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ECONOMIA E PSICOLOGIA. UN’APPLICAZIONE AI PROCESSI DI CAMBIAMENTO. Roberta Patalano Università Parthenope Pubblicato in : Rizzello S. e Spada A. (a cura di), Economia cognitiva e interdisciplinarietà, Giappichelli Editore, Torino, 2011. 1

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ECONOMIA E PSICOLOGIA. UN’APPLICAZIONE AI PROCESSI DI CAMBIAMENTO.

Roberta PatalanoUniversità Parthenope

Pubblicato in:

Rizzello S. e Spada A. (a cura di), Economia cognitiva e interdisciplinarietà, Giappichelli Editore, Torino, 2011.

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SOMMARIO

1. Introduzione2. L’approccio al cambiamento nella teoria evolutiva3. La visione di Simon4. Mente e cambiamento

4.1 Path dependence e memoria4.2 Il ruolo dell’inerzia4.3 I meccanismi base dell’immaginazione

5. Il caso del cambiamento istituzionale. Immaginazione e rivoluzioni.6. Conclusioni7. Riferimenti bibliografici

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ECONOMIA E PSICOLOGIA. UN’APPLICAZIONE AI PROCESSI DI CAMBIAMENTO.

1. INTRODUZIONE.

Nella teoria economica mainstream il cambiamento è interpretato come fenomeno

fondamentalmente esogeno, causato da shock esterni al sistema economico e perlopiù

imprevedibili, che generano modifiche nei dati su cui le decisioni si fondano. Alterazioni nei gusti,

nella tecnologia, nella dotazione di capitale e/o nelle aspettative degli agenti di mercato

rappresentano fatti di cui la teoria si limita a prendere atto, analizzandone le conseguenze entro il

proprio apparato analitico-formale.

Una prospettiva più sfaccettata sul tema emerge nell’ambito dell’approccio evolutivo che si avvale

dell’intreccio tra economia e biologia, proprio di una consolidata tradizione nella storia del pensiero

economico1 (Malthus 1798, Marshall 1898, 1920; Veblen 1899, 1901; Schumpeter 1934, 1954;

Penrose 1952, Alchian 1950, 1953, Winter 1964, Georgescu-Roegen 1971, Boulding 1978, 1981).

Nei suoi sviluppi più recenti, tale filone di analisi estende all’economia i concetti base mutuati dalle

teorie di Darwin e Lamarck. Inizialmente esso ha preso in esame quasi esclusivamente il

cambiamento nell’impresa e nelle organizzazioni, mentre nell’ultimo decennio ha coinvolto anche

le istituzioni, sulla base dell’idea che sia possibile concepire un modello di matrice darwiniana

applicabile all’evoluzione della società e della cultura2 (Nelson e Winter 1982, Nelson 1987, 1995,

Winter 1987, Dosi e Nelson 1994, Hodgson 1993, 2003; Witt 1992, 2006). L’espressione

«darwinismo universale» è stata introdotta da Richard Dawkins (1983) e fa per l’appunto

riferimento a tale possibilità3, suggerita invero dallo stesso Darwin che aveva ipotizzato

un’applicazione della sua teoria all’evoluzione dei gruppi sociali, dei principi morali e del

linguaggio (1859).

Winter abbraccia una prospettiva simile quando afferma: : «In sum, natural selection and evolution

should not be viewed as concepts developed for the specific purposes of biology and possibly

appropriable for the specific purposes of economics, but rather as elements of the framework of a

1 L’intreccio tra economia e biologia è un tema di grande respiro e molteplici applicazioni. In questo paper ci limitiamo a considerare sinteticamente l’approccio al cambiamento che ne scaturisce.2 Il rapporto tra economia e biologia ha recentemente trovato anche un ulteriore sviluppo nella teoria dei giochi evolutiva a partire dall’opera Evolution and the Theory of Games del biologo evoluzionista John Maynard Smith (1982). Per un approfondimento si veda la prolusione di Paul Krugman (1996) all’European Association for Evolutionary Political Economy: http://web.mit.edu/krugman/www/evolute.html.3Ulteriori applicazioni dei concetti darwiniani hanno riguardato lo studio dei neuroni (Edelman 1987), della conoscenza (Plotkin 1994) e dei virus informatici (Aunger 2002).

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new conceptual structure that biology, economics and other social sciences can comfortably share»

(1987, p. 617). In ambito economico, la tradizione evoluzionista si sviluppa dal presupposto che nei

contesti di mercato trovino applicazione tre processi chiave, l’ereditarietà, la variazione e la

selezione.

Secondo Darwin, durante la riproduzione le specie trasferiscono alla progenie parte del proprio

patrimonio genetico, che dunque è ereditabile anche se non si auto-replica completamente,

lasciando spazio all’emergere di variazioni. Queste ultime garantiscono l’esistenza di individui

eterogenei e capaci di differenziarsi dalle proprie origini, in quanto proprio nella possibilità delle

variazioni risiede il nucleo dell’evoluzione che procede per differenza rispetto al pregresso. La

selezione, infine, comporta che nella lotta per la sopravvivenza vengano selezionate e sopravvivano

le specie con maggiore capacità di adattarsi all’ambiente.

L’estensione della teoria di Darwin all’economia (così come ad altre branche del sapere) si basa

sulla possibilità di identificare un sostrato che, pur non essendo genetico, è capace di replicarsi,

trasmettendo ai discendenti parte delle proprie caratteristiche e ammettendo altresì una varietà di

esiti possibili per il processo evolutivo. Particolarmente delicate sono le identificazioni del

meccanismo di replicazione attraverso cui l’ereditarietà si manifesta e dell’entità che si replica

(Hodgson 2003). Secondo Sperber (2000), affinchè l’analogia con il concetto introdotto da Darwin

sussista, il meccanismo di trasmissione dei caratteri dovrebbe assicurare l’esistenza di un certo

grado di similarità tra l’entità originale e la copia, un legame di causalità tra le due perché

l’originale deve essere coinvolto in modo causale nella generazione della sua copia e un

trasferimento di informazione.

Un dibattito aperto concerne, inoltre, la natura darwiniana o lamarckiana del processo evolutivo. La

discussione riguarda fondamentalmente il materiale che può essere trasmesso in eredità da un

organismo all’altro: secondo Darwin possono essere ereditati solo i genotipi, ovvero le informazioni

racchiuse nei geni; per Lamarck, invece, vengono trasmessi anche i fenotipi, ovvero i caratteri

acquisiti dall’individuo successivamente alla nascita, per effetto della sua crescita culturale. Sul

piano strettamente biologico, oggi sappiamo che l’ipotesi di Lamarck non ha fondamento. Ciò

nonostante, numerosi economisti, tra cui Nelson e Winter (1982), Simon (1981), Hayek (1988),

Metcalfe (1998) e Hodgson (1988), hanno trovato più rispondente alle caratteristiche del contesto

sociale la prospettiva di Lamarck, rintracciando in essa gli strumenti necessari a spiegare

l’evoluzione della cultura e delle istituzioni. Senza voler entrare nei meandri di questo complesso

dibattito a cui rinviamo il lettore interessato, nella prima parte del paper intendiamo rivolgere uno

sguardo più approfondito alle unità replicanti che gli economisti hanno fino ad ora rintracciato nelle

loro teorie e ad alcuni limiti dell’approccio evolutivo. Successivamente, ci concentreremo sul

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rapporto tra economia e psicologia, con lo scopo di indagare quale prospettiva esso abbia aperto

sullo studio del cambiamento. Come proveremo ad evidenziare, la comprensione dei meccanismi di

funzionamento della mente indirizza la ricerca in una direzione diversa da quella che l’approccio

mainstream ed il filone evoluzionista hanno fino ad ora individuato, rivalutando la dimensione

endogena del cambiamento. Non tanto quindi i suoi esiti finali, ma piuttosto i processi e i

meccanismi attraverso cui esso si snoda acquistano interesse per gli economisti.

2. L’APPROCCIO AL CAMBIAMENTO NELLA TEORIA EVOLUTIVA

Un precursore nell’estensione del darwinismo alle scienze sociali ed in particolare alle istituzioni è

stato Thorstein Veblen (1899). A suo avviso sono le abitudini, per natura durevoli, a costituire il

principale oggetto del processo di selezione:

«The life of man in society, just like the life of other species, is a struggle for existence, and

therefore it is a process of selective adaptation. The evolution of social structure has been a process

of natural selection of institutions. The progress which has been and is being made in human

institutions and in human character may be set down, broadly, to a natural selection of the fittest

habits of thought and to a process of enforced adaptation of individuals to an environment which

has progressively changed with the growth of community and with the changing institutions under

which men have lived» (1899, p. 188).

L’evoluzione delle istituzioni scaturisce dalla competizione tra diverse abitudini di pensiero e di

comportamento: quelle che risultano più rispondenti ai requisiti del contesto sociale si consolidano,

si trasmettono da un individuo all’altro e possono rappresentare il fondamento delle norme e delle

leggi approvate dalla società. Le abitudini costituiscono la base della convivenza comune, oltre che

la traccia da cui può diramarsi l’evoluzione. Più oscuro è tuttavia il meccanismo che innesca la

variazione e dunque offre la possibilità di emanciparsi dalle abitudini consolidate. Per Veblen, il

cambiamento sembra affidato ad aspetti esogeni, ad esempio quando afferma «men’s present habits

of thought tend to persist indefinitely, except as circumstances enforce a change» (1899, p. 191), o

ancora «social evolution is a process of selective adaptation of temperament and habits of thought

under the stress of the circumstances of associated life» (1899, p. 213-214).

Hodgson (2003) ha recentemente proposto un’estensione della teoria di Veblen, suggerendo di

interpretare le abitudini degli individui e le routine delle imprese come l’equivalente dei geni. Le

abitudini caratterizzano l’individuo e si formano attraverso la ripetizione di azioni e/o pensieri. Esse

costituiscono propensioni ad un certo tipo di comportamento (Dewey 1922, Veblen 1899) e,

diversamente dai geni, non si replicano per via diretta ma attraverso due principali meccanismi, la

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presenza di incentivi o obblighi e l’imitazione. Nel primo caso, le stesse abitudini di altri soggetti

vengono acquisite per raggiungere un fine, come ad esempio, voler far parte di un certo gruppo

sociale, sentirsi accettati, rispettare la legge. Nel secondo, esse sono assorbite più o meno

consapevolmente attraverso l’apprendimento per imitazione dagli altri componenti della propria

sfera sociale. Mentre le abitudini caratterizzano gli individui, le routine emergono nel

comportamento dei gruppi, in particolare delle organizzazioni. Esse rappresentano propensioni e

capacità che si consolidano tra agenti dotati di personali abitudini di pensiero e comportamento.

Come i geni, le routine esprimono potenzialità; differentemente dai primi e come le abitudini, esse

si riproducono per via indiretta da un’organizzazione all’altra, attraverso il trasferimento di

conoscenze, di esperienze e di capitale umano.

Su un diverso fronte, a partire dagli anni Ottanta, Nelson e Winter (1982) hanno sviluppato un

approccio evolutivo alla teoria dell’impresa. Nella loro Teoria evolutiva del cambiamento

economico (1982), essi identificano le routine con i geni: similmente a questi ultimi, le routine

racchiudono l’informazione che può essere trasmessa da un’impresa all’altra e definiscono la

capacità di adattarsi all’ambiente:

«In our evolutionary theory, these routines play the role that genes play in biological evolutionary

theory. They are a persistent feature of the organism and determine its possible behaviour (though

actual behaviour is determined also by the environment); they are heritable in the sense that

tomorrow’s organisms generated from today’s (for example, by building a new plant) have many of

the same characteristics, and they are selectable in the sense that organisms with certain routines

may do better than others, and, if so, their relative importance in the population (industry) is

augmented over time» (1982, p. 14).

Osserviamo subito che l’analogia tra geni e routine sorvola su alcune differenze fondamentali. Se da

un lato le routine racchiudono l’informazione che può essere trasmessa ed ereditata, il loro processo

di replicazione è molto diverso da quello genetico: esse fanno copie imperfette di sé, contrariamente

a quanto accade nel DNA; vengono modificate anche nella vita dell’impresa e non solo nel

passaggio da un’impresa all’altra; si sviluppano, o meno, anche in relazione alle richieste

provenienti all’ambiente (Hodgson 2003). Ma è soprattutto l’identificazione di un meccanismo di

replicazione appropriato che rimane problematica.

Le prime critiche all’estensione di concetti biologici alle teorie economiche risalgono a Penrose

(1952) che in un interessante contributo all’origine del dibattito con Alchian (1953) sottolineava la

fondamentale diversità del meccanismo evolutivo nei contesti sociali: mentre in biologia le

mutazioni genetiche sono casuali, negli esseri umani l’emergere di nuovi comportamenti si innesta

nei processi mentali degli individui, coinvolgendo gli obiettivi, i desideri, talvolta la volontà e la

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consapevolezza. Nel prossimo paragrafo ci soffermeremo sulla posizione di Simon che segna un

primo importante passo verso il coinvolgimento della mente nell’analisi del cambiamento.

3. LA VISIONE DI SIMON

Rispetto alla natura del processo evolutivo, Darwin affermava: «Si può dire, metaforicamente, che

la selezione naturale sottoponga a scrutinio, giorno per giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in

tutto il mondo, scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono;

silenziosa e impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l’opportunità per perfezionare

ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita» (Darwin

(1859)1967, p.150). Analogamente, la teoria evolutiva dell’impresa descrive un processo di

selezione che realizza continui miglioramenti paretiani. Anche se non necessariamente il punto di

arrivo coincide con un esito ottimale, l’evoluzione viene rappresentata come un processo

teleologicamente orientato al progresso. Inoltre, pur non essendo un presupposto dell’analisi, la

massimizzazione emerge a livello aggregato come meta del percorso evolutivo delle singole

imprese (Alchian 1953; Penrose 1952; Friedman 1953).

Questa visione finalistica è stata efficacemente criticata da Simon (1983) che ha proposto un

concetto di evoluzione più ricco di quello mutuato dalla biologia, non necessariamente volto a

miglioramenti della specie. Simon suggerisce un’analogia tra il processo di variazione-selezione che

opera nel mondo naturale e la genesi di soluzioni soddisfacenti da parte della mente impegnata a

risolvere problemi4. Di fronte ad un problema, nella mente si affacciano strategie diverse che

competono, in quanto alternative, e sopravvive quella che il decisore valuta come più appropriata a

soddisfare le proprie aspirazioni. Il processo di selezione è tuttavia caratterizzato dalla razionalità

limitata dell’individuo, che rende impossibile all’essere umano esplorare lo spazio di tutte le

possibili alternative decisionali. La selezione avviene dunque solo tra quel limitato numero di

strategie che l’agente riesce ad individuare e può al più tendere ad un massimo di natura locale.

Per Simon (1983) il processo evolutivo descritto da Darwin è fondamentalmente miope, in quanto si

esplica in continui miglioramenti nella capacità di adattamento della specie al suo ambiente esterno,

senza alcuna garanzia che sia possibile raggiungere un livello ottimale di progresso. L’approccio

finalistico, peraltro, si basa sull’ipotesi di un ambiente immobile ed esogenamente dato. In realtà il

4 «Proprio come nell’evoluzione biologica noi troviamo la variazione allo scopo di produrre nuovi organismi, così nella teoria comportamentale della razionalità umana troviamo alcuni tipi di elaborazione di alternative, alcuni tipi di processi combinatori che possono prendere singole idee semplici e riunirle in nuove composizioni. Analogamente, proprio come nella teoria biologica dell’evoluzione il meccanismo della selezione naturale elimina le varianti che hanno dimostrato scarsa capacità di adattamento, così nel pensiero umano il processo di verifica rifiuta le idee diverse da quelle che contribuiscono alla risoluzione dei problemi di cui si sta occupando» (Simon 1983, p.76).

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contesto in cui operano le imprese si evolve a sua volta, cambiando conformazione; parallelamente

cambiano le opportunità che individui e imprese possono cogliere. In un paesaggio in movimento

l’idea della massimizzazione appare ancora più debole. Infatti:

«Se l’organismo vive in un mondo pieno di alture e avvallamenti, può trovarsi in cima a tutti i tipi

di alture locali avendo come unica scelta la discesa, e, allo stesso modo, ogni teoria evoluzionista in

cui la capacità di adattamento sia vista come massimizzata dall’evoluzione vale solo per massimi

locali. A meno di non pensare che il mondo abbia una forma tutta speciale e molto semplice, non

potremmo mai immaginare che l’evoluzione conduca a qualcosa propriamente definibile come il

massimo globale. (…)La possibile rilevanza dell’ottimizzazione globale diviene ancora più dubbia

se il paesaggio che fa da sfondo agli sforzi di raggiungere la sommità della collina non è un

paesaggio fisso. Se noi abbiamo un paesaggio in evoluzione, che elabori continuamente nuove

nicchie ambientali - così che le colline spuntino per ogni dove - possiamo allora concepire un

processo di evoluzione che non conduca a qualcosa che possa essere definito uno stadio ottimale, o

anche semplicemente ad un equilibrio stabile» (Simon 1983, p. 106-107).

Il meccanismo deputato alla genesi delle variazioni solleva ulteriori riflessioni di carattere critico. In

biologia il processo di variazione è la fonte del progresso, perché dà accesso alla creazione di nuove

forme di vita, ed ha una natura casuale, in quanto è innescato da mutazioni genetiche favorevoli ma

del tutto imprevedibili. Estendere questa visione alle scienze sociali è problematico. Ben diversa

infatti è la dimensione intenzionale che il processo di cambiamento assume quando analizzato con

riferimento ai meccanismi di pensiero umani (Penrose, 1952; Nelson e Winter, 1982; Dosi e

Nelson, 1994; Rizzello, 1997). Nella teoria evolutiva il cambiamento è un fenomeno

fondamentalmente esogeno che si lega al manifestarsi di shock. L’innovazione è la risposta

dell’impresa a questi shock ed esprime dunque la sua capacità di adattamento alle imprevedibili

mutazioni ambientali. Questa prospettiva non riesce a dare conto di alcuni aspetti significativi del

cambiamento economico, quali la generazione di innovazioni anche in contesti non problematici né

sottoposti a shock, e la natura path dependent del progresso tecnologico (Rizzello 1997).

Un ulteriore aspetto controverso dell’approccio evolutivo è rappresentato dal concetto di

ereditarietà. In biologia l’ereditarietà è un processo genetico casuale. In economia la trasmissione di

caratteristiche da un’impresa all’altra investe il problema del trasferimento di conoscenze. Le fonti

principali di questo trasferimento fino ad ora maggiormente analizzate riguardano l’imitazione e lo

spostamento di capitale umano (Hodgson 2003). Tuttavia, a differenza di quanto avviene nei

contesti naturali, l’ereditarietà non implica identità dei caratteri trasmessi: in altre parole, non

vengono coniate riproduzioni esatte dell’originale. E’ dunque necessario analizzare più in

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profondità in base a quali meccanismi è possibile emanciparsi dai caratteri ereditati e con quali

conseguenze.

4. MENTE E CAMBIAMENTO

Il rapporto tra economia e psicologia ha solide radici nella storia del pensiero economico ed ha

vissuto negli ultimi decenni un’importante riscoperta, grazie anche alla valorizzazione di questa

eredità intellettuale (Rizzello 1997; Egidi e Rizzello 2004; Patalano 2005; Ariely 2008; Gigerenzer

e Selten 2002). La recente attribuzione dei premi Nobel per l’economia allo psicologo Daniel

Kahneman e ad un autore eclettico e particolarmente attento alle dinamiche psicologiche, quale

Thomas Schelling, testimoniano la portata di questa riscoperta. L’intreccio tra le due discipline ha

già mostrato di avere un impatto rivoluzionario sugli obiettivi e i metodi della scienza economica.

In particolare, si è fatta strada l’idea che il comportamento degli agenti e dei mercati dipenda anche

da variabili prima del tutto trascurate, tra cui i limiti della razionalità, le emozioni, la creatività, la

memoria, i meccanismi di apprendimento, i vissuti pregressi. All’immagine dell’homo

oeconomicus, soggetto ideal-tipico e astratto, si va sostituendo sempre più quella di un essere

umano, dotato di risorse e di limiti neuropsicologici, oltre che pecuniari.

Rinviando il lettore interessato alla vasta e crescente letteratura sul tema5, intendiamo soffermarci

sull’impatto che il rapporto tra economia e psicologia ha per l’analisi del cambiamento. Pensiamo

infatti che, da un lato, nell’approccio a tale fenomeno trovino applicazione tutte le principali

acquisizioni dell’economia cognitiva; dall’altro, che il cambiamento costituisca un tema di

fondamentale importanza per rivalutare la natura eminentemente sociale dell’economia, riportando

quest’ultima ad essere una scienza che si occupa dell’uomo, con le sue caratteristiche, le sue

contraddizioni e le sue potenzialità.

4.1 Path dependence e memoria

Molti processi economici si sviluppano nel solco della loro storia, integrando la dipendenza dal

passato con la possibilità di emanciparsi dai suoi tracciati e perseguire direzioni imprevedibili di

sviluppo.

Il concetto di path dependence è stato introdotto in economia da David (1985; 1988; 1997) e Arthur

(1989) proprio per poter analizzare gli effetti della storia sulle dinamiche economiche, inizialmente

con riferimento specifico allo sviluppo delle innovazioni tecnologiche e ai possibili fenomeni di

5 Per una panoramica generale e di carattere introduttivo si veda Patalano (2010). Per ulteriori primi approfondimenti si consultino Rizzello (1997) e Patalano (2005).

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lock in. Questi ultimi identificano situazioni in cui il sistema economico rimane intrappolato in un

equilibrio non ottimale, con l’effetto che la dinamica evolutiva si blocca e non sono possibili

miglioramenti paretiani.

Lo studio dei fenomeni path dependent, iniziato con l’analisi delle traiettorie seguite dal progresso

tecnologico (David 1985; Arthur 1989; Metcalfe 1992; Dosi 1988), è stato poi esteso alla genesi e

persistenza delle istituzioni (David 1994; North 1994, 2005; Denzau & North 1994; Rizzello &

Turvani 2000; Patalano 2007a, 2010c), alle imprese (Dosi & Nelson 1994; Levinthal 1997; Winter

1990), al problem solving (Egidi & Narduzzo 1997; Frenken et al. 1999), alla politica (Mahoney

2000, Pierson 2000, North 2005) e alle leggi (Hathaway 2003). Più recentemente il concetto è stato

applicato anche alle dinamiche neurocognitive degli agenti, prendendo in esame il suo rapporto con

l’evoluzione dei sostrati neuronali, degli stati emotivi e delle rappresentazioni mentali (Rizzello

2000, 2004; Patalano 2007a, 2007b, 2010a).

Raffinamento analitico dell’idea che «la Storia conta», in termini generali, la path dependence

richiede l’esistenza di un processo dinamico di natura stocastica6 e potenzialmente in grado di

raggiungere equilibri multipli (Bassanini e Dosi 1999; David 1997). Un fenomeno path dependent è

un processo stocastico irreversibile, i cui esiti sono determinati dalle condizioni di partenza iniziali

e dall’intera sequenza di eventi che ne compongono la storia. In base a questo concetto, ad esempio,

il comportamento di un soggetto oggi, sia esso un individuo, un’organizzazione o un’istituzione, è

influenzato dal suo intero vissuto, perché tutte le esperienze tendono ad imprimersi nella memoria e

mantenere un peso nel tempo.

Una prima fondamentale differenza tra ereditarietà e path dependence concerne la modalità di

relazione con il passato. Nel caso dell’ereditarietà, il passato replica se stesso o alcuni suoi tratti

attraverso la trasmissione interindividuale di caratteri genetici: il meccanismo di trasmissione è

casuale e non alterabile dall’individuo. In presenza di path dependence, il passato esercita

un’influenza che non è esogena, ma può essere modificata, perché si integra con le esperienze che

l’individuo vive nel corso della vita. L’eredità della Storia può perciò produrre effetti del tutto

imprevedibili ex ante, in quanto co-definiti dal vissuto del soggetto. Proprio per questo la path

dependence non coincide con una forma cieca di dipendenza dal passato (North, 1990). La Storia

delinea possibili traiettorie di sviluppo, ed è qui che la dipendenza si manifesta; poi il soggetto, e

talvolta il caso, possono intervenire per selezionare l’una o l’altra traiettoria, oppure per alterne il

corso.

6 La natura stocastica del processo è una condizione necessaria, come evidenziato da David (1997). Mentre infatti, nei processi deterministici con equilibri multipli la storia interviene solo nella determinazione delle condizioni iniziali, scelte le quali, la convergenza si realizza verso un unico equilibrio tra quelli possibili, nel caso di processi stocastici l’intera sequenza di eventi che si realizza lungo la traiettoria del processo, congiuntamente alle condizioni iniziali, definisce l’esito della dinamica evolutiva (Bassanini e Dosi 1999). Il concetto di path dependence può riferirsi, dunque, solo a quest’ultimo tipo di processi.

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Come proveremo ad argomentare, a partire dal concetto di path dependance gli sviluppi del

rapporto tra economia e psicologia nell’ultimo decennio consentono di elaborare una prospettiva sul

passato e sul cambiamento fondamentalmente diversa da quella che le teorie evoluzioniste

propongono. La specificità della path dependence nei contesti socio-economici si innesta infatti

sulle caratteristiche della mente e del cervello che si trasformano nel tempo attraverso

l’apprendimento.

Un aspetto costitutivo del cervello umano è rappresentato dalla plasticità nervosa. Tale caratteristica

rende impossibile localizzare in termini rigidi le specifiche funzioni neuronali, sia per l’esistenza di

formazioni diverse che contribuiscono alla stessa funzione, sia perché i circuiti nervosi sono

modificati dagli stimoli che ricevono e dunque cambiano nel tempo (Oliverio, 1999).

A partire dalla reinterpretazione in chiave contemporanea dell’Ordine Sensoriale di Hayek, Rizzello

ha evidenziato la natura path dependent dei processi cognitivi (1997, 2000, 2003, 2004). Come

pioneristicamente suggerito da Hayek (1952) e poi confermato dalla ricerca neuroscientifica recente

(Fuster 1997; Paller 2001), la percezione del mondo esterno dipende dai tracciati neuronali

dell’individuo. Questi ultimi vengono in parte ereditati geneticamente, in parte evolvono lungo tutto

il corso della vita attraverso l’apprendimento dalle esperienze vissute. Essi orientano e classificano

gli stimoli sensoriali, consentendo al soggetto di percepire il mondo esterno come ordinato e

significante, piuttosto che come un insieme disconnesso di dati percettivi grezzi. Proprio perché la

struttura neuronale dell’individuo è costituita da sinapsi in parte ereditate, in parte consolidatesi nel

tempo, è possibile affermare che la percezione ha una dimensione storica: i processi sensoriali

dipendono dalle esperienze “memorizzate” nei legami neuronali. Attraverso la configurazione di

questi ultimi, il passato percettivo esercita la sua influenza sul presente.

Non si tratta tuttavia di un’influenza deterministica poiché le esperienze vissute nel presente

possono condurre ad una revisione della conformazione neuronale già consolidatasi. Il cervello

difatti evolve continuamente sulla base delle esperienze personali e delle interazioni sociali: le

sinapsi che non vengono attivate perdono vigore, quelle più frequentemente impiegate si rafforzano.

Inoltre è possibile che nuove connessioni emergano generando cambiamenti imprevisti nelle

configurazioni neuronali (Hayek 1952). A livello neuropsicologico, l’apprendimento che

riorganizza i legami sinaptici si configura come uno dei meccanismi base di emancipazione dal

passato percettivo del soggetto (Rizzello 2000, 2004).

Lo studio dei processi di memoria e delle componenti affettive del pensiero ha offerto sostegno a

questa prospettiva, aprendo una strada di indagine parallela. Path dependence e meccanismi

endogeni di cambiamento sono rintracciabili non solo nei sostrati neurofisiologici ma anche nello

sviluppo dei ricordi, delle emozioni e delle immagini mentali (Patalano 2007a, 2007b).

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Gli studi sulla memoria hanno consentito sempre più di evidenziare la sua natura eminentemente

ricostruttiva (Tulving 1983, Edelman 1992, Damasio 1994, Schacter 1996). Si tratta in realtà di

un’intuizione già dovuta a Bartlett (1932) e sviluppata ulteriormente da Neisser (1967). Per Bartlett

(1932, p. 213) «remembering is not the re-excitation of innumerable fixed, lifeless and fragmentary

traces. It is an imaginative reconstruction, or construction».

Con un’interessante metafora, Neisser (1967) assimilava l’atto del ricordare al lavoro di un

paleontologo che cerchi di ricostruire un dinosauro usando alcuni frammenti delle sue ossa. Non

avendo a disposizione tutte le ossa originarie, il paleontologo ne aggiunge altre estratte da animali

morti di recente. Si trova in tal modo a combinare insieme alcuni pezzi del passato, i reperti

archeologici, con alcuni pezzi del presente, le ossa recenti. Inoltre, non avendo mai visto di persona

un dinosauro, egli non ha certezze sulla sua forma esatta: nella ricostruzione dunque deve affidarsi

all’immagine dell’animale preistorico che si è creato nella mente.

Coerentemente con questa metafora, il recente sviluppo di indagini sempre più sofisticate anche

sotto il profilo neuro-fisiologico ha consentito di verificare che nell’atto del ricordare gli indizi

estratti dal presente si combinano con la traccia mnestica immagazzinata sotto forma di ricordo e la

“aggiornano”. I ricordi non sono perciò entità immutabili, fissati una volta per tutte, ma piuttosto

soggetti a revisioni e rimodellamenti sulla scorta delle esperienze vissute nel presente, anche in

assenza di consapevolezza (Eysenck & Keane 1990, Haist, Gore & Mao 2001, Schacter 1996).

La natura ricostruttiva della memoria umana riporta in primo piano la centralità del soggetto nel

rapporto con il proprio passato e con il passato “storico” che egli apprende nello scambio

intergenerazionale. Rispetto all’idea di un presente economico e istituzionale che si sviluppa “nella

morsa del passato”, la natura ricostruttiva dei ricordi suggerisce infatti che anche il passato

ricordato si formi e si modifichi sotto l’influsso del presente (Patalano 2007b).

La relazione tra passato e presente è più complessa e sfaccettata di quanto la letteratura economica

ha sin qui evidenziato, in particolare perché il ruolo attivo giocato dalla soggettività nel ricordare

indebolisce l’ipotesi di un legame univoco tra passato e passato ricordato. Le implicazioni per lo

studio della path dependence comprendono la considerazione di uno spazio per il cambiamento

finora inesplorato. Se nella mente non esiste un’unica ed immutabile rappresentazione di “come

sono andate le cose”, non può nemmeno essere definita un’unica ed immutabile forma di

dipendenza da tale rappresentazione. Piuttosto, il concetto stesso di path dependence acquista un

significato relativo, ovvero legato a quella specifica e temporanea immagine del passato, da cui il

presente di volta in volta dipende. In presenza di un rapporto dinamico con la Storia emerge un

meccanismo importante di emancipazione dai suoi esiti che consiste nel reinterpretarli,

modificandone l’immagine (Patalano 2007b).

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4.2 Il ruolo dell’inerzia

Prima di addentrarci nell’analisi dei meccanismi immaginativi, vogliamo soffermarci però su un

altro aspetto della path dependance che il rapporto tra economia e psicologia ha permesso di

enucleare, e che può essere sintetizzato nei seguenti interrogativi. Può la Storia diventare un peso ed

un ostacolo per il cambiamento? Se il passato rappresenta la traccia su cui si innesta l’innovazione,

esistono casi in cui la sperimentazione di soluzioni creative viene inibita dalle esperienze pregresse?

Tali quesiti ben si collocano in un’analisi del cambiamento che prenda in considerazione i suoi

risvolti psicologici e sociali.

Secondo Lewin (1947), all’interno di un gruppo sociale la dinamica del cambiamento si articola in

passaggi successivi che includono lo “scongelamento” dello stato iniziale, un periodo disordinato in

cui vengono sperimentate soluzioni alternative, la convergerza verso un nuovo equilibrio e il suo

graduale consolidamento. Affinchè tale dinamica abbia luogo, è tuttavia necessario che le forze

favorevoli al cambiamento sopravanzino quelle che lo ostacolano. Lewin ha introdotto in letteratura

il concetto di “resistenza al cambiamento” proprio per identificare la naturale tendenza dei sistemi

sociali a ristabilire il proprio equilibrio in seguito ad uno shock (1947). A partire dagli anni ‘50 del

secolo scorso, tale concetto è stato investigato da vari filoni di ricerca, trovando spazio soprattutto

nell’ambito degli studi organizzativi (Dent and Goldberg 1999, Patalano 2010b). Kenneth Boulding

(1956) ne ha pionieristicamente suggerito l’operare nella mente degli agenti economici. Per

Boulding (1956) la resistenza al cambiamento è un aspetto costitutivo delle immagini mentali degli

individui e può ostacolare la loro dinamica: affinchè possa esserci apprendimento e quindi sviluppo

nelle visioni del mondo che il soggetto elabora è necessario superare un’inerzia di fondo. La

resistenza si manifesta con l’indifferenza o addirittura l’ostilità verso quelle nuove informazioni che

potrebbero mettere in discussione le rappresentazioni mentali già elaborate.

Boulding prende in esame anche il ruolo della resistenza nel mercato, sottolineando come in

contesti caratterizzati da incertezza la difficoltà a reperire informazioni possa in alcuni casi

stimolare negli agenti un atteggiamento di attesa, in cui predomina l’inerzia. D’altra parte,

quest’ultima assume un ruolo molto importante: stabilizzando i propri comportamenti gli agenti li

rendono di fatto più prevedibili, contenendo proprio quell’incertezza che ostacola la

sperimentazione di nuove strade.

Il fenomeno della resistenza assume particolare interesse nell’analisi dei meccanismi evolutivi della

società. E’ importante sottolineare ancora una volta che la Storia è la base di esperienze pregresse

su cui si innesta l’apprendimento: senza tale base, mancherebbe il presupposto per l’evoluzione.

Tuttavia, affinchè un cambiamento abbia luogo, il rapporto con il passato necessita di essere

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rielaborato, trattenendo gli aspetti che possono essere applicati al presente, e separandosi da quanto

invece è solo, temporaneamente o a tempo indefinito, un residuo. Alcune “vecchie soluzioni”

potranno essere rielaborate, altre cadranno in disuso, altre ancora verranno create ex novo. E’

quanto accade in una dinamica path dependent, ove il tracciato costituito dal vissuto pregresso del

soggetto si mescola alle esperienze recenti e può evolvere dando spazio a modalità di risposta

innovative. Risulta tuttavia di grande importanza soffermarsi su quei casi in cui tale processo

evolutivo non si realizza e la Storia imbraga la dinamica del sistema precludendone o rallentandone

lo sviluppo (Patalano 2010b).

Un’applicazione di tale possibilità ben nota in letteratura è il conflitto tra exploitation ed

exploration che può emergere nelle organizzazioni (Holland 1975, Cyert and March 1963, March

1991). L’exploitation fa riferimento all’adattamento da parte dell’organizzazione di vecchie

strategie ai requisiti del presente, mentre l’exploration si riferisce alla generazione di competenze

nuove. I due processi sono differenti sul piano qualitativo, perchè l’exploitation tende a dare

risultati più certi e più rapidi. D’altra parte, in condizioni di risorse limitate, eccessivi investimenti

in exploitation riducono le possibilità di investire in ricerca. L’esistenza di soluzioni storicamente

già collaudate che vengono riproposte per far fronte ai problemi del presente può materializzarsi in

una sottrazione di risorse per la sperimentazione e l’innovazione.

I due processi non sono tuttavia necessariamente alternativi e nei casi più fortunati convivono. Ad

esempio, riflettendo sull’evoluzione delle regole scritte nelle organizzazioni, March ha osservato

che tali regole rappresentano meglio «una collezione di tracce derivate dalla storia, piuttosto che

una risposta precisa alle condizioni del presente» (2000, p. 162), evidenziando come la ricerca di

soluzioni nuove possa passare per una fase in cui l’esperienza già maturata viene rielaborata e

riadattata al presente. L’esito finale del processo evolutivo è il frutto di un compromesso tra questi

tentativi di adattamento e l’innovazione vera e propria. .

In termini più generali, possiamo affermare che in un contesto path dependent non esiste un

rapporto diretto tra lo stimolo al cambiamento e la risposta a questo stimolo, in quanto tale rapporto

è mediato dal passato del soggetto/sistema e dal modo in cui esso viene elaborato; al tempo stesso le

pressioni derivanti dall’ambiente non sono di per sé sufficienti a generare un cambiamento, che

deriva piuttosto dalla ricerca di un compromesso tra le condizioni correnti, le esperienze del passato

e il modo in cui queste esperienze vengono reinterpretate.

Tali considerazioni contribuiscono a collocare la mente al centro del processo evolutivo: affinchè il

comportamento dei soggetti cambi è necessaria una modifica nelle loro strutture cognitive e

affettive che passa per il superamento delle conformazioni già collaudate (Patalano 2010c). Si tratta

di un approccio affine a quello sviluppato da Douglass North nell’ambito dell’economia neo-

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istituzionalista, che ha rintracciato nell’evoluzione dei modelli mentali la chiave di volta del

cambiamento istituzionale (North 1994, 2005). L’evoluzione delle istituzioni richiede, come

requisito preliminare, lo sviluppo di strutture cognitive che siano in grado di supportare e dare senso

a tale evoluzione. Se il cambiamento precede tale sviluppo è probabile che si generi una resistenza;

d’altra parte, l’adeguamento dei modelli mentali tenderà ad essere più duraturo di quello che

riguarda le norme. Nei prossimi paragrafi esamineremo in dettaglio i meccanismi attraverso cui

l’immaginazione contribuisce a queste dinamiche, offrendo al cambiamento un contributo

essenziale.

4.3 I meccanismi base dell’immaginazione

Sebbene importanti autori del passato abbiano riconosciuto l’importanza dell’immaginazione, nella

letteratura economica contemporanea, anche in quella di taglio cognitivo, si tratta di un tema ancora

molto trascurato. Nella storia del pensiero economico contributi rilevanti sono stati sviluppati da

Kenneth Boulding (1956) e Cornelius Castoriadis (1975, 1997) che ne hanno fatto oggetto di

originalissime opere (Patalano 2005, 2007a, 2010a).

L’immaginazione consente al soggetto di dare senso al mondo che osserva e percepisce, attraverso

la “messa in immagine” di percetti, ricordi e desideri inconsci. La costruzione di scenari immaginari

ha una natura intrinsecamente soggettiva in quanto esprime il personale significato che il soggetto

attribuisce a ciò che gli accade. Al tempo stesso essa ha anche un’importante dimensione sociale,

sia perchè l’individuo nella costruzione dei significati è influenzato dagli schemi interpretativi che

assorbe dal proprio contesto socio-culturale, sia perché attraverso le interazioni di più agenti le

immagini mentali di ciascuno entrano in contatto con quelle degli altri, si contagiano e possono

diventare sostrato semantico condiviso.

L’immaginazione ha certamente una controparte neurofisiologica nel cervello umano ma non può

essere ridotta a quest’ultima: di fatto, ciò che la trasforma in una risorsa esclusiva è la sua funzione

semantico-interpretativa, che si avvale del coinvolgimento simultaneo di numerosi processi psichici,

tra cui la memoria, le emozioni, la percezione e l’inconscio. Immaginando è possibile creare

significati nuovi per interpretare la realtà e attribuire senso a quanto viene percepito, vissuto o

ricordato.

Nell’ambito della psicologia dinamica, l’immaginazione è il linguaggio principale dell’inconscio ed

esprime gli affetti più profondi dell’individuo. Il coinvolgimento delle emozioni nell’attività

immaginativa è un aspetto fondamentale ben chiarito da Castoriadis (1975). A suo avviso,

l’immaginazione si avvale delle emozioni perchè, nell’interpretare la realtà, il soggetto la investe di

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stati affettivi ed oltre ai pensieri attiva anche i propri sentimenti attribuendo valore agli oggetti

rappresentati, che possono essere sentiti come più o meno importanti/minacciosi/angoscianti. Tali

funzioni, d’altra parte, caratterizzano le emozioni in numerosi processi mentali7. Come già intuito

da Etzioni (1988) e recentemente suggerito da Hanoch (2002), esse svolgono due ruoli principali

nei processi di decisione: sono un meccanismo per l’attribuzione di priorità e un meccanismo di

focalizzazione. Il primo ruolo incide sulla natura di risorsa scarsa che l’attenzione umana possiede,

come sottolineava Simon (1983). Le emozioni aiutano l’individuo ad organizzare una gerarchia di

priorità tra i suoi scopi, indirizzando l’attenzione verso quelli che contano relativamente di più.

Oltre a ciò, i sentimenti sfrondano gli aspetti significativi delle situazioni da quelli irrilevanti per

l’individuo, influenzando la “salienza” delle variabili e orientando il focus dei suoi pensieri su un

sottoinsieme di elementi. Come suggerito da Etzioni (1988), l’affetto è uno strumento di ranking,

che attribuisce rilievo a certi parametri decisionali e ne lascia in ombra altri.

Attraverso l’immaginazione, dunque, il soggetto attribuisce significato alla realtà, interpretandola

soggettivamente e colorandola con le proprie emozioni. Durante l’attività immaginativa si apre un

varco per la ricchezza e le potenzialità della variabilità intersoggettiva: ciascun soggetto immagina

sulla base del proprio vissuto, delle proprie conoscenze, dei propri affetti dando espressione alle

parti profonde e spesso inconsce del Sé. Per questo l’immaginazione, come d’altra parte l’attività

onirica, è il marchio dell’individualità.

E’ tuttavia la relazione con la creatività che dota l’immaginazione di una specificità distintiva e la

rende irriducibile ad altri tipi di processi cognitivi. Un aspetto fondamentale, ben sottolineato da

Castoriadis (1975), è la sua capacità di dare forma a scenari che ancora non esistono, consentendo al

soggetto di visualizzarli e sentirli come se esistessero. La possibilità di una prospettiva che

oltrepassi i dati di realtà e prefiguri il cambiamento trasforma l’immaginazione nel terreno più

favorevole per l’inventiva. Sia che quest’ultima prenda la forma di pura fantasia, di un lapsus, di

un’aspettativa, o di uno slittamento interpretativo che consente di attribuire significati diversi da

quelli standard, l’immaginazione espande l’orizzonte rappresentativo del soggetto introducendo

qualcosa di nuovo. E’ possibile immaginare nuove interpretazioni per fatti noti, includere fatti nuovi

7Nella teoria economica le emozioni hanno rappresentato una sorta di taboo, ignorate del tutto o svalutate, attraverso l’inclusione tra i molteplici possibili argomenti aggiuntivi della funzione di utilità (Castelfranchi 2003, Hanoch 2002). Solo recentemente la letteratura ha iniziato a rivalutarne il ruolo (Elster 1998, Loewenstein 2000, Hanoch 2002, Kaufman 2006; Rabin 1998) e ad esaminarne il possibile coinvolgimento nei processi di cambiamento (Patalano 2007a, 2008). La diffidenza nei confronti degli stati emotivi affonda le sue radici nel timore che essi siano di ostacolo alla razionalità (Castelfranchi et al. 2006, Hanoch 2002, Kaufman 1999). In realtà negli ultimi vent’anni la prospettiva sulle emozioni si è modificata proprio in questa direzione, evidenziando come esse siano funzionali al pensiero umano e non di intralcio. In particolare, non necessariamente i sentimenti interferiscono con la logica; soprattutto non si “aggiungono” semplicemente a quest’ultima ma ne modificano le potenzialità. Nell’ambito delle rappresentazioni mentali, le emozioni si intrecciano ai significati che, a loro volta, non costituiscono contenuti oggettivi o neutrali quanto piuttosto una specifica modalità di vedere e sentire tali contenuti.

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nella propria visione del mondo, modificare il valore attribuito a questo o a quell’aspetto della

propria interpretazione. A questi cambiamenti concorrono una pluralità di processi psichici tra cui la

percezione, l’attenzione, le emozioni, l’attivazione dell’inconscio, la capacità semantica e

l’apprendimento. Immaginare può diventare un modo di apprendere se ciò che viene immaginato dà

luogo ad un cambiamento creativo nella mente del soggetto. L’analisi dei processi immaginativi ci

ha condotto ad identificare due distinti meccanismi psichici, l’internalizzazione e la

differenziazione, che sembrano essere funzionali alla creatività (Patalano 2010a).

L’internalizzazione riflette la natura sociale dell’essere umano e la sua tendenza a modificarsi per

effetto delle interazioni con il contesto in cui vive e con gli individui che lo compongono. Negli

scambi interpersonali, così come nel confronto con la realtà socio-istituzionale, si attiva una forma

di ricezione che non consiste nell’assorbire passivamente materiale esterno ma piuttosto

nell’elaborazione personale delle informazioni ricevute. Nei meccanismi di internalizzazione-

esternalizzazione si esplica di fatto l’interazione individuo-società. Da un lato i messaggi ricevuti

dal contesto forniscono al soggetto la base per costruire interpretazioni e dare senso ai fatti;

dall’altro, egli reinterpreta tali messaggi sulla scorta del proprio bagaglio di esperienze e delle

proprie strutture psichiche, restituendo all’ambiente un prodotto personale. L’internalizzazione non

è dunque un processo passivo, ma conduce alla genesi di un nuovo piano mentale in cui l’individuo

reinterpreta attivamente ciò che ha assorbito: essa comporta trasformazione, piuttosto che semplice

trasmissione di contenuti (Lawrence & Valsiner 1993, 2003).

L’immaginazione svolge un ruolo importante nel processo di internalizzazione (Lawrence &

Valsiner 1993, 2003, Patalano 2010a). Per attribuire significato personale alle informazioni ricevute

dall’ambiente, il soggetto le elabora sul piano immaginario, le dota di senso e le investe di

emozioni, potendo in tal modo interpretarle secondo schemi soggettivi e con modalità che possono

divergere da quelle canoniche. A nostro avviso, tuttavia, l’internalizzazione risulta tanto più

creativa quanto maggiormente è affiancata dalla capacità di differenziare il proprio apporto

interpretativo dai contenuti che fanno già parte del mondo esterno e sono stati semplicemente

recepiti. La differenziazione si configura come ingrediente costitutivo dell’innovazione, in quanto

consente di distinguere la realtà attuale dai suoi sviluppi possibili, aggiungendo alla visione del

mondo elementi inediti e fino a quel punto impossibili, anche solo sul piano del pensiero8.

Diceva Castoriadis che l’immaginazione ci vede doppio, vede ciò che c’è ma anche ciò che non c’è.

Il suo compito di fondo è proprio quello di estendere la rappresentazione della realtà in direzioni

8 Molti semplici esempi possono stimolare intuizioni a sostegno di questa ipotesi. Un caso tipico riguarda il bambino nella prima infanzia che guarda i propri genitori come un modello per la costruzione della propria identità; nel corso della sua crescita psichica egli interiorizza la loro immagine e non necessita più di osservarli direttamente; tuttavia, solo quando sarà in grado di differenziarsi dai propri genitori interni riuscirà ad emergere come individuo autonomo e capace di individuare una propria strada, non prevedibile sulla base dei modelli familiari.

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imprevedibili e ancora impensate, rendendo visibile alla consapevolezza ciò che ancora non esiste.

Affinchè si verifichi un cambiamento, è necessario che l’immagine di come potrebbero andare le

cose non rimanga implicita, ma si distingua dall’esistente e venga investita di valore. Se agli scenari

già noti non si affianca l’immagine di quelli futuribili, la realtà non potrà che essere immaginata

come già è.

Come affermato con argomentazioni diverse da Valsiner (2006) «the capacity to construct

imaginary worlds proves the centrality of person in any social setting. The person is both part of the

here-and-now setting (as it exists) and outside that setting (as it is re-thought through importing

imaginary scenarios, daydreams, new meanings). Creativity becomes possible thanks to such

duality of contrast between the as-is and as-if fields that the person lives through each setting» (p.

13). Il ruolo dell’immaginazione appare fondamentale proprio nella possibilità di instaurare questa

prospettiva duale, da un lato, la realtà “come è”, dall’altro, la realtà “come potrebbe essere”. E’

infatti la possibilità di vedere le cose diversamente che apre la strada al cambiamento.

5. IL CASO DEL CAMBIAMENTO ISTITUZIONALE. IMMAGINAZIONE E RIVOLUZIONI.

Un ambito in cui il rapporto tra economia e psicologia ha trovato già importanti applicazioni è

l’economia neo-istituzionalista ed in particolare quella sua branca che Mantzavinos, North e Shariq

(2004) hanno definito “istituzionalismo cognitivo”.

Nella storia del pensiero economico, il legame mente-istituzioni ha importanti precursori tra cui, in

particolare, Hayek (1978), Simon (1958) e Veblen (1899)9. L’assegnazione del premio Nobel a

Douglass North nel 1994 ha segnato l’inizio di un nuovo fiorente sviluppo per questo filone di

studi, che i recenti progressi dell’economia cognitiva hanno contribuito ad arricchire (North 2005;

Rizzello e Turvani 2002; Patalano 2007a).

Per sintetizzare gli aspetti chiave dell’istituzionalismo cognitivo, Mantzavinos, North e Shariq

(2004) hanno proposto il seguente schema (poi ripreso da North 2005):

“reality” > beliefs > institutions > specific policies > outcomes (and, thus, altered “reality”).

La realtà è percepita e classificata dagli individui sulla base delle loro strutture neurocognitive e dei

modelli mentali cui esse danno origine. I modelli mentali sono categorie concettuali e

classificazioni che evolvono attraverso l’apprendimento e che servono al soggetto per dare

significato alle proprie percezioni, inserendole in una rappresentazione mentale del mondo esterno. 9 Per un approfondimento si vedano Rizzello e Turvani (2000, 2002), Horwitz (2000), Hodgson (2003).

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Dalla percezione e interpretazione della realtà originano le credenze che gli individui di un

medesimo gruppo sociale possono almeno in parte condividere, attraverso l’interazione e lo

scambio. Quando tra i modelli mentali dei soggetti si creano delle similitudini, gli schemi

interpretativi tendono a convergere e diventa possibile individuare a livello collettivo i problemi e i

bisogni della società. Le istituzioni emergono come risposta condivisa a tali problemi e bisogni e

mettono in atto politiche destinate a risolverli.

Esiste un meccanismo di feedback molto importante tra i risultati di queste politiche e la realtà, che

passa per la mente del soggetto. Se le politiche pianificate sulla base di determinati modelli mentali,

ovvero determinate modalità interpretative del mondo esterno, non producono gli effetti attesi, si

genera l’incentivo e rivedere ed eventualmente modificare tali modelli. Dunque, per capire come e

perchè evolvono le istituzioni bisogna capire come si modificano le strutture cognitive che ne

orientano la formazione10 (North 1994, 2005). In particolare, North isola alcuni specifici processi

mentali che suggerisce di prendere in considerazione: la percezione, la costruzione e la

socializzazione delle credenze.

E’ tuttavia possibile estendere il suo approccio per tenere conto in modo esplicito del ruolo giocato

dai sentimenti e dall’immaginazione (Patalano 2007a, 2010c). A differenza dei modelli mentali,

l’immaginazione non coinvolge solo la percezione, la classificazione ed i relativi sostrati

neurofisiologici, ma anche l’affettività e la creatività dell’individuo:

Sense - making and affective investment > image of society > institutions > policies > outcomes

In questo nuovo schema che non rappresenta un’alternativa al precedente, ma piuttosto si configura

come suo possibile complemento, attraverso l’immaginazione gli individui interpretano la realtà,

attribuendo ad essa significati elaborati soggettivamente ed investendola di stati emotivi. Emerge

così nella mente del soggetto un’immagine della società che tende a diventare almeno in parte

condivisa tra i membri di una medesima cerchia sociale, sia perché l’immaginazione è condizionata

dal contesto entro cui prende forma, sia perché le immagini elaborate individualmente entrano

continuamente in contatto con quelle degli altri e ne recepiscono l’influenza. Quando la

condivisione consente di raggiungere una visione comune dei problemi da affrontare e delle

possibili soluzioni, emergono le istituzioni. Secondo Castoriadis (1975), queste ultime sono il

corrispettivo reale di quei significati e quei valori elaborati a livello immaginario e condivisi entro

un medesimo gruppo sociale. I significati e gli stati emotivi “portati al mercato” dalle scelte dei

10«Le credenze, sia quelle singole degli individui, sia quelle possedute collettivamente che formano i sistemi, costituiscono la fondamentale base di partenza per comprendere il processo di cambiamento economico. (…) Il nostro compito è quello di capire il modo in cui i sistemi di credenze evolvono; ancor più stiamo cercando di comprendere il modo in cui le stesse strutture sociali ad essi connesse evolvono nel corso della storia» (North 2005, pp.115-116).

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singoli si mescolano a quelli di altri, contribuendo all’emergere di un comune modo di vedere e

sentire il contesto esterno. La condivisione dei contenuti semantici e affettivi consente di

identificare i valori e le priorità che le istituzioni incarnano.

Perché si realizzi un cambiamento istituzionale è tuttavia necessario che nell’immaginario

condiviso emerga la possibilità di un nuovo scenario, diverso da quello esistente. Tale possibilità

potrà coinvolgere una differente individuazione delle priorità, dei valori o dei bisogni a cui dare

risposta. La capacità di costruire e socializzare l’immagine di un altro mondo possibile si configura

come il pre- requisito di qualsiasi rivoluzione11.

6. CONCLUSIONI

La storia del pensiero economico è costellata di contaminazioni che hanno di volta in volta orientato

lo sviluppo della teoria, in una direzione piuttosto che in un’altra. Tra gli intrecci storicamente più

significativi vi sono senza dubbio quelli con la biologia, con la matematica e con la psicologia,

ognuno dei quali ha offerto un contributo significativo e denso di conseguenze.

In questo breve saggio abbiamo analizzato il ruolo del rapporto tra economia e psicologia per lo

studio dei processi di cambiamento. Il cambiamento è un tema trascurato dalla teoria neoclassica,

che l’approccio evolutivo alle dinamiche economiche ha consentito di rivalutare e riportare al

centro dell’analisi. Lo studio della mente e dei suoi risvolti socio-economici offre oggi un panorama

nuovo e complesso, in cui la natura eminentemente endogena del cambiamento risulta centrale.

Il messaggio dell’economia cognitiva è molto chiaro: per cambiare ciò che esiste concretamente nel

mercato, sia che si tratti di un’istituzione che di un prodotto tecnologico, occorre cambiare la

rappresentazione mentale che ne ha generato la nascita e supportato la sopravvivenza. E’ necessario

dunque un processo di ri-rappresentazione a cui concorrono una serie di meccanismi, non

alternativi, tra cui la razionalità, le emozioni, l’apprendimento, la memoria e soprattutto

l’immaginazione. A quest’ultima è affidata la possibilità di vedere oltre i dati di realtà e di accedere

a scenari non ancora esistenti. Si tratta di un aspetto chiave dell’innovazione, le cui potenzialità nei

contesti socio-economici vanno ancora comprese fino in fondo.

11I “fallimenti dell’immaginazione” possono viceversa rappresentare un serio ostacolo alla crescita della società. Si veda Patalano (2010a) per un approfondimento.

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