I quattro significati della Gioconda - Alberto...

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Alberto Schiavi I QUATTRO SIGNIFICATI DELLA GIOCONDA

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Alberto Schiavi

I QUATTRO SIGNIFICATI

DELLA GIOCONDA

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“Le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L’uno si chiama litterale (…). L’altro si chiama allegorico (…). Lo terzo senso si chiama morale (…). Lo quarto senso si chiama anagogico (…)”. Dante, Convivio, Trattato secondo, I capitolo.

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Indice

Introduzione 7

Chi è? 11 Per una fettina di quadro in più 12 Zitti! Il paesaggio sussurra all’uomo 19 Parenti serpenti 23 Filosofia d’Egitto 29 Superstizione, filosofia o scienza? 34 Convergere verso l’anima del mondo 36 Al centro dell’anima fino alla giocondità 39 Un folle volo in paradiso 41 Colpo di scena: la conversione 46 Proprio lui!! Che entri 52 Una prudente ricapitolazione 63 Perché Monna Lisa è la Gioconda? 78 La Gioconda gioca? Ovvero Dio gioca? 89 Appendice n. 1 106 Appendice n. 2 114 Bibliografia 115

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Introduzione.

“Nel 1800 la Gioconda fu collocata alle Tuileries nella camera da letto del generale

Bonaparte. Era tale la notorietà dell’opera che il nuovo padrone della Francia desiderava vederla, forse interrogarla: egli conosceva l’arte di leggere nelle fisionomie e si proponeva senza dubbio di decrittare anche quella, quantunque la fama del quadro non fosse allora dovuto al viso femminile e al misterioso sorriso ma piuttosto alla straordinaria perfezione tecnica, a quel delizioso sfumato di cui Prud’hon, per esempio si sforzava di ritrovare il fascino1”.

Con questa sottile intuizione di psicologia napoleonica, André Chastel, sommo

critico e storico dell’arte, data in certo modo il tempestoso inizio della questione intorno all’enigma della Gioconda.

Una questione non piccola se non la si vuol ridurre alla dimensione ridicola del chiedersi, per esempio, se Monna Lisa sia un maschio o una femmina, l’autoritratto del più famoso precursore degli aspiranti transessuali, e simili desolanti interrogativi; ma cercando di rendere onore al genio indiscusso di Leonardo si tenti di scoprire in che modo e perché quel dipinto gli fu così caro tanto da ritoccarlo fino alla fine dei suoi giorni e che cosa gli trasfuse della propria anima.

Se fu detto che nell’Amleto, Shakespeare, riversò tutto se stesso, ciò non può essere meno vero per Leonardo e la sua Monna Lisa. La differenza – non piccola neanche questa – è che, malgrado gli occhi della Gioconda ci guardino e la sua bocca sorrida,

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D André Chastel, L’illustre incompresa, Leonardo Editore, Milano, 1989, pag. 9.

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tanto da parere parlanti, in realtà, come ognuno sa, la Gioconda non parla, non declama, non scalpita, non impreca, insomma non fa nulla che l’accomuni esteriormente al suo collega Amleto: rimane muta come il più comune dei dipinti del più dozzinale dei pittori. Eppure dovremo forzarla a fare un po’ di tutte queste cose insieme affinché ci consegni alla fine la sua vicenda.

Anche per noi, come per il generale Bonaparte, l’interesse vero della Gioconda non sta dunque tanto nella sua perfezione tecnica quanto nel suo misterioso sorriso, nel paesaggio che le fa da sfondo, nella sua regale postura e per finire, semplicemente, nella sua identità. Tanti interrogativi che si riassumono in uno solo: che significato ha la Gioconda?

Ai giorni nostri questa domanda potrebbe non avere granché senso, o sembrare oziosa, anche per il pubblico colto e rivestire un’importanza cruciale soltanto per gli addetti ai lavori. Infatti si accetta comunemente ormai che lo specifico dell’arte sia di veicolare emozioni, di secernere emozioni, di far grondare i fruitori d’arte di emozioni, come allo spettatore di pellicole horror e non le si dovrebbe chiedere di più; anche per non cadere in una forma d’arte faziosa e strumentale, che la priverebbe appunto di imprimatur artistico.

Eppure, può scaturire un’emozione che non sia espressione di un significato? Un profano potrebbe imbattersi nel più raro dei coleotteri e conservare la più splendida e inalterabile indifferenza mentre lo stesso insetto riempirebbe di stupore e di ammirazione l’entomologo. Esiste forse un’opera d’arte che esprima nel modo più conseguente e più sfacciato un’ideologia religiosa al pari dei Promessi Sposi? Ma chi ne contesta la resa artistica? In realtà le produzioni dell’arte non sono un campo privilegiato degli estimatori della perfezione tecnica, come il signor Prud’hon, né dei cultori dell’arte per l’arte. Evocate dai sensi, le emozioni passano, svaniscono nel nulla se non si traducono in un acquisto, in un significato spirituale tangibile che apra la mente. Solo per questo l’Arte vera resta: i suoi prodotti sono stabili. Lo spirito che in essi è infuso costituisce un punto d’approdo, una tappa, un itinerario, che l’uomo – essere mortale per eccellenza – ripercorre necessariamente se ha la ventura di nascere vivo e d’intraprendere il laborioso cammino della vita.

Il trapasso del sentimento a pensiero, a Logos, punto nodale della speculazione filosofica del Rinascimento fiorentino, è uno dei temi tra tanti, di cui è immagine la Gioconda.

Dunque, il generale Bonaparte … Sì, ecco. Non potendo godere dei suoi privilegi e ispezionare il quadro in camera

da letto, ci trasferiremo idealmente in un ambiente isolato, augusto, ed eleggendo a mentore l’erma marmorea dell’illustre capostipite degli indagatori della Gioconda, inizieremo a osservare con occhio strategico il campo di battaglia e, perlustrando il paesaggio, percorrendolo a volo d’uccello, scrutandone gli anfratti, volteggiando intorno alla figura, accarezzandone la fisionomia, ci accadrà di scoprire corrispondenze, decrittare simboli, assaporare significati …

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CHI E’?

Entriamo per direttissima in argomento e per rispondere al quesito rivolgiamoci ad una recente e pregevole lavoro di Serge Bramly, studioso di Leonardo, il quale affrontando di petto la questione, scrive:

“Il Vasari descrive minuziosamente la Gioconda; ma non ha mai visto da vicino il quadro che conosce per sentito dire, dato che, come egli stesso confessa, quando ha messo mano alle Vite l’opera si trovava in Francia. Il suo racconto non è confortato da nessuna testimonianza né da nessun antico testo; è lui solo a fare il nome di monna Lisa. Perciò molti storici l’hanno messo in dubbio e si sono lanciati su altre piste: oggi abbiamo più di una decina di identificazioni più o meno definibili. Potrebbe trattarsi della favorita di Giuliano de Medici, dunque, una certa Pacifica Brandano o una tal «Signora Gualanda»; o di una delle amanti di Carlo d’Amboise; o di Isabella D’Este, marchesa di Mantova, alla quale il pittore avrebbe finalmente ceduto; o ancora della duchessa di Francavilla, Costanza di Avalos, dato che una poesia ricorda un ritratto (ignoto) che Leonardo le avrebbe fatto; alcuni avanzano l’ipotesi che non sarebbe esistita nessuna modella e che Leonardo avrebbe dipinto una donna ideale; la tesi più fantasiosa sostiene che si tratterebbe del ritratto di un uomo, se non addirittura dello stesso artista: questi si sarebbe dipinto, senza barba né rughe, in abito femminile… Vero è che Leonardo non ha dipinto la sua modella nel solito modo in cui si fa il ritratto di una borghese: l’ha rappresentata con molta arte e molta cura, come una Madonna o una principessa, conferendole una statura monumentale. Ma in fin dei conti, poiché nessuno studioso riesce a fornire la prova incontestabile che ci indurrebbe ad accettarne la tesi, in mancanza di meglio si torna al Vasari e si continua a dire La Gioconda2”.

E più oltre: “Intere generazioni di storici dell’arte si sono invano applicate alla soluzione di

questo rompicapo. Negli scritti dell’artista non si trova la minima allusione al dipinto o al suo eventuale committente; né nei suoi cartoni si trova un cartone preparatorio. Siamo costretti a riconoscere che il mistero resta inviolato3”.

Il Bramly continua nella descrizione del quadro e poi dà comunicazione di un fatto sorprendente quanto sconcertante: “Come la maggior parte dei suoi dipinti, anche la Gioconda ha subito i danni del tempo. Il pannello è stato mutilato da entrambi i lati di una striscia di circa sette centimetri: non sono più visibili le due colonne che inquadravano il paesaggio e che compaiono sia in antiche copie che nel disegno di Raffaello4”.

PER UNA FETTINA DI QUADRO IN PIU’.

Da tempo avevamo notato sul dipinto una lineetta minuscola, una segno orizzontale collocato a mezza costa delle rocce erose e dirupate che campeggiano a sinistra della Signora Lisa, (per chi guarda il quadro5), e che nulla ha a che fare con l’irregolarità di una

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D Serge Bramly, Leonardo da Vinci, Mondadori 1990, p. 287.

3 D Ibidem, pp. 288-289.

4 D Ibidem, p. 290.

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roccia erosa come quella che Leonardo rappresenta. La rivelazione del Bramly unita al ricordo dell’esistenza di copie della Gioconda ci suggerii l’idea di verificare se le copie avessero duplicato il dipinto integralmente, cioè non mutilato sui lati e quindi con le colonne presenti: probabilmente ci avrebbero offerto l’opportunità di osservare una rappresentazione più completa e dunque più comprensibile di questo particolare. E così fu. Quelle che seguono sono alcune delle copie che possediamo della Gioconda. André Chastel nella sua monografia sulla Gioconda ne riproduce numerosissime ma in bianco e nero. Evidentemente sono più fedeli e autentiche quelle che riportano le colonne, e tra queste quelle che danno continuità al paesaggio e non le copie il cui autore ha rifatto il paesaggio a suo capriccio. Abbiamo dunque scelto le prime.

Esse sono state effettuate in periodi diversi intorno al XVI e XVII secolo. L’ultima a

destra è stata scoperta recentemente nei magazzini del Museo del Prado ed esposta al Louvre il 12 febbraio 2012.

Guardiamo ora attentamente il paesaggio che sta alle spalle della Gioconda sull’originale mentre ce lo lasciamo presentare dai più valenti storici dell’arte. Ecco che cosa ne dice uno degli interpreti più qualificati, Carlo Pedretti, il massimo specialista di Leonardo in Italia, se non nel mondo. Riportiamo integralmente la sua descrizione del paesaggio:

“… secondo una tesi recente che va sempre più prendendo piede, sostenuta com’è da una serata filologia e da un complesso di argomentazioni di ordine storico, geografico e scientifico, anche lo sfondo della Gioconda sarebbe toscano, e più precisamente una veduta del Valdarno superiore presso Arezzo, località percorsa da Leonardo in lungo e in largo al tempo della sua attività di architetto, ingegnere e cartografo al servizio di Cesare Borgia nel 1502. (…) Leonardo avrebbe ritratto in quegli sfondi perfino il ponte romano di Buriano sull’Arno, presso il castello di Quarrata, un particolare che si trova ritrova comunque con impressionante similarità in una mappa della Toscana da lui prodotta a quel tempo. Ed è forse proprio la sua opera di cartografo che rende meno problematica la proposta identificazione. A colpo d’occhio, il paesaggio della Gioconda ricorda subito uno scenario alpino con le catene rocciose poste sullo sfondo su piani diversi e attraversato a destra da un fiume e a sinistra da una strada. L’immagine così evocata è quella lombarda del disegno del temporale su una vallata, ma come nel primo disegno del 1473 Leonardo potrebbe avere adottato un approccio sintetico al problema prospettico di comprimere un vasto territorio nello spazio ristretto di un dipinto, che per di più necessita di uno sfondo a connotazioni simboliche più che di un’ambientazione di accuratezza topografica. Per istituire il confronto fra lo sfondo della

D D’ora in avanti tutti i riferimenti al quadro si faranno adottando il punto di vista dell’osservatore e quindi del lettore.

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Gioconda e la proposta realtà toscana occorre servirsi della veduta aerea, che è proprio quella delle mappe di Leonardo, e che può prestarsi a una sintesi visiva in senso temporale come nel processo di sovrapporre vedute diverse riprese nei vari momenti di un unico percorso, in questo caso quello che va dal ponte di Buriano in primo piano alle imponenti formazioni dei calanchi valdarnesi6. Percorso reale se effettuato con l’aereo, o immaginario se realizzato nella mente dell’artista cartografo. Trasferito a ben altre dimensioni, come nel caso dello sfondo della Sant’Anna del Louvre, lo stesso paesaggio diventa lunare, privo ormai di ogni connotazione lombarda o toscana, così come all’idea dell’aereo subentra quella dell’astronave. Leonardo, si sa, bene si presta all’iperbole della retorica dei suoi interpreti. Dopo aver fatto di lui il precursore di ogni aspetto della moderna tecnologia – dall’aereo, appunto, al sottomarino, e dal carrarmato alla bicicletta -, si è cominciato a indagare altri aspetti della sua genialità soprattutto per quanto riguarda le sue capacità di comunicazione che con la sua pittura e il suo disegno sono ancora insuperate come linguaggio universale. E infatti solo alcuni capolavori del cinema muto – lo ammette un regista come Ejzenstein – possono reggere al confronto. E così è possibile affermare che, a parte i problemi filologici presenti nella Gioconda e nella Madonna dei fusi [quadro messo a confronto con la Gioconda, che il Pedretti ritiene essere il frutto di un’ispirazione analoga (NdR)], magistralmente affrontati in questi ultimi tempi dagli studiosi aretini, nel paesaggio di Leonardo la veduta aerea è anche quella della carrellata cinematografica7”.

Così Carlo Pedretti. Il riferimento alle “connotazioni simboliche” non è sviluppato, ma viene avanzata l’ipotesi che il paesaggio nel suo insieme presenti addizionate in verticale, dal basso verso l’alto, una successione di vedute che corrispondono a diverse tappe sovrapposte di un percorso lineare: dal ponte, ai calanchi e poi il tema della veduta aerea che ha consentito a Leonardo di “comprimere un vasto territorio nello spazio ristretto di un dipinto”: dove si trovano appunto: A) una strada, a sinistra; B) a destra un fiume con la campagna circostante; C) i calanchi valdarnesi; D) le catene rocciose poste sullo sfondo su piani diversi: una “compressione prospettica” che tuttavia, secondo il Pedretti, risponde più ad esigenze simboliche che ad un’“accuratezza di tipo topografico”. La parte sinistra non sembra fermare l’attenzione di Pedretti, se non il rilievo generico dell’esistenza di una strada. L’indicazione che segnala l’esigenza “simbolica” di Leonardo invece si perde per strada, ma in certo senso viene ripresa nella stessa monografia, firmata da Pietro C. Marani. Lo stesso Marani viene dunque a parlare del paesaggio retrostante nel contesto obbligato dell’identificazione del personaggio “Gioconda”. Anche qui saremo larghi nella citazione in quanto a nostro avviso riassume in modo esemplare la massima parte delle idee che gli specialisti hanno espresso al riguardo. Ed ecco che cosa scrive:

“… Se questa è la lettura più corretta del dipinto, così da elevare monna Lisa del Giocondo al rango delle donne aristocratiche e più virtuose della Firenze di primo Cinquecento (il ritratto, dunque, visto come strumento di “escalation” sociale), importanza relativa avranno i vari tentativi di identificare con specifiche realtà morfologiche e geografiche il paesaggio qui raffigurato a destra (tra le proposte più recenti, la Valle dell’Arno vicino ad Arezzo, con il ponte di Buriano), che acquista valore

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DPoiché rivestono un’importanza notevole nel nostro studio abbiamo accluso in appendice una descrizione approfondita dei calanchi del Val d’Arno.

7 D “Leonardo, La Gioconda” di Pietro C. Marani, Giunti, Art Dossier, Firenze 2003, con la collaborazione di Carlo Pedretti per la sezione dedicata al paesaggio: “Gioconda in volo” pp. 6-7.

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puramente rafforzativo della virtù del soggetto principale, anche in accordo con la graduale trasformazione, perseguita in quasi un decennio, del ritratto da individuale a ritratto ideale di donna virtuosa (sarebbe ben strano infatti che, di contro all’idealizzazione del soggetto, Leonardo si fosse attenuto a un “ritratto di paesaggio” puramente illustrativo di un luogo specifico, soprattutto se si tiene conto del fatto che i due paesaggi, a destra e a sinistra della dama, sembrano non correlarsi tra loro, avendo essi un diverso orizzonte e collocandosi sue due piani diversi, come due metà separate). Leonardo potrebbe dunque, veramente, aver riutilizzato due schizzi di paesaggio eseguiti in precedenza, l’uno, quello di sinistra, forse relativo a un paesaggio lombardo (della Valtellina, come è stato suggerito), l’altro, a destra, riproducente un paesaggio aretino. E anche il ponte , sulla destra, può valere come elemento di raccordo tra il passato, o il presente, e il futuro, sottolineando il valore intramontabile della virtù. Che questo fosse percepito come il significato reale del dipinto anche anticamente, è confermato dal ricordo di Padre Dan che, vedendo la Gioconda a Fontainebleau nel 1642, la definisce il «ritratto di una virtuosa Dama Italiana, e non d’una Cortigiana (come qualcuno crede), chiamata Monna Lisa, volgarmente detta Gioconda»8”.

Riassumendo le idee espresse diremmo che per Marani: A) il paesaggio ha connotazioni simboliche perché in qualche modo partecipa della dignità, del rango, del personaggio raffigurato: tra queste la più evidente è quella costituita dal “ponte”; B) questa idea è rafforzata dal fatto che i paesaggi non sembrano correlarsi tra loro: “diversi orizzonti”, “due piani diversi, “metà separate” e in certo senso si conferma un enigma, forse simbolico.

Più o meno tutti gli interpreti insistono sulla fantasiosità del paesaggio. In genere si traggono argomenti dal genio insondabile di Leonardo e si attribuisce tale disinvoltura figurativa alle sue ricerche naturalistiche, alla sua pioneristica filosofia naturale, che introduce le “trasformazioni” e dunque l’“evoluzione” nella natura; tuttavia non si riescono a dipanare le incongruità che esso presenta e si finisce col dire ingenerosamente, per un quadro su cui Leonardo “ha penato” per più di un decennio, che potrebbe avere usato vecchi disegni … E non si può non rilevare che nelle descrizioni analitiche sia del Pedretti che del Marani nessuno dei due si pronuncia sullo specchio d’acqua che circonda le vette che spiccano sulla destra del paesaggio. D’altra parte, dobbiamo dire per equanimità, questo specchio d’acqua è identificabile con sicurezza solo se si osservano le copie della Gioconda, con l’occhio attento a quel trattino invisibile, che come vedremo, come un tassello dimenticato, riporta ad unità lo sfondo paesaggistico del quadro. Infatti, compiendo audacemente qualche passo in più, si finisce per intuire che le imponenti formazioni dei calanchi valdarnesi9, ricordate dal Pedretti e dal Marani, per loro natura molto friabili, formano come una specie di altopiano contenitivo di dette acque, che in antico ospitavano un lago10. Non basta; solo a partire dalla considerazione di questo ulteriore e ignorato pezzo di paesaggio è possibile ricostruire con una certa sicurezza il significato del quadro.

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D Pietro Marani, “Leonardo, La Gioconda”, Giunti, Art Dossier, Firenze 2003, pp. 32-33.

9 D Di cui si offrono nell’ appendice n° 1 alcune illustrazioni fotografiche.

10 D Vedi sempre l’Appendice n°1 che descrive la storia geologica dei Calanchi Valdarnesi e dà certamente fondamento all’idea che Leonardo, profondo conoscitore dei luoghi, come affermano gli specialisti ricordati da Pedretti, si sia ispirato ad essi.

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Ripartiamo dunque dalla lineetta orizzontale che taglia trasversalmente le rocce vicino alla cornice del quadro. Se si prolungasse verso destra nel senso della sua orizzontalità passando appena al disotto della linea delle palpebre inferiori del volto si ricongiungerebbe esattamente con la linea delle acque alla destra della figura, le quali formano il lago che circonda le vette rocciose. Ebbene questo esercizio che apparirebbe un poco azzardato se lo si volesse sovraccaricare di significati, viene appunto confermato nella sua legittimità proprio dalla fortunata esistenza delle copie. Quei lembi di quadro che sono stati asportati a destra e sinistra contenevano appunto la possibilità di intendere la coerenza del paesaggio superando così la sensazione scomoda ed enigmatica che la Gioconda si affacci contemporaneamente su due mondi diversi. Nelle copie appare evidente che quel bordo dell’altipiano che conteneva le acque, a sinistra della Gioconda, è semplicemente franato, in conseguenza dell’erosione delle pareti delle balze.

Originale

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Copia del Prado

Ma è franata solo una parte dell’altipiano e non tutto lo scenario alpino con le montagne alte sullo sfondo, che all’estremo limite dell’orizzonte era comune a entrambi i lati del quadro. E ciò si può vedere bene solo nelle copie. Sul lato sinistro dove nella Gioconda non si vede più nulla, se non quella lineetta orizzontale evanescente, si prolunga il lago e sullo sfondo compaiono le vette di montagna, analoghe a quelle che si vedono a destra. Tutto ciò non è senza importanza, al contrario: è proprio da qui che bisogna partire per decifrare l’intero quadro.

ZITTI! IL PAESAGGIO SUSSURRA ALL’UOMO

Infatti la suddetta ipotesi permette di chiederci: le acque che si sono fermate a comporre un lago di acque più o meno stagnanti (a sinistra per chi guarda il quadro), c’erano prima che avvenisse la frana? È lecito supporre di no. Ma è lecito formulare questa domanda o è semplicemente un esercizio cervellotico? Rispondiamo nettamente: sì, è lecito. Gli artisti del Rinascimento tentarono in ogni modo di svincolarsi dalla staticità del qui ed ora intemporale, caratteristici dell’arte simbolica, evocatrice di significati sacri, di verità eterne, che induce l’osservatore a ripercorrere con la mente, in modo contemplativo, l’avventura del pensiero che vi è racchiusa in potenza. L’arte moderna la svolge sotto i nostri occhi, la fa trascrescere, la descrive. Ma l’immagine figurativa rimane nondimeno statica a differenza dell’illusione cinematografica che può moltiplicare all’infinito i fotogrammi. Per riprodurre al meglio il dinamismo della vita, e la storicità degli eventi, che col Rinascimento si affacciava nuovamente alla considerazione degli uomini, essi introdussero quindi il tempo, il prima e il dopo, sia pure ravvicinati, all’interno della concezione artistica di un evento, facendolo entrare così nella dimensione del racconto. Forse, l’illustrazione più pregnante di questo trapasso ideologico e sociologico, scaturita dall’esame di un’opera d’arte, la dobbiamo proprio a Freud, quale semplice conoscitore d’arte. In un esercizio non psicoanalitico, descrisse

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passo passo l’idea animatrice del Mosè di Michelangelo11. Ma era un trapasso già compiuto nel modo più chiaro da Leonardo stesso nella concezione della sua Ultima Cena. Infatti egli coglie le reazioni degli apostoli DOPO che Gesù ha pronunciato la fatidica frase: “Qualcuno di voi mi tradirà!”. L’agitazione degli apostoli, la postura e la gestualità di ognuno rispecchia fedelmente il proprio intimo carattere e trova la sua giustificazione solo dopo aver chiarito l’evento che si è prodotto un attimo prima, che è alla base di tutta la concezione della scena. Se Leonardo avesse concepito la Cena come molti artisti suoi coevi, avrebbe dipinto un Gesù attivo, che parla e gesticola, e gli apostoli, statici, che ascoltano compunti. Michelangelo improntò ogni dettaglio del suo Mosé a partire della lotta interiore che egli sostenne DOPO aver visto gli Ebrei adorare il vitello d’oro; metodo compositivo che spiega in parte il segreto dinamismo delle opere michelangiolesche. Ma vediamo di esplicitare meglio.

Dipingere un uomo seduto o un uomo in piedi, non presenta particolari difficoltà. Più facile ancora per chi guarda, riconoscere se un uomo è seduto o è in piedi. Se per ragioni artistico-filosofiche invece della stasi, un artista opta per il dinamismo e sceglie di rappresentare un’azione non ancora compiuta o in via di compimento, molto più ardua diventa l’interpretazione. Un Re o un profeta come Mosè, carico di responsabilità schiaccianti, rimugina di rivelare volontà divine o ha appena finito di profferire cose tremende? Nel suo animo ribollono ancora gli elementi che devono trovare espressione sulle sue labbra oppure il petto si è già placato e nel suo portamento residuano soltanto i segni della tempesta? Il profeta viene colto mentre si sta sedendo o mentre si sta alzando: è al principio o alla fine dell’azione? In un dipinto, il contesto, aiuta. Se si tratta di una scultura molto meno: spesso il contesto non c’è, il solo personaggio lo deve evocare. Chi ci dirà la direzione del suo movimento? Chi spiegherà che cosa sta succedendo? Qui soccorre l’esame minuzioso dei dettagli e qui s’inserisce il lavoro del critico. E’ ovvio che non sarà un artista di secondo rango a scegliere una situazione così carica di ambiguità. Possono sceglierla un Michelangelo o un Leonardo, perché questa ambiguità è la sola che consenta una pluralità di significati (che talvolta olezzano di eresia) consegnati a quell’ambiente o a quella élite che li può recepire, sa come goderli e tutto sommato che cosa farsene. Fosse pure la semplice conservazione. Stiamo infatti parlando di opere e di artisti consegnati all’eternità.

Ripetiamo dunque il nostro interrogativo: le acque stagnanti a sinistra della Gioconda c’erano prima che avvenisse la supposta frana dei calanchi?

Dando quindi per ammesso che è lecito porsi il quesito esaminiamo quindi se l’eventuale risposta si rivela effettivamente fruttuosa: supponendo che non si fosse verificata la frana quale aspetto assumerebbe il paesaggio? A questo punto le acque ritornerebbero là da dove sono partite, e cioè dalla sommità delle alture dell’altipiano. E che cosa mostrerebbero d’interessante al loro posto? Dobbiamo ripetere lo sforzo che fece il regista Cecil de Mille quando ideò la scena della separazione delle acque del Mar Rosso per lasciare il passo a Mosè e al suo popolo. Il regista le divaricò fino a lasciar scoperti i fondali del mare dove i viandanti s’incamminarono restando così coi piedi all’asciutto. Leonardo non ci lascia soli in questa impresa immaginifica poiché queste acque non hanno invaso l’intero paesaggio che circonda il lato sinistro della Gioconda. Possiamo osservare infatti che all’altezza della sua spalla sinistra c’è un monte di pietra grigia, in tutto e per tutto uguale per forma a quello che sta alla destra del quadro (l’altro lato “differente” e “opposto” di paesaggio), ma solo un poco più grande, perché più vicino

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D Dimostrazione che ha irritato gli specialisti, ma non il De Tolnay, un gigante della critica d’arte che, anzi, ha fatto proprie le sue osservazioni.

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a chi guarda12, che né il Pedretti, né il Marani hanno trovato degno di menzione. Poi dalla punta dello stagno si diparte una strada a forma di S rovesciata che finisce all’altezza del braccio della Gioconda e prosegue presumibilmente dietro le spalle. Nella sua seconda ansa la strada si sdoppia e sembra correre su due argini. La resa pittorica non chiarisce molto bene ciò che Leonardo ha rappresentato, ma siccome l’ambiguità non è mai casuale in Leonardo, altrimenti non esisterebbe un “enigma Gioconda” si deve tentare di esplicitare il più possibile che cosa rappresenti questa “strada”. L’impressione che ne abbiamo è che questo tracciato sinuoso vicino al monte, sia, in realtà, il letto di un torrente o di un fiume, il quale proseguendo il suo corso si trovi imbrigliato tra gli argini13 che costituiscono la seconda ansa della “strada”, che si perde dietro la schiena di Monna Lisa. Ma non è lecito supporre che, prima della frana e l’invasione delle acque, questo corso sinuoso, proseguisse anche in senso opposto, in direzione dell’orizzonte, come il suo omologo di destra e come suggerisce la similarità dell’immagine curvilinea? Infatti l’identità dei due monti, ci induce a ipotizzare una sostanziale specularità, così come la “sinuosità” di entrambi i tracciati, strada o fiume a secco che siano. A sorprenderci per un momento, mentre stiamo soppesando questa ipotesi, chini con la lente vicino al petto della Gioconda, lampeggia il sorriso ironico di un volto che ci osserva … . Sotto incantesimo, che dura poco più di un attimo, ci sentiamo di formulare il sospetto che i paesaggi non siano correlati tra loro non perché siano diversi e opposti, ma perché sono identici, cioè erano identici, ed è questo che definisce la loro fondamentale separatezza e discontinuità in un dipinto realistico; che invece appartiene ad una simmetria figurativa esclusivamente simbolica. Sono dunque identici, anzi erano identici prima del crollo, sebbene quello di sinistra soffra di un leggero décalage (uno scarto, uno spostamento in basso) dell’uno rispetto all’altro, proprio per indicare, diremmo, in modo sub liminale, l’idea del cedimento, della frana, della Caduta. E dettaglio più sottile, che lasciamo alla discrezione del lettore di prendere in considerazione: se realmente Leonardo ha voluto suggerire l’antico letto di un torrente ora interrotto dallo sbarramento dei materiali di riporto generati dalla frana, e ormai prosciugato, non si può forse coglierne l’intenzione nelle pennellate da miniaturista14 che lambiscono la roccia della prima ansa della strada15 come i residui fangosi e ormai secchi di un’antica limacciosa acqua scorrente?

PARENTI SERPENTI.

Comunque sia: tracciato di sentiero, di strada, di torrente o di fiume: che cosa otteniamo dall’osservazione dei soli caratteri formali, superficiali, geometrici del quadro? Se lo traducessimo cioè, in un semplice disegno? Avremmo sia a destra che a sinistra gli stessi elementi: monti pressoché identici, salvo che per le dimensioni e soprattutto due tracciati sinuosi paralleli all’asse centrale del quadro, rappresentato da Monna Lisa, che è inserita in una struttura geometrica a forma di triangolo, in cui la verticale, l’altezza del

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D C’è qui una evidente dissimmetria che cercheremo di chiarire strada facendo.

13 D Ci sembra di poter dire “argini” in quanto il sentiero pittoricamente si sdoppia in due pennellate più chiare.

14 D Poiché Leonardo era anche un “miniaturista” di paesaggi, basti osservare l’Annunciazione.

15 D Quella che sta più in alto.

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triangolo, funge da asse centrale di tutta la composizione16. Riflettiamo: che cosa possono voler dire due tracciati sinuosi disposti parallelamente uno all’altro e disposti in modo verticale? Non ricordano forse per analogia il Caduceo di Ermete? Il Caduceo, emblema di Hermes (Mercurio) è una bacchetta intorno alla quale si arrotolano in senso inverso due serpenti. Nella Gioconda si trovano separati ma affiancati all’Asse centrale del quadro. Come si vede nella figura sottostante la loro immagine è perfettamente simmetrica.

Che cosa sappiamo del Caduceo di Ermes? Rivolgiamoci ad una fonte profana: il Dizionario dei Simboli di Jean Chevalier e Alain Gheerbrant tradotto e edito in Italia da Rizzoli. “Il Caduceo – vi si dice – è uno dei simboli più antichi (…). Il serpente ha un doppio aspetto simbolico – benefico o malefico – di cui il caduceo rappresenta l’equilibrio; questo equilibrio e questa polarità sono riferiti soprattutto alle correnti cosmiche, raffigurate in modo più generale dalla doppia spirale. “Mercurio” dice San Martino, “mantiene l’equilibrio tra l’acqua e il fuoco”; si tratta anche dell’equilibrio, dice Nicolas Flamel “del Mercurio e dello Zolfo alchimistici”. La leggenda del caduceo si riferisce chiaramente al caos primordiale (due serpenti che si combattono) e alla sua polarizzazione (separazione dei serpenti da parte di Hermes); quanto all’arrotolamento finale intorno alla bacchetta, esso rappresenta l’equilibrio delle tendenze contrarie intorno all’asse del mondo, giustificando quindi la definizione del caduceo quale simbolo di pace. Hermes è il messaggero degli dei e anche la guida degli esseri nei cambiamenti di stato, cosa che ben corrisponde, come osserva Guénon, al senso “ascendente” e quello “discendente” delle direzioni raffigurate dai due serpenti17.

Questo brano è ricco d’implicazioni. Esso contiene in sé una sorta di storia del mondo, di una filosofia naturale della Creazione: rinvia al Caos primordiale. Un raggiunto

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D La forma del triangolo non è casuale, rientro nello spirito geometrizzante di tutta la pittura del suo tempo, a far data dalla invenzione della prospettiva. E’ stata usata da Leonardo nel modo più espressivo e spericolato in un quadro quasi altrettanto famoso: “Sant’Anna, la Vergine e il Bambino” del Louvre.

17 D Dizionario dei Simboli di Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Rizzoli, 1986, p.166.

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equilibrio che deriva da una polarità (tendenze contrarie), una polarità costituita da un senso ascendente ed un senso discendente intorno ad un asse.

Torniamo al nostro quadro. Abbiamo visto che a sinistra possiamo ragionevolmente supporre rappresentato l’esito di una frana dell’altopiano: ciò ci consentirebbe di considerare provvisoriamente tale frana una metafora del piano discendente; a destra, per contro, che cosa avremmo a significare il piano ascendente che completerebbe e ci confermerebbe nella nostra supposizione? Il ponte? Marani che abbiamo citato diffusamente parla effettivamente del ponte come componente simbolica del quadro18. Ma vi è di più. Affidiamoci nuovamente al nostro Dizionario, vera miniera di Sapere delle Tradizioni più ancestrali. “Il simbolismo del ponte19 – vi si dice - che permette di passare da una riva all’altra è uno dei più universali. E’ il passaggio dalla terra al cielo, dallo stato umano allo stato sovrumano; dalla contingenza all’immortalità, dal mondo sensibile al mondo sovrasensibile (Guénon). Molte leggende dell’Europa orientale parlano di ponti di metallo attraversati a cavallo: Lancillotto traversa un ponte-spada il ponte Chinvat, il divisore della tradizione iraniana, è un passaggio difficile, largo per i giusti, “stretto come una lama di rasoio per gli empi”: questi ponti stretti o taglienti sono talvolta ridotti a fragili liane. L’antico Oriente, la Visione di San Paolo, le Upanishad, parlano di simboli analoghi. (…) E’ interessante notare che il titolo di Pontefice, che fu quello dell’imperatore romano e che permane oggi al Papa, significa costruttore di ponti. Il Pontefice è ad un tempo costruttore e ponte, essendo un mediatore tra cielo e terra. (…) “Che chiunque è capo sia ponte”. (…) [E’ un aforisma che (NdR)] si ritrova anche in bocca a Re Artù il quale, in quanto re, era l’intermediario perfetto, dunque il ponte fra cielo e terra”.

Ci sentiamo dunque confermati nel ritenere che il ponte, rappresentante anch’esso del simbolismo della Tradizione iniziatica, sia una valida conferma del senso ascensionale che verrebbe rappresentato a destra della Gioconda e che culminerebbe a questo punto con le vette delle montagne giovani e innevate che emergono all’estremo limite dell’orizzonte. Dunque il simbolismo ermetico del Caduceo verrebbe confermato sicuramente per la sua metà di destra, nella sua valenza ascensionale. Potremmo chiedere un ulteriore conforto simbolico alla metafora del piano discendente rappresentato dal supposto crollo fisico, dove campeggia l’esito acquatico della frana dei calanchi valdarnesi? Sì. I contenitori simbolici, dove, in antico, si effettuava l’accumulazione del sapere ci offrono il tema delle “Acque superiori e delle acque inferiori”: già nella sola enunciazione pare rivelare la sua pertinenza. Vediamo infatti nel dipinto due specchi d’acqua collocati su due diversi piani rispettivamente superiore e inferiore, separati ancora dall’asse centrale dell’immagine dove destra e sinistra, hanno simbolicamente la loro valenza. Il solito dizionario ne darà contezza: “I significati simbolici dell’acqua si possono ridurre a tre temi fondamentali: sorgente di vita, mezzo di purificazione, centro di rigenerazione. (…) . Le acque, che rappresentano la totalità delle possibili manifestazioni, si separano in acque superiori, che corrispondono alle possibilità informi, e in acque inferiori, che corrispondono alle possibilità formali (…). La nozione di acque primordiali, di oceano delle origini, è quasi universale (…). Nelle tradizioni ebraica e cristiana l’acqua simboleggia innanzitutto l’origine della creazione. La lettera men (M) ebraica simboleggia l’acqua sensibile, madre e matrice, fonte di tutte le cose, essa manifesta il trascendente e deve perciò essere considerata una ierofania, una manifestazione del sacro. Tuttavia, come avviene per ogni simbolo, l’acqua

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D Vedi più sopra.

19 D Dizionario dei Simboli, p. 238.

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presenta anche un’ambivalenza totale e a tutti i livelli, come del resto avviene per tutti i simboli. E’ fonte di vita e fonte di morte, creatrice e distruttrice.20.

Come i serpenti avvinghiati, separati da Ermete, rappresentano il Caos primordiale, e poi attorcigliati attorno al bastone, la raggiunta armonia, così le acque primordiali corrispondono al caos della “totalità delle possibili manifestazioni” le quali separate e riordinate si suddividono in ‘acque superiori’ che contengono le idee (“le possibilità informi”), e in ‘acque inferiori’ che generano i frutti, le manifestazioni (formali21), componendo così l’armonia pulsante del creato ermetico. Al centro la Mater, la grande e nobile Signora, madre e matrice, garantisce la circolarità del trapasso dalle idee, dai semi, ai frutti (movimento discendente), dai frutti ai semi (movimento ascendente). Una circolarità che nel Caduceo è raffigurata nell’Asse attorno al quale si genera il nuovo equilibrio a partire dal viluppo dei serpenti. Abbiamo rilevato come i soggetti naturali, i serpenti, i due specchi d’acqua, rimandino alla simbologia ermetica del Caduceo e delle “acque primordiali”, ai quali spetta di illustrare la tensione esistente tra ogni polarità. Ed invero la concezione di un universo strutturato per polarità costituisce il principio ordinatore di quel Sapere antico che prende il nome di Tradizione. Una tensione che a seconda della prospettiva adottata può apparire sia oppositiva che complementare, ma mai totalmente irriducibile. Così da un massimo ad un minimo di armonia possiamo pur sempre rinvenire una “circolarità”, il ritmo vivente e pulsante, ora strozzato ora scorrente, del Tutto.

Ciò richiama evidentemente la formula celeberrima della filosofia ermetica, che ha per essa il valore di un assioma: “Ciò che sta in basso è come ciò che sta in alto”. Formula che si completa con un enunciato che evoca il rapporto tra microcosmo e macrocosmo, quando per microcosmo s’intende l’uomo, e per macrocosmo, l’universo22.

Marsilio Ficino, filosofo, sacerdote e medico, ai tempi di Lorenzo il Magnifico, procedendo al ripensamento di tutta l’eredità filosofica antica, diede particolare significato e rilievo alla tradizione ermetica. Ripensamento che si proponeva il non facile compito di sintetizzare non meno di tre filoni di pensiero: quello cristiano, quello greco fino ai filosofi neoplatonici del III – IV secolo dopo Cristo e la Sapienza Ermetica, il cui profeta, Ermete Trismegisto, era un sapiente egizio.

FILOSOFIA D’EGITTO

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D Dizionario dei Simboli, p. 6.

21 D In questo contesto “formali” sta per “reali”, in quanto ciò che assume forma trapassa dal piano invisibile, virtuale, dell’idea, del seme, alla forma visibile, e quindi reale e concreta, per es. della pianta.

22 D Celebre è a questo riguardo l’incipit del Manifesto di Pico: l’ “Orazione sulla dignità dell’uomo”.

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Come filosofo Ficino si espresse soprattutto nelle opere “Della cristiana religione”, “Teologia platonica”, e i “Libri de Vita” oltre che in vari commentari a Platone e a Plotino. Nel suo pensiero riconosciuto unanimemente come una forma di neoplatonismo cristianizzato, si possono isolare come concetti cardine: a) un nuovo concetto di filosofia come “rivelazione”; b) il concetto di anima come “copula mundi”; c) una rilettura in senso cristiano dell’ “amor platonico”; d) una difesa della “magia naturale”, consegnata nel trattato i “Libri de vita”, che gli valse l’accusa di eretico.

Ermete Trismegisto sosteneva che la filosofia nasce come “illuminazione” della mente. Ciò costituisce il punto di incontro più saldo tra filosofia e religione. L’attività filosofica consiste nel disporre e il piegare l’anima in modo che diventi intelletto e accolga la luce della divina rivelazione, e perciò coincide con la stessa religione. Filosofia e religione sono ispirazione e iniziazione ai sacri misteri del vero. Ermete Trismegisto, Orfeo, Zoroastro, sono stati ugualmente “illuminati” da questa luce, e sono, quindi, profeti. Pertanto, la loro opera è un messaggio sacerdotale, proteso alla divulgazione del vero. Il fatto che questi “prischi teologi” abbiano potuto cogliere una medesima verità (cui attinsero, successivamente, Pitagora e Platone), secondo Ficino, si spiega in funzione del Logos, ossia del Verbo divino (di cui Ermete Trismegisto addirittura parla espressamente), che è uguale per tutti. La venuta di Cristo, il farsi carne del Verbo, segna il completamento di questa rivelazione. Pertanto, Ermete, Orfeo, Zoroastro, Pitagora, Platone (e i platonici) potevano perfettamente accordarsi con la dottrina cristiana, in quanto derivanti da un’unica fonte: il divino Logos.

Ficino concepisce la struttura metafisica della realtà, secondo lo schema neoplatonico, come una successione decrescente di gradi di perfezione, che egli identifica nei seguenti cinque: Dio, angelo, anima, qualità e materia. Ora, i primi due gradi e gli ultimi due sono nettamente distinti fra loro, come mondo intelligibile e mondo fisico. L’anima rappresenta il “nodo di congiunzione”, che ha le caratteristiche del mondo superiore e, insieme, è capace di vivificare quello inferiore.

Ficino ammette un’anima del mondo, anime delle sfere celesti e anime degli esseri viventi, ma è soprattutto all’anima razionale dell’uomo che egli rivolge il suo interesse. Il posto mediano dell’anima è terzo, sia percorrendo i cinque gradi della gerarchia del reale dal basso verso l’alto, sia viceversa, come mostra questo schema:

1 ↓ DIO ↑ 5

2 ↓ CIELO (intelletto) ANGELO (idee/mente) ↑ 4

3 ↓ UOMO – ANIMA (copula mundi) ↑ 3

4 ↓ NATURA (ragioni) qualità (semi) ↑ 2

5 ↓ (corpi) MATERIA (forme) ↑ 1

In particolare, Ficino rileva l’importanza dell’anima con la sua funzione di “intermedio” (medium - mediatrice) di tutte le cose. Essa si inserisce fra i corpi sensibili, senza essere corporea né sensibile; è dominatrice dei corpi, ma aderisce al divino. E questo, dice Ficino, è il miracolo massimo della natura. Essa, in un certo senso, include in sé tutte le cose, perché ha in sé le immagini delle cose divine da cui tutte le altre dipendono, e costituisce il nesso che le collega, e quindi, essa è “il nodo e la copula del mondo”.

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Strettamente connessa alla tematica dell’anima è la teoria dell’ “amor platonico”, (o “amor socratico”), in cui l’Eros platonico (inteso da Platone come forza che, alla visione della bellezza, eleva l’uomo all’Assoluto, ridando all’anima le ali per ritornare alla sua patria celeste) si sposa all’amor cristiano. Nella sua più alta manifestazione, per Ficino, l’amore coincide con la reintegrazione dell’uomo empirico con l’uomo archetipico che giace nell’Intelletto di Dio, resa possibile attraverso la progressiva ascesa nella scala d’amore, che costituisce dunque una sorta di “indiamento”: un farsi eterno nell’Eterno. “Certamente – scrive Ficino nel Commentario al Convito – noi siamo qui divisi e tronchi: ma allora congiunti per Amore a la nostra Idea ritorneremo interi: in modo che apparirà, che noi abbiamo prima amato Dio nelle cose, per amare poi le cose in lui: e che noi onoriamo le cose in Dio, per reintegrare noi soprattutto: e amando Dio, abbiamo amato noi medesimi”. La teoria dell’ “amor platonico” ebbe larga diffusione in Italia23, dove il terreno era stato preparato dalla diffusione del “Dolce stil novo” e da Dante in particolare, di cui gli umanisti soprattutto furono attentissimi studiosi ed estimatori.

La rinascita di Ermete operata dal Ficino però in definitiva non faceva che dare una veste dotta e aggiornata nel suo ricercato e frondoso24 manto filosofico, ad un sapere ermetico antichissimo che veramente si può far risalire agli egizi, grandi costruttori, versati nella medicina e maestri di sapienza per tutti i popoli del Mediterraneo, Grecia e Roma compresi. Conservato e tramandato fino a tutto il Medioevo, era un sistema di idee espresso nei termini di un simbolismo artigianale come quello alchimistico e muratorio, vissuto soprattutto all’interno e all’ombra delle Corporazioni di mestieri. Storicamente, il suo emergere in forma palese a contendere il primato dell’ideologia religiosa del tempo, coincise con la rinascita dei Comuni, delle città in conseguenza della rinascita dei commerci, della produzione e delle arti. Una straripante rinascita economica che portò inevitabilmente ad una rivoluzione interna alle Corporazioni; una rivoluzione che oggi diremmo – strutturale e culturale - e da cui derivò anche la nascita di un nuovo ceto di intellettuali, legati altresì alle nuove funzioni amministrative e statuali di cui Comuni e Città, affrancandosi sempre più dalla Chiesa e dall’Impero, necessitavano.

Nel primo Umanesimo queste trasformazioni com’è noto, portarono ad una rivalutazione del lavoro terreno, trovando il suo coronamento nel lavoro degli artigiani e degli “artisti” impegnati a fare la “nostra” città. L’ideale di vita divenne la vita attiva e questa era “esaltata” da umanisti e dagli stessi uomini politici. Giannozzo Manetti25, cancelliere, celebrava lo splendore di Firenze come documento della nobiltà dell’uomo in questi termini: “le statue, le costruzioni del Brunellesco, i quadri, i poemi, i palazzi sontuosi, le attività mercantili, le grandi ricchezze, ecco le nostre opere. Nostre, e cioè umane perché fatte dagli uomini, sono tutte le cose che si vedono, tutte le case, i villaggi, le città, e tutte le costruzioni della terra … Sono nostre le pitture, nostre le sculture, le arti, le scienze; nostra la sapienza …; nostre tutte le infinite invenzioni, nostra opera tutti i linguaggi e le lettere26”. L’uomo assurgeva a microcosmo, spiritualmente, praticamente: creativamente.

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D Basti citare il Pico, il Bembo, il Castiglione, Leone Ebreo.

24 D Gli aggettivi sono del Garin.

25 D Eugenio Garin, Medioevo e Rinascimento, Laterza, Bari, 1973, p. 278.

26 D Ibidem. p. 144.

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Il Ficino, sentì l’esigenza di adattare questi orgogliosi proclami alle esigenze di una pia filosofia, ricercando una fruttuosa integrazione con la vita contemplativa, e trovava una sintesi nell’asserzione che la grandezza dell’uomo, di cui la magnifica Firenze era testimonianza, stava nella sua essenza divina, nel suo essere intimamente, sostanzialmente, un dio. Sarà, magari, un dio caduto, ma pur sempre un esule in terra, memore di una patria lontana, a cui deve tornare, a cui non può non tornare.

Questa valutazione dell’uomo sarà quella che troveremo costante, fuor d’esaltazione, ma palpitante, nei simboli ermetici.

Nel Caduceo, Ermete guida infatti gli esseri nei cambiamenti di stato. Le Acque, anch’esse, purificano, sono luogo di rigenerazione; il Ponte, favorisce il passaggio dallo stato umano allo stato sovrumano. E’ tutto un accordo di simboli che circondando la Gioconda irradiano dal suo volto il motto dell’oracolo: “Conosci te stesso”, cioè scopri la scintilla divina che è in te.

“Nel 400 – scrive il Garin – la nuova immagine dell’uomo acquista consapevolezza e dimensioni caratteristiche sotto il segno di Ermete Trismegisto, e si viene modellando sulle linee già decisamente fissate nei libri ermetici27”. La tesi del Ficino è quella, scrive ancora Garin: “di una perenne rivelazione del Verbo, del Logos, di una pia philosophia tramandata dai poeti antichissimi e dalla Bibbia, accolta da Pitagora e da Platone, approfondita da Plotino e dagli scritti attribuiti a Dionigi l’Areopagita. E’ questa appunto la teologia platonica, intesa come tipo esemplare di una docta religio, di una conoscenza di sé attraverso la conoscenza di Dio, e, viceversa, di una conoscenza di Dio attraverso la conoscenza di sé28”. Come spiegherà un poeta e filosofo ficiniano ed ermetico, Bernardino Lazzarelli, la felicità suprema, paradisiaca, che è lo scopo della nostra vita, è tutta nella conoscenza di sé come conoscenza di Dio, o meglio del Logos ritrovato in noi stessi, nella conversione di ogni nostro desiderio dall’esterno all’interno, per ottenere la quiete nella intima vita del Verbo vivente in noi.

Si tocca qui un luogo particolare, ma carico di importanza e di significati: il tema della “conversione”, senza affrontare il quale non è praticabile la “conoscenza di se stessi”. La “conversione” è l’inevitabile corollario concettuale dell’idea di un percorso umano che si percepisce e si descrive come una discesa e allontanamento da Dio, unito all’esigenza complementare di una successiva risalita verso Dio, essendo il punto di congiunzione obbligatorio dei due movimenti. Che è un luogo cardine di tutta la filosofia e di tutta l’esperienza umana, codificata o no dalla Filosofia, dalla Teologia, dalla Sapienza Ermetica o dal senso comune: poiché alla fatalità della Caduta si contrappone la necessità della Risalita: una necessità/libertà per chi tende alla propria salute o salvezza o mera felicità terrena. Oppure rigettando russoianamente la fatalità della Caduta e affermando coraggiosamente che l’uomo nasce libero, il problema rimane pur sempre quello di prospettare una liberazione, una risalita all’innocenza iniziale, poiché l’uomo si ritrova e persiste nel rimanere pur sempre in catene. Del problema della vera sostanza della libertà umana si tratta e di come raggiungerla: teologicamente, filosoficamente o politicamente.

SUPERSTIZIONE, FILOSOFIA O SCIENZA?

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D Ibidem. p. 144.

28 D E. Garin, L’umanesimo italiano, Laterza, Bari, 1978, p. 108.

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Vogliamo però fare una piccola sosta a beneficio della serenità del lettore, affinché continui a seguirci sia pure cautamente lungo il nostro itinerario, per dichiarargli che non intendiamo servire di soppiatto una inattesa e oscura immagine di Leonardo, tutto simbologia, magia e filosofia, a detrimento di quella che pare essere, ed è, una tra le sue glorie principali: quello di contendere il primato a Galileo, quale fondatore del metodo sperimentale. Il nostro proposito semmai andrà solo nella direzione di integrare l’idea che ci facciamo di questo artista universale con qualche elemento ulteriore.

Leonardo era, come ognuno, uomo del proprio tempo e non poteva non accogliere e assimilare l’eredità che gli veniva consegnata: solo così poteva utilizzarla, e saggiandola, criticarla. D’altra parte, che senso avrebbe ignorarla: sarebbe quanto meno irrispettoso nei confronti del suo conclamato genio. E sarebbe tanto più sciocco quanto più si credesse che il neoplatonismo ficiniano confliggesse con un approccio insieme pragmatico e metodico alla conoscenza. Per quanto curioso o strano possa apparire, ciò non risponderebbe affatto a verità. Lo ha evidenziato molto bene il Garin che osservava a questo riguardo: “Alla radice di gran parte della scienza del Rinascimento resta, sottinteso il presupposto, dal Ficino messo in chiara luce, di una corrispondenza perfetta fra mente umana e realtà attraverso la matematica, in cui si rispecchia esemplarmente il ritmo preciso con cui Dio ha creato l’universo (numero, pondere et mensura). Questo sottinteso pitagorico-platonico, di una specie di armonia prestabilita fra mondo e uomo, fondata sul platonico Dio geometrizzante, è comune così a Leonardo, “omo sanza lettere”, come a Galileo, nemico dei “trombetti” ripetitori dell’antico, ma dogmaticamente sicuro del fatto che Dio ha scritto l’universo in caratteri matematici29”. Porre uno iato incolmabile tra gli uomini dediti all’Arte, al Lavoro e alla Scienza, venuti prima o dopo Cartesio e Galileo, come pare acquisito sulle orme degli assidui cultori di filosofia della scienza, rispecchia, a nostro modo di vedere, una deformazione intellettualistica di stampo scolastico, che confonde la storia della scienza con l’escogitazione e la fondazione di dicotomie adatte solo alla celebrazione del metodo positivo. Tanto che, sinceramente, vorremmo chiedere a un rappresentante di costoro: vogliamo negare a un Brunelleschi e alle anonime maestranze che elevarono la Cupola del Duomo, sicure conoscenze sperimentali? una cupola considerata allora come oggi un miracolo d’arte e d’ingegneria! (E la stessa domanda varrebbe in riferimento ai costruttori degli acquedotti del mondo romano). L’imbroglio a cui soggiace l’esaltatore del metodo scientifico che storce il naso di fronte alla scienza antica intrisa di superstizione, consiste nel dimenticare che l’uomo è costretto ad acquisire conoscenze certe, sperimentali, perché, lo voglia o no, (detto marxianamente) è sottomesso alla produzione e riproduzione della sua esistenza. Ma la Metodologia in sé, che venne definita a posteriori, e cioè da Galileo in poi, anche se ha impresso al processo conoscitivo una velocità mai vista prima, non vale come criterio assoluto di giudizio per decidere della consistenza delle conoscenze, del sapere accumulato nei millenni, tradotto e conservato in forme più o meno ingenue per essere tramandato.

La riproducibilità delle conoscenze prima di essere garantita e certificata e omologata dagli alambicchi e dalle provette di laboratorio è garantita dal lavoro e dalla tecnologia del lavoro che si è sviluppata in ogni Civiltà, ed ha la sua certificazione inequivocabile nei suoi monumenti30.

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D Ibidem, p. 212. 30

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Ma d’altra parte, questa Metodologia formatasi in parallelo con l’evoluzione delle scienze fisico-matematiche nella costruzione di un universo meccanico, va fiera tutt’ora di aver respinto, escluso e spezzato irrimediabilmente le “scienze dello spirito31” dalle “scienze della natura”. Un parto, una soluzione della modernità che ha lacerato il mondo del Sapere umano in due campi contrapposti e irriducibili e perciò disumanizzanti, che hanno il loro oggettivo rispecchiamento nella scienza utilitaristica e nelle ideologia religiosa: cioè uno scadimento della spiritualità, da un lato a superstizione volta all’imbonimento del volgo; dall’altro a etica (protestante) del lavoro matrice della lupa capitalistica: una creatura cui si opposero fino alla morte Giordano Bruno, Tommaso Campanella e altri molti, e di cui l’oggi può valutare appieno la parabola e la bellezza.

CONVERGERE VERSO L’ANIMA DEL MONDO:

luce, bellezza, amore, gioia …

Ritorniamo dunque ai misteri di quella filosofia che fu anche quella di Leonardo, questo lavoratore infaticabile dedito alla scienza, alla tecnologia, all’arte, ai sogni e alla bellezza, di cui la Gioconda è una simbolica traduzione.

Parafrasando Ficino32, conoscere, e quindi ascendere alla luce di Dio, è vedere ogni aspetto della realtà come momento, o tappa, grado, dell’unitaria serie del tutto; risalire dal raggio al centro, secondo l’antica immagine; cogliere nelle cose l’insufficienza loro per giungere così alla divina sufficienza. Poiché ogni grado dell’essere è “specchio” di Dio; ma ogni grado, se vi si sosta, ci si dimostra imperfetto e ci rimanda ad altro: le cose a noi stessi, noi stessi a Dio. Unità e gradualità del tutto sono temi in Ficino strettamente congiunti, e formano la base di quella visione dei vari simboli , aspetti o specchi della divinità. D’altra parte i singoli gradi della serie delle cose si dispongono secondo una convergenza verso l’Unità piena, partendo dalla corporeità, come quantità pura per procedere, attraverso la qualità, l’anima, l’angelo, fino a Dio. Convergenza, conversione, verso l’Unità, che sola spiega la struttura del mondo, articolato in un ritmo musicale pulsante mediante allontanamento e avvicinamento. Siccome l’unità numerica è dovunque presente in tutti i numeri, e il punto in tutte le linee, così anche quella divina Unità, rimanendo in sé indivisibile, è ugualmente presente dovunque a tutti gli spiriti e a tutti i corpi, e ugualmente lega e connette l’universo. E perciò stesso tutte le cose in una mutua convenienza convergono a un unico fine, essendo guidate da un solo principio. E come tutti i corpi si possono ricondurre a un solo sommo corpo che tutti li muove, così tutti gli spiriti a un solo supremo spirito che tutto abbraccia, e che i corpi vivifica e guida mediante spiriti a sé soggetti. “Simile a Dio”, unificante cioè, ma non unità raggiunta, è l’anima, la quale ha veramente questa funzione: di collegare, di restituire. Posto Dio al di là, l’anima sola può esser partecipe, per l’ambigua sua costituzione, dei termini estremi

D Tale certificazione verrebbe meno, se, per esempio, case, templi, palazzi delle civiltà appartenenti all’Evo antico e all’Evo Medio rischiassero di crollare in ogni momento e senza preavviso al suolo, come accadde alle costruzioni dell’architetto Numerobis di Alessandria d’Egitto, durante la visita dei galli armoricani, ai tempi di Asterix e Cleopatra.

31 D Così vennero chiamate almeno dai tempi di Max Weber.

32 D Con la guida di Eugenio Garin …

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della realtà, connettendo ciò che più è simile a Dio, come l’angelico spirito puro, a ciò che ne è più lontano, come la materia elementare.

Grazie all’onnipresenza dell’Anima Mundi sia nel macrocosmo stellare e terreno che nel microcosmo umano, come anima tout court, può attuarsi la conversione umana, la quale dalla esteriorità visiva, conoscitiva, impigliata nei limiti delle cose, andando al di là del limite, riorienta la volontà, per risalire alla sorgente. Ma la conversione, per attuarsi, ha bisogno di amore, di fede. Ora che cosa accende l’amore? la fede? la forza, l’energia che è in grado di dare un’altra direzione alla nostra volontà? E’ la bellezza! La bellezza riposta in ogni espressione elevata che si rifrange nella tripartizione dell’anima umana: il pensiero, la volontà, il sentimento: il Vero, il Buono, il Bello: la dialettica, l’amore, l’arte.

Alla luce di questa triade, Marco Vannini illustrando l’antico pensiero neoplatonico, spiega:

“La nostalgia dell’origine, la tensione verso l’Uno, l’esigenza di liberazione e di salvezza sono presenti – dice Plotino - sia in «coloro che dormono», sia in quella regione dormiente dell’uomo che noi oggi chiameremmo inconscio. Occorre però che l’anima ascolti questo richiamo, lo coltivi dentro di sé e dia uno spazio sempre maggiore a quelle attività che costituiscono le vere e proprie «vie del ritorno» all’Uno. Esse sono l’arte, l’amore, la dialettica. “L’arte è il momento in cui le cose si presentano come oggetto di contemplazione pura, disinteressata, priva della contaminazione con l’utile. Tutto il mondo sensibile è, in effetti, simbolo e messaggero del mondo intelligibile: artista è colui che sa decifrare il simbolo e intendere. Si tratta di vedere le cose non come meramente sottomesse alle leggi della natura e al criterio dell’interesse, ma come rivelazione del bello che nel sensibile si annuncia. Ancora in senso platonico, infatti, il bello è il manifestarsi sensibile dell’idea, dell’intelligibile puro. E siccome l’idea è riflesso dell’Uno e all’Uno rimanda, già la contemplazione del bello conduce verso l’essere, al di sopra del mondo delle apparenze. Anche l’amore, nel senso del Convito platonico, costituisce una «via del ritorno» all’Uno. Certamente esso inizia con il desiderio del bello sensibile, ma questo conduce l’anima sempre più in alto, dal desiderio del possesso alla contemplazione dell’idea: ciò avviene, per lo meno, se è amore grande e nobile. Se invece è volgare e inferiore, esso rischia di trascinare l’anima nel territorio oscuro del molteplice, ove si fatica a ritrovare la strada verso l’origine. Occorre perciò che l’amore, come l’arte, sia sempre diretto dalla vigile presenza della razionalità, che sola è in grado di elevarsi dal sensibile all’intelligibile, fino a riconoscerne l’unità organica. Da questo punto di vista la dialettica costituisce la scienza suprema e la «via del ritorno» per eccellenza. (…) Mediante la dialettica l’anima scioglie i legami temporali che la tengono avvinta alle cose terrene, elevandosi alla contemplazione dell’essere, dove non esiste più il tempo. Il tempo infatti non è altro che la dimensione dell’anima legata alle cose, e scompare appena essa se ne distacca: il presente è già l’eterno per l’intelletto, che è, appunto, senza tempo, eterno. Perciò la dialettica produce da un lato l’oblio, ossia attenua la memoria delle cose terrene, dall’altro risveglia l’anamnesi, ossia il ricordo della verità eterna, dell’origine e del fine del nostro cammino33”.

AL CENTRO DELL’ANIMA … fino alla giocondità

33

D Marco Vannini, Storia della mistica occidentale, Mondadori, 1999, p. 78.

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Forti di questa chiarificazione plotiniana, rifacciamoci ancora alla lettera del nostro Ficino. Lettera che non possiamo trascurare perché è espressione, come vedremo, che dà forma e contenuto ai simboli che allora suggestionarono le menti degli artisti. Constatiamo allora che la conversione consiste in una “crisi” per cui “la chiarità visiva (la bellezza) accende il caldo d’amore, e lo status diviene circuitus. “Mal d’occhi” è inizio d’amore, dice Ficino, quando l’oggetto cui noi ci volgiamo si fa di passivo attivo, e per la comune natura degli esseri risponde alla nostra azione con la sua azione, che è “un certo tiramento dell’una cosa all’altra per similitudine di natura”; come quando l’occhio dell’amante fisso in quello dell’amata ne è vinto, e il cacciatore diventa preda. Questo produce amore: ci riduce da attivi, o almeno apparentemente attivi, in passivi; in umili e devoti servi. “Il Sole volge inverso sé fiori e foglie: la Luna muove l’acqua, e Marte i venti … Così ciascuno è tirato dal suo piacere”. La nostra salute consiste, nel lasciarci vincere da Colui che è vera bellezza, e, divenuti suoi devoti, ritrovarci attraverso il dono totale di noi. E così, la passione, se si patisca l’azione del bene, di cui la bellezza è un riflesso, è veramente educazione dell’uomo, come quella che trae fuori (e-ducit) la sua divina sostanza. Perché l’oggetto amato, se è buono, trae a sé, trae al bene l’amante, e dall’amante, che patisce la sua azione, trae fuori quello che v’è di bene. Qui sta, secondo Ficino, la funzione educatrice dell’amore socratico, quando Socrate, saggio e buono, “fu da’ giovani assai più amato, che egli alcuno ne amasse”. Ostetrico egli era perché educava, e cioè traeva fuori; e “giocondamente”, facendosi amare. La via feconda è la via socratica. Socrate, amatore di Dio, si fece servo devoto di Dio, e, “commosso da carità di Patria”, fu, non l’amatore dei giovani, ma il suscitatore dell’amore loro, per trarli al bene, per trarne il bene, per educarli insomma, facendoli anch’essi, per tramite suo, servi di Dio nella giocondità d’amore.

A somiglianza di quel vero Amore che noi crediamo cercare e afferrare, laddove è lui che ci cerca, e ci si fa presente, e ci conquista; come Platone dice, alato perché dà le ali e fa volare34. L’amore che erompe nella passione dei sensi, e trascorrendo per gradi, si educa nella percezione di bellezze spirituali fino alla letizia d’amore intellettuale: la giocondità d’amore: quell’itinerario che va dal piacere dei sensi alla gioia dei sentimenti congiunti all’intelletto. “Come il Pico stesso dichiarerà in una lettera al Manuzio – scrive il Garin – perché cercare invano con l’intelletto quello che gioiosamente si può raggiungere d’un balzo con l’amore? Perché ripeterà in versi Lorenzo de’ Medici, restringere in noi Dio e non amando, «dilatarsi» in lui?35”.

Siamo giunti così ad un approdo del nostro percorso filosofico, con la ragionevole sicurezza che non si sia trattato soltanto di una dotta quanto superflua divagazione, poiché infatti, non è chi non veda, come, anche lessicalmente, Ficino ci abbia fornito l’indicazione di un contenuto filosofico, l’amore platonico, principio d’incarnazione del Logos, a fondamento del soggetto di Leonardo, da lui tradotto e travestito plasticamente in una figura muliebre. Ma questa indicazione “la giocondità”, alquanto perentoria e francamente insperata, suscita a sua volta ulteriori quesiti che vanno delucidati al fine di avvicinarci il più possibile, come direbbe il Bramly, a quella “prova incontestabile che ci indurrebbe ad accettarne la tesi”.

Il quesito inaggirabile che a nostro giudizio presentemente si affaccia è il seguente: perché l’amore socratico o l’amore platonico, sublime espressione microcosmica

34

D M. Ficino, Sopra lo Amore, Edizione ES, Milano, 1998,

35 DE. Garin, l’Umanesimo italiano, Laterza, Bari, 1978, pag. 124.

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dell’Anima Mundi, può ricevere una degna rappresentazione nell’immagine di una donna? Dobbiamo chiederci cioè quanto vi sia di arbitrario in questa rappresentazione dell’amore platonico, che evoca la manifestazione termica dell’incarnazione del Logos, nelle vesti di una donna. Una indicazione si affaccia subitamente poiché c’è stata suggerita in principio dal Bramly, il quale, distillando le riflessioni di schiere di studiosi, asserisce che questa dignitosa signora evocherebbe la figura di una “Madonna” di regale compostezza.

Ora, volendo dare il giusto credito ad un’intuizione così meditata, e memori del fatto che per il Ficino religione e filosofia coincidono, potrebbe forse trattarsi di una Madonna non semplicemente cristiana, ma di una Madonna “filosofica”? E’ questa ipotesi che andremo sul principio a sondare. Si fa avanti il solito Dante, molto amato sia da Leonardo che da Michelangelo, onnipresente e onnisciente, per fortuna, che ci ricorda di aver analizzato con spirito laico la suggestiva figura della Madonna cristiana, i cui attributi, sembrano avere una stretta parentela con le proteiformi risorse e risonanze dell’amore platonico.

UN FOLLE VOLO IN PARADISO

in compagnia di Bernardo. Sappiamo che ancora nel XXXIII canto del Paradiso, l’ultimo, dei cento canti della D.C., Dante si era tenuto in serbo un immodesto desiderio, alla cui soddisfazione aspirava per dare adeguata e felice conclusione al suo interminabile peregrinare: trovarsi a tu per tu con l’Eterno, con l’Uno, con il Bene, con il Logos, più volgarmente con Dio. E’ qui che interviene Bernardo di Chiaravalle, il prescelto da Dante per rendere possibile questo prodigio, a mezzo di un altro tramite: Maria. Bernardo può rivolgersi direttamente a Lei e impetrarne la grazia. In questo contesto mai ricorso alla preghiera fu più giustificato: un concentrato di teologia … platonica?

1 “Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio,

4 tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura.

7 Nel ventre tuo si raccese l’amore Per lo cui caldo ne l’eterna pace così è germinato questo fiore.

10 Qui se’ a noi meridiana face Di caritate, e giuso, intra i mortali, se’ di speranza fontana vivace.

13 Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia ed a te non ricorre, sua disianza vuol volar sanz’ali.

16 La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fiate liberamente al dimandar precorre.

19 In te misericordia, in te pietade, in te magnificenza, in te s’aduna

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quantunque in creatura è di bontade.

Rovistando in questi versi, tra i più amati e declamati della D.C., notiamo che la successione degli attributi di Maria riflette a un dipresso la fenomenologia dell’anima convertita e accesa d’ardore platonico, secondo quanto abbiamo esposto più sopra. Nel verso n. 3 ritroviamo a) la componente più elevata dell’anima che corrisponde alla “razionalità” e ciò nell’espressione: “termine fisso d’etterno consiglio”: il “consiglio” quale direttiva razionale impressa all’anima nella scelta delle azioni; b) ai versi n. 7 e n. 8 l’”amore” col suo caratteristico attributo di “calore” che riscalda la volontà; al verso n. 15 indirettamente la “fede”, in mancanza della quale il mero desiderio non acquista le ali d’amore; e poi: c) le diverse manifestazioni in cui si articola la “Grazia” discendendo sui mortali: la carità, la benignità, la misericordia, le quali rispecchiano però anche le virtù e i sentimenti acquisiti durante le tappe del cammino di coloro che ascendono; in virtù della “speranza” che “trabocca” come da una “fontana”, o che “emana” come da una meridiana face, cioè dal “sole”, (metafore tipicamente plotiniane) a stabilire ancora quella reciprocità circolare, dialettica, tra chi ama e chi è amato, e riama a sua volta quanto più è amato, perché solo nell’altro riconosce se stesso, nella misura in cui offre all’altro lo specchio amoroso di sé. Vediamo dunque che “amore platonico” – condizionamento operante del Logos - e Madonna, sembrano coincidere, quanto meno con una “madonna neoplatonica” se così si può dire. Ovvero per rimanere rigorosamente nel nostro assunto, almeno nella “Donna” in quanto aspetto femminile del Logos. Per sovrapporre Donna e Madonna filosofica più compiutamente, cerchiamo ancora dell’altro. Il verso n. 9 ci viene in soccorso, almeno così ci pare. In esso si parla della germinazione di un fiore un fiore molto particolare: si tratta della Rosa candida formata dai Beati. E’ un punto cruciale.

Qui, si afferma in modo inequivocabile, che la “Vergine Madre” non sarebbe osannata da Bernardo perché il ventre caldo, racceso d’amore, avrebbe generato, come potrebbe credere un mortale qualunque, il figlio di Dio! No, bensì … la rosa dei beati: cioè un accolta di assidui e ostinati scalatori, scarnificati e purificati fino ad una trasparenza diafana, tra i quali potrebbero degnamente comparire le barbe di Mosè ed Ermete Trismegisto, disposti a raggiera in un silenzio floreale; tutti coloro, cioè, che sempre più sensibili alla bellezza morale, hanno optato per la conversione e si sono dati la pena e la gioia di far scaturire il Logos nella loro anima.

E’ qui evidente che viene condiviso il concetto che sarà poi anche di Ficino e di Pico, che non solo una volta, nel Cristo, il Logos si è incarnato, ma si incarna tutte le volte che un uomo s’incammina dietro le orme del Giusto. E qui non possiamo non ricordare la posizione tipicamente ficiniana di una “perenne rivelazione del Verbo” che pare essere anche quella di Dante, della cui parentela filosofica col Ficino diremo più avanti. Ma tutto ciò non è invenzione né di Dante, né del Ficino.

Nel primo capitolo dedicato a “La generazione del Logos da Giovanni a Eckart” il Vannini, considerando le sistemazioni teologiche effettuate dai primi Padri della Chiesa scrive:

“Ancora Ippolito è il primo a parlare della nascita del Logos dal cuore della Chiesa, la quale assume così il ruolo che una volta è toccato alla Vergine Maria. Essa generò una volta il Verbo, ma la Chiesa lo genera continuamente. Nella storia della trasmissione del concetto della nascita del Logos nell’anima è importante notare come fin dall’inizio vi sia una duplice possibilità: sottolineare la generazione nella singola anima del fedele o piuttosto quella della Madre Chiesa. Le due possibilità non sono di per se stesse oppositive, in quanto è chiaro che la fede ha una dimensione ecclesiale,

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ovvero si trasmette nella comunità e grazie a essa, però l’accentuazione dell’una o dell’altra non è irrilevante. Nel primo caso infatti, quello preferito dalla cosiddetta mistica speculativa tedesca, si insiste sul fatto che il Logos si genera nell’anima in assenza di ogni mediazione (…), (e in questo senso, esso si è generato anche presso i pagani); mentre nel secondo caso, prediletto dalla Chiesa d’Oriente, l’elemento comunitario, ecclesiale, e poi anche liturgico-sacramentale, prende il sopravvento, dando luogo spesso a forme di esclusivismo e di intolleranza del tutto contrastanti con la dottrina stessa che viene sostenuta36”.

Entrambe le concezioni hanno una dignità antichissima ed è logico che, in relazione alla situazione di sostegno o di rivalità nei confronti della Chiesa, teologi e eretici laureati propugnino l’una o l’altra concezione, in aderenza ideologica alle spinte sociali che le condizioni storiche comportano.

D’altra parte, la designazione di “Vergine Madre” che compare nel primo verso della preghiera, che parrebbe giustificarsi in quanto mera e comoda eredità della tradizione religiosa cristiana, con la quale si indica la vicenda mitologica della Vergine Maria fecondata e resa madre dallo Spirito Santo, ha una valenza teologico-filosofica nonché allegorica molto pregnante, che esula dal dato storico, reale o irreale che sia. Il Vannini citando direttamente un Padre della Chiesa (Gregorio di Nissa) ci informa che: «Ciò che avvenne fisicamente nell’incorrotta Maria, quando la pienezza della divinità rifulse in Cristo attraverso la Vergine, si compie anche in ogni anima che vive verginalmente secondo il Logos» e con la consueta luminosa chiarezza, spiega: “E’ qui evidente la contrapposizione tra generazione fisica e verginità spirituale: (…) quest’ultima non è che il perfetto distacco, il vuoto assoluto che l’anima ha fatto di se stessa e in se stessa, rendendosi così disponibile alla vita divina. In questo senso ogni cristiano ripete la maternità della Vergine, permanendo vuoto e libero, perché in lui avvenga la nascita del Logos37”.

A questo punto possiamo ritornare al Bramly nel luogo in cui si prospetta il quesito dell’identità della Gioconda in rapporto alla destinazione del quadro, alla committenza: “Un altro aspetto da considerare è che Leonardo non si sarebbe mai disfatto del quadro in quanto non si tratta di un ritratto ma della rappresentazione di una creatura di sogno davanti ad un paesaggio fantasmatico, che egli avrebbe dipinto per sé solo, per puro piacere (per questo stavolta avrebbe fatto a meno di collaboratori), dandole un sorriso che secondo Freud gli ricorderebbe quello della madre, oltre a tutte le virtù e le qualità che si aspetta da una donna – dolcezza, comprensione, indulgenza, pazienza, costanza; allora, la Gioconda sarebbe il primo quadro al mondo assolutamente puro d’intenti38”.

Che ha la purezza di una Vergine Madre. Leonardo, quindi, ricapitolando, con un ragionamento dritto come una spada, ha rappresentato una Madonna, Vergine Madre, personificazione dell’anima purificata, e per ciò stesso resa gioconda, che intercede per l’uomo presso Dio.

Senza Figlio, perché, cristianamente parlando, tutti gli iniziati all’amor platonico che incarnano il Logos, suoi figli sono: affermazione notevolmente polemica, per non dire eretica, ma giustificata per dei tempi in cui si cercava filosoficamente la concordia tra le

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D Marco Vannini, Storia della mistica occidentale, op. cit. pag. 105.

37 D Ibidem. pag. 107.

38 D S. Bramly, op. cit., p. 288.

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religioni. Anche se ciò significava declassare, per così dire, Gesù di Nazareth tra i Profeti incarnati, che includevano tuttavia Platone, Mosè … tra i più perfetti e eminenti. La posizione che aveva nello stesso pensiero di Dante.

Qualcuno bussa energicamente alla porta. Ma più insistente ancora sentiamo un vociare imperioso che ci giunge alle spalle. Ci volgiamo:

COLPO DI SCENA: LA CONVERSIONE

Ce l’eravamo scordata! La Conversione è al centro di tutta la concezione filosofica del Ficino, e non solo, di tutta l’Accademia platonica: Ficino, Pico, Landino, Poliziano, Benivieni, Lorenzo il Magnifico… di Dante, ed è quella entità che rende ragione sia del dinamismo dell’Anima del Mondo che della corrente macro - microcosmica che dà significato all’esistenza. Abbiamo detto che il tema della conversione è il necessario corollario concettuale di un percorso umano concepito come un allontanamento da Dio, unito ad una ritorno a Dio, essendo il punto di congiunzione obbligatorio dei due movimenti. Ma tutto ciò non può accadere se non si accende una luce, se non si precipita in una crisi! “Essa consiste in una «crisi» per cui “la chiarità visiva (la bellezza) accende il caldo d’amore, e lo status diviene circuitus”: un tuffo volontario nella corrente cosmica che dal basso ci riconduce verso l’alto alto.

Con ciò ci sembrerebbe di aver detto abbastanza! E tuttavia persiste una sorta di richiamo che continua a sopraggiungere,

probabilmente in conseguenza del fatto che l’abbiamo impunemente evocata. La Conversione! Forse che ci riguarda personalmente? La Signora Lisa ci appare come al solito tranquilla, sorniona. Che si stia producendo un contatto con la dimensione vibrante di segni che attendono di essere riconosciuti? Siamo in attesa: un simbolo c’ingiunge di essere placato? Forse la rappresentazione dipinta della conversione?

Questa volta evitiamo garbatamente di avvicinare il petto della Signora Lisa; la osserviamo perciò da una certa distanza. Lo sguardo ci appare molto triste. La filosofia neoplatonica c’insegna che il distacco dalle cose di questo mondo, prima di lasciarci assaporare la gioia del superamento, ingenera molta tristezza. Caspita se è vero! Noi diremmo un infinito dolore. La conversione è appunto il rifiuto definitivo, la risoluzione volontaria di sottrarsi a quest’altalena senza costrutto e senza meta di piacere e dolore di cui ci satolla la vita.

Prestiamo attenzione agli occhi. Anzi per meglio osservarli deliberiamo di coprire con la mano il suo volto fino alla radice del naso in modo da lasciare campeggiare unicamente lo sguardo. In verità è di una tristezza infinita: le ombre si addensano dietro le palpebre superiori che sembrano grevi di lacrime. Vogliono suggerire che la conversione è la risoluzione della lotta perpetua tra il pianto e il riso, o che il cammino ascetico è intessuto di pianto e di riso? In verità non c’è molta differenza. Se non c’è risoluzione, la lotta è incosciente e lunga e ripetitiva e dura sino alla morte. Se avviene è una lotta cosciente, e c’è solo da augurarsi che diventi molto più breve. Però non vorremmo che questo discorso sembrasse rivolto solo a vecchiette tremolanti in odore di santità. E’ di Leonardo che si tratta, un uomo amico di Machiavelli e che trattava all’occorrenza con Cesare Borgia: non ha certo rivolto il suo lavoro, la sua arte e la sua scienza a personcine in attesa rassegnata di lasciare questo mondo! Noi crediamo fermamente che l’abbia rivolto a degli uomini vivi che erano quelli del suo tempo e della specie più coriacea.

Infine togliamo la nostra mano e ci riscuotiamo da questi pensieri malinconici. Il contatto è svanito: però lampeggia il segnale figurato della conversione! La Signora sia lodata! E’ sfacciato come un cartello stradale.

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E’ proprio vero! Se poniamo mente alla segnaletica stradale, non tutta, quella più comune, possiamo pescarvi … il divieto di inversione ad U! Ciò fa proprio al caso nostro: inversione, conversione: qual è la differenza? Si è invertito la rotta. Solo che nel quadro di Leonardo invece di trovarsi dritto, con una U in piedi, si trova coricato: ed è giusto perché non si tratta di un divieto di conversione, ma di un invito alla conversione e si trova collocato orizzontalmente e precisamente è collocato così: “ ⊂ ”. Ora questo segnale stradale, anticipatamente noto a Leonardo, si trova nel prolungamento di quel braccio di fiume o di strada che si trova nella parte sinistra del quadro e forma la parte inferiore della “S” rovesciata che abbiamo già considerato in precedenza quando ci siamo chiesti se di strada o di letto di fiume prosciugato si trattasse. La parte di tracciato che indicavamo come probabili argini di un fiume e che si insinua dietro le spalle della Gioconda.

Perché osiamo dichiarare in modo così assertivo che questa strada come un cartello segnaletico indica la conversione? Per diversi motivi. Intanto si trova nel prolungamento delle “Acque inferiori” dalle quali bisogna uscire, simboleggiando esse la Caduta, il Caos, il molteplice, l’annaspare nel torbido, il perseverare negli errori, con un colpo delle reni: una conversione, appunto. E poi non bisogna dimenticare che si trova inserita nelle volute Serpentine del Caduceo, che sono una somma di inversioni o conversioni. Un altro: riguarda una formazione rocciosa che il Marani e tutti gli interpreti leonardeschi ritengono di dubbia decifrazione. Dice il Marani: “Oscuro è invece il significato di una struttura a falde spioventi che appare subito dietro il fianco sinistro della dama [a destra di chi guarda] come se si trattasse della copertura a capanna di una costruzione architettonica non finita, forse la stessa cui appartiene la casa con loggia sotto la quale sta la «Gioconda39»”. Proprio su di essa concentreremo ora la nostra attenzione. Osserviamo queste due figure:

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D Pietro C. Marani, Leonardo, La Gioconda, op. cit., pp. 32-33.

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La Vergine delle rocce

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La Vergine col Bambino, sant’Anna e l’agnellino.

Vorremmo richiamare anzitutto l’attenzione su di un fatto banale, sul quale non pesa ombra di speculazione. I due quadri “La Vergine delle rocce” e “La Vergine col Bambino, sant’Anna e l’agnellino”, nei quali figurano principalmente la coppia Gesù Bambino e la Vergine Madre riflettono palesemente il significato generale di queste composizioni: il mistero dell’Incarnazione di Dio Padre in un uomo terreno, uomo tra gli uomini. La resa dell’arte pittorica sempre più realistica non fa che renderlo sempre più persuasivo: mistero vitale del Cristianesimo, che la pensosità delle figure e la levità dei gesti sanno bene evocare. Vogliamo soltanto notare che in entrambe i dipinti malgrado la diversità della circostanza è il paesaggio roccioso che sorregge la scena e, per così dire, la invade da ogni parte.

E’ sufficiente osservare. La diversità del paesaggio rispecchia in modo coerente la diversità della situazione e racchiude quindi un significato diverso che si proietta sull’insieme, ma su questo non è nostro compito soffermarci. A noi basta stabilire che in presenza dell’incarnazione del Logos, nelle composizioni leonardesche di vasto respiro, compaiono delle rocce a lastre sovrapposte, della stessa sostanza cioè delle “falde spioventi di una copertura a capanna” dipinte da Leonardo. Qui le possiamo vedere esposte in primo piano. Questo tipo di roccia è veramente prediletto dal nostro autore.

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Concediamoci un’altra riflessione e osserviamo la Vergine delle rocce: il mistero accennato sembra essere il significato di maggior rilievo: vi figurano un angelo e il Giovannino Battista: ben due annunciatori del prodigio fanno compagnia ai personaggi principali. Tutti e quattro collocati sul proscenio di in un antro cavernoso in cui delle acque confluiscono da lontano. Forse è giunto il momento di consultare il nostro dizionario: anche la più anodina associazione d’idee può riservare delle sorprese: sappiamo infatti quanto sia importante in Platone il mito della Caverna. Andiamo alla voce “caverna”. Siamo fortunati, già la prima riga è tutto un programma: “Archetipo dell’utero materno, la caverna è presente nei miti di origine, di rinascita e di iniziazione di numerosi popoli”. Veniamo così ad apprendere che:

“Già nelle cerimonie religiose istituite da Zoroastro, il mondo era rappresentato da un antro: «Zoroastro per primo consacrò in onore di Mitra un antro naturale, bagnato da sorgenti e coperto di fiori e di foglie. L’antro rappresentava la forma del mondo creato da Mitra (…) Ispirandosi a queste credenze, i Pitagorici, e dopo di loro Platone, definirono il mondo come antro o caverna. Infatti in Empedocle le forze che conducono le anime dicono: Siamo venute sotto questo antro coperto da un tetto» (Porfirio, L’antro delle ninfe, 6-9). Plotino commenta così l’espressione: «La caverna in Platone, come l’antro di Empedocle, significa a mio avviso, il nostro mondo, in cui il cammino verso l’intelligenza è la liberazione dell’anima dai suoi legami e l’ascesa fuori dalla caverna» (Plotino, Enneadi, IV, 8, 1). La caverna è un luogo di passaggio dalla terra al cielo.40”.

Già sappiamo che il triangolo è una figura centrale, vi è inserita la Gioconda; simbolicamente il triangolo rappresenta una montagna: ed è proprio il centro della montagna che ospita la Caverna. Dunque le falde indicano la presenza… E adesso chiediamo retoricamente al lettore: sotto il balcone o il loggiato della Gioconda non hanno forse preso dimora Platone e la sua caverna? dove avviene l’incontro bruciante tra l’anima e il Logos? Che l’abbia occultata dietro le spalle della Gioconda, non c’è da farsi meraviglia, non è la prima volta che Leonardo fa lo spiritoso!

Di nuovo qualcuno bussa alla porta.

- Chi è? - Dante Alighieri, fiorentino, di nascita ma non di costumi!

PROPRIO LUI! CHE ENTRI!

“Dante fra i platonici”. Così titola un capitolo del libro dedicato a Pico della Mirandola, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri. “Sappiamo dunque che a Pico aveva suggerito pensieri profondi anche nella sua forma barbarica e aspra: era dunque per lui un maestro. In quegli anni a Firenze l’Alighieri ritornava ad esserlo per molti intellettuali, letterati e filosofi. (…) Marsilio Ficino ne dà un ritratto che è esemplare della sua fortuna nella nuova cultura del secolo. Il fiorentino Alighieri era – scriveva Ficino - «per patria celeste […] di stirpe angelico» e aveva interpretato nella sua poesia le verità di Platone, massimo elogio per il platonico Ficino. Peregrinando nei

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D Dizionario dei Simboli, op. cit. pagg. 234-235.

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tre regni, «dei beati, dei miseri e dei peregrini» aveva ripercorso i passi di Virgilio «bevendo alle platoniche fonti». L’aristotelico medievale, l’allievo di Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante, era divenuto dunque agli occhi degli umanisti un platonico puro e profondo, uno di loro. Il processo giunse a compimento nel commento alla Commedia di Cristoforo Landino pubblicata nel 1481 dove la lunga prefazione di Landino era completata da una lettera di Ficino: «Fiorenza già lungo tempo mesta, ma finalmente lieta col suo Dante Alighieri già dopo due secoli risuscitato e a la patria reso e coronato, si rallegra». Dante era dichiarato un «secondo sole» e i grandissimi artisti dell’età nuova, fra i quali Leonardo, Raffaello e Michelangelo, lo conosceranno accompagnato proprio da questo commento e da lì trarranno spunti per la loro immaginazione41”.

Proprio così. Perciò è venuto il momento di dire in modo più diretto ciò che lega Dante al nostro soggetto avvicinandoci così maggiormente alla divina Gioconda. Niente paura: Dante è figura così ingombrante, che gli chiederemo poche cose. Primo: dirci in poche parole, come è concepita la Trinità nella sua filosofia; secondo: se è vero quel che si dice intorno alla sua donna; terzo: dove vuole arrivare con i suoi quattro significati; quarto: se dovremo convertirci al Logos o la nostra ragione spicciola sarà bastante per giungere a glorioso porto. Poi sarà libero di andare, di rimanere o di confortarci, come l’aggrada.

Capo primo: abbiamo denunciato, ed è probabilmente questo il motivo che ha allarmato Dante facendolo scendere dal suo beato scanno, che i neoplatonici fiorentini hanno in qualche modo declassato la figura di Gesù Cristo a profeta, sia pure al più eminente tra i profeti, ma comunque ad un primum inter pares. E questa non è cosa di poco conto! Ne viene scombinata la stabilità della tradizionale trinità cattolica che è composta come tutti sanno da tre persone, distinte ma profondamente unite: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, come i petali, i sepali e il profumo, di un solitario fiore. Venendo a mancare una delle gambe il tripode s’inclina e cade e così la sua intima coerenza e stabilità. Ora né Dante né i neoplatonici intendono fare vacillare la divinità tricefala, e soprattutto la seconda, quella incarnata, anzi. Per loro il senso della vita si commisura al raggiungimento di una compiutezza umana che ha nella manifestazione della divinità incarnata il suo richiamo, il suo esempio e il suo specchio. La soluzione di Dante, consiste in una riconsiderazione degli elementi anatomici del fiore e con il recupero del pistillo e degli stami: gli organi della riproduzione. Invero la trinità dantesca è composta di ben “quattro” elementi. Dio si scinde infatti in Padre e Madre. Poi vengono il figlio e la figlia, e quest’ultima, se non leggiamo male, è facente funzione dello Spirito Santo.

La madre è divina, ed essa rappresenta la Sapienza42. Tanto la Madre procede dal Padre, quanto l’atto procede dalla potenza, allo stesso modo la Figlia (atto) procede dalla madre (transitata a potenza) e rappresenta grosso modo lo “Spirito santo”, cioè quella corrente d’amore, di luce e di calore, presente in alto come in basso, che scocca, a seconda del grado di dignità, tra i figli microcosmici e la uni-dualità divina,

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D Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Pico della Mirandola, Editori Laterza, Bari, 2011, pagg. 50-51.

42 D E in ciò la gnosi dantesca è più ortodossa della dottrina cattolica. Quando Dio creò l’uomo lo fece a sua immagine e somiglianza: lo fece cioè maschio e femmina.

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trasformando e maturando una parte crescente di anima che tenderà in modo progressivo verso l’alto.

Dovendo velare la sua concezione Dante chiamerà madre, moglie, sorella e figlia, secondo le circostanze: filosofia, sapienza, donna gentile. Come ognuno sa, la sua donna gentile verrà designata col nome di Beatrice! Figlio, l’ultimo rimasto, è l’essere umano divinizzato (microcosmico) che ha affrontato e subìto le tappe della trasformazione morale sulla via del ritorno alla uni-dualità divina. Perciò col termine “filosofia” Dante indica per lo più quella Sapienza che nei primi secoli del Cristianesimo verrà chiamata “Gnosi”, dottrina della salvazione che aveva in Platone, il padre universalmente riconosciuto.

Capo secondo: tutto è complicato ma al tempo stesso esplicitato grazie al fatto che Dante si è premunito di dichiarare la pluralità dei piani di lettura traendo questo artificio dall’uso antico di interpretazione delle scritture sacre. A queste oltre un significato letterale si aggiungono altri tre significati più o meno allegorici, che vedremo al capo terzo. Una vera risorsa che metteva al riparo se stesso dall’Inquisizione così come i suoi amici Fedeli d’Amore (ai quali dirigeva principalmente le sue produzioni poetiche), contrari alla corruzione del clero e favorevoli all’imperatore. Ciò gli consentirà di narrare in un “gergo” amoroso tutta la sua evoluzione personale unitamente alla gnosi della quale si faceva banditore, in un inestricabile gioco di rimandi tra se stesso e Beatrice la “Donna gentile” che volta a volta è: 1) la donna bella e reale che suscita sentimenti nobili; 2) la personificazione dell’anima del poeta che ascende; 3) la luce amorosa e calda che guida il pellegrino (che fa le veci dello Spirito Santo); 4) la Gnosi o Sapienza santa, “sposa dell’Imperatore del cielo” .

Poiché anche Leonardo si aprirà alle suggestioni di questo procedere da tetrapodo, siamo costretti a metterci sulle tracce del poeta e percorrere il suo sentiero di luce.

Narrandoci la sua iniziazione alla filosofia, ricercata per consolarsi della perdita de lo primo diletto dell’anima sua, Dante ci immette direttamente nel processo dell’evoluzione della sua anima. Non valendo nessun conforto, egli ricerca nell’alta cultura i libri con cui si consolarono gli antichi, «e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s’avea. E udendo ancora che Tullio scritto aveva un altro libro, trattando de l’Amistade, avea toccate parole della consolazione di Lelio… io che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso… in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero43».

In questa confessione sono da mettere in rilievo più luoghi e in particolare la natura delle due opere cui il poeta domanda soccorso per porre rimedio al suo dolore: il Lelio di Cicerone e il De consolatione philosophiae di Boezio. In entrambe la consolazione si fonda su una dialettica d’amore, che da passione terrena si trasfigura, platonicamente, in ricerca di un bene che non è terreno. Al desiderio, che contrasta la ragione, che si perde in immagini fittizie di bene, si sostituisce l’amore illuminato che tende, senza posa, al bene supremo che è il principio primo: amore che, alla donna terrena, sostituisce «la

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D Dante, Convivio, Trattato secondo, XII.

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bellissima e onestissima figlia de lo imperatore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia44».

Come per orientarsi nella metropolitana, il percorso iniziatico viene definito con la segnalazione delle due stazioni terminali. In alto la figlia di Dio da cui discende la grazia; in basso l’anima afflitta che si digrossa con il codice della filosofica gnosi sotto il braccio. L’anima trasformerà se stessa man mano che s’inerpica sul pendìo, avendo come compagna la visione della Donna gentile, dalla quale dipendono “demonstrazioni” e “persuasioni” cioè lo specchio mutevole della propria evoluzione. Così, per esempio, ne La vita nuova Dante afflitto e derelitto si accorse di una Donna gentile che lo guardava tutta sconsolata: “Onde io, accorgendomi del mio travagliare, levai li occhi per vedere se altri mi vedesse. Allora vidi una gentile donna giovane e bella molto, la quale da una finestra mi riguardava sì pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta”. Da un lato la donna gentile è bella e giovane, concordemente a quanto spetta alla funzione della bellezza, unita al calore della compassione, che è di innalzare l’animo; dall’altra gli occhi della Donna gli rimandano lo stato miserevole della sua anima.

E’ da notare, incidentalmente, con quale sottile astuzia il poeta evochi l’immagine della filosofia. Egli sceglie a rappresentarla Pitagora, il più esoterico dei filosofi. Non solo pensatore, ma fondatore di una scuola e di una comunità ascetico-religiosa all’interno della quale le conoscenze più elevate venivano riservate solo agli iniziati. La sua dottrina era fondata sul concetto fondamentale di numero, essenza di tutte le cose, poiché Pitagora credeva fermamente in un ordine misurabile presente in tutti i fenomeni. Dante connetterà tutto l’edificio della Commedia proprio con l’uso straripante e onnipresente di numeri con significato pitagorico-iniziatico: il tre, il cinque, il sei, il sette, il dieci, l’undici, e i loro multipli a cui si aggiunge una complicata numerologia a valore letterale che riserva ancora e sempre delle sorprese.

Facciamo dunque dire a Dante chi è la Sapienza traendo la definizione dal suo proprio commento alle canzoni del Convivio.

«Dico lei essere di tutto madre e prima di qualunque principio, dicendo che con lei Iddio cominciò lo mondo e spezialmente lo movimento del cielo, lo quale tutte le cose genera e dal quale ogni movimento è principiato e mosso: dicendo: Costei pensò chi mosse l’universo. Ciò è a dire che nel divino pensiero, ch’è esso intelletto, essa era quando lo mondo fece; onde seguita che ella lo facesse45».

E inoltre della Sapienza si dice ancora essere: “… la sposa de lo Imperadore del cielo s’intende e non solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima!46”

Non riaffiora forse anche il mito egizio di Iside e Osiride sposi e fratelli?

La Sapienza è madre, persino prima di qualunque principio, dunque è consustanziale al padre. Proprio qui ci sembra che Dante stabilisca tra Dio padre e la Sapienza madre, come abbiamo già riferito, un genere di rapporto aristotelico che lega l’atto alla sua potenza, gli effetti alle cause: infatti la madre si individua “spezialmente” per lo

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D Ibidem, Trattato secondo, XV.

45 D Ibidem, Trattato terzo, XV.

46 D Ibidem, Trattato terzo, XII.

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movimento che essa trasmette al cielo e di conseguenza animando tutte le cose che ne dipendono. Abbiamo dunque qui una Sapienza animatrice del tutto come l’Anima Mundi (o il Logos di Giovanni), che era presso Dio, quando Dio motore immobile la indusse a muovere i primi passi.

E passando dagli effetti della sposa che genera la figlia agli effetti che da lei procedono:

“Per donna gentile s’intende la nobile anima d’ingegno e libera ne la sua propria potestate, che è la ragione. Onde l’altre anime dire non si possono donne, ma ancille47”.

Laddove si vuol dire che ove si stabilisca il contatto tra l’intelletto dell’anima, la ragione, con l’intelletto dell’anima superiore figlia della Sapienza, questa penetra e trasforma gli appetiti inferiori dell’anima, fino a renderla libera e potente. Ove ciò non avvenga l’anima non è donna, ma serva.

Ma ciò a cui volevamo infine arrivare, affinché sia data la spiegazione di come questi concetti siano trasfigurabili in pittura, è che secondo Dante, la trasformazione degli appetiti si rende visibile in luoghi privilegiati e in modi inconfondibili:

“E però che ne la faccia massimamente in due luoghi opera l’anima – però che in quelli due luoghi quasi tutte e tre le nature de l’anima hanno giurisdizione – cioè ne li occhi e ne la bocca, quelli massimamente adorna e quivi pone lo ‘ntento tutto a fare bello, se puote. E in questi due luoghi dico io che appariscono quei piaceri dicendo: ne li occhi e nel suo dolce riso. Li quali due luoghi, per bella similitudine, si possono appellare balconi de la donna che nel dificio del corpo abita, cioè l’anima; però che quivi, avvegna che quasi velata, spesse volte si dimostra. Dimostrasi ne li occhi tanto manifesta, che conoscer si può la sua presente passione, chi bene là mira48”.

La Monna Lisa s’ispira appunto alla Donna al balcone del Convivio, o alla Donna alla finestra della Vita Nuova, nei cui occhi e bocca l’Anima ha giurisdizione, si manifesta cioè una certa idea della Sapienza Santa. Una Beatrice quasi velata, che Umanesimo e Rinascimento finiranno di disvelare.

Capo terzo: I QUATTRO SIGNIFICATI

Nel Secondo Trattato del Convivio, Dando inizio a quella navigazione, che dovrà condurre a “salutevole porto” – che la salvezza è la posta in gioco – Dante vuol mostrare come si debba “mangiare” il suo pane. E dice che le scritture si possono intendere secondo quattro sensi. Il primo è quello letterale, come si dà nelle favole dei poeti.

Il secondo è quello allegorico, “ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna”. E qui Dante trova modo d’inserire una delle sue sentenze allusive, nel quale indica chiaramente che mischierà le carte: “Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti: ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato”. Così, Dante per facilitare il lettore prima gli imbandirà una favola, poi una bella menzogna. A lui di cercare la verità. Ma noi per percorrere le stazioni della Gioconda faremo al modo dei teologi.

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D Ibidem, Trattato terzo, XIV.

48 D Ibidem, Trattato terzo, XIV.

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Il terzo è il significato morale, che fornisce cognizioni utili alla vita. Quest’altra sentenza ce ne offre un esempio: “a le secrettissime cose noi dovemo avere poca compagnia”, che è massima propria a tutte le dottrine iniziatiche.

Il quarto è quello anagogico, in cui si dà a ciò che con verità è detto letteralmente, anche un sovrasenso, cioè un significato che riguarda le cose dello spirito. Come esempio viene portato il Salmo che celebra l’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto, in cui simbolicamente si ravvisa la liberazione dell’anima dal peccato. Notiamo che quello dell’uscita dall’Egitto è anche tema centrale e ricorrente nella letteratura gnostica.

Tale modo di concepire le Scritture è molto antico, e dipende dal fatto che tali scritture avevano un riscontro in immagini sacre, simboli, archetipi, che a loro volta rimandavano a differenti ordini e strati di realtà sovrapposti gerarchicamente. Un modo di proiettare la struttura del reale differente dal nostro, ma che rivelava una sostanziale sintonia col pensiero del neoplatonismo rinascimentale. D’altra parte vi è una logica abbastanza trasparente nella successione dei significati e ad essa ci rinvia nel suo parlar coverto lo stesso Dante.

- Il senso letterale è costituito dalla narrazione di eventi accaduti: è il piano basico, su cui si reggono gli altri significati: ne costituisce la porta d’ingresso;

- il senso allegorico è il piano dell’immagine, della metafora, ciò che rende il significato visibile, sensibile, e dunque accessibile alle anime semplici, non abituate alle astrazioni. La metafora coglie l’analogia che riconduce l’evento narrato ad eventi analoghi, che costituiscono un’esperienza universale della vita, per se stessa evidente: come la vecchiaia, la solitudine, l’amore, ecc.. Chi viene toccato dalla forma allegorica, si apre un varco alla meditazione e coglie la possibilità di riconoscere che esistono verità stabili nascoste all’interno di vicissitudini che sembrerebbero frutto del caso, e si prepara ad accedere al

- senso morale, approdo di una riflessione che induce ad una generalizzazione etico-filosofica. Essa può tradursi nella definizione di una norma pratica. Se ciò avviene accogliamo tale norma come guida del nostro operare, e la saggiamo affinché non sia in contraddizione con la realtà effettuale (in parole povere: ci consentirà – se corretta - di non ricadere sempre negli stessi errori). Il nostro peregrinare teorico-pratico si propone quindi mete più alte: a intuire e verificare l’esistenza di significati superiori, non percepibili a prima vista: generalizzazioni più vaste, più comprensive. Si presenta allora il

- senso anagogico: le verità stabili sono parti di un sistema che dà significato agli accadimenti del mondo e non vi è più necessità di sbatterci contro per riconoscerle. Si può iniziare ad assumerle da una tradizione di sapere consegnata alle scuole, alle tradizioni antiche, ai libri profetici, con fede e con ragione. Le quali contrariamente al senso comune, non si accecano reciprocamente; ma, tramite la conversione, il distacco, e le virtù ivi connesse, creano una fruttuosa disposizione ad un’attesa consapevole, seppur operante, che si verifichino i nuovi veri, oggetto di contemplazione. D’altra parte ciò non costituisce una netta opposizione coll’agire teorico-pratico. Ogni agire umano che si prefigga uno scopo, una meta, richiede un lungo travaglio e un lungo cammino, che deve essere sostenuto dalla fede nella fase di passaggio dalla virtualità alla realtà; una fede, tolta l’enfasi religiosa, che può chiamarsi semplicemente energia morale. Scopi e mete, nel loro attuarsi, nel loro farsi, non hanno in sé garanzia di certezza, appunto perché il risultato è ancora di là da venire. Tale è la condizione umana.

I significati si dispongono quindi in una successione maieutica: dal piano del naturale rispecchiamento esperienziale, alla prima traduzione teorica, ovvero simbolica-

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analogica; al piano etico-filosofico normativo e infine al piano della verità anagogica che non opera più per costrizione, secondo il riconoscimento della necessità naturale, ma per via di identificazione.

Il piano morale contempla altresì le regole di condotta di una vita attiva che sia propiziatrice all’ingresso nella vita contemplativa, volta al congiungimento dell’umano col divino, ultimo significato, secondo una gerarchia di valori stabilita sin da Aristotele ed accolta da Dante.

Questi accenni, servono soltanto a stabilire la possibilità che un’opera d’arte venga intesa secondo piani diversi, non contraddittori e logicamente sovrapponibili, ed è la ragione per la quale abbiamo compiuto questo excursus. Che l’uso sia rimasto valido ancora al tempo di Leonardo, in cui Dante veniva riscoperto come un filosofo antico, venerato e studiato come un Virgilio redivivo, questa è almeno l’idea che ce ne siamo fatti. Essa ci sembra la più aderente allo spirito della nostra ricerca e la più adeguata a interpretare e ordinare i sensi emergenti della nostra analisi della Gioconda.

Capo quarto: il Maestro, dal quale vorremmo almeno un cenno di assenso, sembra immerso in una profonda meditazione. Non osiamo sperare che dipenda dalla profondità delle tesi che abbiamo testé esposte. Se non fosse irriverente penseremmo che è stato sopraffatto dalla morbidezza della poltrona nella quale si è accomodato, senz’altro più avvolgente e calorosa della nuvoletta a forma di scanno, da dove, stoicamente, da secoli attende l’arrivo dei dantisti sollecitati, ma renitenti, alla conversione, per presentare loro di persona la sua compagna, Beatrice. Il nostro modo di procedere gli sarà sembrato certamente zeppo di lungaggini in confronto a quanto usava ai suoi tempi: con le quattro canzoni del Convivio e la Commedia Dante ha commentato l’universo. Tuttavia, per rispetto almeno a quanto abbiamo enunciato, vorremmo rivolgergli sommessamente il quesito dichiarato nel capo quarto: saremo in grado di procedere senza tradire lo spirito e la lettera dei quattro sensi per il quale lo abbiamo imprudentemente scomodato? Saremo liberi di procedere alla comprensione del quarto senso o siamo in difetto di una regolare e spericolata conversione?

Possiamo cogliere solo un lieve dondolìo verticale del capo. Ma a quale corno del dilemma annuisce?

UNA PRUDENTE RICAPITOLAZIONE

Non osiamo disturbarlo e non possiamo evitare di procedere. Non abbiamo la stoffa per affrontare una bruciante conversione: optiamo per una prudente ricapitolazione.

MONNA LISA

1) Il significato letterale.

Il significato letterale è senza dubbio quello più semplice ed è quello indicato dalle interpretazioni critiche che abbiamo più volte richiamato, quella del Bramly, del Marani, del Pedretti. Una bella signora appartenente alla classe agiata e dal volto enigmatico. Esso non esprime i sentimenti e i pensieri racchiusi nella sua mente perché consegnati a uno sguardo e a un sorriso che sembrano escludersi reciprocamente. Una polarità che si ripete nell’animazione del suo volto magnetico di contro alla placidità sfingea della sua

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postura, la quale culmina nella soave compostezza delle mani. Forse evoca il sentimento dell’attesa, distaccata, appena increspata dai ricordi. Attesa malinconica, che a sua volta si contrappone polarmente ad uno sfondo dove s’intersecano una caotica pluralità di forme paesaggistiche: acque, montagne innevate, calanchi, strade, fiumi. Una natura suddivisa in un piano destro e sinistro rispetto alla centralità della figura: è il regno della Dialettica, illustrato nel suo supremo e vivente equilibrio.

2) Il significato allegorico.

La bella signora appartenente alla classe agiata, rappresenta allegoricamente la Vergine Madre, la Sapienza e la figlia della Sapienza, in quanto la figlia della Sapienza è l’amore per la Sophia, l’una lo specchio dell’altra. La Filosofia nel suo congiungimento con la Sapienza stessa. Una Madonna senza bambino, di cristiani e pagani. Possiamo chiederci se dal punto di vista del simbolismo ermetico Leonardo ci abbia offerto qualcosa in più. In verità ci pare di sì. Nel nome di Monna Lisa potrebbe essere concentrato un significato da svolgere: per esempio madonna Lisa, che è la traduzione italiana del toscano “monna”, madonna nel senso di Signora, come la “Nostra Signora” delle Cattedrali; e inoltre Madonna nel senso di “mia donna”, la mia Donna dei Fedeli d’Amore cui apparteneva Dante, la quale impersonava anche secondo il Gilson, la filosofia. E nel nome di Lisa: la Isa, l’Isa, Iside. Semplice gioco di assonanze? Verifichiamo.

Iside era una Dea ritornata in auge al seguito di Ermete Trismegisto, profeta e sapiente egizio. Il Pinturicchio, pittore della Rinascenza, compose un ciclo di affreschi nella Sala dei Santi dell’appartamento di Alessandro VI Borgia “che è il più cospicuo omaggio rinascimentale al mito dell’Egitto49”. Uno di essi rappresenta “Iside tra Ermete Trismegisto e Mosé”. L’esecuzione risale al 1492-1494. Maurizio Calvesi ce ne spiega l’idea animatrice:

“Nell’Egitto, luogo leggendario delle «origini», si ricerca la provenienza della famiglia Borgia; il pontefice, il rappresentante di Cristo, è il discendente di Iside e di Osiride e del loro figlio Libio detto Ercole; come tale è l’erede diretto dell’originaria Sapienza. In uno degli ambienti attigui, si mescolano alle Sibille profeti ebraici e pagani, divinità egizie, pianeti e costellazioni e questo composito universo annuncia così la venuta del Redentore. La simbiosi tra teologia cristiana e Sapienza degli antichi, cara al Ficino, non è più guardata dal nuovo papa con il sospetto dei predecessori. Alla sua corte, nel lusso più ostentato, si respira un clima pagano e hanno accesso e udienza umanisti italiani e stranieri, da Pomponio Leto ad Aldo Manuzio, da Ermolao Barbaro a (…) Annio da Viterbo, astrologo, alchimista ed «egittologo», i cui scritti concorrono all’iconologia della Sala dei Santi50”.

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D Maurizio Calvesi, Il mito dell’Egitto nel Rinascimento, Giunti, Art dossier, 1988, pag. 32.

50 D Ibidem, pag. 32.

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Il Pinturicchio, Iside fra Ermete Trismegisto e Mosè. Sala dei Santi, Vaticano, Roma.

Oltre a questi affreschi, il Calvesi nella sua monografia dedicata a Il mito dell’Egitto nel Rinascimento ci propone la descrizione di un romanzo illustrato, l’Hypnerotomachia Poliphili, di Francesco Colonna pubblicato nel 1499. Esso testimonia un’ispirazione di derivazione tipicamente egizia ed ermetica, svolta in un linguaggio criptico, dalla quale possiamo ricavare una rappresentazione più precisa del significato attribuito ad Iside dagli “egittologi” della Rinascenza, in rapporto alle ricostruzioni d’invenzione o di “archeologia fantastica” delle origini delle popolazioni d’Italia e dell’origine delle famiglie principesche, in questo caso dei Colonna. Leggiamo: “Nel romanzo di Francesco Colonna affluisce non soltanto la componente anniana51, nel sottinteso di una continuità storica tra Osiride e le popolazioni italiche e nella glorificazione del dio egizio (…). Ma concorre anche il sincretismo di Apuleio e di Pomponio Leto nella continua e mutevole rappresentazione di una mitica figura di «Grande Madre», che simboleggia la Natura e la Terra: la dea «genitrice», che è Iside, è Venere ed è la stessa Fortuna Primigenia, venerata a Palestrina52. (…) L’iniziazione alla Natura è l’iniziazione alla Sapienza. Il recupero dell’antica e originaria conoscenza si ottiene cogliendo il nesso (non dichiarato nel romanzo, ma criticamente suggerito al lettore «sapiente») tra Iside (a sua volta tutt’uno con Osiride e Serapide), Venere e la Fortuna Primigenia, afferrando l’unico significato che accomuna queste divinità. «Io, genitrice delle cose della natura», dice Iside nel romanzo di Apuleio «Io, il cui unico nume sotto aspetti multiformi con svariati riti e diversi nomi è venerato in tutto il mondo»: diversi nome tra cui Venere53”.

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D Da “Annio da Viterbo”, umanista, vedere citazione precedente.

52 D Località ove venne rinvenuto un mosaico pavimentale che il Calvesi ritiene conosciuto fin dal Quattrocento, “che allora si trovava in un sacello del Tempio della Fortuna Primigenio. Prodotto ellenistico e forse di scuola alessandrina, databile probabilmente al I secolo d.C., rappresenta la valle del Nilo e il suo corso dalle scaturigini dei monti etiopici al delta mediterraneo, durante una delle inondazioni”.

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Nel suo libro Sopra lo Amore, il grande Marsilio Ficino, spiega:

“Venere è di due ragioni: una è quella intelligenza, la quale nella Mente Angelica ponemmo: l’altra è la forza del generare, all’Anima del mondo attribuita. L’una e l’altra ha lo Amore simile, a sé compagno. Perché la prima per amor naturale a considerare la Bellezza di Dio è rapita: la seconda è rapita ancora per il suo Amore, a creare la divina Bellezza ne’ corpi mondani. La prima diffonde questo alla seconda Venere. Questa seconda trasfonde nella Materia del Mondo le scintille dello splendore già ricevuto. Per la presenza di queste scintille, tutti i corpi del Mondo, secondo sua capacità, resultano belli. Questa Bellezza de’ corpi l’animo dell’uomo apprende per gli occhi: e questo Animo, ha due potenzie in sé: la potenza di conoscere, e la potenzia del generare. Queste due potenzie sono in noi due Veneri: le quali da duoi Amori sono accompagnate. Quando la Bellezza del corpo umano si rappresenta agli occhi nostri, la nostra Mente, la quale è in noi la prima Venere, ha in reverenza e in amore la detta Bellezza, come immagine dell’ornamento divino: e per questa a quello spesse volte si desta. Oltre a questo la potenza del generare, che è in Venere in noi seconda, appetisce di generare una forma a questa simile. Adunque in amendue queste potenze è lo amore: il quale nella prima è desiderio di contemplare, nella seconda è desiderio di generare bellezza. L’uno e l’altro amore è onesto, seguitando l’uno e l’altro divina immagine54”.

Ora Marsilio ode elevarsi attorno a sé la protesta dei chierici e scorge il sorriso scanzonato del lettore; ad essi signorilmente risponde:

“Or che è quello che Pausania55 nello Amore vitupera? Io ve lo dirò. Se alcuno per grande avidità di generare pospone il contemplare, o veramente attende alla generazione in modi indebiti, o veramente antepone la Pulcritudine del corpo a quella dell’Anima, costui non usa bene la degnità d’Amore: e questo uso perverso è da Pausania vituperato. Certamente colui che usa rettamente Amore, loda la forma del corpo: ma per mezzo di quella cogita una più eccellente spezie nell’Anima, nell’Angelo, e in Dio: e quella con più fervore desidera. Ed usa intanto l’uffizio della generazione, in quanto l’ordine naturale, e le leggi dai prudenti poste, ci dettano. Di queste cose tratta Pausania diffusamente56”.

Cercando il punto di congiunzione tra Iside ermetica e Venere genitrice abbiamo goduto del privilegio di sentire Marsilio Ficino esporre a viva voce la sua filosofia e di verificare sulla viva carne dei testi la successione delle accensioni: dalla Materia alla bellezza dei corpi, dall’anima dell’uomo al governo dall’Anima del Mondo. Vi è forse dell’altro che ci autorizza a ipotizzare la presenza di Iside egiziana oltre a quel riferimento letterario molto scarno della contrazione di “Iside” nel nome di “Lisa”, o il gioco della declinazione di Monna, Madonna, la mia Donna e Nostra Signora? La dea Iside raffigurata dal Pinturicchio è una regina incoronata, seduta in trono, col capo reclinato in un’espressione dolce. Nella mano destra tiene uno scettro, la sinistra è appoggiata su un libro che tiene aperto sulle ginocchia.

Esiste però una tradizione iconografica che risale a Plutarco, che ci rimanda ad una Iside misteriosa, il cui volto è coperto da un Velo, il cui significato è affine al “velo di

D Ibidem. pag. 40.

54 D Marsilio Ficino, Sopra lo amore, Edizione su licenza ES, Milano, 1998, pagg. 39-40.

55 D Pausania, interlocutore di Platone nel Convito platonico.

56 D M. Ficino, op. cit., pag. 40.

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Maya”, che dissimula, nel buddismo, la realtà pura. Potrebbe Leonardo essersi ispirato all’Iside plutarchea? Un indizio ci sarebbe e questa volta pittorico: a ben vedere i capelli della Gioconda sono coperti da un trasparentissimo velo nero: il famigerato Velo che copriva il volto di Iside? Un velo sollevato! Che Leonardo abbia voluto mostrarci con intento quasi sacrilego il volto inavvicinabile e immortale dell’Anima Mundi?

Plutarco racconta che nel Tempio di Iside, vicino a Menfi, era eretta una statua ricoperta di un velo nero. Sulla base della statua era incisa questa iscrizione: "Io sono tutto ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà e nessun mortale ha osato sollevare il mio velo”. Alcuni commentano: “La rimozione del velo di Iside rappresenterebbe la rivelazione della luce e riuscire a sollevare questo velo equivarrebbe a divenire immortale”. Non è forse un modo questo per dire che l’iniziazione, l’unione con la divinità, equivale a condividerne in certo modo, il possesso del tempo, l’immortalità? E questa immortalità, ovvero la cessazione della condizione di “mortale” che ne consegue, non donerebbe la capacità di vedere il volto di Iside? Il classicismo e il romanticismo tedesco nelle persone di Goethe, di Hölderlin, di Novalis , nel loro ritorno alle fonti del tempo si spinsero sino alla più remota grecità e geograficamente andarono oltre la Grecia giungendo sino in Persia e ai bordi del Nilo. In Egitto sostò Novalis e quivi conobbe il “discepolo di Sais” cioè di Iside, di cui narrò: “Accadde ad uno di alzare il velo della dea Sais. Ma cosa vide? Egli vide, meraviglia delle meraviglie, se stesso”. Con queste parole dal cuore del poeta sgorgava una luce archeologica che si congiungeva all’invito dell’Apollo delfico: “Conosci te stesso, e conoscerai te stesso e Dio”.

Siamo forse scivolati nel

3) significato morale?

Ci pare di poter collocare in questo contesto l’insegnamento dell’oracolo delfico: al significato morale è ascrivibile una massima utile alla vita. Qual è infatti massima più utile alla vita del “Conosci te stesso” espressa nella forma più piana possibile? Né in forma di favola, né in forma allegorica, né in forma anagogica (che contiene un’allegoria ancora più sublime)? Abbiamo visto in che cosa consiste in termini neoplatonici questo imperativo, ma per tradurlo in un linguaggio più vicino al nostro, quale sarebbe la dimensione reale di questo comandamento se volessimo esprimerlo senza frondosità e ricercatezza poetica? E’ una domanda che abbiamo il coraggio di porre solo perché sappiamo di poter contare su Marco Vannini, il quale ci fornirà immediatamente la risposta:

“Quest’autentica conoscenza di se stessi si compie essenzialmente scendendo nel profondo dell’anima, ovvero scoprendo la sua origine quale volontà, affermatività egoistica, capace di assumere mille forme, anche opposte le une alle altre, permanendo immutata nella sua sostanza. La scoperta della radice egoistica del proprio io è, nello stesso tempo, liberazione da tale egoismo, con tutta la sua carica deterministica, ed emergenza della libertà dello spirito. Infatti l’atto di conoscenza con cui si riconosce l’insopprimibile egoismo della volontà è, di per se stesso, quel distacco – quella grazia, per usare i termini cristiani – con cui si esce dal regno del determinismo, dal dominio dell’egoismo, e ci si apre al regno dello spirito, e ubi spiritus domini, ibi libertas57.”

Forse su questo dovremo ritornare, per ora ci preme di continuare a ordinare le idee e le figurazioni. Al “Conosci te stesso” abbiamo ricondotto dunque i primi simboli che abbiamo individuato: il caduceo ermetico, simbolo dell’equilibrio delle correnti micro e

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D Marco Vannini, Storia della mistica occidentale, op. cit., pag. 19.

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macrocosmiche, la distinzione delle acque in superiori e inferiori e poi l’individuazione della caverna, quale luogo simbolico deputato al “Conosci te stesso”, cioè alla conversione, grazie al segnale del codice della strada. Ma forse c’è dell’altro.

Riconosciamo di esigere dal lettore una fiducia irragionevole se pretendiamo che creda all’esistenza di un segno che non vede. Ma rinunciamo alla nostra prosopopea critica e affidiamoci all’intima vita e potenza del simbolo alle cui emanazioni siamo stati ricettivi e insistiamo fidando nella sensibilità e la pazienza di chi ci ascolta. Vediamo dunque se Leonardo ermetico ci ha riservato una sorpresa.

Dante dorme della grossa, Leonardo non si è fatto sentire, ma … pare di sì. Questa volta ci viene consegnato un simbolo senza allestimento di coreografia magica, di vibrazioni, d’incantesimi, di richiami. L’artista è un uomo generoso, ha capito la nostra difficoltà. Osservi dunque il lettore ciò che offriamo al suo scetticismo: è ancora qualcosa che si vede e non si vede, ma confidiamo nella buona volontà; ma poi, se non fosse arduo riconoscere le verità nascoste: Leonardo sarebbe Leonardo e Dante, Dante?

Guardiamo la Gioconda, non diritto negli occhi, che si rischia di rimanerne invischiati, ma il quadro, nel suo insieme. Consideriamo la linea spezzata delle acque superiori e ricomponiamola con la fantasia, quale doveva essere prima del disastro: una linea continua orizzontale che attraversa l’intero paesaggio dello sfondo. Poi consideriamo un’altra linea orizzontale che attraversa virtualmente di nuovo il quadro – entrambe le linee passano dietro la Signora della quale ovviamente dobbiamo fare astrazione – all’altezza della superficie piana della balaustra che accoglie ciò che rimane degli zoccoli delle colonne. A destra la balaustra si confonde con le lastre di pietra che abbiamo detto appartenere alla caverna. Ma è innegabile che il corrimano della balaustra, benché poco visibile, sia esistente, altrimenti le colonne non avrebbero appoggio, e non può che essere rettilineo. Quindi otteniamo due rette orizzontali e parallele al centro delle quali brilla il petto dorato della Gioconda.

E allora?

Proseguiamo.

Sappiamo già che Monna Lisa è inquadrata in un triangolo, questa volta preghiamo il lettore di volerla collocare in un triangolo, aggiungiamo: equilatero anziché isoscele; giacché poniamo la sua base sulla prima linea (in basso) che segna il corrimano della balaustra e gli estremi del segmento sui confini attuali del quadro. A questo punto sarebbe molto agevole riconoscere un altro triangolo equilatero se le vesti della Gioconda fossero meno annerite dal tempo. Ma possiamo contare ancora una volta sulle copie e notare come la linea del busto a sinistra e lo scialle vaporoso sulla spalla di destra convergano verso le mani e formino la punta di un triangolo equilatero che ha la sua base in alto, sulla linea delle acque superiori. Quindi abbiamo due triangoli equilaterali che s’intersecano a formare una stella a sei punte … il Sigillo di Salomone!

Trattenendo una disdicevole esultanza, afferriamo subito il nostro dizionario; leggiamo:

“Il sigillo di Salomone” forma una stella a sei punte, composta da due triangoli equilaterali incrociati. Questa figura è la vera sintesi del pensiero ermetico. Essa

contiene prima di tutto i quattro elementi: il triangolo con la punta in alto ∧

rappresenta il fuoco; il triangolo con la punta in basso ∨ l’acqua; il triangolo del fuoco tagliato dalla base del triangolo dell’acqua … indica l’aria; all’opposto, il triangolo dell’acqua tagliato dalla base del triangolo del fuoco … corrisponde alla terra. Il tutto riunito nell’esagramma costituisce l’insieme degli elementi dell’universo. Se si

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considerano le quattro punte laterali della stella, nelle quali si situano convenientemente le quattro proprietà fondamentali della materia, si vedono le corrispondenze fra i quattro elementi e le proprietà, opposte due a due: il fuoco unisce il caldo e il secco, l’acqua l’umido e il freddo, la terra il freddo e il secco, l’aria l’umido e il caldo. La variazione di queste combinazioni produce la varietà degli esseri materiali. Il sigillo di Salomone appare allora come la sintesi degli opposti e l’espressione dell’unità cosmica. Secondo le tradizioni ermetiche, il sigillo di Salomone indica anche i sette metalli di base, cioè la totalità dei metalli nonché i sette pianeti che sono la totalità del cielo. Al centro stanno l’oro e il Sole; la punta superiore è l’argento e la Luna; l’inferiore, il piombo e Saturno; la punta in alto a destra, il rame e Venere; in basso il mercurio e Mercurio; la punta a sinistra, in alto, il ferro e Marte; in basso, lo stagno e Giove. Sulla base di questo esagramma si potrebbe moltiplicare il gioco delle corrispondenze fra gli elementi, le qualità, i metalli e i pianeti, con le svariate gamme di simboli. L’intero pensiero e lavoro dell’alchimia consiste nell’ottenere la trasmutazione dell’imperfetto, che si trova alla periferia, nella perfezione unica che si trova al centro e che è rappresentata simbolicamente dall’oro e dal Sole. La riduzione del molteplice all’uno, dell’imperfetto al perfetto, sogno degli scienziati e dei filosofi, si esprime nel sigillo di Salomone58”.

Ci fermiamo qui. C’è bisogno di far notare che il centro del sigillo di Salomone che racchiude l’oro e il suo pianeta il Sole, il quale corrisponde al punto più luminoso del dipinto di colore giallo e oro (la parte superiode del petto della Gioconda) coincide con il luogo sospettato della Caverna? Il luogo metafisico ove si realizza il processo alchemico della riduzione del molteplice all’Uno? Non possiamo nemmeno concederci un istante di tregua perché se abbiamo visto giusto siamo subito rapiti e proiettati, salvo complicazioni, verso

4) il senso anagogico,

Il senso che inietta un’essenza spirituale, la libertà e la giocondità, che com’è noto fa tremare le vene e i polsi. Il poeta ha sgranchito le gambe, si è girato sul fianco e si è sistemato il berretto. La nostra indegnità è passata inosservata. Ma insomma, nostro malgrado ci siamo. Che cosa possiamo dire? Chi ha esperienza della trasmutazione? Più che guardarci intorno e aspettare il sopraggiungere di un maestro! Una dimesione morale che trapassa nell’anagogico? Vediamo: Come raffigurare simbolicamente il concetto di amore e distacco, caratteristico della dimensione femminile del divino, che richiama alla mente quello che fu definito l’eterno femminino? Lo ripetiamo a voce alta e forte: che Leonardo abbia scelto di raffigurare nel sacro volto di Iside la dimensione occulta e suprema di amore e distacco?

Abbiamo forse formulato la domanda giusta. Ecco che l’ombra del Garin, rimasta per tanto tempo muta si avvicina e ci indica un volume da lui curato, “L’uomo del Rinascimento” nel quale si trova un saggio su “Il filosofo e il mago” scritto di suo pugno. Il saggio è volto a dimostrare come nel Rinascimento nasca un nuovo tipo di studioso, di intellettuale, che chiamerà filosofo e addirittura mago, i cui connotati si potevano già individuare nel Petrarca, che già era stato un promotore straordinario di cultura e di un modo diverso di concepirla. Una cultura che sarebbe poco per volta uscita dalle antiche università e dagli studi nei quali insegnavano i frati e monaci per essere trasformata nei suoi contenuti e nei suoi scopi e insegnate nelle accademie dai nuovi filosofi:

58

D Diz. dei Simboli, op. cit. pag. 388.

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“Scrutare nella caverna, ossia penetrare a fondo nella realtà naturale (il riferimento è proprio a Leonardo); interrogare le stelle; anatomizzare i viventi; dettare le leggi alla città, anzi costruire la città; curare malinconia e follia: questi alcuni dei compiti di colui che viene considerato e indicato come filosofo fra Quattrocento e Cinquecento, in un progressivo aggiustamento del termine che si viene adeguando al profondo mutamento culturale in atto, e al nuovo diffondersi dei filosofi antichi59”.

E per darci un’idea di come dal nuovo filosofo potesse uscire addirittura un “mago” riferisce di un libro singolare uscito nel 1621 a Oxford, destinato a eccezionale fortuna per tutto il Seicento, opera di un certo Democritus Junior, nome d’arte di Robert Burton, che condensava e consegnava all’Inghilterra colta gran parte della riflessione filosofica sull’uomo di autori appartenenti in gran parte al Rinascimento italiano. Il titolo sorprendente del libro era “Anatomia della malinconia”:

“A cominciare dall’argomento, la malinconia e il malinconico, egli indicava, anche senza dirlo esplicitamente, una delle sue fonti predilette, Marsilio Ficino, non a caso citato di continuo. Malinconico, nato sotto Saturno, è l’intellettuale, anzi il filosofo, e in particolare il nuovo tipo di filosofo, da un po’ di tempo circolante in Europa, quale appunto Ficino: moralista e medico, mago e astrologo, che come i saggi antichi ride e piange delle cose del mondo, e per cui la malinconia assume i caratteri della divina mania di Platone. L’idea stessa di nascondersi sotto la maschera di Democritus Junior poteva essere stata suggerita a Burton proprio dal Ficino, di cui si sapeva che nei locali della sua ‘accademia’ aveva dipinto su una parete la sfera della Terra e, da un lato, Democrito che rideva delle follie degli uomini, e dall’altro Eraclito che piangeva sulle loro sventure”.

Democrito è colui che il mondo a caso pone: se tutto è davvero una danza di atomi nel vuoto allora ogni vicenda umana deve rinunciare alla sua pretesa di senso e ridicole appaiono le preoccupazioni e le fatiche degli uomini che non sanno adeguare le proprie passioni a ciò che la ragione ci insegna. Democrito è il filosofo che sostiene l’infinità dei mondi, veste i panni del saggio che ci invita a rinunciare ad una concezione antropocentrica dell’universo e a ridere quindi della pretesa di chi crede di scorgere negli eventi che accadono su questa terra un significato assoluto.

Al riso del filosofo cui la ragione insegna a prendere commiato dalle passioni dell’uomo fa da contrappunto il pianto di Eraclito. Il filosofo del divenire che riconosce la caducità degli eventi, nel tempo che travolge tutte le cose: ciò che è grande e suscita ammirazione così come ciò che è piccolo e insignificante. Ciò produce il tragico in un mondo in cui il senso trapassa nel non senso, il valore nel disvalore. Così un'identica intuizione del divenire del mondo sottoposto ad una necessità cieca si affligge al cospetto dell’inanità delle fatiche dell’uomo che vogliono imbrigliarlo. Sia Democrito che Eraclito guardano con spirito disincantato alle passioni che travolgono gli uomini e dimostrano con le loro reazioni dialetticamente contrapposte, unite in una medesima rappresentazione, la gratuità o la contingenza sia del riso in Democrito, sia del pianto in Eraclito. L’esito straordinario di questa rappresentazione è quella di esprimere un concetto etico-filosofico della massima importanza: il concetto di DISTACCO, (che è anche quello del Buddha), cioè della necessità, secondo la filosofia neoplatonica, di una condizione umana che se non vuole naufragare è soggetta alla necessità del DISTACCO dagli oggetti in cui crede e dall’amore che si manifesta con spirito egoistico, col fine dell’utile o del possesso.

59

D Eugenio Garin, L’uomo del Rinascimento, Laterza,2008, pag. 174.

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Un distacco che conduce ad una biforcazione: se non conduce al cinismo sacrilego del traditore che giace ghiacciato in fondo all’abisso, conduce di tappa in tappa al ritrovamento della divinità interiore nella misura in cui solleva, lentamente, il Velo di Iside, della schiacciante inconosciuta deità esteriore, con il superamento dell’Ego interiore.

Donato Bramante, frammento di affresco, Eraclito e Democrito, Pinacoteca di Brera

E’ grazie ai lavori del Vannini, nella misura in cui li abbiamo compresi, che abbiamo potuto cogliere, dall’interno, le articolazioni della riflessione neoplatonica e riconoscere nella figurazione quelle tematiche: la conversione, il distacco, l’ascesi rappresentate ermeticamente nella Gioconda.

Vorremmo perciò avvalerci di un’ulteriore chiarificazione a questo riguardo, che fa tesoro di tutta la riflessione dei filosofi contemporanei da Hegel a Simone Weil, affinché echeggi ancora il pianto e il riso dei due filosofi composti nella loro unità superiore60 nel volto della Gioconda.

“Nel linguaggio comune la parola «spirito» è rimasto ormai solo per indicare la dimensione accidentale e soggettiva dello stato d’animo, del sentimento – che invece è proprio l’opposto di spirito. Il nostro mondo ha perduto il senso dell’opposizione anima/spirito: la psicologia opera con le sole categorie di corpo e di psiche (neppure «anima», che è termine carico di significato religioso-spirituale), in una beata ignoranza di cosa spirito sia, e la teologia, dal canto suo, usa la parola in senso vago e retorico, come rimando a un «soffio» o influsso divino, applicabile a tutto quello cui si vuole dare valore, in una sfera di tipo mitologico.

Nel suo significato vero – ossia come realtà permanente e profonda dell’uomo, ben oltre la superficiale mutevolezza dello psichismo – la parola spirito è così scomparsa, ed è scomparsa perché ne è scomparsa l’esperienza. Per essa occorrono infatti conversione, ossia la fine dell’egoismo naturale, e distacco, ossia la rimozione di tutti i

60

D Dobbiamo avvertire che nella riflessione del Vannini, anima e spirito vengono trattati come elementi antitetici, e ciò si giustifica con l’approfondimento hegeliano di questi soggetti, che il Vannini condivide, ma che non è avversa nella sostanza, alla fenomenologia dell’anima e dello spirito né del Ficino, né del Pico.

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contenuti-legami psichici: quella che nella mistica si chiama «morte dell’anima», dopo la quale soltanto si ha spirito, nella dimensione della grazia e della libertà.

In quanto concetto di Dio e concetto di uomo sono strettamente correlati, non meraviglia così che all’attuale eclisse dell’uomo come spirito corrisponda, parimenti, anche quella di Dio come spirito, e viceversa. Perciò i cosiddetti teologi mostrano ancora una volta – come diceva Hegel ai suoi tempi – di non aver superato i quattordici anni: le loro costruzioni appaiono «buffonerie presuntuose e tediose, fingenti il discorso teologico», «favole invernali per bambini addormentati», e il discorso teologico, «finora solo tentato da fiaba a fiaba», mai svolto effettivamente

61”. E laddove Vannini enuncia le verità della mistica, intesa come scienza dell’esperienza

dello spirito, (cui voleva condurci Dante con il bastone del “parlar coverto” e la carota dei suoi versi) risalendo alle fonti greche a partire dalle formulazioni di Platone e di Aristotele (che sia Ficino che Pico cercavano di conciliare), scrive:

“Non v’è dubbio, peraltro, che Aristotele sia (…) debitore di Platone, e in particolare della concezione dell’amore che è espresso nel Convito – testo fondante di tutta la mistica occidentale. Amore è infatti il cammino non solo dell’intelligenza, ma di tutto l’essere, verso il Bene, che si mostra sensibilmente attraverso la bellezza. Tale cammino è un continuo distacco, che incessantemente muove, di grado in grado, verso qualcosa che è più grande, più bello, più universale, fino a giungere alla contemplazione di quella bellezza che non ha più forma alcuna, determinazione alcuna, perché è appunto il Bene in sé. Amore è distacco, dunque, come anche il pensiero, l’intelligenza sono distacco: distacco dal sensibile, dal particolare, alla ricerca dell’universale – ricerca non del bene particolare, privato, ma dell’Assoluto”.62

PERCHE’ MONNA LISA E’ LA GIOCONDA?

Abbiamo indicato come ad un’osservazione attenta il volto della Gioconda contenga un ossimoro: la tristezza degli occhi e il sorriso della bocca uniti in un medesimo volto63. A questo proposito dobbiamo segnalare che in questo senso eravamo stati preceduti da una studioso di cui ci dà contezza il Sassoon nel suo libro dedicato alla storia della Gioconda, in tutti quei risvolti artistici, letterari, scandalistici, di cultura, di costume nei quali è stata trascinata che vogliamo qui riportare sia a conferma di quanto già evidenziato, sia come occasione ad ulteriori considerazioni. Scrive il Sassoon:

“La prima seria analisi del sorriso, al di là di quando ne fu semplicemente segnalata l’esistenza (Vasari) o lo si definì enigmatico, si trova in uno studio di Raymond Bayer del 1933, Lèonard de Vinci: La Gràce. Un sorriso sostiene Bayer, può illuminare un volto intero, esso è un gioco di gote, di mento e di occhi. E’ una questione di luce. Il sorriso della Gioconda è un mezzo sorriso, un “sourire attenué”. Coprite la parte superiore del viso, segnala Bayer, e il sorriso espresso dalle labbra risulterà più evidente. Coprite tutto tranne gli occhi e da quegli occhi vi apparirà il sorriso, solo considerandoli insieme però. Le pupille non appaiono sorridenti; lo sguardo non

61

D Marco Vannini, Prego Dio che mi liberi da Dio, Bompiani, Milano, 2010, pagg. 8-9.

62 D Ibidem. Pag. 12.

63 D I quali – ripetiamo - rimandano alla coppia dei due filosofi, che ridendo e piangendo evocano la necessità del distacco dalle cose del mondo.

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possiede alcuna scintilla, è sofferente, meditativo. Concentrandosi sulle singole parti del volto, egli sottolinea che il labbro inferiore protende lievemente, così da prendere luce, mentre la bocca rimane chiusa: da ciò deriva un accenno di sdegno. In tal modo, suggerisce lo studioso, una molteplicità di significati è disponibile, ed è forse questo alla base del successo che il quadro ebbe tra i posteri”64.

E’ un brano dal contenuto pericoloso perché se esaminato attentamente si potrebbe dedurne che un critico d’arte può dire tutto e il contrario di tutto. Ma non pensiamo che questa fosse l’intenzione né di Raymond Bayer, né evidentemente del Sassoon che ne riporta le idee, presumibilmente in modo fedele. Ciò che va nella nostra direzione è che il Bayer ha analizzato le diverse parti del viso separatamente, e solo così ha potuto coglierne la problematicità espressiva. Poi è giunto a conclusioni abbastanza confuse che cercheremo di volgere, per quanto possibile, in positivo. Primo non si capisce come abbia potuto scindere le pupille e lo sguardo dagli occhi. Vi si dice infatti: “le pupille non appaiono sorridenti, lo sguardo non possiede alcuna scintilla, è sofferente, meditativo”: ciò che conferma la nostra lettura. La riga precedente aveva scritto però: “coprite tutto tranne gli occhi e da quegli occhi apparirà il sorriso, solo considerandoli insieme però”. Qui non vi vediamo che una pura e semplice contraddizione che qualora contenesse qualcosa di vero andrebbe spiegata. Poi l’attenzione si sposta sulla bocca e possiamo concordare col fatto che coprendo la parte superiore del volto “ il sorriso delle labbra risulterà più evidente”. E’ un fatto: chiunque può verificare. Osservando ancora la bocca conclude che essa esprime “un accenno di sdegno” poiché il labbro inferiore protende lievemente e la bocca rimane chiusa. Francamente non lo vediamo.

Ciò che vediamo è invece un’altra cosa: se noi tagliamo in due la bocca nel senso della verticalità, la parte di sinistra non è simmetrica rispetto a quella di destra, non perché la figura è rappresentata di tre quarti, ma perché l’angolo dell’emibocca di sinistra è più basso rispetto all’angolo dell’emibocca di destra. E quindi l’angolo della bocca di sinistra non sorride mentre quello di destra sì, cioè è orientato verso lo zigomo. La diversa inclinazione dell’angolo di sinistra – ed è qui un altro tranello di quello spiritoso di Leonardo – è però compensato dallo spostamento della guancia come se quel lato sinistro del viso sorridesse effettivamente. Sorride cioè solo la guancia di sinistra ma non le mezze labbra i cui muscoli dovrebbero indurre lo spostamento della guancia, le quali sono invece abbassate in un’espressione di normale quiete. Basta appoggiare un indice per piatto su quell’escrescenza guanciale, per rendersi conto che il riso si affievolisce immediatamente. Questo stratagemma è però costato a Leonardo che la sua Gioconda non sia considerata universalmente la più bella tra le donne, ma una donna paffutella di cui non si capisce la decantata bellezza. E tuttavia ciò non contrasta con l’indiscutibile uso mediatico di cui è fatta segno. Perciò concordiamo con il Bayer che essa possa evocare una molteplicità di significati, ma più che di significati parleremmo di percezioni e quindi di significati.

Ritornando alla Signora che sorride con la guancia e non con le labbra e all’idea soggiacente all’intenzione di quel mistificatore di Leonardo, questo ulteriore elemento ci fa pensare che il sorriso della Gioconda, sull’onda del Bayer che parla di un sorriso “attenué”, gravato dalla mestizia degli occhi, si compone in una serena malinconia: un’espressione che evoca la nostalgia dell’Uno …

Piacerebbe, a parziale conclusione della nostra analisi, dire qualcosa intorno

all’indubbio fascino che ha sempre esercitato la Gioconda, onde spiegare in termini

64

D Donald Sassoon, La Gioconda, Carocci, 2001. Pagg 21-22.

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ragionevoli l’uso mediatico di cui è oggetto, senza che in fondo se ne sappia il perché. Qual è la radice del suo magnetismo, della sua capacità di fermare l’attenzione, di sentirsi volta a volta sorpresi dalla sua aria sorniona, impassibile, serena, mesta, sorridente… senza che se ne possa venire a capo. L’enigma della Gioconda è proprio qui, lo abbiamo appena enunciato: essa attira perché non sappiamo ciò che ci attira, perché non riusciamo a riconoscere uno stato d’animo comprensibile, traducibile, che ci lascia nell’incapacità di restituirle un segnale, anche muto, di risposta. Sorridiamo a chi ci sorride, salutiamo chi ci saluta, istintivamente. Ma nessuno stato d’animo riesce a formarsi e a definirsi dentro di noi, malgrado le risorse di mimetismo che ci portiamo dentro e a cui siamo soggetti essendo animali sociali.

Il quadro appeso alla parete, in un museo, di per sé, non può disporci all’ostilità e siamo dunque predisposti a lasciarci cullare ed elevare dall’immagine artistica che ci rimanda. Siamo cioè preliminarmente in una zona franca, in un territorio dove etologicamente vige la distensione e la simpatia può esprimersi liberamente. La Gioconda, figura placida come una sfinge non ci conferma e non ci comunica nessuna sensazione definita, che susciti sicurezza. Anzi sembra interrogarci. Non vorrà forse pronunciare il famigerato: conosci te stesso!? E se anche fosse, come fa a dircelo nel suo linguaggio inarticolato?

Non ci resta che guardarci di nuovo intorno, fischiettando. Una vera disdetta. La domanda è giusta, è collaudata, invecchiata, maturata, marcita … forse … Si tratta proprio del quesito fondamentale vecchio quanto la Gioconda. Perché la Gioconda è la Gioconda? Non serve gridarlo. Qui non si tratta né di minuti, né di ore, né di giorni. Forse di anni, di secoli?

Qualcuno viene nonostante tutto nella nostra direzione. A dire il vero una figura insolita, per non dire originale. Non abbiamo la minima idea di chi… sarebbe imbarazzante prendere un abbaglio! Una persona di colore, porta un turbante … Ci ha risposto Aladino? Il suo Genio? Qui si scade nel grottesco! Ma non abbiamo scelta: bando agli indugi:

- Buongiorno! - Buongiorno! Sono Vilayanur Ramachandran, indiano, professore di neuroscienze e

psicologia all’Università della California di San Diego, direttore del Center for Brain and Cognition e professore aggiunto di biologia al Salk Institute. Autore di centinaia di pubblicazioni scientifiche e di alcuni volumi divulgativi, tra i quali quello che lei ha in mano.

- “Che cosa sappiamo della mente”? - Quello. Provi ad andare a pagina 46. Lì troverà che ho individuato e proposto agli

studiosi “le dieci leggi universali dell’arte”. Non si spaventi; per spiegare il suo caso ne bastano solo due o tre. Dovrà comunque accennare qua e là al contenuto delle altre. Lasci tranquilli i polsi e le vene. Sia serio. Ce la farà.

Proviamo. Le leggi sono le seguenti: 1. Iperbole; 2. Raggruppamento percettivo; 3. Risoluzione di problemi percettivi; 4. Isolamento modulare; 5. Contrasto; 6. Simmetria; 7. Avversione per le coincidenze sospette e per le singolarità; 8. Ripetizione; 9. Equilibrio; 10. Metafora.

La prima legge dell’iperbole afferma che se in una costellazione di segni che presenta un andamento unitario si ingigantiscono i più significativi rispetto alla sua configurazione globale, la reazione dell’osservatore sarà più forte e immediata. Su questa legge si basa da un lato l’apprendimento negli animali superiori, dall’altro, e per quanto ci riguarda, l’effetto di una caricatura.

La seconda legge del raggruppamento percettivo, invece, ci riguarda da vicino.

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Ci dovremo avvalere del cane dalmata di Richard Gregory. “All’inizio – dice Ramachandran – l’immagine ci pare solo un’accozzaglia di macchie

ma il cervello cerca di risolvere il problema percettivo e di trovare un senso al caos: dopo trenta o quaranta secondi raggruppiamo i frammenti nel modo giusto, tutto all’improvviso va al suo posto e alla fine individuiamo la sagoma del cane. (…) L’esempio del dalmata è molto importante, perché ci ricorda che la visione è un processo assai complesso e sofisticato. Anche per guardare la più semplice delle scene si mette in moto una complicata gerarchia di dinamiche, un processo a più stadi. A ciascuno stadio, quando si arriva a una soluzione parziale, per esempio quando viene riconosciuta una parte del cane, vi è un piccolo segnale di gratificazione, un “Ecco!” iniziale, e viene inviato agli stadi precedenti un messaggio che influenza e facilita l’ulteriore correlazione tra caratteristiche del cane. E’ attraverso questo innesco progressivo che l’immagine si completa, producendo nel sistema limbico

65 il grande

“Ecco!” finale”. Ed eccone la ragione: “La visione si evolse soprattutto per permetterci di individuare

gli oggetti nonostante il mimetismo. Noi adesso non ce ne rendiamo conto perché, se ci guardiamo intorno, vediamo solo oggetti ben definiti, ma proviamo a immaginare i nostri antenati primati che, cercando di riconoscere i contorni di un leone fra le tremule foglie della foresta, si rifugiavano in cima agli alberi. L’immagine sulla retina rimanda solo tanti frammenti gialli di leone seminascosti dal fogliame, ma il sistema visivo «sa» che le probabilità che tutti quei frammenti dello stesso giallo appartengono a oggetti diversi sono pari a zero: essi devono per forza appartenere al medesimo oggetto. Il sistema visivo li collega, basandosi sulla forma complessiva decide che è un leone e invia un potente «Ecco!» di avvertimento al sistema limbico, il quale dice agli ominidi di scappare

66”.

Quindi: “L’eccitazione e l’attenzione stimolano il sistema limbico. A mano a mano che l’occhio

è attirato da entità parziali simili a oggetti si registrano degli «Ecco!» a ogni stadio della gerarchia visiva. Che cosa cercano di fare un pittore o uno scultore? Cercano di generare più «Ecco!» possibile in più aree visive possibile, stimolandole con quadri e sculture più di quanto le avrebbe stimolate la vista di scene naturali o immagini realistiche. A ben riflettere, non è una cattiva definizione di arte

67”.

65

D Il sistema limbico del cervello è preposto alle emozioni.

66 D Vilayanur S. Ramachandran, Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, 2006, pag. 52.

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Secondo la terza legge, la legge della risoluzione di problemi percettivi, la connessione tra centri visivi e centri emozionali (il sistema limbico) assicura che lo stesso atto di cercare la soluzione sia piacevole, come lambiccarsi sopra un puzzle è piacevole già molto prima dell’«Ecco!» finale.

La quarta legge riguarda l’“isolamento modulare” o “dell’attenuazione”: “Un nudo appena abbozzato di Picasso, Rodin, o Klimt è assai più suggestivo di una

donnina nuda in quadricomia. Analogamente, i tori delle pitture rupestri della grotta di Lascaux, pur essendo semplici come disegni animati, danno del toro un’immagine assai più incisiva ed evocativa di una foto dell’animale pubblicata su «National Geographic». Ecco perché qualcuno ha coniato il famoso aforisma «Il meno è più». Ma perché il meno è più? Non è un principio in netto contrasto con la prima legge, ossia con l’iperbole che genera una sequela di «Ecco!»? Un paginone di «Playboy » contiene molte più informazioni e dovrebbe eccitare molto più aree e molti più neuroni cerebrali; perché, allora, non è più bello delle pitture rupestri o di un disegno di Picasso?

La spiegazione del paradosso sta in un altro fenomeno visivo, l’«attenzione». Si sa che non possono esserci simultaneamente due moduli di attività neurale sovrapposti. Benché il cervello umano contenga cento miliardi di neuroni, nessun modulo può sovrapporsi all’altro; in altre parole, c’è un collo di bottiglia nell’attenzione a causa del quale ci si può concentrare solo un’entità alla volta. I dati principali relativi alla morbida, flessuosa figura femminile del paginone centrale provengono dai contorni del corpo. Il colore della pelle, il colore dei capelli e altri dettagli sono irrilevanti, anzi distraggono l’attenzione su cui dovrebbe concentrarsi: i contorni e la forma del corpo della ragazza. Omettendo gli elementi irrilevanti di uno schizzo o da un disegno, l’artista risparmia al cervello molta fatica, e gliene risparmia ancora di più se accentua i contorni per creare un «supernudo» o, per così dire, un «nudo al quadrato68».

Tutto ciò è sufficiente a consentirci di formulare un’ipotesi interessante? Forse sì!

Pensiamo di poter lasciare indietro la prima legge perché manifestamente la Gioconda non è una caricatura, anzi è un volto privo di connotazioni fisiognomiche; come direbbe Ramachandran, i suoi elementi: bocca, naso, occhi, mento, ecc., costituiscono una “media” di nasi, bocche, ecc. di una popolazione di razza bianca. Quello che invece la denota è la particolare accentuazione e problematicità dello stato d’animo che Leonardo gli ha infuso e dal quale sembra dipendere il suo magnetismo. Sappiamo quanta importanza ha la mimica facciale tra i primati. La lettura della mimica fa parte del nostro modo naturale di rapportarci l’un l’altro: rivelando gli stati d’animo condiziona spontaneamente le relazioni e i comportamenti. Sarebbe persino superfluo sottolinearlo, se non fosse una percezione recepita a livello “istintivo”, a livello subliminale. Possiamo ricorrere ad un esempio eloquente traendolo da un’osservazione comune, non di laboratorio. Roberto Vacca, nel suo libro Imparare più cose e vivere meglio segnalava tra lo stupore e lo sconcerto l’accadimento futile che aveva il potere di condizionare l’umore di una sua giornata di lavoro: dopo attenta riflessione si era accorto che dipendeva in gran parte dal grado di empatia del saluto dell’edicolante da cui si recava ogni mattina per comprare il giornale.

D Ibidem, pag. 53.

68 D Ibidem, pagg. 54-55.

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La seconda legge ci informa che la percezione è un processo, ed esso avviene a più stadi e che questi stadi sono legati tra di loro – in termini etologici - da messaggi di ritorno di successo: una sequenza di “Ecco!”, che secondo

- la terza legge, procurano piacere, grazie al sistema limbico.

- la quarta legge descrive il processo dell’attenzione che innesca un processo di tipo astrattivo: esclude i dettagli e si concentra sulla forma, “i contorni”, “la forma del corpo della ragazza”, risparmiando “fatica”: che è manifestamente un messaggio di ritorno di “insuccesso”. Il quale si traduce in uno sprone ad ulteriore ricerca (nella ricerca del piacere) in altra direzione, costituendo nell’insieme un sapiente bilanciamento biologico dialettico: una ricerca sostenuta da risultati positivi, gli “Ecco!” coadiuvata da sensori che guidano come fari (fatica) l’attenzione, segnalando le direzioni non remunerative ovvero che non producono conferme di piacere. Affinché ciò possa avvenire “occorre che, a ogni stadio dell’azione, la vista parziale del suo corpo sia abbastanza piacevole da stimolare un’ulteriore ricerca e da evitare che ci scoraggiamo e rinunciamo all’obiettivo69”.

Applicato alla Gioconda che cosa può voler dire tutto ciò? Conosciamo l’oggetto della nostra ricerca: che cosa produce il magnetismo dal quale dipende l’universale attenzione di cui è fatta segno la Gioconda? Procediamo come è nostra consuetudine. Abbiamo pronunciato inavvertitamente la parola “attenzione”, presto, andiamo a cercare sul dizionario dei Simboli.

Il lemma “attenzione” non c’è! Non ha funzionato. Ci siamo presi in giro da soli! Abbiamo scherzato. Ce la dobbiamo cavare con quanto abbiamo abbondantemente riportato. Ma poniamo che sia proprio dall’“attenzione” che dobbiamo partire.

L’attenzione, nell’osservazione di una immagine, innesca un processo astrattivo che nell’escludere i dettagli riesce a ricostruire un supercontorno o un superprofilo dal quale emerge prepotente l’essenza, l’archetipo della figura rappresentata: scoperta l’essenza, la media, riconosciuto l’oggetto, il nostro cervello gode, ma al contempo fa scattare un comando inerente al significato: l’ominide, che ha scorto un leone, per esempio, scappa. Se vediamo sbucare un cane dalmata da una siepe ci chiediamo immediatamente se tra lui e noi non si frapponga una rete metallica, a seconda che ci mostri i canini o no. Ed è nel senso di questa “utilità” che ha potuto esercitarsi quella pressione selettiva che ci ha dotato di organi di senso sempre più raffinati: per tradurre e collegare gli oggetti reali a significati dapprima semplici: ostile, amico o indifferente; e poi sempre più sofisticati, in un circuito che si potenziava e raffinava reciprocamente.

Vogliamo sottolineare il fatto che il riconoscimento della figura che genera un moto di soddisfazione al cervello si accompagna sempre ad un significato, che si traduce in un comando, sia esso di attivazione o di inibizione della reazione, che deve avere un rapporto adeguato alla situazione. Ora l’immagine alla quale Ramachandran è ricorso per farci capire il concetto di attenzione è quella di un nudo pubblicato su Play-boy comparato a un disegno di Picasso, di Rodin o di Klimt. Ed è palese che un nudo di Klimt o di Rodin, faccia scattare un moto di avvicinamento, ma a condizione che lo si riconosca come nudo e gli si attribuisca un significato erotico; non è detto che ciò avvenga sempre con Picasso.

Nella Gioconda , come abbiamo detto, non c’è il problema del riconoscimento, non c’è una stilizzazione caricaturale e nemmeno il suo inverso: un insieme di macchie su un muro dalmata dal quale ricostruire un volto70: è il volto puro e semplice di una donna. Si

69

D Ibidem, pag. 53.

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pone però il problema del significato che gli è correlato e che istintivamente cerchiamo in esso, secondo una determinazione, una coazione iscritta nei nostri geni, e non troviamo: perché non è univoco.

Ed è qui che Leonardo – forse anticipando Ramachandran – si fa beffe del processo attentivo. Non c’è elemento che nel volto della Gioconda rimandi ad un altro in modo coerente. Il processo attentivo va incontro ad una sistematica frustrazione e gira in tondo, e in generale, va dagli occhi alla bocca, dalla bocca agli occhi, e orizzontalmente dall’emibocca destra all’emibocca sinistra, senza riuscire a fermare un’immagine dello stato d’animo che essi rappresentano. Proprio perché “non possono esserci simultaneamente due moduli di attività neurale sovrapposti”, e “c’è un collo di bottiglia nell’attenzione a causa del quale ci si può concentrare solo su un’entità alla volta” quando la nostra mente si fissa sull’intensità dello sguardo e si abbandona alla ricezione della tristezza che emana, e decide che quello è il vero stato d’animo, che giace nelle profondità della sua anima, appena vuol imporlo all’intero suo volto. Su cui si sposta l’attenzione, viene contraddetta dal sorriso; e più si sosta sul sorriso per coglierne la verità, più la presenza degli occhi diventa fioca. E ciò varia a seconda della natura degli sforzi che ognuno fa a seconda della propria sensibilità. Ma in generale, facendo la media, la nostra attenzione oscilla come un pendolo: scivolando da una allegria malinconica e frenando, risalendo verso una malinconia sofferente: sorelle di un fatalismo olimpico, una solitudine divina.

Il magnetismo che emana dipende dunque dal fatto che essa rinvia alla nostra attenzione un messaggio che non sappiamo decifrare, cui non sappiamo dare una risposta. Il nostro sforzo ripetuto, se non è intervenuta la rinuncia, fa affiorare il garbuglio oscillante alla nostra coscienza che si tramuta in una conversione: se prima eravamo noi a cercare di dare istintivamente una risposta inconscia, adattando la nostra mimica facciale alla sua, adesso affiora in noi la domanda. E il nostro Io, con tutti i suoi neuroni, pretende una risposta: ma la risposta non giunge: è una risposta complessa. La nostra attenzione è inceppata in tanti colli di bottiglia. Stupiti, ammaliati da una serenità sfingea che promana un insieme mobile di impressioni, supponiamo che un sovrumano pensiero alberghi nella sua mente. Forse, in quel momento, realizziamo pure il dubbio che non siamo degni di una risposta. Così formuliamo l’ipotesi che nella risposta negata sia contenuta una grande verità, che ci riguardava personalmente, poiché essa ci ha trattenuto inaspettatamente andando dritto nel nostro intimo. Quando decidiamo di allontanarci, di staccarci da lei, di rinunciare a quella sua calda attrazione gentile, ci sembra di abdicare alla nostra intelligenza. Forse in quell’attimo in qualche petto malinconico risuona sommessamente quel “conosci te stesso!” che suona come invito a uscire dalla inferiorità.

LA GIOCONDA GIOCA? OVVERO, DIO GIOCA

Vilayanur Ramachandran ci ha salutati congiungendo le mani davanti al petto chiamato da più pressanti impegni. Ma noi siamo intenzionati ad utilizzare ulteriormente il suo testo anche in sua assenza: potevamo forse rimanere insensibili alla seguente osservazione?

“Quasi tutte le grandi opere d’arte, occidentali o indiane che siano, sono dense di metafore e hanno più livelli di significato71”.

D Un gioco istruttivo che Leonardo si divertiva a suggerire ai suoi allievi: inventare o riconoscere figure a partire dalle macchie di muffe o di altro genere su muri screpolati, nel suo Trattato della pittura.

71 D Op. citata, pag. 60.

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Grazie. Tra le leggi dell’arte proposte dunque da Ramachandran, figurava, ultima, la “metafora”: a suo dire, la più elusiva. A questo proposito cita prima una metafora letteraria del poeta indiano Tagore, e commenta poi una metafora figurativa, relativa ad una scultura indiana, l’una e altra vicinissime al nostro tema, ma è la seconda quella che più ci tocca da vicino:

“Si pensi alle doppie braccia dello Shiva danzante, o Natarjana, raffigurato in un bronzo della dinastia dei Chola, del XIII secolo. Le molte braccia simboleggiano i molti attributi

Shiva Natarjana

divini di Dio, e l’anello di fuoco in cui Nataraja danza, nonché la danza stessa, sono una metafora della danza cosmica e del ciclo della creazione e della distruzione72”.

Questa grandiosa metafora ha per Ramachandran, come per noi, un’importanza notevole. Infatti noi vorremmo proprio sostenere che nel secondo nome con cui ci è pervenuta Monna Lisa, ovvero la Gioconda, non sia contenuta soltanto la declinazione al femminile dell’aggettivo “giocondo”, ovvero gioioso o allegro, ma soprattutto l’inclusione del termine “gioco” e perciò del suo significato, da cui l’aggettivo propriamente deriva. L’aggettivo derivato, “giocondo” contiene dunque nel suo etimo non solo una connotazione di allegria, di spensieratezza, ma anche quella di sofferenza e di lotta, che è in fondo l’origine vera e propria del gioco. Il quale prima di essere espressione dei bambini e appannaggio dei cosiddetti sportivi, costituisce la stilizzazione e la sublimazione delle attività più serie dell’uomo: il lavoro, la caccia e la guerra. Tutte

72

D Ibidem, pagg. 59-60.

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materie in cui creazione e distruzione si avvicendano: l’aratro che sconvolge la terra per far posto alla spiga di grano, la punta della lancia che perfora le viscere dell’antilope, la contesa del territorio e del cibo.

Che cosa significherebbe che Monna Lisa giochi? Vorrebbe dire che Iside, ovvero lo specchio femminile di Dio, imprimendo movimento e vita all’universo ordinato e regolato dagli archetipi stabili del Dio maschile, viene immesso in uno stato di perenne trasformazione, sotto forma di cicli, rivoluzioni, implosioni ed esplosioni, alla stessa stregua di un “gioco” che si svolge alla scala macro e microcosmica?

Infatti nessuno pensa che Dio Uno, creando, emanando, si trasformi come le sue controparti mortali in bestia da soma: no. Dio non lavora: gioca! In verità è il proprio di Dio di giocare poiché sarebbe una diminuzione di Dio immaginare che Egli agisca o crei per necessità: perché allora sarebbe sovradeterminato; o per un sentimento di solitudine: e allora sarebbe da compatire; o, ancora più grave, per un sentimento di compiacimento verso se stesso, cioè per impulso narcisistico: e allora sarebbe umano, troppo umano, degno di una Caduta. Quindi l’immagine più razionale, meno contraddittoria di Dio è quella di un Dio che “esistendo”, crea in libertà, gratuitamente, per il solo fatto di “esistere”, perché in Lui “esistere” e “creare” coincidono, come per il sole irraggiare luce e calore. Forse in modo non troppo diverso rispetto a noi mortali occupati a resistere a più repentini e superficiali avvicendamenti della delicata e vivente crosta terrestre, continuando microcosmicamente l’opera divina, costruendo faticosamente e contraddittoriamente una supernatura, perpetuando la nostra specie, scommettendo involontariamente e gratuitamente, che la nostra esistenza sia necessaria.

Perciò dall’allegria e gioia intima insita nella gratuità dell’idea di gioco, non si può separare l’idea di lotta, di fatica, consustanziali a colui che gioca: il gioco, come ogni creazione, contiene come forza propulsiva una profonda e energica volontà interiore votata alla manifestazione. Nella vocazione al gioco dei bambini, in cui è molto più agevole scorgere questa gioia, gratuità, concentrazione e fatica – ad un tempo “spirituali e materiali” allo stato nascente - gli psicologi riconoscono la manifestazione di una sovrabbondanza di energia psichica e fisica che va lasciata libera di sfogarsi. Essa costituisce la massima espressione di fiducia nella vita del giovane essere venuto alla luce, una fiducia “primaria”, che oltrepassa lo scopo, il mero finalismo, l’utile. Il gratuito che non abbisogna di motivazioni, di moventi, contrapposto all’utile che guida l’azione degli adulti, è il proprio dell’infanzia che assimila e spende se stessa, crescendo e assimilando, senza un “perché?”. L’energia dei bambini rassomiglia – sia detto di passata – alla sovrabbondanza dell’Uno di Plotino, alle forze elementari e primigenie che erompendo liberamente portano in sé un disegno costruttivo73.

Ramachandran, che ha liberamente deciso di accompagnarci e di confortarci con il suo Natarjana, insiste nel volerci stupire. Benché l’argomento non inerisca strettamente le neuroscienze, e confinando perciò i suoi pensieri in una nota oltremodo corposa, arricchisce ulteriormente il tema che stiamo delineando. Insistendo sulla profondità spirituale contenuta nell’idea di un Dio che nel gioco esprima la sua essenza74 e

73

D A questo aspetto “serio”, spontaneo e costruttivo dell’infanzia, nessuno più di Leonardo è stato sensibile. Nella Madonna Benois, di San Pietroburgo, egli rappresenta in modo impareggiabile la concentrazione intelligente del bambino che osserva un fiorellino stretto nella dita della madre, piena di stupore e di orgoglio.

74

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prendendo spunto dal giudizio incauto di un certo Sir George Birdwood, critico d’arte vittoriano che aveva definito lo “Shiva Natarjana” un “mostro tentacolare”, il neuroscienziato indiano, evidentemente piccato, si avvale dell’opera di un altro specialista per svolgere ulteriormente il profondo significato della statua, mettendo a confronto due punti di vista contrapposti:

“Non tutti i critici d’arte occidentali erano ottusi come Sir George. Lo studioso francese René Grousset descrisse in questo modo lo Shiva Natarjana: «Che sia circondato o no dall’aureola fiammeggiante del tiruvasi: l’anello cosmico che egli riempie e a un tempo supera, il signore della danza rappresenta il trionfo del ritmo. Con il tamburello che tiene in una delle due mani destre invita tutte le creature al movimento ritmico ed esse danzano in sua compagnia. I riccioli sollevati in bell’ordine dal vento e la sciarpa sospesa in aria tradiscono la velocità del moto universale, che cristallizza la materia per poi ridurla in polvere. Con una delle due mani sinistre regge il fuoco che anima e divora il mondo nel vortice cosmico e, con il piede destro, schiaccia il demone dell’ignoranza, perché “questa danza si esegue sopra i corpi dei morti”; nel contempo, con la mano destra libera compie il gesto di protezione, sicché è vero che, considerata dal punto di vista cosmico (…) la crudeltà del determinismo universale, in quanto principio generatore del futuro, è anche benevola. In diversi bronzi, poi, il signore della danza sfoggia un grande sorriso. Egli sorride alla morte come alla vita, al dolore come alla gioia; se così possiamo dire, il suo sorriso è morte e vita, gioia e dolore … Se si guarda all’opera da quest’ottica elevata, tutte le cose hanno un senso, tutte le cose hanno la loro logica e giustificazione. La stessa molteplicità di braccia, che a prima vista può apparire sconcertante, segue una sua legge interna, giacché ciascun paio è, in sé, un modello di eleganza e l’intero Nataraja esprime nella sua terribile gioia, una suprema armonia. Quasi a voler sottolineare il concetto che la danza del divino attore è in realtà una forza, la forza della vita e della morte, della creazione e della distruzione, a un tempo infinito e insensata, la prima mano sinistra pende floscia nel gesto noncurante del gajahasta (mano come proboscide di elefante). Infine, se guardiamo la statua da dietro, la fermezza delle spalle che reggono il mondo e il poderoso dorso gioviano non sono forse il simbolo della stabilità e dell’immutabilità della sostanza? E il moto rotatorio delle gambe, nella sua vertiginosa velocità, non sta forse a significare il vortice dei fenomeni?»”.

Così Grousset, nella citazione di Ramachandran.

Si ritrovano qui, riuniti e raffigurati in una sola immagine, i concetti che abbiamo individuato nella rappresentazione dei due saggi dell’antichità greca: non siamo forse ritornati al cospetto del riso senza pietà di Democrito e al pianto senza lacrime di Eraclito? Non vi è riunita la commistione di gioia e dolore, passività e azione, senso e non senso, insomma le polarità di cui è intessuto il cosmo e la stessa vita-morte umana? L’idea di fornire di quattro braccia e di quattro mani la divinità è indice di una diversa sensibilità artistica che preferisce “unire”, piuttosto che “separare” e “contrapporre” com’è d’uso in Occidente, le figure dei due filosofi.

Leonardo fonde, invece, come nel Natarjana, in nuova inseparabile unità il contrasto cosmico, in una mite dialettica figurativa dei complementari anziché dei contrari, sovrapponendo l’immagine del dolore e della gioia nell’unico volto divino della Gioconda; ricacciando nel paesaggio tutto ciò che – attraverso il distacco - è umanamente incomponibile: le vette e i laghi alpini da un lato; le frane e le acque stagnanti dall’altro.

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In questo modo risorgono da profondità abissali le concezioni delle più remote civiltà umane che prosperarono per millenni, le quali, l’Indiana come l’Egiziana, essendo prossime al Principio, presentano fuse in un unico crogiolo Religione e Filosofia (intesa come Scienza), prima della loro scissione e separazione da quell’unico organismo che era la Sapienza Una e cioè prima della Caduta. Una caduta che ha prodotto una polarità nuova, che ha avuto come conseguenza la desacralizzazione dell’esistenza, cui la Religione da un lato, divelta dalla sua naturale linfa, ha voluto porgere una toppa, e la Filosofia la sua, dall’altra. Una Sapienza che i neoplatonici fiorentini con l’egiziano Ermete tentarono di risuscitare, e che ogni uomo nel corso della sua vita tende a ricomporre in sé: l’armonia tra sentimento e volere, tra amore e intelligenza, tra impulsi e ragione.

Sulla comprensione della differenza – quasi un’opposizione – tra religione e filosofia, tra Amore della sapienza e Sapienza, è necessario soffermarsi un poco, perché fondamentale nella considerazione di ciò che fu e volle essere il Rinascimento, e quindi uno dei suoi figli, Leonardo. A questo scopo le parole di Giorgio Colli non saranno superflue:

“Le origini della filosofia greca, e quindi dell’intero pensiero occidentale, sono misteriose. Secondo la tradizione erudita, la filosofia nasce con Talete e Anassimandro: le sue origini più lontane sono state cercate nell’Ottocento, in favolosi contatti con le culture orientali, con il pensiero egiziano e quello indiano. Per questa via non si è potuto accertare nulla, e ci si è accontentati di stabilire analogie e parallelismi. In realtà il tempo delle origini della filosofia greca è assai più vicino a noi. Platone chiama «filosofia», amore della sapienza, la propria ricerca, la propria attività educativa, legata a un’espressione scritta, alla forma letteraria del dialogo. E Platone guarda con venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti davvero i «sapienti». D’altra parte la filosofia posteriore, la nostra filosofia, non è altro che una continuazione, uno sviluppo della forma letteraria introdotta da Platone; eppure quest’ultima sorge come un fenomeno di decadenza, in quanto «l’amore della sapienza» sta più in basso della «sapienza». Amore della sapienza non significava infatti, per Platone, aspirazione a qualcosa di mai raggiunto, bensì tendenza a recuperare quello che già era stato realizzato e vissuto. Non c’è quindi uno sviluppo continuo, omogeneo, tra sapienza e filosofia. Ciò che fa sorgere quest’ultima è una riforma espressiva, è l’intervento di una nuova forma letteraria, di un filtro attraverso cui risulta condizionata la conoscenza di quanto precedeva. La tradizione in gran parte orale della sapienza, già oscura e avara per la lontananza dei tempi, già evanescente e fioca per lo stesso Platone, ai nostri occhi risulta così addirittura falsificata dall’inserimento della letteratura filosofica. Per un altro verso è assai incerto l’estensione temporale di quest’epoca della sapienza: vi è compresa la cosiddetta età presocratica, ossia tra il sesto e il quinto secolo a. C., ma l’origine più lontana ci sfugge. E’ alla più remota tradizione della poesia e della religione greca che bisogna rivolgersi, ma l’interpretazione dei dati non può evitare di essere filosofica75.”

A parte un certo infondato pessimismo, espresso da Giorgio Colli, sulla potenza dell’indagine archeologica, etnologica, paleontologica, antropologica, filologica, linguistica e altre scienze ancora, che, ciascuna nel proprio ambito, offrono dati più sperimentali della “filosofia”, e sulla possibilità di andare in futuro oltre “analogie e parallelismi”, questo aperçu, offre nondimeno in modo magistrale il senso della distanza che corre tra l’amore della sapienza e il possesso della “Sapienza” tout court; concetto

75 D Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, 1975. Pagg. 13-14.

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che ai nostri fini è tutt’altro che trascurabile, poiché è proprio questa Sapienza “misteriosa” che i pensatori dell’Umanesimo rinascimentale volevano disseppellire, non già per amore erudito, ma per trasformare l’esistenza, con la certezza che questo ritorno alle fonti avrebbe dato nuova linfa, potere e spiritualità alla società civile nella sua interezza. E’ dunque con lo spirito e l’entusiasmo di chi era giunto a impossessarsi degli strumenti di ricerca adeguati che si rilessero i documenti antichi; si tracciarono piani di “città ideali”; si fondarono scuole per fanciulli improntate ad una nuova pedagogia; si fece largo una considerazione rinnovata dell’uomo, del bambino, e finanche della donna. Lo attestano in modo insuperato, secondo Federico Zeri, proprio i dipinti di Leonardo ove ritrae Ginevra Benci e le amanti di Ludovico il Moro, dai quali emerge un’attenzione vivissima e sconosciuta sino ad allora, alla psicologia femminile.

Fonti dunque che sopravvivevano non già soltanto nei testi e nelle cattedre di filosofia o di teologia ma in un sapere non mai estinto, che proveniva da tutte le regioni e paesi che si affacciavano sul Mediterraneo, in particolare dall’Egitto, dalla Grecia e da Roma antica; a volte occulto, a volte palese, rifugiatosi nelle sopravvivenze delle tradizioni templare, catara, alchèmica, ermetica, pitagorica, cabalistica, muratoria; o venuto alla luce attraverso il profetismo eretico, ma che, pur nella sua apparente farraginosa diversità, aveva come fulcro un principio irrinunciabile: la credenza che l’origine e l’esistenza di questa Sapienza fosse coincisa con una cosiddetta “Età dell’oro” o altrimenti detta dei “Saturnia Regna”. Età dell’oro, cui per successive “cadute”, si era passati, rifacendosi a Esiodo, rotolando giù pesantemente di gradino in gradino, dall’età dell’oro all’età dell’argento, da questa all’età del bronzo, e poi del ferro: in cui loro e noi, presentemente ci agitiamo.

“Si venivano così riconfigurando – dice il Garin - fra il secolo XIV e il XVI, fra la fine del Medioevo e l’origine del Rinascimento, alcuni temi che si consideravano caratteristici della “spiritualità” medievale: secolo nuovo, età nuova, renovatio, venuta dell’Anticristo, venuta del Messia, avvento del Regno, unificazione dell’umanità. La cultura “rinata” si presentava consapevolmente come un compimento di quelle attese, di quegli annunci, attraverso un’interpretazione specifica dei concetti stessi di secolo nuovo, di pace universale, di ritorno alle origini, di riunificazione dell’umanità. D’altra parte nel punto medesimo in cui quei motivi venivano accettati, venivano anche trasfigurati radicalmente, e se, nelle apparenze e nei termini, continuavano a vivere, in realtà diventavano anche tutt’altra cosa da quello che erano stati in origine76.

Del concetto dunque che ebbero i pensatori del Rinascimento di questa Età dell’oro, dei “Saturnia Regna”, converrà dunque dire qualcosa, in quanto non poca parte hanno nella triste giocondità della Monna Lisa.

A questo proposito dobbiamo innanzitutto rilevare come nel passo del Garin testé citato la venuta di questa “Età dell’oro” non si configurava affatto come un trapasso indolore da un evo all’altro, frutto di una provvidenziale evoluzione di tipo quantitativo: contrassegnata da un accrescimento aritmetico o esponenziale di conoscenze scientifiche, letterarie, filosofiche; di invenzioni, di scoperte geografiche, di commerci, sfocianti infine in una civiltà superiore gravida di concezioni religiose ecumeniche. Ma piuttosto, al contrario, tutti questi fattori avevano operato sotterraneamente nella società civile come agenti di dissoluzione delle vecchie forme di convivenza, e l’attesa del nuova età conteneva la consapevolezza che ad essa si sarebbe giunti solo attraverso scossoni,

76

D Eugenio Garin, L’Età nuova, Morano Editore, Napoli, 1969, pagg. 87-88.

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catastrofi, rivolgimenti senza i quali nessun nuovo ordine si sarebbe potuto stabilire. A questa visione gli uomini della Rinascenza non erano giunti, come sempre, per particolare lungimiranza politica ma dopo secoli di continue e inconcludenti lotte intestine tra municipalità, Papato, stati regionali da un lato e Impero e potenze straniere dall’altro. Dunque proprio all’interno di lotte civili e di rivolgimenti politico-geografici e quindi nelle doglie del parto prende coscienza di sé il Rinascimento. Cosicché non nella celebrazione festosa della Tolleranza e della Ricchezza si attende la nuova Età, ma più “realisticamente”, paradossalmente, proprio in un Anticristo e in un Messia si cristallizzano le aspettative di patrizi, popolo grasso e popolo tutto. E’ bensì l’età del Ficino, del Pico e del Poliziano poeta e filologo, dell’Alberti, uomo universale, di Botticelli ma anche l’età del frate ferrarese Savonarola chiamato dal Pico a predicare e a reggere Firenze, e di Machiavelli.

“E, di fatto, - aggiunge il Garin - il mondo che si riflette nelle grandi opere e nelle grandi figure del primo Rinascimento italiano è un mondo più spesso tragico che lieto, più spesso enigmatico ed inquieto che limpido ed armonioso. Leonardo da Vinci è quasi ossessionato da visioni catastrofiche, e fissa nei disegni e nelle descrizioni un universo che muore” (…) “Di fatto la vita e la storia erano, in quel Quattrocento così ricco di documenti della grandezza dell’uomo, veramente tragiche in un’Italia corsa da guerre, insanguinata da congiure, con i suoi signori che uccidevano o erano uccisi, con i suoi capitani di ventura che salivano i troni o ne erano precipitati, con le sue fosche figure di pontefici, con la sua diplomazia sempre più ostile ed astuta, la sua sconfortata intelligenza, mentre i suoi centri maggiori vedevano sgretolarsi i propri imperi, affievolirsi i propri traffici, inaridirsi le proprie sorgenti di ricchezza. (…) I regni di Saturno, l’età dell’oro, sono vagheggiati con maggiore forza proprio perché sembrano tanto lontani dalla terra77”

Se noi ora verifichiamo sui documenti la temperie spirituale evocata dal Garin caratterizzata dall’attesa di personaggi risolutori – il Cristo, l’Anticristo78 – caratteristici dell’inclinazione plebea a personificare avvenimenti catastrofici, cui i disegni leonardeschi del diluvio aggiungevano un ché di fisico piuttosto che di biblico, constatiamo che oltre alle profezie che vedevano nella congiunzione tra Saturno e Giove il momento propizio per il ritorno della sospirata Età dell’oro, che si spingevano persino a stabilirne la data e l’ora, rifioriva nella cerchia eletta dei neoplatonici fiorentini nientedimeno che il tema del Veltro, creatura di dantesca memoria, e della sua venuta.

Uno studioso che ha scandagliato l’intera letteratura italiana alla ricerca di documenti che attestino l’inesausta reviviscenza del mito dell’Età dell’oro e delle forme che ha assunto ce ne fornisce un puntuale riferimento:

“Landino ribadì la sua concezione astrologica dei «Saturnia regna» nel commento alla Divina Commedia, che consegnò alla signoria di Firenze nel 1481, aprendo una nuova fase nella storia della fortuna di Dante. (…) Facendo propria la posizione assunta da Jacopo della Lana e da altri chiosatori trecenteschi rispetto alla profezia

77

D Eugenio Garin, La cultura del Rinascimento, Laterza, 1981, pagg. 7-8.

78 D L’espressione figurativa più eloquente di questo infuocato trapasso si ha negli affreschi di Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto, ove si rappresenta il diavolo che suggerisce propositi diabolici nelle orecchie di un falso Cristo che intrattiene un’assemblea, mentre intorno a lui avvengono roghi e ammazzamenti. Vedi in Appendice n. 2.

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dantesca del veltro, l’umanista esprimeva la propria convinzione circa una palingenesi politico-religiosa, destinata a verificarsi entro pochi anni (…)in cui sembrano vibrare le anime di Dante, Petrarca e Cola di Rienzo: «Io credo che il poeta, come ottimo matematico, avesse veduto per astrologia, che per l’avvenire avessero a essere certe rivoluzioni dei Cieli per la benignità delle quali abbi al tutto a cessare l’avarizia. Sarà dunque il veltro tal influenza, la quale nascerà tra Cielo e Cielo, o veramente quel Principe, il quale da tal influenza sarà prodotto […]. E certo nell’anno 1484, nel dì vigesimo quinto di Novembre, et a ore tredici e minuti 41 di tal dì, sarà la congiunzione di Saturno e di Giove, nel Scorpione, nell’ascendente del quinto grado de la Libra, la qual dimostra mutazion di religione. Et perché Giove prevale a Saturno, significa che tal mutazione sarà in meglio. Laonde, non potendo esser religione alcuna più vera che la nostra, avrò dunque ferma speranza che la Repubblica christiana si ridurrà a ottima vita e governo, in modo che potremo veramente dire: «Iam reditet virgo, redeunt saturnia regna79»”.

E per non addossare al solo Landino, e cioè alla ristretta cerchia del Ficino, il grave contenuto di importanti profezie è d’uopo ascoltare quest’altra del Nesi, riportata questa volta dal Garin:

“Giovanni Nesi, ficiniano e piagnone, discepolo del Platone fiorentino e del “Socrate ferrarese”, amico di Giovanni Pico e del Benivieni, rinnova accenti gioachimiti nell’annuncio del riscatto imminente. «Che significa questo secolo nuovo se non la conversione e il rinnovamento della chiesa militante? … Ecco ormai io ti chiamo in nome di Dio attraverso le molte vicende al secolo nuovo. Ecco, dopo tanti casi, io ti suscito a quell’età d’oro … Chiunque è seguace di Cristo venga nel regno di Cristo … Volete un profeta? Eccolo veridico nell’annunciare il futuro, ammirabile sempre e dovunque … L’Italia sarà devastata dai barbari … Roma giungerà alla rovina … ma la chiesa si salverà per soccorso divino e trionferà; i Maomettani ben presto si convertiranno alla fede cristiana. E, finalmente, unico sarà il gregge e uno solo il pastore». Non a caso il dotto e pio frate Paolo Orlandini congiunse nella gloria della salvazione Ficino e Savonarola. L’umanesimo fiorentino, rimasto nel suo fondamento civile anche quando fu platonico, combatté perché la città terrena fosse immagine della città celeste; pose una pia philosophia al servizio di una docta religio perché il filosofare da sterile giuoco di sillogismi si facesse operoso programma onde la pace scendesse fra gli uomini nel secolo nuovo80.

Possiamo ricordare qui come nell’affresco del Bramante, ispirato alla pia philosophia, nel fregio superiore posto sopra i due saggi greci (Democrito ridente e Eraclito piangente) siano raffigurati i carri allegorici di Saturno e di Giove, i pianeti e al tempo stesso gli dèi che presiedono ai due opposti caratteri e passioni. Si illustrava in tal modo l’origine astrale del riso di Democrito, collegata alla figura di Giove, il quale trasmette alle anime un temperamento gioviale; e altresì l’origine astrale del pianto in Eraclito legata all’influenza di Saturno, il quale foggiava temperamenti taciturni, pensosi, saturnini, i più adatti e sensibili alla elevazione e alla contemplazione, secondo una nuova interpretazione che aggiungeva un lato positivo alla sola influenza nefasta caratteristica di Saturno precedente alla filosofia neoplatonica. Il riso di Democrito e il

79

D G. Costa, La leggenda dei secoli d’oro nella letteratura italiana, Editori Laterza, Bari 1972, pag. 44.

80 D Eugenio Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Bompiani, 1994, pagg. 139-142.

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pianto di Epicuro, nella loro opposizione complementare, come la diastole e la sistole del cuore, troveranno risonanza nei pensatori fino alla fine inoltrata del Rinascimento e avrà un’ultima drammatica eco e incarnazione in Giordano Bruno, il quale, a posteriori, può fornirci un lampo rivelatore su quel pensiero che porta nel grembo Monna Lisa, permettendoci di avviarci con una certa pompa, alla conclusione.

Nella sua succinta rievocazione del pensiero e della figura di Giordano Bruno, sempre il Garin, tratteggiando con insuperabile maestria la personalità del filosofo, illustrava, a nostro parere, non poco del carattere di Leonardo o per lo meno, quella non piccola parte che trasfuse nella Gioconda, e altresì il comune sentimento che aleggiava negli spiriti di quel tempo. Egli scrive:

“Così l’amaro «accademico di nulla accademia, detto il fastidito»; l’uomo che si sentiva allegro solo in mezzo alla tristezza, e triste in mezzo al riso (in tristizia hilaris, in hilaritate tristis); l’autore che dedica la sua commedia «non a Sua Santità, non a Sua Maestà Cesarea, non a Sua Serenità, (…)» ma «alla Signora Morgana B., sua signora sempre onoranda»; lo scrittore spregiudicato fino all’oscenità e irriverente fino alla bestemmia, si compiace di unire all’uscita da trivio la nostalgia struggente del suo paese, al ricordo di un amore lontano una solenne professione di fede. «Ricordatevi, Signora, di quel che credo che non bisogna insegnarvi: il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annichila; è uno solo che non può mutarsi, uno solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l’animo mi s’aggrandisce, e me si magnifica l’intelletto. Però qualunque sia il punto di questa sera ch’aspetto, si la mutazione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano la notte». Fra un lampo di riso e un doppio senso, fra un’allusione turpe e una satira atroce, d’improvviso, s’inserisce la traccia purissima di una visione del mondo capace di liberare l’animo dalla paura, di restituire l’uomo a se stesso, di pacificarlo col ritmo eterno della realtà regolata da una fondamentale giustizia: chi è nella notte, aspetti il giorno che non può mancare”81.

E appunto questo sentimento che si agita in modo oscuro nell’osservatore attento della Gioconda: questa filosofia che aggrandisce e magnifica l’intelletto. Una filosofia che non teme la notte poiché essa è gravida del giorno, ed è pronta ad affrontare il giorno salda e gioconda pur calata in un mondo tristo; pur essendo ebbra di vita permane tristemente consapevole.

Ma poiché abbiamo detto che i tempi in cui operò Leonardo, erano tempi di attesa, di incipienti congiunzioni astrali e di rivoluzioni religiose e politiche; insomma, in termini bruniani, di una interminabile notte burrascosa dal cui grembo rigonfio doveva scaturire l’età dell’oro: ovvero un nuovo giorno illuminato da un nuovo sole, sarebbe poi così peregrino opinare che anche Monna Lisa, in qualità di Iside, di Anima Mundi, si trovi in stato d’attesa, di una vera e propria gravidanza, come si addice ad una Madonna dei filosofi? Che quella Iside sdoppiatasi ficinianamente in una Venere Celeste e in una Venere Terrestre, sia pregna, la prima, della macrocosmica ’Età dell’oro, e la seconda, microcosmicamente incinta di un “Cristo dei filosofi”, ovvero sulla scorta del Landino, di un nuovo profeta, un “principe”, un “Veltro” che avrebbe inseguito la lupa per ogni città per ricacciarla ne lo Inferno?

Non esprimerebbe Essa un sottile appagamento con le sue guance pienotte e quel sorriso sornione che vela morbidamente l’espressione di distacco del saggio? una

81

D Eugenio Garin, Bruno, I protagonisti della Storia Universale, CEI – Giano – I Tascabili doppi, 1966, pag. 15.

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soddisfazione che si distende languida nella placidità delle sue braccia amabilmente disposte intorno al grembo?

Al lettore l’ardua sentenza.

Per alleggerire un poco questo ingrato travaglio e una non lieve responsabilità, possono accompagnarlo le osservazioni di un filosofo delle scienze della levatura di Fritriof Capra autore di ben due corpose e recentissime monografie dedicate all’arte ma soprattutto alla scienza di Leonardo da Vinci. L’autore, sensibilissimo al fascino leonardesco, cede, al termine della sua fatica, alla tentazione di dare un significato alla Monna Lisa.

“La Gioconda, il più celebre dei suoi dipinti, era in origine il ritratto della giovane fiorentina Lisa del Giocondo. Il quadro era stato commissionato dal suo ricco marito, ma per qualche ragione a noi ignota non fu mai consegnato. Leonardo lo tenne con sé fino alla morte, e nel corso degli anni lo trasformò in una propria personale riflessione sull’origine della vita. La Gioconda è diversa dai suoi altri ritratti e, a dire il vero, è diversa da tutti gli altri ritratti. La differenza principale, per prendere in prestito la frase di Daniel Arasse, è «il forte contrasto tra la dolcezza della figura umana e l’aspra severità dell’arcaico paesaggio che le fa da sfondo». Uno sfondo che è un ambiente di nuda pietra con le celebri formazione rocciose, i laghi e i torrenti che Leonardo dipinse in tutta la sua carriera. In questo caso però il paesaggio non è solo un retroscena lontano, ma diventa protagonista, ed è non meno significativo della figura femminile in primo piano. Le formazioni geologiche sono raffigurate in perenne metamorfosi, le acque primordiali fendono le rocce, modellano le valli e depositano i macigni, la ghiaia e la sabbia che alla fine diventeranno suolo fertile. Quello che vediamo nella Gioconda è il nascere della Terra vivente dalle acque degli oceani primigeni.”

E più oltre l’ipotesi suggestiva:

“Noi sappiamo che la Gioconda era una giovane madre, e Kenneth Keele, esaminando il dipinto con sguardo di medico, si è detto convinto che Monna Lisa fosse effettivamente incinta quando posò per il quadro. Gli indizi citati da Keele a sostegno della sua ipotesi sono convincenti – la postura dritta della modella, ben seduta su una confortevole poltrona e leggermente aggrappata al bracciolo con la mano sinistra; il leggero gonfiore delle sue dita, da cui ha rimosso tutti gli anelli; la sua intera apparenza un poco “matronale” e la floridezza del petto; e infine la forma dell’addome, abilmente mimetizzato. «Nel suo corpo,» scrive Keele «c’è un nuovo mondo vivente sotto forma di figlio che cresce dal liquido amniotico proprio come il mondo in grande cresce dalle acque marine». Il misterioso sorriso di Monna Lisa può essere interpretato come un’allusione al segreto che ha in grembo. Indipendentemente dal nostro accettare o meno l’ipotesi dello studioso di una gravidanza reale, è evidente ch il tema centrale del celebre capolavoro di Leonardo è il potere procreativo della vita, che in particolare si manifesta nel corpo femminile e in quello della Terra vivente82.”

Così, Fritriof Capra.

82

D Fritriof Capra, L’anima di Leonardo, Un genio alla ricerca del segreto della vita, Rizzoli, Milano, 2012, pagg. 368-370.

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APPENDICI

Appendice n. 1.

Le Balze del Valdarno

La parte del territorio, che viene denominato "Valdarno Superiore", compreso tra la riva destra dell'Arno e le formazioni collinari che fanno da preludio al Pratomagno, è contraddistinta da strutture geologiche di particolare suggestione e bellezza, costituite da sabbie, argille e ghiaie stratificati alte fino ad un centinaio di metri ed in successione di forme diversificate, intercalate da profonde forre. Tali strutture, denominate Balze, sono il risultato, allo stato attuale, dello smantellamento degli antichi sedimenti provocato dagli agenti atmosferici, ma anche segnati dalla presenza, nel tempo, dell'uomo. Nel '98 i comuni di Terranuova Bracciolini, Castelfranco di Sopra, Loro Ciuffenna e Pian di Scò hanno promosso la tutela dell'area istituendo un'Anpil (area naturale protetta di interesse locale). La parte che ricade nel comune di Reggello, in provincia di Firenze ha necessità di difendere le balze dai danni paesaggistici ed in modo da salvaguardare non solo gli

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aspetti ambientali, ma anche i valori culturali e paesaggistici presenti. Dal punto di vista turistico, le potenzialità della zona, che va dal comune di Reggello a quello di Castiglion Fibocchi, lungo la fascia della strada dei Setteponti, sono promettenti, se si considerano la sua estensione, la ricchezza di valori, la vicinanza a tre città d'arte come Firenze, Siena ed Arezzo, mete favorite di innumerevoli flussi turistici, la presenza di grandi vie di comunicazione come l'autostrada del Sole e la Direttissima, l'alta presenza di turismo straniero più attento e consapevole.

La Geografia

Il Valdarno Superiore è un bacino intermontano tra Firenze ed Arezzo, tra i più estesi dell'Appennino settentrionale, delimitato ad ovest dai Monti del Chianti, con quota massima di 892 m e ad est dalla dorsale del Pratomagno, con quota massima di1591m. Il Valdarno superiore presenta numerose forme di paesaggio come la pianura, le colline, i pianori, i versanti montagnosi appartenenti alla catena appenninica. La temperatura media annua del fondovalle è di 12,8 °C con punte di massima in agosto e minima in dicembre. In autunno e inverno il fenomeno della nebbia o leggera foschia tende a stagnare nel fondovalle, con frequenti brinate. Nei mesi invernali si hanno modeste precipitazioni nevose sopra i 1000 m. I confini amministrativi comprendono due Province: Firenze e Arezzo con 14 comuni, comunque la sua conformazione così netta e precisa indica anche dal punto di vista geografico un vero comprensorio noto in tutta la Regione. Le rocce più comuni sono arenarie, sabbie e argille. Il Valdarno è una delle zone più ricche di fossili di grandi mammiferi della terra e vi si trovava il più grande bacino di lignite xiloide d'Italia. E' attraversato nella sua lunghezza da importanti vie di comunicazione: oltre alla statale, passa l'autostrada A1 e la direttissima Roma-Milano.

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La Valle è attraversata in tutta la sua lunghezza dal tratto intermedio del fiume Arno che insieme ai suoi affluenti ha eroso i detriti che colmarono il fondo del lago pleistocenico che centomila anni fa si erano accumulati in un'ampia area lunga 40 km circa (da Laterina a Matassino) larga 10 km dal Chianti al Pratomagno e alta 300 m di quota. Questo altipiano è stato eroso completamente dalla parte del Chianti perché, trovandosi l'Arno spostato verso questa parte, le acque superficiali, sono riuscite a demolire completamente lo strato di sedimenti lacustri. Dalla parte del Pratomagno, invece, si è formato un'altipiano in quasi tutta l'estensione della montagna e vi troviamo costruiti paesi e frazioni, come Reggello, Pian di Sco, Castelfranco, Persignano, Piantravigne, Montemarciano, Loro Ciuffenna, San Giustino, Laterina. La larghezza è di qualche centinaia di metri e l'altezza di 260 -280 m s.l.d.m. L'altipiano si interrompe bruscamente con pareti verticali alte decine di metri che lo bordano alla base come una cornice quasi ininterrotta di un tipico colore giallo ocra. L'aspetto delle Balze è il prodotto dell'erosione delle acque di dilavamento che scendendo dal versante del Pratomagno prima, e dall'altipiano poi, arrivano finalmente all'Arno. La strada dei Setteponti si snoda lungo l'altipiano ed unisce Arezzo a Fiesole. E' molto panoramica e si possono ammirare le belle colline coltivate a vite e olivi e le caratteristiche case coloniche, molte delle quali sono attive Aziende agricole o Agriturismi. Da questa strada partono molte altre che raggiungono il Pratomagno.

Panorama Balze

La Storia Geologica

L'Italia come la vediamo oggi è il risultato dello scontro lento ma continuo tra due delle "zolle" in cui è suddivisa la crosta terrestre: quella africana e quella europea. Da questo poderoso scontro, iniziato circa 25 milioni di anni fa, ha avuto origine il sollevamento della catena appenninica. Una volta esauritasi la spinta che aveva causato la compressione degli strati rocciosi sollevandoli dal fondo del mare, dove si erano in prevalenza formati, trasformandoli in alte montagne, tutta la zona appenninica è stata interessata da una sorta di "rilassamento" in conseguenza del quale si sono originate una serie di fosse: il Valdarno risulta essere una delle più grandi di queste conche tra le quali ricordiamo anche il Mugello, la Valdichiana, il Casentino, la Valtiberina. Pertanto, quando alla fine dell'epoca pliocenica, il fondo dell'attuale valdarno cominciò lentamente a sprofondare, le acque di scorrimento superficiale, non potendo defluire, vi si accumularono, formando un lago che dapprima occupò solo la parte occidentale del

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bacino e successivamente il resto della valle. Durante la prima fase lacustre il clima era simile a quello che oggi ritroviamo nelle lussureggianti foreste tropicali, come testimoniato dai ritrovamenti fossili di piante e animali oggi conservati nel museo Paleontologico di Montevarchi. E' comunque nella seconda fase lacustre del bacino valdarnese, tra due milioni di anni fa e centomila anni fa che, trascinati dai corsi d'acqua che scendevano dal Pratomagno si accumularono nell'antico lago o in prossimità di esso i materiali, argilla alla base e poi sabbie e ciottoli, che noi oggi possiamo osservare nelle pareti delle balze. In questa fase il clima è divenuto meno caldo, sono scomparse le piante tropicali, mentre arrivano dall'Europa orientale gli animali tipici della savana come gli elefanti, i rinoceronti, gli ippopotami, le tigri, le scimmie, le iene... Il continuo trasporto di sedimenti prodotti dalla disgregazione delle rocce operata dagli agenti atmosferici dalle zone più elevate verso il lago ne determinò il progressivo riempimento trasformandolo dapprima in un ampio stagno con tratti che rimanevano periodicamente all'asciutto e poi colmandolo definitivamente. Si venne pertanto a creare un'ampia pianura estesa per tutto il bacino. L'attuale superficie dell'altipiano valdarnese è ciò che ancora oggi rimane della vecchia superficie di colmamento. Estintosi il lago, si formò un reticolo idrografico, con un corso d'acqua principale che scorreva nel centro della pianura e parallelamente ad essa, e una serie di affluenti trasversali. Comincia così una nuova fase della storia geologica del bacino valdarnese: la fase erosiva. Infatti a valle della soglia di Incisa i terreni sono a quote inferiori rispetto alla pianura del Valdarno e così l'Arno e i suoi affluenti iniziano l'opera di smantellamento dei terreni fluvio lacustri accumulatisi in precedenza. I terreni che hanno riempito il lago e formato un ampio tavolato, vengono via via intagliati e scavati e si formano valli e vallecole. Il corso dell'Arno si abbassa progressivamente fino a portarsi alla quota attuale, circa 150 m più in basso rispetto alla superficie di colmamento. Miliardi di tonnellate di terra vengono continuativamente rimosse, l'attività erosiva modella i terreni formando colline tondeggianti in corrispondenza delle argille verso il centro del bacino, e pareti verticali, le balze, dove si incontrano i terreni più resistenti all'erosione. Pertanto quando ci poniamo in osservazione di una parete delle balze non ci collochiamo semplicemente di fronte ad un ammasso di terre inerti ma ad uno spaccato di storia naturale di grande valore, una superstite di forze primordiali ed eventi catastrofici, una testimonianza della lotta millenaria della natura alla costante ricerca di un punto di equilibrio. L'arretramento del fronte delle balze è dovuto alle acque dei borri e alle acque di dilavamento lungo le pareti che le scalzano alla base provocando il crollo, sotto il proprio peso dello strato conglomeratico sovrastante non più sostenuto. Al progredire dell'erosione, le pareti vengono via via smembrate in forme isolate come torrioni, lame e piramidi di terra: sono le forme finali della demolizione prima della

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scomparsa. Questa terra, fragile come un castello di sabbia, a lungo andare cadrà sotto i colpi del tempo. Questo non succederà domani e per centinaia di anni a venire essa sarà ancora tra noi a ricordarci la stupenda storia geologica del Valdarno superiore.

Appendice n. 2.

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Luca Signorelli, Predica e fatti dell'Anticristo (1499-1502), Cappella di San

Brizio, Duomo di Orvieto

BIBLIOGRAFIA

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-Cielo e Terra, poesia, simbolismo, sapienza nel Poema Sacro. Editore Metapolitica. Nuovi cieli e Nuova Terra. A cura di Aldo La Fata, Roma, 2009.

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