I settant’anni del franchetti · l‟italiano, la storia, la geografia? E ha sen-so parlare di...

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IL LICEO GINNASIO STATALE “RAIMONDO FRANCHETTI” PRESENTA: I settant’anni del franchetti E‟ un compleanno di tutto rispetto, quello che celebra il nostro Liceo quest‟anno, e anche noi, a modo nostro, abbiamo volu- to celebrarlo dedicandogli questo primo numero del Camaleonte. Ad alcuni ex studenti abbiamo chiesto di raccontarci dei loro anni passati al Fran- chetti, ma anche quale importanza ha avu- to nella loro vita l‟aver frequentato un liceo classico. Ai nostri insegnanti, ex stu- denti del liceo, abbiamo chiesto che effet- to fa “essere dall‟altra parte”. Infine, le impressioni di una “quartina”: è poi così diverso essere studenti oggi, rispetto al passato? Il compleanno del Franchetti cade in un momento particolare per la scuola italia- na: da quest‟anno prende il via il riordino degli studi della secondaria superiore, no- vità che va ad aggiungersi ad un‟altra, in- trodotta già lo scorso anno, ma passata un po‟ sotto silenzio: la certificazione delle competenze. Luci e ombre, come sempre accade quando intervengono dei cambia- menti: è opportuno incrementare lo stu- dio delle materie scientifiche in un liceo classico, a scapito di insegnamenti come l‟italiano, la storia, la geografia? E ha sen- so parlare di competenze e di valutazione delle competenze in una scuola come un liceo classico? In questo numero abbiamo dato voce ad alcune opinioni possibili sull‟argomento, ma ci piacerebbe sentirne altre. Infine, c‟è la scuola che frequentiamo tutti i giorni, e c‟è la scuola che vorremmo, che immaginiamo più interessante, meno noiosa: ad esempio quella che ci propone un film che ha già vent‟anni, ma che vale ancora la pena di vedere, L’attimo fuggente. E c‟è chi, coraggiosamente, accetta la sfida dell‟ignoto e va a vedere come si vive dall‟altra parte del mondo, in Canada. Il numero si chiude con un commento che vuole provocare una riflessione. Ab- biamo deciso di accettare la sfida e di par- larne più diffusamente nel prossimo nu- mero. ANNO IX N°1 DICEMBRE 2010 In redazione: Anna Baldo (V D), Virginia Barelli (IV D), Giada Bozzelli (IV D), Tommaso Bortolato (V D), Laura Carraro (V C), Edoardo Cecchinato (I C), Pietro Della Sala (III C), Anna Fortunato (II C), Eleonora Marangon (V C), Sidorela Mecaj (V D), Lucia Nicoletti (IV D), Elena Pantaleoni (IV B), Ginevra Rocchesso (II C), Elena Vig- giani (V C), Serena Voltan (V C), Irene Zuin (V C). Impaginazione: Lorenzo Manzoni (IV C), Nicolò Alvise Ferron, Francesca Trevi- san (IV B). In questo numero: Gli ex studenti raccontano Dal banco alla cattedra. Il liceo da occhi nuovi e molto altro ancora...

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IL LICEO GINNASIO STATALE “RAIMONDO FRANCHETTI” PRESENTA:

I settant’anni del

franchetti

E‟ un compleanno di tutto rispetto, quello che celebra il nostro Liceo quest‟anno, e anche noi, a modo nostro, abbiamo volu-to celebrarlo dedicandogli questo primo numero del Camaleonte. Ad alcuni ex studenti abbiamo chiesto di raccontarci dei loro anni passati al Fran-chetti, ma anche quale importanza ha avu-to nella loro vita l‟aver frequentato un liceo classico. Ai nostri insegnanti, ex stu-denti del liceo, abbiamo chiesto che effet-to fa “essere dall‟altra parte”. Infine, le impressioni di una “quartina”: è poi così diverso essere studenti oggi, rispetto al passato? Il compleanno del Franchetti cade in un momento particolare per la scuola italia-na: da quest‟anno prende il via il riordino degli studi della secondaria superiore, no-vità che va ad aggiungersi ad un‟altra, in-trodotta già lo scorso anno, ma passata un po‟ sotto silenzio: la certificazione delle competenze. Luci e ombre, come sempre accade quando intervengono dei cambia-menti: è opportuno incrementare lo stu-dio delle materie scientifiche in un liceo classico, a scapito di insegnamenti come l‟italiano, la storia, la geografia? E ha sen-so parlare di competenze e di valutazione

delle competenze in una scuola come un liceo classico? In questo numero abbiamo dato voce ad alcune opinioni possibili sull‟argomento, ma ci piacerebbe sentirne altre. Infine, c‟è la scuola che frequentiamo tutti i giorni, e c‟è la scuola che vorremmo, che immaginiamo più interessante, meno noiosa: ad esempio quella che ci propone un film che ha già vent‟anni, ma che vale ancora la pena di vedere, L’attimo fuggente. E c‟è chi, coraggiosamente, accetta la sfida dell‟ignoto e va a vedere come si vive dall‟altra parte del mondo, in Canada. Il numero si chiude con un commento che vuole provocare una riflessione. Ab-biamo deciso di accettare la sfida e di par-larne più diffusamente nel prossimo nu-mero.

ANNO IX N°1 DICEMBRE 2010

In redazione: Anna Baldo (V D), Virginia Barelli (IV D), Giada Bozzelli (IV D),

Tommaso Bortolato (V D), Laura Carraro (V C), Edoardo Cecchinato (I C), Pietro Della

Sala (III C), Anna Fortunato (II C), Eleonora Marangon (V C), Sidorela Mecaj (V D),

Lucia Nicoletti (IV D), Elena Pantaleoni (IV B), Ginevra Rocchesso (II C), Elena Vig-

giani (V C), Serena Voltan (V C), Irene Zuin (V C).

Impaginazione: Lorenzo Manzoni (IV C), Nicolò Alvise Ferron, Francesca Trevi-

san (IV B).

In questo numero:

Gli ex studenti

raccontano

Dal banco alla

cattedra.

Il liceo da occhi nuovi

e molto altro

ancora...

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I SETTANT’ANNI DEL FRANCHETTI

L'8 dicembre 1940 veniva solennemente inaugurato il Li-ceo Ginnasio Statale “Raimondo Franchetti”, che racco-glieva tutti gli studenti provenienti da gran parte della pro-vincia di Venezia. Sono passati settant‟anni da quel gior-no: quanto sono cambiate le cose? Abbiamo raccolto le testimonianze di prima mano per scoprire com‟era il Fran-chetti “da giovane” attraverso diverse interviste a ex fran-chettiani, di cui la maggior parte si sono diplomati intorno al 1970. CHI FREQUENTAVA IL FRANCHETTI? Nei primi anni dalla sua apertura, al Franchetti giungeva-no ragazzi prevalentemente di ceto medio-alto; solo dagli anni '60 iniziarono ad iscriversi giovani di ogni classe socia-le, dai figli di operai ai figli di imprenditori, pur predomi-nando ancora la medio-alta borghesia. Agli inizi numericamente prevalevano i maschi, anche perché alcune ragazze, dopo aver completato il ginnasio, abbandonavano gli studi per sposarsi; poi però furono superati dalle femmine. Per quanto riguarda il rendimento, invece, nessuno degli intervistati si sbilancia nel dare un giudizio: uno giusta-mente dichiara che “il rendimento dipende dalla testa, non dal sesso”. Alcuni studenti abitavano nei pressi della scuola, altri inve-ce percorrevano molta strada ogni giorno, tutti però spinti da uno scopo comune: l‟Università. Un tempo infatti il Franchetti (e il liceo classico in generale) era l‟unica da Giurisprudenza a Filosofia, da Lettere a Medicina, sebbene il salto da un liceo classico ad una facoltà scientifica fosse molto duro: una delle nostre intervistate ricorda in parti-colare il primo esame di fisica, così difficile da essere defi-nito scherzosamente dagli studenti “il Fisicone”, che venne in seguito diviso in due parti. Alcuni studenti però, un po‟ come oggi, si ponevano anche degli obbiettivi più imme-diati come “finire...possibilmente bene!” PERCHE' SI SCEGLIEVA IL CLASSICO? Allora, come ora, i motivi che spingevano a una formazio-ne classica erano principalmente l‟amore per la cultura e il desiderio di apprendere: “Mi è stata consigliata essendo una scuola che fa pensare, in cui si ragiona tanto, aprendo la mente a tutti i problemi”. Tutti gli intervistati affermano che il liceo classico ha con-tribuito in modo determinante allo sviluppo delle loro abilità logiche e di ragionamento: l‟acquisizione di una

forma mentis è infatti uno dei fondamenti su cui si basa l‟insegnamento di questa scuola. Per molti invece il percorso classico era una tradizione di famiglia: genitori, fratelli e persino nonni, che avevano frequentato il classico, spingevano le nuove generazioni a percorrere la loro stessa strada. Altri, al contrario, prove-nienti da famiglie non agiate, venivano spinti proprio dai genitori verso un futuro diverso dal loro.

Senza contare che “frequentare il classico dava lustro e si veniva considerati come quelli che avevano fatto una scuola più impegnativa”, come ci ricorda la nostra intervistata più anziana. Alcuni erano attratti dalla fama del Franchetti, altri era-no limitati dalla scarsa possibilità di scelta: dopo la guer-ra, infatti, “o facevi l’istituto commerciale o il Franchetti, lo scientifico non c’era a Mestre”; il Bruno infatti venne inau-gurato solo nel 1968. UNA SCELTA DECISIVA Tutti i maturati classici da noi intervistati si dichiarano felici della loro scelta e sono ben consapevoli che sia stata decisiva per il loro futuro, anche se non necessariamente in termini positivi, specialmente messi a confronto con una facoltà universitaria di tipo scientifico, sicuramente più semplice da affrontare con una base di studi differen-te. Un'ex franchettiana, oggi avvocato, alla domanda “Rifarebbe questa scelta?” ammette “Decisamente sì. Col pensiero sì, ma di fatto non credo proprio!” COS' É CAMBIATO? (COM'ERA IL FRANCHETTI “FISICAMENTE”?) La nostra scuola nel tempo ha ovviamente subito diversi mutamenti. Innanzi tutto la nostra intervistata più anzia-na ricorda la vecchia sede in via Caneve, in cui ha tra-scorso i primi tre anni di liceo. Questa era una piccola casetta strutturata su due piani, con due o tre aule per piano, dalle cui finestre talvolta entravano le galline, pro-venienti da un pollaio vicino. Ci racconta poi che nella sede attuale era stato allestito un rifugio sotterraneo per i bombardamenti, nel quale ci si recava al suono dell'allarme; poi, cessato il pericolo, si tornava in classe e si riprendevano le lezioni. “Ricordo ancora che camminando per strada vedevo le villette cadute da cui estraevano i morti.” Inoltre la sede per un paio d'anni era stata spostata a Venezia per via dei troppi bombarda-menti. La guerra ha quindi influenzato molto anche l'aspetto scolastico della vita di molte persone. Una donna ci rac-conta: “un giorno per pochi minuti ho perso il tram Veneta. Allora mi sono quasi arrabbiata: il tram successivo infatti sareb-be passato più di un'ora dopo. Tornando, piuttosto irritata, vidi a Ponte di Brenta ciò che restava del tram che avrei dovuto prendere: era stato bombardato e stavano estraendo i morti”. Alcuni franchettiani rammentano invece quando ancora era d'obbligo per le ragazze indossare il grembiule, men-tre per i ragazzi lo era una giacca, che dovevano abbotto-nare durante le interrogazioni; un tempo addirittura affacciandosi alle finestre si potevano vedere galline e contadini che lavoravano i campi durante la primavera, mentre d'inverno bambini che correvano tra i prati inne-vati. Il Franchetti inizialmente era l‟unico fabbricato,

Gli ex studenti raccontano...

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I SETTANT’ANNI DEL FRANCHETTI

come seconda lingua durante tutti e 5 gli anni scolastici, mentre un tempo veniva abbandonato al termine del ginnasio. Molti infatti, dovendo scegliere una materia da sviluppare maggiormente, pensano subito a questa lin-gua. Per quanto riguarda le riforme, gli ex studenti sperano che aiutino la scuola italiana a seguire il modello europe-o: “Alcune volte basterebbe copiare...”. HA ANCORA SENSO STUDIARE GRECO? Tutti ritengono che lo studio del greco sia una delle ca-ratteristiche principali del liceo classico: “Il problema di togliere il greco è: se tolgo il greco ho sempre una scuola che ragiona?”; “gli studenti di oggi imparano cose che noi abbiamo conquistato lentamente e andando avanti così avremo ottimi personaggi, ma esperti solo in determinati settori” dice un altro intervistato, mentre il più critico di tutti: “La scuola sta peggiorando, si crea troppa confusione negli studenti, si vuole insegnare troppo e si finisce per non insegnare nulla. I docenti dovrebbero tirare fuori le unghie e ricordarsi che il ruolo che hanno è fondamentale. La cattedra è un palcoscenico e ci sono degli occhi puntati su di loro. Quegli occhi si ricorderanno sem-pre di loro... Nel bene … o nel male.” Per quanto riguarda i politici che vogliono cambiare la scuola, consiglia: “Qualche ministro dovrebbe leggersi o rileggersi “Il gioco delle Perle di Vetro” di Herman Hesse, E poi dovrebbe fare uno sforzo… per capirlo.” BURLE&DIVERTIMENTI Tra i banchi del liceo classico però non si studiava soltan-to: “Di burle ne facevamo: ricordo, ad esempio, che un giorno avevamo girato tutti i banchi all’incontrario ai danni di una supplente annuale di biologia: restò scioccata nel vedere che tutti ci eravamo alzati al suo ingresso rivolti però verso il muro. Non sapeva se arrabbiarsi, se prendere provvedimenti, se ridere; una faccia impagabile.” Un altro ricorda: “Il 1° aprile, da sempre c’era la tradizione dello scherzo: classi scambiate, studen-ti nascosti nei bagni, pesci d’aprile attaccati alla schiena dei docenti...e poi i gavettoni dell’ultimo giorno di scuola.”. Tra le attività più gettonate della scuola vi era il giornali-no, “Ginnasiali pazzi”, scritto da 5\6 ragazzi; ma la cosa che si faceva più volentieri era lo sport: “Era obbligatorio che in ogni scuola ci fosse un gruppo sportivo, io ero in quello di atletica leggera (da qui è nata la COIN!). Sono arrivato anche in nazionale e dovevo fare le Olimpiadi ma ho rinuncia-to per laurearmi. Mi piaceva molto, non lo facevo per soldi ma per divertirmi. E’ importante che ci sia lo sport.” I pochi che dopo il Franchetti andavano a lavorare, so-prattutto i più bravi in ginnastica, avevano la possibilità di diventare insegnanti di educazione fisica senza andare all'università.

Laura Carraro e Irene Zuin

c‟erano solo vecchie casette e all‟angolo fra via Tasso e via Cappuccina c‟erano fossi e prati, che si attraversavano per venire a scuola. Nelle giornate più fredde “il Franchetti veniva riscaldato con stufe a carbone”; un'ex alunna ricorda una giornata di sciopero studentesco per la mancanza della legna necessaria a scaldare la scuola, durante la quale “siamo andati a Venezia a fare un giro e... abbiamo preso molto più freddo di quanto non ne avremmo avuto stando in classe!” RAPPORTO DOCENTI-ALUNNI Anche il rapporto con i professori è mutato: un tempo era più formale e distaccato, non c'era possibilità di confron-to, “si aveva addirittura paura di parlare”; qualcuno ricorda professori seri e preparati, qualcun altro ci racconta di un professore talmente paranoico da venire sospeso. LA FIGURA DEL PRESIDE... Una figura da sempre fondamentale all'interno del Fran-chetti è quella del Preside; un‟ex franchettiana lo descrive come “un uomo duro e burbero, ma presente: la mattina si metteva davanti al portone d'ingresso per controllare chi arrivava in ritardo”. Alcuni parlano dei loro ex presidi come “il gran capo”, temuto da tutti gli insegnanti; altri dicono che era-no invece i professori, di fatto, a gestire la scuola; un altro ancora dice:“Oggi diremmo che aveva le “palle”. Ricordo con affetto la figura del Preside don Angelo Favero, un prete sui gene-ris, che aveva la capacità di trattare alunni e docenti sullo stesso piano. Il concetto era: gli errori possono essere commessi da en-trambi, ed entrambi devono essere ripresi”. In tempo di guerra la figura del Preside si ricorda così: “Il Preside era il professor Zerbetto, un buon uomo, anche se era un fascista convinto, forse troppo: faceva propaganda per la guerra a scuola, anche quando la guerra stava per finire e stava diventan-do sempre più chiaro che eravamo dalla parte sbagliata. Addirit-tura alcuni studenti si sono arruolati, e non sono più tornati.” …E I BIDELLI Anche i bidelli sono stati delle figure significative: soprat-tutto vogliamo ricordare Grazioso, citato da più intervista-ti, “che era un’’istituzione’ del Franchetti, era solidale con gli studenti, complice e gentile con tutti; Me lo ricordo sempre sorri-dente”. Con i bidelli si rideva, si scherzava e gli si chiedeva di far suonare la campanella qualche minuto prima; da alcuni di loro poi dipendevano le merendine: erano loro a portare agli studenti il pane con l'uvetta. Per quanto riguarda i bidelli della prima sede ci parlano di una donna che aveva molti figli ed era molto materna, e così veniva chiamata “la chioccia”. COSA CAMBIERESTE? Secondo alcuni ex franchettiani la scuola di oggi “trascura

la formazione dello spirito critico, privilegiando troppo le materie che non ne permettono la crescita; le nozioni sono importanti ma la capacità di analisi lo è molto di più, e sta venendo a mancare

il gusto di approfondire, talvolta frenato da quegli insegnanti che alla domanda „Perché?‟ rispondono ‘Perché è così’ ”. Si riconosce anche l'importanza dello studio dell'inglese

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I SETTANT’ANNI DEL FRANCHETTI

DAL BANCO ALLA CATTEDRA

Non finisci mai di imparare anche quando fai dell’insegnamento la tua professione, anche quando vivi di lettere, numeri e parole, di pagine e libri, e spesso sono gli stessi tuoi alunni ad offrirti una visione differen-te della vita, perché in fondo anche tu hai trascorso i tuoi anni migliori, seduto sui banchi di scuola a ripas-sare quella lezione difficile all’ultimo secondo o con il terrore di osservare negli occhi il professore. Non vi siete mai chiesti cosa si nasconde dietro le maschere impenetrabili dei vostri insegnanti? Quali e-sperienze hanno vissuto da giovani e qual era il loro rapporto con l’istituzione scolastica? Scopriamo com’erano e come sono i docenti che lavorano ed hanno frequentato il liceo Franchetti, che sono stati in-tervistati da noi e ci hanno svelato i loro più profondi segreti. State attenti, però, potreste finire per cam-biare idea su di loro: non sono poi così malvagi...

MARIA ANGELA GATTI ANNO DI MATURITÀ: 1978-1979 La professoressa ci racconta che al ginnasio per le diciotto ore di lettere vi era un‟insegnante unica che sembrava molto anziana, distaccata e rigorosa: per

questo il rapporto con lei era piuttosto formale: “Al triennio ricordo di aver

cambiato sei professori in due anni. Nella sezione G vi erano insegnanti giovanissimi che venivano cambiati ogni due o tre anni e sostituiti da supplenti annuali. Erano “di sinistra”, ci si dava del tu e si fumava insieme. Interessante è la sua riflessione

riguardo all‟educazione e la politica: “oggi ci poniamo molto il problema educati-

vo. Ci interessa che i ragazzi imparino a vivere, ad essere cittadini, a comportarsi bene. Anni fa le agenzie educative erano principalmente le famiglie e le parrocchie, ma anche i partiti avevano un peso. Gran parte degli studenti era iscritta alle associa-zioni dei partiti e l’educazione era data per scontata. Oggi esiste la scuola in opposi-zione alla televisione, altra agenzia educativa anche se non può essere propriamente definita così. Noi insegnanti sentiamo forte l’esigenza educativa degli alunni. Una volta i genitori non si preoccupavano di ciò perché i figli erano attivi socialmente: la scuola era politica. Oggi vi è un’ossessione dell’idea che non si debba fare politica a scuola, siamo ridotti alla condizione delle mummie”. È diventata insegnante per caso e necessità ed è capitata qui come succedeva alla maggior parte delle

persone si laureavano in lettere classiche. “Sono convinta che qualunque cosa la

sorte ci assegni, se si cerca di portarla a termine al meglio, finisce per piacerci –ci

confessa– non serve ribellarsi inutilmente alla realtà che si vive! Sono una persona

fortunata: insegno ciò che amo”. Termina dicendo: “il classico non è paragonabile

alle altre scuole: chi lo sceglie decide di andare contro corrente, compiendo una fatica inenarrabile, ma costruendosi un’esperienza che non ha eguali”.

DANIELA PERIS ANNO DI MATURITÀ: 1969-1970 Laureatasi a ventidue anni, la professoressa iniziò ad insegnare l‟anno successivo con una supplenza di tre mesi al liceo Franchetti, al quale fece ritorno all‟età di venticinque anni, dopo un periodo trascorso a San Donà. “Quando sono tornata in questa scuola –ci racconta– desideravo che la situazione che avevo vissuto frequentando l’istituto come alunna, fosse diversa. All’epoca ai docenti non interessavano gli alunni e viceversa; vi era inoltre un pessimo rapporto con i compagni: avendo frequentato il ginnasio in F ed esistendo al triennio soltanto le classi A, B e C, venni assegnata alla sezione D, appena creata, e, di conseguenza, mescolata e poco amalgamata. Non vi era attenzione a come fossero insegnanti e alunni realmente: è per questo che in classe voglio delle persone e non degli scolari”. Non desiderava tuttavia diventare una professoressa, ma aveva conseguito una laurea in archeologia: “dovevo scegliere tra una carriera ricca di punti di domanda ed un lavoro sicuro che mi avrebbe garantito una certa indipendenza economica. Sono tuttavia soddisfatta della mia scelta perché sono convinta che stare con i ragazzi sia un’opportunità senza pari”.

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I SETTANT’ANNI DEL FRANCHETTI

SILVIA TALLURI ANNO DI MATURITÀ: 1976-1977 “Esiste solo questa scuola e devo ammettere che si tratta di un limite: sono una sorta di memoria storica del Franchetti! –afferma l’insegnante, riden-

do– Durante il liceo mi sono divertita molto: erano gli anni della contestazio-

ne, al triennio un giorno si andava a scuola, gli altri si partecipava a manife-stazioni o occupazioni. Sicuramente sulla carta studiate maggiormente e la maturità è molto più difficile. Il mio esame è stato ridicolo e il sei politico era assegnato con più facilità tuttavia era un altro modo di vivere, eravamo certa-mente più autonomi”. Ricorda che i docenti erano molto giovani, aperti alle novità, disponibili, fin troppo sul piano della parità degli studen-ti. Avevano tutti meno di trent‟ anni ed assegnavano il sei con mag-

gior facilità: “Disponevamo certamente di molto più tempo per dedicarci a

ciò che ci piaceva”. Alla richiesta di un confronto con i propri alunni

risponde: “Ho notato che siete molto maleducati. Al ginnasio ci alzavamo

sempre in presenza degli insegnanti. Tuttavia la differenza si riscontra soprat-tutto nei genitori: ai miei tempi non avrebbero mai osato lamentarsi con il preside per un’insufficienza. Tendono a giustificare e a proteggere i figli che sono quindi più fragili, iperprotetti e non sopportano le sconfitte”. Ci confes-sa, infine, di essere soddisfatta del proprio lavoro e di essersi resa con-

to di non essere la sola: “Preferirei che l’insegnante fosse più pagato ma

secondo me è un bellissimo lavoro: i ragazzi sono motivati e motivanti”.

GIOVANNI BURIGANA ANNO DI MATURITÀ: 1970-1971 Si sarebbe aspettato un livello culturale più elevato, più dignitoso per un liceo classico, provenendo dal Morin, ma così non è stato:

“Vi è una tendenza a svolgere più attività che risultano così non riuscite ed approfondite come, ad esempio, l’aumento della matematica. Non sono d’accordo con l’ampliamento del POF perché non si svolgono al meglio altre materie quali letteratura, filosofia e storia”. Afferma che questo istituto

dovrebbe sentirsi superiore: “in passato ricordo una sorta di “snobismo”

nei confronti degli studenti degli altri licei. L’importante, a mio parere, è che ogni scuola decida il proprio indirizzo”. Per quanto riguarda la riforma, gli sembra non estremamente nociva per i licei: non condivide alcu-ni aspetti della politica ma a livello scolastico è abbastanza favorevole

ad essa. Conclude dicendo: “La scelta di diventare insegnante è stata

obbligata: non avrei potuto fare altro alla luce della mia passione per la letteratura. Ora non sono molto soddisfatto della mia professione”.

FLAVIA BOATO ANNO DI MATURITÀ: 1970-1971 “Appena arrivata, ho provato una sensazione di flashback continui –ci racconta la professoressa–, provo un forte

senso di appartenenza al percorso scolastico, una sorta di complicità collettiva. Qui ritrovo una grande famiglia con cui posso vivere il sociale al di fuori della quotidianità scolastica”. Ricorda che vi era un filo conduttore soltanto con il liceo Giordano Bruno con il quale esisteva un maggior terreno di scambio, essendo comuni le materie quali

filosofia e latino: “il Franchetti era una scuola esclusiva, caratteristica non molto positiva”. Originale è stata la sua

scelta di insegnare una materia linguistica, avendo studiato in questo liceo: “Avevo progetti diversi ma ho accet-

tato la mia professione e mi è piaciuta. È incredibile come io abbia potuto scegliere lingue, avendo fatto inglese solo al ginnasio, durante il quale ho studiato molto”.

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I SETTANT’ANNI DEL FRANCHETTI

LUCA ANTONELLI ANNO DI MATURITÀ : 1984-1985 “Un tempo l’edificio sembrava più piccolo –racconta il professore– anche se la scuola è effettivamente la stessa: non è cambiata eccetto

la disposizione di qualche aula e la palestra nuova”. A proposito del rapporto tra alunni e insegnati significativo è ciò che osser-

va il professore: “Una volta sotto la cattedra c’era la pedana che stava ad indicare una certa distanza che ora pare non esistere più

almeno non in modo così marcato; è l’immagine di autorevolezza dei professori ad essere cambiata se non in certi casi ad essere venuta meno”. “La scuola inoltre –continua– un tempo era sentita come un dovere di primaria importanza mentre oggi è uno dei tanti doveri;

quando frequentavo il Franchetti poi, questo era considerato un istituto di eccellenza anche rispetto agli altri non solo per la preparazione che forniva ma anche perché era un luogo di discussione riguardo moltissimi e vari argomenti, anche di politica, cosa che oggi avviene sempre meno. Al giorno d’oggi vi è, inoltre, una certa rivalità tra le scuole, tra gli stessi licei: una volta per esempio un mestrino non sareb-be mai andato al Foscarini o al Marco Polo”.

NADIA LINDAVER ANNO DI MATURITÀ: 1969-1970 Molto bella è l‟immagine che la professoressa Nadia Lindaver ci offre del Franchetti definendolo un “locus amo-enus” come se fosse un nido, afferma, dal quale ha preso il volo ed è ritornata ora che la sua carriera sta volgen-

do al termine. “E’ come tornare all’inizio –spiega la professoressa– il che provoca un forte impatto emotivo perché qui

ho trascorso la mia adolescenza, durante un periodo piuttosto turbolento per le scuole: l’anno in cui ho sostenuto l’esame di maturità era da poco entrato in vigore un nuovo ordinamento secondo cui spettava al singolo studente scegliere le materia da portare all’esame. Inizialmente si pensava non fosse necessario portare materie scientifiche (o forse non si voleva credere!), essendo il Franchetti un liceo classico, ma tra i docenti della commissione orale vi erano ovviamente insegnanti di tutte le materie: portare una materia scientifica significava per noi studenti compiere una “mossa azzardata”, ma qualcuno doveva pur farlo. Spettò quindi al coordinatore di classe cercare di assegnare all’interno della classe il carico di lavoro affinché vi fosse tra i ragazzi una distribuzione equa delle materie: si trattò quasi di un lavoro diplomatico che vide collaborazione e cooperazione tra docenti e ragazzi”. “Qui ho studiato –aggiunge infine– e torno a studiare con i miei alunni e personal-

mente tendo a rendere la scuola più alla portata degli adolescenti mentre una volta era necessario adeguarsi ai ritmi”.

“Sta’ attento a non voler diventare prima maestro e poi allievo, prima ufficiale e poi soldato. Sta’

attento a non imboccare una strada mai percorsa se non c'è chi ti insegni. Potrebbe essere una strada

sbagliata. Nessun'arte si può imparare senza maestro. Ti occorrerà molto tempo per imparare ciò

che devi insegnare”. (S. Girolamo)

Ginevra Rocchesso e Anna Fortunato

GIOVANNI MILLINO ANNO DI MATURITÀ: 1988-1989 “Trovare i professori che ho avuto come colleghi provoca una sensazione strana; le aule del resto mi rievocano moltissimi ricordi” affer-ma il professore. Pur essendo tra i più “freschi maturandi” egli nota inoltre come al ginnasio ci fosse molta più distanza

nel rapporto con gli insegnanti: “si registra un atteggiamento di sufficienza rispetto ad una volta: come linea di tendenza generale

riscontro un certo menefreghismo, ma ciò che è cambiato maggiormente è il mondo circostante; i ragazzi oggi sono molto più distratti,

fanno fatica a concentrarsi perché hanno troppi stimoli che sono paradossalmente una fatica in più per gli stessi studenti”. Deduciamo quindi una certa vicinanza del prof. al mondo giovanile che è infatti uno degli interessi che l‟ha spinto ad intraprendere

questo lavoro: “Ho provato il dottorato di ricerca –ci spiega– e mentre stavo per finirlo c’è stato l’ultimo grande concorso per inse-

gnanti e sono passato: ciò che voglio sottolineare è che la mia condizione attuale non è assolutamente un ripiego poiché sono contento di questa scelta che è senz’altro significativa dal momento che mi è sempre stata a cuore l’educazione dei giovani. Mi manca l’aspetto della

ricerca ma posso ritenermi molto soddisfatto, anche grazie agli studenti che incontro”.

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I SETTANT’ANNI DEL FRANCHETTI

Il liceo da occhi nuovi

to della classe o chi non è in grado di spiegare ciò che in realtà sa, o non sa catturare l‟attenzione dei ragazzi. Ma queste sono eccezioni presenti in tutte le scuole.

Riguardo al motivo per cui io e i miei compagni abbiamo scelto questa scuola, penso sia general-mente lo stesso che cinquant‟anni fa aveva spinto altri ragazzi, diversi forse per cultura e tradizioni da noi, a frequentare il Franchetti. Elemento essenzia-

le è la passione per le materie umani-stiche: molti per esempio si sono lasciati trascinare nella scelta della scuola dal proprio interesse per la storia o per l‟italiano, anche se io penso ci debba essere qualcosa di più dietro questa scelta. Per esempio la curiosità, la vo-glia di scoprire e di capire il perché di tante cose su

cui mai ci siamo interrogati. Non per conoscere materie nuove, su cui si baserà il progresso scienti-fico, ma per capire a fondo il modo di pensare delle civiltà antiche, che forse non insegneranno la costruzione dell‟ultimo modello iPhone, o del pc di ultima generazione, ma che invece daranno la possibilità di capire ciò che ci circonda, insegnan-do ad appassionarsi ai propri interessi andando a fondo di questi senza, come purtroppo fanno mol-te altre scuole, insegnare tanta pratica per poi sco-prire negli anni di aver sempre vissuto nella super-ficialità.

E‟ vero che il liceo classico si basa un po‟ troppo sulla teoria e che terminati gli studi sarà difficile trovare un lavoro, ma penso che questa scuola in-segni un modo diverso di concepire, capire, e vede-re le cose. E‟ un‟ impronta che dà, che resta per sempre.

Lucia Nicoletti

Ho iniziato la scuola circa tre mesi fa, e mi è stato chiesto di dire come è stato l‟approccio con le nuove materie, come sembra il liceo classico Franchetti a, passatemi il termine, “occhi nuovi”.

Forse conoscendo diverse persone che hanno fre-quentato e frequentano tutt‟ora questa scuola e do-cumentandomi capisco che non so granché di come funzionano le cose qua.

Suppongo ci siano un po‟ troppe lamentale da parte mia e dei miei coeta-nei sul lavoro da svolgere a casa e sul-la complessità delle lingue antiche, in particolare, strana-mente, del greco.

Penso però che que-sto sia solo l‟inizio e che, per sentito dire, sia anzi la parte più facile.

Quindi forse non credo di essere in grado di dare un giudizio obbiettivo riguardo le difficoltà e l‟impegno che bisogna mettere negli studi.

Riguardo invece l‟approccio coi compagni, l‟organizzazione della scuola e i professori, forse c‟è qualcosa in più da dire.

I compagni, come in tutte le classi di tutte le scuole, sono diversi tra loro. C‟è sempre qualcuno con cui stare, con cui chiacchierare durante le lezioni invece di ascoltare, con cui trovarsi al pomeriggio invece di studiare. Dall‟altro lato della medaglia, c‟è invece chi non si sopporta, quel qualcuno che fa di tutto per mettere il bastone fra le ruote a tutti. Ma è un giudi-zio soggettivo. Personalmente io sto imparando a conoscere i miei compagni e l‟impressione datami da loro è generalmente più che buona.

I professori... sono professori. Fino ad ora mi sem-bra che siano tutti molto colti e che abbiano le com-petenze necessarie per insegnare. Penso facciano il loro dovere quasi sempre senza favoritismi, ma è ovvio che ci sia sempre chi non si guadagna il rispet-

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I SETTANT’ANNI DEL FRANCHETTI

A scuola di competenze

Alla fine dello scorso anno scolastico, tutti gli studenti italia-ni di scuola superiore in uscita dal biennio hanno ricevuto per la prima volta, unitamente alla scheda di valutazione, anche una certificazione delle loro “competenze di base”, declinate in ben sedici voci e raggruppate in quattro diversi “assi culturali”: asse dei linguaggi, matematico, scientifico-tecnologico e storico-sociale. In calce al documento veniva inoltre precisato che tali competenze di base erano state acquisite secondo le “competenze di cittadinanza”: imparare ad imparare, progettare, comunicare, collaborare e parteci-pare, agire in modo autonomo e responsabile, risolvere pro-blemi, individuare collegamenti e relazioni, infine, interpre-tare e acquisire informazioni.

La medesima certificazione di competenze verrà consegnata anche quest‟anno ai nuovi studenti che avranno concluso il ciclo di istruzione obbligatoria: ma cosa significa tutto que-sto? Cosa sono le competenze? Come si pone tale questione in relazione agli altri paesi europei? Si tratta solo di una formalità oppure è in atto un cambiamento di prospettiva nel modo di intendere, progettare e valutare i percorsi scola-stici nei vari istituti?

In realtà, ciò che sta accadendo nella scuola italiana non è altro che un processo di graduale avvicinamento alle indica-zioni fornite già da tempo dal Parlamento Europeo e dal Consiglio dell‟UE, in materia di istruzione; infatti, con la “Raccomandazione sulle competenze chiave per l’istruzione permanente”, stilata nel dicembre 2006, l‟Europa ha scelto di attrezzarsi per affrontare i nuovi scenari della società con-temporanea, tra globalità, libera circolazione delle risorse umane e complessità. Nel fare ciò, non ha imposto agli stu-denti nuove materie di studio, ma ha semplicemente propo-sto di raggiungere alcune competenze giudicate basilari per il cittadino del futuro, attraverso le discipline già presenti nei vari indirizzi scolastici.

A differenza delle conoscenze (ciò che in effetti lo studente sa) e delle abilità (ciò che lo studente sa fare), le competenze indi-cano “ la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio, nonché nello sviluppo professionale e/o personale; le competenze vanno intese in termini di re-sponsabilità e autonomia”. Le singole competenze permette-rebbero allo studente di aprirsi ad una certa dimensione sociale, pubblica, visibile e condivisibile, sia che si tratti di specifici ambiti (competenze disciplinari), sia che si tratti invece di ambiti più generali, comuni e “trasversali”, (le cosiddette “competenze chiave”). Così, a scuola o in contesti extrascolastici, a seconda dei diversi percorsi formativi intra-presi, le varie attività svolte dovrebbero allenare e preparare i giovani alla vita adulta, attrezzandoli e rendendoli consape-voli della loro personale crescita culturale, in modo autono-mo e continuo.

Vi è poi un altro importante documento con cui il sistema scolastico italiano si sta rapportando, ed è il “Quadro euro-peo delle qualifiche per l‟apprendimento permanen-te” (EQF)”; esso risale al 2008 e rappresenta un punto di riferimento comune in Europa, al fine di collegare fra loro i

sistemi di qualificazione/istruzione/formazione dei diversi paesi comunitari. Permette di rendere leggibili e comprensi-bili, in modo univoco, gli obiettivi eventualmente raggiunti nelle varie istituzioni scolastiche, promuovendo così la mo-bilità dei cittadini e agevolandone la crescita professionale e culturale, durante l‟intero arco della loro vita.

Senza addentrarci troppo nei particolari tecnici di tale docu-mento (scandito in otto livelli, dall‟istruzione dell‟infanzia fino a quella universitaria) , va ribadito che il suo scopo è quello di creare un linguaggio condiviso e comune in grado di rendere maggiormente trasparenti e chiari i risultati di ogni singolo percorso formativo, i quali saranno di conse-guenza fruibili e “spendibili” in egual misura su tutto il territorio europeo.

Chiarito dunque quale sia il panorama di riferimento entro cui inserire la certificazione delle competenze al termine dell‟istruzione obbligatoria, vien da chiedersi: ma è solo questo? Cambia (o dovrebbe cambiare) qualcosa nella rela-zione di insegnamento/apprendimento?

La didattica delle competenze si fonda sul presupposto che gli studenti apprendono meglio quando costruiscono il loro sapere in modo attivo, attraverso situazioni di apprendimen-to basate sull‟esperienza o attraverso lo svolgimento di attivi-tà in cui si intrecciano diversi ambiti del sapere. Aiutando gli studenti a scoprire e perseguire interessi, si può elevare al massimo il loro grado di coinvolgimento e il loro rendimen-to, valorizzando i loro talenti. Non si tratta solo di costruire conoscenze; piuttosto le conoscenze sono il terreno di base, quasi il pretesto, su cui impostare ipotesi di lavoro, attivare strategie per risolvere problemi, giungere a comprensioni più profonde, trasferire e usare ciò che si sa e si sa fare, in contesti sempre nuovi e diversi.

Questa dunque la scuola che dovrebbe preparare al futuro, consapevole e attenta non solo ai prodotti ottenuti, ma an-che e soprattutto ai processi messi in atto.

Sorge allora spontanea un‟obiezione, del tutto lecita: che dire delle traduzioni dal latino e dal greco che costituiscono per noi terreno di lavoro quotidiano? Tutto da reimpostare? Tutto obsoleto e lontano dalle linee guida europee? Per niente.

Cos‟altro è, infatti, una “versione” di latino o greco, intesa nel suo processo e non solo nel suo prodotto (semplice tra-duzione finale), cos‟altro è, dicevamo, se non una palestra che vede messe in gioco molte delle competenze chiave so-pra citate? Gestire la complessità tenendo sotto controllo molteplici fattori; passare per continui nodi decisionali; risolvere quesiti e problemi; individuare collegamenti e rela-zioni; interpretare e acquisire informazioni: queste sono solo alcune delle competenze sottese all‟operazione di traduzione dai testi classici, un microcosmo che prepara ad affrontare realtà ben più complesse, nella società della conoscenza. Qualcuno potrà non essere d‟accordo su questo modo di intendere la didattica delle lingue classiche, ma a ben guar-dare, in relazione anche ad altre materie, la scuola delle competenze trova proprio nel Liceo classico una formidabile occasione di sviluppo, il tutto ad altissimo profilo.

prof.ssa Alessandra Artusi

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l'obbligo fu prolungato fino a quindici e, infine, a sedici anni con la riforma Moratti del 2003.

Anche per me studiare è importante nonostante costi sa-crifici e, alcune volte, vorrei pensare ad altro. Ma sono anche convinta dell‟importanza dello studio, soprattutto di alcune materie.

La storia, ad esempio, è indispensabile per comprendere gli errori del passato: ci mostra guerre e rivoluzioni che l'uomo ha compiuto nei secoli, serve a ricordare e ci inse-gna a non commettere più atrocità avvenute nelle varie epoche, che pur se ci sembrano lontane, toccano molto da vicino anche noi. Importante è anche la geografia che ci permette di conoscere il mondo e ci invita a rispettarlo. Inoltre ci consente di conoscere le tradizioni degli altri paesi e quindi aiuta a diminuire le guerre: esse, infatti, sono spesso causate dall'ignoranza che porta al razzismo e alla discriminazione.

Per me, inoltre, sono importanti anche lo studio e la co-noscenza delle lingue antiche, come il latino e il greco, che ci aiutano a capire il passato. Al giorno d'oggi, invece, si dà più importanza a materie pratiche e utili nel lavoro come inglese e l'informatica, mettendo in secondo piano materie come il greco e il latino, che infatti vengono chiamate “lingue morte” e che saranno destinate ad esserlo sempre di più se non verranno “coltivate”. La società moderna è sempre più proiettata verso il futuro e non si volta indietro ad osservare il passato, dimenticando le tradizioni e le ori-gini, anche linguistiche.

Quante volte ci capita di sentirsi dire : «Fai il Classico? E a che ti serve? », «Guarda che il greco non serve più a nessu-no...», « Non troverai mai lavoro!».

Io sono convinta che sia più importante conoscere il passa-to e, solo così, riusciremo a conoscere il futuro.

E' per questo che sono contraria alla nuova riforma che ha diminuito le ore di storia e geografia aumentando le mate-rie scientifiche e la lingua inglese. A parte il fatto che se uno fa il Liceo Classico è perchè non vuole applicarsi mol-to in matematica, hanno diminuito proprio le materie che, come ho scritto in precedenza, ritengo essere le più impor-tanti.

Sarà perché sono le materie che aprono di più la mente all'uomo e insegnano a vivere? Forse sì. Al giorno d'oggi al governo fa paura la gente che studia perché lo studio ren-de liberi, come hanno detto tanti uomini del passato. Un uomo libero è, infatti, pericoloso perché è capace di pensa-re con la sua testa e non si lascia condizionare e governare facilmente.

La riforma, è quindi, solo un pretesto per omologare gli uomini, riducendo materie che possono formare uomini poco comodi a chi è al governo, perché capaci di pensare e difficili da "manovrare".

Anna Baldo

Molte volte, sopratutto noi ragazzi, ci chiediamo perché dobbiamo studiare e andare a scuola. A noi infatti non sembra importante e siamo portati a valorizzare altre cose che ci piacciono di più. È giusto e naturale pensare così, ma dobbiamo ricordarci che esiste anche la scuola e che, nel corso dei secoli, tante persone hanno lottato per otte-nere il diritto all'istruzione. Per capire meglio bisogna ripercorrere la storia e vedere com'era fatta una volta la scuola, a chi era riservata e quali erano i metodi di inse-gnamento.

Nel Medioevo l'istruzione era, all'inizio, riservata solo ai nobili e al clero, poi ai mercanti e ai ricchi artigiani. Solo con Carlo Magno (VIII – IX secolo) vi furono le prime scuole pubbliche. Egli era un uomo analfabeta che, però, intuì l'importanza dell'istruzione, del saper leggere e scri-vere, anche per comprendere i testi sacri. A quel tempo, le persone più istruite erano i monaci che ricopiavano i libri; fu per questo che le prime scuole sorsero nelle abba-zie.

Un altro uomo che credeva nell'importanza della cultura fu il filosofo francese Rousseau che visse nel XVIII seco-lo. Egli scrisse: «Si migliorano le piante con la coltivazio-ne, gli uomini con l'educazione» . Riteneva, infatti, che l'uomo senza istruzione fosse come una pianta rinsecchita e destinata a perire, non essendo in grado di sviluppare al massimo le sue potenzialità.

Fu sempre in Francia che, durante l'Illuminismo, si co-minciò a ritenere importante la diffusione della cultura fra tutti i cittadini e si pensò che fosse lo Stato a doversi occupare di questo. Fu così che, nel 1794, in Francia fu istituito l'obbligo scolastico.

In Italia venne introdotto soloa un secolo più tardi, nel 1859, dalla legge Casati, e venne fissato agli otto anni. Poi, con la riforma Gentile del 1923 venne prolungato fino ai quattordici.

Durante il Fascismo furono istituite molte scuole, tra le quali la nostra, istituti per l'infanzia, colonie e campi estivi in grado di educare bambini e ragazzi. Lo scopo, però, era quello di formare dei futuri bravi soldati e servitori/lavoratori del Regime Fascista. L'insegnamento infatti non era libero: i testi venivano stampati a Roma ed erano unici per tutta l'Italia con la sola differenza tra manuali destinati ai centri urbani e quelli per le campa-gne. Nei centri urbani, infatti, vi erano borghesi che sa-rebbero divenuti funzionari dello Stato mentre nelle cam-pagne vi erano uomini destinati a diventare solo dei sol-dati o dei contadini.

Nonostante la creazione di nuove scuole però, l'analfabe-tismo rimase molto alto fino alla metà del 1900 perché le leggi non venivano rispettate e a sette/otto anni si andava a lavorare, soprattutto nelle campagne dove c'era bisogno di manodopera. Solo nel 1962 l'istruzione divenne obbligatoria fino ai quattordici anni; nel 1999, con la riforma Berlinguer,

Istruzione: no alla riforma!

Ci riguarda da vicino...

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Qualche idea in più...

Ennesima conferma d'un sempre talentuoso Peter Weir, L'attimo fuggente (USA, 1989) dipinge in modo brillante l'ambiente accademico dell'America di fine anni '50, tra Cadillac al Drive-in, chiome cotonate e Rock'n'roll dell'Elvis migliore. In particolare, ne è protagonista una classe del penultimo anno d'una scuola superiore privata per soli ragazzi, tra insicurezze interiori, brama d'esperienza e pres-sioni esterne di genitori che, adducendo a pretesto il bene del figlio, ne inibiscono la timida autenticità. Certamente, a gravare sul morale degli studenti contri-buiscono, in un momento di fermenti e ribel-lioni, anche l'atmosfera con-servatrice dell'ac-cademia e le esigenze di do-centi competen-ti, ma senz'altro assenti sul piano umano. Ma la presenza dissacrante del professor Keating (interpretato da un eccellente Robin Williams) riesce non solo a sdrammatizzare conformismo e austerità, bensì, persino,– fatto raro, in verità, tra cattedra e banchi di scuola – a instillare nei suoi studenti la gemma dell'interesse sincero per la sua materia, aldilà del sapere da manuale. Da questa gemma Keating si aspetta sbocci una profondità culturale da applicare alla vita, nutrita del-le inclinazioni innate in ogni suo studente: lui, in contra-sto col cinismo generale, dà importanza anche alle opinio-ni giovani di ragazzi di 16 anni. E viene presto confermato da chi, come Neal Perry, si sente allora ascoltato e valoriz-zato. Anzi, il professor Keating riesce a far di più, fa cioè capire ai suoi studenti che devono dar voce a pensieri e inclinazioni sincere, per godere con autenticità e pienezza le opportunità dell'esistenza. Traduce così l'insegnamento accademico in strumento, per i suoi ragazzi, di comprensione del loro destino e quin-di fa molto di più che insegnare: egli indirizza e forma, sempre secondo l'irripetibilità del singolo. Diventa mento-re e amico, e permette loro di scorgere il tragitto cui il fato li ha destinati, aldilà di conformismi o inibizioni. Ma la

Titolo: “L’attimo fuggente”

Regista: Peter Weir

Anno, Stato: 1989, USA

L’attimo fuggente

strada non è però sgombra. Keating è un insegnante ge-niale, esempio per ogni docente perché in grado d'abbat-tere, con l'arte e la spontaneità, le barriere di generazione e professionalità erette tra professore e studente, divenen-do guida impagabile. Ma, ciononostante, incombe sulla sua filosofia di vita il fardello d'una vecchia aggrappata, con insospettabile tenacia, a tradizione e conformismo, ovvero la società, che mai gli perdonerà d'aver varcato limiti inviolabili dell'educazione. J'accuse ella strilla e,

così, morte al tracotante che difende la liber-tà contro la tradizione. Infatti, quan-do Neal Perry, seguendo le indicazioni del suo insegnante contro la volon-tà del padre-tiranno, vuole tentare la car-riera d'attore in base alle sue inclinazioni,

viene prontamente ostacolato. Ma lui è determinato e porta segretamente in fondo l'impegno della recitazione, forse solo come motivo di ribellione al padre, assicuran-do Keating, invece, d'averne alla fine ricevuto il benesta-re. Quando il padre lo scopre è il capolinea d'ogni spe-ranza e una vita si spegne in un moto di rivalsa estrema e d'espressione interiore autentica e vana al contempo. Nonostante le sorti sfortunate toccate a Keating a causa d'una società intollerante, tra gli studenti degni del suo valore nulla della sua unicità va perduto; la scena finale è infatti tributo supremo al mentore che, per i posteri, è paradigma dell'insegnamento come missione di formazio-ne e dell'umanità come chiave d'accesso allo spirito dello studente. E al giorno d'oggi non sarebbe cosa da poco, se, talvolta, così fosse. Ancora una volta un inchino a Peter Weir che ha sapu-to, attraverso un alto esempio dell'arte, far emozionare e riflettere il suo pubblico, soprattutto tra i ragazzi.

Pietro Della Sala

Robin Williams in una scena del film

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esperienze

Guardare il mondo da un altro

Punto di vista

Quest‟estate, in un afoso giovedì d‟agosto, sono partita per il Canada e in realtà non sono più tornata. Dopo due lunghi anni di attesa era arrivato il tanto desiderato giorno in cui sarebbe iniziata per me quella fantastica e travolgente esperienza che molti altri ragazzi hanno vissu-to partecipando ad un programma di Intercultura. Della mia famiglia ospitante sapevo poco o niente, se non il fatto che avevano una figlia della mia età e un figlio più grande di tre anni. A dire la verità poco sapevo anche del Canada, un paese di cui si sente parlare soltanto nei film e in televisione, spesso erroneamente associato agli Stati Uniti. Dopo aver sorvolato l‟oceano in compagnia di altri dieci ragazzi italiani, sono giunta all‟aeroporto, dove ho incontrato la mia famiglia ospitante. Le prime due settimane, che tutti dicono essere le peggiori, per me non sono state così traumatiche. Ovviamente in questi primi tempi avevo qualche difficoltà con la lingua e poco capi-vo di quello che veniva detto; non è stato facile abituarmi a cenare alle cinque e mezza del pomeriggio, bevendo latte e mangiando salmone con bacche. Per non parlare poi di tutte quelle piccole abitudini a cui ognuno di noi è legato e che, senza rendercene conto, costituiscono le nostre certezze quotidiane, dei punti di riferimento che quando vengono a mancare ci sentiamo indispettiti e smarriti. Non è facile spiegare come ci si possa sentire quando ci si trova in un paese che non è il tuo, con per-sone che conosci da poco o che hai appena incontrato, che parlano una lingua quasi incomprensibile, che han-no delle abitudini che in una situazione diversa e in un altro contesto giudicheresti quanto meno folli o improba-bili. Per il primo mese è però tutto nuovo, bello, diverso, entusiasmante: conosci un sacco di persone nuove, vedi posti, città (io ho potuto visitare Toronto e Ottawa) e, strano a dirsi, ti piace un sacco andare a scuola e non vedi l‟ora che venga mattina per tornarci. Già, perché per chi non è abituato a dover indossare una divisa scolasti-ca, ad avere un locker (armadietto) in cui attaccare foto e poster e a correre per i lunghi corridoi per cambiare aula ad ogni lezione, può sembrare come vivere in un film o

in un programma di MTV. La scuola canadese è molto diversa da quella italiana. Le lezioni iniziano alle 8.30 e terminano alle 14.30. Ci sono solamente quattro ma-terie per quadrimestre che si ripetono quotidianamente. Ogni lezione dura un‟ora e un quarto e ci sono cinque minuti di pausa tra una mate-ria e l‟altra, per permettere agli studenti di raggiungere le varie aule. Sono infatti gli

alunni che si spostano di aula in aula, dove si trovano gli insegnanti. Il piano di studi preve-de che ci siano delle materie obbligatorie e altre scelte dagli stu-denti stessi secondo le proprie inclinazioni e preferenze. Alcune di queste materie possono apparire “inusuali” ai nostri occhi: per citarne alcune, cosmetica, falegnameria, cucina, educazione alla maternità e studio della natura e campeggio. Tutte le mattine da un altopar-lante risuona l‟inno canadese seguito da una preghiera e dagli annunci delle varie circolari. Il rapporto tra alunni e insegnanti è molto più informale e amichevole. Le valuta-zioni sono principalmente scritte e sotto forma di test a crocette: nessuno copia (non ci pensano proprio!!!). La scuole sono molto grandi e molto fornite: in tutte le aule ci sono almeno dieci computer! In realtà un poco alla volta, col passare delle settimane, quella comincia ad essere la tua “solita” vita, come quella che ognuno di noi ha qui a Mestre, che spesso viene giu-dicata noiosa e monotona. Ecco allora che cominci a ren-derti conto che lo stile di vita americano non è proprio come quello dei film, in cui ogni giorno è diverso e c‟è sempre una novità: le giornate spesso si assomigliano l‟una all‟altra e ci sono momenti di noia e allegria, mo-menti di tristezza e felicità, momenti in cui ti senti tutto il mondo contro e altri in cui non potresti desiderare di meglio, proprio come ti succedeva quando eri nella tua vecchia città. Ci sono dei giorni in cui vorresti tornare a casa tua, perché ti mancano i tuoi genitori e i tuoi amici, e ti chiedi per quale motivo tu ti sia lanciato in un‟avventura così totalizzante. Nel corso di questi tre mesi in Canada ho imparato molte cose e per quanto si siano alternati momenti belli e momenti brutti, conservo i ricor-di migliori di questa esperienza. Imparare ad arrangiarsi e a sapersela cavare da soli è stata di sicuro un‟importante lezione di vita, sono cose che non si possono imparare studiando sui libri. Cominci a guardare il mondo da un altro punto di vista e ti rendi conto che ciò che hai sem-pre considerato ovvio e logico non lo è e che bisogna sa-per cambiar prospettiva nella vita provando a metterti nei panni degli altri. In Canada ho lascito una famiglia con cui ho stretto un rapporto fantastico, ho incontrato la ”sorella” che non ho mai avuto e degli amici che mi ri-marranno sempre nel cuore, così come tutte le persone che ho conosciuto. Ora posso dire di avere una seconda casa: il Canada.

Elena Pezzato

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Nel prossimo numero...

“Non preoccupatevi, se siete qui, siete comunque meglio di tutti gli altri”...

Una frase che fa pensare. CHI è meglio di tutti gli altri? A me vengono in mente alcuni grandi personaggi della storia e della letteratura, alcuni premio Nobel per la pace e per la medicina, donne che hanno lottato per la propria libertà, uomini che hanno avuto il coraggio di cambiare il sistema; mi risuonano nella testa nomi come Ghandi, Martin Luther King, Madre Teresa di Calcutta e tanti altri; posso considerare migliori di noi quei medici che fanno della propria vita un mezzo di salvezza per gli altri; un padre che dà la vita per il proprio figlio; un uomo che sacrifica se stesso per ciò in cui crede.

“non preoccupatevi, se siete qui, siete comunque meglio di tutti gli altri” Una frase che a ognuno di noi richiama alla mente volti e nomi illustri. “non preoccupatevi, se siete qui siete comunque meglio di tutti gli altri”

Una frase importante. “non preoccupatevi, se siete qui, siete comunque meglio di tutti gli altri”

Il saluto che la Marcuzzi ha rivolto ai primi eliminati del Grande Fratello 11.

E allora mi chiedo: come siamo arrivati fino a questo punto? Come siamo arrivati a considerare il meglio della nostra società i concorrenti di un reality show, che hanno spesso dato prova e dimostrazione di una tanto profonda ignoranza e superficialità? Se l‟idiozia è oggi una dote, e l‟intelligenza cosa superflua, mi ritengo fortunata ad appartenere a questa piccola isola feli-ce in cui le persone aspirano a superare “il meglio”.

Eleonora Marangon

Periodico del Liceo Ginnasio Statale «Raimondo Franchetti» Docente responsabile: Maria Angela Gatti

Corso del Popolo, 82 - 30172 Mestre (VE) tel.: 041/5315531 www.liceofranchetti.it/index.php?pagina=camaleonte