I quaderni d'arco - Il bene comune

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I Quaderni d’Arco Raccolta monografica di riflessioni individuali su temi sociali Albrecht Dürer, Fenedigher clausen I IL BENE COMUNE

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Raccolta monografica di riflessioni individuali su temi sociali

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I Quaderni d’ArcoRaccolta monografica di riflessioni individuali su temi sociali

Albrecht Dürer, Fenedigher clausen

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IL BENE COMUNE

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I Quaderni d'Arco

PremessaUna collana che raccoglie scritti, riflessioni,

proposte, semplici spunti o studi intorno a temi sociali riflessi dal territorio della città.

Partendo da esperienze diverse e perseguendo motivazioni distinte, i collaboratori de I Quaderni

percorrono il tema della monografia e restituiscono al lettore una visione policromatica e pluriangolare del vivere e del vissuto della città' con il probabile

fine di disegnare un orizzonte possibile. La scelta della parola scritta e' strumento di artigiani

che si fanno parte attiva nella costruzione del processo ma, nel contempo, esercitazione

passiva di ascolto e lettura della contemporaneità.

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Beni Comuni Le sfide del nostro futuro: fra sostenibilità, decrescita e democrazia diretta

I beni comuni sono le risorse naturali che possono essere adoperate solo insieme da parte della comunità. Per le caratteristiche e le dimensioni che lo sfruttamento dei beni comuni ambientali ha assunto negli ultimi anni il tema della loro sostenibilità non è più un tema tra gli altri, ma è il tema che definisce gli altri.Fare i conti con la natura impone di ripensare in profondità il model-lo di sviluppo economico e sociale, i comportamenti e gli stili di vita alla scala locale come a quella globale. In questa prospettiva la dimen-sione civile, intesa come le convinzioni che guidano l’agire quotidia-no delle persone, è centrale per costruire una cultura civica di corre-sponsabilità sociale e di collaborazione per la tutela dei beni comuni. Per questo è necessario mettere in campo una forma di democrazia sociale realmente sostenibile (democrazia diretta).Il territorio è il bene comune per eccellenza. È il prodotto di lunga durata di processi di civilizzazione e domesticazione della natura che si sono susseguiti nel tempo trasformando il medesimo ambiente fisico in un evento culturale (il paesaggio urbano e rurale) attraverso relazioni fra insediamento antropico e ambiente.Quando si parla di sostenibilità come insieme di risorse da trasmettere alle generazioni future, parliamo innanzitutto del patrimonio territo-riale che abbiamo ereditato. Mettere al centro delle politiche pubbli-che il bene comune “territorio” consente di perseguire la dimensione qualitativa, non solo quantitativa, dei singoli beni che lo compongo-no: acqua, suolo, paesaggi, campagna, foreste, spazi pubblici, città, infrastrutture e così via. Dobbiamo costruire un patrimonio locale, fatto ad esempio di sovranità alimentare ed energetica, di difesa del patrimonio naturalistico e paesaggistico. Bisogna sottrarsi dalla schia-vitù del PIL e della crescita economica.La soluzione delle più importanti crisi ecologiche – ecosistemi,

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energia, salute, clima, alimentazione, relazioni città-campagna, impronta ecologica – passa attraverso la difesa e la valorizzazione dei caratteri peculiari di ogni luogo, nelle sue componenti natura, agro-forestali e urbane, perché è nella specifica modalità di interrela-zione di queste tre componenti che si fonda in ogni luogo la forma della riproduzione della vita materiale e sociale.Tutelare l’acqua, elemento fondamentale per la vita di tutti i viventi, significa tutelare la condizione unica per la funzionalità degli ecosi-stemi, garantire la vita e la sicurezza delle persone, consentire la con-tinuità nel tempo per ricavare una sostenibilità energetica. L’acqua appartiene a tutti, come l’aria, come la conoscenza, i patrimoni culturali e ambientali. Sono beni a titolarità diffusa, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può pretenderne l’esclusività. Sono beni da amministrare con i principi di solidarietà e sostenibilità. La storia ci insegna come sia possibile gestire i beni comuni attraverso forme di proprietà collettive, che adesso si vogliono ridurre nelle dimensioni e limitare nell’efficacia. L’acqua, per essere salvaguardata, non è sufficiente che rimanga in mano a un soggetto pubblico: dobbiamo garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo considerando la loro attitudine a soddisfare bisogni collettivi. Parlare di beni comuni significa parlare anche di diritti fondamentali. L’acqua è un bene comune, è un diritto univer-sale e non può essere assoggettata a meccanismi di mercato; la proprietà dell’acqua deve rimanere pubblica dalla fonte alla distribu-zione.Per realizzare il bene comune è necessario cambiare totalmente i riferimenti civili e politici di una comunità attraverso forme di aggregazione che operano al di fuori di strutture e istituzioni preco-stituite. Per garantire la gestione dei beni comuni deve essere avviato un processo per superare il modello attuale di democrazia rappresen-tativa e costruire un progetto di riforma dell’assetto dei poteri pub-blici locali, nella direzione di dare voce e più mezzi di partecipazione e controllo ai cittadini. La democrazia diretta non prevede il mecca-nismo della delega politica, bensì quella della diretta partecipazione degli individui alle decisioni riguardanti la collettività. Non c’è democrazia senza esercizio della sovranità. Come cittadini dobbiamo prenderci cura dei luoghi in cui viviamo,

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perché dalla qualità dei beni comuni materiali e immateriali dipende la qualità della nostra vita e la sostenibilità a difesa dei beni comuni. Dobbiamo essere cittadini attivi, responsabili e solidali perché il tempo della delega è finito.

Bene Comune?

Artefatto.C’è stato un tempo in cui su questo pianeta la vita si esprimeva con potenza, in un’infinita varietà di specie, alimentandosi della sua stessa ricchezza, esprimendo biologicamente l’energia e le possibilità che il giovane pianeta offriva.Da allora molto è cambiato sotto questo cielo, e buona parte delle specie vegetali ed animali si sono estinte. La povertà di energia e di nutrimento ha tuttavia favorito l’evoluzione della specie animale che meglio si è adattata alle nuove condizioni, quella umana. Per chissà quale bizzarria improvvisamente in una piccola parte di questa popolazione si è sviluppata un’inedita funzione: la consapevo-lezza di se, l’ego. Nulla di male, se non fosse per la sua intrinseca natura artificiale che ha voluto essa stessa sottolineare da subito qua-lificandosi come “divina”. Chi legge è a conoscenza di quali sorprendenti meraviglie questo microchip innestato su di un corpo animale sia stato capace di creare in un tempo così breve! Per contro ha annientato o piegato a se qualsiasi forma vivente più o meno antagonista, trasformando radicalmente il pianeta, stipandolo di animali artificiali, sublimando in anidride carbonica tutte le tracce del vivente esistito in milioni di anni ed azzerando la fertilità dei terreni attraverso la meticolosa estirpazione della flora e della fauna che li rendeva fertili. E così sia. Ora, essendo stati vani i tentativi nel passato di “religere” le due nature, animale e di pensiero, l’evoluzione potrebbe giungere alla possibilità di affidare a una nuova sola specie, totalmente artificiale, cioè che non necessiti più di un deperibile corpo animale, la soprav-vivenza della sola Mente. Insomma, secondo alcuni di noi l’orrore della morte sarebbe da vincere non con l’eros ma con la tecnologia!Da ragazzino, affascinato anch’io dai progressi scientifici, mi chiedevo

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quale vita sarebbe potuta nascere sostituendo al carbonio il suo gemello silicio. Immaginavo esseri di silicone dalle sembianze natu-rali! La realtà è sempre più sorprendente di qualsiasi immaginazione e mio nipote potrebbe essere un calcolatore analogico.In questa prospettiva mi è chiaro quale sia il divenire del senso di bene, di denaro, di merce, di mercato, di tecnologia. Vale a dire la lenta trasposizione da risorse naturali illimitatamente disponibili – vita, cibo, aria, acqua, spazi, bellezza, amore – in merce, numero, quindi fenomeno esclusivamente mentale, artificiale. E’ così che il mercato finanziario ha assunto oggi il ruolo teologico del fu Padre Celeste, colonizzando le coscienze attraverso lo strumento della tecnologia, creando un mondo percepito oggi come l’unico possibile. Bene comune.Quanta nostalgia provo per il lavoro dell’uomo e la forza, la sicurezza, l’autonomia legata a questa parola! Nelle nostre terre, ancor prima degli Usi Civici, i nostri avi disponevano di enormi ricchezze natu-rali e di una preziosa risorsa, la capacità di trasformarle con il proprio silenzioso lavoro. Quella stessa risorsa che oggi, economicamente, significa povertà in tutte le parti del pianeta e che si tenta con orrore di cancellare.Nel momento in cui si comincia a parlare di un bene designandolo come “comune” è perché un esile filo lo trattiene ancora dal trasfor-marsi definitivamente in merce. Sterile cifra, rapidamente tendente a volatilizzarsi annullandosi seguendo il disegno di quel braccio dell’Iperbole della vicenda umana che tende allo zero. L’altro braccio, quello che tende invece all’infinito, il microchip alieno lo definisce, appropriatamente, progresso.Il desiderare un mondo migliore ci ha portati fin qui. Occorre rom-pere la clessidra di Chronos. Dare alla religione il compito di fornirci un’immagine sincera della realtà, alla filosofia darle un senso, alla politica di renderla possibile, all’economia di sostenerla.

benecomune – rosso lampone

Passeggiamo vicini e silenziosi nel bosco incantato. Io grande, lui piccolo. O meglio, io cresciuta e lui grande come i puri. Siamo

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avvolti da profumi intensi, così forti da inebriarci, da farci dimenticare. Ci avviciniamo ai lamponi, assaporandone prima il colore, poi il vigore, il segno di offerta, di dono per noi che passeggiamo e nulla abbiamo da offrire.“Ma mamma, quanti se ne possono prendere?” “Quanti ne vuoi. O meglio quanti ti sono necessari, non più, non meno. Puoi appagare il tuo desiderio di bellezza, puoi gioire di questo dono, puoi soddisfare il tuo gusto e tutti gli altri sensi, ce ne sono abbastanza. Così sarà anche per chi verrà dopo di noi, su per il sentiero.”“Possiamo mangiare senza dover pagare?” “Senza dover pagare ... il nostro compito è quello di prenderci cura, di rispettare, di compiere tutte quelle azioni al fine di salvaguardare questi lamponi per tutti coloro, uomini, animali o piante che siano, per la terra, per l’acqua e l’aria, che ne possano disporre, un giorno. Non è poi così scontato, vedi, se te lo chiedi pure tu. E' necessario che gli uomini abbiano questo modo di vedere la natura ed il complesso delle relazioni che, all'interno di essa si intessono, crescono, sviluppano o si distruggono.I lamponi e gli altri beni comuni sono ciò di cui abbiamo bisogno per l’esercizio dei nostri diritti fondamentali e naturali. Per permettere il libero sviluppo della nostra personalità. Per questo è necessario che noi torniamo capaci di proiettare la loro tutela nel mondo più lonta-no, quello abitato da generazioni future.Se decliniamo questa necessità nella società in cui viviamo, sarebbe il mondo della politica a doversi accollare queste funzioni. Purtroppo però le nostre due generazioni sono state caratterizzate dalla negazio-ne dell’immaginario politico, dall’impoverimento delle funzioni. La politica dà spettacolo e giustificazione al mercato.Per loro natura, e per la condizione sociale cui sono deputati, i beni comuni presuppongono una stretta relazione interpersonale di solidarietà e condivisione, ben lontana dalla logica del mercato che invece rappresenta il pensiero attualmente dominante. In antitesi al bene, infatti, la merce ed il mercato si muovono su logiche di sviluppo e si interessano del breve termine. La necessità di preservazione dei beni comuni alle migliori condizioni, si allinea ai parametri di princi-pio quali sufficienza, risparmio, responsabilità, reciprocità, condivisio-ne, fiducia. Per abbracciare questi principi sono necessario riferimenti a cui ispirarsi, appoggiarsi, aggrapparsi. Non è impossibile: già alcune carte

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costituzionali latinoamericane hanno inserito tali presupposti come modo di governo, come buen vivir. Certo il nostro sistema attuale non può reggere tale emotività: allora appare necessario istituire un nuovo contratto sociale dove non sia presente nessuna lobbie e nessun partito. Lo scrivo, lo dico a bassa voce, poiché ci coglie ancor tutti impreparati. Sia invece presente l'impegno delle donne, delle cittadine per rompere le attuali relazione e tesserne di nuove sociali su base differente, con l'ottica di “mettere in comune”.“Mettere”, utilizziamo questo verbo. Il verbo indica una non-identità, una rottura che va oltre, il movimento contrario alla deter-minazione, apre alla possibilità, al viaggio, alla scoperta, anche verso il bene comune. Il mettere in comune è il movimento contro ciò che s’interpone nel cammino verso l’autodeterminazione sociale delle nostre vite.Proviamo a pensare per esempio all'amore, alla scuola, alla casa, non come sostantivi in senso stretto, come abitudini, ma come rigenera-zione e ricreazione delle persone coinvolte, quanti verbi, quante idee possono affiorare. Mettere in comune può rappresentare un nuovo modo di pensare e superare anche le separazioni, disegnare immagi-nari e orizzonti possibili.Non è un esercizio facile perché nella solitudine che abbiamo vissuto, siamo stati educati ad identificarci collettivamente in un Uno (un rappresentante, un tiranno, il mercato) invece che l'ognuno prenda in mano il proprio destino in modo inter-soggettivo e riconosciuto. Ma possiamo provare a pensare che questa azione sia possibile. Abbiamo la possibilità, attraverso la gestione dei beni comuni di scrivere il nostro territorio come un'opera d'arte, se la vogliamo vedere così, corale, che prende forma dal dialogo, dall'intreccio e dal rispetto di entità viventi – uomo e natura – nel tempo della storia degli uomini.Agiamo, partecipiamo, con le nostre singolarità, con il diritto al benessere di avere un'autobiografia, del prendersi cura di sé per pren-dersi cura del destino collettivo del luogo, il nostro, unico territorio di confronto dove le biografie si intrecciano, così come i destini collettivi, contaminandosi ed evolvendo vicendevolmente.”Due grandi occhi puri, mi guardano, sorridiamo nello stesso modo, mi rimane tra lingua e palato, il gusto aspro e dolce, morbido e carez-zevole, del dono e della possibilità.

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Caro Quaderno,

un po' come caro Diario, caro amico, caro confidente, colui che con-fida, con-divide fede e fiducia. In che cosa?Nell'ascolto, e quindi, nel farsi vicino senza pregiudizio, temporanea-mente libero dai propri convincimenti, aperto ad accogliere nel modo più libero anche chi ci dice parole a noi lontane, male intese, magari distorte da abusati preconcetti.Bravo nel farsi puro cristallo, limpida trasparenza, passaggio di luci e suoni che mai possono offenderne l'integrità, capace di risuonare le onde amiche e frangersi nell'impetuosa corrispondenza della verità. Fonte di conoscenza.Quaderno caro, quanto poco bene comune e quanto male comune!Bisognerebbe partire proprio da qui.Il dolore accompagna da sempre la vita umana e non credo in un Paradiso o Età dell'oro dove si era tutti felici. Tutti abbiamo un nostro grado di sofferenza, ma la nostra cultura moderna ci spinge a conside-rarlo un fatto individuale, isolante. La condivisione è difficile e, facil-mente, la nostra insoddisfazione finisce per renderci aggressivi nei confronti degli altri. C'è chi pensa che la vita sia così, ogni uomo contro l'altro, vince il più forte, il più aggressivo, il dolore mio si atte-nua procurando dolore a qualcun altro.I tempi ci dicono che le soluzioni egoistiche, oltre che moralmente criticabili, sono totalmente perdenti per tutti. O si pensa in modo condiviso, per la salvaguardia di tutti oppure perdiamo tutti, e questa volta la posta in gioco è decisiva per le sorti delle future generazioni se non della vita del pianeta tutto. Anche ad Arco? Certo, anche ad Arco.Purtroppo al male promosso e prodotto da coloro che appartengono alla cultura della prepotenza e dell'estensione del proprio dominio mi viene da aggiungere il male di coloro che rimangono indifferenti, complici spesso inconsapevoli ma responsabili, raccolti nelle loro alie-nazioni, incapaci di uscire dal gretto individualismo che al massimo delega ai pochi volonterosi la voce della resistenza e del cambiamento.Vogliamo sentirci partecipi di un percorso comune che si curi della vita di oggi e di domani?Il bisogno di partecipazione convinta, diretta, decisionale nella

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gestione delle cose comuni deve avere spazio.Se anni di malgoverno ci hanno fiaccato nella speranza e soppresso la fiducia che dai politici delle istituzioni non si abbia ascolto e, quando è concesso, non si possa arrivare a scalfire le decisioni già prese a favore dei soliti noti, ebbene risvegliamoci.E il primo risveglio riguarda la nostra filosofia di vita. Ognuno deve osservarsi e valutare quali comportamenti personali persegue.La prima dignità riguarda quella che dobbiamo a noi stessi. Lo so che i vecchi lupi marpioni col pelo sul manto e sullo stomaco trovano in questi discorsi solo pie illusioni. Ma non a loro mi rivolgo, ma a te Quaderno d'ascolto e di speranza.Io credo che la maturazione delle grandi scelte sia favorita molto dal coltivare con coerenza le piccole scelte quotidiane. Ecco che allora diventiamo attenti e critici negli acquisti che facciamo, eliminiamo lo spreco (acqua, cibo, oggetti, energia,...), l'inutile, il condizionamento di pubblicità e mode, riconosciamo quanto influisca in noi la persua-sione indotta in modo spesso occulto o emulativo, il pensare per triti ragionamenti acritici e superficiali, il modellarci su standard di immagine/bellezza che ci uniforma in modo impersonale, illuden-doci di essere al passo coi tempi.Si badi bene che non si tratta di tornare al passato, fatto di carenze e restrizioni, ma di toglier soprattutto l'eccesso che ci sta travolgendo. Nell'ultimo secolo il numero di oggetti presenti in una casa privata europea è passato da circa 400 a circa 10.000. Tutti indispensabili?Ma l'attenzione non deve essere rivolta solo alle cose possedute, ma anche alla relazione delle nostre azioni con la vita della comunità.Ecco che migliorare la raccolta differenziata, tenere pulita la strada dagli escrementi del proprio cane o dai mozziconi di sigaretta, rispettare i limiti di velocità, non lasciare scorrere inutilmente l'acqua potabile, evitare di tenere accese lampadine in luoghi che non usiamo, sono alcune delle azioni che, purtroppo, tanti vivono come fastidiose e preferiscono essere pigri o sentirsi “furbi” non facendole, rivelandosi così tanto meschini.A ognuno sono richiesti cambiamenti del proprio modo di vivere.La persona sensibile e partecipe si sentirà una coscienza personale e civica gratificata, sarà partecipe di un cambiamento insieme a tanti altri cittadini, sarà soddisfatto del sentirsi “contro” un tipo di vita consumista, sprecona e inquinante, potrà sentirsi rinforzato nella

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propria autostima e nella costruzione della propria dignità personale.Caro Quaderno, spero che tu non ti sia stufato e tu non abbia cesti-nato questo mio onirico augurio ma, per dirlo alla romana, “demose 'na mossa”.

Bene Comune

Bene.Oggi parleremo e speriamo in bene, di bene comune.Comune.Quale Comune?Arco. Comune di Arco di Trento, un piccolo villaggio arrampicato che dà il fianco al castello di Raperonzolo: elegante pieno di olivi, tetti praghesi e viuzze transilvane, tagliato da un fiume che solo lui e solo a guardarlo, vien voglia di diventare archesi, arcensi o forse arcani...chissà.Ma io sono di un altro Comune!Fa’ lo stesso.Qui s’intende comune minuscolo, aggettivo maschile singolare, scrit-to piccolo, che significa di tutti, della comunità, ciò che viene usato da tutti, in comunione insomma.Ostia!No non la comunione, in comunione!Bene di tutti, dunque anche mio, anche se da fuori e di passaggio, se ne può parlare.Eccome se ne parla.Ne parlano tutti. A partire dalle elementari, quando la maestra dice:”Rispetto per il banco, non è solo tuo, è tuo solo per poco. Non imbrattarlo, non pasticciarlo né rovinarlo, dopo di te sarà di un altro alunno diverso, uguale ma nuovo.Un tavolino come un fiume o un olivo: liberi, navigabili, frondosi e comuni, niente a che fare con la politica e nemmeno con la religione ma solo con la civiltà. Civiltà “una somma di individui per cui le sole cose che contano

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sono quelle che rendono la vita individuale più interessante” *. Interessante come quell’iscrizione che sta sulla facciata di un vecchio palazzo della mia città: “elegantiae publicae commoditati privatae” **che poi vuole semplicemente dire che quella meraviglia di palazzo è stato costruito per l’eleganza pubblica ma per la comodità privata.L’eleganza è per tutti. E’ un bene comune che come la bellezza è nella natura delle cose belle: inutili, gratuite, misteriose e leggere. I comodi propri sono propri, privati e, come quelle porte dei locali dove c’è scritto privato, incutono un certo timore e non verrebbe mai in mente a nessuno di entrarci senza autorizzazione. Eppure.Comodi e propri come le mani che si mettono nel naso privatamente e nel rispetto della privacy, perdio. Del resto si sa che dalla messa in onda della legge sulla privacy, gli individui e anche i loro nasi, sono diventati beni comuni, merce di scambio, fonte di dati che a loro volta sono fonti di informazioni commerciali. Non appena scoprono l’orario in cui ti metti le dita nel naso è pronto il format della crema restringi narici. Li chiamano big data ma l’unica cosa veramente big è la fregatura che sta dietro il loro mercimonio: il commercio dei nostri tic, delle nostre abitudini e delle nostre claustrofobie.Ecco, caro Arcano ti ringrazio per essere arrivato in fondo a queste inutilmente futili considerazioni, e vorrei ringraziare il paese in cui abiti per il bene che questo luogo, Lui e il suo Lago, sono in grado di distribuire in dosi eque e solidali a tutte le persone che hanno la fortuna, come me, di passare da queste parti. Non so se ringraziare anche la parte Comune di tutto questo bene, parrebbe che in stanze private di luoghi comuni, il bene comune venga privato, proprio di quel bene di cui non resta più nulla, nem-meno la vista del lago di “quell’angolo di mondo che strabilia..” ***Quella vista che, vista da un macigno mostruoso frutto di affari privati in pubbliche perversioni, come le dita nel naso son sporchi: di comune han poco e di bene proprio niente.Un’affezionatissima milanese Furti & Citazioni• Ezra Pound • Palazzo Castani in P.za S.Sepolcro a Milano• Rainer Maria Rilke

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Agrippa, ovvero la farsa del bene comune.

Una leggenda racconta che nell’antica Roma ci fu un periodo in cui i plebei fecero degli scioperi. Durante uno di questi intervenne un senatore di nome Menenio Agrippa. I senatori erano tutti patrizi. Così egli si rivolse agli scioperanti: “Lo stato è come un corpo umano, nel quale ogni organo coopera al benessere del tutto. Se uno solo degli organi è malato o si rifiuta di funzionare, tutto il corpo ne risente. Voi, plebei, siete le braccia; noi, patrizi, siamo lo stomaco. Quindi voi dovete procurare il cibo allo stomaco, altrimenti uno stomaco vuoto procura un guaio irreparabile. Se lo stomaco rimane vuoto, anche tutto il resto del corpo, comprese le braccia, deperisce.” La leggenda racconta che i plebei furono persuasi da questa arringa e tornarono al lavoro. Tu mi dirai forse che ciò avveniva in un tempo lontano, quando l’umanità non aveva ancora raffinato le sue armi. Io ti dirò invece che ciò avviene sempre, in qualsiasi tempo, luogo, cultura. La giustizia è l’utile del più forte. Ogni governo è espressione di chi ha il potere, quindi ogni governo fa gli interessi di chi è al potere, ma perché siano accettati dai sottoposti, deve farli passare come interesse generale, come bene comune. Per dimostrare questo assunto, ti faccio l’esempio contemporaneo sotto riportato.Un bel giorno la burocrazia e il sindacato si misero d’accordo per decidere una legge sull’assunzione degli insegnanti nella scuola pub-blica. Burocrazia e sindacato sono due potenze al potere in Italia, come ben sappiamo. Si dissero: “Noi siamo al potere e dobbiamo conservarlo. In merito agli insegnanti, decidiamo che dovranno fare una certa strada: dovranno acquisire punteggi e abilitazioni. I punteg-gi sono dati dagli anni d’insegnamento e l’abilitazione da un esame. Facendo così, noi saremo ancora al potere, perché potremo controlla-re tutta la scuola pubblica, infatti punteggi e abilitazioni saremo noi a deciderli e ad elargirli! Vedremo tutta questa massa di aspiranti inse-gnanti seguire le nostre norme, accettare le nostre imposizioni, ringraziarci quando avranno ottenuto il posto fisso. Li vedremo in fila come una tribù di formiche, spintonarsi e facendosi sgambetti e per noi sarà una visione sublime! Ma, per fare tutto questo, è necessario far passare le nostre leggi come fossero dettate dal bene comune. Dunque diremo al mondo che questo è un metodo democratico,

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alieno da raccomandazioni (come invece capita nelle università): tutti uguali di fronte alla legge, tutti all’opera ad accaparrarsi i punteggi e le abilitazioni. Vedremo questi futuri insegnanti accapigliarsi ad otte-nere le supplenze in ogni possibile scuola, e poi li vedremo umili e deferenti di fronte ai giurati (cioè di fronte a noi) mentre faranno quell’esame per la cosiddetta abilitazione. A noi non interessa granché che sappiano le materie per le quali concorrono, basta che sappiano il minimo. A noi interessa solo che questi professori abbiano sempre in mente che dipendono totalmente da noi. Insomma gli faremo un bel lavaggio del cervello, in modo che non possano mai più scordar-selo. E poi, chi mai può elargire un posto fisso per l’eternità? Solo noi! Costoro ci ringrazieranno per tutta la vita! ” Così burocrazia e sindacato si misero all’opera per creare la scuola pubblica italiana. Decisero che bisognava computare in che anno uno si è laureato, quali esami ha sostenuto, quanti anni di insegnamento ha fatto. Era necessario capire se costui sa la materia per cui è insegnan-te? No! Se lui o lei è responsabile, studierà tutta la vita la sua materia, perché è chiaro che per sapere qualcosa bisogna dedicarvisi tutta la vita. Se lui o lei, invece, una volta finita l’università, hanno chiuso i libri e si sono dedicati a tutt’altro (magari a un secondo lavoro), è affar loro, non della scuola. Se sanno solo le solite quattro cosette, sempre quelle, ripetute per milioni di volte nei secoli, le quattro cosette banali, fumose, noiose, imparaticce, senza arte né parte, senza sale né pepe – ebbene ciò esula dalla competenza della burocrazia e del sindacato. Se costoro riescono solo ad annoiare gli studenti, e non ad interessarli, è questione di nessun interesse. Così capita che, quando si tratta di difendere il proprio misero inte-resse particolare, il professore ‘patentato’ si nasconde dietro alla legge, al diritto di precedenza dell’anzianità, ai ‘diritti acquisti’, al merito di aver percorso tutte le tappe ortodosse per diventare una persona cui si tributa il titolo di professore. Dimentica di appellarsi all’unica fonte degna di una persona seria, vale a dire all’essere più o meno sapiente di quella materia, di cui invece, per la maggior parte, si considera (di certo oscuramente) un limitrofo osservatore occasionale. Il professore ha sfruttato quella scienza per ottenere un comodo e inamovibile lavoro statale fisso (che esistano questi lavori statali inamovibili è un altro mistero, o meglio un altro tassello del privilegio e dell’inefficienza, perorato con la grancassa dal sindacato) (e poi:

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‘diritti acquisiti’? Si tratta di diritti avuti da una legge non più in vigore. Ma non si dice che tutti sono uguali di fronte alla legge? Appellarsi a una legge scaduta per difendere dei privilegi, e far passare ciò come legittimo: ecco un’altra ridicolaggine, anch’essa sostenuta dal sindacato). Già, una legge! Ma non è una legge divina né una legge di natura. È una legge umana e come tutte le leggi umane è arbitraria. Questa legge perora la causa della burocrazia e del sindacato, quindi perora la causa dell’inefficienza dello stato! Perché uno stato che permette agli ignoranti e ai mediocri di fare gli insegnanti è inefficiente e fondato sul privilegio. Così molti che, privi di punteggi e di abilitazioni, sanno le materie molto (ma molto meglio!) dei ‘professori patentati’, non hanno accesso all’insegnamento e la scuola si vede costretta a sorbirsi quei provinciali della cultura, rinoceronti senza gloria e senza lode. Ma tutto ciò è riferito al passato. Quell’esame, sopra menzionato, si poteva sostenere fino a qualche anno fa, ed era molto probabilmente facile, perché tutti lo hanno superato. Si era nel tempo in cui le porte della scuola erano spalancate, e quasi ognuno poteva diventare inse-gnante, e la sua missione veniva ricompensata con una baby-pensione (ovviamente anch’essa sostenuta dal sindacato). Da parecchi anni non c’è più questo esametto, si sono inventate altre vie, altrettanto buro-cratiche e sindacali, e quasi impossibili. Oggi è ormai chimerico accedere alla scuola con i criteri burocratici e sindacali. Quindi c’è del ridicolo: da molti anni non è più possibile percorrere la strada indicata da burocrazia e sindacato, punteggi e abilitazioni sono ormai sogni evanescenti, ma i due potentati vi si aggrappano ancora, come all’ultimo osso. Hanno una gran paura che, se mutasse la legge, cioè se fosse invece premiato il merito (assurdo in Italia!), non avrebbero più il loro potere. Ma stiano allegri! (e lo sanno benissimo!), punteggi e abilitazioni, o simili, saranno ancora gli unici lasciapassare per entrare nella scuola e mai avverrà che un ‘patentato’ sia licenziato per far posto a uno che sa la materia molto più di lui, ma che non può presentare la ‘patente’: una farsa che non avverrebbe in una azienda privata. Per azzerare il mattone creato da burocrazia e sindacato, è quindi auspicabile che le scuole diventino tutte private?

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Bene comune

Individualismo, competizione, globalizzazione, produttività, efficien-za, libero mercato, consumismo, crescita economica …Le nostre orecchie ovattate e la nostra mente distratta sono così abituate a sentire questi termini sputati continuamente da uno schermo piatto, dagli altoparlanti, dagli uomini appartenenti al mondo politico ed imprenditoriale, che forse li abbiamo incoscien-temente fatti nostri, prendendoli per veri?Reciprocità, relazionalità, fraternità, bene comune, fiducia, equità, gratuità, condivisione, relazioni interpersonali …La modernità tende inesorabilmente a sostituire le leggi anonime e impersonali del mercato alle relazioni interpersonali, ovvero il preva-ricare della competizione sulla cultura. La cultura, intesa come insie-me di norme sociali e convenzioni, deve tornare a essere l’elemento trainante della società. L’uomo nasce per vivere con gli altri, sia per la propensione alla compagnia con i simili sia per l’utilità che l’uomo trae dallo “stare con”. L’espressione “stare con” racchiude in sé degli aspetti di profondo valore umano e sociale; nel bene comune, il vantaggio che ciascuno trae per il fatto di appartenere a una comunità non può essere scisso dal vantaggio che anche gli altri ne traggono. Ovvero il mio interesse si realizza assieme a quello degli altri, non contro. Se PUBBLICO è ciò che sta alla luce di tutti, PRIVATO è ciò che viene sottratto alla vista, COMUNE d’altro canto è il mondo stesso in quanto è comune a tutti: il COMUNE è quindi il luogo delle relazioni interpersonali.Mi piace sottolineare questo aspetto della nostra società economica capitalistica: siamo tutti degli sconosciuti tra sconosciuti e secondo le attuali leggi economiche gli affari si fanno meglio con coloro di cui non si conosce l’identità personale. Manca completamente l’elemento della reciprocità e fiducia, del contatto. L’attuale compor-tamento economico ha sviluppato tratti antisociali, ma di ciò non siamo abbastanza consapevoli. Le nostre economie sono macchine efficienti per soddisfare i nostri bisogni materiali ma non abbastanza adeguate per soddisfare i bisogni relazionali ed il mercato quindi avanza sulla desertificazione della società.Sono società di successo quelle che promuovono e sostengono

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l’intrecciarsi di relazioni interpersonali basate sulla fiducia e promuo-vono le condizioni per intraprendere iniziative cooperative per raggiungere un mutuo beneficio. Bisogna quindi riconoscere alla società civile la capacità di intervenire sulla sfera economica, ma alla base di una società economica funzionante deve esserci una società civile funzionante!La nuova società in cui vivere non può forse fare a meno della reci-procità, della fiducia, dei sinceri rapporti interpersonali; saprà anche vincerla questa sfida? Il pessimismo realista porterebbe a una disperata conclusione: esiste un punto di arrivo ma nessuna via; invece comin-ciamo da subito a non affidarci ad una speranza dislocata nel futuro ma lavoriamo sul presente perché le nostre opere ed azioni hanno una forza ancorata nel qui e ora.

Hanno partecipato alla discussione e con un loro contributo scritto a dibattere il tema del “bene comune”

Francesco Bontadi, Roberto Calzà, Francesca Corradini, Liliana Casati, Aldo Riccadonna, Maurizio Rigo, Lorenzo Zoanetti.

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Stampato in proprio, il 12 novembre , in Vicolo Curvo 14, Stranfora, ArcoI contenuti presenti nell’opuscolo possono essere liberamente diffusi, anche tramite stampa.

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