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I T A L I A N F O O D L A W A S S O C I A T I O N A S S O C I A Z I O N E I T A LIA N A D IR IT T O A L I M E N T A R E rivista di diritto alimentare Anno 1, numero 2 - Ottobre 2007 Editoriale Regole e libertà: il caso degli alimenti Anche in una rivista di diritto alimentare si possono esprimere preoccupazioni che, prendendo lo spunto proprio da questo campo, implicano considerazioni di più ampio respiro. In mancanza di un significativo ed importante progresso sul piano della costruzione politica dell’Europa – e Dio sa se di questo, e non tanto d’altro, c’è bisogno, anche se realizzato “all’americana”, e cioè senza togliere, con eccessivo schematismo, poteri non necessariamente da centralizzare agli Stati membri – si procede senza soste a regolamentare il settore alimentare in modo sempre più puntiglioso e con piglio da caserma, anche se, per altri versi, non sempre si coglie la rilevanza di problemi quali l’origine degli alimenti. Non c’è nessun dubbio che i cibi, in quanto destinati ad entrare a far parte del nostro corpo, debbano essere sicuri dal punto di vista igienico sanitario; ma da questo ad arrivare all’enorme congerie di regolamenti – che progressivamente sostituiscono le direttive, per togliere ogni margine agli Stati – ce ne passa, come cercherò di eviden- ziare con qualche esempio. Va, tuttavia, prima premesso come non risulti che, salvo per l’eccessiva ingestione di cibi, l’Europa sia caratterizzata da un numero di morti di dimensioni significative dovu- te all’alimentazione; eppure i produttori alimentari, compresi sempre più gli agricolto- ri, sono progressivamente assoggettati ad una disciplina di giorno in giorno più strin- gente e, in molti casi, sostanzialmente inutile. Si ha proprio la sensazione che, mancando una prospettiva politica di alto livello, ci si rifugi in regole e regolette che si vogliono adottate per favorire la circolazione delle merci – nel caso degli alimenti – poiché non si riesce ad approfondire il grado di inte- grazione nei settori chiave quali quelli della politica estera e della difesa. La voce dell’Europa unita non esiste, di fatto, quando si tratta di affrontare i grandi pro- blemi politici del mondo, così come non esiste una vera coesione nella politica di dife- sa. Quest’ultima, pur in presenza di finalmente corretti orientamenti non bellicistici del nostro continente, avrebbe un grande significato tecnologico, poiché la ricerca attor- no agli strumenti della difesa costituisce un fattore di progresso soprattutto in campo non militare, come la storia degli ultimi balzi in avanti effettuati dagli USA stanno a dimostrare. Per non parlare della politica estera tout court, in un periodo nel quale il mondo sente la grande necessità dell’esperienza e della prudenza che dovrebbero avere accumu- lata i popoli europei dopo centinaia e centinaia di anni di errori in questo campo. Il rifugiarsi nella politica di sicurezza alimentare, pur opportuna anche se pilotata in modo meno invasivo, per rendere sempre più l’Europa senza confini, significa affron- tare con anche troppa determinazione problemi minori – certo importanti, ma in effet- ti di più basso profilo, stanti le sicurezze che il sistema di produzione di alimenti assi- cura nella Comunità indipendentemente dal mare di regole che lo sommerge – lasciando da parte le grandi turbolenze che percuotono la terra, nelle quali la voce dei singoli stati membri della Comunità, come la storia recentissima insegna, non ha alcun peso poiché essi, presi singolarmente, non hanno una voce significativamente influente, anche se alcuni di essi credono ancora di possederla. É, dunque, non di una Europa “più leggera”, come da molti si va predicando, ma di una Europa diversa della quale il mondo abbisogna, che sappia unirsi per affrontare i grandi temi della storia, limitando l’intervento nella parte più mercantile, pur importan- te, a poche, chiare e definite regole di responsabilità e di mercato nel quale la concor- renza leale funzioni davvero. Luigi Costato Sommario Editoriale Luigi Costato Regole e libertà: il caso degli alimenti 1 Le regole del vino Alberto Germanò La disciplina dei vini dalla produzione al mercato 3 Stephen Stern Establishing a wine law regime: a new world experience - Australia 17 Riccardo Ricci Curbastro I punti di forza del vino europeo di fronte alla globalizzazione 29 Commenti Nicoletta Rauseo Pubblicità comparativa tra birra e champagne 33 Giuliano Leuzzi Budweiser / Bud: Marchi e denominazioni di origine 36 Elvira Carretta Consorzi di tutela dei vini e controlli erga omnes 41 Francesco Aversano Profili sanzionatori in materia vitivinicola 44 Osservatorio legislativo Alessandro Artom Il codice alimentare non è stato adottato 50

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CIAZIONE ITALIANA DIRITTO ALIMENTARE rivista di diritto alimentareAnno 1, numero 2 - Ottobre 2007

Editoriale

Regole e libertà: il caso degli alimenti

Anche in una rivista di diritto alimentare si possono esprimere preoccupazioni che,prendendo lo spunto proprio da questo campo, implicano considerazioni di più ampiorespiro.In mancanza di un significativo ed importante progresso sul piano della costruzionepolitica dell’Europa – e Dio sa se di questo, e non tanto d’altro, c’è bisogno, anche serealizzato “all’americana”, e cioè senza togliere, con eccessivo schematismo, poterinon necessariamente da centralizzare agli Stati membri – si procede senza soste aregolamentare il settore alimentare in modo sempre più puntiglioso e con piglio dacaserma, anche se, per altri versi, non sempre si coglie la rilevanza di problemi qualil’origine degli alimenti.Non c’è nessun dubbio che i cibi, in quanto destinati ad entrare a far parte del nostrocorpo, debbano essere sicuri dal punto di vista igienico sanitario; ma da questo adarrivare all’enorme congerie di regolamenti – che progressivamente sostituiscono ledirettive, per togliere ogni margine agli Stati – ce ne passa, come cercherò di eviden-ziare con qualche esempio.Va, tuttavia, prima premesso come non risulti che, salvo per l’eccessiva ingestione dicibi, l’Europa sia caratterizzata da un numero di morti di dimensioni significative dovu-te all’alimentazione; eppure i produttori alimentari, compresi sempre più gli agricolto-ri, sono progressivamente assoggettati ad una disciplina di giorno in giorno più strin-gente e, in molti casi, sostanzialmente inutile.Si ha proprio la sensazione che, mancando una prospettiva politica di alto livello, ci sirifugi in regole e regolette che si vogliono adottate per favorire la circolazione dellemerci – nel caso degli alimenti – poiché non si riesce ad approfondire il grado di inte-grazione nei settori chiave quali quelli della politica estera e della difesa.La voce dell’Europa unita non esiste, di fatto, quando si tratta di affrontare i grandi pro-blemi politici del mondo, così come non esiste una vera coesione nella politica di dife-sa.Quest’ultima, pur in presenza di finalmente corretti orientamenti non bellicistici delnostro continente, avrebbe un grande significato tecnologico, poiché la ricerca attor-no agli strumenti della difesa costituisce un fattore di progresso soprattutto in camponon militare, come la storia degli ultimi balzi in avanti effettuati dagli USA stanno adimostrare. Per non parlare della politica estera tout court, in un periodo nel quale il mondo sentela grande necessità dell’esperienza e della prudenza che dovrebbero avere accumu-lata i popoli europei dopo centinaia e centinaia di anni di errori in questo campo.Il rifugiarsi nella politica di sicurezza alimentare, pur opportuna anche se pilotata inmodo meno invasivo, per rendere sempre più l’Europa senza confini, significa affron-tare con anche troppa determinazione problemi minori – certo importanti, ma in effet-ti di più basso profilo, stanti le sicurezze che il sistema di produzione di alimenti assi-cura nella Comunità indipendentemente dal mare di regole che lo sommerge –lasciando da parte le grandi turbolenze che percuotono la terra, nelle quali la voce deisingoli stati membri della Comunità, come la storia recentissima insegna, non haalcun peso poiché essi, presi singolarmente, non hanno una voce significativamenteinfluente, anche se alcuni di essi credono ancora di possederla.É, dunque, non di una Europa “più leggera”, come da molti si va predicando, ma diuna Europa diversa della quale il mondo abbisogna, che sappia unirsi per affrontare igrandi temi della storia, limitando l’intervento nella parte più mercantile, pur importan-te, a poche, chiare e definite regole di responsabilità e di mercato nel quale la concor-renza leale funzioni davvero.

Luigi Costato

Sommario

Editoriale

Luigi CostatoRegole e libertà:il caso degli alimenti 1

Le regole del vino

Alberto Germanò La disciplina dei vinidalla produzioneal mercato 3

Stephen SternEstablishing a wine lawregime: a new worldexperience - Australia 17

Riccardo Ricci CurbastroI punti di forza del vinoeuropeo di fronte allaglobalizzazione 29

Commenti

Nicoletta RauseoPubblicità comparativatra birra e champagne 33

Giuliano LeuzziBudweiser / Bud: Marchi edenominazioni di origine 36

Elvira CarrettaConsorzi di tutela dei vinie controlli erga omnes 41

Francesco AversanoProfili sanzionatoriin materia vitivinicola 44

Osservatoriolegislativo

Alessandro ArtomIl codice alimentare non èstato adottato 50

Le regole del vino

L’AIDA, congiuntamente con il CNR-IDAC - Istituto di Diritto Agrario Internazionale eComparato di Firenze, ha organizzato, per il 23-24 novembre 2007, a Roma, il proprioconvegno annuale, su un tema, quello delle “Regole del Vino”, che costituisce terre-no esemplare di ricerca, siccome per un verso esprime al massimo grado il radica-mento territoriale ed agricolo della produzione, e per altro verso si colloca all’internodi una dimensione di mercato mondiale, nella quale interagiscono discipline della piùvaria origine e dei più diversi contenuti.Se la connotazione del sistema delle fonti come ordinamento multilivello è oggi larga-mente accettata dagli studiosi di diritto costituzionale, con quanto ne segue nella com-plessa dimensione relazionale (e non tradizionalmente gerarchica) fra fonti comunita-rie e nazionali, con le rispettive estensioni verso l’ordinamento della comunità interna-zionale e verso quello degli enti dotati di autonoma competenza normativa operantiall’interno degli Stati, questa connotazione appare con chiarezza manifesta ove l’in-dagine si volga ad esaminare le regole che regolano la produzione ed il commerciodei vini.Il Convegno intende dunque offrire un occasione per un confronto a più voci, capacedi raccogliere studiosi delle diverse aree geografiche interessate, europei, ma anchestatunitensi ed australiani, invitati a comparare le rispettive esperienze e le declinazio-ni dei diversi modelli disciplinari, tutti tenuti a rispettare le regole internazionali delcommercio, ma ciascuno piegato in ragione delle storie e culture del territorio, oltreche in ragione della diversa articolazione delle strutture di produzione e mercato.L’analisi giuridica non è però per sé sola sufficiente, e deve svilupparsi all’interno diun più ampio dialogo, sia con gli scienziati che tanto hanno innovato in questi anninelle tecnologie della vite e del vino, sia con gli studiosi della dimensione economicadel mercato globalizzato in cui operano le nuove imprese vitivinicole. Sotto altro pro-filo, il ruolo decisivo nell’innovazione istituzionale e d’impresa giocato dalle imprese edai diversi soggetti, pubblici (fra questi il Ministero, le Regioni, le Province, i Comuni,le Camere di Commercio) e privati, che a vario titolo e con differenziate competenze,intervengono nel settore, impone che il confronto assegni a questi soggetti un ruoloprivilegiato.I lavori del convegno assumono pertanto come proprio oggetto l’analisi delle peculia-rità disciplinari, sia in sede comunitaria che in sede internazionale, attraverso specifi-ci contributi dedicati a tali ordinamenti, e nel contempo intendono misurarsi con le ten-denze dell’innovazione tecnologica e con le concrete esperienze dei produttori.Proseguendo lungo una tradizione, attenta al rigore della ricerca, ma anche orientataa fornire attraverso l’indagine comparativa strumenti di analisi e di intervento sulla lawin action, i lavori si concluderanno con l’esame delle prospettive evolutive emergentinelle dimensioni di diritto nazionale e di diritto europeo ed internazionale, e con unconfronto sulle opzioni disciplinari presenti nei progetti di riforma attualmente indiscussione nelle diverse sedi di regolazione.Le relazioni e gli interventi discussi nel corso del convegno annuale verranno pubbli-cati nei prossimi numeri della Rivista, oltre ad essere raccolti in un volume di Atti.In questo numero è sembrato opportuno anticipare la relazione generale di AlbertoGermanò, che propone al lettore un’ampia analisi del quadro disciplinare in essere edelle sue criticità, e la relazione di Stephen Stern sulle linee emergenti nella discipli-na vitivinicola in Australia, assunto quale paese esemplare fra i nuovi produttori. Larelazione presentata nel settembre scorso al Parlamento Europeo dal presidente dellaFederdoc, alcuni commenti su recenti significative decisioni giudiziali europee enazionali che in varia misura investono la disciplina dei vini e dei prodotti alcolici, sullostato della disciplina sanzionatoria in materia, e sulla mancata adozione del codice ali-mentare, completano questo secondo numero della Rivista.

rivistadi diritto alimentare

DirettoreLuigi Costato

Vice direttoriFerdinando Albisinni - Paolo Borghi

Comitato scientificoFrancesco Adornato - Sandro Amorosino

Alessandro Artom - Corrado BarberisLucio Francario - Alberto Germanò

Giovanni Galloni - Corrado GiacominiMarianna Giuffrida - Marco Goldoni

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Michele Tamponi

Coordinatrice della RedazioneEleonora Sirsi

RedazioneFrancesco Aversano - Matteo Benozzo

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Segreteria di RedazioneMonica Minelli

EditoreA.I.D.A. - ASSOCIAZIONE

ITALIANA DI DIRITTO ALIMENTARE

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Periodico iscritto il 18/9/2007 al n.393/2007 del Registro della Stampa

presso il Tribunale di RomaISSN_______________________

dir. resp.: Ferdinando Albisinni

HANNO COLLABORATO A QUESTO FASCICOLO

ALESSANDRO ARTOM, Avvocato in MilanoFRANCESCO AVERSANO,Dottore di ricerca,Università di SalernoELVIRA CARRETTA, Avvocato in RomaLUIGI COSTATO, ordinarionell’Università di FerraraALBERTO GERMANÒ, ordinarionell’ Università di Roma – La SapienzaGIULIANO LEUZZI, Avvocato in RomaNICOLETTA RAUSEO, Avvocato in RomaRICCARDO RICCI CURBASTRO,Presidente FederdocSTEPHEN STERN, Avvocato CorrsChambers Westgarth Lawyers, AustraliaVice President of the International WineLaw Association

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La disciplina dei vinidalla produzione al mercato

Alberto Germanò

1.- Premessa.

“Vino” – la cui radice sanscrita “vena” vuol dire “amato” – èuna parola di forma e suono quasi uguali nelle varie lingueeuropee: già vinum in latino e oínos in greco, e ora vino initaliano e spagnolo, vin in francese, vinho in portoghese,wine in inglese, wein in tedesco, wijn in olandese (1).La denominazione “vino”, tuttavia, è stata per lungo tempouna denominazione generica, fin tanto che gli Stati, per im-pedire contraffazioni e frodi in commercio (2), non hannodeciso di elevare la parola “vino” a denominazione legale,stabilendo – ciascuno, eventualmente, secondo propri cri-teri – che cosa si dovesse intendere per “vino”. Questa ori-ginaria plurima situazione non provocava, d’altra parte,gravi problemi, dato che l’ambito del mercato del vino era,di regola, ristretto entro i confini dello Stato, sicché in tuttala giurisdizione statale il nome “vino” serviva a designareun prodotto ottenuto e composto nella stessa maniera se-condo le prescrizioni legali di quel Paese. E’ stato il conti-nuo allargamento del mercato a spazi commerciali semprepiù ampi ad imporre la necessità che vi fosse una identicadenominazione legale: così l’Organizzazione internaziona-le della vigna e del vino (OIV) (3) ha previsto che nessunaltro prodotto se non quello che proviene dalla fermenta-zione alcolica del succo di uva fresca potesse riceverel’appellativo di vino (4), e la Comunità europea, disciplinan-

do l’Organizzazione comune del mercato vitivinicolo, dap-prima con il regolamento 337/1979 del 5 febbraio 1979 equindi con quello (ancora vigente) 1493/1999 del 17 mag-gio 1999, ha riservato il nome “vino” al “prodotto ottenutoesclusivamente dalla fermentazione alcolica totale o par-ziale di uve fresche, pigiate o no, o di mosti di uve” (5).Dunque, gli Stati aderenti all’OIV e, comunque, tutti i venti-sette Stati membri dell’Unione europea hanno puntato sutre aspetti onde aversi “vino”: l’origine deve essere l’uva; ilprocedimento deve essere quello della fermentazione; ilprodotto è una bevanda alcolica (6).Parrebbe, quindi, che non si possa, anche nell’attuale mer-cato globalizzato, andare al di là degli indicati fattori mini-mi, nel senso che, quasi in tutto il mondo, per “vino” si deb-ba intendere una bevanda alcolica ottenuta dalla fermen-tazione dell’uva o del mosto di uva. Da siffatta definizionesi ricavano tre conseguenze: innanzitutto, la possibilità chepratiche enologiche diverse (7), incidendo sulle cause dellafermentazione, provochino nei vari Stati disposizioni diconsenso o di divieto; in secondo luogo, la necessità chela bevanda ottenuta dalla fermentazione contenga un titoloalcolometrico volumico naturale minimo per potere aspira-re legittimamente alla denominazione di “vino”; in terzo luo-go, la possibilità che le bevande alcoliche derivino dallafermentazione di frutta diversa dall’uva o dalla fermentazio-ne e/o macerazione di altri prodotti agricoli, con la necessi-tà di altre denominazioni per tali bevande alcoliche ondeevitare confusione nella comunicazione ai consumatori.Le questioni che affronterò sono, perciò, soprattutto quelledelle pratiche enologiche e della comunicazione ai consu-matori. Ma non potrò fare a meno di riferire sulla fonda-mentale ripartizione del settore vitivinicolo tra vitigni dellavitis vinifera e vitigni diversi; tra vini di qualità e vini da ta-

(1) Ed egualmente: “vino” in ceco e in slovacco; “vin” in danese e in svedese; “vein” in estone; “v ins” in lituano; “vyno” in lettone; “wina”in polacco; “vinul” in rumeno; “víno” in sloveno e ”viinen” in finlandese.(2) Certamente, la prescrizione più antica è stata quella del divieto di aggiungere acqua nel vino. Il divieto continua ad essere riportato nelpunto A dell’Allegato VI della proposta di regolamento del Consiglio (4 luglio 2007): “Tutte le pratiche enologiche autorizzate escludonol’aggiunta di acqua, salvo se necessaria per esigenze tecniche particolari”. (3) L’OIV è un’istituzione intergovernativa a carattere scientifico e tecnico, che ha preso il posto – con accordo concluso il 3 aprile 2001(entrato in vigore il 1 gennaio 2004) – dell’Ufficio internazionale per la vite e il vino che era stato istituito il 29 novembre 1924 da Italia,Spagna, Francia, Lussemburgo, Tunisia, Ungheria, Grecia e Portogallo. Oggi comprende 36 Stati membri (tra cui Australia, NuovaZelanda, Argentina e Cile) e 12 Stati osservatori. Si tenga presente che l’OIV non comprende solo Paesi produttori di vino ma anche Paesiconsumatori di vino. Fra i compiti dell’OIV rientra la formulazione di raccomandazioni in materia di pratiche enologiche. La V Assembleagenerale dell’OIV si è svolta in concomitanza con il XXX Congresso mondiale della vigna e del vino del 10-16 giugno 2007 in Ungheria.(4) Il punto 3.1 del Code internationale des pratiques oenologiques dell’OIV recita, con riferimento alla risoluzione del 1973: “Le vin estexclusivement la boisson résultant de la fermentation alcoolique complète ou partielle du raisin, foulé ou non, ou di moût de raisin. Sontitre alcoolométrique acquis ne peut être inférieur à 8,5% vol.”. (5) Punto 10 dell’Allegato I del regolamento 1493/1999.(6) La necessaria presenza di alcol nel vino è stata oggetto della sentenza della Corte di giustizia 25 luglio 1991, C-75/90, Guitard, su rin-vio pregiudiziale da parte del Tribunale penale di Carcassonne in una controversia in cui si discuteva dell’ammissibilità di commercializ-zare una bevanda analcolica con la denominazione “vino senza alcol”, avendo il produttore “dealcolizzato” la bevanda di origine vinosa.La Corte ha affermato che per l’ordinamento comunitario un prodotto denominato “vino” deve necessariamente presentare “un grado alco-lico minimo”. In argomento v. J.F. GAUTIER, Définition juridique du vin, in Revue de droit rural, 1992, p. 490. (7) Ai tempi dei romani si ignoravano le cause della fermentazione dell’uva, sicché Plinio il Vecchio si accontentava di dire che “vinum suc-cum esse qui fervendo vires e musto sibi fecerit” (il vino è il succo che trae forza dal mosto attraverso la fermentazione). Solo con LouisPasteur e con il suo Etude sur le vin, ses maladies, causes qui les provoquent, procédés nouveaux pour le conserver et le vieiller del1866, si acquisì la conoscenza delle cause della fermentazione, il che ha permesso di ottenere bevande alcoliche di origine diversa dal-l’uva.

(8) L’Unione europea conta oltre 1.500.000 aziende vitivinicole che occupano una superficie vitata di 3.4 milioni di ettari, ossia il 2% del-l’intera superficie agricola europea. Nel 2004 la produzione di vino ha rappresentato il 5,4% della produzione agricola dell’UE, quota cheha superato il 10% in Francia, Italia, Austria, Portogallo, Lussemburgo e Slovenia. Nel corso delle campagne 2000-2005 la produzionemedia di vino nell’UE-25 è stata di 178milioni di ettolitri, oscillando tra i 166 e i 196milioni l’anno, per un valore di circa 16,1 miliardi dieuro. La Francia è il principale produttore con una media di 55milioni di ettolitri, rappresentando il 30,6% della produzione totaledell’Unione europea e con un valore di 7,7 miliardi di euro; seguono l’Italia con 51milioni di ettolitri (28,5% dell’UE e 4,2 miliardi di euro),la Spagna con 43milioni di ettolitri (23,2% dell’UE e 1,2 miliardi di euro), la Germania con 10milioni di ettolitri (1,1 miliardi di euro), ilPortogallo con 7,2 milioni di ettolitri (1 miliardo di euro), l’Ungheria con 4,5milioni di ettolitri (181 milioni di euro), la Grecia con 3,6milionidi ettolitri (46 milioni di euro), l’Austria con 2,5milioni di ettolitri (437 milioni di euro), la Slovenia con 1milione di ettolitri, la RepubblicaCeca con 520mila ettolitri, la Slovacchia con 440mila ettolitri, Cipro con 425mila ettolitri, il Lussemburgo con 140mila ettolitri e Malta con67mila ettolitri.L’Unione europea esporta circa 15miliardi di euro di vino; ma negli ultimi anni le importazioni di vino dai paesi del “Nuovo Mondo” sonoaumentate in modo impressionante: fra il 1991/1993 ed il 2001/2003 i vini importati dall’Africa del Sud hanno avuto un aumento del 770%,quelli importati dall’Australia un aumento del 500%, dal Cile del 270% e dagli Stati Uniti del 160%.Il “Sole-24 Ore” del 26 aprile 2007 segnala che le esportazioni vinicole italiane nei primi due mesi del 2007 sono aumentate del 18% inquantità (304mila ettolitri) e valore (145milioni di dollari), e che l’export del 2006 verso gli Stati Uniti aveva superato il miliardo di dollaricon 2,2 milioni di ettolitri. Nella Relazione alla proposta di Regolamento relativo all’organizzazione comune del mercato vitivinicolo del 4luglio 2007 [COM(2007) 372 definitivo], la Commissione precisa che nel 2006 la produzione di vino nell’UE-27 ha rappresentato il 5% delvalore totale della produzione agricola dell’Unione. Nella stessa proposta di Regolamento del Consiglio sull’OCM del vino (luglio 2007) èchiaramente detto che “l’attuale quadro normativo non sembra consentire di raggiungere, in maniera sostenibile, gli obiettivi dell’art. 33del Trattato, in particolare la stabilizzazione del mercato vitivinicolo e l’assicurazione di un equo tenore di vita per la popolazione agrico-la interessata” (considerando 4), sicché “appare appropriato modificare radicalmente il regime comunitario applicabile al settore del vinoper conseguire i seguenti obiettivi: migliorare la competitività dei produttori di vino europei; rafforzare la notorietà dei vini comunitari diqualità che sono i migliori del mondo; recuperare vecchi mercati e conquistarne di nuovi all’interno della Comunità europea e ovunquenel mondo; istituire un regime vitivinicolo basato su regole chiare, semplici ed efficaci, che permettano di equilibrare la domanda e l’offer-ta; istituire un regime vitivinicolo in grado di salvaguardare le migliori tradizioni della produzione vitivinicola europea, di rafforzare il tes-suto sociale di molte zone rurali e di garantire che la produzione sia realizzata nel rispetto dell‘ambiente” (considerando 5). (9) Si tratta dei rapporti tra la disciplina comunitaria dei vini di qualità e le disposizioni sulle indicazioni geografiche dell’Accordo TRIPs, sucui v. anche infra, nota 43. (10) Art. 19 del regolamento 1493/1999. Nella proposta di regolamento del Consiglio (4 luglio 2007) la disposizione è riportata nell’art. 18.(11) La Comunità lascia impregiudicata la possibilità per gli Stati membri di ammettere l’utilizzazione della parola “vino” accompagnata daun nome di frutta per designare prodotti ottenuti dalla fermentazione di frutta diversa dall’uva (primo trattino del punto 2 della sezione Cdell’Allegato VII del vigente Regolamento). Si tratta, cioè, dell’ammissibilità di avere sul mercato comunitario anche “vini di frutta”, oltreche “vini” che sono solo di “uva”. Tuttavia il consumatore non può essere tratto in inganno, sicché nell’ipotesi di bevande alcoliche otte-nute dalla fermentazione di frutta diversa dall’uva il nome “vino” non può essere utilizzato da solo, ma occorre che ad esso sia aggiuntoil nome della frutta dalla cui fermentazione alcolica proviene. Dunque, può essere chiamato anche “vino” il prodotto ottenuto da fruttadiversa dall’uva, purché anch’esso ottenuto da fermentazione alcolica. La proposta del 4 luglio 2007 di riforma dell’OCM del vino non con-tiene, nei suoi allegati, il richiamo al vino di frutta. (12) Nell’ambito comunitario le bevande spiritose sono disciplinate dal regolamento 1576/89 del 29 maggio 1989, mentre le disposizionigenerali sull’etichettatura sono contenute nella direttiva 2000/13 del 20 marzo 2000: le bevande spiritose sono liquidi alcolici con un tito-lo alcolometrico minimo di 15% vol. ed un titolo alcolometrico massimo di 80% vol., destinati al consumo umano e ottenuti direttamentedalla distillazione di prodotti fermentati naturali e/o dalla macerazione di sostanze vegetali (con aggiunta di aromi, zuccheri o altri prodot-ti edulcoranti), oppure dalla miscelazione di una bevanda spiritosa con alcole etilico di origine agricola.

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vola; tra indicazioni geografiche e marchi; tra controllo del-la produzione onde venga limitata l’eccedenza dell’offertarispetto alla domanda e ricorso a meccanismi di interventocome sbocco artificiale per la produzione eccedentaria; trasostegno delle produzioni qualitativamente capaci di con-quistare i mercati e regole della WTO sulla progressiva ri-duzione degli aiuti della scatola gialla o amber box fino alloro divieto. Tutta una serie di argomenti a cui si riconnetto-no gli attuali maggiori problemi del settore vitivinicolo nelquadro comunitario (8) e internazionale (9). Quadro che im-plicherà necessariamente l’analisi delle proposte di regola-menti comunitari sulla riforma dell’OCM del vino e sulla de-finizione presentazione ed etichettatura delle bevande spi-ritose (analisi delegata al collega spagnolo e al funzionariodella Comunità) e l’esame dei rapporti tra (vigente e pro-grammata) regolamentazione comunitaria e quella dell’Ac-cordo TRIPs (esame delegato al relatore sui problemi inter-nazionali).

2.- L’origine dell’uva.

Il vino deve provenire dall’uva, ma dall’uva delle varietàclassificate come appartenenti alla specie Vitis vinifera oda uve provenienti dall’incrocio tra questa specie ed altrespecie del genere Vitis. Ed è per affermare ciò che la Co-munità europea ha dettato una specifica norma in tal sen-so e ha espressamente escluso le varietà denominate No-ah, Othello, Isabelle, Jacquez, Clinton e Herbémont (10).Dunque, il prodotto ottenuto dalla fermentazione alcolicadell’uva delle dette specie non può, nei ventisette Statimembri, essere denominato “vino”. Ma egualmente non sipuò utilizzare il nome “vino” da solo, se la bevanda proven-ga dalla fermentazione alcolica di frutta diversa dall’uva, ilcui nome deve, perciò, risultare bene in evidenza nell’eti-chetta (11); così come dal “vino” vanno tenute distinte le al-tre bevande alcoliche che, nell’ambito comunitario, prendo-no il nome di “spirit drinks” o “bevande spiritose” (12).

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Ma quale è l’origine del vino? Questione di notevole rile-vanza appena si riflette sull’influenza che l’area geograficadi produzione può avere sulla “cittadinanza”, tipicità e qua-lità di un prodotto vinoso.Generalmente le legislazioni dei vari Stati sembrano colle-gare l’origine del vino alla provenienza geografica e nongià alla sede dell’impresa ovvero al luogo dove il prodottoè elaborato. Se l’art. 3 della direttiva 450/1984 del 10 set-tembre 1984 sulla pubblicità ingannevole fa riferimento alla“origine geografica o commerciale” dei beni e dei servizi, ri-ferendo il termine ora al territorio ora all’impresa, e se l’art.48, secondo trattino, del regolamento 1493/1999 sull’OCMdel vino adopera il termine “origine” accostandolo a quellodi provenienza, va detto però che l’insieme di tale regola-mento ci obbliga a concludere che con la parola “origine”esso intende la “provenienza geografica” del prodotto e,più esattamente, il “territorio” o, meglio, la “area viticola” incui sono state raccolte le uve che hanno dato luogo al vi-no. Si tenga, invero, ben presente il fatto che, quando sitratta di prodotti trasformati così come è il vino, la filieraproduttiva potrebbe investire una pluralità di luoghi, conuna specifica rilevanza del luogo dell’impresa soprattutto inrelazione ad una normativa come quella dell’art. 24 del re-golamento 2913/92 del 12 ottobre 1992 o codice doganalecomunitario, secondo cui “una merce alla cui produzionehanno contribuito due o più paesi è originaria del paese incui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione so-stanziale, economicamente giustificata ed effettuata in

un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa conla fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresen-tato una fase importante del processo di fabbricazione” (13).

3.- Le pratiche enologiche.

A consentire il raggiungimento del minimo titolo alcolome-trico volumico naturale delle uve fresche e del mosto diuve una delle pratiche più tradizionali è l’aggiunta di sacca-rosio, ossia lo “zuccheraggio”, oppure l’aggiunta di mostodi uve concentrato. E’ facilmente comprensibile che l’auto-rizzazione o il divieto di siffatte pratiche ad opera di unoStato costituisca una barriera tecnica all’importazione di vi-ni da parte degli Stati che, rispettivamente, le vietino o leconsentano. Sicché nell’ambito del commercio internazio-nale acquista forte rilevo quali siano le pratiche enologichepermesse o vietate.Da una limitata possibilità ammessa dall’Unione europeacon il regolamento 1493/1999 – l’aggiunta di saccarosio èpossibile solo “a secco” ed unicamente “nelle regioni vitico-le nelle quali è tradizionalmente o eccezionalmente prati-cata” e sia svolta “conformemente alla legislazione vigentel’8 maggio 1970” (14) – si vorrebbe ora allargarne l’applica-zione, anche per via del fatto che l’OIV approva l’uso dellozucchero per arricchire i mosti, e ciò anche per venire in-contro alle pratiche enologiche utilizzate dai Paesi del c.d.“Nuovo Mondo” (15). A tal riguardo si consideri, poi, il parti-

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La Commissione ha di recente (15 dicembre 2006) presentato una proposta di regolamento relativo alla definizione, presentazione ed eti-chettatura delle bevande spiritose, suddividendole in tre categorie (“acquaviti”, cioè prodotti che non contengono alcole etilico di origineagricola; “bevande spiritose specifiche”, cioè prodotti che possono contenere alcole etilico di origine agricola e sostanze aromatizzantiidentiche a quelle naturali; “altre bevande spiritose”, cioè prodotti che possono contenere alcole etilico di origine agricola nonché aroma-tizzanti, edulcoranti e altre sostanze), precisando esattamente la composizione di base delle distinte bevande spiritose (sicché vi è statadisputa se con il nome “vodka” si debba intendere la bevanda derivata dalla fermentazione dei cereali e delle patate, oppure anche dallabarbabietola e dalla canna da zucchero), e provvedendo ad individuare le bevande spiritose con indicazione geografica, ovvero a ripor-tare, nell’Allegato III della proposta, le indicazioni che identificano una bevanda spiritosa come originaria di un paese, quando una deter-minata qualità, la rinomanza o altre caratteristiche della bevanda siano essenzialmente attribuibili alla sua origine geografica (art. 13 dellaproposta).Il Parlamento europeo ha presentato, il 12 febbraio 2007, la sua Relazione sulla proposta di regolamento (relatore: H. Schnellhardt), con-testando, in particolare, la classificazione delle bevande spiritose, il titolo alcolometrico massimo di 80% vol (il rum può avere un titolomassimo di 96% vol), la definizione di alcune bevande come il rum, il whisky, le acquavite di vino, di vinaccia, di residui di frutta e di frut-ta, il brandy, la vodka, ecc., con la precisazione che comunque tutte le definizioni devono essere contenute nel testo legislativo e non inun Allegato (come dalla Proposta di regolamento), essendo soggette alla procedura di codecisione.Si tenga presente che per l’Accordo TRIPs vi è una differente tutela a seconda che si tratti di vini e di bevande spiritose oppure di pro-dotti diversi. Con riguardo ai prodotti agricoli diversi dal vino, resta fuori dal divieto l’uso di un toponimo che non inganni sull’origine geo-grafica, quando la stessa presentazione letterale del segno consente al pubblico di non cadere nell’idea falsa che i prodotti abbiano ori-gine in altra zona (art. 22). Di contro, l’art. 23 assegna alle indicazioni geografiche dei vini e dei liquori una tutela assoluta, vietando chesiano usate anche espressioni quali “tipo”, “genere”, “stile” e simili, cioè espressioni che di per sé indicano che i prodotti non sono del-l’area geografica da cui proviene quello che è “imitato” od al cui stile essi si rifanno, perché per tale settore le Parti firmatarie dell’Accordonon vogliono che in alcun modo possa aversi errore del consumatore sulla vera provenienza geografica del prodotto alcolico. V. ancheinfra, nota 23.(13) Sul punto v. F. ALBISINNI, L’origine dei prodotti alimentari, in A. GERMANO’ e E. ROOK BASILE, Il diritto alimentare tra comunicazio-ne e sicurezza dei prodotti, Torino, 2005, p. 41.(14) Punto 3 della Sezione D dell’Allegato V del regolamento 1493/1999.(15) Va, peraltro, segnalato che nella proposta di Regolamento del Consiglio (luglio 2007) è detto che “è opportuno cessare, d’ora in avan-ti, di autorizzare l’aggiunta si saccarosio nel vino” (considerando 20).Va, egualmente, ricordato che il Code internationale des pratiques oenologiques al punto 4, con riferimento alla risoluzione n. 4 del 1980,definisce il “liqueur de tirage” il prodotto “que l’on ajoute à la cuvée préalablement au tirage, consitué de vin ou d’une partie de la cuvée,additionné soit de sucre, soit de moût ou de moût concentré”. E’ poi stabilito che “le sucre employé est du saccharose (sucre de canneou de betterave) ou du sucre de raisin”.

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colare collegamento tra l’utilizzazione dello zucchero equella del mosto al fine di aumentare il grado alcolico delvino, data la eventualità che, sul mercato interno e interna-zionale, vi sia una differenza di costo dello zucchero rispet-to a quello del mosto: sicché un Paese potrebbe essere in-dotto a vietare l’utilizzazione dello zucchero per favorirequella del mosto, di cui ad esempio sia eccedentario, al fi-ne di aumentarne gli sbocchi (16).

Un’altra pratica enologica è quella dell’utilizzazione di con-tenitori di legno nell’invecchiamento dei vini, la c.d. “barri-que”. Per superare lo svantaggio competitivo (17) dipenden-te dall’utilizzo di botti di legno di quercia (18), è stato “inven-tato” l’impiego di trucioli di legno nel corso della vinificazio-ne; mentre pare che in Giappone sia stato inventato ancheun macchinario in grado di trasformare, in pochi istanti, unabottiglia di vino novello in un perfetto vino invecchiato.

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La caratteristica della disciplina comunitaria in relazione alle pratiche enologiche è data dal fatto che vi è un loro elenco positivo, chegarantisce trasparenza. Oltre quelle rammentate nel testo, altre pratiche enologiche consistono nell’utilizzazione di solfito di ammonio, dibisolfito di ammonio o di anidride solforosa (per impedire l’acidificazione e con il rispetto di determinati limiti: Sezione A dell’Allegato V delregolamento 1493/1999); nell’acidificazione o nella disacidificazione (Sezione E dell’Allegato V del regolamento 1493/1999); nella dolci-ficazione (Sezione F dell’Allegato V del regolamento 1493/1999); nonché nell’aggiunta di ossigeno; nel trattamento termico; nella centri-fugazione e filtrazione; nella chiarificazione; nell’utilizzazione di acido sorbico (per dare stabilizzazione) o di acido tartarico (per dare aci-dità); nell’uso di resina; nell’uso di batteri lattici; nell’uso di gomma arabica; nell’aggiunta di tannino ecc., come meglio indicati nell’AllegatoIV del regolamento 1493/1999 e distinti a seconda se effettuati su uve fresche o su mosto d’uve e a seconda della diversa destinazionedei mosti d’uve, con una serie particolari di limiti. Nella sua Risoluzione del 15 febbraio 2007 il Parlamento europeo ha sottolineato l’op-portunità che le pratiche enologiche non consentite nell’Unione europea debbano figurare chiaramente sull’etichetta delle bevande impor-tate “e ciò al fine di proteggere l’immagine del vino” europeo (punto 48).L’Allegato V della proposta di regolamento del Consiglio (4 luglio 2007) indica, tra le pratiche enologiche ammesse, l’arricchimentomediante l’aggiunta di mosto, l’acidificazione e la disacidificazione. L’Allegato VI stabilisce i divieti, tra cui rilevante è il punto C “Taglio deivini”, in cui è stabilito che “Fatte salve eventuali decisioni diverse adottate dal Consiglio in conformità degli obblighi internazionali dellaComunità [in accordance with the international obligations of the Community], sono vietati nella Comunità il taglio di un vino originario diun Paese terzo con un vino della Comunità e il taglio tra vini originari di Paesi terzi”. Spetterebbe, però, alla Commissione (e non più alConsiglio) il compito di mantenere aggiornate le pratiche enologiche e di approvarne di nuove “tranne che per le pratiche politicamentesensibili dell’arricchimento e dell’acidificazione” che continuano ad essere riservate al Consiglio (19° considerando e art. 23 della Propostadel 4 luglio 2007). L’art. 22 della detta Proposta stabilisce che “gli Stati membri possono limitare o escludere il ricorso a determinate pra-tiche enologiche autorizzate in virtù del diritto comunitario per i vini prodotti sul loro territorio, se desiderano rafforzare la protezione dellecaratteristiche essenziali dei vini a denominazione di origine protetta o a indicazione geografica protetta o dei vini spumanti e liquorosi”.(16) Nella comunicazione al Consiglio e al Parlamento Europeo del 22 giugno 2006 “Verso un settore vitivinicolo europeo sostenibile”, laCommissione, fra la possibilità di aumentare l’aiuto a favore del mosto per compensare la riduzione del prezzo dello zucchero, oppurequella di lasciare il livello di aiuto invariato, oppure quella di sopprimere l’aiuto al mosto vietando contestualmente l’utilizzazione di zuc-chero, ritiene preferibile l’ultima opzione perché più vantaggiosa, permettendo di realizzare notevoli risparmi di bilancio e di aumentare glisbocchi del mosto. Conseguentemente la Commissione propone di ridurre al 2% la percentuale massima di arricchimento con aggiuntadi mosto d’uva, tranne nelle zone viticole C (ossia in alcune regioni di Francia, Spagna, Portogallo, Slovacchia, Italia, Ungheria, Slovenia,Grecia, Cipro e Malta) dove la percentuale potrebbe essere dell’1%.Nella proposta di regolamento del Consiglio (4 luglio 2007) non è prevista l’utilizzazione dello zucchero, ma solo quella dell’aggiunta delmosto. L’Allegato IX distingue le zone viticole in zone A, B e C, e suddivide la zona C nelle zone C I a), C I b), C II, C III a) e C III b), men-tre l’Allegato V prevede l’aumento del titolo alcolometrico volumico naturale non può superare il 2% vol. nelle zone vinicole A e B, e l’1%vol. nella zona vinicola C, nonché che i vini, a seguito dell’aggiunta di mosto concentrato, non dovranno raggiungere il totale quantitativoalcolico (the total alcoholic strength by volume) dell’11,5% nella zona A, il 12% nella zona B, il 12,5% nelle zone C I a) e C I b), il 13%nella zona C II ed il 13,5% nella zona C III.Il fatto, però, che nella sua Comunicazione del giugno 2006 la Commissione avrebbe voluto autorizzare l’arricchimento dei vini europeianche con mosti importati (così come vorrebbe autorizzare il taglio di vini comunitari con vini non comunitari) per un’asserita necessità diadeguare la nuova OCM del vino ai requisiti della WTO. Con riguardo a tale aspetto la Commissione è stata criticata dal Comitato eco-nomico e sociale europeo nel suo Parere del 14 dicembre 2006 (punti 3.9.4, 3.10.1 e 3.14) e dal Parlamento europeo nella suaRisoluzione del 15 febbraio 2007 (punto 38, in cui è detto che, “in caso di arricchimento mediante aggiunta di mosto concentrato, questodebba provenire dallo stesso bacino di produzione”). V. anche il punto 48 in cui – come già accennato – il Parlamento europeo sottolineache le pratiche enologiche non consentite nell’UE debbono figurare chiaramente sull’etichetta delle bevande importate, nonché il punto59 in cui il Parlamento “invita la Commissione ad elaborare un regime di etichettatura per le bevande alcoliche di importazione derivatedal vino che non rispettano le pratiche enologiche europee e che non vanno pertanto commercializzate come vino”, ed ancora il punto60 in cui il Parlamento denuncia che “uno dei rischi più seri di adulterazione della produzione di vino, di distorsione del commercio e diriduzione della produzione comunitaria è rappresentato dalla soppressione del divieto di vinificare i mosti importati”. Sull’uso del sacca-rosio e sugli aiuti all’utilizzo del concentrato di mosto v., invece, l’opinione favorevole del Comitato economico e sociale europeo (punto3.10.1).Come si è detto supra, nota 15, nella proposta di regolamento del Consiglio (4 luglio 2007) vi è il divieto di aggiungere mosti provenien-ti dai paesi terzi.(17) Pare che una barrique costi intorno ai 700 euro, mentre l’uso dei trucioli o chips solo 3 euro.(18) Con regolamento 1951/2006 del 21 dicembre 2006 la Commissione ha autorizzato l’uso di contenitori di legno diverso dalla quercia(ad esempio, in frassino o in castagno), con l’obbligo di indicare nell’etichetta la specie di legno del contenitore. Si noti che l’art. 22.3,terzo inciso, del regolamento 753/2002 sulle modalità di applicazione del regolamento 1493/1999 per quanto riguarda la designazione,la denominazione, la presentazione e la protezione dei prodotti vitivinicoli, così come introdotto dall’art. 1 del regolamento 1951/2006, sta-bilisce che “le diciture [sui contenitori di legno] non possono essere utilizzate per designare un vino elaborato usando pezzi di legno diquercia, anche in combinazione con l’impiego di contenitori in legno”.

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Il consenso delle pratiche enologiche dello zuccheraggio,dell’aggiunta di mosto concentrato e dell’uso di trucioli di le-gno o del meccanismo capace di “invecchiare” i vini novelli,peraltro, si intersecano con l’attuale tendenza a dare notiziaal consumatore dei vari ingredienti di ciò che mangia o be-ve, nonché dei vari procedimenti usati per ottenere il cibo ole bevande destinati al consumo umano, con la conseguen-za che le diverse legislazioni nazionali che imponesserol’indicazione, nell’etichetta, delle pratiche enologiche utiliz-zate per produrre il vino oggetto dell’offerta, potrebbero rap-presentare, nuovamente, barriere tecniche all’importazione.Il fatto è che certe specifiche pratiche enologiche sono ca-paci di rendere “simili” i vini “elaborati” a quelli, a dir così,“naturali” e, quando sono ammesse dalla legislazione delPaese, di renderli legalmente “equivalenti”, nella consape-volezza, tuttavia, che così disponendo possano essere inci-se le tradizioni e la cultura alimentare di una determinatagente. Orbene, la volontà di tenere conto/di non tenere con-to delle tradizioni vitivinicole e dei fattori culturali di un po-polo ha una necessaria ricaduta sulle prescrizioni normati-ve in tema di informazione: le esigenze dei mercanti si in-contrano/si scontrano con le esigenze dei cittadini.

4.- La differenza tra vini di qualità e vini da tavola.

A questo punto si deve prendere atto che non tutti i vini so-no uguali. Ovviamente, le differenze sono soprattutto orga-nolettiche, ben sapendo che queste dipendono dai vitigni,dal territorio in cui le uve maturano, dalle pratiche enologi-che. Dunque, fattori naturali e fattori umani: fattori che èopportuno/inopportuno segnalare ai consumatori per indur-li/non-indurli a scelte consapevoli e libere.Più uno Stato ha una tradizione vitivinicola, più esso è in-dotto a difenderla. Il “Vecchio Mondo” coltiva l’uva da mi-gliaia e migliaia di anni e i viticoltori da secoli ne hannoperfezionato il prodotto anche attraverso la “scelta” dei ter-

reni più vocati alla produzione di certe uve. Ne hanno, poi,curato la trasformazione in mosto e quindi la sua fermenta-zione e poi l’invecchiamento del vino attraverso pratiche,anch’esse, secolari. Sono riusciti, così, ad ottenerne unprodotto che è capace di distinguersi, per tutta una serie dicaratteristiche organolettiche, dagli altri simili.La legislazione degli Stati può prendere coscienza di que-ste differenze di produzione ed elevarle a differenze legalidi commercializzazione: cioè, se certi vini sono differentidagli altri per specifici fattori naturali e per determinate pra-tiche umane, la legge ne può prendere atto e dettare restrit-tive prescrizioni che consentano di distinguere, sul mercato,i primi dagli altri, chiamando i primi con l’appellativo di “vinidi qualità” ed i secondi con il nome comune di vino o, me-glio, di “vino da tavola” (19), quasi a porre in evidenza che,se i secondi sono vini da porsi sulla tavola di ogni giorno, iprimi sono vini che imbandiscono le mense in occasionispeciali. La conseguenza è l’attribuzione dell’esclusiva uti-lizzazione del “nome” dello specifico vino di qualità solo aquei vitivinicoltori che svolgono la loro attività di vitivinicoltu-ra tanto nel territorio riconosciuto dal provvedimento statalecome costitutivo del fattore naturale, quanto secondo lespecifiche tecniche e modalità espressione del fattore uma-no di quel determinato vino, appunto, di qualità.Nell’elevazione di un vino a vino di qualità o, meglio, per latutela di un vino come vino di qualità concorrono, allora,non solo l’Autorità pubblica a cui spetta di dare riconosci-mento al territorio come quello capace di attribuire al vinospecifiche caratteristiche organolettiche, ma anche la co-munità che, da generazione in generazione, ha individuatola migliore tecnica per produrre quel vino e che ne ha for-malizzato le regole in un disciplinare che costituisce il crite-rio-guida per dare al vino le proprietà che lo rendono, ap-punto, il vino di qualità con quello specifico nome. La “libe-ra” determinazione della comunità locale (20) si incontra conl’intervento regolamentare dello Stato, il quale – nella mi-sura in cui impegna la propria autorità nel riconoscere e tu-

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(19) Alcuni vini da tavola possono avere una indicazione geografica: sono, ad esempio, i nostri vini IGT.(20) Nella sentenza della Corte di giustizia 10 novembre 1992, C-3/91, Exportur la comunità locale è stata considerata “centro” di riferi-mento con riguardo alla protezione del nome geografico che comunicava e comunica che i torroni “Alicante” e “Jijona” erano e sono rea-lizzati da produttori stanziati ed operanti in tali territori, cosicché ai vicini produttori francesi, anch’essi fabbricanti torroni con il medesimoknow how, era ed è fatto divieto di ricorrere ai toponimi di Alicante e di Jijona nella commercializzazione dei propri simili prodotti. Il rilie-vo della comunità locale risulta ribadito con riguardo alle denominazioni di origine protette “vino Rioja”, “prosciutto di Parma” e “granapadano” nelle sentenze della Corte di giustizia, rispettivamente, del 16 maggio 2000, causa C-388/95, Belgio c. Spagna, e 20 maggio2003, cause C-118/01, Consorzio Prosciutto di Parma c. Asda Stores Ltd, e C-496/00, Ravil Sarl c. Biraghi Spa, con un’ulteriore e rile-vantissima affermazione: infatti, la Corte riconosce che l’obbligo (stabilito nei rispettivi disciplinari di quel vino, di quel prosciutto e di quelformaggio) di imbottigliare il vino con denominazione di origine “Rioja” nella regione Rioja, di affettare il prosciutto con denominazione diorigine “Prosciutto di Parma” nella zona di Parma e di grattugiare il formaggio con denominazione di origine “Grana Padano” nella areageografica di produzione di tale formaggio, pur costituendo una misura di effetto equivalente a restrizioni quantitative all’importazione, ègiustificato ex art. 30 del Trattato, perché tali prodotti hanno assunto una reputazione notevole ed incontestabile, tanto da doversi ricono-scere legittimo che sia la stessa comunità produttrice a tutelarne la proprietà industriale e commerciale anche con le misure, a secondadel caso, dell’imbottigliamento, dell’affettamento e del grattuggiamento nelle rispettive aree geografiche. Si tenga conto che l’affermazio-ne della Corte di giustizia in queste ultime tre sentenze ha, rispetto a quella Exportur, maggiore forza di convinzione, se si considera chein esse si discuteva di (vere) denominazioni di origine, la cui protezione si traduce nella riserva di uso esclusivo del nome in favore delgruppo di persone che producono ed elaborano i prodotti con le caratteristiche richieste, e nella proibizione di usarlo a carico di tutti colo-ro che, per non produrre all’interno dell’area geografica o per produrvi prodotti non conformi al disciplinare, non ne sono autorizzati. E’per questo motivo che la Corte di giustizia, rilevando che la protezione dispensata alle denominazioni di origine è comparabile con quel-la offerta alla proprietà industriale e commerciale, conclude che “le denominazioni di origine fanno parte, appunto, dei diritti di proprietà

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telare i vini di qualità – si riserva il potere del controllo delrispetto, da parte dei vitivinicoltori interessati, dei limiti terri-toriali e delle regole del disciplinare, controllo che può de-legare a soggetti terzi, cioè ad organismi non coinvolti nellaproduzione e commercializzazione di quei vini (21).Il problema fondamentale della tutela dei vini di qualità è,però, quello relativo alla loro comunicazione, che necessa-riamente si sdoppia in una indicazione di carattere genera-

le, che serve a far immediatamente comprendere al consu-matore di trovarsi a che fare con un vino, appunto, di quali-tà, ed in quella specifica che serve ad individuare, tra i varivini di qualità, uno in modo particolare. Ogni Paese puòdettare prescrizioni diverse, sicché è importante – nel mer-cato internazionale e globalizzato come è quello attuale –sapere se la disciplina generale di base sia identica (22) oalmeno equivalente (23). In altre parole, assume rilevanza il

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industriale e commerciale” e riconosce alla collettività di controllare tutta la catena di produzione al fine di evitare utilizzazioni abusive delnome da parte di terzi che tentano di agganciare i propri prodotti alla reputazione che la denominazione di origine ha acquisito sul mer-cato. Sul caso del torrone di Alicante, v. F. ALBISINNI, L’aceto balsamico di Modena, il torrone di Alicante e la birra di Warstein(Denominazioni geografiche e regole del commercio alimentare), in RDA, 2001, II, 101; sul caso del vino Rioja v. F. ALBISINNI, Aziendamultifunzionale, mercato, territorio. Nuove regole in agricoltura, Milano, 2000, 169; M. BORRACCETTI, La tutela del vino di qualità puòammettere una deroga al divieto di misure di effetto equivalente: il caso Rioja, in RDA, 2000, II, 306; A. SANCHEZ HERNANDEZ,Aspectos jurídicos de la calidad en los productos agroalimentarios en España (Especial referencia a La Rioja), in A. GERMANO’ (a curadi), L’agricoltura nell’area mediterranea: qualità e tradizione tra mercato e nuove regole dei prodotti alimentari, Milano, 2004, 195; non-ché, sui casi “prosciutto di Parma” e “grana padano”, v. L. COSTATO, Tracciabilità e territorio: il confezionamento delle Dop e Igp in loco,in DGAA, 2003, 294; M. BORRACCETTI, Trasformazione di un prodotto e suo confezionamento nel rispetto delle denominazioni di origi-ne, in RDA, 2003, II, 447; S. RIZZIOLI, Il condizionamento dei prodotti con denominazione di origine, in RDA, 2003, II, 458. Cfr. ancheN. LUCIFERO, Il territorio: rapporto tra le regole del produrre e le regole del vendere, in A. GERMANO’ e E. ROOK BASILE, Il diritto ali-mentare tra comunicazione e sicurezza dei prodotti, Torino, 2005, 101.Il regolamento 510/2006 del 20 marzo 2006 riconosce che l’associazione richiedente la dop o l’igp possa riportare nel disciplinare “gli ele-menti relativi al condizionamento” quando “stabilisce e motiva che il condizionamento deve avere luogo nella zona geografica delimitataper salvaguardare la qualità o garantire l’origine o assicurare il controllo”. Cfr. F. CAPELLI, Il condizionamento dei prodotti contrassegna-ti con “dop” e “igp” secondo le nuove disposizioni inserite nel Regolamento n. 2081/92 sulle denominazioni di origine, in Dir. com. e scam-bi internaz., 2003, 105.(21) Quanto al controllo è utile il richiamo agli artt. 10 e 11 del regolamento 510/2006 sulle dop e igp: per l’art. 10 gli Stati membri devonodesignare le autorità incaricate dei controlli, che, per l’art. 11, sono tenute a verificare il rispetto del disciplinare prima dell’immissione delprodotto sul mercato quali organismi di certificazione dei prodotti. (22) Nell’Unione europea i vini di qualità prodotti in regioni determinate, cioè i v.q.p.r.d., hanno una unitaria disciplina basata sull’AllegatoVI del regolamento 1493/1999, disciplina che è specifica rispetto a quella delle denominazioni di origine protette (dop) e delle indicazio-ni geografiche protette (igp) di cui all’attuale regolamento 510/2006. Si tenga presente che la Commissione europea, con la proposta diriforma dell’OCM del vino, avrebbe intenzione di regolare nella stessa maniera i vini di qualità e gli altri prodotti alimentari di qualità. Daparte sua il Parlamento europeo, nella sua Risoluzione del 15 febbraio 2007, ha espresso un giudizio che non sembra chiaramente favo-revole, perché ha chiesto, nel punto 52, alla Commissione “di fare tutto il possibile per rafforzare la protezione delle indicazioni geografi-che, aumentando il livello di rigorosità e creando un quadro comune per le indicazioni geografiche a livello europeo nonché a livello bire-gionale e multilaterale”, mentre ha proposto, nel punto 58, di “esaminare la possibilità di integrare nella nuova OCM del settore vitivinico-lo le disposizioni del regolamento 510/2006 sulle igp e dop”. Dalla proposta di regolamento del Consiglio (4 luglio 2007) risulta chiaro l’avvicinamento dei segni geografici dei vini alle denominazionidi origine protette e alle indicazioni geografiche protette, nel senso che essi prenderanno il segno delle DOP e delle IGP: art. 27. Meritaessere segnalato che, per godere del segno IGP, è sufficiente che “le uve da cui [il vino] è ottenuto provengano per almeno l’85% esclu-sivamente da tale zona geografica”, mentre per il segno DOP è necessario che “le uve da cui [il vino] è ottenuto provengano esclusiva-mente da tale zona geografica”.(23) L’Accordo TRIPs tratta delle indicazioni geografiche negli articoli 22 e 23, dettando disposizioni molto precise quanto alla loro tutela,sì da assicurare l’esclusività nell’utilizzazione ai produttori della zona determinata e la permanenza della distintività del nome dei prodot-ti della detta zona.Innanzitutto, ne dà la definizione, dovendosi intendere per indicazioni geografiche le “indicazioni che identificano un prodotto come origi-nario del territorio di uno Stato membro, o di una regione o località di detto territorio, quando una determinata qualità, la notorietà o altrecaratteristiche del prodotto siano essenzialmente attribuibili alla sua origine geografica” (art. 22.1): l’origine, dunque, è la area geografi-ca di produzione. Poi, stabilisce che ciascuno Stato firmatario dell’Accordo deve approntare i mezzi legali atti a consentire agli interessa-ti di impedire “l’uso, nella designazione o nella presentazione di un prodotto, di ogni elemento che indichi o suggerisca che il prodotto inquestione è originario di un’area geografica diversa dal vero luogo di origine in modo tale da ingannare il pubblico sull’origine geograficadel prodotto” (art. 22.2,a). Inoltre, impone agli Stati firmatari dell’Accordo di impedire “qualsiasi uso indebito [del nome geografico] checostituisca un atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 10bis della Convenzione di Parigi” sulla proprietà industriale del 20 marzo 1883,nel testo revisionato a Stoccolma nel 1967 (art. 22.2,b). Infine, dispone che nessuna tutela è data a quella (vera) indicazione geografica,identificatrice (originariamente) di prodotti effettivamente ottenuti nel territorio a cui il nome geografico si riferisce, che in altro Stato mem-bro della WTO sia divenuta nome generico dell’intera categoria di prodotti con quel nome geografico conosciuti, dalla gente ormai ado-perato per identificare “quel” prodotto (art. 24.6): cosicché anche per il riconoscimento e la tutela delle denominazioni geografiche sonorichiesti i requisiti di novità, distintività e verità che sono pretesi per la registrazione dei marchi, senza tuttavia che l’interprete incorra nel-l’errore di assimilare i due strumenti di comunicazione. Per ultimo, immagina la possibilità che, sul piano internazionale, si venga a costi-tuire un sistema di notifica e di registrazione delle indicazioni geografiche che costituisca o, almeno, che dia la prova che esistono nomigeografici con cui sono individuati prodotti conosciuti con quel nome dai consumatori: sicché per essi non si possa verificare la c.d. vol-garizzazione. Una tutela aggiuntiva – come già accennato supra, nota 12 – è istituita a favore delle indicazioni geografiche per i vini e per

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fatto che vari Paesi rappresentino, sotto il profilo commer-ciale, un blocco unitario con un’unica disciplina dei vini diqualità, come è il caso dei 27 Stati membri dell’Unione eu-ropea e, forse, come potrebbe essere il caso dei 50 Statimembri degli Stati Uniti d’America o il caso dei 6 Stati e 2Territori dell’Australia. Ne deriva anche l’utilità di sapere

quali differenze di disciplina possano ricorrere tra l’insiemecommerciale degli Stati che ne sono membri ed il singoloStato membro (24), ovverosia se le regole di classificazionedei vini, quelle della loro etichettatura e quelle del loro con-trollo siano sottoposte ad un regime di sussidiarietà e fino aquali limiti si estenda tale sussidiarietà (25): ciò anche al fine

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gli alcolici, in quanto per essi la tutela va apprestata “anche se la vera origine dei prodotti è indicata o se l’indicazione geografica è tra-dotta o è accompagnata da espressioni quali ‘genere’, ‘tipo’, ‘stile’, ‘imitazione’ o simili” (art. 23.1). Sul punto v. A. GERMANO’, AccordoTRIPs e i due livelli di protezione delle indicazioni geografiche, in E. ROOK BASILE e A. GERMANO’ (a cura di), Agricoltura e alimenta-zione tra diritto, comunicazione e mercato, Milano, 2003, 245.Vi è un punto dell’Accordo TRIPs che merita di essere rilevato. Mentre il regolamento comunitario 2081/92 parla di “reputazione” comeciò che si trasmette dall’area geografica al prodotto, l’Accordo TRIPs usa, invece, l’espressione “notorietà”: l’indicazione geografica iden-tifica un prodotto come originario di un territorio, quando “la notorietà del prodotto sia essenzialmente attribuibile alla sua origine geogra-fica”. Poiché notorietà è cosa diversa dalla reputazione, c’è da chiedersi se l’art. 22 dell’Accordo TRIPs abbia abbassato la soglia di acces-so all’indicazione geografica. Se fosse così, si potrebbero trarre due conclusioni: la prima è l’allargamento della platea dei beneficiari dellatutela predisposta dall’Accordo; la seconda è l’esaltazione della natura dell’indicazione geografica come segno distintivo, piuttosto checome garanzia di una qualità superiore. Cfr. anche A. GERMANO’ e E. ROOK BASILE, Diritto agrario, vol. XI del Trattato di diritto priva-to europeo diretto da Ajani e Benacchio, Torino, 2007, p. 308, spec. p. 314. Il problema più grave della materia che ci occupa è la possi-bile coesistenza, nel mercato internazionale, tra indicazione geografica e marchio geografico, ovvero tra due segni che, come si è detto,operano su piani diversi e hanno tutele diverse: ma in argomento v. infra, nota 40.La Comunità ha introdotto i regolamenti 692/2003 dell’8 aprile 2003 e 3378/94 del 22 dicembre 1994 al fine di rendere la normativa comu-nitaria sulle igp e dop più coerente con l’Accordo TRIPs. Al regolamento 1576/89 sui vini è stato aggiunto l’art. 11bis (v. ora l’art. 50 delregolamento 1493/99) per il quale gli Stati dell’Unione europea si impegnano ad adottare gli strumenti necessari per impedire l’uso delleindicazioni geografiche per prodotti non provenienti dall’area geografica di cui portano il nome, mentre con il regolamento 692/2003 si èdisciplinata, in modo più specifico, la procedura di accesso, da parte di operatori dei Paesi terzi, al sistema comunitario di protezione delledenominazioni di origine, su cui si è dovuto nuovamente intervenire a seguito del Panel WTO del 15 marzo 2005 emanando il regolamen-to 510/2006 del 20 marzo 2006. Con il regolamento 3288/94 del 22 dicembre 1994, invece, si è provveduto ad armonizzare all’AccordoTRIPs la disciplina comunitaria sui marchi di cui al regolamento 40/94 del 20 dicembre 1993, che, però, aveva già come fondamentali ilprincipio per il quale i nomi geografici non possono essere utilizzati come marchi individuali (art. 7.1,c) salvo che non abbiano già acqui-sito distintività (è il caso del c.d. secondary meaning), nonché quello per il quale è decettivo il marchio che può indurre in errore il consu-matore sull’origine geografica del prodotto (art. 7.1,g). La riforma, perciò, è stata, in sostanza, di contenuto limitato, perché si esauriscenell’estendere ai cittadini dei Paesi membri della WTO i diritti che il regolamento 40/94 riconosce ai cittadini degli Stati membri dell’Unioneeuropea.(24) Così è interessante rilevare la specifica competenza dei singoli Stati degli Stati Uniti d’America nella materia dell’agricoltura, che trovai suoi limiti solo nella Costituzione. Una legge dello Stato del Vermont imponeva certe informazioni sull’etichetta degli alimenti, ma l’U.S.Court of Appeal per il Secondo Circuito l’ha ritenuta in contrasto con il Primo emendamento della Costituzione statunitense: trattasi delcaso International Dairy Foods v. Amestoy del 1996, relativamente all’utilizzazione della somatotropina (BST), un ormone modificato dellacrescita bovina, che consente una maggiore produzione di latte. Benché la Food and Drug Administration avesse concluso che non cifosse nessuna sostanziale differenza tra il latte “normale” ed il latte ottenuto a seguito dell’utilizzazione dell’ormone modificato, lo Statodel Vermont aveva, con una sua legge, che “if BST has been used in the production of milk or a milk product for retail sale in this State,the retail milk or milk product shall be labeled as such”: cfr. F. H. DEGNAN, The Food Label and the Right-to-know, in Food and Drug LawJournal, vol. 52, 1997, p. 49, spec. p. 58. Si può altresì apprendere, così come riporta M. BENOZZO, Stati Uniti d’America e biotecnolo-gie in agricoltura: un nuovo approccio al problema, in Agricoltura, istituzioni, mercati, 2004, fasc. 1, p. 129, che il 2 marzo 2004 si è svol-to un referendum nella Contea di Mendocino, una zona viticola della California, con il quale gli abitanti della Contea si sono espressi afavore della proposta di legge di iniziativa popolare che prescrive che “it shall be unlawful for any person, firm or corporation to propaga-te, cultivate, raise or grow genetically modified organisms in Mendocino County”. Inoltre, N. LUCIFERO, Il territorio: rapporto tra regoledel produrre e regole del vendere, in A. GERMANO’ e E. ROOK BASILE, Il diritto alimentare tra comunicazione e sicurezza dei prodotti,Torino, 2005, p. 131, nota 82, riferisce di una controversia davanti alla Corte Suprema Federale della California, in cui si discute dellatutela della menzione geografica “Napa”, sostenuta dai viticoltori della regione.(25) La proposta della Commissione europea di deregolamentazione dell’OCM del vino potrebbe dare luogo ad una rinazionalizzazionedella politica vitivinicola con un conseguente pericolo di “perdita” di obiettivi comuni e, quindi, con il venire meno di una politica comuni-taria unitaria. La sussidiarietà potrebbe essere bene accetta se si limitasse a disposizioni rispettose delle specificità esistenti a livellonazionale e regionale, come si verifica attualmente con riferimento ai “segni” distintivi dei vini di qualità, indicati con nomi ormai della tra-dizione di un determinato popolo, come sono, ad esempio, i segni doc, docgt e igt della legislazione italiana o i segni di “vinos de calidadcon indicación geográfica”, “vinos con denominación de origen”, “vinos con denominación de origen calificada” e “vinos de pagos” dellalegislazione spagnola. Su questi ultimi, anche per la bibliografia spagnola, v. A. GERMANO’, I dati informatori del “valore” del territorioagricolo nel diritto spagnolo, in A. GERMANO’ e E. ROOK BASILE, Il diritto alimentare tra comunicazione e sicurezza dei prodotti, Torino,2005, 185.Si noti che la prima proposta della Commissione (giugno 2006) è stata contestata dal Comitato economico e sociale europeo (Parere del14 dicembre 2006, punto 3.6) e dal Parlamento europeo (Risoluzione del 15 febbraio 2007). In particolare si veda il “considerando” J dellaRisoluzione del Parlamento in cui è detto che “l’opzione [considerata dalla Commissione] di una profonda riforma dell’OCM del settorevitivinicolo con modifiche sostanziali delle misure proposte è da ritenersi quella valida per raggiungere gli obiettivi prefissati”, dovendositenere presente che “lo scenario di ‘riforma radicale’ dell’OCM del settore vitivinicolo scelto dalla Commissione” è da criticare, dato chel’analisi su cui si fonda la Commissione è sbagliata, il piano di sradicamento massiccio ed indiscriminato rappresenta un attacco ingiusti-

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di valutare l’equivalenza tra le varie norme nazionali (26).Ancora una volta, quindi, il fatto della differenza organoletti-ca dei vini di qualità e dei vini da tavola si traduce in regoledifferenti di commercializzazione che hanno il loro puntocentrale nelle regole di comunicazione, di pubblicità e di eti-chettatura. Con l’ulteriore necessità che non si verifichi unasovrabbondanza di informazioni che possa dar luogo a con-fusione nei consumatori o, peggio, ad una loro tendenza anon porre più attenzione alle “formule” e/o alle più varie no-tizie descrittive del vino contenuto nella bottiglia, delle zonedella sua produzione, dell’anno di produzione e/o di imbotti-gliamento, dell’azienda produttrice o imbottigliatrice, deiconsigli sul suo impiego a tavola e sulle temperature di ser-vizio e – andando al di là dei limiti di una carta d’identità diun vino – alle più varie informazioni storiche o storico-arti-stiche per richiamare una dimensione del passato, o alle in-formazioni “fantastiche” o mitologiche per attivare, tramite ilricorso alla fantasia, meccanismi di seduzione (27).

5.- La comunicazione simbolica nel mercato e il “rapporto”tra indicazioni geografiche e marchi geografici.

In un mercato “muto”, dove le parole parlate sono ormai

quasi sempre e sempre di più escluse tra i contraenti, per-ché la “proposta” consiste nella mera offerta visiva dell’og-getto da parte del produttore e la “accettazione” è data dal-la silenziosa apprensione della cosa da parte del consu-matore, è pur sempre necessaria la comunicazione di datie di informazioni, senza i quali il “cliente” non è in condizio-ne né di individuare l’oggetto di cui ha bisogno o desiderio,né tanto meno di effettuare la scelta tra oggetti simili offertisul mercato (28).I “segni” dei prodotti – quella manciata di parole necessariaa dare tutte le informazioni utili per dire di che prodotto sitratti (29) e chi lo abbia prodotto (30) secondo le prescrizionilegali – possono altresì “narrare” la storia del prodotto, ilsuo “valore” dovuto a fattori naturali ed a fattori umani, ilsuo “rapporto” con un territorio e con una comunità, l’imma-gine di una terra e della sua gente (31). Se il segno della pri-ma specie è il marchio, i segni di quest’ultima specie consi-stono nel nome del luogo geografico di produzione e, negliordinamenti giuridici, sono chiamati indicazioni geografiche.La specialità delle indicazioni geografiche è che esse rac-chiudono in sé anche la capacità di esprimere una “cultura”,la cui memoria, se non fosse raccontata, appunto, attraver-so il toponimo, si perderebbe con lo scorrere del tempo (32),mentre la sua estrinsecazione e “narrazione” attraverso il

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ficato al patrimonio viticolo europeo, la completa liberalizzazione del potenziale produttivo è pericolosa, il trasferimento degli stanziamen-ti dal primo al secondo pilastro della PAC non è accettabile, la prevista ristrutturazione della viticoltura europea secondo un orientamen-to alla concentrazione della produzione tra le mani di poche aziende vitivinicole e all’uniformità dei vini prodotti determina gravi rischi perla diversità dei vini europei e per la ricchezza economica, sociale e culturale di numerose regioni dell’Europa (considerando O dellaRisoluzione del Parlamento). E’ per tali motivi che il Parlamento europeo ritiene indispensabile il mantenimento dell’OCM del settore viti-vinicolo nell’ambito del primo pilastro della PAC, l’esclusione dell’estensione del sistema unico di pagamenti dissociati (di cui alla riformadella PAC di medio termine) all’attuale sistema di sostegni del settore vitivinicolo, la sussidiarietà nell’attuazione del nuovo regime attra-verso il primo pilastro (punto 1 della Risoluzione).Nella proposta di regolamento del Consiglio (4 luglio 2007) l’intero Titolo II tratta delle “misure di sostegno” che gli Stati sono autorizzatia concedere ai “wine producers” con programmi nazionali. Le misure proposte (art. 7) sono: ristrutturazione e riconversione dei vigneti(art. 10); vendemmia verde (art. 11); fondi di mutualizzazione (art. 12); assicurazione del raccolto (art. 13). Manca il vecchio sostegno alladistillazione. Va ancora precisato che, qualora non rispettino, per il periodo di cinque anni, gli impegni di buona pratica agricola come pre-visti dal regolamento 1782/2003, gli “agricoltori” (the farmers, nel testo inglese) subiranno la riduzione o l’azzeramento, parziale o totale,del sostegno e potranno essere richiesti del rimborso di quanto percepito (art. 14). La “sanzione” dipende dalla gravità, dalla portata, dalladurata e dalla frequenza dell’inadempienza.(26) Può essere utile il rinvio alle considerazioni da me espresse in A. GERMANO’, Il commercio internazionale dei prodotti alimentari traregole tecniche, norme giuridiche e Stati sovrani: il caso dei prodotti biologici, in RDA, 2005, I, 272.(27) In argomento v. S. SPERANZA e M. VEDOVELLI, Seduzione e informazione: il risvolto dell’etichetta. Note per una enogrammatolo-gia, in E. ROOK BASILE e A. GERMANO’ (a cura di), Agricoltura e alimentazione tra diritto, comunicazione e mercato. Verso un dirittoagrario e agro-alimentare della produzione e del consumo, Milano, 2003, 49. Sotto questo profilo si deve notare che il Parlamento euro-peo, nella sua Risoluzione del 15 febbraio 2007, ha auspicato una semplificazione dell’attuale etichettatura dei vini (v. regolamento753/2002 del 29 aprile 2002) e che comunque essa, per quanto riguarda i vini con indicazione geografica, non sia più complicata dell’eti-chetta dei vini provenienti dai paesi terzi (punti 45 e 49). V. anche infra, par. 7.(28) Sul mercato “muto” v. N. IRTI, Scambi senza accordo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, 347.(29) La denominazione merceologica è assolutamente necessaria che risulti sull’etichetta quando trattasi di prodotti agricoli trasformati, alfine di identificare il prodotto stesso, come intuitivamente si comprende nei casi dell’olio di oliva, dell’olio di semi, del burro, della marga-rina, ecc.(30) I marchi di impresa sono, infatti e innanzitutto, distintivi del prodotto come proveniente da una determinata impresa. Si noti che, accan-to alla funzione distintiva, l’odierno marchio ha anche quelle di attribuzione di qualità, di riassunto del prestigio dell’impresa, e di pubbli-cità. (31) L’espressione “immagine di una terra e della sua gente” è in A. GERMANO’, “Volgarizzazione” delle denominazioni merceologichelegali e ruolo della Corte di giustizia della CEE, in Impresa e azienda nel diritto agrario. Strumenti della PAC e ruolo delle Regioni, Attidelle Seconde Giornate Camerti di Diritto agrario comunitario, Camerino, 1989, 272.(32) Così E. ROOK BASILE, Commento all’art. 21, 1° comma, D.Lgs. n. 228/2001, in RDA, 2002, 561, che precisa che i segni geograficiche, individuano i prodotti dell’area nominata, non si esauriscono nella diffusione di notizie, ma assurgono a “veicolo per la riemersionedi una storia altrimenti sepolta se non fosse raccontata”. Della stessa Autrice v. anche La funzione pubblicitaria dei prodotti alimentari nelsistema del mercato agricolo, in Agricoltura e diritto. Scritti in onore di E. Romagnoli, Milano, 2000, 1087.

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segno consente di acquisire e mantenere una clientela “at-tratta” dalla reputazione del luogo e dalla fama della comu-nità produttrice che sono espressi nel nome (33).L’informazione del valore del territorio attraverso il segnogeografico è una pratica risalente nel tempo ed è, altresì,una pratica comune sotto tutte le latitudini. Ogni comunitàha cercato e cerca di sfruttare, sul mercato, la reputazionedel proprio luogo di produzione, ed ogni Paese ha valoriz-zato e valorizza i propri territori di produzione di prodotti fa-mosi con il dare riconoscimento giuridico ai segni geograficie con il tutelarli contro le contraffazioni ed il pericolo di “ag-ganciamento”, onde proteggere la produzione nazionale.Così si rileva che in quasi tutti i Paesi membri dell’Unioneeuropea vi è stata una specifica legislazione sulle indica-zioni geografiche; e così si comprendono le ragioni per lequali la Comunità è stata indotta, al fine di avere nell’unicomercato un’unica normativa che garantisca a produttori e

consumatori europei di intendersi in maniera non-confuso-ria né decettiva, a emanare il regolamento 2081/92 del 14luglio 1992 [ora sostituito dal regolamento 510/2006] sulledenominazioni di origine protetta (dop) e sulle indicazionigeografiche protette (igp) (34), con cui viene disciplinatol’uso di designare geograficamente alcuni prodotti agricolie viene tutelato il diritto dei produttori dell’area geograficaconsiderata ad utilizzare, in via esclusiva, il toponimo perdifferenziare, sul mercato, i propri prodotti da quelli realiz-zati fuori di quello specifico e famoso territorio (35). Ma il mercato non è solo nazionale, né solo europeo. Ancheil mercato mondiale pretende che non vi sia indebito sfrutta-mento dei nomi geografici di forte reputazione presso i con-sumatori. E così l’Accordo TRIPs, allegato al Trattato di Mar-rakech del 14 aprile 1994, disciplina l’uso delle indicazionigeografiche tra le altre ipotesi di proprietà intellettuale (36).Dunque, per la necessità di “conservare”, nelle leali rela-

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(33) Cfr. E. ROOK BASILE, Prodotti agricoli, mercato di massa e comunicazione simbolica, in DGAA, 1995, 138. V. anche F. ALBISINNI,Azienda multifunzionale, mercato, territorio. Nuove regole in agricoltura, Milano, 2000; ID., L’origine dei prodotti agro-alimentari e la qua-lità territoriale, in RDA, 2000, I, 23.L’informazione del valore del territorio attraverso il segno geografico apposto al prodotto o con cui si designa un prodotto è cosa antica.Si narra che quando l’imperatore Enrico III scese in Italia, inviò un messo a Bonifacio, padre di Matilde contessa di Toscana, per avereun po’ di quell’aceto balsamico “che aveva udito farsi perfettissimo in Canossa”: si trattava, allora come ora, dell’aceto balsamico diModena. In argomento cfr. F. CANTARELLI, Marketing tra sussistenza, cultura, economia, Parma, 2001, 54.(34) Il senso del regolamento si coglie in pieno se si ricordano le considerazioni espresse dalla Corte di giustizia nella sentenza 20 febbra-io 1975, causa 12/74, Sekt, sulla tutela delle indicazioni geografiche in relazione al principio di libera circolazione delle merci sancita dal-l’art. 28 del Trattato. La “regola” affermata dalla Corte ed elevata a cardine del sistema di difesa delle produzioni nazionali è riassumibilenell’asserzione che le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche debbano designare un prodotto le cui caratteristiche corrispon-dano a qualità intimamente connesse alla zona di produzione e da essa determinate in via esclusiva. La Corte precisava che se per casotale collegamento non fosse preteso dalle legislazioni nazionali, esse sarebbero incorse nel divieto di misure equivalenti alle restrizioniquantitative. Ciò ha determinato la Comunità a dettare il regolamento 2081/92 e la Commissione a ritenere, per lungo tempo, inammissi-bili, nello spazio europeo, indicazioni geografiche “fuori” dal regolamento 2081/92.(35) Il regolamento 2081/92 è stato modificato dal regolamento 510/2006 del 20 marzo 2006. Per un commento della normativa comuni-taria sulle dop e igp v. GERMANO’, Manuale di diritto agrario, Torino, 2006, 272.Solo per facilità di consultazione si ricorda al lettore che le dop pretendono che nella zona geografica (a cui siano attribuibili le qualità ole caratteristiche del prodotto) si realizzi l’intero ciclo produttivo, dalla produzione della materia prima fino all’ottenimento del prodotto fini-to; mentre per le igp non è necessario che il processo produttivo si svolga tutto all’interno di una determinata area geografica alla quale,tuttavia, possa farsi risalire la reputazione od una delle qualità o delle caratteristiche del prodotto.Come si è già accennato, il regolamento 2081/92 non riguarda i vini: per essi valeva prima il regolamento 817/70 del 28 aprile 1970, piùvolte modificato ed integrato (regolamenti 822/87 e 823/87), ed ora valgono il regolamento del Consiglio 1493/99 del 17 maggio 1999sull’OCM del vino ed il regolamento della Commissione 1607/2000 del 24 luglio 2000, per i quali è consentita l’utilizzazione delle deno-minazioni nazionali al posto delle denominazioni comunitarie “v.q.p.r.d.” e “i.g.t., cioè di “vini di qualità prodotti in regioni determinate” e di“indicazioni geografiche tipiche”. Sull’OCM del vino v. A. GERMANO’, L’organizzazione comune di mercato del vino (Regolamento 17maggio 1999 n. 1493/1999) dall’angolo visuale di uno dei PECO: la Polonia, in RDA, 2000, I, 570; L. PAOLONI, L’OCM nel settore vitivi-nicolo, in Trattato breve di diritto agrario italiano e comunitario diretto da Costato, Padova, 2003, 914. Sul regolamento 2081/92 v. ancheL. COSTATO, La protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine e le attestazioni di specificità, in RDA, 1995, I,488; M. GOLDONI, Denominazione di origine, in IV-Dig.,civ., vol. V, Torino, 1989; L. PETRELLI, La nuova politica comunitaria di qualitàdei prodotti agricoli e alimentari. Il regime delle attestazioni di specificità, denominazioni di origine, indicazioni geografiche, Camerino,1996; E. ROOK BASILE, I segni distintivi dei prodotti agricoli, in Trattato breve di diritto agrario italiano e comunitario diretto da Costato,cit., 730, spec. p. 735. Il 4 luglio 2007 la Commissione ha presentato una proposta di riforma dell’ OCM del vino, con modifiche relativeai segni geografici: v. supra, nota 22.(36) Sull’Accordo TRIPs v. S. SANDRI, La nuova disciplina della proprietà intellettuale dopo i GATT/TRIPs, Padova, 1999; A. LUPONE, Gliaspetti della proprietà intellettuale attinenti al commercio internazionale, in G. VENTURINI (a cura di), L’Organizzazione mondiale delcommercio, Milano, 2000, 113; A. GERMANO’, Le indicazioni geografiche nell’Accordo TRIPs, in F. LLEDO’ YAGUE e R. HERRERACAMPOS (a cura di), Derecho agrario ante el tercer milenio, Madrid, 2002, 577, e in RDA, 2000, I, 412, nonché, come V capitolo, in A.GERMANO’ e E. ROOK BASILE, La disciplina comunitaria ed internazionale del mercato dei prodotti agricoli, Torino, 2002, 259; S. CAR-MIGNANI, La tutela delle indicazioni geografiche nell’Accordo TRIPs: localizzazione geografica del prodotto e mercato globale, in A. GER-MANO’ e E. ROOK BASILE (a cura di), Agricoltura e alimentazione tra diritto, comunicazione e mercato, Milano, 2003, 149; F. SQUIL-LANTE, L’Accordo concernente gli aspetti del commercio connessi alla proprietà intellettuale (TRIPs), in P. PICONE e A. LIGUSTRO,Diritto dell’Organizzazione mondiale del commercio, Padova, 2002, 427; A. GERMANO’ e E. ROOK BASILE, Diritto agrario, in Trattato didiritto privato europeo diretto da Ajani e Benacchio, Torino, 2006, 308; ROOK BASILE, I segni distintivi dei prodotti agricoli, cit., 736, incui si prospetta il pericolo di una diffusione di denominazioni d’origine in territori diversi da quelli d’appartenenza, qualora l’istituto delleindicazioni geografiche si vada consolidando nell’area della “proprietà industriale”.

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zioni commerciali, la veridicità della relazione tra un pro-dotto e la specifica area geografica di sua produzione, ov-vero per mantenere presso i consumatori il collegamentoche un determinato nome geografico in loro suscita con ri-guardo ad un prodotto di alta reputazione, per i suoi carat-teri organolettici attribuiti al territorio, e di vasta fama, perla bravura della gente che lo produce (37), e presso i pro-duttori l’utilizzazione in via esclusiva del nome del territoriogeografico meglio vocato per la produzione di quel prodot-to che essi hanno, per primi, sfruttato ai fini del commercio(38), ogni Paese e poi la Comunità europea ed infine l’Orga-nizzazione mondiale del commercio hanno dettato le rego-le sulle indicazioni geografiche. Indicazioni geograficheche possono distinguersi – come ha operato la Corte digiustizia nella sentenza 18 novembre 2003, causa C-216/01, Budvar (39) – in indicazioni geografiche semplici,qualificate, dirette, indirette, con tutela assoluta e con tute-la relativa (40). Succede, però, che alcuni Stati vietano l’uso, come mar-chio, dei segni descrittivi, comprendendo in essi anche inomi geografici (41), mentre altri Stati non hanno la stessaprescrizione, per cui nel loro sistema industriale e mercan-tile sono ammessi marchi geografici di prodotti che nonhanno nulla a che vedere con il territorio di cui riportano ilnome, ma che si rifanno ad uno specifico toponimo comese esso fosse un nome di fantasia e, dunque, non descritti-

vo ma distintivo.Particolare rilevanza ha assunto, in questo attuale momen-to, il rapporto tra indicazioni geografiche con cui imprendi-tori comunitari designano alcuni rispettivi prodotti territorial-mente e qualitativamente ben determinati, e marchi geo-grafici con cui imprenditori extracomunitari designano talu-ni propri prodotti che non hanno relazione alcuna con illuogo indicato nel marchio. La rilevanza attuale è collegataal fatto che il 15 marzo 2005 il panel della World Trade Or-ganization ha dato la sua risposta nella disputa tra Austra-lia e Stati Uniti d’America da un lato, e l’Unione europea,dall’altro, sulla compatibilità del regolamento 2081/92 del14 luglio 1992 sulle dop e igp, con le disposizioni discipli-nanti le indicazioni geografiche dell’Accordo TRIPs. Nelconcreto, a vari prodotti alimentari del Nuovo Mondo sonostati attribuiti, come marchi, nomi geografici di prodotti si-milari del Vecchio Mondo (42), sicché è sorto il problemadella “coesistenza” tra marchi e indicazioni geografiche,una volta che il segno geografico sia stato registrato comemarchio negli Stati le cui legislazioni non li vietano qualisegni descrittivi riconoscendo ad essi una legale capacitàdistintiva, mentre ciò è negato dal diritto comunitario chepretende che il segno geografico sia prova del forte nessotra il prodotto ed il territorio (43).

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(37) La considerazione di RAPPOPORT, Come mangiamo, Milano, 2003, 40 (traduzione italiana di How We Eat, Toronto, 2003) – “che nesiamo consapevoli o meno, quando mangiamo stiamo inghiottendo non solo un determinato alimento, ma anche il concetto che gli siaccompagna” – vale soprattutto con riguardo ai prodotti agricoli delle aree geografiche di alta reputazione e di vasta fama.38) Probabilmente la meritevolezza della tutela esclusiva del toponimo a favore di coloro che in quello specifico territorio realizzano laproduzione riposa non tanto nella fantasia creatrice di una gente nel dosare gli elementi e nell’individuare il procedimento per la produ-zione di determinati prodotti di una certa terra, quanto, invece, sull’originalità e sulla novità dell’idea di sfruttare il nome dell’area geogra-fica di produzione per indicare i prodotti in essa ottenuti. Non si dimentichi, invero, che le indicazioni geografiche sono incluse,nell’Accordo TRIPs, nella categoria della proprietà intellettuale, cosicché è il nome geografico, descrittivo di un luogo, che viene “eleva-to” a prodotto dell’ingegno umano, come sono le opere d’arte, quelle letterarie e le invenzioni.39) Cfr. A. GERMANO’, Corso di diritto agroalimentare, Torino, 2007, 168.40) Più precisamente, nel senso che le indicazioni geografiche semplici indicano solo l’origine del prodotto, senza comunicare l’esisten-za di uno specifico nesso tra le sue caratteristiche organolettiche e l’area geografica espressa nel nome; le indicazioni geografiche qua-lificate, invece, comunicano non solo l’origine, ma altresì il legame tra caratteristiche organolettiche e territorio; le indicazioni geografichedirette consistono nel preciso ed esatto nome della località geografica in cui il prodotto è ottenuto; le indicazioni geografiche indirette nonconsistono nel toponimo, ma tuttavia evocano il luogo geografico in cui il prodotto è ottenuto; le indicazioni geografiche con tutela asso-luta ostano all’utilizzo, da parte di produttori in altre aree geografiche, del toponimo anche se usato con l’aggiunta “tipo”, “simile”, “imita-zione” e parole simili; le indicazioni geografiche con tutela relativa richiedono, per ricevere protezione, che venga data la prova che ilnome geografico, apposto al prodotto non ottenuto nell’area del toponimo, sia capace di provocare confusione e di indurre in errore il con-sumatore.(41) Cfr. T. ASCARELLI, Nota ad App. Roma 13 agosto 1924, in Foro it., 1924, I, 1114.(42) Non sempre per “agganciare” i primi ai secondi ai fini della rinomanza di questi ultimi, ma talvolta anche per via che i produttori deiprimi sono oriundi di regioni europee della cui origine hanno voluto conservare il ricordo “nominando” i propri prodotti con i segni geogra-fici delle loro patrie di origine.(43) Il regolamento comunitario disciplina, nel par. 1 dell’art. 14, il rapporto tra una precedente indicazione geografica ed un successivomarchio geografico e stabilisce che la prima prevale sul secondo, mentre al par. 2 disciplina il rapporto tra un precedente marchio geo-grafico ed una successiva indicazione geografica e stabilisce la possibilità della loro coesistenza, precisando, però, al par. 3, che quan-do “la rinomanza del marchio, la sua notorietà e la durata del suo uso” siano tali che la successiva registrazione dell’indicazione geogra-fica “induca il consumatore in errore sulla vera identità del prodotto”, la registrazione dell’indicazione geografica è vietata. Orbene, l’Australia e gli USA contestavano la compatibilità dell’art. 14.2 del regolamento comunitario con l’art. 16.1 dell’Accordo TRIPs,asserendo che il regolamento 2081/92 rifiuterebbe al titolare di un marchio già registrato il diritto esclusivo di impedire l’utilizzazione diuna indicazione geografica nel caso in cui tale utilizzazione desse luogo ad un “rischio di confusione” con il marchio anteriore. La que-stione, quindi, riguardava solo il rapporto tra un marchio anteriore ed una indicazione geografica successiva e si incentrava sulla asseri-ta differenza tra le espressioni “induzione in errore” utilizzate dall’art. 14.3 del regolamento comunitario, e quelle di “rischio di confusione”utilizzate dall’art. 16.1 dell’Accordo TRIPs. In altre parole, se l’esclusione della coesistenza, con “prevalenza” del marchio precedente, si

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6.- Il problema dell’eccedenza dell’offerta del vino rispettoalla domanda.

Il mercato europeo e il mercato internazionale “soffrono” diun eccesso di produzione di vino e, quindi, di offerta.Per trovare una soluzione ogni Stato od ogni gruppo diStati in vario modo coordinati ha introdotto misure onderiequilibrare il mercato (44). Il problema è che tali interventisono capaci di produrre distorsioni nella concorrenza e,quindi, di presentarsi in contrasto con le regole di liberaliz-zazione che reggono i rapporti commerciali tra gli Stati.In particolare, nel sistema della WTO sono vietate le misu-re finanziarie che costituiscono la c.d. scatola gialla o am-

ber box, sicché s’impone la necessità di valutare se il so-stegno che, ad esempio, l’Unione europea intende offrirealle sue produzioni di vini di qualità con l’obiettivo di con-quistare il mercato mondiale rappresenti una forma di aiutovietato.La risposta non è così facile come può sembrare, dato chel’Europa si caratterizza per un numero notevole di vini diqualità, i quali rappresentano una sua ricchezza anche sot-to il profilo ambientale e culturale. Omologare la viticolturaeuropea a quella extraeuropea potrebbe, infatti, implicareuna limitazione della produzione delle regioni vinicole euro-pee ad una corta gamma di vini industrializzati ed ottenutiattraverso miscele di mosti, con il rischio di cancellare il va-

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avesse soltanto quando la successiva indicazione geografica fosse di tale natura da “indurre in errore” e non semplicemente tale da pro-vocare un “rischio di confusione”, gli spazi per la coesistenza sarebbero di maggiore ampiezza. Il Panel riconosce che l’espressione “indu-zione in errore” del diritto comunitario è diversa da quella “rischio di confusione” dell’Accordo TRIPs, rilevando che il rischio di confusio-ne non necessariamente induce in errore, sicché conclude che la regola enunciata dall’art. 14.3 del regolamento 2081/92 è diretta adapplicarsi ad una serie di circostanze capaci di limitare il diritto del titolare del marchio anteriore di impedire l’uso di un nome che dia luogoa “rischio di confusione”, dato che la disposizione comunitaria impedisce, invece, la successiva registrazione di una indicazione geogra-fica solo se essa “è di natura tale da indurre il consumatore in errore quanto alla vera identità del prodotto”. In conseguenza e posto chel’art. 24.5 dell’Accordo TRIPs non conferisce agli Stati WTO il potere di limitare il diritto del titolare di un marchio anteriore, conclude perl’astratta incompatibilità del regolamento comunitario con l’Accordo TRIPs. Sennonché l’art. 17 dell’Accordo TRIPs prevede eccezioni allaregola dell’art. 16.1, in quanto impone, garantendo la coesistenza, che i differenti “legittimi interessi” del titolare del marchio e dei terzisiano equilibrati “in ciò che concerne l’uso leale dei termini descrittivi”. Prendendo atto, allora, che le indicazioni geografiche sono dirittiche “servono” l’interesse pubblico nell’informazione dei consumatori, il Panel riconosce che è legittima la norma comunitaria che impedi-sce al titolare del marchio precedentemente registrato di esercitare il diritto di impedire gli usi – capaci di portare “confusione” nel consu-matore – a coloro che utilizzano un segno distintivo di un prodotto agricolo ottenuto conformemente al disciplinare richiesto per la regi-strazione dell’indicazione geografica. In sostanza, il Panel afferma che la normativa comunitaria relativa al rapporto tra marchio anterio-re e successiva indicazione geografica è equilibrata nella valutazione: a) dell’interesse legittimo del titolare del marchio di preservare ilcarattere distintivo del suo marchio; b) dell’interesse legittimo dei consumatori di potere distinguere i prodotti e di non farne confusionenella convinzione che l’indicazione geografica si riferisce a prodotti provenienti da un certo territorio che possiede qualità o caratteristi-che particolari senza che abbia rilievo colui che li produce; e c) dell’interesse legittimo del titolare della indicazione geografica cui è accor-data protezione dallo stesso Accordo TRIPs in quanto termini descrittivi che designano prodotti di una certa area geografica il cui toponi-mo serve a identificarli. Nella sostanza il Panel ha dato ragione all’Unione europea.Sul punto della relazione tra denominazione di origine o indicazione geografica, da un lato, e marchio geografico, dall’altro, ritorna anchela proposta di Regolamento del Consiglio sull’OCM del vino (luglio 2007). Si conferma, all’art. 37.1) che è respinta la domanda di mar-chio presentata posteriormente alla data di presentazione della domanda di protezione della denominazione di origine o della indicazio-ne geografica (ovviamente, se questa abbia ottenuto od ottenga la protezione richiesta). Nell’ipotesi in cui l’uso del marchio sia statoacquisito anteriormente alla data di presentazione della denominazione di origine o della indicazione geografica, il marchio può continua-re ad essere utilizzato nonostante la successiva protezione di queste ultime: in tal caso, si ha coesistenza fra i due segni (art. 37.2).Tuttavia, la coesistenza non è possibile allorché il precedente marchio commerciale abbia tale notorietà e reputazione che la protezionedi una denominazione di origine o di indicazione geografica “potrebbe indurre in errore il consumatore quanto alla vera identità del vino”(art. 36.2).(44) La vigente OCM del vino si basa: a) su misure di mercato vere e proprie (distillazione obbligatoria dei sottoprodotti del vino; distilla-zione alcolica volontaria ordinaria; distillazione di crisi); b) sulla classificazione dei vini nelle due categorie dei v.q.p.r.d. e dei vini da tavo-la, con particolare attenzione verso i primi e con una politica di estirpazione delle vigne relative ai secondi; c) sulla regolazione delle pra-tiche enologiche, con limitazione dello zuccheraggio e dell’aggiunta di mosto concentrato e con il divieto di utilizzare mosti di paesi terzio di procedere al “taglio” dei vini europei con vini di paesi terzi; d) sulla regolazione del potenziale produttivo, attraverso il divieto di nuoviimpianti e programmi di ristrutturazione e di conversione dei vigneti per migliorarne la qualità.La ristrutturazione dei vigneti, peraltro, può portare ad un aumento delle rese, così come tale effetto può conseguire dall’autorizzazionedello zuccheraggio. La netta distinzione tra v.q.p.r.d e vini da tavola, con la conseguente differente etichettatura, potrebbe essere causadi confusione nel consumatore, incapace di trarre adeguata informazione dalle indicazioni obbligatorie e volontarie.Alcune proposte di “modifica radicale” dell’OCM del vino esposte dalla Commissione nel giugno 2006 sono presenti nella proposta diRegolamento del Consiglio del 4 luglio 2007). Si suggerisce l’abolizione di tutte le misure di mercato e in particolare la distillazione di alco-le per usi commestibili e il sussidio per il mosto concentrato, con il contemporaneo divieto dello zuccheraggio, nonché l’abolizione dellerestituzioni alle esportazioni. All’art. 17 prevede, inoltre, il trasferimento dell’attuale budget (con eccezione delle misure per l’abbandonopermanente della viticoltura) o ad una dotazione nazionale oppure il suo passaggio dal primo pilastro (aiuti diretti di mercato) al secondopilastro (sviluppo rurale). Immagina, ancora, la revisione della normativa sulla qualità, con l’istituzione di due sole categorie di vini, unaad indicazione geografica e l’altra senza indicazione geografica, e con l’accostamento della disciplina dei vini con indicazione geograficaal sistema delle dop e delle igp, per cui vi sarebbero vini a dop e vini a igp (art. 27). Prevede, inoltre, la regolazione del potenziale pro-duttivo attraverso la conservazione, fino al 2013, del sistema del regime di estirpazione dei vigneti e dei diritti di impianto (art. 80) e l’am-missione al regime di pagamento unico dei viticoltori aderenti a programmi volontari di abbandono permanente della viticoltura (art. 95).

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lore del vino in termini di alimentazione, di sviluppo rurale,di conservazione del paesaggio, di tutela della diversità deisuoli, che sono, invece, propri della cultura dell’Europa edella sua stessa identità “fisica” dato che le regioni vitivini-cole europee sono, di norma, paesaggi straordinari.Spostato, così, l’angolo visuale, e partendo dal presuppo-sto vero che la viticoltura è parte integrante della cultura diintere regioni dell’Europa e che da tale attività dipende an-che la vitalità economica e sociale di tali aree geografiche,si rileva che le misure agroambientali fanno parte dellascatola verde o green box dell’Accordo sull’agricoltura an-nesso al Trattato di Marrakech del 1994, per cui se la politi-ca viticola europea fosse fondata sull’obiettivo ambientaleperseguito dal sostegno dei vini di qualità, essa potrebbe“salvare” gli interventi comunitari sul mercato del settore vi-tivinicolo. In altre parole, la tutela dell’indicazione geografi-ca dei vini di qualità, che esprime un forte nesso tra pro-dotto e territorio come immagine di una terra e della suagente e che non trasforma il nome geografico in un sempli-ce trade mark, potrebbe bene giustificare i vari interventi dimercato diretti a ridurre le eccedenze dell’altro settore,

quello dei vini da tavola, anche attraverso gli aiuti alla di-stillazione e all’estirpazione di vigneti, ovvero attraverso in-terventi che, pur avendo a destinatari i viticoltori di vini datavola e come oggetto la riduzione del potenziale produtti-vo di tali vini, possono avere una ricaduta notevole sullaproduzione dei vini di qualità onde questo settore acquistila capacità di reggere le sfide del mercato internazionale,consentendogli di diventare stabilmente competitivo e,contestualmente, quella di conservare, mantenendolo vivo,il paesaggio dell’Europa (45).

6.- L’etichettatura come barriera tecnica al commercio.

Come più volte accennato, il problema fondamentale dellacommercializzazione dei prodotti e, in particolare, dei pro-dotti alimentari come è il vino, deriva dal fatto che le dispo-sizioni che prescrivono il contenuto delle informazioni ob-bligatorie riportate in etichetta costituiscono regole tecni-che (46) capaci di rappresentare vere e proprie barriere al-l’importazione (47). Peraltro, nella realtà attuale dominata

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Progetta, infine, il trasferimento dal Consiglio alla Commissione della competenza ad approvare le nuove pratiche enologiche che sonostate ammesse dall’OIV (art. 23), nonché il trasferimento alla Commissione della materia delle regole di etichettatura dei vini (art. 53).La critica maggiore rivolta alle originarie proposte della Commissione era quella di adottare una disciplina che avrebbe portato a tutelaregli interessi dei grandi produttori di vino di largo consumo piuttosto che quelli dei piccoli produttori di vini di qualità che, invece, rappre-sentano una parte importante dei produttori dei vini attualmente esportati. La XIII Commissione (Agricoltura) della nostra Camera deiDeputati, con il documento finale del 21 febbraio 2007, dopo avere messo in evidenza che l’ampio programma di estirpazione (circa400.000 ettari di superficie vitata nell’Unione europea, da realizzare in cinque anni e con aiuti per 2,4 miliardi di euro), oltre a dimostrar-si inefficace rispetto all’obiettivo del contenimento della produzione di vino, coinvolge in primo luogo le produzioni in aree difficili, che sonoscarsamente rilevanti sotto il profilo quantitativo, mentre hanno notevole importanza in relazione alla situazione economica e sociale delterritorio in cui vengono praticate – i circa 150.000 ettari di estirpazione previsti per l’Italia potrebbero “cadere” soprattutto su produzionidi collina, di montagna ed insulari, ovvero in aree in cui la vite rappresenta la principale attività agricola e un’importante fonte di redditoe di occupazione, un presidio indispensabile per il mantenimento della popolazione e per la tutela del territorio, nonché un elemento fon-damentale del paesaggio – ha impegnato il Governo, tra l’altro, a far introdurre criteri ben definiti per l’applicazione del programma di estir-pazioni; a far mantenere, a livello comunitario, l’aiuto alla distillazione; a sostenere la proposta di divieto dell’utilizzo del saccarosio peraumentare il grado alcolico del vino; a mantenere il divieto di vinificare mosti di importazione e di tagliare vini provenienti da paesi terzicon vini comunitari; a rifiutare l’omologazione della classificazione dei vini a quella degli altri prodotti, conservando un sistema di regoleche mantenga riconoscibili i v.q.p.r.d.; ad evitare l’inserimento in etichetta dell’indicazione del vitigno e dell’annata per i vini da tavola; atutelare le pratiche enologiche tradizionali, stabilendo che in etichetta venga comunque chiaramente indicato il ricorso a metodi di produ-zione non tradizionali.Alcune delle osservazioni sembra che siano state prese in considerazione dalla Commissione nella stesura della proposta diRegolamento del Consiglio sulla nuova OCM vini (4 luglio 2007). In particolare, verrebbe data facoltà agli Stati di escludere l’estirpazio-ne dei vigneti nelle zone di montagna (art. 94.2); di ammettere al regime di pagamento unico le superfici agricole precedentemente vita-te e successivamente oggetto di estirpazione (art. 95). Si noti altresì che nella proposta di Regolamento del Consiglio (luglio 2007) è pre-vista la possibilità che gli Stati membri produttori di vino stabiliscano regole di commercializzazione intese a regolare l’offerta (a condizio-ne che si tratti di regole relative alla messa in riserva dei prodotti o alla loro immissione graduale sul mercato) “in attuazione di decisioniadottate dalle organizzazioni interprofessionali” (art. 57): in sostanza, alcune decisioni di siffatti organismi possono, a seguito di uno spe-cifico procedimento determinato dallo Stato, acquisire validità erga omnes.(45) Nella sua Risoluzione del 15 febbraio 2007 il Parlamento europeo ritiene indispensabile promuovere una riforma dell’OCM del vinoche si basi anche su “l’approccio territoriale e la considerazione per tutte le risorse naturali tramite l’assoggettamento dei viticoltori allenorme di condizionalità e a corrette pratiche di coltura che permettano di introdurre incentivi per aiutarli a orientarsi verso metodi produt-tivi che contribuiscono al controllo quali-quantitativo della produzione e alla tutela dell’ambiente, al fine ultimo di mantenere un redditodignitoso per i viticoltori e migliorare la qualità del prodotto” (punto 1, lett. e). Si consideri che il Parlamento europeo segnala anche diritenere “opportuno mantenere gli aiuti alle prestazioni viniche per continuare a garantire la qualità dei vini europei, evitando danniambientali a causa dell’abbandono di tali prodotti” (punto 15).(46) Cfr. F. SALMONI, Le norme tecniche, Milano, 2001.(47) A tal riguardo assume rilievo l’Accordo sugli ostacoli tecnici agli scambi (o TBT secondo l’acronimo delle parole inglesi TechnicalBarrier to Trade Agreement), che è annesso al Trattato di Marrakech del 1994 e che tende alla formalizzazione di regole armonizzate o,quanto meno, all’accoglimento del principio del mutuo riconoscimento delle varie regole nazionali. Sull’Accordo TBT v. A. GERMANO’ eE. ROOK BASILE, Diritto agrario, vol. XI del Trattato di diritto privato europeo diretto da Ajani e Benacchio, Torino, 2007, 452. Cfr. ancheE. ROOK BASILE, La sicurezza alimentare ed il principio di libera concorrenza, in RDA, 2003, I, 318, in cui si fa presente che, con riguar-

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da una forte economia di scambio (48), si avverte il bisognodi norme atte a tutelare il consumatore e i suoi interessi, enon solo l’imprenditore e le sue necessità. Invero, gli ali-menti costituiscono il cibo e le bevande degli uomini, cioèvengono a far parte del suo stesso essere, sicché non sipuò lasciare il consumatore “senza” le informazioni di cosasta mangiando e di cosa sta bevendo (49).Perciò e anche per contrastare la c.d. asimmetria informa-tiva in cui si dibatte il consumatore (50), il legislatore prescri-ve che tutta una serie di notizie debba essergli data. Non sitratta solo della denominazione della merce, senza la qua-le quasi sempre è impossibile sapere quale sia il prodottoagricolo trasformato che si sta scegliendo (51). Di regola (52)si tratta anche di indicare in etichetta gli ingredienti (53), gliadditivi, i coloranti, gli edulcoranti, gli aromi, ecc., nonché ilquantitativo netto, il titolo alcolometrico volumico delle be-vande alcoliche, la data di vendemmia e di imbottigliamen-

to dei vini (54), le istruzioni per l’uso del prodotto, le condi-zioni particolari di conservazione e di utilizzazione, il nomedel produttore, il luogo di provenienza se la sua omissioneè causa di possibile errore del consumatore, la data di sca-denza entro cui il prodotto alimentare va consumato o èpreferibile che sia consumato. E’ imposta anche l’informa-zione dell’eventuale presenza di integratori alimentari (55) odi possibili allergeni (56); nonché è richiesta la presenzadelle c.d. indicazioni nutrizionali (57).Fino a quando il legislatore si limita a prescrivere questidati, il problema non dà luogo a particolari conflitti commer-ciali (58). Le cose cambiano quando si prescrive che nell’eti-chetta occorra riportare l’indicazione del “procedimento”con cui si è ottenuto il prodotto: è il caso dell’obbligo di in-dicare se l’alimento sia stato geneticamente modificato (59),sia stato irradiato (60), sia stato ottenuto con particolari tec-niche (61). E’ vero che, per l’argomento che qui interessa,

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do alla funzione che possono espletare sotto il profilo della barriera alle importazioni da parte dei Paesi extracomunitari, occorre teneredistinte le regole finalizzate alla tutela della salute, rispetto alle regole orientate alla tutela del consumatore come quelle contro le prati-che commerciali ingannevoli o quelle che si concretizzano nell’imposizione di requisiti per l’etichettatura o la certificazione. Solo le primepotrebbero trovare giustificazione ex art. XX del GATT.La traduzione italiana dell’Accordo TBT può essere letta in E. ROOK BASILE e A. GERMANO’ (a cura di), Misure incentivanti e disincen-tivanti della produzione agricola. Limiti internazionali e comunitari, Milano, 1998, 247-265.(48) Interessanti considerazioni possono essere tratte da N. IRTI, Norme e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari, 2001.(49) Cfr. C. LOSAVIO, Il consumatore di alimenti nell’Unione Europea e il suo diritto ad essere informato, Milano, 2007.(50) Cfr. A. JANNARELLI, La disciplina dell’atto e dell’attività, in N. LIPARI (a cura di), Diritto privato europeo, 1997, vol. II, 499.(51) Come già si è accennato supra, nota 29, è sufficiente pensare alla impossibilità di comprendere, se non fosse riportato il nome delprodotto, se la bottiglia contenga olio di oliva o olio di semi, e se il “panetto” sia burro o margarina. (52) V., in tal senso, la direttiva 2000/13 del 20 marzo 2000 sull’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari. In argo-mento v. L. COSTATO, Compendio di diritto alimentare, Padova, 2006; A. GERMANO’, Corso di diritto agroalimentare, Torino, 2007, 127e 145; S. VENTURA, Principi di diritto dell’alimentazione, Milano, 2001; R. VITOLO, Il diritto alimentare nell’ordinamento interno e comu-nitario, Napoli, 2003.(53) L’indicazione degli ingredienti assume particolare importanza se si prendono in considerazione le pratiche religiosi o salutistiche deiconsumatori.(54) Nella Comunicazione del 22 giugno 2006 sulla proposta di regolamento di modifica dell’OCM del vino, la Commissione ha previstoche anche l’etichetta dei vini da tavola riporti l’annata e il vitigno. Sul punto il Comitato economico e sociale europeo non si era dichiara-to d’accordo (punto 3.11.2 del suo Parere), ma nella proposta del Regolamento del Consiglio del luglio 2007 le indicazioni dell’annata edel vitigno vengono inserite tra le indicazioni facoltative (art. 50).(55) Sulle aggiunte di vitamine e di minerali agli alimenti v. il regolamento 1925/2006 del 20 dicembre 2006. (56) Sugli allergeni v. direttiva 2003/89 del 10 novembre 2003, su cui cfr. M. BENOZZO, Etichettatura degli allergeni, sicurezza alimenta-re e responsabilità civile, in E. CASADEI e G. SGARBANTI (a cura di), Il nuovo diritto agrario comunitario, Milano, 2005, 413.(57) In argomento v. il recente regolamento 1924/2006 del 20 dicembre 2006 sulle indicazioni nutrizionali e sulla salute che devono esse-re fornite dalle etichette dei prodotti alimentari.(58) Le questioni che possono sorgere riguardano, caso mai, la complessità delle indicazioni richieste e da riportare sull’etichetta: eccoperché tanto la Commissione nella sua proposta, che il Parlamento europeo nella sua Risoluzione e il Comitato economico e sociale euro-peo nel suo Parere, manifestano l’opportunità che l’etichetta dei vini sia semplificata. In particolare il Comitato (punto 3.11.3) suggerisceche per gli ingredienti sia prevista la possibilità di usare simboli comprensibili a tutti.(59) La letteratura giuridica sugli ogm è imponente. Mi permetto, perciò, a rinviare a A. GERMANO’, Gli aspetti giuridici dell’agricoltura bio-tecnologica, in A. GERMANO’ (a cura di), La disciplina giuridica dell’agricoltura biotecnologica. Studi di diritto italiano e straniero, Milano,2002, 323, dove ho particolarmente trattato il problema (pratico, legale e ideologico) del contrasto tra la posizione dell’Unione europea equella degli Stati Uniti d’America. Cfr. anche M. VALLETTA, La disciplina delle biotecnologie agroalimentari. Il modello europeo nel con-testo globale, Milano, 2005.(60) Cfr. T. BABUSCIO e C. LOSAVIO, La normativa per il trattamento degli alimenti con radiazioni ionizzanti: Unione europea e Stati Unitid’America, in Economia e diritto agroalimentare, 2005, fasc. 2, 51.(61) Già si è accennato supra, nota 16, all’opinione espressa dal Parlamento europeo nella sua Risoluzione del 15 febbraio 2007 sullanecessità che nell’etichetta dei vini non-europei sia inserita l’indicazione delle pratiche enologiche utilizzate e non consentite dall’UE, tantoda escludere la loro commercializzazione come vino.

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sono da prendersi in considerazione le possibili diversepratiche enologiche (62); ma si tenga presente che le tec-niche di ottenimento del prodotto possono essere le più va-rie, come quelle che tutelano la fauna ittica o l’ambiente(63), e quelle che corrispondono a particolari regole religio-se (64). Si comprende, allora, come l’obbligo di siffatte ulte-riori indicazioni possa dare luogo a contrasti fra lo Statoimportatore e lo Stato esportatore, allorché le regole sianodiverse o, del tutto, opposte.Al “contenuto” obbligatorio delle etichette potrebbe essere,in qualche modo, assimilata la “forma” della bottiglia in cuiil vino è contenuto, perché essa, così come l’etichetta, ècapace di dare al consumatore l’immediata percezione diquale prodotto si tratti. Ovviamente, quando l’utilizzazionedi una certa forma della bottiglia è di esclusivo diritto di unimprenditore, la relativa disciplina rientra nel diritto di pro-prietà industriale dei c.d. marchi di forma (65): sicché l’argo-mento merita qui essere soltanto accennato, soprattutto ri-cordando che nella sua Comunicazione del 22 giugno2006 la Commissione rileva come i Paesi non membri del-l’Unione europea tendano a criticare la protezione giuridicadelle forme delle bottiglie.In un mercato comunitario la cui crescita per numero di

Stati membri comporta l’aumento della varietà linguisticaed in un mercato internazionale in cui siffatta varietà è con-naturata, sorge la necessità che le indicazioni obbligatoriesiano redatte, nell’etichetta, in modo comprensibile a tutti iconsumatori. Si apre, così, un’altra possibile questione, intema di barriera tecnica all’importazione, che conseguireb-be se si dovesse prescrivere che le informazioni fosseroespresse nella lingua del Paese produttore o in quella delPaese importatore. La Comunità europea ha cercato di ri-solvere il problema stabilendo che occorre usare la linguadella regione in cui i prodotti vengono immessi sul merca-to, benché sia consentito l’uso di almeno un’altra linguache sia facilmente comprensibile dai consumatori di quellaregione (66).Resta un’ultima considerazione da fare. Si tratta delle indi-cazioni facoltative che, seppure inserite nell’etichetta, nonfanno parte delle regole nazionali della comunicazionesimbolica sul mercato – quelle rilevanti sotto il profilo dellebarriere tecniche all’importazione – ma delle relazioni con-trattuali tra produttore ed acquirente?. Ma anche ad essevengono rivolte critiche da parte dei Paesi non-membri del-l’Unione europea, così come riferisce la Commissione nelpunto 3.4 della sua Comunicazione del 22 giugno 2006.

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(62) Si fa riferimento a quelle indicate supra, nella nota 15. Restano certamente fuori il metodo diretto ad ottenere il c.d. Eiswein tedesco,ovverosia il “vino di ghiaccio”, per produrre il quale occorre raccogliere le uve a dicembre inoltrato quando la temperatura in Germaniascende a diversi gradi sotto zero. L’uva così viene raccolta ghiacciata e pigiata in questo stato, grazie al quale il contenuto in acqua nonsi trasmette al mosto e rimane sulla pressa sotto forma di cristalli di ghiaccio. Si ottiene un succo molto dolce e concentrato, che dà unvino molto particolare. Molto particolare è anche la visione, a fine dicembre, dei vigneti privi di foglie, con i grappoli che pendono dallenude viti, che il freddo intenso impedisce che perdano gli acini e non cadano in terra dove ammuffirebbero.Egualmente resta fuori il metodo della c.d. vendemmia anticipata che il Comitato economico e sociale europeo, nel punto 3.6.7.2 del suoParere, vorrebbe disciplinare come un intervento comunitario nel settore vitivinicolo, onde ridurre, con la raccolta dei grappoli ancoraverdi, la resa dei vigneti. Nella proposta di Regolamento del Consiglio (luglio 2007), il sistema della “vendemmia verde”, cioè della distru-zione totale o della eliminazione dei grappoli non ancora giunti a maturazione, così riducendo a zero la resa della relativa parcella vitata,è previsto come una delle ipotesi delle specifiche misure di sostegno (art. 11).(63) Basti ricordare i casi dei delfini intrappolati nelle reti usate dai messicani per la pesca del tonno (sicché gli Stati Unite, con riferimen-to al loro Marine Mammal Protection Act, avevano vietato l’importazione di tonno messicano che era stato pescato con reti a strascicod’alto mare che catturavano, con i tonni, anche delfini) o alle tartarughe “pescate” assieme ai gamberetti (sicché gli Stati Uniti avevanovietato l’importazione di gamberetti da India, Malesia, Pakistan e Tailandia, pescati con reti sfornite dei c.d. turtle excluder devices): inargomento, anche per la bibliografia, v. A. GERMANO’ e E. ROOK BASILE, Diritto agrario, vol. XI del Trattato di diritto privato europeodiretto da Ajani e Benacchio, Torino, 2007, 453. Per i rapporti tra libertà di commercio e tutela dell’ambiente sotto il profilo dell’art. XX delGatt che consente ad uno Stato di vietare le importazioni di prodotti il cui ottenimento abbia effetti negativi sull’ambiente, v. P. MANZINI,Environmental Exceptions of Art. XX GATT 1994 Revisited in the Light of the Rules of Interpretation of General International Law, in P.MENGOZZI (a cura di), International Trade Law on the 50th Anniversary of the Multilateral Trade System, Milano, 1999, 811.(64) Cfr. in argomento T. BABUSCIO, Alimenti sicuri e diritto. Analisi di problemi giuridici nei sistemi amministrativi delle Autorità per la sicu-rezza alimentare europee e statunitense, Milano, 2005.(65) Sulla disciplina dei marchi di forma (che fa parte anche dell’Accordo TRIPs) v. G. SENA, Il nuovo diritto dei marchi. Marchio naziona-le e marchio comunitario, Milano, 2001, 30; P. FRASSI, Forma del prodotto, secondary meaning e standardizzazione, in Riv. dir. ind.,1999, I, 142, nonché D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in A. VANZETTI e G.SENA, Segni e forme distintive. La nuova disciplina, Milano, 2001, 249.(66) Cfr. art. 16 della direttiva 2000/13. In argomento v. anche M. VALLETTA, La lingua sull’etichetta dei prodotti alimentari, tra tutela delconsumatore e rispetto della libera circolazione delle merci, in RDA, 2001, II, 68, a commento della Corte di giustizia 14 luglio 1998, C-385/96, Goerres, e 3 giugno 1999, C-33/97, Colim Nv. Cfr. anche A. VEDASCHI, L’uso della lingua nelle etichette dei prodotti alimentarie la giurisprudenza della Corte di giustizia, in Dir. pubbl. comp. ed europeo, 1999, 1633.(67) In argomento v. E. ROOK BASILE, L’informazione dei prodotti alimentari, il consumatore e il contrattoIl diritto alimentare tra comuni-cazione e sicurezza dei prodotti

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Establishing a wine law regime: anew world experience - Australia

Stephen Stern

1.- Background to the Australian wine sector.

Before 1980, Australia had no legislation that dealt specifi-cally with the wine sector. Whilst that might seem somewhatsurprising from a European perspective, it should be bornein mind that Australia is still a relatively young country. Thefirst white settlers arrived in Australia at the end of the 18thcentury, at a time when the wines of areas such as Bordeauxhad already achieved a reputation.The first fleet of white settlers to Australia in 1788 broughtnot only convicts who had been transported from the over-crowded English prisons, but also a wide range of agricultur-al products for the new colony, including vine cuttings. Overthe next century, vines flourished in the new colony,although it must be stressed that as a new and largely unex-plored country, the settlers had many more pressing issuesbefore them than to develop a thriving wine sector.Nevertheless, by the end of the 19th century, there werevines planted in numerous regions of the country.Unfortunately phylloxera struck Australia at the end of the19th and in the early 20th centuries, shortly after it waswreaking havoc in the European vineyards.The results in Australia were just the same – our vineyardswere devastated.Over the next few decades, until about the 1970s, vineyardswere replanted but their principal focus was on making forti-fied wines. It was in the 1970s that the wine sector saw asignificant increase in interest and planting started toincrease. Table wines, whilst still unfashionable in a countrywhere beer drinking was a national sport, started to increasein popularity. By the end of the 1970s, the FederalGovernment saw a need to enact legislation to assist thisnew “industry”. Thus the Australian Wine & BrandyCorporation Act 1980 (AWBC Act) was enacted, the firstAustralian wine-specific legislation.

2.- Australian Wine & Brandy Corporation Act 1980 and itsamendments.

ObjectsThe AWBC legislation was enacted in 1980 for the principalpurpose of establishing a government-funded organisationcalled the Australian Wine & Brandy Corporation in order to,amongst other things:(i) promote and control the export of grape products fromAustralia;(ii) promote and control the sale and distribution, afterexport, of Australian grape products; and

(iii) promote trade and commerce in grape products amongthe Australian States and Territories.Through the 1980s the popularity of table wines showed avery significant increase in Australia, as Australians wereendeavouring to throw off the image of tough (beer-drinking)men from “Down Under”. The country became far more cos-mopolitan and with that came a shift in drinking habits.

Label Integrity ProgramAlthough there are no statistics to suggest that there wereany let alone wide-spread consumer frauds perpetrated byunscrupulous winemakers on unsuspecting consumers, in1989 the AWBC Act was amended to incorporate provisionsimplementing a wine Label Integrity Program. This programrequires wine producers to keep records relating to the vin-tage, grape variety/ies used and source of origin of theirwine and to make those records available for audit. The pur-pose of auditing is to ensure truth in labelling, therebyincreasing consumer confidence in the reliability of labelclaims. The Australian Wine & Brandy Corporation has thepower to carry out audits of wine producers’ records andstocks.However, this legislation stopped short of making it anoffence to make false statements on wine labels. Rather,information obtained by the Australian Wine & BrandyCorporation which show that false label claims have beenmade can be used to monitor compliance with other Stateand Territory food laws and Commonwealth and State andTerritory consumer protection laws (such as the TradePractices Act 1974 - TPA) which prohibits the making offalse or misleading statements).

The Trade Practices Act 1974The TPA is Australia’s competition statute, and also containsconsumer protection provisions of general application. Keyamongst these are sections which prohibit the making offalse, misleading or deceptive statements concerning,amongst other things, the characteristics and origin ofgoods. Whilst not aimed at any particular industry, they obvi-ously apply to the wine sector.Specifically, the TPA states in section 52 (1):“A corporation shall not, in trade or commerce, engage inconduct that is misleading or deceptive, or that is likely tomislead or deceive.”Further, section 53(a) states that:“A corporation shall not, in trade or commerce, in connexionwith the supply or possible supply of goods or services or inconnexion with the promotion by any means of the supply oruse of goods or services falsely represent that goods are ofa particular standard, quality, value, grade, composition,style or model or have had a particular history or particularprevious use.”The TPA also states in section 53(eb) that:“A corporation shall not, in trade or commerce, in connexionwith the supply or possible supply of goods or services or inconnexion with the promotion by any means of the supply or

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use of goods or services make a false or misleading repre-sentation concerning the place of origin of goods.” The most obvious application of this latter provision is to pre-vent the use of a false indication of origin. Thus to callimported wine “Australian Wine” would be in breach of bothsections 52, 53(a) and 53(eb) of the TPA.In addition, it may be argued that if, for instance, anAustralian corporation is producing a wine in Australia andlabelling it as “Australian Beaujolais style wine”, the state-ment is misleading because it makes a false assertion thatthe wine produced in Australia is of the same standard, qual-ity, grade or composition of genuine Beaujolais from France. The above provisions of the TPA are quite broad and canapply to a number of situations relating to Australian food-stuffs (naturally including wines), such as the making of falseclaims as to:• the source of the food or its ingredients;• the nature or level of ingredients in a food;• the nutritional value of a food;• the health benefits provided by a food; or• a connection with another manufacturer.The provisions of the TPA are not regulatory or prescriptive.Rather they set out conduct that is prohibited.Finally, as a result of serious misuses of the name“Australia” to describe imported products, a number ofextensive amendments were made in 1998 (in sections65AA to 65AN) to the TPA in order to supplement the effectof Section 53(eb) described above and so as to regulatespecifically use of the terms “Produce of Australia” or “Madein Australia”.It must be stressed that these provisions do no more thanprevent the misuse of terms describing products as“Australian Made” or “Product or Australia”. These provi-sions do not address any level of quality denomination orspecification certification for foodstuffs or any other productswhatsoever. On this issue it is important to note that (other than asdescribed below for the wine sector) Australia does not haveany system whatsoever for the recognition let alone for theprotection of geographical indications. Rather, the sole lawthat may be used to stop the making of false claims aboutthe origin or source of goods is the TPA.Thus in Australia, the use of a geographical indication (otherthan for wines) is basically subject only to the legal require-ment that the usage not be false or misleading or deceptiveand, to the extent relevant, comply with the provisions ofsection 65AA to 65AN of the TPA. Foodstuffs (and thuswines) do not need to comply with particular production orcommercialisation laws or policies concerning their place oforigin. There are no laws regulating production or commer-cialisation means that are linked or tied in any way to the useof a geographical indication.

The Australia New Zealand Food Standards CodeIn addition to the general provisions of the TPA, manyaspects of the production and sale of foodstuffs in Australia

are regulated by the Food Standards Code. The AustraliaNew Zealand Food Authority (ANZFA) administers thisCode. The last couple of years have been significant for thefood industry in Australia as the regulations dealing with thisindustry have been significantly revised. The joint AustraliaNew Zealand Food Standards Code has received legal sta-tus and has now become the sole food standard for Australiaand New Zealand after a transition period. The original FoodStandards Code applied only to Australia.

(a) References to the origin of productsThe provisions of the Food Standards Code require thatfoodstuffs be sold together with an indication of their countryof origin. The Code specifies that foodstuffs’ labels or pack-aging must include a statement identifying the country inwhich the food was made or produced. This will allow a con-sumer to determine by inspection of the label the countrywhere a food is made. Any country of origin claims must, inaddition, not be in breach of the various prohibitions meetthe specific requirements set out in the TPA describedabove.

(b) References to the composition of productsA second requirement is to list on the packaging or labels ofcertain foodstuffs, their composition. The Code requires thatsuch a statement must accompany specified foodstuffs, list-ing every ingredient. A generic name for an ingredient maybe used if the actual ingredient in the food corresponds tothe generic name. For example, generic names may usedfor ingredients such as cereals, cheese, fruit and so forth. Ifan ingredient is not a generic product, the common name ofthe ingredient or a name that describes the true nature of theingredient must be specified.

(c) Specific product characteristicsFinally, the Code specifies in relation to a number of food-stuffs, that in order to be able to describe a particular prod-uct as being of a particular type, the product must meet cer-tain specification requirements. By way of example, in orderto be able to call a product a “brandy”, Standard P3 of theCode provides amongst other things, that the product mustbe matured in wooden containers for not less than 2 yearsand contain not less than 250 mL/L of the spirit distilled at astrength of not more than 830 mL/L at 20°C of ethanol. Again it must be stressed that these provisions do not con-stitute any certification or quality assurance whatsoever.Rather, consumers are effectively given assurances that forfoodstuffs complying with the Code, if they are described bya particular name, then they will have a certain minimumspecification.

3.- Definition of “geographical indications”.

Until late 1993, Australia had no laws designed specificallyto protect wine (or indeed any other) geographical indica-tions. As a result of Australia signing a Treaty with the

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European Community in January 1994 relating to wines (‘theTreaty”), Australia put in place a statutory scheme to protectboth Australian and European Community wine geographi-cal indications. This was a very significant step for Australiaand I describe in some detail the manner in which the sys-tem has been implemented in Australia. In doing so, I usethe very highly developed French system of AOCs for winesas a reference and comparison point.It is important to put in context and to define our terminolo-gy, as there is much misuse or misapplication of terms suchas “geographical indications”. The first or most basic level of geographical designation isan “indication of provenance” or an “indication of source”. Anexample would be products like Carrera marble, where thereis no human intervention other than to mine/reap/harvest orcollect the product, the characteristics of which are entirelypredetermined by nature. Moreton Bay would be anAustralian equivalent for a particular type of shellfish.The next level of geographical designation, again in a sim-plistic sense, is that of geographical indications. An earlydefinition, (the Lisbon Treaty) which referred to them as“appellations of origin”, defined them thus:(An) “appellation of origin” means the geographical name ofa country, region or locality, which serves to designate aproduct originating therein, the quality and characteristics ofwhich are due exclusively or essentially to the geographicalenvironment, including natural and human factors.”Finally the highest level of such rights is the controlledappellation of origin. This is a type of geographical indicationwhich includes both natural and human inputs but where theconditions of production are generally rigorously controlledby law. Classic examples of controlled appellations of originare French wine and spirit names such as Bordeaux,Cognac, Burgundy and 400 or so other such names.The French system of controlled appellations of origin forwines regulates every aspect of wine production from:• having the vineyard first approved before planting is

allowed, which requires, amongst other things, soil testing;• being restricted to using only certain varieties of grapes for

each appellation;• being required to plant a certain minimum number of vines

per hectare;• being restricted in the pruning methods used;• being prevented from harvesting before the date

announced by the local authorities;• being restricted from producing more than a specific

amount of juice from each hectare; and• being tied to specific viticultural and oenological methods

of production.In deciding what system of wine geographical indications toimplement in Australia, our Government and wine industrytook the very deliberate step of shying as far away as possi-ble from a system that regulated such matters as describedabove. If you mention “appellations of origin” (let alone “con-

trolled appellations of origin”) to someone in the Australianwine industry, you will often see a vehement reaction reject-ing their relevance to our country.Indeed, it is right to reject a system of controlled appellationsof origin for Australia at this time. France, Italy, Spain andthose other “old world” countries that have implementedsuch regimented systems have had centuries and in somecases, thousands of years in which to find the best regions,plots, varieties and the like for their grapes and wines.Australia still needs time to experiment and explore. Whilstit is true that vines were carried to Australia by the FirstFleet, and that there are several vineyards scattered aroundAustralia claiming to have vines well over 100 years old, ourwine sector is really only 30 or so years old. Before the1970’s, Australia’s vineyard plantings were relatively small.We are certainly not ready to fix in place a detailed geo-graphical indication system incorporating such elements asare used in Europe where our viticultural sector has so littlehistory or time for experimentation.Thus Australia has opted for a system that is describedbelow, simplistic in the extreme, and perhaps not even com-pliant with the Agreement on Trade Related Aspects ofIntellectual Property Rights (TRIPs).

4.- The first Australian attempts to protect geographical indi-cations.

In modern times, the first real attempt to protect a geograph-ical indication in Australia was the aborted 1981 attempt ofthe Comité Interprofessionnel du Vin de Champagne (theCIVC) to stop the importation of Spanish Freixenet sparklingwine, labeled as Champagne, from entering the country. TheFederal Court action was based on section 52 of the TPA butwas unsuccessful at an interlocutory (or preliminary) injunc-tion stage and was abandoned in 1982.The next serious step came in 1987, when the FrenchNational Institute of Appellations of Origin (1) (INAO), theInterprofessional Union of Beaujolais Wines (UIVB) and 22Beaujolais growers, producers and negociants took courtaction in Australia against the then seven largest Australianwine companies to prevent their sale of Australian wineslabeled as “Beaujolais”. The wines were being variouslylabeled as:• Beaujolais• Beaujolais style• Australian Beaujolais• Australian Beaujolais style.The Federal Court action was not based on any suggestionthat any consumers would believe that, for example, aRosemount wine labeled Australian Beaujolais or aWoodley’s Queen Adelaide Australian Beaujolais Style,were French wines. Rather the action had exactly the samebasis as the English Spanish Champagne litigation of 1961

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(1) Now known as the French national Institute of Origin and of Quality but still known as the INAO.

in that it was pleaded that by the use of the name Beaujolais,the Australian producers were misrepresenting that theirwines were Beaujolais, even if produced in Australia. TheBeaujolais producers’ case was that no matter how good theAustralian wines were, and no matter how similar some ofthem might have been to Beaujolais, the simple fact remainsthat they were not Beaujolais. Unfortunately for the lawyers involved, the case settled, asthe 7 defendants and 38 other Australian wine producerseventually signed undertakings or gave undertakings to thecourt to cease using the name Beaujolais. No court decisionwas ever received.Indeed, there was a much bigger picture, at that time, thanthe single Beaujolais court case. From about 1989, theINAO started taking steps or actions in Australia to obtainthe cessation of misuse by Australian producers of a rangeof other French controlled appellations of origin. Theseincluded• St Julien• Bordeaux• Saumur• Cognac• Pineau de Charentes• Calvados• Muscat de Beaumes de Venise• Graves• St EmilionOver eighty separate actions have been commenced by theINAO in Australia since 1987 relating to the protection ofAOC’s, whether in court or otherwise.Again each of these matters was settled favourably for theINAO and the misuse ceased. No action was taken from alitigation perspective in respect of some of the best knownFrench appellations of origin, namely Champagne, Chablis,Burgundy, Sauternes and others. Rather protection of thesenames was left to the political arena, given the fact that therewould have been strong arguments advanced by thoseAustralian producers using these names in respect of theirwines that these names had fallen into the public domain.

5.- The 1994 EC/Australia wine Treaty.

However, there was still an even bigger picture in respect ofwhich the Australian legal campaign by the INAO was mere-ly a small skirmish. Mid-way through the Beaujolais litiga-tion, Australia started negotiating with the EuropeanCommunity a treaty that was eventually initialed in January1993 and signed in February 1994. This Treaty removed orreduced many of the non-tariff barriers to entry into the ECof Australian wines and dealt with issues such as multi-regional blending and labelling and so forth. Although theobligations undertaken in the 1994 Treaty were entirelymutual, what the EC achieved was an agreement thatAustralia would protect all EC wine geographical indications,and the Treaty listed several thousand of them in the

Annexes. It was through this Treaty that the EC achievedwhat it could not achieve through litigation.The 1994 Treaty protected what it describes as geographi-cal indications, and defined them as follows:“Geographical indication” shall mean … for the purpose ofthe description and presentation of wine … where a givenquality, reputation or other characteristic of the wine isessentially attributable to its geographical origin.This term thus includes but is by no means limited to Frenchcontrolled appellation of origins (AOCs) and ItalianControlled Denominations of Origin (DOCs). Examples of geographical indications are:• for Australia, “Barossa Valley”, “Coonawarra”, “MorningtonPeninsula” and “Hunter Valley”;• for Portugal, “Porto” and “Madeira”;• for Italy, “Barolo” and “Chianti”;• for France, “Beaujolais”, “Burgundy”, “Champagne” and

“Chablis” (all of which are, of course, AOC’s); and• for Spain, “Sherry”/”Jerez” and “Malaga”.

6.- Protection of geographical indications in Australia beforethe Treaty.

Before the Australian Parliament introduced legislation inDecember 1993 designed specifically to protect wine geo-graphical indications, there was no legislation of that naturein Australia. As described above, the existing wine legisla-tion, namely the AWBC Act, did incorporate the LabelIntegrity Program. Whilst falling far short of specific protec-tion for geographical indications, this program was the firstwine specific step towards ensuring that, amongst otherthings, Australian winemakers did not misdescribe theirwines.Before the enactment of amendments to the AWBC Act inDecember 1993, the only legal route available to personsclaiming that there had been a misuse of a geographicalindication (or AOC or DOC) in Australia was to rely on a pre-existing reputation of that geographical indication inAustralia and to take a civil action alleging either passing-offor misleading or deceptive conduct in breach of the TPA.

Passing off and Trade Practices Act.Passing-off was the basis of the famous Champagne litiga-tion in both England (in the 1960’s against the importers ofthe so-called “Spanish Champagne” and in the 1990’s inrelation to the producer of what was known as “ElderflowerChampagne”) and in New Zealand (against the importers ofAustralian sparkling wine labelled as “Champagne”).To succeed in a passing-off action, a plaintiff must prove,amongst other things, that it owns a reputation (whetheralone or jointly with other persons) in a name, mark, get-upor style which has been used by the defendant in such a wayas to mislead members of the public into the false belief thatproducts from the defendant emanate from the plaintiff. It isalso necessary to prove that the plaintiff has suffered dam-

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age as a result of the defendant’s misconduct.An obvious limitation to a passing-off action is the fact thatthe most critical element is the need to establish that theparticular geographical indication (or AOC or DOC) has areputation in the jurisdiction where the action is being taken.Whilst this might be relatively straightforward in Australia inrespect of twenty or thirty so AOCs or DOCs (such as Baroloor Bordeaux), it would be very difficult to prove the existenceof such a reputation for the overwhelming majority of thethousands of other wine geographical indications whetherfrom the EC or otherwise (such as Torgiano, Carema,Irouléguy or Cérons). Thus it is almost impossible under thelaws of passing-off to prevent the misuse of most EC geo-graphical indications.Added to the above problem is the fact that no Australiancourt will protect a geographical indication which is found, byevidence, to have fallen into the public domain. On thatissue, it has been asserted by the Australian wine industry,over many years, that a handful of European geographicalindications (including Lambrusco, Sauternes, Champagne,Burgundy, Port and Sherry) have become “generic” by rea-son of lengthy and widespread misuse in Australia in respectof Australian wines.Accordingly the protection of geographical indications inAustralia has been very difficult under the law of passing offwhich provides only a limited degree of protection.Although there are several differences between the TPAaction for misleading or deceptive conduct and the tort ofpassing-off, the elements of a passing-off action shared byan action under the TPA include:(i) the need for the plaintiff to establish an Australian reputa-

tion for the relevant geographical indication; and(ii) the fact that the TPA will not protect geographical indica-

tions held to have fallen into the public domain.In other words, the statutory action under the TPA offers nosubstantive assistance to those wishing to protect geo-graphical indications in Australia above that offered by thetort of passing off.

Background to the 1994 treaty.Without providing a detailed description of the actual nego-tiations leading up to the signing of the 1994 Treaty, theyshould be viewed in light of the surrounding facts whichinclude:(i) the ongoing GATT discussions incorporating the

TRIPS/ADPIC Agreement which includes an Articledealing specifically with the protection of wine geo-graphical indications (Article 23); and

(ii) the ongoing litigation between the INAO and Australianwinemakers, both in Australia and in New Zealand.

The negotiations themselves were held between membersof the Australian government departments (assisted bymembers of the Australian wine industry) and with membersof the European Commission (assisted by experts such asofficers of the INAO). The discussions that led to the ini-tialling of the 1994 Treaty in January 1993 were protracted

and lasted for almost four years. Over eighty separateactions have been commenced by the INAO in Australiasince 1987 relating to the protection of AOC’s, whether incourt or otherwise.In two of the actions, namely the Australian Beaujolais litiga-tion and in the New Zealand Champagne litigation, someAustralian winemakers took a very active and vigorousdefence, albeit ultimately unsuccessful. It was with this fac-tual background that the Treaty discussions took place andwere successfully concluded.

7.- Effect of the Treaty.

The obvious question is what each party gained from the1997 Treaty that was seen as a sufficient benefit to warrantsigning it.

a) What is the EC gaining and Australia conceding ?The Australian wine industry agreed to a Treaty that result-ed in legislation prohibiting the use in Australia of manythousands of EC wine geographical indications.As a matter of commercial reality, probably 95% of the pro-tected EC geographical indications are unknown in Australiaand to agree to protect them in Australia did not cause anycommercial harm to Australian wine producers. However,there is one very significant concession given up by theAustralian wine industry. That is that amongst these thou-sands of now protected EC geographical indications are adozen or so geographical indications (including AOC’s) fromFrance, Portugal and Spain whose use has been so exten-sive and protracted in Australia that the Australian wineindustry regards these names as generic. These include:Champagne BurgundyChablis SauternesHermitage ClaretPort SherryMadeiraThe importance of this handful of geographical indicationsshould not be underestimated. Indeed, it has been estimat-ed by the Winemakers Federation of Australia (WFA) thatuse of these geographical indications by the Australianindustry would constitute a significant percentage of allwines sold in Australia. As will be dealt with below, the 1994Treaty required a phase-out of these so-called generic geo-graphical indications. In respect of some of them, the phase-out period has still not been finalised, fourteen years afterthe 1994 Treaty was initialled. As a result of these conces-sions made by Australia in entering into the 1994 Treaty,new names will need to be chosen, labels designed andconsumers educated in Australia.

b) What is Australia gaining and the EC conceding ?In short, as a direct result of the Treaty, Australia has gainedmuch easier access to the European wine market.Australia’s home market for wine is considered “saturated”

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with the per capita consumption remaining relatively staticover the last few years. The Australian wine industry is thuslooking to its exports in order to increase sales. Indeed,Australian exports of wines have grown from $ 21 million in1985 to $ 344 million in 1993 and then, thanks largely to thenew ability to gain access to the EC markets, to well over $2 billion in 2006.The concessions made by the EC relate to what were, inessence, non-tariff barriers to the importation of Australianwines into the EC. The actual concessions are describedbelow.

8.- Description of the 1994 Treaty.

In essence, the 1994 Treaty:(i) provides for the mutual recognition and protection of the

EC’s and of Australia’s geographical indications;(ii) reduces the number of analyses the EC requires of

Australian wines for export into the EC from eight analy-ses to three analyses;

(iii) allows Australian winemakers to market wines in the EClabelled with multi-varietal and multi-origin blends;

(iv) allows for the export to the EC of Australian dessertwines with an alcoholic strength by volume previouslyprohibited;

(v) prevents either the EC or Australia from introducing addi-tional certification requirements on imports on theother’s wines.

In regards to the protection of each party’s geographicalindications, that term is defined in Article 2 of the Treaty asmeaning:“An indication as specified in Annex II, including an“Appellation of Origin”, which is recognised in the laws andregulations of a Contracting Party for the purpose of thedescription and presentation of a wine originating in a terri-tory of a Contracting Party…”In other words, a geographical indication is only entitled toprotection under the 1994 Treaty if it is “recognised in thelaws and regulations of a Contracting Party”. FromAustralia’s perspective, until amendments were made to theAWBC Act in December 1993, no laws or regulations specif-ically recognised Australia’s geographical indications. Thusthe 1994 Treaty played a pivotal role in the AustralianParliament enacting with all haste legislation recognisingand protecting Australia’s geographical indications. More importantly, Article 8 of the 1994 Treaty recognisesthat there are a dozen or so geographical indications (themajority of which are French AOC’s) which are accordedphase-out periods in Australia. These are the so-called“generic” names as described above, although it should bestressed that not all of the names accorded a phase outwere indeed even widely misused let alone generic.It might be said by Australian winemakers that the threephase-out tranches merely deal with geographical indica-tions that are allegedly generic in Australia. However, that is

not the case with at least five of the AOC’s in those tranch-es. By way of example, in respect of the AOC’s “Sancerre”and “White Bordeaux”, whilst in each case there was oneAustralian producer using that AOC in respect of Australianwines, as a result of agreements with the INAO, those pro-ducers ceased misusing the name. Similarly, in respect ofthe name “Graves”, one producer reached an agreementwith the INAO which provided for a phase-out period includ-ing the 1995 vintage, and another had a phase-out periodproviding for release of a 1994 vintage, the name “Graves”was not being otherwise misused in Australia by Australianproducers. Further, there were no Australian producersusing the AOC Saint-Emilion.The phase-out periods are divided into three tranches. The1994 Treaty provides, in two of the three cases, a final datesuch that use of the listed geographical indications forAustralian wines up to that final date would not constitute abreach of the Australian laws protecting the geographicalindications of the EC.(i) The first group had a transitional (or phase-out) periodwhich ended on 31 December 1993 and are:Beaujolais CavaSancerre FrascatiSaint-Emilion/St. EmilionVinho Verdi/Vino VerdeWhite Bordeaux(ii) The second group had a transitional (or phase-out) peri-od which ended on 31 December 1997 and are:Chianti MadeiraFrontignan MalagaHock(iii) The third group has a transitional period whose final datehas not yet been determined. Rather, the 1994 Treaty pro-vides that the EC and Australia shall make “every endeav-our ... to agree by 31 December 1997 at the latest on tran-sitional periods for these names”. These are:Burgundy MoselleChablis PortChampagne SauternesClaret SherryGraves White BurgundyMarsalaIn regard to the transitional period for Beaujolais, as thatAOC was the subject of significant litigation and as there areagreements between the INAO and the UIVB and more than40 Australian winemakers requiring them to cease using theBeaujolais name, the 1994 Treaty specifically states that:‘The transitional period for “Beaujolais” ... shall be subject tothe terms of any agreement between the Australian produc-ers and the competent French authorities representing theproducers of “Beaujolais” and to any court order relatingthereto’.In actual fact, none of the agreements between the INAOand the UIVB of the one part and Australian winemakers ofthe other part or any Australian court orders relating to theuse by Australian producers of the name ‘Beaujolais allow

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use of that name for vintages after 1993. Indeed, the major-ity of the agreements signed in 1988, 1989 and 1990,required immediate cessation of use of the name“Beaujolais”.The 1994 Treaty also deals with the protection of the tradi-tional expressions used in the EC and Australian wine indus-tries. A large number of the traditional expressions in respectof which the Treaty is expected to extend are set forth in theAnnexure to the Treaty. They include names such as:(a) “Qualitatswein” & “Liebfraumilch” (Germany)(b) “Cru”, “Clos” & “Premier” (France)(c) “Gran Reserva”, “Amarillo” & “Amontillado” (Spain)(d) “Classico” & “Amarone” (Italy).Pursuant to the provisions of the Treaty, the traditionalexpressions will not be protected until the date when theJoint Committee (established pursuant to provisions of theTreaty between representatives of the EC and representa-tives of Australia) agree to protect the traditional expres-sions.

9.- New Australian system of protecting geographical indica-tions

As stated above, before the steps undertaken by Australia tocomply with its obligations under the Treaty, Australia had nolaws specifically protecting geographical indications(whether Australian or foreign). Thus the introduction of suchlaws was a major step for Australia and one that required asignificant amount of work to formulate an entirely new sys-tem of laws dealing with legal concepts never before thesubject of Australian judicial or statutory treatment. Given,however, that these new laws were dealing with wine, thelogical repository for them was in the AWBC Act.

Australian Wine & Brandy Corporation Act 1980 and itsamendments.

Protection of Geographical IndicationsObviously acting with the intention of protecting consumersand of encouraging the wine industry to act responsibly, the1993 amendments to the AWBC Act enshrined in Australianlegislation not only the language of the 1994 Treaty (whichrequires the protection of the listed geographical indications)but also its spirit, by extending the protection to “words orexpressions that so resemble a registered geographical indi-cation as to be likely to be mistaken for it”. The wide protec-tion is thus granted to all EC wine geographical indicationscontained in an Annexe to the Treaty and to all Australianwine geographical indications which are determined inaccordance with the processes described below.The legislative scheme of protecting geographical indica-tions prohibits the sale, import or export of wine:(a) with a false description; or(b) with a misleading description. A “false description” is defined as one using:

(a) the name of a country; or(b) a registered geographical indication.from where the wine did not originate. It is no defence to usea false description accompanied by a word such as “kind”,“type” or “style’.A “misleading description” is defined as one using:(a) a registered geographical indication;(b) a translation of a registered geographical indication(such as Burgundy); or(c) a word or expression that so resembles a registered geo-graphical indication as to be likely to be mistaken for it.

Australian wine geographical indications.When the AWBC Act was amended, the Australian Wine &Brandy Corporation Regulations were also amended by theintroduction of Regulations 24 and 25 which had the specif-ic purpose of allowing our legal system the means of creat-ing, registering and protecting Australian wine geographicalindications, such as Margaret River, Barossa Valley, HunterValley and Mornington Peninsula. The Australian Wine & Brandy Corporation Regulationsdefine a region as:• a single tract of land• including not less than 5 vineyards of no less than 5

hectares each• producing not less than 500 tonnes of fruit each year• which has homogeneous grape growing characteristics.The regulations further provide that in defining a region (orsub-region), the GIC may take into account, amongst otherthings:• the existence of natural features in the proposed region• the history of grape and wine production n the area• climatic uniformity• grape harvesting dates• the geology of the proposed region• the history of the proposed regionand so forth.However, whilst these Regulations superficially give theappearance that Australia is moving along the well-trodinternational path of true geographical indications, theAWBC Act defined “geographical indication” in a way thatcould be seen as quite “cute”. There are in fact 2 differentdefinitions of geographical indications for wine in this legis-lation, one that mirrors the definition in the Treaty andindeed is the same as subsequently incorporated into theTRIPS Agreement, whilst the other bears no similarity to anyinternationally recognised definition of a geographical indi-cation. This second definition is as follows:“’Geographical indication’, in relation to wine, means a wordor expression used in the description and presentation of thewine to indicate the country, region or locality in which thewine originated.”This second definition, when coupled with the definition of“originate” means that to comply with the second definition,all that one needs to be entitled to use an Australian winegeographical indication is to source 85% of your grapes from

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within the region. It is irrelevant what variety of grapes, howor where they were planted or tended, how or where thewine was made and so on. This is, it has been said, nothingmore than an indication of provenance of 85% of the rawmaterials of the wine and NOT a true geographical indica-tion, at least insofar as TRIPs defines it.There are no requirements in the Australian system thatwines be produced from:(a) particular grape varieties;(b) vines planted within a certain distance of each other;(c) vines pruned in a particular way; or(d) grapes harvested at a particular time.It is this second definition of a geographical indication that isenforced by the Australian Wine & Brandy Corporation,which has the role of enforcing the legislation.The wine growing areas of Australia are divided into States,zones (such as the Limestone Coast of South Australia),regions (such as Yarra Valley) and sub-regions. There areeven so-called super-zones and geographical indicationssuch as “South Eastern Australia” which allows wines fromboth Victoria and South Australia to be blended into wineentitled to use the same geographical indication.As to whether wine geographical indications have taken onany value in Australia, one has only to look at theCoonawarra litigation to see how much value is placed in aname. This was litigation between about 75 parties over thedefinition of the boundaries of the region entitled to use thegeographical indication “Coonawarra”, a very well-knownwine region located in the State of South Australia.There were three levels of determinations or hearings (theGeographical Indications Committee (GIC), the FederalAdministrative Appeals Tribunal (AAT) and the Full FederalCourt), with the AAT 6 week hearing involving over 75 par-ties. It is estimated by some that the total costs were wellover $ 5 million. However, some simple mathematics showsthe value in running such a case.• Presume a vineyard of 100 acres is at stake, with each

acre producing in an average year 5 tonnes of grapes.• The difference in prices being paid for Coonawarra grapes

and grapes from the surrounding areas (such asWrattonbully) was (when the case was being run) about $500 per tonne.

• 500 tonnes of fruit per year produces an extra $ 250,000income per year if the fruit is from the Coonawarra.

We laugh when we hear that a single row of vines in theprestigious Montrachet vineyard in Burgundy sells for aboutUS$ 2.5 million. However, whilst our vines aren’t yet thatvaluable, many companies did indeed spend hundreds ofthousands of dollars if not more, to retain or gain the right touse a particular name. So the naming game has certainly hitour shores in a big way.Geographical Indications CommitteeThe 1993 amendments to the AWBC Act also establishedthe GIC which has the role of determining the names andboundaries of Australia’s wine regions. Although there was,prior to the system being instituted, a fairly clear understand-

ing within the wine industry what the geographical bound-aries are for the overwhelming majority of Australia’s geo-graphical indications, they are not formally recognised underAustralian law until their boundaries have been fixed by theGIC.

PenaltiesThere are significant penalties fixed by the amended AWBCAct for persons convicted of breaching the provisions pro-tecting geographical indications. The amendments providefor the imposition of both jail sentences and of fines andquite significant ones at that. Individuals are liable for up totwo years imprisonment and of pecuniary penalties of up to$ 12,000 for each offence. Companies convicted of breach-ing these new provisions of the AWBC Act are liable to finesof up to $ 60,000 per offence.

InjunctionsThe amended AWBC Act contains provisions empoweringthe Federal Court of Australia to make injunctions:(i) preventing continuing conduct such as the misuse of ageographical indication; and(ii) requiring persons to do particular acts (such as to placeretractive advertising in newspapers or journals informingthe public that a particular winemaker had no right to use aspecific geographical indication).

Rights of Interested PersonsAs history has shown in Australia, the misuse of an EC geo-graphical indication by Australian winemakers is unlikely tobe the subject of a prosecution or civil action by otherAustralian winemakers, even if the misuse gives a competi-tive advantage to the misuser. By way of example, the useof the AOC’s Beaujolais, Sancerre, Calvados, Muscat deBeaumes and others by Australian winemakers constituteda clear breach of various Health and Food Labelling laws.However, no steps were taken to prosecute the miscreants.The legislative amendments to the AWBC Act give the rightto seek injunctions to:(i) the Australian Wine & Brandy Corporation;(ii) a declared winemakers organisation;(iii) a declared wine grape growers organisation;(iv) a wine producer or wine grape grower; and(v) an organisation responsible for wine promotion or protec-tion of the interest of persons engaged in winemaking.Where an Australian vigneron misuses an Australian geo-graphical indication, one can clearly envisage that personbearing the brunt of civil proceedings, seeking damages andinjunctions, instituted by a number of persons. Doubtlesslythe Australian Wine & Brandy Corporation would be interest-ed in preventing misuse of Australian geographical indica-tions as would the local vignerons organisation (if any) in therelevant geographical indication that was misused.Individual vignerons may also feel sufficiently incensed tocommence their own action.However, where the misuse is of an EC geographical indica-

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tion protected pursuant to the Treaty, it remains to be seenwhether any Australian winemaker, vignerons organisationor the Australian Wine & Brandy Corporation takes proceed-ings against the misuser. Whilst I certainly hope that theAustralian Wine & Brandy Corporation will act in such a wayas to promote honest labelling by Australian winemakers inevery respect, there is no certainty that EC geographicalindications will be as assiduously protected (if at all).Accordingly, the provision giving the rights to organisationsresponsible for, amongst other things, the protection of theinterests of persons engaged in winemaking (such as theINAO and the UIVB), effectively gives the right to suchorganisations to seek injunctions against persons misusingtheir country’s geographical indications.

Private ProsecutionsThe amendments to the AWBC Act also spell out that partic-ular persons have the right to launch private prosecutions forbreaches of these new provisions. In other words, where, forexample, an Australian winemaker misuses a geographicalindication, not only can (certain specified) private individualsinstitute civil court proceedings to seek injunctions to stopthe continued misuse and also to seek damages, but more-over particular persons can commence criminal proceedingsagainst the misuser, asking the court to impose penalties ofeither fines or jail (or both)! The persons whom the legisla-tion states can institute prosecution proceedings are:(a) the Australian Wine & Brandy Corporation;(b) persons engaged in winemaking or growing wine grapes;and(c) an organisation responsible for wine promotion or protec-tion of the interests of persons engaged in winemaking.Again the last category obviously includes both Australianregional winemakers’ associations and foreign organisationslike the INAO.

10.- Geographical indications committee.

As referred to above, the GIC established by the amend-ments is charged with the task of fixing Australia’s geograph-ical indications. The Committee is comprised of three per-sons, and is given wide consultation powers and the right tocall on third parties (such as relevant experts) to assist it inits deliberations.In making determinations of the boundaries of Australia’sgeographical indications, not only may the GIC make adetermination on an application made by winemakers orwine grape growers, but it also has the power to make deter-minations acting on its own initiative, without the need for aformal application by members of the industry.In making a determination, the legislation requires the GICboth to identify the boundaries of the geographical indicationin question as well as the word or expression used todescribe the geographical indication.Unlike countries such as France and Italy the Regulations

for determining Australia’s geographical indications do notimpose any limits on matters such as the grape varietiesused in any particular geographical indication. Similarly, thedraft rules do not deal with maximum yields, minimum alco-holic levels and so forth. The principle question is whetherthe wine was made in and from grapes grown in a particulargeographical indication.Regulation 24 provides that in making determinations ofgeographical indications, the GIC must take into account,amongst other things, a series of matters described in para-graph 105 below.When the GIC has made a determination, such a determina-tion is only considered to be an interim determination andwill not be finalised until a process of public consultation hasbeen carried out.The AWBC Act requires that once an interim determinationhas been made, that fact must be appropriately publicised ina manner chosen by the GIC. At that point, written submis-sions will be called for members of the public in response tothe interim determination. Finally, on considering those writ-ten submissions, the GIC will make a final determination.

Appeal process.Given the importance of the fixing of geographical indica-tions and the fact that such determinations can have a sig-nificant economic impact, especially in the better-known andmore valuable geographical indications, the legislationspecifically deals with the means by which an appealprocess may be undertaken by persons unhappy with theresults of a determination by the GIC.Final determinations may be appealed to a Federal tribunalknown as the Administrative Appeals Tribunal (AAT).The AAT can hear appeals against decisions of the GICbased on a wide range of claims, including those based onallegations that:(i) the GIC took into account irrelevant considerations; and(ii) the GIC failed to take into account relevant considera-

tions.The AAT also has the power to review decisions referred toit or their merits. In other words, this Tribunal has a very widediscretion in hearing appeals.

11.- Register of geographical indications.

The amended legislation also provides for the establishmentof a Register of Geographical Indications. This Register isopen to public inspection and is available for copying. It con-tains the names of all protected geographical indications,including those European wine geographical indications reg-istered pursuant to the Treaty and those registered as aresult of determinations made by the GIC.

The Relevant LawsThe AWBC Act is the principal law under which the GIC fixesboundaries of and names for Australian wine geographical

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indications, and the Australian Wine and Brandy CorporationRegulations 1981 (as amended) made under the AWBC Actare the key regulations. The key regulations are Regulations24 and 25. The leading case to consider these Regulationsis Beringer Blass Wine Estates Limited –v- GeographicalIndications Committee [2002] FCAFC 295.Regulation 24 provides that “a region” is an area of land that:(a) “may comprise one or more subregions”;(b) is a single tract of land that is discrete and homogeneousin its grapegrowing attributes to a degree that:(i) is measurable; and(ii) is less substantial than a sub-region;(c) usually produces at least 500 tonnes of wine grapes in a

year;(d) comprises at least 5 wine grape vineyards of at least 5

hectares each that do not have common ownership …;and (e) may reasonably be regarded as a region.

Regulation 25 sets out the criteria to which the GIC musthave regard in determining geographical indications (2):(a) whether the area falls within the definition of … a region;(b) the history of the founding and development of the area

…;(c) the existence in relation to the area of natural features,

including rivers, contour lines and other topographicalfeatures;

(d) the existence in relation to the area of constructed fea-tures, including roads, railways, towns and buildings;

(e) the boundary of the area suggested in the application tothe GIC;

(f) ordinance survey map grid references in relation to thearea;

(g) local government boundary maps in relation to the area;(h) the existence in relation to the area of a word or expres-

sion to indicate that area, including:(i) any history relating to the word or expression; and(ii) whether, and to what extent, the word or expression is

known to wine retailers beyond the boundaries of thearea; and

(iii) whether, and to what extent, the word or expression hasbeen traditionally used in the area or elsewhere; and

(iv) the appropriateness of the word or expression;(i) the degree of discreteness and homogeneity of the pro-

posed geographical indication in respect of the followingattributes:

(A) the geological formation of the area;(B) the degree to which the climate of the area is uniform,

having regard to the temperature, atmospheric pressure,humidity, rainfall, number of hours of sunshine and anyother weather conditions experienced in the areathroughout the year;

(C) whether the date on which harvesting a particular variety

of wine grapes is expected to begin in the area is thesame as the date on which harvesting grapes of thesame variety is expected to begin in neighbouring areas;

(D) whether part or all of the area is within a natural drainagebasin;

(E) the availability of water from an irrigation scheme;(F) the elevation of the area;(G) any plans for the development of the area proposed by

Commonwealth, State or municipal authorities;(H) any relevant traditional divisions within the area; and(I) the history of grape and wine production in the area.

12.- US – Australia free trade agreement.

Australia had a well-publicised and long running disputebetween a trade mark owner, Seppelt’s, and a group ofvignerons both of whom had used the name “GreatWestern”, the former as a trade mark for 145 years and thelatter as the name of a wine region for 150 years. The groupof vignerons wanted to register the name as a geographicalindication. Seppelt’s did not wish the registration to proceedas it believed that this will adversely impact its brand. Inaddition, under the legislation, if the name is registered as aregion, then if Seppelt’s uses that name for a wine, even asa trade mark, over 85% of the grapes used to make the winefor all of Seppelt’s “Great Western” products will have to besourced from that region. The region simply could not sup-port that level of production, and Seppelt’s wished to be freeto source its grapes for its branded products from whereverit chooses. In spite of formal applications having been made to the GICto register the region’s name, the GIC ignored the applica-tion for several years (3) . However, the issue of the conflictbetween trade marks and geographical indications wouldn’tgo away and was a matter on which the negotiators from theUnited States of America focussed in the Free TradeAgreement discussions with Australia.Basically the USA has for many years been consistently tak-ing the approach that there are many wine names used byUS vignerons as trade marks which other countries claimare geographical indications. The dispute between the USAand the EC over the so-called semi-generic names (such asChampagne and Burgundy) is well-known. Thus the USAwanted to ensure that it could, in the course of the FreeTrade Agreement negotiations with Australia, protect theinterest of US vignerons who might export their wines toAustralia using a name or trade mark that was said byanother country to be a geographical indication for wines.The manner in which the USA wanted to protect its citizens’trade mark rights was to insist on the implementation of the

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(2) In determining a geographical indication under subsection 40Q(1) of the Act, the Committee is not prohibited under the Act from hav-ing regard to any other relevant matters.(3) Quite improperly in the author’s view.

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general IP policy of “first in time, first in right”. So, what did the US-Australia Free Trade Agreement (“theFTA”) do? The FTA provides that a geographical indicationcannot be registered if there are, in Australia, pre-existingtrade mark rights to the same name. While this soundsstraightforward, the implementation of this provision intoAustralian law is taking a slightly difficult turn with the newlegislation providing unexpected ambiguities. The Government made amendments to the AWBC Act whichtook effect from 1 January 2005. The US Free TradeAgreement Implementation Act 200 (4) inserts, amongstother provisions, a new Division into the AWBC Act4 whichestablishes a system for determining whether an applicationto register a wine geographical indication can proceedwhere there is a claimant objecting on the basis of trademark rights.Section 40RA of the AWBC Act provides that where the GICis considering determining a new wine geographical indica-tion, it must publish a notice (5) setting out the proposed geo-graphical indication and inviting persons to make writtenobjections to the Registrar of Trade Marks based on one ofthe grounds set out in Section 40RB.Under Section 40RB, an objection to the registration of ageographical indication may be made based on the objec-tor’s trade mark rights. The objector may have trade markrights acquired in one of three ways.(a) First, the objector may have an existing trade mark reg-istration. (Section 40RB(1)).(b) Second, the objector may have a good faith pendingtrade mark application that prima facie meets the registra-tion requirements under the Trade Marks Act 1995 (Section40RB(3)).(c) Third, the objector may have trade mark rights as a resultof having adopted and used in good faith the trade mark(without any registration or attempt to register the trademark). (Section 40RB(4)).Insofar as the legal basis for a trade mark owner to object isconcerned, the AWBC Act now provides that if the trademark:(a) consists of a word or expression that is identical to theproposed geographical indication;(b) consists of a word or expression that is likely to causeconfusion with the proposed geographical indication;(c) contains a word or expression that is likely to cause con-fusion with the proposed geographical indication;then there is a basis for objection.Such an objection will be considered by the Registrar ofTrade Marks. It is at this point that the process becomescomplex and potentially problematic.The Registrar of Trade Marks is required to determine ifsuch an objection is “made out” and whether they are:“satisfied that it is reasonable in the circumstances to recom-

mend to the (GIC) that the proposed geographical indicationbe determined despite the objection having been made out”.The amendments to the Act provide no guidance as to whatfactors should be taken into account in determining this. Canthe Registrar of Trade Marks take into account any reason-able factor whatsoever, even if it is a matter already consid-ered by the GIC? Are issues such as the value of a trademark or the employees who would lose their jobs if the trademark became unusable (as in the Great Western situationpostulated above), or the value-added to the trade mark bythe regional advertising, be matters that can be taken intoaccount by the Registrar?So, leaving aside the question of these “reasonable … cir-cumstances” referred to above, the AWBC Act provides thatif the Register of Trade Marks is satisfied that the objectorhas shown that he/she is the owner of one of the type oftrade mark rights set out above, then the objection is “madeout”. The raison d’être of these amendments, namely theFTA provision dealing with the first in time rights protectingtrade marks, is not even dealt with! Indeed, this issue ofanteriority is only addressed indirectly in a footnote to theamendments to the Act. The footnote to Section 40RC(3)provides:“For example, it may be reasonable for the Registrar ofTrade Marks to make such a recommendation if theRegistrar of Trade Marks is satisfied that the proposed geo-graphical indication was in use before the trade mark rightsarose.”There are some observations that should be made aboutthis drafting.(a) Pursuant to Australian law, statutory footnotes are onlyable to be referred to where there is some ambiguity in con-struction of the provision to which they relate.(b) Use of the term “may” in the footnote is unfortunatelylikely to ensure that litigation lawyers are given ample oppor-tunity to litigate these provisions!(c) The footnote introduces the concept of unregistered geo-graphical indications and brings them into play, (although forreasons too long to reproduce here, I support that concept).(d) If the legislation were to follow a straightforward route, itwould provide simply that if there are trade mark rights thatarose prior to the proposed geographical indication beingused as such, then the geographical indication should not beregistered.(e) Whilst the use of a geographical indication prior to trademarks rights arising will give priority to the geographical indi-cation, the obverse is not stated to be the case! In Australia,there is a rule of statutory interpretation described as the“expressio unius … est exclusio alterius” rule. In otherwords, “the express inclusion of one thing excludes all oth-ers”. Thus it is not at all clear that a prior trade mark will“gazump” or prevent the registration of a subsequently used

(4) The key sections are Sections 40RA to 40RG.(5) Somewhere !

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proposed geographical indication, even though this was thevery intention underlying the amendments to the AWBC Act.The amendments to the Act therefore grant the Registrar ofTrade Marks a very broad discretion to make a recommen-dation that a geographical indication be registered irrespec-tive of an objection having been “made out”. This discretionwould appear to fly in the face of the FTA, although it maybe limited by future regulations.I should add, as an aside, that I whole-heartedly supportsuch decisions being referred to the Registrar of TradeMarks. The Geographical Indications Committee is not anappropriate organisation to consider the balancing of trademark rights against the registration of a geographical indica-tion. The question of the priority in time between competinginterests (such as between two trade marks) is a fundamen-tal issue that Trade Mark Examiners and Hearing Officersdeal with daily.There has been only one dispute between a geographicalindication and a trade mark referred to the Trade MarksOffice for a hearing, and it concerned the “Rothbury” trademark. There was a hearing in September 2006 before twoHearing Officers but unfortunately we are still awaiting adecision!Thankfully the “Great Western” dispute referred to abovesettled, with the parties agreeing to mutual co-existence(which has existed in fact for almost 150 years).

13.- New wine Treaty with the EC.

As described above, when the 1994 Treaty was signed, itwas intended by Australia and the EC that they would nego-tiate a phase-out period for the third tranche of the so-calledgeneric names, such negotiations to be completed by 31December 1997. In addition, it was intended that the JointCommittee meetings would also reach agreement in relationto the protection of traditional expressions. However, theongoing discussions, for one reason or another, did notcome to any conclusion on those issues by 31 December1997 and it was not until 2007 that a final agreement wasreached. In the event, Australia and the EC decided that rather thansimply conclude a date for the final phase-out period for thethird tranche of the so-called generic names and an agree-ment relating to the traditional expressions to be protectedpursuant to the 1994 Treaty, there will be a new Treatyentered into that will entirely replace the original Treaty. The new Treaty was in fact finally initialled on 5 June 2007and provides, amongst other things, that the final phase-outperiod for the third tranche of names will be 12 months afterentry into force of the new Treaty (although in respect of thenames Port and Sherry, there are different dates as betweenthe sale of wines bearing those names in Australia and thesale in third countries).

The list of European geographical indications to be protect-ed by the new Treaty is much smaller than the list annexedto the 1994 Treaty. In addition, there has been a need to addthe geographical indications of those new countries thathave recently become members of the EC such the CzechRepublic, Cyprus, Hungry, Slovakia and Malta. The new Treaty also:(a) incorporates a number of accepted viticultural practicesthat will be accepted by each of Australia and the EC forwines coming from the other’s territory;(b) contains provisions dealing with the presentation ofwines including both compulsory and optional particulars forinclusion on wine labels;(c) deals with the elimination of the use in Australia within 12months of names used as vine variety names (namelyHermitage and Lambrusco);(d) contains agreement on the acceptance of vine varietynames and quality wine terms; and(e) protects Australian use of some EC traditional expres-sions which correspond to quality wine terms in Australia.The new Treaty deals with several key TraditionalExpressions such as Amontillado, Claret, Fino and Oloroso.Other names listed in the 1994 Treaty as TraditionalExpressions, such as “Vintage” in respect of Portugal, havebeen removed from the Annexures.When the new Treaty will actually enter into law in Australiais unclear. It is likely to be signed in a few months, but underAustralian law, Treaties have no legal impact on our domes-tic laws unless and until domestic legislation is actuallymade by parliament, putting our treaty obligations into force.Clearly new laws will be needed, but the extent of thechanges will not have nearly as great an impact on our winelaw system as did the 1994 Treaty.

14.- Conclusion.

Will the new Treaty have a significant impact on Australia’sGI laws as described above? It’s hard to say, but it isn’texpected that there will be significant changes necessary.In my view that one of the errors that our wine sector isfalling into is to believe that we now have a definitive systemof geographical indications that requires no more sophistica-tion whatsoever. In my view, this belief is borne as much outof laziness and a desire to reject any additional governmentintervention, as it is out of the need to experiment furtherwith regions, varieties and the like.I would suggest that we should accept that we have starteddown the path of introducing a system of wine geographicalindications for Australia but that we have merely taken thefirst step on a journey rather than have already reached ourfinal objective. We have a system not overly burdened bylegislation, but we should not be scared to develop our sys-tem further where necessary or desirable.

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I punti di forza del vino europeodi fronte alla globalizzazione

Riccardo Ricci Curbastro

1.- Premessa.

Ci sono argomenti nel mondo enologico che da sempresono dibattuti e che ad un certo punto assumono il caratte-re di dibattito internazionale, senza tuttavia trovare risposteunivoche. La sempre maggiore apertura delle frontiere e degli scambidovuta agli accordi WTO ha enfatizzato il confronto tra duedottrine economiche e tecniche, che da tempo si fronteggia-no nel mondo enologico: da un lato l’enologia impostata sulterritorio (il terroir dei francesi o meglio la Denominazioned’Origine) tipica dell’Europa, e dall’altro quella del vino chereca in etichetta il nome del vitigno, appartenente soprattut-to ai Paesi dell’Emisfero Sud ed agli USA, in sostanza icosiddetti nuovi produttori.Secondo una stima del prof. Mario Fregoni (1) la produzio-ne di vini di vitigno raggiunge nel mondo circa i 100 milionidi Hl contro i circa 80 milioni di Hl dei vini a Denominazione.Ed i primi segni di cedimento delle Denominazioni, cheaffiancano nomi di vitigni internazionali al loro territorio,sono già evidenti sia in Italia sia in Francia, dove peraltro siè acceso un durissimo confronto dovuto non soltanto alleproposte di riforma dell’ OCM Vino, ma anche alle diverseipotesi di soluzioni presentate in questi anni per la soluzio-ne del “problema”: penso alle Indicazioni Geografiche diestensione nazionale. D’altra parte svuotare il concetto diterroir significa impoverire la nostra viticoltura e forse sotto-porla ad un confronto che, soprattutto per ragioni struttura-li, non potrebbe che vederla soccombere.I punti di vista di entrambi gli schieramenti sono di indubbiointeresse, ma spero mi permetteranno di far pendere il giu-dizio inequivocabilmente verso le Denominazioni - che puredichiaro apertamente considerare l’unica strada percorribileper l’Europa.

2.- La denominazione.

Il concetto di territorio, come habitat che permette ad undeterminato vitigno, ed oggi forse dovremmo dire a determi-nati cloni di una varietà, di funzionare solo lì, era ben noto

a Greci e Romani: i primi cercavano di imitare i vini diCanaan, i secondi imitavano i vini greci dolci e molto alcoo-lici. E “non c’è argomento della viticoltura che abbia susci-tato altrettante opinioni diverse come il rapporto della vitecon il suo ambiente e con la composizione e la qualità deimosti e dei vini che ne risultano” (2). Così se da un lato sonole condizioni pedologiche e climatiche che hanno determi-nato la scelta del luogo dove impiantare i vigneti e dunqueinfluenzato la distribuzione mondiale della viticoltura, dall’al-tro sono state le condizioni microclimatiche e le caratteristi-che dei terreni a determinare la qualità e la reputazione diun vino piuttosto che un altro. Significativo in questo senso quanto è avvenuto in Borgognanella Côte d’Or, lì ove è facile riconoscere nel nome singolodi un villaggio (es. Volnay o Pommard) l’esistenza di un mer-cato affermato per i vini che vi si producevano. Nella secon-da metà del XIX secolo fu permesso ai villaggi che inveceavevano solo fama per una tête de cuvée o per un gran crudi usare il nome del villaggio insieme a quello del vigneto piùfamoso. Nacquero così Gevrey-Chambertin, Morey-St.Denis, Vosen-Romanée, Chabolle-Musigny, ecc. (3)In questo modo si dava riconoscimento ad un altro elemen-to della denominazione che rappresenta una ulteriore spe-cificità: il cru. Nel Bordolese la parola cru è sinonimo di pro-prietà vinicola, di chateau, ed ognuno di essi è riconosciutocon una specificità nell’ambito di un Comune. Nel Medoc laclassificazione dei cru risale al 1855 ed è la codificazione diuno stato di fatto molto più antico, che poco ha a che spar-tire con l’enologia moderna che ancora doveva nascere. Ilcru si caratterizza per una grande costanza di composizio-ne del vino da un anno per l’altro. Il carattere del cru preva-le su quello del vitigno, anche se talvolta ci risulta impossi-bile definire tale superiorità con l’analisi pedologica. In defi-nitiva “è probabilmente l’uomo che crea, in misura prepon-derante, la personalità di un cru. Il successo di un cru è ilrisultato delle conoscenze e dell’attività dell’uomo, sia sulpiano colturale che su quello tecnico e commerciale. Il vinonon è un dono gratuito della natura. Una vite abbandonataa se stessa non produce mai uva, dell’uva abbandonata ase stessa non diviene mai vino, del vino abbandonato a sestesso si altera e non si trasforma mai in un prodotto di qua-lità. Il cru non è che l’immagine di questo sforzo, o, piutto-sto degli sforzi compiuti dalle generazioni che si sono suc-cedute” (4).La caratteristica essenziale tuttavia di tutte le demarcazionibasate sull’origine territoriale dei vini è quella di voler garan-tire la qualità del vino stesso attraverso la certificazione delterritorio d’origine e dei metodi di vinificazione tradizionali.Peraltro la restrizione volontaria delle rese massime ad

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(*) Relazione presentata all’audizione pubblica del Parlamento Europeo “La riforma dell’organizzazione comune del mercato del vino”,Bruxelles, 12 Settembre 2007.(1) M.Fregoni, L’Informatore Agrario, n.18/2000.(2) M.A.Amerine – R.M. Wagner, The wine and its environment, in The book of California Wine, Berkeley, 1984.(3) H.Johnson, Il Vino, Padova, Franco Muzio Editore, 1991.(4) J.Ribérau-Gayon, E. Peynaud, Trattato di Enologia, Bologna, Edagricole, 1971.

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ettaro attuata dalle Denominazioni, oltre a mantenere illivello qualitativo raggiunto, garantisce anche, insieme allanotorietà della Denominazione stessa, il mantenimento diprezzi più alti del mercato dei vini comuni attraverso la ridu-zione delle quantità.Questo complesso sistema di denominazioni e territori difronte alla recente omogenizzazione del mercato, ed al suc-cesso della tirannide di Chardonnay e Cabernet ha creatonon pochi problemi ai produttori europei, chiamati a megliointerpretare un complesso di tradizioni in cui loro stessi cre-devano solo in parte, oppure a scegliere di seguire ameri-cani ed australiani in una gara a chi produceva il migliorvarietal, così come vengono chiamati i vini di vitigno.

3.- I Varietals.

La fortuna dei vini di vitigno è legata alla loro storia ameri-cana, o meglio californiana. I coloni ed i primi viticoltori scel-sero di chiamarli così perché non avendo tradizioni da pro-muovere spiegavano lo stile del vino ricorrendo al nomedell’uva. Già dalla metà del XX secolo tale uso era consoli-dato: i vini più riconosciuti, e quindi pregiati, su un mercatodi nessuna tradizione vinicola erano i varietals. Le spiega-zioni riportate sulle loro etichette erano per il CabernetSauvignon “la principale uva rossa della zona di Bordeauxin Francia” per lo chardonnay “l’unica materia prima deigrandi borgogna bianchi francesi”. Il cabernet e lo chardon-nay diventavano agli occhi di un nuovo consumatore cate-gorie di vini, seguiti in questo dal sauvignon blanc, riesling,gewurztraminer, pinot nero e pinot grigio.Questo in qualche modo cambiò anche le carte in tavola perl’Europa, che cominciò ad essere vista dagli americani, o sepreferite dai nuovi mercati, non più come produttrice digrandi vini a Denominazione ma di vini appartenenti allagrande categoria internazionale dei Cabernet.Gli europei considerarono inizialmente tutto ciò un vantag-gio, forti del fatto che solo loro erano in possesso dell’origi-nale e questo avrebbe dovuto mantenere alto il divario tra iloro prezzi e quelli dei nuovi concorrenti.Tuttavia la forte espansione dei nuovi produttori, in partico-lare Australia e Cile, non è dovuta solo all’utilizzo dellavarietà sull’etichetta, che avrebbe potuto portare una mag-giore “facilità” di accesso ai nuovi mercati, ma anche il frut-to di investimenti a tutto campo. Pochi sanno che leUniversità australiane producono circa il 20% di tutta laricerca scientifica vitivinicola ed enologica del mondo; eno-logi australiani ed anglosassoni sono presenti in ogni Paesedel mondo e grazie alla fortunata formula dei flying winemakers impongono un gusto internazionale, più standardiz-zato, o, se volete vederla come loro, più vicino alla gente edal mercato. Sono in possesso di conoscenze tecnologicheall’avanguardia e non sono frenati dalla tradizione e dalle

sue regole. Il loro lavoro, spesso al servizio di grandi multi-nazionali del vino, tuttavia rischia di eradicare il senso delladiversità e dell’origine, che per molti resta il segno distintivopiù forte di un vino alimento parte di una cultura alimentaree non semplice bevanda. Senza il fascino della diversità ilvino rischia di diventare sempre più industriale e sempre piùmonotono.Indicativo in questo senso l’utilizzo di estratti di tannino o ditrucioli di legno di quercia per sostituire gli aromi derivantida una lunga maturazione in barili di legno (barrique): unamoda lanciata nell’emisfero sud ed in California, una prati-ca che in Europa rimane illegale in alcuni Paesi; un meto-do, indubbiamente più economico, che (oggi molti lo ricono-scono) non può sostituire la lenta maturazione nel legno diun grande vino.Anche il marketing della nazione Australia ha raggiuntolivelli impensabili in Europa, al punto che nel 1995 gli indu-striali del vino australiani - in questo aiutati dalla forte con-centrazione produttiva - hanno potuto mettere a punto undocumento strategico esteso su un periodo di 30 anni, dalnome significativo: Vision 2025. In questo programma ildecennio appena iniziato sarà interamente dedicato al mar-keting, con l’obiettivo di sottrarre quote di mercatoall’Europa.Inoltre i vini varietali hanno creato una autentica rivoluzioneanche nella distribuzione: la possibilità di approvvigionarsidi grandi quantità di un’uva, che produce un vino di deter-minate caratteristiche di facile riconoscibilità da parte delconsumatore, rende evidenti i vantaggi di marketing. Contale vino si possono aggredire nuovi mercati con consuma-tori che in gran parte ignorano il vino, proponendo vini chein primo luogo sono divertenti, che associano cioè a ungusto fruttato concentrazione ed armonia, vini “facili o sem-plici” diremmo in termini tecnici.I grandi volumi disponibili permettono l’accesso a canalipromozionali quali la televisione altrimenti preclusi al vino(sia per costo che per massa critica disponibile). Per legrandi compagnie che li producono divengono possibili“miracoli” che il vignaiolo considera improponibili, quali ilsuperamento delle stagioni e del limite del vino quale pro-dotto agricolo soggetto a fattori climatici. Uno Chardonnaydi un certo gusto può essere infatti prodotto in ogni angolodel globo (non per niente grazie alla sua adattabilità èdiventato un vitigno internazionale) ed il consumatoremedio talvolta non ha né il tempo né le conoscenze peroccuparsi del microclima e quindi del valore di un annata diBordeaux o di Chianti - anche se un mercante americanocon base in Francia, Jeffrey Davies, considera un erroreperdere le differenze esistenti tra uno Chardonnay prodottoa Chablis, nord Borgogna, dal gusto asciutto se comparatocon quello ricco e burroso di uno chardonnay della Cote d’Or della stessa Borgogna, solo 160 km più a sud (5).I grandi quantitativi e la standardizzazione rendono possibi-

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(5) Wein war, in Business Week, 3 Settembre 2001, a cura di William Echikson, Frederik Balfour, Kerry Capell, Linda Himelstain, GerryKhermouuch.

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li politiche di marchio e l’accesso alla grande distribuzioneanche con etichette della stessa (Sainsbury’s e Mark &Spencer furono tra i primi). Sono vini che si vendono da see sullo scaffale non necessitano di consulenza per la vendi-ta, in pratica vini che semplificano la vita (“keep life simple”,come recita una campagna promozionale della SOPEXAper i vin de pays francesi presentati con il loro nome di viti-gno). Questo della riconoscibilità, anche per un “beer bum”,un ubriaco di birra, di una etichetta di Chardonnay austra-liano comparata a quella di un Poligny-Montrachet ler Cru,è uno degli elementi maggiormente enfatizzati negli articolidi marca americana. La semplificazione, o banalizzazionese preferite, arriva al punto che una catena distributivaamericana vende vini accuratamente selezionati sotto i 15USD raggruppati in categorie: fizzy, soft, luscious, big.

4.- Le denominazioni: la possibilità di una risposta unica almondo.

Semplificare la vita con fizzy e luscious vuole dire sottomet-tersi alla concorrenza, banalizzare la propria identità.Semplificare vuol dire dimenticare che il sistema produttivodelle D.O. è perfettamente adatto alle nostre strutture diproduzione di tipo familiare (10 ha di superficie media inFrancia, 1,1 ettari in Italia in contrapposizione ai 50 ettari dimedia australiana);dimenticare che le Denominazioni sono in gran parte insuoli poveri, in collina e a volte in montagna, territori “scol-piti” dall’uomo, spesso protetti dall’UNESCO come patrimo-nio mondiale dell’Umanità: Saint-Emilion, Val de Loire,Cinque terre, Alto Douro;dimenticare che le Denominazioni hanno permesso la pre-servazione di un patrimonio viticolo di inestimabile valoreper la biodiversità che sarebbe andato definitivamente per-duto di fronte al successo di una decina di varietà cosidetteinternazionali;dimenticare che il sistema delle D.O. crea un controllo siste-matico delle condizioni di produzione, “forzando” i produtto-ri verso politiche produttive di qualità e conservando al

meglio l’ambiente attraverso uno sfruttamento oculato diterreni e vigneti;dimenticare che vini originali, insoliti e individuali insiemeall’argomento terroir, diventeranno fondamentali per ogniconsumatore veramente interessato al vino; come spiegarealtrimenti lo sviluppo frenetico di questi ultimi anni del turi-smo enogastronomico.Semplificare come ci viene proposto nella bozza di riformadella OCM vino vuol dire smantellare un sistema che haspecificità.

5.- Il passaggio dei vini di qualità verso un sistemaDOP/IGP privato di attributi essenziali

La Commissione europea ha proposto una modifica radica-le della normativa con il passaggio dei vini di qualità prodot-ti in regioni determinate (VQPRD) verso un sistema didenominazione di origine protetta (DOP) e indicazione geo-grafica protetta (IGP). Si ispira a ciò che esiste per i prodot-ti agricoli e agroalimentari come i formaggi, salumi, oli (cfr.reg. CE 510/2006). Purtroppo, la Commissione cortocircui-ta alcuni punti essenziali, che toccano le fondamenta dellalegislazione sulle indicazioni geografiche.La Commissione propone definizioni specifiche per i viniDOP e IGP (6), che differiscono da quelle vigenti per gli altriprodotti agricoli e agroalimentari DOP e IGP (7) e che siallontanano fondamentalmente dall’attuale legislazione suivini. Oggi, perché un vino possa portare il nome di unadenominazione d’origine, occorre che la produzione delleuve e la loro trasformazione in vino avvenga obbligatoria-mente nell’area delimitata della denominazione. LaCommissione elimina il criterio del luogo di trasformazionee mantiene solo il luogo di origine delle uve con la regolaseguente: 100% delle uve della zona = DOP, 85% = IGP.Si tratta di una proposta incoerente e pericolosa per i vini aindicazione geografica. Sulla base della proposta dellaCommissione, la trasformazione (vinificazione) in vino adenominazione d’origine potrebbe svolgersi ovunque, per-sino a centinaia o migliaia di chilometri dal luogo di origine

(6) Definizione prevista per i vini ai sensi della proposta di nuovo regolamento sui vini:«denominazione d’origine», il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designareun (vino) che rispetta le condizioni seguenti:

(1) la cui qualità o le cui caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclu-si i fattori naturali e umani;

(2) le uve a partire dalle quali è prodotto provengono esclusivamente dalla zona geografica;(3) è ottenuto a partire da una varietà di vigna appartenente alla Vitis vinifera.

(7) Definizione per I prodotti agricoli ed alimentari, vigente ai sensi del reg. CE 510/2006:«denominazione d’origine», il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designareun prodotto agricolo o alimentare:

(1) originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese, (2) la cui qualità o le cui caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclu-

si i fattori naturali e umani, e(3) la cui produzione, trasformazione e elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata.

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delle uve. Questo approccio rimette in discussione i fonda-menti delle denominazioni di origine e fa pesare grandirischi in termini di qualità, tracciabilità, ed immagine, suinostri vini locali.

6.- Liberalizzazione degli impianti nel 2013: il rischio di unadestabilizzazione dei vini a denominazione.

La Commissione propone inoltre di abolire il sistema di con-trollo dei diritti di impianto, che esiste dal 1976. Questosistema prevede che i nuovi impianti siano autorizzati sullabase di criteri economici (un produttore che desidera pian-tare deve dimostrare di avere degli sbocchi). LaCommissione sostiene la liberalizzazione degli impianti apartire dal 2013 per tutti i vini.La liberalizzazione degli impianti presenta un rischio didestabilizzazione dell’economia di molte regioni viticoledell’UE, in particolare nelle zone di produzione delle deno-minazioni d’origine. Attualmente, le zone nelle quali è pos-sibile produrre vini a denominazione d’origine sono rigida-mente delimitate sulla base di criteri storici e di criteri lega-ti alla natura del suolo e del clima. In pratica, le superficipiantate all’interno di queste zone sono molto inferiori allasuperficie delle aree delimitate: lo scarto tra le aree delimi-tate e le superfici piantate è attualmente di più di un milionedi ettari (ricordiamo che le vigne europee rappresentano 3,4milioni di ettari). Qualche esempio concreto: la superficie piantata nelleCôtes-du-Rhône potrebbe passare da 61.000 a 120.000ettari, nel Chianti da 17.000 a 35.0000 ha, nella Rioja da60.000 a 350.000 ha, e nel Porto da 45.000 a 250.000 ha.La liberalizzazione degli impianti avrebbe delle conseguen-ze drammatiche nel settore dei vini a denominazione d’ori-gine: sovrapproduzione, crollo dei prezzi, perdita di impie-ghi, perdita del valore patrimoniale dei terreni, rimessa indiscussione degli sforzi qualitativi e delocalizzazione. Tuttoquesto potrebbe mandare in rovina migliaia di viticoltori.La Commissione europea ritiene che il disciplinare di produ-zione di ogni denominazione d’origine permetta di controlla-re l’evoluzione degli impianti, ma quest’analisi è totalmenteerronea poiché il disciplinare si basa sulla zona delimitata enon su quella effettivamente piantata.Oggi, il vigneto non è fossilizzato, ma deve far fronte al pro-blema della circolazione dei diritti di impianto. In alcuni statimembri, i produttori che hanno degli sbocchi hanno difficol-tà ad ottenere dei nuovi diritti. Bisogna autorizzare la liberacircolazione dei diritti di impianto all’interno degli stati mem-bri, mantenendo però un inquadramento degli impianti, chepermetta alle denominazioni e alle aziende che hanno dei

mercati in crescita di svilupparsi e di evitare di perdere ilcontrollo.

7.- L’eliminazione della differenziazione tra i vini attraversol’etichettatura.

La Commissione propone una liberalizzazione notevole delsistema di etichettatura, con una lista limitata di menzioniobbligatorie e una lista di menzioni facoltative. Propone diautorizzare la menzione del vitigno e dell’annata di raccoltasulle etichette dei vini da tavola, ma anche di abolire la pro-tezione concessa alle forme delle bottiglie (molte regioni diproduzione hanno un diritto esclusivo di uso di alcuni tipi dibottiglie, come ad esempio l’Alsazia).I consumatori beneficiano, grazie all’etichettatura, maanche attraverso la forma delle bottiglie, di informazioni utilisui vini. Le etichette devono permettere ai consumatori difare la differenza tra i vini che rispettano degli obblighi spe-cifici (vini con IG) e i vini da tavola che saranno invece total-mente liberalizzati.L’assenza di strumenti di differenziazione condurrebbe allastandardizzazione del vino e nuocerebbe agli sforzi qualita-tivi realizzati dai produttori di vini con IG e alla notorietà chehanno costruito intorno ad alcune menzioni.

8.- La promozione: una proposta inadeguata.

La Commissione propone di mobilitare, attraverso stanzia-

menti nazionali, 120 milioni € all’anno per la promozionedei vini nei paesi terzi. Nella sua proposta, attribuisce 3

milioni di € per la promozione sul mercato interno.Nel suo progetto di testo, la Commissione concentra tutti glistrumenti sui mercati extra UE, e trascura totalmente il mer-cato interno, mercato di predilezione per i produttori euro-pei, che rappresenta più del 67% del mercato mondiale diconsumo del vino. E’ inoltre interessante notare che nel2000 l’Australia ha scelto come strategia di sviluppare da1,88 milioni di hl nel 2000 a 4,38 milioni di hl nel 2010 (8) levendite di vino sul mercato dell’UE.I bilanci proposti dalla Commissione non sono all’altezzadelle attese della filiera: solo il 6% del bilancio attualedell’OCM sarà destinato alla promozione. Inoltre, laCommissione propone una diminuzione progressiva dellapercentuale destinata alla promozione negli stanziamentinazionali (da 19,26% nel 2008 a 14,34% nel 2014).E’ necessaria una proposta più dinamica e ambiziosa, chepermetta di riconquistare i mercati che contano, in partico-lare il mercato interno.

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(8) Cfr. Marketing Agenda 2000-2010, Winemakers’ Federation of Australia and Australian Wine and Brandy Corporation en 2000, inhttp://www.wfa.org.au/PDF/Marketing%20Decade.qxd.pdf

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Commenti

Pubblicità comparativa tra birra echampagne

Nicoletta Rauseo

1.- Con sentenza C-381/05, la Corte di Giustizia ha affron-tato la questione ad essa sottoposta dal TribunaleCommerciale di Nivelles (Belgio), in una controversia chevedeva contrapposta la Ditta belga De Landtsheer ed ilComité Interprofessional du Vin de Champagne e la Soc.Veuve Cliquot Ponsardin. Nella fattispecie, la ditta belgaaveva immesso sul mercato nel 2001 un nuovo tipo di birrarealizzato con un metodo ispirato al vino spumante, deno-minandolo “Malheur Brut Réserve”. Nel vantare le caratteri-stiche del prodotto, la ditta produttrice belga, oltre ad utiliz-zare la dicitura “Brut Réserve”, aveva indicato nell’etichettaaltri messaggi pubblicitari, quali “La première bière BRUTau mond”, “Bière blonde à la méthode traditionelle”,“Reims-France e “Champagnebier”, evocando così le carat-teristiche di fabbricazione del vino spumante e, in particola-re, dello champagne francese.Chiamata in giudizio dinanzi al Tribunale Commerciale diNivelles dal Comité e dalla famosa società francese produt-trice del Veuve Cliquot per la cessazione dell’uso delle pre-dette diciture, ritenute ingannevoli e tali da costituire unapubblicità comparativa illecita, il Tribunale belga, con sen-tenza del 2002, ha vietato alla De Landtsheer l’uso dell’in-dicazione “méthode traditionelle”, della denominazioned’origine “Champagne” e dell’indicazione geografica“Reims-France”, nonché ogni riferimento al metodo di fab-bricazione dello champagne, mentre ha ritenuto lecito l’uti-lizzo delle altre diciture “Brut”, “Brut Réserve”,”Réserve“ e“La première bière BRUT au mond”. Insorte entrambe leparti dinanzi alla Corte d’Appello di Bruxelles, ciascuna perle proprie ragioni (in particolare le società francesi per l’uti-lizzo delle diciture “Brut”, “Brut Réserve”,” Réserve” e “Lapremière bière BRUT au mond”) (1), i Giudici di secondogrado hanno sottoposto alla Corte di Giustizia Europeadiverse questioni pregiudiziali, tra le quali l’interpretazionedegli artt. 2, punto 2 bis e 3 bis n.1, lett. b) e f) della Direttivadel Consiglio 84/450/CEE, relativa alla pubblicità inganne-vole e comparativa.Con la pronuncia in commento (2), la Corte ha esaminato leseguenti questioni.a) se il riferimento, in un messaggio pubblicitario, soltanto

ad un tipo di prodotto e non anche ad un’impresa o ad un

prodotto determinati, sia tale da far rientrare il messaggionella nozione di pubblicità comparativa, di cui all’art. 2,punto 2 bis della direttiva 84/450;

b) se, per stabilire il rapporto di concorrenza tra operatorepubblicitario e un’impresa, si possa prescindere dallaconsiderazione dei beni o servizi offerti dall’impresa. Incaso negativo, se occorre prendere in considerazionenon soltanto lo stato attuale del mercato, ma la possibili-tà di evoluzione dello stesso nel contesto della libera cir-colazione delle merci. Se, in tema di pubblicità compara-tiva, gli art. 2, punto 2bis e l’art. 3bis, n. 1, lett. b) delladirettiva assolvano una medesima funzione o meno;

c) se una pubblicità che faccia riferimento ad un tipo di pro-dotto, senza identificare un concorrente determinato o ibeni che esso offre, sia illecita in base alla disposizionesopra citata, o se la sua liceità debba essere valutata allaluce delle disposizioni nazionali dello stato membro;

d) se, in base all’art. 3bis, n. 1, lett. b) citato, derivi l’illiceitàdi ogni confronto tra prodotti privi di denominazione d’ori-gine a prodotti che ne sono provvisti.

2.- Per comprendere più agevolmente la decisione dellaCorte e per evitare che l’astrazione dei concetti sintetizzatidai quesiti disorienti il lettore, sarà utile esaminare i singoliquesiti, ridando loro concretezza rispetto al caso di speciee armonizzandoli alla luce della disciplina comunitaria intema di pubblicità comparativa.E’ bene, intanto, rammentare che la direttiva 84/450/CEE èstata abrogata dalla Dir. 12 dicembre 2006, n.2006/114/CE, con decorrenza dal 12.12.2007. L’UnioneEuropea ha infatti rilevato che la direttiva 84/450/CEE delConsiglio del 10 settembre 1984, concernente la pubblicitàingannevole e comparativa è stata più volte modificata inmodo sostanziale e che per ragioni di chiarezza e raziona-lizzazione era opportuno procedere alla codificazione ditale direttiva, attese le grandi disparità delle disposizionilegislative vigenti negli Stati membri in materia di pubblicitàingannevole e tenuto conto della necessità di assicurare ilcorretto funzionamento del mercato interno e di evitare ladistorsione della concorrenza. La sentenza in commento si è attenuta alla disciplina attual-mente vigente nell’Unione e segnatamente alla direttiva84/450, così come modificata dalla direttiva 97/55/CE.Nel rispondere alle questioni pregiudiziali ad essa sottopo-ste, la Corte ha fatto riferimento, in particolare, alla defini-zione di “pubblicità comparativa”, contenuta nell’art. 2,punto 2 bis) della Dir. 450/84. Nella disposizione si intendeper tale “qualsiasi pubblicità che identifica in modo esplicitoo implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un con-corrente”. Al fine di stimolare la concorrenza, nei limiti della

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(1) Nelle more del giudizio la De Landtsheer ha dichiarato di rinunciare all’utilizzo della denominazione di origine “Champagne” edall’espressione “Champagnebier”.(2) Sentenza 19 aprile 2007 in causa C-381/05. Il testo integrale della sentenza è pubblicato sul sito Internet della Corte all’indirizzohttp:curia.europa.eu con riferimento a C-381/05 e in Massimario Altalex.

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trasparenza e del corretto funzionamento del mercato, ognioperatore commerciale può lecitamente attuare una pubbli-cità comparativa, mettendo a confronto il suo prodotto conquello del concorrente (in maniera implicita o esplicita),oppure con l’impresa concorrente. Ovviamente, la pubblici-tà comparativa non deve essere ingannevole, nel sensoche non deve indurre in errore le persone alle quali è rivol-ta e non deve ledere il concorrente. In tal senso, l’art. 3 bisdella citata direttiva 84/450, precisa che la pubblicità com-parativa è ritenuta lecita, qualora siano soddisfatte unaserie di condizioni, tra cui la non ingannevolezza del mes-saggio . Il confronto tra i beni o servizi deve soddisfare glistessi bisogni, non causare discredito dei marchi, attività obeni di un concorrente, riferirsi a prodotti aventi la stessadenominazione di origine, non trarre vantaggio indebitodalla notorietà del marchio, della denominazione commer-ciale od altro segno distintivo di un concorrente, o delledenominazioni di origine altrui, non ingenerare confusionetra operatore commerciale e concorrente o tra marchi.

3.- Con il primo quesito, la Corte di Giustizia ha ritenutoche, in un messaggio pubblicitario, il riferimento ad un tipodi prodotto e non invece ad un’impresa o ad un prodottodeterminati può essere considerato pubblicità comparativa,se permette di identificare concretamente tale impresa o ibeni che essa offre. Ai fini del riconoscimento della pubbli-cità comparativa è poi irrilevante che il messaggio pubblici-tario permetta di identificare nello stesso tempo più concor-renti o beni da essi offerti.Quale incidenza può avere tale interpretazione della Cortesulla causa oggetto della decisione? Sebbene i Giudici nonfacciano esplicito riferimento al caso concreto della DeLandtsheer, si può dedurre che il tema della pubblicità com-parativa riferita ad un tipo di prodotto in generale riguardi ladicitura BRUT e BRUT RESERVE, utilizzata nel commerciodei vini spumanti e champagne. Il fatto che la ditta belgaabbia associato il termine Brut ad una birra ed abbia attira-to con tale espressione i consumatori per favorire l’acquistodi un nuovo tipo di birra , vantando caratteristiche originalidel prodotto (“prémière bière brut au monde”) può insostanza costituire pubblicità comparativa, anche se nonviene né identificato altro determinato operatore commer-ciale o altro prodotto determinato. Del resto, va osservatoche il termine BRUT, ancorché sempre riferito ai vini spu-manti (tra cui lo champagne), è un termine utilizzato insenso tecnico, afferendo alla quantità di zucchero contenu-

to nel prodotto spumante (3). Anche il termine Réserve è ingenere attribuito ai vini (ma non necessariamente spuman-ti o champagne) ed è riferito alla qualità del prodotto, inrelazione all’invecchiamento del vino (4). Le due espressio-ni “BRUT” e “RESERVE”, benché riconducibili ai vini o vinispumanti, possono adattarsi a rappresentare un prodotto,quale la birra? Può il loro uso ritenersi neutro rispetto allacategoria dei vini spumanti, qualificandosi la loro indicazio-ne come ulteriore specificazione del prodotto birra? Oppurecostituisce messaggio ingannevole nei confronti dei consu-matori? La pubblicità comparativa tra prodotti diversi puòconfondere il consumatore o eventualmente orientarlo ascegliere tra l’uno e l’altro, sebbene si tratti di beni nonintercambiabili? Insomma, il termine BRUT o RESERVEnell’etichetta di una birra è in grado da solo di modificare leabitudini del consumatore e spingerlo all’acquisto, come sesi trattasse di un prodotto assimilabile per tale caratteristicaal vino? Questo, in parte, il tema della seconda questione affrontatadalla Corte.Dopo aver rammentato che la pubblicità comparativa con-sente di mettere oggettivamente in evidenza i pregi dei variprodotti comparabili ed a stimolare la concorrenza tra forni-tori di beni e servizi nell’interesse del consumatore (comeda direttiva 97/55), la Corte ha affermato che, nel rapportodi concorrenza, deve essere considerato l’attuale stato deimercati e le abitudini al consumo, nonché la loro possibilitàdi evoluzione; la parte del territorio comunitario in cui lapubblicità è diffusa ed infine le caratteristiche del prodottoche l’operatore commerciale intende promuovere. Talevalutazione è rimessa al giudice nazionale, il quale saràtenuto a considerare le eventuali ripercussioni della pubbli-cità comparativa nelle abitudini di consumo, anche in unaprospettiva futura e se le scelte di acquisto da parte deiconsumatori possano mutare anche in funzione dei pregi dideterminati beni o servizi. La Corte ha poi aggiunto che i cri-teri per accertare il rapporto di concorrenza tra imprese, dicui alla nozione della pubblicità comparativa, non sonoidentici a quelli indicati nell’art. 3 bis, n. 1, lett. b) della Dir.84/450, nel senso che tale condizione (confronto di beni oservizi che soddisfino gli stessi bisogni o si propongano glistessi obiettivi) attiene infatti soltanto alla liceità della pub-blicità, ma non anche ad individuare il rapporto di concor-renza tra imprese.La terza questione appare la più importante. Con essa laCorte ha affermato che una pubblicità, che faccia riferimen-to ad un tipo di prodotto, senza identificare un concorrente

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(3) Cfr. Reg. CE 17 maggio 1999 n. 1493/99, Allegato VIII, in tema di designazione, denominazione, presentazione e protezione dei vinispumanti, che impone l’indicazione della menzione relativa al tipo di prodotto determinato dal tenore di zucchero. Si intende Brut se iltenore di zucchero è inferiore a 15 g/l.(4) Secondo la Legge 10 febbraio 1992, n. 164, art. 5, la menzione «riserva» è attribuita ai vini non spumanti che siano stati sottopostiad un periodo di invecchiamento appositamente previsto dal disciplinare di produzione e, di norma, non inferiore a due anni. Il discipli-nare, oltre ad altre eventuali modalità, deve stabilire l’obbligo dell’indicazione dell’annata in etichetta e le regole del suo mantenimentoin caso di tagli fra vini di annate diverse. Secondo il Decreto Presidente della Repubblica 12 febbraio 1965, n. 162, art. 8, l’apposizionesulle etichette dei vini spumanti delle denominazioni «classico», « riserva», « gran riserva», «grande spumante» e delle indicazioni inlingua straniera «brut», «dry» e similari è consentita soltanto per gli spumanti naturali.

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o i suoi beni, non è illecita ai sensi del citato art. 3 bis n. 1,perché tale disposizione si applica solo in presenza di unapubblicità comparativa. Se non sussiste la comparabilità traprodotti o imprese concorrenti, allora non si può configura-re l’illiceità del messaggio pubblicitario alla luce della diret-tiva 84/450 e pertanto la questione della ingannevolezzadella pubblicità dovrà essere valutata in base ad altre dispo-sizioni di diritto nazionale o comunitario.La quarta questione riguarda infine se dall’art. 3 bis n. 1,lett.f della direttiva del 1984 (la pubblicità comparativa nondeve trarre indebitamente vantaggio dalla notorietà connes-sa al marchio, alla denominazione commerciale o ad altrosegno distintivo di un concorrente o alle denominazioni diorigine di prodotti concorrenti) discenda l’illiceità di ogniconfronto che rapporti prodotti privi di denominazione d’ori-gine a prodotti che ne sono provvisti. Il quesito appare dellamassima importanza, ove si consideri che la legislazionecomunitaria tutela le denominazioni registrate contro ognipratica abusiva e vieta categoricamente ogni usurpazione,imitazione o semplice evocazione. Se è vero che la pubbli-cità comparativa deve mettere a confronto in manieraoggettiva i pregi dei diversi prodotti, individuando caratteri-stiche concrete, pertinenti, verificabili, non essere inganne-vole e non rappresentare un bene come imitazione o con-traffazione di un bene protetto da marchio o da una deno-minazione commerciale depositata, non è però escluso chela pubblicità comparativa possa avere luogo anche tra pro-dotti privi di denominazione e quelli che invece la recano.L’essenziale è che la pubblicità non tragga “indebito vantag-gio” dal marchio o denominazione d’origine e che sianosoddisfatte tutte le altre condizioni richieste per la liceitàdella pubblicità comparativa. In sostanza, la legge comuni-taria consente che un operatore commerciale possa lecita-mente confrontare il proprio prodotto privo di denominazio-ne di origine con altro che ne sia provvisto.

4.- Per tornare al caso di specie, la Corte sembra averammesso, in linea generale, la liceità dell’uso di espressio-ni, quali BRUT e RESERVE, proprie dei vini spumanti condenominazione di origine, perché tali espressioni da sole

non configurano un indebito confronto con segni distintivi diprodotti registrati di altri concorrenti.Per quanto concerne il caso Landtsheer, non è possibileprevedere, dopo la pronuncia della Corte di Giustizia, comesarà in concreto risolta la controversia dal Giudice naziona-le. Certamente, la questione esaminata riguarda temi digrande attualità nell’ambito del rapporto di concorrenza traimprese, nella prospettiva della conquista di un mercatosempre più vasto di consumatori.Che la concorrenza riguardi produttori di birra e quelli dichampagne, in tema di pubblicità di prodotti non intercam-biabili merceologicamente, fa riflettere sulla importanza,che assume per l’operatore pubblicitario l’uso del segnogenerico del prodotto di altro imprenditore, al fine di utiliz-zarlo per la presentazione del proprio. Una birra BRUT saràsempre diversa da uno Champagne BRUT: una sempliceaggettivazione, seppure ripresa da un altro tipo di prodotto,non è in grado né di ingenerare confusione, né di orientareil consumatore a preferire l’uno o l’altro. Tuttavia, è da chie-dersi se le diciture BRUT e RESERVE possano – a prescin-dere dal l’ipotesi di pubblicità comparativa – essere appostelecitamente sull’etichetta di una birra, solo per evocarecaratteristiche già appartenenti ai vini e non per indicare iltenore di zucchero ed il grado di invecchiamento della birra.Come si è accennato sopra, esistono normative nazionali ecomunitarie che dettano precise regole per la menzione“Brut” e “Réserve” ai vini con denominazione di origine,spumanti (5) e non, mentre non risulta che per le birre sianoconsentite tali diciture dalle disposizioni vigenti. Va rilevatoche la Corte di Giustizia, con la sentenza in commento, nonè entrata nel merito del caso De Landtsheer, né ha datoindicazioni più precise sul come risolvere in concreto laquestione dell’utilizzazione delle diciture in oggetto nell’am-bito della commercializzazione della birra, al fine di evitareincertezze, rispetto al consumatore, sulle effettive qualitàdel prodotto. Ma questo appare un aspetto diverso del pro-blema, che andrà affrontato in altro ambito, giacché nelfuturo la dicitura BRUT o RESERVE potrebbe essere gene-ricamente usata, per motivi esclusivamente pubblicitari,anche per altre bevande alcoliche o analcoliche.

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(5) In base all’art. 16 del Reg. CE 753 del 29.4.2002 in tema di designazione, denominazione, presentazione e protezione di taluni pro-dotti vitivinicoli, sull’etichettatura dei vini da tavola, dei vini da tavola designati da un’indicazione geografica e dei v.q.p.r.d. possono figu-rare i seguenti termini: a) “secco”, a condizione che il vino di cui trattasi abbia un tenore di zucchero residuo non superiore a: i) 4 g/l, oppure ii) 9 g/l quando il tenore di acidità totale, espresso in g/l di acido tartarico, non è inferiore di più di 2 g/l al tenore di zucchero residuo.

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Budweiser/Bud: un altro episodionel conflitto giudiziale fra marchi edenominazioni di origine

Giuliano Leuzzi

1.- La vicenda giudiziaria.

La complessa ed articolata vicenda giudiziaria in commen-to (1) rappresenta una nuova tappa della contrapposizionetra la compagnia ceca Budejovick’y Budvar (d’ora in avantisoltanto “Budvar”) e l’americana Anheuser-Bush. Uno scontro “diretto”, in questo caso, a differenza del pre-cedente che aveva visto la Anheuser-Busch protagonistasolo “indiretta” dacché parti del giudizio erano la Budvar ela Rudolf Ammersin, quest’ultima società austriaca distribu-trice di bevande alla quale la prima intendeva vietare lacommercializzazione con il marchio “American Bud” di birraprodotta dalla birreria Anheuser-Busch (2). Nel caso di specie, invece, la compagnia ceca, a tutela deipropri marchi internazionali e delle denominazioni di origineregistrate ai sensi dell’Accordo di Lisbona del 1958 (3), èinsorta contro l’iniziativa della società americana di registra-re come marchi comunitari – sia con riferimento a prodottirientranti nella classe 32 (4) (birra, in particolare) che nelleclassi 16, 21, 25 e 30 (cartoleria, utensili e materiali per lacasa, abbigliamento e pasticceria) – i segni denominativi“Budweiser” e “Bud” ed un segno figurativo comprensivodel termine “Budweiser”. Con riguardo agli uni (birra) fon-dando la propria opposizione sull’art. 8 n. 1 lett. b) del

Regolamento (CE) 40-1994, riguardo agli altri basandolainvece sull’art. 8 n. 4 (5). Il Tribunale di primo grado, confermando in tal modo le deci-sioni emesse dalla divisione d’opposizione e dalla commis-sione di ricorso dell’UAMI, ha rigettato il ricorso propostodalla Budvar relativamente ai prodotti diversi dalla birramentre, con riferimento a quest’ultima, la relativa domanda(già oggetto di precedente decisione sfavorevole da partedell’UAMI) è stata ritirata in corso di causa (alquanto avven-tata essa era del resto stata, considerata l’identità dei termi-ni utilizzati e dei prodotti, già tutelati da marchi internaziona-li anteriori).Cercando di sintetizzare l’articolata motivazione delTribunale concernente il rigetto del ricorso, si può rilevareche:a) la Budvar ha superato lo scoglio rappresentato dall’art.

8 n. 4 Reg. 40-94, laddove esso richiede che sia forni-ta prova della portata non puramente locale del con-trassegno (l’Anheuser-Busch aveva peraltro ancherichiesto, ai sensi dell’art. 43 Reg. 40-94, che la Budvardesse prova dell’uso dei suoi marchi internazionali):come infatti osservato dalla commissione di ricorso(con statuizione rimasta incontestata nel giudizio innan-zi al Tribunale) tale prova era stata già fornita conriguardo alla Francia in precedenti procedimenti e nonoccorreva pertanto che essa venisse nuovamente offer-ta (in ogni caso, per quanto si ricava dalla sentenza,prova dell’uso era stata comunque data con riferimentoall’Italia);

b) quanto invece alla prova della tutela (6) delle denomina-zioni di origine da parte degli Stati – Francia, Italia ePortogallo – il cui diritto la Budvar ha dedotto in causa(7), essa non è stata ritenuta raggiunta (anche in talcaso dagli organi dell’UAMI, senza che vi sia stata con-

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(1) Tribunale di primo grado, sentenza 12 giugno 2007 nelle cause riunite da T-53/04 a T-56/04, T-58/04 e T-59/04, cause riunite T-57/04e T-71/04, e cause riunite da T-60/04 a T-64/04. Il testo integrale della sentenza è pubblicato nel sito internet della Corte all’indirizzohttp://curia.europa.eu/jurisp/cgi-bin/form.pl?lang=IT&Submit=rechercher&numaff=T-53/04.(2) Si veda la sentenza emessa dalla Corte di Giustizia il 18.11.2003, C-216/01, in Giust. civ. 2004, I, 1397. Con tale decisione la Corteera stata investita, principalmente, di due questioni: se l’art. 28 CE ed il Regolamento (CEE) del Consiglio 2081/1992 ostino ad unadisposizione di un trattato bilaterale, concluso tra uno Stato membro e uno Stato terzo, ai sensi del quale è attribuita ad una indicazio-ne di origine geografica semplice e indiretta di detto Stato terzo (“Bud”, nella fattispecie), una tutela nello Stato membro importatore indi-pendente da qualsiasi possibilità di inganno e che consenta di impedire l’importazione di un prodotto regolarmente commercializzato inun altro Stato membro; se – inoltre – la medesima normativa comunitaria osti alla disposizione di un trattato bilaterale che ricolleghi glistessi effetti sopra descritti ad una denominazione che non si riferisce né direttamente né indirettamente nel detto paese all’origine geo-grafica del prodotto che essa designa. La risposta della Corte è stata negativa nel primo caso e positiva nel secondo. (3) Si tratta del marchio internazionale denominativo “Budweiser” R 238 203, registrato inizialmente il 5 dicembre 1960 per “birra di ognigenere”, con effetto in Germania, Austria, Benelux e Italia; del marchio internazionale figurativo R 342 157, registrato inizialmente il 26gennaio 1968 per “birra di ogni genere”, con effetto in Germania, Austria, Benelux, Francia e Italia; di quattro denominazioni di origine:“Ceskobudejovické Pivo” (“Budweiser Bier” nella versione tedesca della registrazione), “Budejovické Pivo – Budvar” (“Budweiser Bier -Budvar”), “Budejovick? Budvar” (“Budweiser - Budvar”), “Budejovické Pivo (“Budweiser Bier”).(4) Il riferimento è alle classi stabilite con l’Accordo Internazionale di Nizza del 1957.(5) La Budvar ha potuto proporre opposizione ai sensi del Regolamento comunitario 40-94 in quanto titolare di “marchio registrato in basead accordo internazionale con effetto in uno stato membro” (art. 8 n. 2 a-iii). Al momento della proposizione dell’azione erano firmataridell’Accordo di Lisbona e membri dell’Unione Europea la Francia, l’Italia, il Portogallo, l’Ungheria, la Repubblica Ceca e quella Slovacca. (6) Per “prova della tutela” deve qui intendersi la avvenuta allegazione in giudizio di elementi “di fatto” – normativa e giurisprudenza inprimis – sufficienti a dimostrare l’esistenza di una tutela apprestata dall’ordinamento in questione alle denominazioni di origine (a pre-scindere dalla fondatezza o meno della pretesa dedotta in causa rispetto all’indicato apparato normativo). (7) V. quanto si dirà oltre al par. 3.

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testazione innanzi al Tribunale) con riguardo al dirittoitaliano e portoghese mentre ha avuto esito positivo conriferimento al diritto francese;

c) è il diritto francese a dover esser applicato al caso dispecie e non le disposizioni contenute nell’Accordo diLisbona poiché quest’ultimo, come meglio si vedrà alparagrafo successivo, per un verso, non è idoneo adescluderne l’applicazione e, per altro verso, non videroga poiché non contiene una regolamentazione dimaggior favore rispetto ad esso;

d) il diritto francese – con riguardo a prodotti non simili –tutela le denominazioni di origine, stabilendo che ilnome geografico che le costituisce o ogni altra menzio-ne che le richiami non possano essere usati soltantoqualora l’utilizzazione di essi sia atta ad usurpare o adindebolire la notorietà della denominazione d’origine: laBudvar, tuttavia, non ha fornito prova di tale notorietà epertanto, mancando uno degli elementi essenziali, lasua domanda deve essere respinta.

2.- Diritto francese e Accordo di Lisbona.

Similitudini tra le due ricordate vicende giudiziarie chehanno visto opposte la Budvar e la Anheuser-Busch (que-st’ultima nel primo caso “sotto forma” di Rudolf Ammersin)ve ne sono sotto molti profili. Primo fra tutti, per quanto dispecifico interesse ai fini del presente commento, l’esisten-za di accordi internazionali che concorrono a formare l’as-setto normativo sulla cui base risolvere la controversia (laConvenzione di Vienna del 1978 nel primo caso, l’Accordodi Lisbona del 1958 nel secondo).Tra gli aspetti di maggior interesse della decisione vi è infat-ti certamente quello relativo alla ricostruzione delle diverseinterpretazioni dell’Accordo di Lisbona date dalle parti incausa e, in particolare, il tentativo operato dalla Budvar diassegnare valore assoluto e dirimente all’Accordo diLisbona, tale da ritenerlo prevalente sul (ritenuto applicabi-le) diritto francese.Onde meglio comprendere le argomentazioni portate dallaBudvar è bene tuttavia evidenziare che la decisione difondo, nel ragionamento svolto dall’UAMI prima e dalTribunale poi, è consistita nel ritenere applicabile alla fatti-specie oggetto di giudizio l’art. L. 641-2 del code rural(come ripreso dal code de la consommation): decisioneperaltro contestata dalla Budvar, con argomentazioni tutta-via disattese (8). Il quarto comma di tale norma prevedeinfatti che “il nome geografico che costituisce la denomina-zione di origine o ogni altra menzione che lo richiami nonpossono essere usati per alcun prodotto simile (...) né peralcun prodotto o servizio allorquando tale utilizzazione è

atta a usurpare o ad indebolire la notorietà della denomina-zione d’origine”. Tale disposizione è stata pertanto indivi-duata dal Tribunale (conformemente a quanto era stato giàin precedenza deciso dagli organi dell’UAMI) quale precet-to idoneo a rendere operativa la prescrizione contenutaall’art. 8 n. 4 lett. b) Reg. 40-94 – dedotto a fondamento del-l’opposizione – secondo cui, ricorrendo anche altre condi-zioni, “il marchio richiesto è escluso dalla registrazione se enella misura in cui, conformemente alla legislazione delloStato membro che disciplina detto contrassegno, [questo]dà al suo titolare il diritto di vietare l’uso di un marchio suc-cessivo”.Con riguardo a prodotti non simili la Budvar avrebbe dun-que dovuto fornire la prova della notorietà delle propriedenominazioni di origine nonchè della idoneità della regi-strazione del marchio da parte della Anheuser Busch adusurpare o indebolire detta notorietà.Ebbene, la Budvar ha tentato – non essendo evidentementein grado di fornire tale prova – di sottrarsi all’onere su di essagravante attraverso, in particolare, due argomentazioni.La prima, cui si è sopra accennato, basata sul diritto france-se e vertente sulla invocata applicabilità delle norme delcode de la propriété intellectuelle, in luogo di quelle delcode rural, e precipuamente dell’art. 711-4 lett. d), secondocui “non può essere adottato come marchio un segno chearreca pregiudizio (...) ad una denominazione d’origine pro-tetta”, interpretato dalla Budvar quale preclusione assolutaalla registrazione del marchio comunitario, da partedell’Anheuser-Busch e a danno di una denominazione tute-lata dall’Accordo di Lisbona. Argomento che si riduceva tut-tavia ad una sorta di tautologica deduzione poiché, come èstato osservato dal Tribunale, il problema restava intatto,dovendosi stabilire quando una denominazione può dirsi“protetta” e quando viene ad essa arrecato “pregiudizio”,tornandosi così alla normativa di cui all’art. L. 641-2.La seconda era basata invece sull’Accordo di Lisbona epoggiava sulla considerazione che in tutti i paesi firmatari diesso esiste una normativa analoga a quella ricavabile dalcombinato disposto dei commi 1 e 2 del menzionato art. L.641-2, secondo cui può essere riconosciuta una denomina-zione di origine controllata a prodotti agricoli, silvicoli o ali-mentari solo se, tra le altre condizioni, questi possiedonouna “notorietà debitamente provata” (la Budvar evidenziache essa stessa ha dovuto darne prova nella RepubblicaCeca per ottenere le denominazioni di origine in questione):la conclusione della compagnia ceca è che “le denomina-zioni di origine in questione sono pertanto protette inFrancia per il solo effetto dell’Accordo di Lisbona e, in par-ticolare, del suo art. 1 secondo comma. Quindi, una deno-minazione di origine, venuta in essere in un paese firmata-rio dell’Accordo di Lisbona sarebbe protetta sul territorio

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(8) La Budvar, infatti, con singolare condotta processuale, innanzi al Tribunale ha “rinnegato” la invocazione di tale norma, pur allegatanel corso dei procedimenti svoltisi davanti agli organi dell’UAMI, per sostenere l’applicabilità al caso di specie degli artt. 711-3 e 711-4del code de la propriété intellectuelle. Modifica che il Tribunale ha consentito ma che, appunto, non ha condiviso.

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francese allo stesso modo delle denominazioni nazionali,senza che sia necessario provare che essa beneficia effet-tivamente di una notorietà” (9).In sostanza, quindi, a giudizio della Budvar, l’Accordo diLisbona appresterebbe una più estesa tutela rispetto aldiritto francese e, pertanto – anche alla luce dell’art. 55della Costituzione francese, secondo cui i trattati o accordiregolarmente ratificati avrebbero valore superiore a quellodelle leggi, le quali dovrebbero essere interpretate in con-formità a quelli – di esso e non dell’art. L. 641-2 code ruraldovrebbe farsi applicazione.Tale tesi, con argomenti non privi di rilievo ma anche diqualche problematicità, è stata tuttavia respinta dalTribunale, in adesione alle difese svolte in particolaredall’UAMI.L’obiezione principale è stata diretta a smontare, in radice,l’affermazione secondo cui l’Accordo di Lisbona fornirebbeuna tutela più ampia di quella offerta dal diritto francese. Alcontrario, il Tribunale ha rilevato che è esattamente l’oppo-sto.Per giungere a siffatta conclusione il Tribunale (sia pur unpo’ frettolosamente) ha fatto essenzialmente perno sull’art.3 dell’Accordo di Lisbona – il quale prevede che “la prote-zione sarà garantita contro qualsiasi usurpazione o imita-zione, ancorché l’origine vera del prodotto sia indicata o ladenominazione sia tradotta o accompagnata da espressio-ni come «genere», «tipo», «modo», «imitazione» o simili” –per osservare che “la tutela di una denominazione di origi-ne nei confronti di ogni usurpazione o imitazione si applicaquando i prodotti sono identici o simili” e che (con riferimen-to alla seconda parte della norma) le “precisazioni, tenutoconto dei termini impiegati, hanno un significato solo qualo-ra i prodotti in questione siano identici o simili” (10).A supporto di tale assunto è stato evidenziato che disposi-zione analoga a quella ora richiamata è contenuta nell’art.13 n. 1 lett. b) (11) del Regolamento (CEE) 2081/92 e chenon risulta si sia avuta a riguardo interpretazione difformeda parte della giurisprudenza (12). Particolarmente significa-tivo sarebbe peraltro il richiamo a tale norma poiché essa,posta a confronto con quella di cui alla lett. a) (13), dimostracome, con riferimento ai prodotti non simili, la tutela sia

apprestata da quest’ultima e non dalla precedente.L’Accordo di Lisbona, in conclusione, proprio in virtù del suoart. 3, dovrebbe ritenersi applicabile soltanto alle controver-sie riguardanti prodotti simili e conterrebbe quindi condizio-ni più restrittive di quelle offerte dal diritto francese, il quale,alle condizioni viste (notorietà delle denominazioni e perico-lo di usurpazione o indebolimento), tutela invece le denomi-nazioni anche con riguardo a questioni insorte tra prodottinon simili.Ulteriore obiezione ha poi riguardato il presupposto stessodal quale muoveva la Budvar, laddove questa affermavache, per il solo effetto dell’Accordo di Lisbona, una denomi-nazione di origine “sarebbe protetta sul territorio franceseallo stesso modo delle denominazioni nazionali, senza chesia necessario provare che essa beneficia effettivamente diuna notorietà”.Il Tribunale, richiamando la giurisprudenza prodotta in giu-dizio dalla stessa Budvar (14) e aderendo alla valutazionegià fattane dagli organi dell’UAMI, ha infatti rilevato che“quando è dedotta la protezione di una designazione piùrecente in relazione con prodotti non simili, i giudici france-si richiedono la prova della notorietà di tutte le denomina-zioni di origine, indipendentemente dal fatto che la loro ori-gine sia nazionale o internazionale” (15).Trattasi, in definitiva, di una regola assoluta e inderogabileche – ove vengano in gioco prodotti non simili – trova sem-pre applicazione, tanto con riguardo alle denominazioninazionali che internazionali.Il requiem finale per la Budvar è stato infine cantato (intonalità “ad abundantiam”) facendo riferimento ad un docu-mento dell’8.6.2000 dell’Organizzazione Mondiale dellaProprietà Intellettuale (in verità non molto chiaro, speciequanto ad ambito di applicabilità), la quale amministra (tragli altri, anche) l’Accordo di Lisbona, ove si legge che “leindicazioni geografiche sono sottoposte al principio di «spe-cialità», vale a dire che esse sono protette solo per il tipo diprodotti per cui esse sono effettivamente utilizzate, nonchéal principio di «territorialità», vale a dire che esse sono pro-tette solo per un territorio determinato e sono sottopostealla legge e ai regolamenti applicabili su tale territorio”.

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(9) V. punti 124 e 125 sentenza.(10) V. punti 186 e 187 sentenza.(11) Così recita la norma: “(le denominazioni registrate sono tutelate contro) b) qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche sel’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali «genere»,«tipo», «metodo», «alla maniera» o «imitazione» o simili”(12) In sentenza si richiama soltanto la sentenza della Corte di Giustizia 4.3.1999, causa C-87/97, Consorzio per la tutela del formaggioGorgonzola, in Racc. I-1301.(13) Così recita la norma: “[le denominazioni registrate sono tutelate contro] a) qualsiasi impiego commerciale diretto o indiretto di unadenominazione registrata per prodotti che non sono oggetto di registrazione, nella misura in cui questi ultimi siano comparabili ai pro-dotti registrati con questa denominazione o nella misura in cui l’uso di tale denominazione consenta di sfruttare indebitamente la repu-tazione della denominazione protetta”.(14) Court d’Appel de Paris 15 dicembre 1993 e 17 maggio 2000, aventi rispettivamente ad oggetto le denominazioni “Habana” e“Champagne”. (15) V. punto 154 sentenza.

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3.- Profili di interesse.

Numerosi sono i profili di interesse che la decisione delTribunale contiene. Fra questi, si vuol brevemente soffer-mare la riflessione in particolare su due aspetti: la legge(francese) ritenuta applicabile al caso di specie e la inter-pretazione dell’Accordo di Lisbona.Quanto al primo tema di indagine, si osserva che non appa-re del tutto chiara la ragione per la quale la controversia siastata risolta sulla base del diritto francese (dedotto in causadalla Budvar unitamente, come già detto, a quello italiano eportoghese).Ciò sarebbe avvenuto poiché “conformemente al principiodi territorialità, la tutela delle denominazioni di origine è affi-data al diritto del paese nel quale la tutela è chiesta (sen-tenza della Corte 10 novembre 1992, causa C-3/91,Exportur, Racc. pag. I-5529, punto 12)” (16).In verità, deve in primo luogo osservarsi che nella vicendain esame non vi è, a rigore, “un paese nel quale la tutela èchiesta”, trattandosi di un’azione volta ad impedire la regi-strazione di un marchio comunitario e non, quindi, di unainiziativa che si inserisce nell’ambito di una contesa giudi-ziaria promossa in un determinato paese. Lo stesso richia-mato principio di territorialità sfugge, peraltro, ad un com-piuto inquadramento giuridico posto che risulta affermato,per giunta assai fugacemente, soltanto nella sentenzaExportur citata dal Tribunale (17), ove si legge nulla più dellafrase sopra riportata. Si aggiunga inoltre che tale preceden-te giurisprudenziale concerneva una situazione diversa daquella in commento, essendo stato in quel caso promossoun giudizio in Francia da parte di una società spagnola (inquel caso vi era quindi un paese in cui era stata chiestatutela). E, ancora, si può anzi osservare che, per quantoconsta, non si registrano precedenti analoghi (opposizionealla registrazione di un marchio comunitario da parte di unsoggetto sito in paese non appartenente alla ComunitàEuropea) cui poter fare specifico riferimento.In realtà, non sembra che nella vicenda che ci occupa siastato applicato il diritto del paese ove era stata chiesta tute-la (giacché questo non sussisteva) bensì il diritto sceltodalla Budvar, in relazione al quale essa aveva allegato ade-guati elementi per valutare la tutela offerta dal relativo Statocon riguardo alle denominazioni dedotte in giudizio.Ciò, tuttavia, non pare trovi grande corrispondenza con ilprincipio di territorialità, così come affermato nella sentenzaExportur. Restano dunque perplessità in ordine alla scelta

del diritto applicabile alla controversia, tanto più che la solu-zione adottata non ha neppure fatto perno su circostanze difatto legate al territorio francese (la notorietà delle denomi-nazioni nell’ambito di esso non solo è stata esclusa ma nonè stata neppure minimamente allegata) ma è rimasta inve-ce ancorata a valutazioni di carattere “generale”.Aver escluso a priori che potesse farsi applicazione del dirit-to del paese di origine appare pertanto decisione non privadi problematicità, tanto più in considerazione del fatto che,a mente dell’art. 1 comma 2 dell’Accordo di Lisbona, gli statifirmatari si sono impegnati a “proteggere sui loro territori(...) i prodotti degli altri Paesi dell’Unione particolare, ricono-sciuti e protetti a tal titolo nel Paese d’origine (...)”. Per com-prendere quindi se una denominazione sia protetta o meno,sembrerebbe – a’ termini di tale norma – doversi fare riferi-mento al diritto del paese di origine al fine di verificare sequivi godano effettivamente di tutela (18).Le considerazioni ora esposte vengono poi ad immediata-mente ripercuotersi sul ruolo svolto dallo stesso Accordo diLisbona nel contesto della motivazione. Solo per effetto del-l’ingresso nel processo del diritto francese esso ha infattipotuto costituire oggetto di valutazione (pur senza poi averspiegato nessuna pratica utilità ai fini del decidere). Si fosseapplicato altro diritto, di un Paese estraneo al dettoAccordo, anche quest’ultimo sarebbe restato fuori gioco.Ammettendo ora, invece, che corretta sia stata l’applicazio-ne del diritto francese e, quindi, anche l’invocazionedell’Accordo di Lisbona, si prospetta un ulteriore ordine diconsiderazioni, con particolare riguardo alla delimitazionedell’ambito di applicazione di quest’ultimo.La lettura delle norme in esso contenute lascia infatti più diun dubbio circa l’interpretazione che è stata data dall’UAMIe, successivamente, dal Tribunale. Sul piano strettamentegiuridico, poi, non convince l’argomento utilizzato per con-fortare la tesi cui si è prestata adesione.Al fine di concludere che l’Accordo di Lisbona si applicasolo laddove insorgano questioni concernenti prodotti “simi-li”, si è infatti fatto leva sul suo art. 3 per sostenere che essoavrebbe senso solo se riferito a questi ultimi, come dimo-strerebbe in particolare la precisazione relativa alla irrile-vanza di eventuali espressioni come “tipo”, “maniera” osimili. Sul piano normativo si è inoltre presa a (dirimente)riferimento la normativa prevista dal Regolamento 2081-92,la quale prevede analoga norma all’art. 13 n. 1 lett. b) perdisciplinare invece con distinta regola, alla lett. a), l’ipotesidei prodotti “non simili”.

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(16) V. punto 202 sentenza.(17) In effetti, laddove, anche in altre pronunce, viene fatto richiamo a tale principio, la citazione va sempre e soltanto alla sentenzaExportur (da ultimo si veda anche la recentissima decisione del Tribunale di I Grado del 12.0.07, C-291/03, Consorzio per la tutela delformaggio Grana Padano).(18) La stessa sentenza Exportur, del resto, nell’evidenziare che la Convenzione franco-spagnola del 1973 esplicitamente prescriveval’applicazione del paese di origine in luogo di quello del paese nel quale viene chiesta tutela, pone tale dato in contrasto soltanto con ledisposizioni contenute nell’Accordo di Madrid del 1891 e nella Convenzione di Parigi del 1883 (entrambi modificati da ultimo a Stoccolmanel 1967), mentre, pur prendendo contestualmente in esame l’Accordo di Lisbona, traccia di questo una distinzione attinente tutt’altroprofilo.

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Ebbene, sembra potersi in proposito osservare che l’inter-pretazione letterale della prescrizione di cui all’art. 3 non vaaffatto, necessariamente, nella direzione indicata dalTribunale: la precisazione, cui tanto peso viene attribuito,potrebbe infatti essere riferita soltanto al termine “imitazio-ne”, lasciando l’espressione “qualsiasi usurpazione” libera diessere adattata ad ogni altra possibile evenienza, come delresto l’ampiezza letterale della stessa lascerebbe pensare(sarebbe del resto anche singolare che si fosse stipulato untal accordo tra Stati per lasciare poi priva di regolamentazio-ne una parte così rilevante del problema). Il confronto nor-mativo tra Accordo di Lisbona e Regolamento 2081-92,invece, non sembra correttamente operato: quest’ultimo èinfatti venuto a molti anni di distanza dal primo e nulla esclu-de che la sua formulazione possa esser stata fatta proprioper evitare ogni possibile ambiguità, alla luce dell’esperien-za avuta con la norma contenuta nell’Accordo di Lisbona.A riprova di quanto osservato, del resto, sta la significativa(quasi inquietante) affermazione che si legge in sentenza:“benché l’interpretazione proposta dalla Budvar dei terminidell’Accordo di Lisbona, diretta ad estendere la tutela delledenominazioni a tutti i prodotti, indipendentemente dal fattoche essi siano identici, simili o differenti, corrispondessealla volontà dei redattori di tale accordo, essa avrebbeavuto come conseguenza, al momento dell’adozione delregolamento n. 2081/92, di mettere taluni Stati membri, chesono anche parti contraenti di tale accordo, in una situazio-ne contraddittoria. Infatti, mentre l’art. 13, n. 1, lett. b), delregolamento n. 2081/92 e l’art. 3 dell’Accordo di Lisbonasono redatti in termini quasi identici, la protezione delledenominazioni d’origine registrate a livello comunitario o aisensi dell’Accordo di Lisbona sarebbe notevolmente diffe-rente in seno al mercato unico, per prodotti differenti, aseconda dell’applicazione dell’una o dell’altra delle citatedisposizioni” (19).Ebbene, non può non osservarsi che una volta stabilito (l’af-fermazione è perentoria) che la volontà dei redattori (rec-tius: firmatari) era quella di estendere la tutela a tutti i pro-dotti, simili e non simili, il discorso avrebbe dovuto esserechiuso. Il problema che viene prospettato (disparità in senoal mercato unico) è infatti di tutt’altra natura e produce tut-t’altre conseguenze: esso è sicuramente meritevole diesame ma è certo che la soluzione ad esso non può passa-re attraverso una (dichiaratamente) erronea interpretazionedi una volontà contrattualmente sancita.

Un’ultima considerazione, infine, circa la “notorietà”.Contrariamente a quanto affermato dal Tribunale, non pareaffatto peregrino osservare che – qual che sia la letturaaccolta dell’art. 3 dell’Accordo di Lisbona – la norma conte-nuta all’art. 1 comma 2, sopra già ricordata, sembra potersileggere, più che legittimamente, come volta a sancire la irri-levanza di profili diversi dal rinvio al diritto del paese di ori-gine: godono di tutela i prodotti “riconosciuti e protetti a taltitolo nel Paese d’origine”. Solo se la “notorietà” sarà daquesto richiesta, essa tornerà allora nuovamente in gioco.Dovrà però, a quel punto, riguardare il territorio dellaRepubblica Ceca.Tutto ciò, poi, a prescindere dal fatto, tale da ulteriormenteaccrescere la particolarità della vicenda, che è in discussio-ne un marchio di assoluta notorietà (l’esito negativo disce-so dalla mancata prova, ma, ancor prima, allegazione diessa, resta infatti quasi un mistero): chi, vedendo unamaglietta con la scritta “Budweiser” non andrà con la pro-pria mente alla birra? non è dunque questa (con il permes-so del Regolamento 2081-92) una usurpazione ...?E, ancora, deve rilevarsi che l’Accordo di Lisbona, all’art. 5,contiene una precisa regolamentazione circa la notificadelle registrazioni ai Paesi firmatari e ai termini e modi perproporre opposizione. Così come il successivo art. 6 preve-de che una denominazione di origine registrata ai sensi del-l’art. 5 non può dirsi divenuta generica finché è protettacome tale nel Paese di origine. Tutto ciò induce quindi ulte-riormente a ritenere che, nel peculiare ambito disciplinatodall’Accordo di Lisbona, non vi è luogo ad operare indaginicirca la notorietà dei prodotti, poiché la validità ed efficaciadella denominazione deve accettarsi quale punto fermo enon modificabile (se non, appunto, in quanto divenutagenerica nel Paese di origine o esclusa a seguito di unaprocedura di opposizione) (20). La verifica della notorietàposta a carico del titolare della denominazione viene inve-ce a tradursi in una vanificazione dell’art. 6 dell’Accordo diLisbona: in altre parole, non è chi difende la propria deno-minazione a doverne provare la notorietà su territori altruibensì chi l’aggredisce a doverne provare la intervenutagenericità nel Paese di origine.I problemi sollevati dal caso sottoposto all’attenzione delTribunale non sembrano insomma essere né pochi né dipoco momento. Ed il tutto è aggravato dal fatto che, comespesso (se non sempre) accade, anche le possibili rispostenon sono certo da meno.

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(19) V. punto 191 sentenza.(20) In tal senso, del resto, si può leggere la pronuncia della Corte di Cassazione del 28.11.1996 n. 10587, la quale – peraltro sempre inmateria di “birra” (il caso della birra Pilsner) – ebbe a statuire che “il titolare di una registrazione di denominazione di origine infatti, vali-da nel nostro paese, che ha sottoscritto al convenzione e l’ha resa esecutiva con legge, se pure non ha diritto alla assoluta insindaca-bilità successiva, affermata dalla ricorrente contro il significato letterale del citato art. 6 dell’arrangement [Accordo di Lisbona], può van-tare tuttavia, in base ad essa, una presunzione di legittimità del suo uso. Rispetto al quale chiunque ne invochi il sindacato giudiziario,allegando la mancanza del presupposto stesso della tutela, ovvero la mancanza del “milieu”, deve dare la prova di quanto afferma”. Ariguardo v. anche V. Franceschielli, Le denominazioni di origine di paesi stranieri e gli obblighi internazionali dell’Italia: a proposito delcaso Pilsner in Riv. dir. ind. 1997, 6, 376.

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ABSTRACT

Budweiser/Bud: a new step in the dispute betweentrade marks and geographical indications.

New stage in the judicial dispute between Budejovick’yBudvar and Anheuser-Busch with regards to the trademark“Budweiser”. The Court of First Instance has rejected theopposition made by Budvar (for the protection of their owndenominations of origin registered under the Agreement ofLisbona) to the application of Anheuser-Busch to register asCommunitarian Trademark – with reference to various prod-ucts different from beer (included in Classes 16, 21, 25 and

30) – the signs “Budweiser” and “Bud” and a figurative signcomprehensive of the term “Budweiser”. It was instead with-drawn by the American company during the proceedings asimilar application made with reference to the productsfalling within Class 32 (beer, in particular). The oppositionwas rejected because the Budvar has not provided proof ofnotoriety, on French territory, of their own denominations oforigin. The comment proposes a brief critical reflection inorder either to the choice of law (French) applied by theCourt to solve the dispute or to the given interpretation ofthe Agreement of Lisbona.

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(1) Sentenza Corte di Giustizia 16 maggio 2000, causa C-388/95 in Racc. 2000, p. I-03123.(2) D.M. 29 maggio 2001 “Controllo sulla produzione dei vini di qualità prodotti in regioni determinate (V.Q.P.R.D.)”, pubbl. in G.U. 20 giu-gno 2001, n. 141. Il decreto è stato ora abrogato dal più recente D.M. 29 marzo 2007, “Disposizioni sul controllo della produzione dei vinidi qualità prodotti in regioni determinate (V.Q.P.R.D.)”, in G.U. 17 aprile 2007, n. 89.(3) D.Dirett. 21 marzo 2002 “Approvazione dello schema di piano dei controlli, delle relative istruzioni e del prospetto tariffario ai fini del-l’applicazione del D.M. 29 maggio 2001, recante il controllo sulla produzione dei vini di qualità prodotti in regioni determinate (V.Q.P.R.D.),pubbl. in G.U., 10 aprile 2002, n. 84. Anche questo decreto è stato abrogato dal più recente D.M. 29 marzo 2007.(4) D.M. 31 luglio 2003, “Sospensione del termine previsto dall’art. 4, comma 4, del citato decreto ministeriale 29 maggio 2001, concernen-te il controllo sulla produzione dei vini di qualità prodotti in regioni determinate (V.Q.P.R.D.)”, in G.U. 21 agosto 2003, n. 193.

Consorzi di tutela dei vinie controlli erga omnes

Elvira Carretta

1.- I decreti di conferimento ai Consorzi di tutela dell’incaricodi controllo cd. erga omnes.

Ad alcuni anni di distanza dalla nota sentenza della Corte diGiustizia sul vino Rioja (1), che ha individuato nella collettivitàorganizzata dei produttori il naturale e più adeguato tutoredella qualità e della reputazione delle denominazioni di origi-ne, si avvia a conclusione anche in Italia un’altrettanto com-plessa vicenda giudiziaria, in esito alla quale i giudici nazio-nali sembrano allinearsi, in materia di controllo sulla filieradei vini a denominazione, ai principi di rappresentatività esussidiarietà che hanno ispirato la Corte del Kirchberg.La questione disputata è quella della legittimità dell’affidamen-to ai Consorzi di tutela di poteri di controllo cd. erga omnes,ovvero nei confronti di tutte le imprese, ancorché non sociedel consorzio, appartenenti alla filiera produttiva e commercia-le del vino d.o.c. o d.o.c.g. di rispettivo interesse. E’ il caso di rammentare, per chiarezza espositiva, le iniziativeministeriali in tema di controlli sulle denominazioni di origine,da cui ha preso le mosse la vicenda giudiziaria in discorso.Con D.M. 29 maggio 2001 (2) il Mipaf ha affidato “il controllosu tutte le fasi di produzione dell’uva e della sua trasforma-zione in vino e della presentazione al consumo dei viniD.O.C. e D.O.C.G., anche al fine di garantire la tracciabilità”

ai Consorzi di tutela riconosciuti, che siano a ciò apposita-mente incaricati dal Mipaaf stesso. L’art. 4 del decreto ha specularmente disposto che “I parteci-panti alla filiera produttiva che intendono utilizzare una speci-fica menzione distintiva di qualità e tracciabilità sono sotto-posti al controllo del consorzio di tutela appositamente incari-cato” ed ha altresì posto esplicitamente a carico “di tutti isoggetti appartenenti alla filiera, in proporzione ai quantitativicontrollati” i costi sopportati dai Consorzi per l’espletamentodell’attività di controllo.Con D.Dirett. 21 marzo 2002 (3), il Mipaf ha approvato il model-lo di piano dei controlli che ciascun consorzio candidato al con-ferimento dell’incarico di cui al D.M. 29 maggio 2001 è tenuto apredisporre, piano nel quale devono in particolare essere speci-ficate le modalità delle verifiche, documentali ed ispettive, perciascuna fase del processo produttivo, nonché le azioni corretti-ve per il trattamento delle ipotesi di non conformità. Al contempo, il Ministero ha contenuto le tariffe applicabili aisoggetti controllati dai Consorzi entro importi minimi e massi-mi e li ha differenziati per categoria di soggetto controllato.Nel termine di presentazione delle domande di conferimentodell’incarico di controllo - dapprima fissato dall’art. 4, comma4, del D.M. 29 maggio 2001 in sei mesi dalla propria entratain vigore, più volte prorogato ed infine sospeso con D.M. 31luglio 2003 (4) - 28 Consorzi di tutela complessivamente, tra iquali l’Ente Tutela Vini di Romagna, l’Istituto Marchigiano diTutela, il Consorzio di tutela del Vino Frascati, il Consorzio ditutela per l’Asti, il Consorzio di Tutela dei vini Colli Euganei, ilConsorzio di tutela del Prosecco di Conegliano-Valdobbiade-ne, hanno avanzato la propria candidatura. Con molteplici decreti direttoriali, per lo più pubblicati nellaprima metà del 2004, il Ministero ha proceduto al conferi-

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mento dell’incarico di controllo ai Consorzi richiedenti, con ri-ferimento alle denominazioni di origine di rispettivo interesse.Con D.M. 4 agosto 2006 (5) il Mipaaf ha infine riaperto e pro-rogato i termini di presentazione delle domande di incaricoed ha affidato all’Ispettorato Repressione Frodi, funzioni divigilanza sull’attività dei Consorzi di tutela affidatari dei com-piti di controllo cd. erga omnes.

2.- Il ricorso di alcuni produttori alla giustizia amministrativa.

All’indomani dell’emanazione dei decreti direttoriali di confe-rimento dell’incarico di controllo cd. erga omnes ai Consorzitempestivamente candidatisi, alcune aziende vitivinicole ita-liane – in larga maggioranza non associate, ma talune, para-dossalmente, anche affiliate a Consorzi di tutela - hanno rite-nuto di adire il T.A.R. Lazio avverso tali provvedimenti mini-steriali. Ciò è accaduto, in particolare, per i decreti relativi aivini Frascati, Prosecco, Asti, Colli Euganei, nonché ai vini adenominazione prodotti nelle Marche ed in Romagna.Nelle more dei giudizi di impugnazione avverso i dettidecreti, il Ministero ha adottato il citato D.M. 4 agosto 2006.Anche tale provvedimento è stato oggetto di impugnazioneda parte di un’ associazione di produttori di vini a denomina-zione d’origine.Le doglianze di questi produttori, comuni nella sostanza atutti i ricorsi, hanno investito sia i decreti direttoriali, sia gli attipresupposti richiamati al precedente par. 1, rispetto ai qualisono stati lamentati principalmente: 1) l’asserita violazione della legge 164/92 (6), il cui art. 19,comma 1, prevede che il Ministero possa affidare ai Consor-zi volontari di tutela – rappresentativi di almeno il 40% deiproduttori e della superficie iscritta all’albo dei vigneti delladenominazione di origine (ovvero il 50% della produzione sevini spumanti o liquorosi) – l’incarico di collaborare alla vigi-lanza sull’applicazione della legge stessa nei confronti deisoli affiliati al Consorzio;2) l’asserita violazione dell’art. 23 Cost., per avere i provvedi-menti impugnati addossato ai soggetti controllati un onere fi-nanziario, ovvero i costi dell’attività di controllo, che non tro-verebbe fondamento alcuno in disposizioni di legge.3) l’asserita violazione dell’art. 97 Cost. e del principio di im-parzialità e buon andamento della P.A. Ad avviso dei ricorrentii Consorzi volontari di tutela non garantirebbero, infatti, la ter-zietà necessaria ad operare controlli sui non affiliati, essendoespressione di aziende con questi in diretta concorrenza. I giudizi così incardinati innanzi al T.A.R. Lazio sono stati re-

centemente definiti con sentenze di rigetto, tutte pressochéidentiche nella motivazione (7).

3.- Le decisioni del T.A.R. Lazio.

Con le pronunce in commento il T.A.R. Lazio ha respinto i ri-corsi, accogliendo integralmente le eccezioni del Ministeroresistente e dei Consorzi di tutela, costituitisi in giudizio qualicontrointeressati.Nel disattendere le tesi dei ricorrenti, il T.A.R. ha in primoluogo evidenziato l’erroneità del richiamo, in riferimento allenuove attribuzioni dei Consorzi, all’art. 19, comma 1, legge164/92, giacché sono piuttosto l’art. 19, comma 3, ed il suc-cessivo art. 21 della medesima legge ad assumere determi-nante rilievo al riguardo.L’art. 19, comma 3, legge 164/92 prevede che i Consorzi vo-lontari costituiti in conformità con la legge possano, su lororichiesta e mediante apposito decreto ministeriale, essereautorizzati a svolgere talune attività elencate nell’art. 21.Correlativamente, l’art. 21, comma 1, legge 164/92 stabilisceche i Consorzi volontari a ciò autorizzati «hanno il compito diorganizzare e coordinare le attività delle categorie interessatealla produzione ed alla commercializzazione di ciascuna deno-minazione di origine o indicazione geografica tipica, nell’ambi-to delle proprie specifiche competenze, ai fini della tutela e del-la valorizzazione delle denominazioni o indicazioni stesse». E’ nell’ambito di tale attività di “organizzazione e coordina-mento” che il giudicante ha ritenuto di ricondurre i compiti dicontrollo c.d. erga omnes.La persuasività delle conclusioni del giudice amministrativo èavvalorata dall’analisi delle finalità assegnate dall’art. 21,comma 2, all’attività di “organizzazione e coordinamento”,nonché degli adempimenti in cui, alla luce di quelle finalità,essa finisce in concreto per tradursi.Recita, infatti, il comma citato che «L’attività dei consorzi edei consigli di cui al comma 1, si svolge a) a livello tecnico,per assicurare corrispondenza tra gli adempimenti operativicui sono tenuti i produttori e le norme dei disciplinari di pro-duzione; b) a livello amministrativo, per assicurare la tuteladella denominazione o indicazione dal plagio, dalla slealeconcorrenza, dall’usurpazione e da altri illeciti, anche costi-tuendosi parte civile nei procedimenti penali di cui all’art. 17,comma 9, d’intesa con le regioni».L’ampia formula dell’articolo è idonea a racchiudere in sé tutti icompiti di controllo nel dettaglio definiti dal D.M. 21 marzo 2002,costituendo così per quest’ultimo un preciso aggancio normativo.

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(5) D.M. 4 agosto 2006. “Vigilanza sul controllo della produzione dei vini di qualità prodotti in regioni determinate (V.Q.P.R.D.)” in G.U. 17agosto 2006, n. 190.(6) Legge 10 febbraio 1992, n. 164, Nuova disciplina delle denominazioni d’origine.(7) Si tratta di ben dieci sentenze, tutte pubbl. sul sito www.giustizia-amministrativa.it: T.A.R. Lazio, sez. II Ter, n. 3406/2007, n. 3407/2007,n. 3411/2007, n. 3412/2007, n. 3414/2007, n. 3415/2007 del 18 aprile 2007; n. 4817/2007 del 24 maggio 2007; n. 5495/2007 del 15 giu-gno 2007; n. 6685/2007 e n. 6686/2007 del 18 luglio 2007.

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Invero, da una parte le verifiche ispettive di processo pressole aziende agricole produttrici di uva e presso le aziende ditrasformazione, di imbottigliamento e confezionamento del vi-no, volte ad accertare il rispetto delle regole enologiche deidisciplinari di produzione (8), richieste ai Consorzi dal D.M. 21marzo 2002 sono perfettamente sussumibili nella categoriadelle operazioni di tipo «tecnico» per «assicurare corrispon-denza tra gli adempimenti operativi cui sono tenuti i produttorie le norme dei disciplinari di produzione»; dall’altra, l’ acquisi-zione di dati documentali volti a conoscere la reale situazionedei vigneti, dei potenziali produttivi, delle giacenze, dellequantità imbottigliate, parimenti richiesta dal decreto sembracoincidere con l’attività di tipo “amministrativo” per «assicura-re la tutela della denominazione o indicazione dal plagio, dal-la sleale concorrenza, dall’usurpazione e da altri illeciti». Del resto, anche sul piano sistematico sarebbe irragionevoleinterpretare l’art. 21 legge 164/1992 nel senso che esso pre-tenda dai Consorzi la protezione della denominazione da ille-citi concorrenziali (plagio, usurpazione, etc.), e quindi unafunzione di garanzia del corretto operato di ciascun apparte-nente alla filiera, sia nei confronti degli imprenditori concor-renti, che nei confronti del pubblico dei consumatori, senzatuttavia consentire ai medesimi di effettuare controlli sui sog-getti di cui devono garantire l’operato.Tanto più che l’art. 7 del regolamento attuativo della legge164/92, adottato con D.M. 4 giugno 1997, n. 256 (9), commi-na specifiche sanzioni a carico dei Consorzi che non assol-vono adeguatamente alle funzioni di garanzia loro affidate,sanzioni consistenti nella sospensione o revoca della auto-rizzazione ministeriale allo svolgimento delle funzioni stesse.Quanto ai destinatari delle attività di “organizzazione e coor-dinamento” - e dei concreti adempimenti in cui i decreti di at-tuazione le declinano - già il tenore dell’art. 21 lascia ben po-co spazio a fraintendimenti, definendo le attività come rivoltenon agli affiliati, bensì alla globalità delle «categorie interes-sate alla produzione ed alla commercializzazione» della de-nominazione di origine di rispettivo interesse, siano essi viti-coltori, vinificatori, o imbottigliatori.Ma è ancora una volta l’analisi delle finalità delle attività in di-

scorso a convincere il giudicante, il quale sottolinea come siail perseguimento degli obiettivi di «assicurare corrispondenzatra gli adempimenti operativi cui sono tenuti i produttori e lenorme dei disciplinari di produzione» e di «assicurare la tute-la della denominazione o indicazione dal plagio, dalla slealeconcorrenza, dall’usurpazione e da altri illeciti» ad imporreche le attività di “organizzazione e coordinamento” si espleti-no nei confronti di tutti gli appartenenti alla filiera.Stabilita così la biunivoca relazione tra incarico di controllocd. erga omnes e art. 21 della legge 164/92, riesce sempliceal giudice disattendere anche il secondo motivo di ricorso,ovvero quello di violazione dell’art. 23 Cost. per avere l’auto-rità amministrativa asseritamente addossato gli oneri di eser-cizio dei controlli su tutti i soggetti controllati, sebbene ciònon fosse previsto da norma avente rango di legge.E’, infatti, sempre l’art. 21, comma 4, a demandare al Mini-stero di stabilire le condizioni per consentire ai Consorzi au-torizzati lo svolgimento delle attività elencate nello stesso ar-ticolo; nel legittimo esercizio di tale potere regolamentare,quindi, il Ministero ha previsto a carico dei soggetti non affi-liati la copertura, secondo tariffe predeterminate, dei costi diesercizio dei controlli, mentre qualsiasi altra spesa di funzio-namento dei Consorzi e di ulteriori e diverse attività deglistessi, quelle che il giudice definisce “consortili stricto sen-su”, restano a carico dei soli affiliati, i quali versano all’uopoun distinto contributo consortile.Con riguardo, infine, alla pretesa violazione dell’art. 97 Cost,anche tale motivo di ricorso è stato specificamente valutato erespinto dai giudici amministrativi.Secondo le sentenze in commento, contrariamente a quantoargomentato dai ricorrenti, il sistema dei controlli cd. ergaomnes appare improntato ad un’intima logica di imparzialità.Tale prerogativa del sistema emerge già dalla circostanzache la funzione di tutela della denominazione si traduce inattività di cui si avvantaggiano tutti i soggetti della filiera inmodo necessariamente indistinto, e come tale è qualificabile(e dal giudice amministrativo è stata espressamente qualifi-cata), come funzione di natura pubblicistica.Non senza rilievo sotto il profilo della dovuta terzietà è anche

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(8) Recita l’Allegato 1 del D.M. 21 marzo 2002:«…Il piano dovrà prevedere due tipologie di attività, strettamente collegate e conseguenti:

a) attività di conoscenza della denominazione, basata sulle seguenti azioni obbligatorie: acquisizione dei dati relativi alla docu-mentazione obbligatoria per gli utilizzatori della Docg/Doc, ivi compresi quelli necessari per la conoscenza dei movimenti interni alla deno-minazione. Tali dati consentiranno di conoscere in ogni momento la situazione reale della denominazione: vigneto, produzione di uva, gia-cenze, prodotto imbottigliato. Questa conoscenza permetterà di attuare il controllo di rispondenza quantitativa tra produzione e commer-cializzazione di ogni singola azienda e dell’intera denominazione. Su questi dati si baseranno inoltre le attività relative alle verifiche di con-formità;

b) attività di verifica di conformità delle azioni degli utilizzatori della Docg/Doc alle disposizioni dei disciplinari di produzione,esplicate attraverso: verifica della rispondenza quantitativa delle denunce di produzione, delle richieste di certificazione di idoneità (conparere di conformità obbligatorio), delle partite imbottigliate; verifiche ispettive di processo presso le aziende agricole produttrici di uva,presso le aziende di trasformazione delle uve, presso le aziende di imbottigliamento e confezionamento. Tali verifiche sono effettuate an-nualmente su un campione significativo pari ad un minimo del 25% della produzione rivendicata, con l’eccezione della verifica ispettiva re-lativa alla resa di uva massima ad ettaro, del 15% (*)…». (9) D.M. 4 giugno 1997, n. 256 “Regolamento recante norme sulle condizioni per consentire l’attività dei consorzi volontari di tutela e deiconsigli interprofessionali delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche tipiche dei vini”, in G.U. 5 agosto 1997, n. 181.(10) Ordinanza T.A.R. Lazio n. 2247/2004 del 26 aprile 2004, pubbl. sul sito www.giustizia-amministrativa.it .

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l’assenza di un intento speculativo nell’operato dei Consorzi,enti che per legge e per statuto sono tenuti a non perseguirealcuno scopo di lucro. Né infine – e l’argomento è decisivo - manca un preciso riferi-mento letterale a supporto delle precedenti considerazioni,giacché l’art. 6, comma 2, del sopracitato D.M. 4 giugno1997, n. 256 fa esplicito divieto ai Consorzi di applicare tratta-menti differenziati nei confronti delle aziende non associate.

4.- Conclusioni.

Le sentenze in commento forniscono spunti per talune, pursintetiche in questa sede, riflessioni sulla natura dei Consorzidi tutela.La giurisprudenza interpreta, infatti, la normativa di settorenel senso che essa, sebbene preveda la costituzione deiConsorzi in forma di organismi volontari di carattere associa-tivo, assegni, tuttavia, agli stessi funzioni che trascendonol’interesse particolare degli associati, per assumere un rilievocollettivo e, dunque, eminentemente pubblicistico.Già alcuni anni prima delle pronunce in commento, in altraanaloga controversia relativa all’incarico di controllo affidatoal Consorzio di tutela del vino Frascati doc, il T.A.R. Lazio harigettato l’istanza di sospensiva del decreto direttoriale diconferimento dell’incarico, sul presupposto che «i Consorzivolontari di tutela svolgono funzioni lato sensu pubblicisti-che» (10). Oggi, la Corte, abbandonata anche l’ambiguità del-la formula «lato sensu», si spinge nelle sentenze in com-mento a definire i Consorzi senza più vaghezza alcuna, quali«enti senza scopo di lucro, cui il citato art. 21 della L. n. 164del 1992, ha conferito funzioni pubblicistiche di tutela delladenominazione di origine» (11).Ciò, peraltro, proietta i Consorzi di tutela italiani in una di-mensione europea, dove da una parte, come testualmenterammentato proprio nelle premesse del D.M. 29 maggio2001 istitutivo del sistema dei controlli cd. erga omnes, laCorte di Giustizia con la già citata sentenza Rioja «ha sanci-to l’opportunità di un sistema che coinvolga direttamente isoggetti del processo produttivo»; dall’altra, esistono, a livel-lo nazionale, significativi esempi di soggetti organizzati,espressione del mondo della produzione, che esercitanocompiti di stampo pubblicistico in materia di tutela e valoriz-zazione delle denominazioni di origine.

Si prenda per tutti il caso dei Consejos Reguladores in Spa-gna: essi, per decenni qualificati come «organos desconcen-trados » delle Consejerias de Agricultura delle singole Co-munità Autonome, possono oggi avere, dopo la riforma dellalegislazione vitivinicola del 2003, natura sia privata, sia pub-blica, a discrezione delle Comunità Autonome alle quali com-pete l’applicazione della normativa statale, ma nondimenodevono sempre ispirarsi, nella struttura e nel funzionamento,al principio di un loro «funcionamento sin ánimo de lucro» edi una «representitividad de los interes económicos y sectio-riales integrados en el VCPRD, con especial contemplaciónde los minoritarios, debiendo existir paridad en la represen-tación de los diferentes intereses en presencia» (12). Da ultimo, preme rammentare, per completezza, che conD.M. 29 marzo 2007 il Mipaaf ha ritenuto terminata con suc-cesso la sperimentazione del sistema di controllo c.d. ergaomnes intrapresa con il D.M. 29 maggio 2001 ed ha conse-guentemente esteso tale sistema a tutti i V.Q.P.R.D. italiani,almeno sino alla auspicata riforma strutturale della legislazio-ne vitivinicola italiana (13).

ABSTRACT

In 2004 the Italian Ministry of agricultural policies issuedsome decrees empowering a certain number of “Consorzi ditutela” - associations of wine producers and sellers whosescope is to protect the quality and reputation of wines withdesignation of origin – to carry out controls (both administra-tive control on relevant documents and technical control ofthe product by chemical analysis) on all the vine growers,wine makers and wine sellers of related wines with designa-tion of origin (amongst which, for example, the Asti d.o.c.g.,the Frascati d.o.c., the Prosecco di Conegliano e Valdobbi-adene d.o.c.g., the wines with designation of origin producedin the regions of Marche and Romagna).Some wine producers, subject to the new controls by the“Consorzi di tutela”, claimed against the mentioned decreesbefore the T.A.R. Lazio (the Administrative Tribunal of Lazio),but the Court dismissed the claims ruling that the Ministry, byissuing the claimed decrees, had correctly and lawfully imple-mented the Italian law n. 164/92 setting forth the general disci-pline for the protection of wines with designation of origin.

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(11) Così la sentenza T.A.R. Lazio n. 4817/2007del 24 maggio 2007, cit. supra.(12) Art. 25 della Ley 24/2003 de 10 de julio de la Viña y del Vino, in B.O.E. núm 165 de 11 julio 2003.(13) D.M. 29 marzo 2007 “Disposizioni sul controllo della produzione dei vini di qualità prodotti in regioni determinate (V.Q.P.R.D.)”

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Profili sanzionatori in materia vitivinicola

Francesco Aversano

1. Premessa

La vigente disciplina comunitaria del settore vitivinicolo (1) sideve - com’è noto - al reg. Ce n. 1493 del Consiglio del 17maggio 1999 inerente il controllo e l’orientamento del po-tenziale vinicolo (2), emanato per una migliore gestione deidiritti di impianto e reimpianto (e, dunque, applicabile ancheagli atti di disposizione collegati) (3), per la riconversione ela ristrutturazione dei vigneti, infine, per disciplinare “profilipiù specifici del comparto quali la produzione, la circolazio-ne e l’immissione in consumo dei prodotti viticoli oltre allepratiche enologiche” (4). Lo stesso legislatore comunitariosottolinea la peculiare difficoltà della materia, lì ove, al con-siderando n. 10 del provvedimento, evidenzia che “le nor-me sull’organizzazione comune del mercato vitivinicolo so-no estremamente complesse; che in alcuni casi non tengo-no sufficientemente conto delle diversità regionali; che, nel-la misura del possibile, tali norme devono essere pertanto

semplificate e la politica nel settore deve essere sviluppatae applicata al livello più vicino possibile al produttore nelcontesto comunitario”.Quant’anzi ha determinato la necessità di provvedimentinazionali che, in attesa del nuovo regolamento comunitarioin corso di approvazione (5), si sono posti ad integrazionedel vigente portato normativo comunitario, con un’influenzadeterminante soprattutto per gli aspetti sanzionatori. In par-ticolare la legge n. 82 del 20 febbraio 2006, in ossequio allanormativa comunitaria, ha introdotto le “Disposizioni di at-tuazione della normativa comunitaria concernente l’Orga-nizzazione comune di mercato (OCM) del vino” (6), ponen-do definizioni, divieti, obblighi e, appunto, sanzioni collegateal precedente d. l.vo del 10 agosto 2000, n. 260 (7), chedetta le “Disposizioni sanzionatorie in applicazione del re-golamento (CE) n. 1493/99, relativo all’organizzazione co-mune del mercato vitivinicolo, a norma dell’articolo 5 dellaL. 21 dicembre 1999, n. 526”.Su questi tre assi si muove per larga parte l’attuale discipli-na del settore, che, in attesa della riforma, mira a protegge-re interessi risalenti alle categorie dei produttori e dei con-sumatori, garantendo la protezione di beni giuridici quali lalealtà commerciale per la migliore trasparenza nel mercato

(1) Sulla materia si veda A. Germanò, L’organizzazione comune di mercato del vino (Regolamento 17 maggio 1999 n. 1493/1999) dal-l’angolo visuale di uno dei PECO: la Polonia, in RDA, 2000, I, 570.(2) Occorre sottolineare che la materia è oggetto di una prossima riforma, che inciderà in maniera determinante su tutto l’assetto dell’at-tuale disciplina. La Commissione delle Comunità Europee, in data 4.7.2007 COM(2007), 372 definitivo, 2007/0138 (CNS), ritenendonecessaria una rivisitazione della disciplina del settore, ha formulato una “Proposta di Regolamento” relativa proprio alla “organizzazionecomune del mercato vitivinicolo e recante modifica di alcuni regolamenti”. Questo intervento si deve ad un’emergente valutazione, tradot-tasi nelle fondamentali considerazioni espresse nei considerando nn. 3 e 4 della Proposta, ove si legge che “non tutti gli strumenti attual-mente previsti dal regolamento (CE) n. 1493/1999 si sono rivelati efficaci nel guidare il settore verso uno sviluppo competitivo e sosteni-bile. Le misure dei meccanismi di mercato, come la distillazione di crisi, si sono rivelate inefficaci sotto il profilo dei costi, nella misura incui hanno incoraggiato il prodursi di eccedenze strutturali senza indurre alcun miglioramento nelle corrispondenti strutture competitive.Alcune delle misure regolamentari in vigore hanno inoltre ostacolato indebitamente le attività dei produttori competitivi”. In buona sostan-za, il Legislatore comunitario rileva un parziale fallimento della vigente legislazione, rispetto agli obiettivi prefissati, ossia che “l’attualequadro normativo non sembra consentire di raggiungere, in maniera sostenibile, gli obiettivi dell’articolo 33 del trattato, in particolare lastabilizzazione del mercato vitivinicolo e l’assicurazione di un equo tenore di vita per la popolazione agricola interessata”. Nella proposta,all’art 117 si stabilisce l’abrogazione del reg (CE) n. 1493/1999.(3) Degna di attenzione, sul punto, appare la riflessione di M. Imbrenda, Profili applicativi del leasing in àmbito vitivinicolo, in DirAgr, 2006,69, ove l’Autore evidenzia che, tra altri, anche il leasing “trova una appropriata operatività nella acquisizione di nuovi impianti, per i qualisia stata statuita l’assegnazione a titolo oneroso, o di diritti di reimpianto trasferiti a titolo oneroso, in funzione di finanziamento delle speseper l’insediamento di nuovi vigneti nonché per la riattivazione o l’ammodernamento di vigneti preesistenti”. (4) Così L. Paoloni, L’O.C.M. nel settore vitivinicolo, in Trattato breve di diritto agrario italiano e comunitario, diretto da L.Costato, 3 ^ ed.,Milano, 2003, 914. (5) Gli obiettivi che sottendono la riforma normativa nel settore risaltano esemplarmente dalla lettura del considerando n. 5 della Proposta:“alla luce dell’esperienza acquisita appare quindi appropriato modificare radicalmente il regime comunitario applicabile al settore del vinoper conseguire i seguenti obiettivi: migliorare la competitività dei produttori di vino europei; rafforzare la notorietà dei vini comunitari diqualità che sono i migliori del mondo; recuperare vecchi mercati e conquistarne di nuovi all’interno della Comunità europea e ovunquenel mondo; istituire un regime vitivinicolo basato su regole chiare, semplici ed efficaci, che permettano di equilibrare la domanda e l’offer-ta; istituire un regime vitivinicolo in grado di salvaguardare le migliori tradizioni della produzione vitivinicola europea, di rafforzare il tes-suto sociale di molte zone rurali e di garantire che la produzione sia realizzata nel rispetto dell’ambiente. È quindi opportuno abrogare ilregolamento (CE) n. 1493/1999 e sostituirlo col presente nuovo regolamento”.(6) In Suppl. ord. n. 60 alla G. U. n. 50 del 13 marzo 2006. (7) Pubblicato nella G. U. n. 221 del 21 settembre 2000.

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e la salute dei consumatori (8) sotto il profilo civile (9), ammi-nistrativo (10) e, residualmente, penale (11).

2.- In particolare: le sanzioni in materia di produzione ecommercializzazione di mosti e vini.

Il Capo VI della legge n. 82/2006, agli artt. 33-35, contienenorme strutturate con autonome sanzioni, che vanno presein considerazione in quanto si offrono ad un’indagine siasotto il profilo soggettivo (ossia con riguardo agli autori del-le violazioni (12) e alla intensità della partecipazione nell’ille-cito), che più propriamente oggettivo (in particolare, l’aper-

tura delle fattispecie ad ipotesi che esulano dall’ambitoprettamente commerciale).A fronte di un esplicito richiamo alla clausola di salvezzapenale, che si rinviene costantemente per quasi tutte le vio-lazioni assistite da sanzioni amministrative, le norme delcapo in esame si caratterizzano per una spiccata presenzadi condotte illecite tradotte in formule e concetti propri deldiritto penale alimentare (nocività, sofisticazione, manipola-zione, genuinità del vino (13), ecc.), ai limiti di una terminolo-gia che a volte appare addirittura “impropria”, a meno cheessa non si intenda nel senso di autorizzare un richiamo al-le fattispecie di cui alle lett. a) e h) dell’art. 5 e 6 della l. n.283/62 (14) e a quelle previste dagli artt. 515 e 516 del codi-

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(8) Si veda esemplarmente il considerando n. 47 del reg.Ce n. 1493/99, ove è stabilito che “ per motivi di salute ed ai fini di una politicadi qualità, occorre definire a livello comunitario le pratiche e i trattamenti enologici autorizzati, che dovranno essere gli unici a poter esse-re utilizzati nella fabbricazione dei prodotti disciplinati dal presente regolamento; per ragioni analoghe, solo le varietà di uve da vino devo-no essere utilizzate per la produzione di vini destinati al consumo umano”.(9) Cfr. Cass., sez. II, 25-05-2006, n. 12382 su www.infoleges.it: ”in tema di azione di danni, il diritto al risarcimento nasce con il verificarsidi un pregiudizio effettivo e reale che incida nella sfera patrimoniale del contraente danneggiato, il quale deve provare la perdita econo-mica subita (nella fattispecie, relativa alla domanda di danni esperita, nei confronti della venditrice, dalla società acquirente di vino desti-nato all’esportazione, sul presupposto che il tasso alcolometrico non possedeva la graduazione idonea, come invece concordato dalleparti, a consentire il rimborso d’imposta all’epoca previsto dal vigente regolamento europeo sulle esportazioni vinicole, la suprema corteha confermato la sentenza della corte di merito che aveva escluso, nella liquidazione del danno, le pene pecuniarie al riguardo irrogatealla società acquirente dall’amministrazione delle finanze; ha conclusivamente affermato la suprema corte che, in pendenza del gravamesull’opposizione alle ingiunzioni di pagamento delle sanzioni amministrative, non avendo la società acquirente ancora effettuato il paga-mento delle somme ingiunte, la diminuzione patrimoniale non poteva dirsi ancora sussistente)”. Ed ancora Cass., sez. II, 25-05-2006, n.12382: “In tema di garanzia per i vizi della cosa venduta, con riferimento agli effetti di tale garanzia, deve ritenersi che la ratio della pre-clusione dell’azione di risoluzione, prevista dall’ultimo comma, ultimo periodo, dell’art. 1492 c.c., per il caso in cui il compratore abbia alie-nato o trasformato la cosa venduta, risieda nella oggettiva rilevanza della utilizzazione definitiva della cosa viziata, della quale l’acqui-rente ha usufruito (nella fattispecie, relativa all’azione di garanzia esperita nei confronti della venditrice dalla società acquirente di vinodestinato all’esportazione, sul presupposto che il tasso alcolometrico non possedeva la graduazione idonea, come invece concordatodalle parti, a consentire il rimborso d’imposta all’epoca previsto dal vigente regolamento europeo sulle esportazioni vinicole, la supremacorte ha confermato la sentenza della corte di merito che aveva condannato la venditrice al risarcimento del danno ma respinto ladomanda di risoluzione del contratto, per avere rilevato dal comportamento della società acquirente la volontà di questa di tenere fermo,da un lato, il contratto di vendita - che aveva consentito alla stessa di realizzare il fine per il quale era stato stipulato, e cioè l’esportazionedella merce acquistata - relegando, dall’altra, la richiesta di risoluzione, di cui all’atto di citazione, a mero espediente per tentare di conse-guire anche i vantaggi derivanti da una pronuncia di risoluzione contrattuale - l’estinzione delle obbligazioni non adempiute - tenuto contodella cessione del credito relativo al prezzo della merce, non corrisposto dalla acquirente, effettuata dalla società venditrice)”.(10) Tale aspetto si rileva sempre nelle premesse al reg. Ce n. 1493/99, ad esempio nel considerando n. 24: “fatte salve misure naziona-li in vigore, per ragioni di certezza del diritto non è possibile imporre a livello comunitario l’estirpazione delle superfici piantate illegalmen-te prima della pubblicazione della proposta relativa al presente regolamento; pertanto, ai fini di un migliore controllo del potenziale vitico-lo, nel corso di un periodo determinato gli Stati membri devono poter regolarizzare la posizione di tali superfici, fatti salvi i necessari con-trolli; per la regolarizzazione può essere previsto un trattamento diverso in funzione delle modalità di impianto interessato, in particolarenel caso in cui tale impianto possa determinare un aumento della produzione; qualora esista tale rischio, il produttore interessato puòessere sottoposto a appropriate sanzioni amministrative”.(11) La salvaguardia del bene “ambiente” appare non solo una novità importante della proposta di reg. Ce n. 138/07, ma una costante cheha ispirato la novella del 2007. Già nella Relazione che precede la stesura della Proposta si conferma solarmente la necessità di istitui-re un regime vitivinicolo “in grado di salvaguardare le migliori tradizioni della produzione vitivinicola europea, di rafforzare il tessuto socia-le di molte zone rurali e di garantire che la produzione sia realizzata nel rispetto dell’ambiente”.(12) E’ importante considerare che l’art. 35 comma 7 stabilisce che le disposizioni di cui agli articoli 10 (Divieto di detenzione a scopo dicommercio) e 11 (Divieto di vendita e di somministrazione) della l. n. 82/06 e le relative sanzioni non si applicano al commerciante chevende o pone in vendita o comunque distribuisce per il consumo i prodotti di cui alla presente legge in confezione originale, salvo che ilcommerciante stesso sia a conoscenza della violazione o che la confezione originale presenti segni di alterazione. Il che presuppone,ancora una volta, un accertamento non necessariamente congiunto sul profilo soggettivo (consapevolezza della violazione) e su quellomeramente oggettivo (integrità della confezione).(13) Cfr. Cass., sez. III, 05-06-1998, su www.infoleges.it, ove si evince che ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 516 c.p., il con-cetto di «genuinità» non è soltanto quello naturale, ma anche quello formale fissato dal legislatore con l’indicazione delle caratteristichee dei requisiti essenziali per qualificare un determinato tipo di prodotto alimentare (nella specie, è stato ritenuto non genuino un vino spu-mante che non rispettava i parametri fissati dai regolamenti dell’Unione europea e dalla legislazione nazionale in relazione alla gradazio-ne alcolica, al contenuto di zuccheri, ai residui e alla sovrappressione dell’anidride carbonica inferiori ai valori minimi stabiliti).(14) Con la riforma operata a seguito della depenalizzazione, si superano i problemi relativi all’applicazione del principio di specialità; nona caso, deve riportarsi una emblematica pronuncia della Cass. penale (sez. III, 01-07-2002), che sottolineava come, in passato, la dero-ga al principio di specialità tra illecito penale ed amministrativo, introdotto dall’art. 9, 1º comma, l. 24 novembre 1981 n. 689, da parte del

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ce penale, ogni qual volta si appalesi la gravità dell’illecito,al di là della possibile applicazione dell’art. 9 comma 1 dellal. n. 689/81.Un siffatto approccio disciplinare, peraltro, è risalente neltempo, perché questa evidente commistione si determina incostanza della particolare natura delle condotte inquadrabiliin queste tipologie di illeciti, il che determina anche per lesanzioni amministrative una possibile qualifica di “pene na-scoste” (15). In buona sostanza, il problema era presente,seppure con riguardo al comma 3 dell’art. 9 della l. n.689/81, anche nella legislazione ora abrogata. Di tanto sene ha prova, esemplarmente, scorrendo la giurisprudenzanazionale che ha cercato di fare luce, anche nella materiavitivinicola, sui delicati rapporti tra illecito amministrativo ereato. Così, non può tacersi che già in Cass. penale, sez.III, 19-12-2005 (16), si evidenziava che i delitti di cui agli art.515 e 516 c.p. (che, com’è noto, puniscono pratiche com-merciali fraudolenti) e il reato (successivamente illecito am-ministrativo in virtù della intervenuta depenalizzazione) (17)di cui all’abrogato art. 76 del d.p.r. n. 162 del 1965 si pone-vano in relazione di specialità reciproca (18) e potevano per-tanto concorrere, “tutelando le norme del codice penale lacorrettezza e lealtà commerciale e la legislazione specialela qualità e la genuinità dei prodotti venduti e, dunque, lasalute dei consumatori”. Ne seguiva che l’attività di unastruttura organizzativa diretta alla produzione e commercia-lizzazione di vino adulterato era inquadrabile, in linea di

principio, “nella fattispecie di cui all’art. 416 c.p”.Per chiarezza, va anche detto che la vecchia fattispecie del-l’art. 76 appare riproposta, con ben più ampia scansione,nell’art. 33 della vigente l. n. 82/2006 e risulta articolata in tredistinte ipotesi, unificate nella pur promiscua dicitura “utilizzodi prodotti nocivi o non consentiti” (19). Va da sé che l’ipotesidi autonoma responsabilità amministrativa prevista dal com-ma 4 dell’articolo in parola (20) in capo agli autori dell’illecito(amministrativo), autorizzi ad introdurre ipotesi di concorsonel reato tutte le volte che si ritenga applicabile la clausola disalvezza penale, ossia in presenza dell’elemento soggettivodel dolo, e sulla base della provata lesione dei beni giuridica-mente protetti da dette norme penali, ossia i reati contro l’in-columità pubblica (eccezion fatta per l’ipotesi di cui all’art.452 c.p.) e i delitti previsti agli artt. 515 e 516 c.p.Sul punto va chiarito che, anche con riguardo all’art. 34 del-la l. n. 82/06 (in tema di sanzioni per la “detenzione di pro-dotti vitivinicoli non giustificati”), si ripropongono le stesseproblematiche applicative, che tuttavia possono risolversisolo in ossequio ad una capillare attività ispettiva e investi-gativa di base, che chiarisca la provenienza dei quantitatividi prodotti vitivinicoli non giustificati dalla documentazioneufficiale di cantina. Invero, sulla scorta della quantità ritro-vata, dei documenti esaminati (manuale della rintracciabilitàove esistente, documenti fiscali, registri specifici (21) e, senecessario, manuale HACCP), dell’esame dei rapporti com-merciali e dei volumi d’affari, si imporrà l’apertura di un pro-

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3º comma dello stesso articolo relativamente ai reati in tema di alimenti, opera non soltanto in relazione alle disposizioni vigenti antece-dentemente all’entrata in vigore della citata l. n. 689, ma anche con riguardo a quelle emanate successivamente; in particolare, la fatti-specie era relativa al possibile concorso per il reato di cui agli art. 5, lett. a), e 6 l. n. 283 del 1962 e l’abrogato illecito di cui all’art. 23, lett.p), d.p.r. n. 162 del 1965 in relazione alla messa in vendita di vino trattato in modo da variarne la composizione naturale.(15) Sul tema si veda ampiamente F. Consulich, Materia penale e tutela dei beni giuridici nello spazio unitario europeo (Il paradigma san-zionatorio tra definizioni formali e definizioni sostanziali), in Riv. trim. diritto pen. dell’economia, 2006, 65.(16) Su www.infoleges.it(17) In tema di sanzioni amministrative e depenalizzazione si veda più in generale P. Cerbo, nota a Cass. sez. un. civ. 27 aprile 2006, n.9591, in Foro it., 2006, 2019.(18) Il d.p.r. n. 162/1965 stabiliva “Norme per la repressione delle frodi nella preparazione e nel commercio dei mosti, vini ed aceti”. Tuttele sanzioni previste erano state depenalizzate in virtù del d.l.vo n. 507 del 1999. In particolare il richiamato art. 76, prima della depena-lizzazione, prevedeva la pena di reclusione da sei mesi a cinque anni e la multa di lire 500.000 per ogni quintale di prodotto globalmen-te sofisticato, aggiungendo fraudolentemente, ad esempio, zuccheri o materie zuccherine diverse da quelle provenienti dall’uva ovverosostanze antifermentative (ad esclusione dell’isosolfocianato di allile con le modalità previste dal D.M. del 12 marzo 1968, ferro cianurodi potassio in modo diverso da quello stabilito, acido salicilico, sostanze inorganiche). (19) Il testo dell’art. 33 (Sanzioni per l’utilizzo di prodotti nocivi o non consentiti) così distingue le tre violazioni: “1. Chiunque, nelle oper-azioni di vinificazione o di manipolazione dei vini, impiega in tutto o in parte prodotti con effetti potenzialmente nocivi alla salute, qualiantibiotici, ovvero addiziona altre sostanze antifermentative, acido salicilico, acido malico, sostanze inorganiche o altre sostanze non con-sentite, salvo che il fatto costituisca reato, è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria di 500 euro per ettolitro di prodotto sofisti-cato; in ogni caso, la sanzione non può essere inferiore a 5.000 euro. 2. Chiunque, fuori dai casi consentiti, nelle operazioni di vinificazioneo di manipolazione dei vini, impiega in tutto o in parte prodotti non consentiti, quali alcol, zuccheri o materie zuccherine o fermentatediverse da quelle provenienti dall’uva fresca anche leggermente appassita, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria di 250 europer ettolitro di prodotto sofisticato; in ogni caso, la sanzione non può essere inferiore a 2.500 euro. 3. Quando, tenuto conto delle pro-porzioni dell’azienda, della quantità di prodotto, del semplice uso di zucchero o di sostanze zuccherine destinate all’alimentazione umanasenza l’uso concorrente di altre sostanze non consentite, e di ogni altra circostanza attenuante in relazione al comportamento deltrasgressore, il fatto commesso entro il periodo consentito per le fermentazioni può essere ritenuto di lieve entità, rientrando nei limiti diun aumento del titolo alcolometrico volumico totale del 2 per cento, e riguarda aziende di trasformazione di uva in vino, si applica la solasanzione amministrativa pecuniaria di 75 euro per ogni ettolitro o quintale di prodotto globalmente sofisticato.(20) “Al tecnico responsabile delle operazioni o delle manipolazioni di cui ai commi 1 e 2 si applica la medesima sanzione amministrativapecuniaria prevista a carico del legale rappresentante della ditta”. (21) Si veda in proposito, G. Caracciolo, Registri di carico e scarico nel settore vitivinicolo ed illecito amministrativo per omessa vidima-zione (Nota a Cass. sez. V civ. 9 maggio 2003, n. 7089), in DGAAA, 2004, 29.

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cedimento amministrativo ai sensi dell’art. 13 della l. 689/81(e l’eventuale applicazione della sanzione amministrativa) oaddirittura l’acquisizione di una notizia di reato, ai sensi del-l’art. 347 c.p.p, e, dunque, l’apertura ad ipotesi di reato che,nei casi di particolare gravità, potrebbero riguardare addirit-tura la ricettazione o il mero incauto acquisto dei prodotti vi-tivinicoli detenuti.Sul versante del rapporto con le ipotesi contravvenzionalistabilite nella l. n. 283/62, invece, accanto all’ipotesi dellanon genuinità, contemplata nella lett. a) dell’art. 5, deve ri-chiamarsi anche la possibile applicazione della lett. h) dellastessa norma, nel caso di un prodotto difettoso destinato al-la commercializzazione (senza altre pratiche o fasi di lavo-razione nelle quali è emendabile il difetto riscontrato), a me-no che si tratti di vino che pur contenendo ad esempio resi-dui di rame superiori al limite tollerato, sia conservato in si-los in locali predisposti per la lavorazione di cui però non siconosceva la reale destinazione (22). Questo tema rinvia aquello della puntuale verifica della “destinazione commer-ciale” già all’atto dell’accertamento, ossia un momento inve-stigativo che assume particolare difficoltà data l’ampia por-tata di tale concetto (23). Di tanto, se ne ha prova anche neltesto della sentenza da ultimo richiamata, ove risulta accer-tato soltanto il fatto che il vino prelevato nell’azienda del-l’imputato conteneva residui di rame in esubero rispetto alparametro consentito (dunque il superamento dei limiti).

L’ulteriore verifica della reale “destinazione commerciale”,invece, assume a tutt’oggi un significato e un valore decisi-vo per la risoluzione delle problematiche relative all’accerta-mento e alla qualificazione dell’illecito, in quanto - ed è que-sto il condivisibile ragionamento della Corte - non è punibileil contestato reato a titolo di tentativo perché la fattispecie èdi natura contravvenzionale, ciò favorendo la necessariaapplicazione della sanzione amministrativa.Con riguardo, infine, agli aspetti di natura igienico-sanitaria,occorre sottolineare che l’art. 35 comma 12 (24) si pone inrapporto di “specialità” con quanto stabilito generalmentenel reg. Ce n. 852/04, già d.l.vo n. 155/97, almeno perquanto riguarda la verifica della presenza dei “prodotti perl’igiene della cantina” (25). Il riscontro di tale illecito, nono-stante attenga ad un profilo di vigilanza di chiara improntasanitaria, appare di competenza anche degli stessi vigilantidell’I.C.Q. (che ontologicamente non sono vigilanti sanitari)e, in assenza di decreti ministeriali attuativi, potrà poggiaresulla verifica da parte di tali organi di controllo delle schedetecniche di prodotto e della corrispondenza di tali informa-zioni con quanto aggiornato nel manuale HACCP del-l’azienda. In buona sostanza, si richiede una valutazioneispettiva anche sui metodi aziendali di autocontrollo, qualeprofilo legato al più ampio sistema di sicurezza nell’intera fi-liera vitivinicola (26).

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(22) Così, Cass. Pen. Sez. III, Sent. n. 01050/03 del 20.5.03, su www.infoleges.it, di cui appare utile riportare la parte motiva: “Motivi delladecisione. Con sentenza 11.3.2002, il Tribunale di Brindisi ha ritenuto L. G. responsabile del reato previsto dall’art. 5 lett. h) L. 283/1962(per avere detenuto per vendere del vino contenente residui di rame superiori al limite tollerato) e lo ha condannato alla pena di euro2582,00 di ammenda. Per l’annullamento della sentenza, l’imputato ricorre in Cassazione deducendo violazione di legge e difetto di moti-vazione. Sostiene che, come risulta dalle emergenze agli atti, il prodotto si trovava nei locali di lavorazione allo stato sfuso e non era anco-ra pronto per la vendita rileva che i vini con eccesso di rame possono essere legalmente detenuti alla condizione che, prima della com-mercializzazione, siano sottoposti a specifici trattamenti in modo da garantire i limiti previsti dall’art. 23 L. 162/1965. Il Collegio ritiene chele deduzioni siano meritevoli di accoglimento nel limite in prosieguo precisato. Dal testo della sentenza in esame, risulta accertato in fatto- e la circostanza non è contestata nei motivi di ricorso- che il vino prelevato nella azienda dell’imputato contenesse residui di rame inesubero rispetto al parametro consentito; è pure accertato che il prodotto, contenuto in silos in locali predisposti per lavorazione fossedestinato alla vendita. Non è stato chiarito, invece, se il prodotto fosse pronto per la commercializzazione, senza altre pratiche enologi-che oppure necessitasse di ulteriori fasi di lavorazione nelle quali era emendabile il difetto riscontrato. La distinzione è di decisivo signi-ficato e valore per la risoluzione delle problematiche sollevate dal ricorrente. Solo nel primo caso il vino si può qualificare destinato allavendita e, pertanto, la fattispecie di reato si è integrata; nella seconda ipotesi, non è dato sapere con quali caratteristiche il prodotto fina-le sarebbe stato immesso in commercio e, di conseguenza, non è ipotizzabile il contestato illecito (non punibile a titolo di tentativo per-ché la fattispecie è di natura contravvenzionale). Per tale lacuna della motivazione (non colmabile in questa sede per i limiti cognitivi dellaCassazione), il Collegio ritiene annullare la gravata sentenza con rinvio al Tribunale di Brindisi. P.Q.M. La Corte annulla la sentenza impu-gnata con rinvio al Tribunale di Brindisi”.(23) Sul tema deve considerarsi che l’art. 3 n. 8 del reg. n. 178/02 offre una definizione altrettanto ampia di «immissione sul mercato»,ossia “la detenzione di alimenti o mangimi a scopo di vendita, comprese l’offerta di vendita o ogni altra forma, gratuita o a pagamento, dicessione, nonché la vendita stessa, la distribuzione e le altre forme di cessione propriamente detta”.(24) La norma stabilisce che chiunque viola le disposizioni in materia di igiene della cantina di cui all’articolo 26 è soggetto alla sanzioneamministrativa pecuniaria da 150 euro a 1.500 euro. (25) L’art. 26 recita: “1. Il Ministro delle politiche agricole e forestali, di concerto con il Ministro della salute, stabilisce con proprio decreto,da emanare entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, quali sostanze e prodotti possono essere usati per la puliziae per il risanamento dei recipienti di prodotti vinosi, nonché degli attrezzi, delle pareti, dei pavimenti e degli accessori di cantina. 2. Iprodotti, preparati con le sostanze o prodotti stabiliti dal decreto di cui al comma 1, devono riportare in etichetta la denominazione deicomponenti attivi e la dizione “da usare esclusivamente per l’igiene della cantina” in caratteri ben chiari, indelebili, in lingua italiana, di for-mato non inferiore a un centimetro e del colore adottato per l’iscrizione più evidente. 3. È vietato produrre, vendere e detenere negli sta-bilimenti enologici, nelle cantine e nei locali comunicanti anche attraverso cortile, a qualunque uso destinati, negli spacci di vendita all’in-grosso e al dettaglio di mosti e di vini, sostanze e prodotti per l’igiene della cantina diversi da quelli consentiti ai sensi del decreto di cuial comma 1”. (26) Sull’applicazione del metodo HACCP e sulle problematiche connesse all’entrata in vigore del reg. Ce n. 178/02, si veda, amplius, F.Albisinni, Luoghi e regole del diritto alimentare: il territorio tra competizione e sicurezza, in , 2004, 201.

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ABSTRACT

Sanctions in wines discipline.

This field of law has been regulated by reg. Ce n.1493 ofthe Council of 17 May 1999 inherent the control and the ca-pability of the wine matter. The European legislator recogni-zes the peculiar difficulty of this discipline and emphasizesthat the rules concerning the organization of the market areextremely complex; that in some cases these norms do nothold account of the regional diversities sufficiently; that, ifpossible, such norms must therefore be simplified and thepolitics in the field must be developed and be applied to thelevel closer to the producer in the communitarian context.This has determined the necessity of national provisions in-tegrating European rules, with strong effect on the applica-ble sanctions. In Italy, the law n. 82 of 20 February 2006, inconformity to European rules, has established definitions,prohibitions, obligations.

Att. 33-35 of the law n. 82/2006, contain rules structuredwith independent endorsements. These rules regard boththe subjective profile (authors of the violations and intensityof the participation in the illegal fact), and the objective one.The rules are characterized for one detached illicit presen-ce of lead translate in formulas and own concepts of the ali-mentary criminal law (sophistication, manipulation, genuine-ness of the wine). The topic go back over that one of theverification of the “destination trades them”, that is impor-tant concept; of this if of it has test also in the text of somesentences, where it turned out assessed single the fact thatthe captured wine in the company of authors of the viola-tions contained residual of branch regarding the concurredparameter (therefore the overcoming of the limits). The as-sessment of the “destination trades them”, then, assumes adecisive value for the resolution of problems related to thenature of the illicit.

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ITAL IAN FOOD LAW ASSOCIATIO

N

ASSO

CIAZIONE ITALIANA DIRITTO ALIMENTARE rivista di diritto alimentareAnno 1, numero 2 - Ottobre 2007

CommentiIl codice alimentarenon è stato adottato.

Alessandro Artom

1.- Il 9 settembre 2007 è scaduto il termine della delegalegislativa conferita al Governo “per il riassetto delle dispo-sizioni vigenti in materia di prodotti alimentari” con la L.229/2003 – interventi in materia di qualità della regolazione,riassetto normativo e codificazioni –.L’articolo 6 della Legge 229/2003 delegava il Governo adadottare entro 3 anni, nel termine del 9 settembre 2006, poiprorogato al 9 settembre 2007, un Decreto Legislativo per ilriassetto delle disposizioni vigenti in materia di prodotti ali-mentari nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:“a) armonizzazione della disciplina della produzione e dellacommercializzazione dei prodotti alimentari ai principi e allenorme di diritto comunitario, con particolare riferimento allalibera circolazione, allo scopo di assicurare competitivitàalle imprese;b) tutela degli interessi relativi alla salute, all’ambiente, allaprotezione del consumatore e alla qualità dei prodotti, allasalute degli animali e vegetali;c) abrogazione o modificazione delle norme rese inapplica-bili o superate dallo sviluppo tecnologico e non più adegua-te all’evoluzione produttiva e commerciale delle imprese,fermo restando il diritto dei consumatori all’informazione;d) fissazione di regole uniformi per ciò che concerne il siste-ma sanzionatorio e le modalità di controllo e di vigilanza,salvo per i prodotti oggetto di specifica normativa comunita-ria, e in particolare per il prelevamento dei campioni;e) semplificazione delle procedure esistenti, eliminandoquelle che pongono a carico delle aziende oneri non pre-scritti, per gli stessi prodotti, in altri Stati membri dell’Unioneeuropea;f)distinzione tra norme di produzione e di commercializza-zione, con particolare riferimento agli aspetti tecnici e mer-ceologici, norme concernenti il controllo dei prodotti, normeconcernenti la istituzione di un unico sistema sanzionato-rio”.

2.- Purtroppo l’inerzia dell’Esecutivo ha impedito che venis-se alla luce un “Codice Alimentare” che “a costo zero per ilbilancio dello Stato”, avrebbe consentito al consumatoreitaliano di essere tutelato al pari degli altri cittadini europei;alla Pubblica Amministrazione, sia centrale che locale,un’efficace vigilanza e controllo, grazie ad una semplifica-zione amministrativa ed infine, all’industria alimentare italia-na di essere competitiva a livello europeo, grazie ad unasemplificazione normativa.Il Governo disponeva, sin dall’aprile 2005, di un elaboratocompleto di Codice Alimentare messo a punto da un grup-po di giuristi indipendenti, in collaborazione con l’alloraMinistero delle Attività Produttive (ora Sviluppo Economico).

Tale proposta di Codice Alimentare è stata ampiamente illu-strata negli interventi di Costato, Borghi e Artom alla TavolaRotonda, promossa da AIDA, il 15 aprile 2007, riportati inte-gralmente nel N. 1 di questa rivista.Duole constatare come il legislatore delegato non abbiavoluto cogliere l’opportunità di armonizzare la disciplinanazionale al diritto comunitario, allineandola con una sem-plice norma “di rinvio aperto” ai Regolamenti CE che disci-plinano gli alimenti, comunque direttamente applicabili nelnostro ordinamento ex art. 249 del Trattato. Tra questi nericordiamo i più rilevanti: a) Regolamento n. 178/02 sui principi ed i requisiti generali

della legislazione alimentare, sull’istituzione dell’AutoritàEuropea per la sicurezza alimentare (con sede daParma, sic!) e sulle procedure nel campo della sicurezzaalimentare;

b) il cosiddetto “Pacchetto Igiene” di cui ai Regolamenti CEn. 852/04, 853/04, 854/04 che stabiliscono una disciplinaeuropea comune in tema di igiene e sicurezza alimenta-re;

c) Regolamento CE 1935/04, la cosiddetta “normativa sugliimballaggi” destinati a venire a contatto con gli alimenti.

3.- L’Esecutivo, non avendo esercitato in tempo utile ladelega concessagli dal Parlamento ha, altresì, “dimentica-to” di conformare la disciplina sugli alimenti all’art. 117 dellaCostituzione (come novellato dall’art. 3 L. Cost. 18/10/2001n. 3). L’alimentazione, infatti, ricade nell’ambito della pote-stà legislativa concorrente delle Regioni e delle ProvinceAutonome di Trento e Bolzano, con evidenti problemi disovrapposizione e molteplicità di norme. Proprio al fine diperseguire una semplificazione normativa, nel progetto diCodice Alimentare, era previsto che comunque gli EntiLocali, nell’esercizio della potestà legislativa concorrente intema di alimentazione, dovessero conformarsi ai principifondamentali contenuti nel Codice, nel rispetto dei vincoliderivanti dall’ordinamento comunitario e degli altri obblighiinternazionali e fatte salve le competenze esclusive delloStato. Il Codice, altresì, stabiliva che, in caso di inerzia legi-slativa delle Regioni, il Governo esercitasse un potere legi-slativo sostitutivo, con provvedimenti destinati a decadereal momento dell’esercizio della potestà legislativa concor-rente da parte delle Regioni.In conclusione il Codice Alimentare avrebbe potuto e dovu-to essere il giusto corollario al “Codice del consumo”, ema-nato con D. Lgs. 6/9/2005 n. 206, in attuazione delle dele-ga prevista dall’art. 7, proprio dalla citata legge di semplifi-cazione (L. 229/03). Il Codice Alimentare avrebbe garantitoi diritti fondamentali riconosciuti ai consumatori dall’art. 2del D. Lgs. 206/05 in tema di:tutela della salute;sicurezza e qualità dei prodotti;informazione e corretta pubblicità.Ci auguriamo che il legislatore voglia riprendere in conside-razione, in tempi brevi, la necessità di una normativa orga-nica dei prodotti alimentari, tuttora principalmente discipli-nati dall’ “antica” Legge n. 283 del 30.4.1962.

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