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“Sulla nostra tavola”
I sapori, i prodotti, la storia,
le tradizioni, le ricette, le curiosità
Scuola Media di Piancavallo Verbania
Sulla nostra tavola
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“Sulla nostra tavola”
Questo lavoro continua il discorso che, nella nostra scuola, stiamo portando avanti da alcuni anni sulla conoscenza, l'interesse, la
valorizzazione e il rispetto per l'ambiente, con percorsi sempre nuovi e con il coinvolgimento di diverse discipline.
Perché riscoprire i sapori della cucina locale?
Perché attraverso la cucina, i prodotti utilizzati, i piatti tipici, è possibile conoscere l’anima di un territorio e della sua gente, rivivere le sue tradizioni e fare tante scoperte interessanti non solo per i nostri alunni che provengono da regioni molto lontane ma anche per coloro che qui vivono e qui sono nati. Perché per conoscere un territorio non basta conoscere l’ambiente, i luoghi, i monumenti, ma anche scoprire i suoi profumi, i suoi sapori, i suoi prodotti.
I sapori, i profumi, le sensazioni, sono sempre dentro di noi pronti a riaccendersi quando la nostra mente li rievoca.
Spesso una fragranza, un sapore, un aroma, ci riporta con la memoria a momenti speciali della nostra infanzia o del nostro passato facendoci
rivivere le stesse emozioni. Abbiamo cercato di capire come l’alimentazione è cambiata nel tempo e per quali cause. Abbiamo visto come lo stare a tavola è sempre stato un momento importante per i popoli, in tutte le epoche e in tutte le culture. Perché a tavola si sta volentieri con gli amici, con le persone care, con gli ospiti. A tavola ci si dimentica spesso dei problemi quotidiani, si notano meno le differenze, è più facile sentirsi tutti uguali. A tavola si festeggiano tutti i momenti più felici della vita di ognuno di noi, la nascita, i matrimoni, i compleanni, il successo negli studi o nel lavoro e perché no, spesso soprattutto in passato era usanza onorare a tavola anche i defunti. Molto interessante è stata la scoperta della cucina del passato, una cucina molto povera ma che sapeva utilizzare al meglio tutto quello che l’ambiente poteva dare, soprattutto un ambiente ostile come quello d’alta montagna. Abbiamo scoperto la fatica, la forza, l’intelligenza e la tenacia dei nostri avi con una raccolta di informazioni che ci può insegnare molto e che ci può far riflettere su tutto quello che abbiamo e su quanto invece abbiamo perso. Un lavoro che ci può servire per analizzare com’è oggi la nostra alimentazione e che ci può essere utile per correggere alcuni errori, ci può far scoprire prodotti che non conosciamo, ci può far apprezzare alcuni stili di vita semplici ma ancora molto validi.
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CUCINA REGIONALE
Da chilometro a chilometro anche la ricetta più tradizionale può variare, perché ogni famiglia,
se non ogni persona, la elabora a modo suo.
La ricerca delle ricette regionali è quindi una continua meravigliosa scoperta.
Cibi che corrispondono ad un clima, ad un costume, ad un particolare territorio e che spesso
sono irripetibili.
Vogliamo quest’anno prendere in considerazione alcune regioni, se non tutte, anche per una
questione di tempo, cercando i riferimenti con il territorio, la sua storia, le tradizioni nonché
alcuni prodotti o ricette particolari.
LA CUCINA PIEMONTESE
Una maliziosa ma affettuosa leggenda vuole che il Piemontese sia povero di parole per
nascondere ai nasi troppo schizzinosi la presenza massiccia dell’aglio nel suo piatto forse più
rappresentativo, la “bagna caőda”.
Probabilmente la geografia asciutta ed essenziale del Piemonte ha inciso sulla sua cucina.
Infatti tutto quello che qui cresce è aspro e nascosto: il tartufo sta sottoterra, il cardo è spinoso,
il camoscio è solitario, fiera è la selvaggina.
Tutto ricorda l’autunno, il fuoco acceso nel camino, la nebbia che sale e avvolge tutto, da
sconfiggere con buoni vini robusti.
E’ proprio l’autunno la vera festa della cucina piemontese, che ha come base i prodotti che si
raccolgono da settembre a ottobre: tartufi, pernici, cardi, fagiani…
È la terra degli agnolotti, dei tajarin, dei favolosi risotti, del bollito misto.
Con il tartufo si fa di tutto: insalate, risotti e la “fondue” prima di ogni altra cosa; con i cardi
si fa la base per la “bagna caőda”; con fagiani, pernici, lepri e quaglie si preparano i cenoni;
con le nocciole si fanno creme, cioccolatini e si imbottiscono le pesche per un favoloso
dessert.
Un dolce molto particolare è il bonet, un delizioso budino al cioccolato con amaretti
sbriciolati. Il Piemonte, infatti, è il regno del cioccolato. Nel 1559, il Duca Emanuele Filiberto
di Savoia importò i primi semi di cacao e la cioccolata in poco tempo divenne la bevanda “di
moda” soprattutto nei salotti dei nobili.
Nell’800 nacque il “bicerin”, una miscela di cioccolato, caffè e crema di latte, adorato da
Camillo Benso di Cavour. A Torino vennero aperte molte pasticcerie dove si produceva il
cioccolato, i gianduiotti, le praline...e la storia ci ricorda che gli Svizzeri sono venuti da noi
per imparare a fare il cioccolato.
Si tratta di una cucina sobria ma robusta, dall’aroma forte ma inconfondibile e vario.
Basti pensare ai suoi formaggi, tra i più noti ricordiamo: il Bra, il raschera, la toma, le robiole,
il Castelmagno, il gorgonzola, il Bettelmatt.
Quale piatto piemontese non ha qualche cosa di pungente e di forte?
Dalle cipolline di Ivrea ai formaggi, al vino di Gattinara, alla mocetta di camoscio della
Valsesia (una coscia di camoscio, chiamata anche “violino”, e trattata come un prosciutto
crudo), alle trote in carpione, alla “tettarina dell’alpeggio”, una mammella di mucca salata
per qualche giorno, bollita e servita fredda.
La cucina piemontese risente anche dell’influenza della vicina Francia; ne risulta una cucina
sobria, nobile e signorile.
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Le verdure sono quasi sempre servite crude e condite con l’aglio, accompagnate dal buon pane
di segale o dai famosi grissini, sottili ed asciutti.
Anche i funghi se freschi possono venire mangiati crudi, meglio se affettati molto sottili.
Chi non conosce poi il Barbera, il Barolo o il Barbaresco?
Quindi si tratta di una cucina sana e condita con parsimonia, spesso con il burro delle sue
montagne.
Tutto ha sapore in Piemonte; sapore di bosco, di vallate, di colline cariche d’uva.
Cucina della prima capitale d’Italia che ha i suoi pregiati spumanti come riconoscibile
blasone.
Il Moscato e lo Spumante d’Asti, due eccellenti vini da dessert, si producevano già nel 1200.
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CUCINA DEL V.C.O.
Il nostro territorio provinciale si discosta molto dalla cucina piemontese e risente
maggiormente di quella lombarda. Del resto anche geograficamente siamo molto vicini alla
Lombardia; il Lago Maggiore, ha una sponda piemontese, una lombarda e la punta svizzera.
Riconoscendo al nostro territorio la peculiarità di ambiente tipico, non possono essere
tralasciati alcuni gioielli della provincia del V.C.O. a cominciare dai formaggi come il
Bettelmat della Val Formazza, il violino di capra, il profumatissimo prosciutto crudo e il
capretto D.O.C. della Valle Vigezzo.
Dalle altre valli ci giungono ricotte e burro e il tipico “grasso d’alpe” un formaggio ricco e
corposo.
Montecrestese, località vicino a Domodossola, ci offre il lardo aromatico.
Non possiamo infine non citare le delizie semplici della natura come il miele, in particolare di
castagno e rododendro, le castagne e i funghi. Tutti tesori che dobbiamo far conoscere e
difendere.
Fiore all’occhiello della nostra zona sono il formaggio Bettelmat e il pane nero di segale.
Il pane nero, vanta una lunga storia ricca di tradizioni.
Un prodotto povero, molto semplice, ma ricco di un passato che ha legato intere generazioni.
E’ il simbolo della fatica degli alpigiani ed elemento di aggregazione delle genti di montagna.
Numerose sono le prelibatezze della Val Grande e delle valli circostanti:
dal prosciutto della Val Vigezzo, dall’ inconfondibile sapore affumicato;
ai formaggi, la cui produzione è documentata prima dell’ anno mille;
al pane nero, come quello di Coimo;
al capretto della Valle Vigezzo;
ai vini come il Prunent (di cui si parla in un documento del 1309);
e ancora polenta, miele, funghi, castagne, frutti di bosco.
Teresio Valsesia, ci racconta in un suo libro, la testimonianza di Agostino Primatesta di
Primosello : “Mangiavamo polenta quattro volte al giorno, due volte calda (desinare e cena )
e due volte fredda (colazione e merenda). Minestra solo la domenica sera, se c’era tempo
perché fare la minestra sembrava che si perdeva troppo tempo. Minestra di riso e patate, o
verdure dell’alpe, broquei e lavazze. I broquei che sono gli spinaci selvatici non sanno di
amaro, almeno finché non fanno il fiocco della semenza. Le lavazze invece erano
amarognole, non le mangiavano nemmeno le mucche”.
Le lavazze
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Un po’ di storia ossolana
L’Ossola inizia dove il Fiume Toce porta le sue acque alpine al Lago Maggiore, in un ampio
golfo sulla sponda piemontese del lago. Lì dove si erge la massa granitica del Montorfano e
una lingua di terra separa il piccolo ma grazioso Lago di Mergozzo dal più grande Verbano.
Da qui l’Ossola risale tra i monti fino al passo del Sempione, aprendosi a destra e a sinistra in
splendide valli laterali.
Questa zona, fin dalla più lontana preistoria, ha visto il passaggio di numerose popolazioni
rappresentando geograficamente il centro dei traffici tra il Mediterraneo e il Nord dell’Europa.
Vide una ricca successione di culture e civiltà: Liguri, Umbri, Etruschi, Celti, Galli, Romani,
Goti, Unni, Borgognomi, Germani, Longobardi, Franchi. Seguirono i vescovi di Novara, i
Visconti e gli Sforza, spagnoli e austriaci ed infine i Savoia con la parentesi napoleonica.
In tutte queste vicende si inserirono altri movimenti di gran lunga più significativi per il nostro
territorio come l’insediamento, nel corso del Medioevo, delle popolazioni Walser di lingua e
cultura tedesca e le costanti emigrazioni delle genti ossolane.
Lo storico romano Tito Livio definì le Alpi come “infami” e non aveva tutti i torti, sebbene di
rara e singolare bellezza questi monti sono sempre avari, tranne nei pascoli estivi. Se
l’allevamento fu agevole molto difficile è sempre stata l’agricoltura.
Se la cultura e la civiltà del nostro territorio può apparire simile ad altre realtà montane in
effetti presenta una ben definita personalità.
Pertanto questa stringata premessa era indispensabile per poter affrontare il discorso della
tavola ossolana.
Sia in passato che al presente, le terre che compongono il nostro territorio soprattutto la parte
montana, sia per la conformazione orografica sia per il clima non sono mai state
autosufficienti dal punto di vista alimentare, nonostante la popolazione non sia numerosa.
L’importazione ha sempre avuto un ruolo fondamentale, sale, caffè, zucchero, spezie ed altro.
Gli scambi commerciali avvenivano soprattutto tra Italia e Svizzera. Importanti erano anche i
redditi degli emigranti.
In generale è stata una zona relativamente benestante anche se ha dovuto mantenere delle
condizioni di vita di una certa austerità e questo ben traspare dalla sua cucina, povera ma
ingegnosa, saporita e relativamente ricca, ma soprattutto molto naturale.
Il Toce e la sua foce
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I Walser
Sono un popolo di lingua tedesca, originario dell’Alto Vallese (Svizzera) da cui traggono il
nome. Dalla fine del Medioevo abitano le più alte valli delle Alpi dove hanno fondato
insediamenti sparsi. Nel nostro territorio hanno preso due direzioni: le vallate che si dipartono
dal versante italiano del Monte Rosa e l’alta Val d’Ossola (Pomattertal).
Discendenti da tribù nomadi alemanne, sperimentarono, per primi, la capacità dell’uomo di
vivere tutto l’anno in alta quota.
Facendo tesoro dell’esperienza dei loro padri, diedero vita emigrando alla colonizzazione
sistematica di alpeggi posti alla testata delle valli alpine.
I walser sono gli abitanti delle Alpi, i colonizzatori delle montagne, gli inventori di un
modello di vita ad alte quote che hanno dovuto affrontare grandi problemi di adattamento e di
sopravvivenza.
Hanno dovuto combattere e vincere i rigori dell’inverno, i pericoli delle valanghe, hanno
dovuto abbattere i boschi, dissodare i terreni, rendere adatti all’ambiente i loro strumenti, i
loro attrezzi, le sementi, gli animali.
Sono rimasti nel tempo gelosamente attaccati alla loro antica lingua alemanna e alle loro
tradizioni.
Anche l’alimentazione, basata sulla sopravvivenza e sul consumo dei poveri prodotti della
montagna, ha conservato il suo antico carattere diventando una testimonianza suggestiva della
loro cultura.
Agaro e Salecchio
veri nidi
d’aquila
Principali colonie walser italiane:
Alagna, Rima, Rimella in Valsesia;
Campello Monti in Vallestrona;
Ornavasso e Migiandone nella
bassa Val d’Ossola;
Macugnaga in Valle Anzasca;
Formazza, Agaro, Salecchio e Ausone in
alta Val d’Ossola.
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Vivere in alto
La sopravvivenza e l’alimentazione sulle Alpi, erano fondate sull’equilibrio tra l’allevamento
del bestiame e il consumo dei pochi prodotti della terra.
Numerosi studi, hanno dimostrato che i Walser si sono insediati solo in luoghi che
presentavano condizioni ambientali adatte all’agricoltura di montagna.
Sono stati portatori di un modello di insediamento basato sulla fattoria isolata ed
autosufficiente, detta Hof.
Il podere seguiva la struttura “verticale”, la casa e gli edifici rurali al centro, le culture
distribuite a diverse altitudini e la fascia superiore utilizzata come pascolo.
L’equilibrio economico si basava su una breve stagione buona, nella quale cercavano di
ricavare il massimo possibile da ogni metro di terra, e un lungo inverno di sopravvivenza non
molto diversa da una situazione di letargo.
Questo equilibrio si basava sull’allevamento del bestiame e la lavorazione del latte e su di una
misera agricoltura a causa dell’elevata altitudine.
Esempi di nuclei abitativi
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Il principale capitale era rappresentato dai capi di bestiame che la fattoria era in grado di
mantenere. Il numero di capi a sua volta, dipendeva dalla quantità di foraggio prodotto dalla
fienagione.
Canalizzazioni lunghe anche alcuni chilometri, portavano ai pascoli l’acqua dei ghiacciai,
permettendo lo sfruttamento di terre altrimenti sterili.
Finché vi furono Alpi da colonizzare, nelle famiglie coloniche era tradizione che il
primogenito, o uno dei figli, rimanesse a vivere nel podere paterno, mentre gli altri
emigravano per fondare un’altra colonia.
Verso il XV-XVI secolo, questo tipo di economia andò in crisi per la difficoltà a trovare nuovi
luoghi da colonizzare e furono costretti ad integrare i redditi della terra con altre attività,
come la someggiatura attraverso i valichi alpini, esercitata durante la stagione invernale
quando la terra era in riposo.
Il sale era il prodotto più importante e prezioso di importazione della cucina d’alta quota. Il
sale era indispensabile per una cucina dove tutto doveva essere conservato e solo pochi,
pochissimi prodotti venivano consumati freschi. Si doveva salare il formaggio, il pane, la
carne. La maggior parte del sale consumato un tempo sulle nostre montagne proveniva dalle
miniere del Tirolo.
L’economia dei Walser cambiò drasticamente a causa del grande cambiamento climatico
iniziato nel Seicento e proseguito fino a tutto l’Ottocento. I ghiacciai si spinsero fino a valle
interrompendo le comunicazioni attraverso i valichi alti, impedendo la someggiatura,
determinando la perdita di pascoli e colture, rappresentando spesso un pericolo per le
abitazioni.
Someggiatori
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Pane nero
Il pane nero è il pane tradizionale alpino fatto con farina di segale integrale.
In dialetto lo chiamano “pan biava”.
A volte veniva anche confezionato con farine diverse: segale, frumento, miglio, orzo,
granoturco, riso, castagne.
Il pane di solo frumento era riservato ai ricchi. Il pane bianco compariva sulle mense dei
montanari solo come dolce squisito e in occasione di feste e anniversari.
In periodi di carestia, a poca farina di segale si aggiungeva molta crusca e farine scarsamente
nutrienti come quelle di saggina, di ghiande, di bacche silvestri, di vinacce, di cortecce di noci
e di rovere.
Perché la segale?
Tra i diversi cereali, la segale, in montagna è di gran lunga dominante, grazie alla sua
predisposizione ai terreni magri e la resistenza al freddo.
C’è la segale invernale o “grande segale” e la segale primaverile o “piccola segale”,
quest’ultima è la più coltivata alle altitudini estreme.
La segale e l’orzo erano gli unici cereali che riuscivano a germinare nelle brevi estati di
montagna.
La segale, tuttavia, richiede condizioni ambientali particolari, piogge non superiori ai 140
millimetri all’anno ripartite in 120-130 giorni e una quota non oltre i 1600 metri, e questo ha
imposto scelte strategiche di collocazione dei campi e l’adozione di tecniche particolari per
prolungare il tempo di insolazione.
Spesso, la ripresa della vegetazione in primavera veniva anticipata spargendo cenere o terra
sulla neve che ricopriva il campo, per poter raccogliere la segale in agosto, matura ma ancora
molto umida. Si doveva farla seccare negli appositi fienili fino a novembre.
Piccoli campi di segale a
Salecchio sotto la neve
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Nelle zone più alte e quindi più fredde, la segale veniva seminata nel mese di luglio e raccolta
nel mese di settembre dell’anno successivo.
Dopo il raccolto, la segale completava la maturazione negli Stadel, costruzioni di legno, ben
arieggiate e asciutte che appoggiavano su particolari ‘funghi’ di pietra, che rendevano
impossibile l’entrata dei roditori.
Macinata e poi setacciata, la segale da una farina biancastra, morbida al tocco, con un
caratteristico profumo di violetta. Se la farina viene conservata almeno per un anno, la qualità
del pane sarà migliore. Per ottenere la lievitazione occorre usare la pasta conservata dalla
panificazione precedente, un quinto del nuovo impasto.
Successivamente si aggiunge il sale, non per dare sapore ma per aumentare la malleabilità.
Dopo l’impasto, le forme vengono poste in recipienti foderati di tela per facilitare la
lievitazione. Prima della cottura l’impasto viene lasciato all’aria in estate o in un locale caldo
in inverno.
La riserva minima di pane per persona era di 80-100 chili all’anno.
Poiché i campi, in genere, si trovavano su ripidi pendii, era necessario zappare dall’alto in
basso per evitare che la terra franasse a valle e spesso, al termine del lavoro, occorreva
trasportare la terra dal fondo alla cima del campo.
Poiché il pane veniva cotto solo una o due volte all’anno, ogni famiglia arrivava a produrne
anche due o tre quintali.
Ovviamente la quantità di pane dipendeva dalla quantità di segale prodotta.
Quando aveva inizio la nuova cottura di pane, ormai le scorte di pane vecchio erano esaurite e
chi faceva la prima cottura riforniva di pane le famiglie che facevano le ultime infornate.
Questi a loro volta, lo avrebbero restituito una volta cotto il loro pane.
Era di obbligo dare il pane nuovo, che si chiamava ‘pane caldo’, ai poveri che non avevano
segale.
Si narra che chi era stato duro di cuore, compariva, dopo morto, in sogno a qualche famigliare
ricordando di dare il pane caldo ai poveri per non fare la sua stessa fine di punizione e
Stadel a Salecchio con il caratteristico fungo
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sofferenza. Il pane nero si conserva molto bene e si sposa felicemente con il formaggio d’alpe,
con il burro, il lardo, il miele di castagno e di rododendro. Un’antica ricetta walser lo
utilizzava spezzettato nella zuppa. Col passare del tempo lo si è accostato a miele, pere, fichi,
noci, uva sultanina e frutta in generale. Il pane, ben conservato, non ammuffiva, ma diventava
durissimo, tanto da poterlo spezzare con uno speciale coltello (brotolade) incernierato ad un
tagliere di legno. La “giornata del pane” al momento della panificazione era carica non solo
di gioia, ma anche di valori rituali e augurali.
Nacque una vera e propria liturgia del pane:
.il silenzio nel momento del primo impasto;
.il canto durante la lavorazione della pasta lievitata e la formazione dei pani;
.l’uso dei residui per forme di pani arabescati da dare ai bambini con forme diverse
(rotondeggianti per le femminucce “milciuru” e allungate per i maschietti “tzibal”).
Non mancava il pranzo rituale presieduto dal capofamiglia.
Le giornate si concludeva con la sistemazione dei pani nelle apposite rastrelliere dove si
manteneva fino ad un anno.
Ricetta
Il pane di segale si ottiene utilizzando i seguenti ingredienti:
3 etti e mezzo di farina di segale
1 etto e mezzo di farina di frumento
1 cucchiaio di olio extra vergine d’oliva
25 grammi di lievito di birra.
Si pongono su di una spianatoia i due tipi di farina e si miscelano, si aggiunge sale e acqua
tiepida nella quale è stato sciolto il lievito.
Si impasta, si fa riposare e si pone la massa in uno stampo da forno o si formano delle
pagnotte.
Si mettono in forno per circa quaranta minuti, a metà cottura si pennella la superficie con olio
sbattuto in acqua calda, per rendere la crosta più morbida e croccante.
Pane nero di segale
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Proprietà e virtù della segale
Questo cereale tradizionalmente considerato povero in realtà non lo è affatto. Conosciuto
almeno dall’età del Bronzo, ha iniziato la sua storia come pianta selvatica nei campi coltivati
ad orzo e quanto più le popolazioni si spostavano verso nord diminuivano i campi di orzo
sostituiti dalla segale che ben si adattava alle diverse condizioni climatiche.
Intorno al IV secolo a.C. questo cereale era molto diffuso nei paesi nord europei e il suo
utilizzo si diffuse soprattutto per la preparazione del pane.
Celti e Germani si nutrivano con frittelle di segale, mentre pare che i Romani non
apprezzassero il sapore un po’ forte di questa farina.
Nella preparazione del pane, una vera rivoluzione avvenne tra il 1750 e il 1850 quando il
frumento si sostituì a quasi tutti i cereali. La segale continuò ad essere usata nella
panificazione solo in alcune zone di montagna, nella Francia occidentale, in Austria, nel Sud
Tirolo, in Russia e nei paesi di cultura tedesca. In Russia si produce ancora oggi una birra a
base di segale.
La segale è un alimento con notevoli proprietà nutrizionali poiché contiene carboidrati,
proteine, sali minerali (ferro, calcio, fosforo, iodio, potassio), vitamine (gruppo B ed E), è
ricca di fibra e di lisina, un amminoacido essenziale che manca negli altri cereali.
Sono riconosciute le sue proprietà antisclerotica, depurativa, energetica, ricostituente.
La ricchezza di fibre la rende adatta a chi svolge vita sedentaria perché stimola la corretta
attività intestinale. É utile nelle diete mirate ad una riduzione del peso corporeo, è meno
calorica rispetto agli altri cereali.
La segale stimola la circolazione del sangue fluidificandolo, contrasta i processi di
invecchiamento dei vasi sanguigni, contrasta l’ipertensione, ha un’azione di protezione anche
sul fegato.
La presenza di fosforo e la ricchezza di proteine la rendono adatta a studenti, convalescenti e
debilitati o comunque a tutti coloro che si trovano in periodi di fatica e di stress.
Il consumo di segale deve essere controllato solo in presenza di problemi renali oppure se il
proprio fisico ha la tendenza a trattenere i liquidi.
Con la farina di segale si prepara anche un cataplasma caldo ( si stempera la farina in acqua,
si fa bollire, si distribuisce fra due teli e si mette sulla zona interessata) che attenua gli ascessi,
le infiammazioni e le contusioni.
IL FORNO
In ogni nucleo abitato si può vedere una piccola costruzione in sasso, chiusa in fondo da un
muro annerito con un’apertura davanti e alcune mensole in sasso nei muri laterali: è il forno
comune .
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Un piccolo edificio usato una o due volte l’anno.
L’alimentazione dei montanari una volta era basata soprattutto sui prodotti del latte e su poca
carne che veniva conservata per salatura o essicatura.
Mais e patate sono giunte in Europa dopo i viaggi di Colombo ma sono entrate nella
nostra alimentazione solo dopo alcuni secoli.
Con la poca farina ricavata dai piccoli campi di segale si confezionava un pane che poteva
essere conservato molto a lungo.
La vita nei villaggi aveva molti punti in comune: la fontana, il mulino, il forno erano i più
importanti.
I pani più comuni
Pane di frumento
Era il tradizionale pane della cucina ricca, comparve sulle nostre tavole solo nel XX secolo, in
relazione allo sviluppo della civiltà industriale e all’aumento del reddito delle famiglie.
Antico forno a Salecchio Inferiore
e a Macugnaga
Antiche macine per la segale
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Pane di segale
È il pane più tipico e tradizionale delle nostre valli. È molto rinomato e apprezzato soprattutto
quello di Coimo. Ce ne sono di tipi diversi con farine più o meno fini, con forme e sapori
differenti, con l’aggiunta in alcuni casi di un po’ di farina di frumento e a seconda della
percentuale di crusca che contengono. Il più tipico era ed è di farina integrale di segale.
Pane di miglio
Il pane di solo miglio, o “pan mejin”, ha un caratteristico colore giallo ed un sapore piuttosto
dolce.
Pane di grano saraceno
Era il pane tipico della Val Vigezzo, l’unica delle nostre valli dove appunto si coltivava il
grano saraceno. È di colore piuttosto scuro e si mantiene umido all’interno.
Pane di mistura
Era un tempo il pane più comune e più povero. Veniva preparato con farine di segale, orzo,
miglio, mais quarantino, panico, avena, grano saraceno e dove era disponibile anche di
frumento. In condizioni particolarmente difficili si univano anche le farine di castagne e di
patate, lessate e schiacciate e poi aggiunte all’impasto.
Pan scaià
L’impasto veniva fatto con due terzi di farina di frumento integrale e un terzo di farina di
semola sempre di frumento. È un impasto di difficilissima panificazione, per questo motivo la
produzione è praticamente abbandonata. Si facevano pagnotte molto grosse e molto alte,
facendo lievitare molto l’impasto.
Preparazioni a base di pane
Pancotto
Preparazione diffusa in tutte le valli anche con nomi diversi. Si faceva bollire il pane, a pezzi,
nell’acqua con sale e burro fino ad ottenere una pappa morbida. Oggi si fa bollire il pane nel
brodo.
Pane e latte
È il piatto base di tutta l’alimentazione montanara. Il pane, raffermo, spezzettato, si metteva a
mollo in una tazza di latte caldo con l’aggiunta di burro.
Pane e aglio
Era il modo più economico e popolare di gustare uno spuntino, una merenda e a volte anche
un pasto. Il grande De Sassure ne da una gustosa citazione: “Il nostro oste, che non era certo
un poveraccio, andava tutte le sere ad aprire una porticina chiusa a chiave e ne traeva degli
spicchi d’aglio. La distribuzione alla moglie e ai figli avveniva in un clima di grande
solennità e silenzio. Ognuno ne riceveva uno spicchio. Era tutto il loro companatico.”
Pez
Piatto tipico della Valle Anzasca. Si tagliano delle fettine di pane nero, misto di orzo e di
segale. Si sbattono alcune uova con il latte e si mettono ad ammorbidire le fette di pane.
Quando il pane è diventato morbido si friggono le fette in padella con il burro. Si usano anche
come dolce dopo averle spolverizzate con lo zucchero.
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Dich Milleck
Preparazione della Val Formazza. Si versa del latte in una ciotola, si unisce un po’ di caglio
liquido e si aggiunge della panna per legare il siero. Si mangia aggiungendo il pane o le
caldarroste affumicate.
Süpa d’la Ghigia
Antica ricetta della valle Anzasca. Era la zuppa di pane ricostituente che si dava alle donne
dopo il parto perché era considerata molto leggera ma nutriente. Si tostano alcune fette di pane
nero in padella con il burro, si spolverano di zucchero e si bagnano con il vino rosso. Si
mettono in una scodella, si ricoprono con caffé o brodo.
Il buon pane nero di segale
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Le minestre
Per secoli, furono semplicemente un insieme di verdure dell’orto o dei campi, arricchite con
un po’ di orzo, miglio, panico e più tardi con il riso. La minestra era il piatto caldo, base della
cucina povera, oggi purtroppo caduto un po’ in declino ma di grande valore dietetico. Nelle
diverse vallate troviamo minestre con le patate, le rape, le verze, la zucca, i fagioli, i porri, le
ortiche, gli spinaci selvatici, la cicoria selvatica e tante altre erbe ancora. Un vecchio
proverbio dice che “In primavera, le prime erbe che mettono fuori la testa son tutte buone per
far minestra”.
Farine e Polente
Sono preparazioni ancora più antiche del pane. Un tempo consistevano nella semplice
schiacciatura di semi, che avveniva tra due pietre e quindi nella loro cottura in acqua. Vennero
poi i mulini e tecniche di cucina sempre più sofisticate. Le prime polente furono di grano,
orzo, miglio e panico a cui si aggiunse più tardi il grano saraceno. Il mais, si ritiene sia stato
introdotto dal Bergamasco nel XVIII secolo, e sostituì nella polenta gli altri cereali.
La resa e la facilità di coltura fece sì che alle polente bianche e nere si unì e poi divenne
dominante la polenta gialla.
Diversi sono i piatti a base di polenta, alcuni molto semplici come polenta e latte, polenta e
panna o polenta e formaggio ed altri piatti più ricchi ed elaborati.
Viene servita con le carni, i funghi, la selvaggina, i legumi, i salamini, e ben si addice a
rallegrare piccole e grandi comitive.
La pasta
L’utilizzo delle farine di cereali per la produzione della pasta è molto antico, specialmente per
quanto riguarda la pasta fresca.
La pasta secca, sia corta che lunga, è entrata nella nostra cucina solo nel XIX secolo, dopo lo
sviluppo dell’industria della pasta.
Diverso è il caso degli gnocchi, inizialmente fatti con un semplice impasto di farina e acqua a
cui si aggiunse nel tempo la patata.
Famosi sono gli gnocchi all’ossolana. Secondo la ricetta più rinomata consistono in un
impasto di farina bianca e farina di castagne, passata di patate lesse e di zucca, pangrattato,
rossi d’uovo, noce moscata, pepe e sale. Si servono conditi con burro nocciola, in salvia o
meno e formaggio mezzapasta gratuggiato grossolanamente.
Il riso
L’introduzione del riso nella cucina ossolana ebbe inizio dopo la sua coltivazione nel vicino
territorio del Novarese.
In un primo tempo era utilizzato in aggiunta alle minestre e poiché prodotto di importazione fu
sempre considerato molto prezioso .
Basti ricordare che nella cultura Walser, a ritorno da un funerale, veniva distribuita una
razione di riso divisa per ogni famiglia in ricordo del defunto.
Solo nel XX secolo il risotto divenne un piatto comune e popolare.
Sulla nostra tavola
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Il risotto viene cucinato in mille modi; con lo zafferano, coi funghi, con le verze, con i fagioli,
con il ragù, con i salamini o la salciccia, con la zucca.
Ortaggi e erbe selvatiche
Anticamente i vegetali selvatici erano insieme alla caccia le uniche fonti energetiche.
Dove si ammassa il letame, nei recinti intorno alle stalle degli alpeggi, la ricca presenza di
nitrati nel terreno determina lo sviluppo di una flora caratteristica il cui rappresentante più
vistoso è il romice delle Alpi, le cui grandi foglie sono meglio conosciute con il nome di
“lavazze”, di nessun valore per i bovini ma che possono essere utilizzate come nutrimento per
i maiali. In alcune valli venivano utilizzate per avvolgere il burro o avvolgere nella cottura in
alcuni piatti tipici.
Un’erba da sempre ricercata e raccolta dai montanari è il “Buon Enrico” o “spinacio
selvatico” che si riconosce per una tipica farinosità sulla pagina inferiore della foglia.
L’agricoltura permise in seguito di rendere stabili alcune produzioni vegetali ma la raccolta
del selvatico non è mai andata perduta.
Tuttora, molte sono le persone che in primavera vanno alla ricerca delle tenere insalatine
selvatiche oppure alla ricerca degli asparagi lungo gli argini dei fiumi, per non parlare del
folto numero di appassionati della ricerca dei funghi.
I piccoli orti per cavoli, patate, insalate, a volte rappresentavano dei veri miracoli se
consideriamo le proibitive condizioni ambientali a causa delle altitudini.
Fino al XVII secolo, un posto in primo piano spettò alle rape, tanto che gli Statuti di Malesco
( località della Valle Vigezzo), ordinavano ai contadini di tenere un campo di rape sotto pena
di venti soldi imperiali. Tra il XVIII e XIX secolo, il suo posto fu preso dalla patata. A rape e
patate si accompagnavano poi i fagioli, l’aglio, la cipolla, i porri, le cicorie, le zucche, le
zucchine e, quando iniziarono a diffondersi nel nostro paese anche i pomodori.
Si aggiungevano le piante aromatiche che riuscivano a vivere in questi climi: salvia,
rosmarino, basilico e alloro.
Rosmarino e alloro
Sulla nostra tavola
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Le insalate, in genere, venivano condite con il lardo cotto o con l’olio di noci, non essendo
ancora diffuso l’olio di oliva. L’olio era estraneo alla cultura alimentare d’alta quota.
Olio di noci
In passato, la noce è stata la principale fonte di olio vegetale, come ne danno un’ampia
conferma le numerose macine e i mulini ancora presenti sul nostro territorio. Se ne
producevano due qualità: la prima e migliore era utilizzata per l’alimentazione, la seconda si
usava per l’illuminazione. Con quest’olio si condivano in particolare le insalate in quanto per i
cibi cotti si preferiva il burro o lo strutto.
Le verdure cotte comprendevano gli asparagi selvatici, le acetose, la borragine, gli spinaci
selvatici, l’erba di becco, l’erba amara o erba di San Pietro, il luppolo, la malva, l’ortica.
Notevole nella nostra cucina è l’impiego dei funghi di cui sono stati sempre ricchi i nostri
boschi.
Porcini molto diffusi
nei nostri boschi
Borragine e malva
Sulla nostra tavola
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La frutta
Dove il clima lo permette troviamo una certa varietà di prodotti: mele, pere, ciliegie, pesche,
albicocche, fichi, susine, prugne, nespole, noci, nocciole e castagne.
Noci e castagne rappresentano anche l’alimentazione invernale del bestiame. Le noci e le
faggiole (le faggiole sono i frutti del faggio), forniscono l’olio sia per condimento che per
illuminazione.
Olio di faggiole
È un tipo di olio molto noto per la sua caratteristica proprietà di non irrancidire. La sua è una
storia molto antica. Secondo i Greci, è stato il primo cibo vegetale dell’uomo. In Ossola,
nonostante la numerosa presenza di faggi, l’olio di faggiole ha avuto una produzione ed un
utilizzo molto marginale. Veniva impiegato soprattutto nell’illuminazione insieme all’olio di
lino.
Le castagne, hanno rappresentato un tempo una grandissima risorsa per il territorio. La loro
raccolta avveniva in modo molto particolare. Si facevano cadere i ricci e si ammucchiavano
tra un albero e l’altro ben coperti. Dentro al mucchio o “riscera” lentamente aveva luogo un
processo di fermentazione che favoriva le fasi successive della lavorazione e dava alle
castagne una maturazione perfetta e una particolare morbidezza. I ricci venivano aperti con un
apposito zappetto di legno.
Le castagne si potevano conservare anche in altri modi; o si raccoglievano in filze che poi
venivano appese oppure venivano disposte sopra una grata messa nel camino per essiccarle e
affumicarle. Per sottolineare il loro valore, in Valle Vigezzo, era usanza distribuire le
“ballotte” agli sposi.
Il maestoso faggio
Albero di castagno in fiore
Sulla nostra tavola
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La vite
La vite è stata in passato molto importante per il nostro territorio. Per alcuni secoli c’è stata
una esportazione vinicola fiorente, soprattutto verso la Svizzera.
Le vendemmie e i commerci erano regolati dagli Statuti Comunali.
La coltura della vite è stata trascurata solo nella seconda metà del XX secolo. In parte ne è
stata la causa l’invasione della fillossera, e successivamente le grandi trasformazioni
socioeconomiche di quel periodo. Infine il grosso cambiamento avvenuto dopo l’apertura di
più efficienti vie di comunicazione.
Il vitigno dominante era il Nebbiolo, noto in zona con il termine novarese di Spanna, vitigno
da cui nascono tutti i grandi vini alpini. In Ossola si ottiene ancora il Prunent e da altre uve il
Bruschett. Oltre al Nebbiolo, si potevano incontrare altri vitigni sia ad uve rosse che bianche,
in genere di varietà precoci.
Le località di migliore e maggiore produzione erano e sono: Trontano, Masera e
Montecrestese. Il vino si trovava ovunque: in Valle Antrona, in Val Vigezzo, in Val
Bognanco, in Valle Anzasca e addirittura nelle Valli Antigorio e Formazza.
Un’indagine dava 759 ettari di coltura della vite contro i 150 ettari attuali. La distruzione dei
vitigni da parte della fillossera portò alla ricostruzione su piede americano.
Rimase salvo solo il Nebbiolo.
I vigneti di
Montecrestese
e dell’Ossola
Sulla nostra tavola
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Le carni
Pastorizia e allevamento hanno avuto sempre un ruolo determinante nell’economia montana.
La pratica dell’allevamento bovino, tipica della tradizione alpina, è basata sull’estivazione:
con ritmi che si ripetono da secoli e che seguono la maturazione dei pascoli. Le mandrie
risalgono a tappe dal fondovalle ai pascoli intermedi e successivamente agli alpeggi d’alta
quota, per poi ridiscendere sul finire dell’estate.
Oggi, purtroppo, si assiste alla diminuzione sia dei caprini che dei bovini, cioè di quei capi che
richiedono cure come la mungitura.
Si assiste invece all’aumento degli ovini per la minore richiesta di manodopera e per la
possibilità di pascolare su terreni incustoditi e di proprietà comunale.
Accanto a mucche, pecore e capre si deve collocare l’allevamento domestico seppure limitato:
il suino, la gallina, conigli, anatre e altri animali da cortile.
Le brunoalpine al pascolo
Sulla nostra tavola
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I prodotti dell’allevamento erano merce di scambio, soprattutto le carni, le pelli e il burro.
Spesso l’allevatore rinunciava al consumo di carne per destinarla alla vendita. Lo scarso
apporto di carne nell’alimentazione consisteva tra l’altro solo in carne essiccata piuttosto che
fresca. Il consumo di carne fresca era destinato ad occasioni particolari.
Verso la fine dell’autunno si uccidevano le mucche, i maiali, le pecore e le capre. Le carni
venivano salate e speziate e poi si lasciavano essiccare esposte all’aria pura dei monti, appese
nello spücher, uno stanzino ricavato appositamente nel sottotetto.
La carne veniva posta in tavola solo la domenica.
Non mancavano il lardo e il prosciutto ma non compariva la carne fresca se non come animali
da cortile.
Le galline si uccidevano quando non facevano più le uova.
Importante era il ruolo della caccia, sia di animali di grossa che di piccola taglia.
Le interiora e le frattaglie venivano consumate subito perché non era possibile la loro
conservazione.
Ai salumi era lasciato il compito di fornire la carne per tutto l’anno. L’animale veniva
utilizzato tutto, la carne, le interiora, il grasso, il sangue e persino le ossa che si utilizzavano
per il brodo in cui si facevano le minestre.
Capre in siesta
Sulla nostra tavola
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La caccia e la pesca
Pascoli e boschi hanno fornito, fino a pochi decenni fa, quando la caccia era ancora praticata
da molti, abbondante selvaggina sia di grossa che di piccola taglia.
In piano abbondavano: passeri, quaglie, pernici, fagiani, anatre selvatiche, lepri e ghiri.
Lo scoiattolo, invece, era cacciato soprattutto per la sua pelle.
Sui pendii si cacciavano le pernici, fagiani, tordi, coturnici e passeracei vari, ghiri, lepri,
marmotte e camosci.
A Formazza, il piatto principale, era l’arrosto di marmotta. Wagner, nel 1852, firmava una
lettera alla moglie come Riccardo-mangiatore-di arrosto-di marmotta.
Un’antica risorsa era rappresentata dalle lumache.
Gli Statuti Comunali vietavano la loro raccolta nelle proprietà altrui con sanzioni come la
perdita del bottino e la riparazione del danno provocato.
Marmotta e tasso
Questi animali erano molto ricercati per la cucina soprattutto nei tempi andati. Dopo la
frollatura, che nel periodo invernale si otteneva lasciando gli animali sepolti sotto la neve, si
passava alla spellatura e sgrassatura.
Concluse queste operazioni, l’animale tagliato a pezzi veniva cotto a fuoco vivo in un paiolo
di bronzo, senza alcun condimento. Si eliminava il grasso trasudato, fino ad ottenere la carne
perfettamente sgrassata che veniva posta a marinare per almeno tre giorni. Terminata la
marinatura, si metteva a rosolare con le verdure e gli aromi spruzzandola generosamente con
la grappa. Si ultimava la cottura con il brodo.
Il grasso di marmotta, una volta era molto ricercato per le sue presunte proprietà terapeutiche.
Nelle vallate alpine non c’è anziano che non racconti delle miracolose proprietà di questo
grasso che avrebbe salvato qualcuno dalla polmonite oppure avrebbe guarito qualcun altro
dall’artrosi deformante.
In Svizzera, la marmotta, ha rischiato l’estinzione dopo che un furbo farmacista di Sciaffusa
aveva iniziato a produrre confezioni di grasso di marmotta pubblicizzandole come prodotti
antireumatici. Egli sosteneva, a sostegno della sua teoria, il fatto che le marmotte pur
trascorrendo molto tempo sotto terra non hanno i reumatismi.
Si racconta inoltre che un tempo, quando non esistevano i frigoriferi, i bracconieri dopo aver
estratto le marmotte dalle tane le conservavano ancora in letargo nelle cantine delle proprie
case, dentro botti o scatoloni di legno. Gli animali continuavano il letargo fino a che si
decideva di portarli in tavola: un modo per avere la carne sempre fresca.
Lumache sulla brace
Preparazione tipica di Trontano. Le lumache raccolte durante il letargo invernale e quindi
perfettamente chiuse si mettono a cuocere direttamente sulla brace. Il caratteristico sfrigolio
che producono viene definito come “le lumache dicono le orazioni”. Si condiscono solo con
sale e pepe.
La grande abbondanza di acqua rappresentata da laghi, laghetti, fiumi, torrenti e ruscelli ha
permesso di portare sulle tavole anche una certa abbondanza di prodotti della pesca, molto
ricercate erano le trote di fiume ma non mancavano gli agoni, i cavedani, i temoli, le tinche, i
pesci persici, i lucci, le anguille ed altri pesci minori.
Non vanno dimenticati le rane e i gamberi d’acqua.
Il pesce salato o secco invece, come il merluzzo e le aringhe era tutto di importazione.
Sulla nostra tavola
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Latte e formaggi
Il latte ha sempre avuto un ruolo di primissimo piano nell’economia e nella vita sulle nostre
montagne.
Per evidenziare l’importanza data al formaggio basti ricordare l’usanza di dedicare una forma
alla nascita di ogni figlio.
La forma, conservata in disparte in cantina, rimaneva li fino al giorno del funerale.
Al ritorno dal cimitero, la forma o meglio quello che ne era rimasto veniva divisa e consumata
da coloro che avevano preso parte alla cerimonia.
Il burro poiché facilmente deperibile, si trasformava di solito in burro cotto e fuso e veniva
usato come condimento. Per l’utilizzo del burro fresco si è dovuta attendere l’introduzione del
frigorifero.
Con il latte di capra si producono i famosi caprini. Sono a pasta cotta e si consumano sia
freschi che stagionati. Poiché sono digeribilissimi sono consigliati per bambini e anziani.
Erano e sono particolarmente ricercati quelli che si producevano nella breve stagione
d’alpeggio.
In Valle Antrona si produceva un particolare formaggio ai porri; le mucche venivano
alimentate per un giorno con i porri che passavano il loro sapore forte al latte. Pare che questo
formaggio fosse prodotto perché a causa del suo sapore veniva consumato di meno ed
affettato molto sottile .
La ricotta era prodotta sia con latte di mucca che con quello di capra, grassa con l’aggiunta di
panna oppure magra senza la panna, fresca, stagionata o affumicata.
Il maggior prodotto caseario delle nostre montagne è il mezza pasta o semi-grasso, noto in
dialetto come “nusctran” (cioè nostrano).
Il buon formaggio nostrano
Sulla nostra tavola
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Burro cotto
Era e, per certe ricette lo è ancora, il condimento base della cucina del nostro territorio. Le
tecniche di fusione del burro erano diverse, ma il metodo più comune consisteva nel mettere il
burro grezzo in un paiolo di rame e farlo sciogliere a fuoco lentissimo per circa tre ore. Il
burro era sciolto e ben cotto quando, guardando attraverso di esso, era possibile intravedere il
fondo del paiolo. Allora lo si toglieva dal fuoco e lo si filtrava attraverso un canovaccio e lo si
versava nei tradizionali recipienti di pietra ollare oppure in recipienti di terracotta.
Anche l’unto del paiolo veniva recuperato facendovi cuocere le patate tagliate a pezzetti.
Il grasso che restava sui canovacci veniva messo da parte per poi utilizzarlo in occasioni
importanti come la preparazione dei biscotti o delle patate per la Pasqua.
In valle Vigezzo il burro grezzo veniva fatto sciogliere unendo ad esso la cipolla, l’aglio, il
rosmarino e abbondante sale. In questo modo si trasformava in un soffritto già pronto.
Burro di fiorito
È il latticino che affiora quando si porta ad ebollizione il siero con il latticello di burro. Si
raccoglie con una schiumarola. Un tempo si consumava come companatico.
Latte di burro
È il latte scremato che rimane dopo la produzione del burro. Anticamente si utilizzava sia
come bevanda sia per la preparazione di polentine o altri piatti.
Le nostre brunoalpine
Sulla nostra tavola
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Mezza pasta
È un formaggio detto anche semi-grasso, in dialetto nusctran. È il maggior prodotto caseario
dell’Ossola. Viene prodotto in alpeggio durante la stagione estiva e nelle latterie di fondovalle
durante il periodo invernale. Gli alpeggi comunali vengono dati in affitto ad un capocasata,
che si dovrà occupare del mantenimento e della conduzione del bestiame di più famiglie
proprietarie.
Due volte al giorno, al mattino e alla sera, le mucche vengono raccolte per la mungitura e la
successiva lavorazione per fare burro e formaggio. In estate una bovina adulta può arrivare a
produrre circa 18 litri di latte, e da una cagliata di 300 litri si ottengono 30 chili di formaggio.
A fine stagione il prodotto viene diviso tra i diversi proprietari in base al numero delle bovine.
Viene prodotto con il latte di mucca scremato dall’affioramento.
A pasta cotta, di colore giallo paglierino, a occhiatura minuta, consistente. Deve stagionare
per un periodo minimo di sei mesi.
Ha quindi un sapore pieno e robusto che diventa piccante con l’aumento del periodo di
maturazione. É il classico formaggio da tavola.
Accanto alle stalle troviamo sempre i maiali che rappresentano un conveniente mezzo di
utilizzo dei sottoprodotti dell’industria lattiero- casearia.
Durante tutto il ciclo di ingrasso l’alimentazione del maiale è basata sul siero di latte derivante
dalla lavorazione del formaggio.
Stalle di alpeggi in alta quota
Sulla nostra tavola
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Il Bettelmatt
La storia In una pergamena del luglio 1006 si trova una pratica di affitto di terreni in cui si chiede la
consegna annuale di 100 libbre di formaggio. Molti altri documenti ancora ci fanno conoscere
gli innumerevoli utilizzi commerciali e legali del formaggio, tra cui la possibilità di pagare le
tasse, le decime e perfino gli affitti.
Una delle prime notizie storiche che tiene buono il nome Bettelmatt risale al 1721.
Lo si è trovato anche con il nome di Fontossola che corrisponde alla forma dialettale di
funtina. Questo ci dice quanto gli ossolani si sono battuti inutilmente per ottenere l’estensione
dell’Ossola della zona di produzione della fontina, denominazione tipica valdostana.
Più recentemente è stato classificato come Grasso d’Alpe.
Un tempo il formaggio prodotto in alpeggio era trasportato attraverso i valichi e venduto nelle
fiere o ai mercati di fondovalle, specialmente dopo il ‘500 quando sulle Alpi si diffuse l’uso di
non scremare il latte per produrre il burro, ma di utilizzare il latte intero.
L’antica mulattiera per il Passo del Gries, che dal lago di Morasco saliva all’alpe Bettelmatt,
costituì per secoli la principale via di transito tra la pianura padana e il centro della Svizzera.
Lungo questa carovaniera, percorsa anche da 100 cavalli e muli al giorno, passarono per oltre
sei secoli non solo mandrie, mercanti ed eserciti, ma anche scambi di idee e confronti di
culture. Lo sviluppo della zootecnia e quindi una abbondante e qualitativamente eccellente produzione
casearia, sono le caratteristiche dell’alta Val d’Ossola. La produzione casearia è sempre di alta
qualità e raggiunge punte di assoluta eccellenza, sia dal punto di vista alimentare che da quello
commerciale.
Il formaggio Bettelmatt Battelmatt o Bettelmatt (pascolo dei camosci) identifica gli alpeggi dell’alta Val Formazza e
dell’alpe Devero, che producono un formaggio dal sapore tutto particolare, dovuto soprattutto
alla qualità delle erbe di questi pascoli.
L’alpe Bettelmatt, dominato dal Battelmatthorn ovvero punta dei Camosci, si trova a 2112
metri di altitudine al confine con la Svizzera.
I bellissimi pascoli dell’Alpe Bettelmatt
Sulla nostra tavola
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Come si produce il formaggio in alpe
Il formaggio viene fabbricato ogni giorno nella casera che serve anche come ricovero per i
pastori. In un angolo del locale c’è la grande caldaia sospesa ad un braccio pieghevole, dove il
latte viene portato in temperatura con il fuoco di legna. In alto la raccolta della legna è un
problema oltre che una fatica perché in genere a quelle altitudini la vegetazione è scarsa o
addirittura assente. Il formaggio viene poi pressato con grosse pietre e lasciato riposare un
giorno, salato, riposto e conservato in piccole baite.
Le diverse fasi della preparazione del formaggio in alpeggio
Alpe Forno nel Parco Veglia Devero
Sulla nostra tavola
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Solo sette alpeggi attualmente possono produrre il Bettelmatt (Bettelmatt, Kastel, Toggia,
Forno, Sangiatto, Vannino, Poiala: distese d’erba oltre i 2000 metri, in cui si producono poche
forme all’anno) ed ognuno di essi ha caratteristiche proprie per differenze di storia, ambiente e
“mano”del casaro. Il Bettelmatt inizia a farsi conoscere come uno dei formaggi italiani più
raffinati ed esclusivi.
La produzione La quantità media di latte lavorato negli alpeggi che producono il Bettelmatt, oscilla tra i 300
e 500 litri al giorno, ovviamente in funzione della quantità dei capi e del periodo stagionale.
In totale si producono all’incirca 10.000 forme di Bettelmatt del peso variabile tra i 2,5 e i 5
chilogrammi. Il periodo di produzione in alpeggio è di due mesi: in pratica i soli mesi estivi.
La qualità del formaggio d’alpe è determinata dalle caratteristiche della vegetazione del
pascolo e sarà tanto più pregiata quanto più l’erba sarà densa e nutriente per le bestie. La
vegetazione, spesso attaccata alle morene, costretta ad una estate molto breve e a fredde
temperature notturne gode tuttavia di una forte luminosità che favorisce la fotosintesi.
Una curiosità riguarda l’erba dei pascoli. Infatti la presenza della Festuca rubra, del
Ligusticum mutellina, e di altre erbe alpine particolarmente ricche di molecole aromatiche,
può essere considerata un possibile “marcatore” del produttore, del pascolo e quindi
dell’origine del prodotto. La cosiddetta erba Mottolina, purtroppo non ben precisata, gli
conferisce il caratteristico colore giallo.
H.B. de Saussure, nel ‘Voyage dans les Alpes’ nel ‘700, dice del Bettelmatt : “ ...cosparso da
una splendida e rigogliosa fioritura che altrove non mi era mai capitato di incontrare...”.
Fioritura estiva al Bettelmatt
Sulla nostra tavola
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Il miele
In Ossola, come in tutte le zone alpine ed appenniniche dove le diverse fasce altitudinali
offrono molte varietà di specie vegetali, il miele ha da sempre avuto un ruolo molto
importante e una lunga storia. Diverse sono le varietà prodotte, tutte di ottima qualità.
Il suo impiego è stato molto vario in accordo con le diverse caratteristiche, fu utilizzato come
alimento, come dolcificante in cucina, come calmante del pianto dei neonati, come lenitivo
nella tosse di grandi, piccini ed anziani.
Mieli più comuni Miele di acacia
Proviene da alveari dove le api trasformano il polline dei fiori di Acacia, meglio conosciuta
sul nostro territorio come Robinia. Ha un colore chiarissimo, un gusto molto delicato e molto
gradito ai bambini. Cristallizza solo dopo molto tempo.
Miele di castagno
Ha un colore ambrato molto scuro, un aroma forte ed un sapore leggermente amarognolo. È
considerato tra i più nutrienti per la ricchezza di polline e sali minerali. È indicato come
regolatore intestinale, espettorante e calmante della tosse, indicato nei casi di anemia.
Cristallizza con il tempo.
Miele di erica e castagno
Si produce soltanto tra la fine di agosto e i primi di settembre, quando fiorisce l’erica
ossolana. La produzione è modesta e difficile, perché l’erica produce una forte densità che
ostacola i normali processi di lavorazione. Ha un colore ambrato molto scuro, un aroma molto
delicato e vagamente amarognolo. Ha proprietà astringenti, decongestionanti, diuretiche e
toniche. Cristallizza molto lentamente.
Fiori di castagno
Sulla nostra tavola
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Miele di mielata
Viene prodotto solo in particolari annate da specie arbustive diverse. Ha un colore ambrato
quasi nero, un aroma ben definito, un sapore dolce caratteristico per la presenza di zuccheri
particolari. È il più ricco di sali minerali e ha un alto valore biologico.
Miele di millefiori
Proviene dal nettare di tutte le specie vegetali che si trovano sulle alte fasce montane e
racchiude pertanto tutte le proprietà delle molte piante officinali della flora alpina. Colore e
sapore variano quindi da vallata a vallata.
Miele di rododendro e lampone
Di produzione assai difficile e quindi assai raro ma particolarmente raffinato. Ha un colore
ambrato piuttosto chiaro, un aroma caratteristico ed un sapore delicato. Ha spiccate proprietà
sedative.
Fioritura estiva in
Val Buscagna
Parco Veglia Devero
Rododendri
in fiore
Sulla nostra tavola
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Miele di tiglio
Appena prodotto ha un colore ambrato chiaro ma dopo qualche mese a causa della
cristallizzazione diventa color nocciola. Aroma e sapore sono molto caratteristici e
gradevolissimi. Ha effetti sudoriferi e proprietà sedative, adatto per persone nervose e a chi
soffre di insonnia.
Miele di timo e acacia
È un miele primaverile, limitato a bassa quota. La produzione è limitata e non sempre
reperibile. Ha un colore giallo chiaro e un aroma molto delicato. Ha proprietà antisettiche,
antibatteriche e digestive.
Miele di verga d’oro
Proviene da alveari dove le api trasformano il nettare dei bellissimi fiori gialli della Verga
d’oro, bellissimi cespugli che colorano le parti basse delle valli ossolane. Ha un colore giallo
ambrato, un aroma tipico e caratteristico, un sapore dolce molto spiccato. Ha proprietà
digestive. Cristallizza rapidamente.
Robinia (Acacia) in fiore
Sulla nostra tavola
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La ‘rivoluzionaria’ patata
L’alimentazione alpina ebbe un’evoluzione rivoluzionaria tra il ‘700 e l’800 con
l’introduzione della coltivazione della patata che trovò in Ossola un ottimo habitat,
specialmente in Val Vigezzo.
La sua introduzione pare sia dovuta a Caterina Pollini nel 1795, al suo rientro in valle dopo
una lunga permanenza a Savigliano, dove aveva appreso la sua coltivazione.
Dal Perù la patata fu portata dagli spagnoli in Galizia e poi nei loro domini dell’Italia
Settentrionale. Fu poi soprattutto dall’Italia che la patata cominciò ad espandersi in Europa
verso la metà del XVI secolo.
Gli Italiani la chiamavano ‘tartuffolo’ per la coltivazione sotterranea, da qui i nomi
‘Kartufflen’ e ‘Tartofflen’ dei tedeschi.
Inizialmente era coltivata come rarità nei giardini di erboristi e botanici e non era conosciuta
dal popolo.
I tedeschi la consideravano addirittura una pianta velenosa. I suoi frutti erano considerati
demoniaci perché crescevano sotto terra o addirittura possibili portatori di malattie come la
lebbra.
La patata veniva coltivata solo per necessità e mal volentieri nei periodi di guerra e di carestia
“...solo per non morir di fame...”.
In montagna, si hanno testimonianze della sua coltivazione dal XVIII secolo.
Nata in alto, sulla catena delle Ande, la patata è particolarmente adatta alle alte quote e ai
campi in pendenza, non teme la grandine e cresce in qualunque terreno.
In montagna, la patata, poteva essere coltivata fino a quasi 2000 metri di altitudine, anche su
terreni poco fertili e in ombra, assicurando sempre un minimo di raccolto.
Le patate, inoltre, rappresentano un alimento semplice e nutriente senza altro procedimento
che la cottura. Con l’aggiunta di poco burro, di lardo, di olio, di un po’ di panna, di latte
oppure di miele si trasformano in un’ottima pietanza.
La patata a pasta gialla
Sulla nostra tavola
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Potevano nutrire con poca spesa durante l’inverno e potevano migliorare la qualità del pane e
aumentarne la quantità a disposizione di ogni famiglia.
Si è notato che dove venivano coltivate le patate c’erano più bambini, infatti la patata
preservava dalle malattie della prima infanzia limitando la mortalità infantile.
Inoltre dava maggior forza ai genitori che avevano più cibo a disposizione e di conseguenza
avevano una costituzione più robusta.
In diverse zone l’introduzione della patata coincise con un aumento demografico.
Le migliori condizioni alimentari permettevano di anticipare la formazione della famiglia ed
inoltre si è notato un rapporto diretto tra patata e fertilità. Inoltre la tenera consistenza di
questo alimento permetteva di anticipare l'alimentazione artificiale del bambino piccolo
abbreviando il periodo dell'allattamento.
Secondo il parere di diversi antropologi l'introduzione della patata causò un brusco aumento
della crescita delle popolazioni, aiutando la gente a non morire di fame, a sposarsi prima, ad
avere più figli, più sani e più robusti.
Non ultimo beneficio, la patata limitò anche il fenomeno dell'emigrazione.
Il discorso sull'elogio della patata non può che concludersi con alcuni versi di A.M. Bacher
tratti da “Il rito per un buon raccolto di patate”:
“...dona loro riposo
e splendano di luce
i nostri avi.
Come in cielo
vegliano gli astri di notte,
così, con occhi di stelle,
vegliate voi, cari morti,
sulle patate
che crescono al buio
sotto terra...”.
Sulla nostra tavola
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Curiosità
La patata come merce di scambio
Per sottolineare il riconosciuto ruolo della patata anche in epoca più recente, in un documento
allegato ai verbali della Giunta Provvisoria di Governo della Repubblica dell’Ossola
(9settembre-23ottobre 1944) si legge che per risolvere il grave problema
dell’approvvigionamento alimentare della popolazione civile, ancora una volta si fece ricorso
a questo umile ma tanto nobile alimento.
La popolazione entro i confini della Repubblica dell’Ossola ammontava a circa 70.000
persone, compresi qualche centinaio di ‘sfollati’ delle vicine province lombarde, sottoposte a
continui bombardamenti aerei da parte degli Alleati.
Il problema gravoso della fornitura alimentare venne affrontato mediante accordi commerciali
con la vicina Svizzera.
Un accordo con il Governo di Berna attraverso l’intervento della Croce Rossa Svizzera,
garantiva una cessione immediata di 20 tonnellate giornaliere di patate per 14 giorni, per un
totale di 280 tonnellate di patate.
Si trattava di un sistema di compensazione per ottenere dal Paese confinante forniture
alimentari in cambio di alcuni prodotti delle industrie ossolane, prodotti che avevano in
giacenza ed erano particolarmente ambiti per l’economia elvetica quali pirite, acido solforico,
cloro, abrasivi.
Purtroppo la caduta della ‘neonata’ Repubblica ha impedito il perfezionamento delle trattative.
Campo
di
patate
Sulla nostra tavola
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La cucina di ‘lago’
“Se hai un cuore e una camicia,
vendi la camicia
e vai a vedere
le rive del Lago Maggiore”
(Stendhal)
Nella provincia del Verbano Cusio Ossola se le montagne hanno un ruolo di primordine,
altrettanto lo hanno i laghi e le acque in generale di cui tanto è ricca, al punto da meritarle il
nome di ‘Provincia Azzurra’.
Acqua, elemento
tanto importante
per la nostra vita
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In particolare i Laghi Maggiore, d’Orta e di Mergozzo sono ritenuti da sempre mete ambite da
turisti, studiosi, pittori e letterati estasiati da scenari unici.
Su queste sponde lacustri, soprattutto a partire dall’Ottocento, è iniziato il fenomeno della
villeggiatura di nobili ed alta borghesia, fenomeno che ha impresso una svolta importante in
senso turistico.
Verbania è stata la culla dello sviluppo del turismo aristocratico e soprattutto straniero.
Il Lago d’Orta, anche se è rimasto un po’ in ombra rispetto al suo vicino fratello più grande, è
sempre stato molto apprezzato.
Sorsero grandi alberghi e ricche dimore, circondate da parchi stupendi che ospitarono reali,
artisti e scrittori famosi, personaggi del mondo dello spettacolo e della politica. Per ricordarne
solo alcuni: Manzoni, Rosmini, Cavour e Gozzano scelsero le rive del Lago Maggiore per il
loro riposo, lasciandone testimonianza nelle loro opere. La regina Vittoria amava soggiornare
a Baveno in quella che attualmente si chiama ‘Villa Branca’. Scriveva il 2 aprile 1879, al
rientro da una breve gita all’Isola Bella: “Non ho mai visto altrove panorami e colori come
qui...nella luce serale, le Alpi, dalle quali il Monte Rosa si stagliava con una nitidezza
assoluta, erano meravigliosamente belle...”.
Hemingway, che soggiornò più volte a Stresa, ha ambientato sul Lago Maggiore il suo celebre
romanzo “Addio alle armi”.
Sulle Isole del golfo Borromeo (Isola Bella, Isola Madre e Isola Pescatori) dal 1600 in poi, la
famiglia Borromeo, iniziò un’opera grandiosa di rimodellamento di alcuni scogli, di messa a
dimora di fiori e piante provenienti da tutto il mondo e la costruzione di splendidi palazzi
nobiliari, tutto in mirabile integrazione con l’ambiente circostante.
Le frequentazioni nobili delle rive lacustri hanno contribuito a dare alla cucina di lago un
tratto raffinato.
Nel Settecento, i nobili inglesi in vacanza sul lago, erano soliti far colazione a base di thè alla
panna, pane tostato spalmato di burro, cioccolata o caffé. Già due secoli prima, illustri ospiti
delle ville e palazzi borromei utilizzavano spezie esotiche e rare, segno di contatti
commerciale esclusivi.
Alberghi a Stresa
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Ricordiamo ora alcune tra le pietanze più note sulle rive dei nostri laghi.
Vitello tonnato Gustosa pietanza estiva di provenienza francese, preparata nel tardo Settecento in tutte le corti
filofrancesi.
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Riso in cagnone “Cagnun” in piemontese significa “larva d’insetto” e il piatto prende questo strano nome per
l’aspetto che il chicco di riso assume dopo la lessatura. Diffuso in tutto il verbano con
pochissime varianti come l’aggiunta di spicchi d’aglio per il soffritto. Il riso cotto in acqua
salata viene condito con burro diventato nocciola unito alla salvia e spolverizzato con il grana.
Risotto di castagne e funghi porcini
Minestra di riso e zucca
Zuppa di funghi porcini
Polpette di verza
Ossibuchi
Luganiga con salvia
Cannobio è una località sul lago Maggiore dove si preparano le “luganighe” che sono dei
salamini fatti con un impasto di carni di maiale, lardo, aromi vari, pepe e vino rosso. Si
trovano nelle macellerie del paese soprattutto nel mese di gennaio.
La sua origine, pare, si deve ad un miracolo, avvenuto il 7 gennaio del 1522, quando in
un’osteria il cui piatto forte era appunto la luganiga, il quadro della Santissima Pietà perse
lacrime di sangue. Ora nel luogo dell’osteria c’è un Santuario, e la sera del 7 gennaio, dopo la
processione tutti tornano a casa per consumare le rinomate “luganighe”.
Un precetto cattolico, un tempo molto seguito,
imponeva rigorosamente per ben 130 giorni l’anno
di “mangiare di magro”. Ottimo pretesto
per gli abitanti dei paesi rivieraschi per cucinare
il pesce, abbondante per la ricchezza di laghi e di corsi
d’acqua e soprattutto a buon mercato.
Non era difficile portare sulle tavole pesci persici, salmerini,
lucci, coregoni, tinche, alborelle, trote, lavarelli, anguille e carpe.
Filetto di salmerino all’ortica
La tradizione culinaria delle località sul lago Maggiore propone spesso il salmerino, che
assomiglia alla trota, ma ha una carne più delicata e più gustosa. È considerato uno dei pesci
più prelibati d’acqua dolce e pare fosse apprezzato anche da Napoleone.
Luccio del lago di Mergozzo
Il luccio, comune nelle acque dolci, è molto vorace e si nutre di altri pesci. Ha una carne molto
delicata e poiché è ricco di lische è bene scegliere esemplari non troppo grossi. È bene
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preferire quelli che vivono in acqua corrente che si riconoscono per la schiena verdastra e il
ventre bianco argentato, rispetto a quelli che vivono in acqua stagnante di colore più scuro.
Alborelle o agoni in carpione
Alborelle fritte con salvia impanata
L’alborella è il pesce più comune nei due laghi.
Risotto con pesce persico
Il pesce persico è il simbolo della cucina del lago. Viene servito prevalentemente dorato, fritto
in burro e salvia. Il pesce persico compariva tra gli acquisti dei parroci locali per i pranzi e le
cene in occasione delle visite del cardinale Federico Borromeo nel 1596.
L’anguilla, per la sua carne grassa, ha da sempre costituito una ghiottoneria e spesso viene
consumata con i piselli.
Coregone all’agro Friggere il coregone in olio di semi e, a cottura avvenuta, unire il sugo di carne preparato a
parte con rosmarino e salvia. Come tocco finale lo chef insapora con burro fuso al quale è
stato aggiunto prezzemolo e succo di limone.
Il coregone al gorgonzola è una ricetta che non ha concorrenti sulle tavole del verbano.
Il lavarello veniva usato anche per il buon brodetto oppure spalmato su crostini di pane dopo
averlo dorato nell’olio con la polpa di pomodoro.
Trotelle dorate Pulire quattro trotelle, togliendo la testa e aprendole a ventaglio, ma lasciando che rimangano
unite per il dorso. Tolta la lisca centrale, passare le trotelle in farina e nell’uovo per poi farle
dorare nel burro già sciolto nella padella con sale e salvia. Cuocere a fuoco vivo per dieci
minuti, avendo cura di dorare le trotelle sui due lati prima di passarle in forno per cinque
minuti. Servire con spicchi di limone.
La trota è il pesce più conosciuto del Lago di Mergozzo e spesso viene cucinata lessata nella
pescera.
Agoni marinati Friggere gli agoni con un poco d’olio, dopo averli puliti, lavati, asciugati e infarinati. Intanto
preparare a parte una salsa con olio, aceto, abbondante pasta d’acciughe, succo di limone,
prezzemolo. Immergere nella salsa gli agoni e lasciare marinare per circa un’ora, prima di
servirli freddi con la salsa di fusione.
Cavedani in carpione
I Cavedani sono pesci di media mole, che si trovano in tutte le regioni temperate e formano il
grosso della popolazione ittica della maggior parte delle acque dolci, sia stagnanti sia correnti.
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La maggioranza frequenta le altitudini basse e medie; soltanto poche specie vivono nei torrenti
di montagna dove predano insetti acquatici ed avannotti di pesci.
Hanno abitudini simili a quelle delle trote, delle quali differiscono per la sensibilità al freddo,
che li induce a passare l’inverno in letargo.
Nella nostra zona si pescano soprattutto nel fiume Toce.
Come cucinarli:
prendere un chilo circa di pesce, pulirlo, lavarlo ed asciugarlo e se di grossa taglia farlo a
pezzi. Friggerlo bene in olio d’oliva, toglierlo e nell’olio rimasto friggere 3 o 4 cipolle tagliate
sottili. Aggiungere 3 o 4 etti di bietole fresche o coste (va utilizzata solo la parte verde).
Salare, pepare ed aggiungere un bicchiere di aceto rosso. Sistemare il pesce in una pirofila o
in una insalatiera, versarvi sopra la verdura e lasciare macerare per il tempo desiderato (anche
3 o 4 giorni).
Stufato d’asino
Già dal secolo scorso ‘stufato’ nome che deriva dalla ‘stufa’ è sinonimo di brasato, di
stracotto e di umido ed indica una cottura lenta e prolungata di alcuni tagli di carne preceduta
da una rosolatura.
Fin dall’inizio del Novecento, l’asino era l’animale più diffuso nel V.C.O., dove era
impiegato soprattutto per i trasporti e trainava le chiatte lungo il Toce verso Milano. Ecco
allora nascere anche i salami d’asino.
Il Toce
verso la
foce
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I dolci
Molto famose le Margheritine di Stresa, gli Amaretti di Pallanza e le Reginette di
Omegna deliziosi dolcetti confezionati già nel 1950 che contendono il primato alle
Imperialine e alle Damine.
UNA MARGHERITA
PER UNA REGINA
La figlia maggiore di Elisabetta di Sassonia, Margherita, prima Regina d’Italia e sposa dal
1868 di Umberto I di Savoia, era spesso ospite a Stresa, in villeggiatura.
Pietro Antonio Bolongaro, uno dei primi pasticceri della graziosa e nota località lacustre,
lavorava da tempo ad una ricetta che gli avrebbe consentito di creare dei dolcetti di una
delicatezza e di una friabilità uniche. Dolcetti tuttora molto apprezzati e famosi con il nome di
“Margheritine di Stresa”.
Alcuni sostengono che il pasticcere presentò i suoi nuovi dolcetti durante un grande
ricevimento per la festa di Ferragosto. Altri invece raccontano che gli squisiti dolci furono
inviati dal Bolongaro a villa Ducale per sottoporli ad un giudizio “reale”: si dice che da quel
giorno i nuovi dolci non mancarono mai dalle tavole della Casa Reale.
Ebbe così inizio la fortuna delle “Margheritine” così chiamate in onore dell’illustre ospite.
Anche il loro aspetto ricorda molto il fiore della margherita: cosparsi di zucchero a velo, in
fila sui vassoi sembrano una distesa di fiori bianchi.
Il figlio di Pietro Antonio, Antonio Bolongaro ereditò dal padre l’arte pasticcera ed il
laboratorio di Via Garibaldi, dove iniziò presto la produzione dell’ormai richiestissimo dolce;
che attualmente è prodotto in tutte le pasticcerie stresiane ed anche in quelle dei paesi vicini.
Le forme e le dimensioni in cui le Margheritine si presentano possono variare leggermente: in
genere sono dei pasticcini rotondi e lisci di circa 5 centimetri di diametro con un piccolo
avvallamento al centro dove si raccoglie lo zucchero a velo che li ricopre.
Sono fantastiche gustate accompagnate da un buon thè, seduti al tavolino di una elegante
pasticceria con vista sulla bellezza del golfo Borromeo.
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Esiste una versione un po’ diversa con le Margheritine un po’ più piccole e con un decoro di
pasta rigata che ricorda maggiormente la forma del fiore.
L’incredibile fragranza di questo nobile dolcetto è dovuta ad un piccolo segreto, l’utilizzo dei
tuorli d’uovo sodi, passati al setaccio fino ad ottenere quasi una farina. Questo semplice
accorgimento, unito all’uso di zucchero a velo nell’impasto, fa sì che le Margheritine si
sciolgano in bocca al primo assaggio.
Ricetta per le Margheritine di Stresa
Ingredienti :
250 grammi di burro
125 grammi di zucchero a velo
200 grammi di farina 00
200 grammi di fecola di patate
5 tuorli di uovo sodo
Procedimento:
Lessate le uova e dopo averle raffreddate passate al setaccio i tuorli affinché risultano belli
fini. Formate una fontana con la farina e la fecola, in mezzo metteteci lo zucchero a velo, il
burro (lasciato già precedentemente fuori dal frigorifero) e i tuorli d’uovo passati al setaccio.
Cominciate ad impastare il composto che si trova al centro della fontana poi, a poco a poco,
tirate insieme anche la farina e la fecola. Impastate in modo che rimanga un composto
omogeneo.
Lasciate riposare in frigorifero per qualche ora. Formate delle piccole palline simili agli
gnocchi di patate e mettetele su una teglia imburrata. Schiacciate la parte superiore in modo da
appiattire l’impasto e con un legnetto bucate la parte centrale.
Cuocete le margheritine per 12/13 minuti a 160°. Servitele spolverizzate di zucchero a velo.
Il lungolago di Stresa
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BIBLIOGRAFIA
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Val Grande Gli speciali di Piemonte Parchi n° 8/2003
R. Di Corato “A tavola nell’Ossola” Comunità Montana Valle Ossola
A. Quaretta “Il pane nero ossolano” da Le Rive n°5/2002
E. Rizzi “Cucina d’alpe” Fondazione Enrico Monti
E. Rizzi “I Walser” Fondazione Enrico Monti
P. Crosa Lenz, G. Frangioni “escursionismo in Valdossola-Antigorio Formazza” Ed. Grossi
Domodossola
E. Sergio, D. Vantaggio “Il futuro del passato” A. Signorelli Editore Roma
W. Pedrotti “I cereali. Proprietà, usi e virtù” Demetra
S. Bortolucci “Segreti di cucina del Novarese e Verbano Cusio Ossola” Rizzardi Editore
I libri di Scenari “Stresa immagini e ricordi di un borgo millenario” A. Lazzarini Editore
M. Beltrami, G. Grassi “Verbali della Giunta di Governo dell’Ossola” Ed. Comitato
Promotore Celebrazioni per il 25° anniversario della Repubblica dell’Ossola
E. Ferrari, A. Pagani “Terra d’Ossola” Ed. Grossi Domodossola
Traveller (marzo 2002) “Grandi laghi d’Italia Lago Maggiore”
Schede “Sentieri Natura” Regione Piemonte-Parco Veglia Devero
R. Cresta “Macugnaga tra storia e leggenda E. Iacchini Corsi
Hanno lavorato a questa ricerca le classi 1,2 e 3 della scuola media di Piancavallo con
l’insegnante Rita Torelli.
Hanno collaborato i prof: Palmina Trovato, Giuseppina Campolongo, Silvia Faccio, Marcello
Lertora e Graziano Fera.
Le foto, tutte originali, sono della prof. Torelli.