momento in cui si rimpiange - attraverso la documentazione agghiacciante della inconsistenza del reale - un bene perduto (Zampanò); ma si accerta ancor più angosciosamente quando si è giunti attraverso l'esperienza «radicale» della materialità, al fondo dell'abiezione. Allora la vera realtà - il trascendente (finale di La dolce vita) - appare come una folgorazione; irraggiungibile e incomunicabile, ma appare." (Carlo Lizzani , "Il cinema italiano 1895-1979", Editori Riuniti, 1980) L’Italia falsamente moralista e bacchettona squarcia il velo delle sue ipocrisie e si mostra per quello che è veramente (citazione dal libro di Tullio Kezich La Dolce Vita

AmarcordCritica

"La sorpresa di Amarcord consiste nel fatto che tra le righe non si riesce a leggere quasi nulla. Fellini fruga qua e là nel passato, ma sembra non voler trinciare giudizi. Probabilmente il film va letto in una chiave rovesciata rispetto a quella che viene spontaneo usare. Forse Fellini, mentre mostra di annegare nei ricordi, vuol farci capire che il passato in realtà non esiste se non nella nostra fantasia. Forse la frustata è diretta non tanto sul mondo di ieri, quanto sull'abitudine che abbiamo di dargli una credibilità che va oltre i limiti della nostra povera memoria. Ma se i ricordi sono amari e confusi, se perdono sapore e colore, se non hanno senso, se sono indecifrabili, il discorso diventa attuale. L'attenzione si sposta sulla coscienza dell'uomo contemporaneo, sull'oggi. Ma qui Fellini si ferma rigorosamente". (Sergio Trasatti, "L'Osservatore Romano", 20 dicembre 1973)

"Fellini gioca in economia. Adopera i residui di stoffe già esibite al pubblico, frammenti di un discorso che, in fondo, è già stato fatto. Qualche scampolo ha colori vivi e guizzanti (il nonno nella nebbia, per esempio, e la mucca che diventa, agli occhi del bambino che va scuola, un mostro mitologico); qualche altro è sbiadito a causa del tempo e della polvere; qualche altro ancora, infine, poteva essere mandato al macero". (Franco Bolzoni, "Avvenire", 19 dicembre 1973)

"E quindi, certo, è possibile all'artista quando è tale, e quando è Fellini, crearsi dei finti ricordi per cacciare quelli veri: e, per rafforzare la finzione, costruirsi un luogo immaginario, nella prediletta Cinecittà, e una lingua che è una specie di miscuglio fra l'emiliano e il romagnolo, anche con qualche pizzico di accenti limitrofi. E però il sospetto che quei ricordi siano veri, tutti o quasi, riemerge nel vedere come Federico li rievoca. Perché li rievoca con pudore, sempre attento a non gonfiarli troppo, a non strizzarli fino a farne uscire l'ultima, spettacolare goccia, limitando al massimo il surreale, un paio di

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sequenze e nemmeno le più riuscite, contrariamente al solito, e su tutto il resto ammorbidisce, sfuma, attenua. Non rinunciando al popolaresco, a qualche paesana grossolanità, ma senza mai spingere a fondo nemmeno in questa direzione". (Paolo Valmarana, "Il Popolo", 19 dicembre 1973)

"Molte delle inquadrature di Amarcord sembrano l'edizione per così dire critica del 'kitsch' fascista, della sua iconografia rurale, della sua propaganda industriale, colta nel momento piccolo-borghese, con la cultura delle nostre zone depresse. Forse solo Il conformista, prima di Amarcord, ci aveva restituito un fascismo visto così dall'interno, al di fuori delle solite, oziose decalcomanie. E' utile aggiungere che il film funziona anche sul piano del puro e semplice spettacolo e che tutto vi è al proprio posto: a cominciare dal numeroso stuolo degli attori, noti e sconosciuti, professionisti e occasionali (con particolare riguardo al folgorante intermezzo di Ciccio Ingrassia, nel ruolo dello zio pazzo). Rispettiamolo, dunque questo "Amarcord": questo film intenzionalmente modesto, ma molto più realizzato, concluso di tante altre opere felliniane, partite con maggiori ambizioni". (Callisto Cosulich, "Paese sera", 19 dicembre 1973)

"La visione di Fellini, s'è accennato, è amarognola, agrodolce. L'infanzia di Titta non è stata una festa: liti in famiglia, nonno svagato che tocca il sedere della fantesca (sembra una vignetta di un altro romagnolo, Leo Longanesi), zio tocco di mente che, portato in gita dai parenti, si arrampica su un albero gridando: «Voglio una donna!», fascisti tronfi, insegnanti mediocri e retorici, la Volpina che, forastica, si avventura furtiva lungo i muri del borgo in cerca di qualche cosa, e la tabaccaia dalle forme abbondanti che cerca invano soddisfazione dal troppo giovane Titta. Federico Fellini ha evocato con maestria un universo di fantasmi, tirati fuori dalle tasche del tempo senza allegria né ferocia, in un'operazione mentale alla fine elegiaca". (Pietro Bianchi, "Il Giorno", 19 dicembre 1973)

"In un calcolatissimo impasto di toni gravi e lievi, con svolte improvvise nel beffardo e nel fumetto, così Amarcord cresce e tempera le ombre, le smargina d'ogni scoria verista, e le muove nel grembo della leggenda. Intrecciati ai timbri d'argento, alle risate a piena gola, i rintocchi della malinconia minacciano d'avere il sopravvento. La trappola della memoria è scattata ancora una volta? In realtà siamo feriti, ma salvi. Forse il Pinocchio che è in noi esce dal buio, smette i calzoni alla zuava e brucia con i ricordi il suo mondo piccino. Tutta la sua vita, domani, sarà una lotta contro il Borgo, contro la tentazione di rifugiarsi nel tepore dei miraggi. Aiutato nella sceneggiatura dal conterraneo Tonino Guerra, col quale ha anche firmato un libro in cui, ma da lontano, si respirano i fatti del film, dallo scenografo Danilo Donati, dal fotografo Giuseppe Rotunno, dal musicista Nino Rota, da attori quasi tutti sconosciuti, il cantastorie Federico Fellini ha detto con Amarcord, sull'Italia degli anni fascisti, forse più e meglio di tanti storici di professione. Dobbiamo essere grati al suo talento. Dobbiamo sperare che i nostalgici, confrontandosi col passato, misurino l'abisso di puerilità, di appetiti repressi, di smanie e cafonerie in cui naufragarono, petti in fuori e pancia in dentro. E anche i giovani ne ridano, ne ridano, ne ridano, con un'unghia di pietà per i loro padri indifesi". (Giovanni Grazzini, "Corriere della sera", 19 dicembre 1973)

"Il regista non è andato al fondo della sua ricerca del tempo perduto, non ha fatto i conti con la propria adolescenza, con le sue ossessioni private e con i suoi condizionamenti pubblici, civili, sociali, politici, religiosi, come, in Roma, non li aveva fatti con la propria giovinezza. Perché i conti si fanno al presente. Nel suo primo progetto, che deve avere resistito, per un po', anche durante la lavorazione, e infine è stato abbandonato. Amarcord era la vicenda di un uomo il quale si lascia invadere dai ricordi (L'uomo invaso sarebbe stato il titolo), come da una droga che si vorrebbe benefica, ma che si rivela letale. La vicenda, insomma, criticamente prospettata, di un uomo in fuga dalla realtà, dall'oggi. Amarcord, quale ora lo vediamo, ha un respiro più ristretto, ambizioni meno

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alte. Fellini, se ci si consente la metafora sportiva, gioca sul proprio campo, con un avversario ben conosciuto, e quasi addomesticato: quell'universo provinciale di ieri ritratto certo con gusto, spesso con acutezza, trapunto di citazioni dalle opere precedenti dell'autore, con l'insidia della civetteria e del manierismo sempre in agguato; la sua magia evocativa, già sperimentata, non riesce, o riesce solo in parte, a suscitare un confronto tra passato e presente, un qualsiasi rapporto dialettico". (Aggeo Savioli, "L'Unità", 19 dicembre 1973)

"Amarcord: «Il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto definitivamente nel cinema della vicinanza assoluta. Nei tempi stretti delle nostre vite tutto resta lì, angosciosamente presente; le prime immagini dell'eros e le premonizioni della morte ci raggiungono in ogni sogno; la fine del mondo è cominciata con noi e non accenna a finire; il film di cui ci illudevamo d'essere solo spettatori è la storia della nostra vita". (Italo Calvino)

1974

Oscar per miglior film straniero

1974

Nastro d'argento per miglior regia

1973-1974

Nastro d'argento per miglior soggetto originale

1975

Nastro d'argento per miglior sceneggiatura originale

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1975

David di Donatello per miglior regia

1974

Nomination Oscar per miglior regia

1975

Nomination Oscar per migliori soggetto e sceneggiatura originali

1974

Premio Bodil (Copenaghen) per il miglior film europeo

Premio NYFCC (New York Film Critics Circle) per il miglior film e per la miglior regia

Premio della critica SFCC (Le Syndicat Français de la Critique de Cinéma) per il miglior film straniero

Premio Kinema Jumpo (Tokyo) per la regia del miglior film straniero

"Quel che ha giovato a Fellini, stavolta, è stato forse il defilarsi un poco rispetto all'argomento, il mettersi in una posizione di autobiografismo non più diretto come ne I vitelloni, ne La dolce vita, in Otto e mezzo, ma mediato. E' vero che Titta, l'allegro, scanzonato ginnasiale che fa da testimone

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degli eventi e da filo conduttore della vicenda, è una nuova proiezione dell'autore, come il giovane Morando incarnato a suo tempo da Interlenghi, come il giornalista e il regista impersonati da Mastroianni; ma è anche vero che egli adombra al tempo stesso una persona reale, un ex compagno di scuola di Fellini; e questa è una cosa che ha il suo peso. Dietro Titta, poi c'è la sua famiglia: è anzi questa famiglia la vera protagonista del film. Il padre, un sanguigno e manesco capomastro di fede anarchica; la madre, una donna di casa teneramente scorbutica; lo zio fascista e fannullone, noto col nomignolo di «Pataca»; il fratellino minore di Titta ed il nonno incorreggibile, che allunga di continuo le mani sulla servotta procace, concorrono a comporre un microcosmo tipicamente romagnolo, nel quale può bene specchiarsi e riconoscersi quell'altro microcosmo che è il Borgo". (Dario Zanelli, "Il Resto del Carlino", 19 dicembre 1973)

"Sicché, preoccupandosi di rendere realistici i personaggi, rischia di trasformarli in macchiette; mentre la narrazione scivola nell'aneddotica, le scene si frammentano, polverizzano in sketches, gags, invenzioni estemporanee da teatro, anzi da cinema dell'arte... E il simbolo (il motociclista, il Rex) quando piomba in questa cronaca rusticana fa l'effetto di un signore distratto che abbia sbagliato luogo e film. Simbolo e realtà; cioè non si incontrano; ma si sfiorano; si passano accanto senza riconoscersi e senza salutarsi. Sicché il Borgo non diventa il Paese, o il Bel Paese, ossia non assurge a simbolo, nel suo microcosmo, del macrocosmo italico, come evidentemente era nei voti". (Claudio Quarantotto, "Il Giornale d'Italia", 19/20 dicembre 1973)

"Amarcord, in romagnolo «A m'arcord», mi ricordo, la chiave di tutta la poetica felliniana, la cifra di un autore che, da quando fa cinema, nei suoi momenti più alti è sempre andato alla «ricerca del tempo perduto», trovando nei ricordi, nella memoria, la fonte più viva della sua ispirazione, unico Poeta nella cultura italiana, che abbia saputo trasporre dalle lettere al cinema il mirabile congegno di Proust". (Gian Luigi Rondi, "Il Tempo", 19 dicembre 1973)

"Al gran maestro Federico Fellini basta mettere in libera uscita la consueta, pur se strepitosa, galleria di balordi già incontrata in tutti i suoi film da trent'anni in qua per lasciare i critici a bocca aperta e incastonare in bacheca un altro Oscar. Fu vera gloria? Ai posteri, sempre che non si addormentino davanti alla tv, l'ardua sentenza". (Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 29 agosto 2000)

Note - OSCAR PER MIGLIOR FILM STRANIERO (1974); NASTRO D'ARGENTO PER MIGLIOR REGIA (1974); DAVID DI DONATELLO PER MIGLIOR REGIA E MIGLIOR FILM A FEDERICO FELLINI (1974); BBC BEST FILMS OF ALL TIME (1996).- NEL FILM E' INSERITA UNA BREVE SEQUENZA DI "BEAU GESTE" (1939) DI W.A. WELLMAN CON GARY COOPER.

Le mani sulla città"Napoli ‒ come ricorda lo sceneggiatore del film Raffaele La Capria ‒ è stata una delle città più devastate da una speculazione immobiliare oscena; era una città bellissima e sono riu-sciti a rovinare tutto, anche la salute e la vita dei suoi abitanti". E Rosi ribadisce: "L'aspetto negativo della speculazione immobiliare non consiste soltanto nella distruzione della città e nell'aspetto caotico che essa assume, ma anche nella distruzione di una cultura a vantaggio di un'altra in cui l'uomo non trova più posto".

Esponendo alla luce del sole gli ingranaggi dei giochi di potere, Rosi pone il problema dei rapporti tra morale e politica. Per chi detiene il potere la questione è presto risolta: fare politica significa addentrarsi in un campo in cui la morale tradizionale non ha più valore e dove contano soltanto l'opportunismo, la corruzione, la capacità di manovra. Per conquistare il potere e conservarlo, ogni metodo è ammesso. I discorsi demagogici e le prebende servono solamente a ottenere il consenso degli elettori in un sistema che è ormai soltanto un simulacro della democrazia. L'esercizio del potere, se praticato senza controllo, conduce a ogni genere di abuso e trasforma il cittadino in schiavo. Così si creano fortune colossali trasformando i terreni agricoli delle periferie

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in foreste di cemento, devastando il centro della città, sostituendo le case antiche con ignobili edifici che sconvolgono il tessuto urbano e costringono le classi più disagiate a trasferirsi.

Sostenuto dall'interpretazione espressionista di Rod Steiger e di Guido Alberti, dalla fotografia di Gianni Di Venanzo, che crea un clima opprimente attraverso l'uso di un bianco e nero fortemente contrastato, e dalla musica dalle sonorità metalliche di Piero Piccioni, Rosi trasforma il proprio film in una sorta di thriller politico. La sua messa in scena, lungi dall'essere una semplice ricostruzione documentaria, utilizza tutte le risorse dell'immaginario urbano. Napoli acquista così un'autonomia e una ricchezza figurativa capaci di trasformarla nell'emblema di tutte le metropoli occidentali colpite dal dramma della speculazione immobiliare. Il film vinse il Leone d'oro al Festival di Venezia nel 1963.

Interpreti e personaggi: Rod Steiger (Edoardo Nottola), Salvo Randone (Luigi De Angelis), Guido Alberti (Maglione), Angelo D'Alessandro (Balsamo), Carlo Fermariello (De Vita), Marcello Cannavale, Alberto Canocchia, Gaetano Grimaldi Filioli (amici di Nottola), Terenzio Cordova (commissario), Dante Di Pinto (presidente della commissione d'inchiesta), Dany Paris (amante di Maglione), Alberto Amato, Franco Rigamonti (consiglieri comunali), Pasquale Martino (responsabile dell'archivio), Mario Perelli (responsabile dell'ufficio tecnico), Renato Terra (giornalista), Vincenzo Metafora (sindaco di Napoli).

L’intenzione sarebbe di fare 3 film e non 4 perché con tre si resta meglio compatti, si conferisce un’impronta migliore e si ottiene quindi un migliore effetto.