I nostri bambini valore - AVSI.org

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Il Sostegno a distanza e il Progetto OVC di AVSI in Uganda, Rwanda e Kenya Storie di speranza raccolte e raccontate da Antonella Sinopoli con la collaborazione di Valentina Frigerio I nostri bambini di valore

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Il Sostegno a distanza eil Progetto OVC di AVSI in

Uganda, Rwanda e Kenya

Storie di speranza raccolte e raccontate da Antonella Sinopoli

con la collaborazione di Valentina Frigerio

I nostri bambini di

valore

Storie di speranza raccolte e raccontate da Antonella Sinopoli

con la collaborazione di Valentina Frigerio

I nostri bambini di

valore

Il Sostegno a distanza eil Progetto OVC di AVSI in

Uganda, Rwanda e Kenya

Ringraziamenti

Desidero ringraziare AVSI per avermi “aperto le porte” del-l’Africa vera. Ringrazio in particolare Dania Tondini, Lucia Castelli, Chiara Savelli, e Giampaolo Silvestri per avermi consentito un’esperienza unica, un periodo di tre mesi tra-scorsi tra l’Uganda, il Rwanda e il Kenya. Un sentimento di gratitudine va a tutti quelli dello staff AVSI che si sono messi a disposizione per la raccolta del materiale uti-le alla redazione delle storie contenute in questo libro. Un grazie a loro per l’accoglienza, per avermi accompagna-ta nei luoghi più reconditi e per avermi dato la possibilità di conoscere le condizioni di vita delle persone, e soprattutto dei bambini, più povere ma più dignitose che abbia mai co-

nosciuto. In particolare ringraziamenti di cuore vanno a Luciana e Filippo Ciantia,

Marco Trevisan, Elisabeth Asi-imwe e le ragazze di Luzira, di Kampala; a Leo Capobianco, Ro-mana Jeptoo Koech e i ragazzi di

AVSI Kenya di Nairobi; a Riccardo Bevilacqua, Lorette Birara e tutto lo

staff di Kigali; a Carlo Maria Zorzi, che oggi opera ad Haiti, ma è sta-to prezioso per ricostruire la storia

del Sostegno a distanza in Rwanda dove ha lavorato a lungo. Tutte que-

ste persone, e anche coloro che non ho citato per nome, sono state un sup-

porto di grande valore per il mio lavoro. Si ringraziano inoltre i seguenti part-ners locali che hanno reso possibile la

realizzazione delle interviste ai ragazzi sostenuti: per l’Ugan-da, Balidhabene House (BAH), il Meeting Point di Kitgum (KTG), l’ Entebbe Distance Adoption Programme (EBB), la Christian Blind Mission (CBM), Sister of St. Tarbes in Naka-seke (NAK), il gruppo Kampala (KLA); per il Rwanda, il grup-po di Ruhango (RUH), il gruppo di Kamony (KMY), il grup-po di Humure (HUM), il gruppo di Nyanza (NZA); per il Kenya, il gruppo di Kibera (KIB), le Evangelizing Sister of Mary (ESM), i bambini sostenuti con l’NGO AVAID (AVD). Infine, mi siano consentiti due ringraziamenti davvero parti-colari: a Lucia Castelli per l’attenzione, la pazienza e la di-sponibilità con cui mi ha guidata nel suo ruolo di supervi-sione del mio lavoro e a Dania Tondini per gli amichevoli, professionali e saggi consigli. Un bagaglio davvero utilis-simo per affrontare il viaggio e l’impegno di questi mesi.

Antonella Sinopoli

Uganda

Intro

Rwanda

Kenya

PrefazioneIntroduzione 1I partner di AVSI 4

1. La forza di Agnes 72. L’impegno di Alfred 93. Una pagella da primato 114. Così George ha gettato il fucile... 135. La dolcissima voce di Annet 166. Tra i bambini per credere nel futuro 177. Sognando un hotel a cinque stelle 198. La silenziosa vita di Christine 219. Elizabeth, una storia di amicizia... 23

10. Jean Claude, fratello, padre e madre 2711. Bambini grandi come adulti 2912. La voglia di vivere ... 3113. Nascosta tra i campi per salvarsi 3314. Bimbi a scuola grazie a … 35

15. Una vita di violenze, poi la speranza 3916. La scelta di Ignatius 4117. La storia di Jane... 4318. Ragazzi di strada in cerca di aiuto 4519. Una scuola materna per i bambini … 4720. Un sogno diventato realtà 49

I nostri paesi di valoreDa dove vengono le storie qui raccontate

85 centesimi al giorno. E’ il costo di una tazzi-na di caffè al banco di un bar. Poca cosa, se ci pensiamo bene, anche in tempi di crisi eco-nomica. Eppure questi 85 centesimi (il costo quotidiano del Sostegno a distanza) rappre-sentano per tanti bambini e ragazzi di paesi poveri la differenza tra un’esistenza di stenti e analfabetismo e l’opportunità di ricevere un’educazione e un pasto caldo ogni giorno.

Antoine tutto questo lo sa. Aveva 8 anni nel 1994 quando si consumò il genocidio in Rwanda. Il bambino fu ritrovato da Giovanni Galli, neu-ro-psichiatra di AVSI. Stava lì, appollaiato su un albero, vicino a un orfanotrofio. Antoine rimase lassù, sull’albero, per tre lunghi giorni. Senza parlare, senza voler scendere. Tremava come una foglia. L’inferno era passato sotto i suoi oc-chi e lui ne era uscito apparentemente indenne. Il corpo aveva resistito, ma non altrettanto la sua mente, percorsa ancora da spaventosi incubi.Piano piano i volontari di AVSI, medici e psi-cologi, aiutarono Antoine a riscoprire la bel-lezza della vita e ad averne nuovamente

fiducia e con il Sostegno a distanza il bam-bino riprese anche ad andare a scuola.

Nel 2004 – dieci anni dopo il genocidio – Antoi-ne si è diplomato: geometra. Alla cerimonia i suoi occhi brillavano di felicità. “Ringrazio AVSI che mi ha permesso di diventare quello che sono oggi. Ma soprattutto ringrazio la famiglia italiana così lontana, ma vicina col cuore, che mi ha sempre accompagnato lungo il mio cammino educativo”.

Questo è lo sviluppo: la scoperta del valore infi-nito della propria persona e il riaccendersi della scintilla del desiderio del cuore. Antoine, a ben ragione, si sente una risorsa per lo sviluppo del suo paese. Questa è l’essenza del nostro lavoro.Questa è l’essenza del Sostegno a distan-za. Un incontro. Uno sguardo che ti vuo-le bene. Un cammino insieme. Verso la possibilità di realizzare i propri desideri.

Alberto PiattiSegretario GeneraleFondazione AVSI

Prefazione

Introduzione

La Regione dei Grandi Laghi, nell’area compresa tra Uganda, Rwanda e Kenya, ha visto l’impegno di AVSI svilupparsi e crescere fin dalla fine degli anni Ottanta. Una presenza consolidata che vede nel-le attività del Sostegno a distanza uno dei pilastri dell’intervento della ONG italiana in quest’ampia zona dell’Africa sub-sahariana. Eppure, così come ogni piccola porzione di questo enorme con-tinente è una realtà a sé stante, fatta di lingue, culture e scenari diversi, anche il Sostegno a distanza è nato con carat-teristiche proprie ed originali in ognuno dei tre paesi. Seguendo le necessità specifiche dei luoghi e dei suoi abitanti.

Nelle prossime pagine racconteremo la nascita del Sostegno a distanza in Uganda, Rwanda e Kenya attraverso le voci dei protagonisti, pionieri in una attività nata dalla condivisione quotidia-na della vita, delle gioie e delle difficol-tà delle persone del luogo. Lo faremo attraverso i ricordi dei suoi protagonisti che racconteranno quello che il Soste-gno a distanza ha significato per loro.

Il Sostegno a distanza di AVSI da qual-che anno si è arricchito di nuove possi-bilità nei meccanismi di intervento, sfo-ciate poi in nuovi e sorprendenti risultati grazie al progetto PEPFAR (President’s

Emergency Plan for AIDS Relief), che dal 2005 ha segnato l’avvio di una collabo-razione tra AVSI e USAID, la più grande agenzia governativa di cooperazione americana. Una collaborazione che ha consentito di aumentare il numero dei bambini sostenuti, specialmente rimasti orfani a causa dell’AIDS. Quello che ha fatto vincere ad AVSI la selezione del governo americano, unica ONG italia-na ad avere avuto questa opportunità, è stato il riconoscimento della validità del metodo che ha caratterizzato AVSI nelle sue opere: dare alle persone la possibilità di trovare da soli le risposte alle loro necessità. Questo è anche il concetto che sta alla base dell’OVC (Orphan and Vulnerable Children-Bambini Orfani e Vulnerabili), termine con cui è stato definito il programma.

La capacità di AVSI di disegnare i per-corsi in base alle possibilità e ai bisogni individuati nel paese dove si interviene ha anche stavolta aiutato a risponde-re a quella che è diventata una sfi-da: tramutare il Sostegno a distanza, nato tanti anni fa dalla buona volontà e dall’amicizia di alcune persone, in un progetto man mano sempre più ampio e strutturato. Un progetto che, oltre al bambino, coinvolge anche la

sua famiglia, il villaggio, la comunità.

In questo libro, ciò che emerge è, soprat-tutto, la volontà di tanti bambini e ragaz-zi che sono stati accompagnati da AVSI e dai sostenitori italiani di realizzare i propri desideri, nei loro studi, nella vita, in ogni singola giornata. Esempi di obiettivi raggiunti, di una felicità ritrovata grazie ad una collaborazione costante che ha dato frutti meravigliosi. A volte insperati, a volte anche migliori delle aspettative.

Questo libro contiene 20 storie: un modo per condividere la gioia di cui sia-mo stati testimoni ma anche un modo per portare dall’Africa a voi i bambini e i ragazzi sostenuti. Tutti quelli che ab-biamo incontrato, oltre che vulnerabili, sono davvero i nostri bambini di valore, Our Valuable Children, come li ha de-finiti Lucia Castelli, AVSI OVC Program Manager, modificando l’acronimo del progetto. Bambini e ragazzi con gran-di aspirazioni, che hanno saputo usa-re, e continuano a farlo, i propri talenti e capacità per realizzare i propri sogni e mostrare quello che hanno dentro.

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Ketty Opoka, responsabile del Meeting Point di Kitgum con una famiglia sostenuta3-4

I Partner di AVSIGrandi opere nate da un incontro

Si è iniziato con il Meeting Point di Kit-gum, fondato da Elly Ongee, insieme a volontari italiani e ugandesi. Nato come luogo d’incontro per i malati di AIDS e, in seguito, per i loro orfani. La possibi-lità, per persone stigmatizzate e emar-ginate a causa di una malattia consi-derata “impura”, o per bambini rimasti soli, di essere accolte e di appartenere a qualcosa, sta alla base del successo del Meeting Point. Oggi sono quattro i Meeting Point presenti in Uganda e 40 le organizzazioni locali partner di AVSI nel Sostegno a distanza solo in Ugan-da. E fondamentali per il funzionamento del progetto. Perché nate innanzitutto all’interno di un rapporto di amicizia, i cui beneficiari hanno voluto trasmettere a loro volta ai più piccoli. E’ la storia di Alfred, prima orfano sostenuto dal So-stegno a distanza del Meeting Point di Kitgum e oggi, laureato, tornato al Mee-ting Point, “per cercare di far incontrare ai bambini oggi orfani lo stesso sguar-do che mi ha voluto bene quando ero io al loro posto”, confessa sorridendo.

Le opere nate e cresciute in questo modo sono oggi luogo concreto, di-mora per i ragazzi che, orfani o vulne-rabili spesso semplicemente perché in cammino alla ricerca di sé, han-no però la certezza che c’è una casa con le porte sempre aperte per loro.

“Ho 420 figli a Kitgum”, commenta scher-zandoci su Ketty Opoka, responsabile del Meeting Point di Kitgum, a indicare il rap-porto stretto che ha con gli orfani sostenuti. “Quando non appartieni, quando non

ti senti amato, tradisci”, spiega Rose Bu-singye, del Meeting Point International (MPI) di Kampala . “Questo vale tanto per i malati di AIDS quanto per i giovani or-fani o abbandonati. Quando entrano a far parte di un gruppo come il nostro, in cui sono voluti bene non solo da noi ma anche dai sostenitori italiani, così lontani eppure attenti a un bambino che non hanno mai neanche visto, riscoprono la bellezza di un’amicizia, un desiderio che era come sopito. E tornano a studiare, a impegnarsi, a credere in se stessi, torna-no a guardare sè e gli altri in modo diver-so. Perché capiscono che, se qualcuno vuole loro bene, allora hanno un valore. E la vita vale la pena di essere vissuta”.

“Le opere nate e cre-sciute in questo modo sono oggi luogo con-creto, dimora per i ra-gazzi che, orfani o vul-nerabili hanno però la certezza che c’è una casa con le porte sem-pre aperte per loro”

UgandaDall’AIDS la spinta all’amicizia e alla solidarietà

Luciana Ciantia era molto giovane e neo lau-reata in medicina quando arrivò in Uganda come volontaria. Con lei c’era il marito Filip-po, anch’egli medico specializzato in Igiene e Malattie tropicali, e oggi Rappresentante AVSI della zona dei Grandi Laghi in Africa. Insieme, in questo difficile e meraviglioso paese, hanno condiviso oltre vent’anni di vita trascorsi senza un attimo di sosta tra forti tensioni politiche interne, cambiamenti di re-gime e una lunga guerra civile. Proprio nel nord del Paese, teatro di un conflitto che in un ventennio ha causato migliaia di morti e costretto centinaia di migliaia di perso-ne a fuggire dalle proprie case e vivere in campi per sfollati, i coniugi Ciantia hanno iniziato ad operare. Ed è lì, a Kitgum, che si sono creati quei legami che hanno reso possibile la nascita del Sostegno a distanza.

“La spinta fu l’amicizia profonda nata tra noi e alcuni adulti malati di AIDS”, ricorda Luciana Ciantia, “i quali, all’avvicinarsi della morte, ci chiedevano di non abbandonare i propri figli.

Il Sostegno a distanza, dunque, nacque come risposta a una necessità concreta e impellen-te. Ma la cosa più significativa è che a fare il primo passo furono persone malate, che sapevano che di lì a poco sarebbero morte”. A gettare le basi di quella che sarebbe diven-tata una grande catena di amicizia e solida-rietà, fu il coraggio di un uomo, Elly Ongee, e di sua moglie Irene, entrambi malati di AIDS. Vivevano a Kitgum, nel nord Uganda, dove però erano stati abbandonati da amici e pa-renti, proprio a causa della malattia, che nei primi anni di espansione era percepita come una sorta di “punizione”. E chi ne fosse affet-to da evitare. Ma fu proprio in questo periodo doloroso, in cui sembrava che nulla di buono sarebbe potuto accadere, che Elly e Irene in-contrarono alcuni volontari italiani di AVSI e Ketty Opoka, un’insegnante ugandese. Che li guardavano e stavano con loro non compa-tendoli per la loro malattia, ma per il loro va-lore come persone, indipendentemente dalla condizione difficile in cui si trovavano in quel momento. Elly, vedendo la felicità tornare a

risplendere sul volto della moglie, si rese con-to che la bellezza c’era ancora, anche dentro la malattia. E che era possibile sperimentar-la grazie a una compagnia di amici. Fu così che cominciò a tenere incontri con altri am-malati per condividere con loro le paure, i problemi legati alla malattia e il modo per affrontarla. Nacque così, nel 1990, il Meeting Point - Punto D’Incontro, oggi ONG ugandese che lavora con gli orfani e i malati di AIDS.

Solo un anno dopo, lo stesso moto di solida-rietà si sviluppò a Kampala, grazie a Rose Aku-mu, collaboratrice di AVSI e anche lei malata di AIDS. Dall’incontro con Elly, in cui spiegava come era riuscito a affrontare il dolore della malattia, Rose ne uscì con un’energia straor-dinaria, che nei pochi mesi che ancora le re-stavano da vivere la portarono a gettare le basi di quello che poi, grazie a Rose Busingye e Noelina Namukisa, sarebbe diventato, nel 1992, il Meeting Point di Kampala. La malattia ancora si nascondeva come una vergogna, eppure in tanti volevano parlare e che ci fosse qualcuno disposto ad ascoltare e a dare con-

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sigli era davvero insolito. Allora non c’erano i farmaci antiretrovirali - che oggi permettono di diminuire la carica virale e stare meglio, e la gente semplicemente aspettava di morire. La prima fase dell’AIDS si presentò come una catena incessante di morti, la seconda fase lasciò migliaia di orfani bisognosi di cure. Così si decise di prendere in affitto una stan-zetta dove tenere e accudire questi bambini. Nello stesso periodo in Italia molte perso-ne si rivolgevano ad AVSI con il desiderio di dare un contributo per le attività in favore dei malati di AIDS. Queste offerte spontanee cominciarono a divenire costanti nel tem-po. Così come costante cominciò ad essere l’impegno in Uganda verso i bambini rimasti orfani. Si è cominciato con Anita, la figlia di Rose Akumu, bambina gravemente cerebro-lesa, che oggi ha 23 anni. Poi con tre fratel-lini, che Rose e Noelina avevano incontrato nella baraccopoli di Soweto mentre stava-no rovistando nella spazzatura alla ricerca di qualcosa da mangiare. Oggi, in Uganda,

sono circa 7500 i bambini sostenuti grazie al Sostegno a distanza e a quelle persone che dai primi anni Novanta hanno avviato una splendida rete di amicizia e solidarietà.

La forza di AgnesUna piccola cenerentola africana che diventerà avvocato

Quella di Agnes Najjuma è la storia di una piccola Cenerentola africana che per fortuna, come ogni favola, ha un lieto fine. Quando la madre fu costretta ad allontanarsi da casa perché il marito, alcolizzato, la sostituì con un’altra donna, Agnes restò nella casa pa-terna. Il suo ruolo fu presto chiaro: darsi da fare per mandare avanti la casa, consumare poco cibo e crescere il più in fretta possibile. Agnes, infatti, come la sorella più grande, non era altro che una bambina il cui valore, agli occhi del padre, era determinato da quanto ne avrebbe ricavato dandola in matrimonio al migliore offerente. “Quei soldi”, dice Agnes, “gli sarebbero serviti per ubriacarsi, così come aveva usato quelli che le aveva dato il ma-rito di mia sorella. Io non volevo sposarmi. Volevo andare a scuola, volevo scappare da quella casa e smettere di essere picchia-ta per niente”. Agnes aveva solo 10 anni. Oggi che ne ha 13 la sua vita è già com-pletamente cambiata. Nel distretto di Naka-seke in Uganda, dove abitava, qualcuno vicino ad AVSI affrontò il padre. “A queste persone mio padre non ha avuto il co-raggio di opporsi”, ricorda la bambina. “E questa è stata la mia grande occasione”.

Agnes ha frequentato la scuola primaria alla St. Joseph’s Foster Home, struttura per orfa-ni e bambini bisognosi, sostenuta da AVSI, con un grande desiderio di ottenere risultati soddisfacenti per cogliere l’occasione di usci-re da una realtà infelice. Nei due anni in cui Agnes è rimasta nella struttura il padre non è mai andato a trovarla, eppure non ave-va dimenticato i suoi propositi. Quando la bambina terminò la scuola, e fu iscritta alla scuola secondaria St. Dennis, lui tornò a re-clamarla: “Ti ho trovato un marito” le disse.

Agnes piange quando ricorda quei momenti e quando ripercorre i sentimenti di paura e di impotenza che provava. Ma, anche se pian-ge, ha una forza e una determinazione che lasciano stupefatti. “Io voglio diventare un avvocato per capire quali sono i diritti delle persone e aiutarle”. Nel frattempo Agnes ha trovato chi l’accompagni in questo suo diffici-le percorso di crescita. E’ la direttrice della St. Dennis, che ha accolto nella sua casa la bam-bina nel periodo delle vacanze dalla scuola. Poi ha affrontato il padre di Agnes, dicendogli con chiarezza che avrebbe protetto la bam-bina ad ogni costo. Non sappiamo se nel frat-

tempo qualcosa cambierà nella mentalità del padre, vedendo i progressi e la felicità della figlia. Di sicuro chi è cambiato in questa espe-rienza è Agnes: così piccola e fragile nel cor-po, ma con una incredibile fermezza di carat-tere. Rinfrancato dall’incontro con qualcuno che le ha voluto bene, tanto da permetterele di guardare suo padre ancora come tale, nonostante tutto il dolore: “Mi ha maltratta-to per tanto tempo, eppure… è mio padre”.

“Ci sono momenti in cui puoi sentire davve-ro che quello che fai è pieno di significato” dice Sister Augustin, una delle suore della St. Dennis. È proprio così, quando la stra-da è in salita se qualcuno ti dà una mano è più semplice continuare ad andare avan-ti. Ma ci vogliono persone con la forza di Agnes per assicurare che si arriverà in cima.

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Anthony B

“...quando conosci ciascuno di questi bambini non puoi chiamarli vulnerabili. Vuoi dire che ognuno di loro ha un valore. E’ per questo che noi abbiamo cambiato l’acronimo del progetto in

Our Valuable Children: i nostri bambini di valore”. Lucia Castelli, responsabile regionale progetto OVC

Agnes

Uganda

Alfred Ochola ha una faccia da bambi-no. Invece ha già 23 anni e una laurea in Economia e Geografia, grazie alla quale ha cominciato ad insegnare, ha una stanza tutta per sè, si prende cura della nonna anziana, della zia e dei ni-potini e, durante il tempo libero, lavora volontariamente al Meeting Point di Kit-gum. Nei suoi occhi una vivacità incon-trollabile e, nelle sue parole, il desiderio di far capire che tutto quello che è riu-scito a realizzare è stato non solo grazie al suo impegno costante, ma soprattutto grazie a chi lo ha sostenuto dall’Italia fin da quando all’età di sei anni è rimasto orfano, prima del padre poi della ma-dre, che avevano contratto il virus del-l’HIV. Allora il Meeting Point di Kitgum, una piccola ONG locale che lavora in partnership con AVSI nel Sostegno a di-stanza, lo ha inserito subito nel progetto.

“In tutti questi anni”, racconta Alfred, “ho continuato a sentire l’amicizia e il gran-de affetto della persona che dall’Italia ha iniziato a sostenermi. La sua foto è nel mio album di fotografie e da quando ho cominciato a ricevere le sue lettere ho sempre voluto ricambiare, dando prova del mio impegno”. Alfred non ha alcun

dubbio a riconoscere di essere “davve-ro una persona fortunata” poiché non è rimasto un solo istante senza le cure che gli hanno consentito di raggiunge-re i risultati di cui oggi va davvero fiero.

Quando il Meeting Point di Kitgum comin-ciò il Sostegno a distanza in partnership con AVSI, nel 1993 erano 13 i bambini orfani aiutati. Alla lista, si sarebbe ag-giunto, solo qualche mese dopo il nome del piccolo Alfred. Man mano che Alfred cresceva, in lui aumentava la convinzio-ne di potercela fare, grazie alla stima e all’affetto per Ketty Opoka, responsabile del Meeting Point che lo ha accompa-gnato in tutti questi anni e per quella donna così lontana “che mi faceva da nonna” ricorda oggi Alfred. “Sto bene – scriveva la sostenitrice in una delle nu-merose corrispondenze tra i due – e de-sidero vivere a lungo, almeno fino a che i tuoi studi saranno terminati”. Alfred è davvero un ragazzo fortunato. Del resto, in tutti quegli anni, il Sostegno a distanza non solo era servito a mandarlo a scuo-la - dunque a pagare le rette e il mate-riale scolastico – ma anche a garantire un’esistenza dignitosa alla famiglia del bambino, alla nonna anziana e ai cugini.

Quando poi gli comunicarono che po-teva anche iscriversi all’Università, Alfred non riusciva a crederci. Nei tre anni pre-visti dal tipo di studi scelto, ha ottenuto il Bachelor of Arts of Education in Economy and Geography all’Università Kyambojo di Kampala. Quando ha ricevuto la lau-rea la prima cosa che ha fatto è stata scrivere alla sua sostenitrice italiana.

Alfred ha cominciato ad insegnare in una scuola secondaria del suo distretto ma non ha dimenticato come è comin-ciata la sua storia. Oggi al Meeting Point di Kitgum sono 426 i bambini o ragazzi sostenuti, e tutti sono orfani di uno o en-trambi i genitori. Ma a prendersi cura di loro c’è anche Alfred. “Capisco i loro pro-blemi”, dice Alfred, lanciando il suo mes-saggio di speranza. “Immagino quello che provano, ho provato anch’io gli stessi sentimenti. Ma so che anche loro, come me, possono farcela se hanno delle persone che li amano e sostengo-no. Per questo motivo sono qui con loro e voglio dare il mio tempo libero, il più importante, al Meeting Point di Kitgum!”.

L’impegno di Alfred dare quello che ha ricevutoOggi un aiuto per 426 bambini

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Alfred (il secondo da sinistra) con alcuni orfani del Meeting Point di Kitgum

L’impegno di Alfred dare quello che ha ricevutoOggi un aiuto per 426 bambini

Uganda

Una pagella da primatoElizabeth, dallo slum all’esempio per i compagni di scuola

Quando la mamma di Elizabeth Adong si è vista consegnare lo School terminal report 2007 (la pagella) della seconda classe ele-mentare, non riusciva a crederci. Quello che gli assistenti sociali di AVSI le avevano det-to era vero: Elizabeth era risultata quinta tra i 47 altri studenti della sua classe. Un risul-tato a cui nessuno avrebbe potuto credere se avesse visto che tipo di vita la bambina era stata costretta a vivere con la madre e gli altri fratelli fino a poco tempo prima. La famiglia di Elizabeth, orfana di padre, viveva in uno slum, vale a dire un quartiere pove-rissimo fatto di baracche, privo di acqua e energia elettrica, alla periferia di Kampala, la capitale dell’Uganda. Elizabeth viveva tra l’immondizia, le fogne a cielo aperto, adul-ti alcolizzati. La mamma, in ogni caso, non avrebbe potuto offrirle di meglio. Quello che riusciva a guadagnare facendo lavori occa-sionali, come lavare la biancheria di altre famiglie o vendere verdura al mercato, le forniva a malapena denaro sufficiente per mangiare. Il primo impegno di AVSI nel pren-dersi cura di questa famiglia è stato cercare di migliorare le condizioni igieniche e sani-tarie in cui si trovava. A partire dalla casa.

“Da sola non ce l’avrei fatta”, racconta la ma-dre nella sua nuova casa, costruita grazie al

sostegno di AVSI. “Questo è un vero paradi-so rispetto alla condizione precedente” ag-giunge Ignatius Wangwe, l’assistente sociale che ci ha accompagnato a visitare la casa di Elizabeth. Lei quasi non parla, educata e intimidita, ma splendente nel suo nuovo ve-stitino a quadretti bianchi e blu. A parlare per lei sono i voti scritti sulla sua pagella: 88 su 100 in scienze; 90 su 100 negli studi socia-li; 92 su 100 nella lettura e scrittura; 96 su 100 in inglese e via dicendo, ottenuti alla St. Kizito Primary School Bugolobi di Kam-pala, che frequenta da due anni grazie al Sostegno a distanza. Elizabeth: così riservata con gli estranei e così espansiva a scuola.

A Kitintale, il sobborgo dove la famiglia si è trasferita con il supporto di AVSI, vivono circa 800.000 persone che condividono le difficol-tà date dalla carenza di servizi e infrastrutture (mancano l’acqua potabile, le fogne, le stra-de asfaltate) ma condividono anche l’energia e la capacità di non lasciarsi sconfiggere. Qui, a Kitintale, in questo sobborgo, con i panni ad asciugare tra una casa e l’altra, che i ragaz-zi usano divertiti per giocare a nascondino, sono venti i bambini supportati da AVSI. Venti bambini che frequentano la scuola e comin-ciano a pensare a cosa faranno da grandi.

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Bu

bb

a

“Da quando è partito il progetto OVC abbiamo lavorato sia a migliorare le competenze dello staff sia a sensibilizzare i nostri partner su un modello che, partendo dal bambino, considerasse la necessità di osservare

e migliorare anche l’ambiente in cui vive”. Lorette Birara, responsabile progetto OVC in Rwanda

Uganda

George vive lontano dalla città. La sua capanna, fatta di fango, erba e bambù, è accogliente. Fa parte di un gruppo affol-lato di capanne costruite una vicina al-l’altra da persone costrette a vivere in un campo per sfollati nel distretto di Kitgum. George non è cresciuto spensierato gio-cando con i fratelli e gli amici, è cresciuto imparando a prendere la mira, a preme-re il grilletto e ad uccidere. A 12 anni era un soldato. George è un ragazzo acholi, etnia insediata a nord dell’Uganda che, come centinaia di altri ragazzi, ha subi-to nella maniera peggiore la guerra che per oltre vent’anni si è combattuta tra il governo del paese e l’esercito di ribelli dell’LRA (Lord’s Resistance Army-Esercito di Resistenza del Signore). Stava giocan-do con due dei suoi fratelli e altri bambini quando venne rapito e portato in Sudan, in un campo di addestramento militare.

Quando gli si chiede di parlarne, Geor-ge tentenna, abbassa gli occhi. Ma poi racconta: “potevamo camminare per ore senza bere, oppure passare giorni senza mangiare nulla”. La vita di questi ragazzi e ragazze rapiti non era altro che violenza, di quella delle più brutali, esercitata spesso solo per terrorizzare e per mostrare il proprio potere. Fuggire era il suo pensiero costante, ma non era

facile. Una volta, un ragazzo che ave-va tentato di scappare, era stato ucciso davanti agli altri “per dare un esempio” e poi la sua testa fracassata con i fucili. George è riuscito a fuggire, lui ce l’ha fatta. Ha camminato per due settimane prima di arrivare a Gulu, distretto non lontano dal suo villaggio di origine. Lì ha avuto la fortuna di entrare in contatto con una organizzazione che gli ha dato il primo sostegno psicologico, poi qual-cuno ha parlato di lui con AVSI che gli ha chiesto cosa desiderava fare nella vita e la storia di George ha cambiato colori.

Rialza la testa e comincia a raccontare dei suoi successi scolastici e del rispetto che è riuscito a guadagnarsi tra gli inse-gnanti e i compagni. Nel 2006 George, che aveva espresso tale desiderio, è stato iscritto alla Scuola Professionale Tecnica di Sviluppo Umano di Lira, per frequen-tare un corso di Tecnologia dei Motori. A scuola, dove ha anche diritto all’alloggio e al vitto nei mesi di studio, è stato eletto rappresentante degli studenti e tutti, da-gli psicologi che lo hanno seguito, agli assistenti sociali, agli insegnanti, sono certi della sua grande capacità di recu-pero e della sua immensa forza d’animo. Quando è tornato a casa George, che ora ha 19 anni, non ha trovato più la

casa, distrutta dall’LRA, né i suoi geni-tori che, nel frattempo erano morti di AIDS. Ma ha trovato qualcuno che gli ha offerto un’opportunità. Stupiscono i suoi quaderni scolastici, ordinati nella scrittura, e l’abilità tecnica con cui dise-gna le sezioni dei motori dei camion.

Nel campo sfollati dove George vive insieme ad altre centinaia di persone, non c’è energia elettrica, l’unica fonte di acqua, non potabile, è una pompa ai bordi del campo e la stagione delle piogge rende il terreno melmoso. AVSI da tempo sostiene la popolazione sfol-lata attraverso progetti idrici, di sanità e sicurezza alimentare. Ma tutto questo a volte non basta quando la guerra diven-ta endemica. Le recenti trattative di pace tra il governo ugandese e i ribelli hanno dato a molti sfollati il coraggio di tornare alle proprie case di origine. Come pre-sto farà George. A proposito, quando stavamo per lasciare il campo la moto con cui eravamo arrivati (chilometri di strada sterrata in mezzo al nulla della foresta), non voleva saperne di riparti-re. Indovinate chi l’ha rimessa a posto?

Così George ha gettato il fucile e ripreso a vivere Soldato a 12 anni,oggi il migliore della scuola

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Così George ha gettato il fucile e ripreso a vivere Soldato a 12 anni,oggi il migliore della scuola

George sorridente accanto alla sua capanna Uganda

Anthony B

Bubba

“Con il Sostegno a distanza nasce una rete di rapporti di cui ciascuno degli attori coinvolti è realmente protagonista. Per il bambino, il sostenitore è un punto di riferimento affettivo, è un amico lontano ma reale.

Il Sostegno a distanza apre i bambini ad un orizzonte di gratuità”. Dania Tondini, responsabile AVSI Sostegno a distanza

Kireka children

Uganda 15-16

La dolcissima voce di Annet“Pensavo che non sarei mai andata a scuola e invece...”

Annet ha manine piccole e affusolate, con cui da sempre ha realizzato colorati tappetini in foglie d’albero di palma che andava in giro con la nonna a vendere. È stata lei, la nonna, ad insegnarle quest’arte. “E’ l’unica cosa che so fare e l’ho insegnato a mia nipote pen-sando che così non sarebbe morta di fame quando io sarei morta”. Berna, la nonna di Annet ha contratto il virus dell’HIV. Ma è an-che l’unica parente che ha potuto prendersi cura della bambina e dei fratellini più piccoli quando entrambi i genitori sono morti di AIDS nel 2002, nonostante “io stessa facevo fatica a guadagnare abbastanza per vivere”, rac-conta. E così la piccola Annet, che allora ave-va solo 7 anni, imparò a fare da madre e pa-dre ai più piccoli e a centellinare il poco cibo offerto dai vicini o portato dalla nonna una volta a settimana. Giornate spese aspettando non si sa cosa, nell’immobilità dettata dalla fame e dalla solitudine. Ma non poteva dura-re a lungo. A causa delle deprivazioni i fratel-lini più piccoli finirono in ospedale, rischian-do di morire. Ma quella fu la fortuna di Annet perché da quel momento lei, la nonna e i tre fratellini più piccoli non sono più rimasti soli.

“Pensavo che non sarei mai andata a scuo-la”, racconta oggi con un filo di voce, “no-nostante lo desiderassi molto”. Invece An-

net Nambalirwa sta frequentando la quinta classe della Sacred Heart Jinja Kaloli Primary School, una scuola a 50 chilometri circa da dove vive la nonna. Il supporto di AVSI le ga-rantisce di frequentare il collegio, dove le è anche assicurato vitto e alloggio per l’intero ciclo di studi. L’intervento di AVSI si è irradiato anche alla nonna e agli altri fratellini. Oggi Berna riceve non solo il trattamento antire-trovirale, che le permette di ridurre la carica virale dell’HIV e vivere meglio, ma anche cibo. Così da non essere più costretta a la-vorare per settimane per realizzare un tap-petino da vendere a circa 5 dollari ognuno.

Oggi Berna si sente più forte e la prima per-sona a cui ha voluto dimostrarlo è la sua ni-potina. Un giorno gli insegnanti della Sacred Heart hanno visto Berna arrivare in classe. Aveva speso tutti i suoi soldi per andare a ve-dere dov’era la scuola dove studiava Annet. E come la bambina era accolta. “Vorrei poter fare di più per loro ma è bello poter contare su qualcuno che prende a cuore i tuoi problemi”, dice Berna. “Io continuo a lavorare come pos-so ma senza supporto non avrei mai potuto permettermi di mandare i bambini a scuola”.

Fino a poco tempo fa Annet aveva un altro tipo di vita: accudire tre fratellini più piccoli,

imparare a fare la madre-bambina, realiz-zare tappetini in foglie d’albero di palma e girare tutto il giorno per le strade nella spe-ranza di venderne almeno uno. Oggi Annet indossa abiti puliti, frequenta una buona scuola, è contenta di rivedere la nonna du-rante le vacanze scolastiche. E ha imparato anche a cantare. Con la sua dolcissima voce.

Quando la incontriamo Christine è cir-condata da talmente tanti bambini che stentiamo a vederla. È un pomeriggio di lavoro per lei, lavoro volontario, non retribuito ma indispensabile per gli 87 orfani del Centro di Cura per Orfani di Kitgum, a nord dell’Uganda. Ogni gior-no, dalle due alle cinque del pomerig-gio, Christine è qui a prendersi cura dei più piccoli, ad aiutare nei compiti i più grandicelli, a dare un po’ di compagnia e gioia a chi altrimenti rimarrebbe solo.

Christine ha 23 anni ed è rimasta orfana da piccola, come migliaia di bambini di questo distretto. Ma non si è arresa. E’ ripartita da qui, un piccolo orfanotrofio, accanto all’ospedale St. Joseph, un luo-go di accoglienza per chi davvero non ha più nessuno su cui contare. Nella realtà africana, nelle tante difficoltà che spesso la contornano, di solito rimanere soli è un evento improbabile. Il sistema del clan, della famiglia allargata, garan-tisce una naturale e comune solidarietà tra le persone. La cura dei bambini, an-che se orfani, è assicurata da nonni, zii, fratelli e cugini più grandi. Ma la guerra, e nel nord dell’Uganda è durata più di venti anni, fa anche questo: distrugge-re le famiglie, smembrarle al punto da rendere difficili le relazioni tradizionali. È

così che alcuni bambini orfani che un tempo sarebbero automaticamente pas-sati alle cure dei parenti, oggi non han-no speranza di sopravvivenza. Qualcu-no più fortunato arriva al Centro di Cura per Orfani e qui trova anche Christine.È lei, attraverso parole semplici, a spie-garci il senso della solidarietà e della

gratitudine. “Se non avessi potuto con-tare sul Sostegno a distanza non avrei potuto completare la scuola superiore. Se qualcuno non avesse continuato ad aiutarmi in questi anni non avrei preso un diploma. Non avrei potuto neanche frequentare il corso di computer che ho concluso qualche mese fa”. Christi-ne ora è alla ricerca di un lavoro: cosa non facile, soprattutto in quest’area del

paese. “Ma senza il supporto che ho ricevuto”, sottolinea, “non avrei avuto neanche una possibilità e, soprattutto, non avrei avuto neanche un certificato scolastico. Oggi ho qualcosa da scrivere nel mio curriculum”. Lei, che è stata so-stenuta e incoraggiata, guarda i bambi-ni che la circondano e dice: “se nessuno si occupasse di questi orfani, dedicasse loro un po’ di tempo, cosa ne sarebbe di loro? E cosa sarebbe stato di me se da qualche parte, lontanissimo da qui, non ci fosse stato qualcuno disposto ad interessarsi a me e al mio futuro?”

Tra i bambini per credere nel futuroChristine, un’esplosione di gioia e sorrisinell’orfanotrofio di Kitgum

“Se qualcuno non avesse continuato ad aiutarmi in questi anni non avrei pre-so un diploma. E non avrei potuto neanche frequentare il corso di computer che ho con-cluso qualche mese fa”

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Tra i bambini per credere nel futuroChristine, un’esplosione di gioia e sorrisinell’orfanotrofio di Kitgum

Christine circondata dai bambinidell’orfanotrofio Uganda

Profumo di ragout, soffritto, pane cal-do. Raro incontrare questi odorini in Uganda. Che sanno di Italia. Di cura e amore per il cibo, per le cose belle della vita. Siamo invece all’istituto Balidhabe-ne nel distretto di Jinja, grande centro commerciale dell’Uganda noto per la sua vicinanza alle sorgenti del Nilo. Qui studiano quindici ragazze. Tutte orfane di un genitore o con genitori malati di AIDS. Tutte provenienti da famiglie pove-re. Ma tutte queste ragazze condividono anche la fortuna di un incontro. Che le ha portate alla possibilità di realizza-re una grande aspettativa: inserirsi nel mondo del lavoro con una qualificazio-ne professionale. Che sarà possibile a Balidhabene, da dove usciranno, dopo due anni, di studio, con un Certificato per il Catering e la gestione alberghie-ra. Questa è la storia di quindici ragaz-ze, ma anche di come l’impegno di un singolo può creare reti di sostegno in grado di dare stupefacenti risultati.

La Balidhabene è stata fondata da una donna italiana, Alba Sara. Alla morte del marito, affermato pittore ugandese, de-cise di fare quanto insieme avevano de-siderato per tutta la vita: aiutare ragazze ugandesi bisognose. Alba oggi gestisce a Jinja quest’istituto, comprato con i pro-

pri mezzi e donato alla diocesi locale. Ma da sola non ce l’avrebbe fatta senza il supporto del programma SAD/OVC di AVSI. In questo istituto le ragazze non solo imparano le regole aziendali di hotel e ristoranti e a servire a tavola, ma soprat-tutto imparano l’arte degli chef. Ovvio che la scelta degli insegnanti, tra cui la stessa signora Alba, ricada sulla più tra-dizionale cucina italiana. Tagliatelle alla bolognese, lasagne, fegato alla vicenti-na, dessert sono i piatti preferiti di queste ragazze che hanno imparato a cucinarli come uno chef italiano. Una scelta bril-lante, considerato che queste ragazze potranno trovare lavoro nelle strutture turistiche dell’intera zona dei Grandi Laghi, che accolgono clienti provenien-ti da ogni parte del mondo alla ricerca di una buona cucina internazionale.

L’orgoglio di questa scuola, che ha già diplomato le prime quindici ragazze, è quello di riuscire a dare un concreto ri-sultato al lavoro fatto. Alcune delle gio-vani che hanno frequentato la scuola sono già state assunte presso hotel e resort e le nuove studentesse, nella loro divisa bianca e blu, hanno tutte le idee ben chiare su come utilizzare il loro di-ploma. “Prima di venire qui passavo il mio tempo a far niente”, racconta la

diciottenne Leah Kyobula. “Ora sto im-parando qualcosa che mi aiuterà a co-struirmi un futuro migliore”. Ritah Kampi, 16 anni, non vuole soltanto diventare uno chef, il suo sogno è riuscire a mette-re da parte i soldi necessari per aprire un ristorante per conto suo. Juliet Namkian-da, vent’anni, è invece convinta di avere buone doti organizzative e di gestione: “il mio obiettivo è diventare manager di un buon hotel. Mi piacerebbe andare in Kenya e sto raccogliendo informazio-ni per poter inviare il mio curriculum”.

Salutiamo le ragazze del Balidhabene già con il desiderio di ritornare. Le ab-biamo incontrate nel giorno degli esa-mi del primo anno (ne tengono due all’anno) e ci hanno offerto un ottimo pranzo. Per sapere quanto sono brave dovreste venire quaggiù a conoscer-le. Vi assicuriamo che ne vale la pena.

Sognando un hotel a cinque stelleCinque ragazze ugandesiesperte di cucina italiana

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Sognando un hotel a cinque stelleCinque ragazze ugandesiesperte di cucina italiana

Le ragazze della scuola alberghiera con Alba, la direttrice (al centro), Marco Trevisan responsabile progetto in Uganda (dietro di lei), con esperti di catering e Lavinia, volontaria di AVSI (sulla destra).

Uganda

La silenziosa vita di ChristineIeri orfana per mano dei ribelli LRA.Oggi malata di cancro in via di guarigione

Christine, a soli 17 anni, non ha avuto una vita particolarmente facile, nè tantomeno fe-lice. A 2 anni i ribelli dell’LRA (Lord’s Resistan-ce Army - Esercito di Resistenza del Signore) le hanno ucciso entrambi i genitori sotto gli occhi. A 12 le è stato diagnosticato il mor-bo di Hodgkin, un tumore raro che attacca i vasi linfatici. Christine vive a Gulu, distretto a nord dell’Uganda. Da lì periodicamente viaggia verso la capitale del paese, Kam-pala, dove, all’istituto di tumori di Mulago dell’ospedale Lacor si sottopone alla che-mioterapia. Viaggio, cure, soggiorno nella capitale, sono possibili grazie al Sostegno a distanza in cui Christine è inserita dal 2005.

Prima di entrare nel programma la famiglia di Christine, che dopo la morte dei genitori è stata presa in casa dalla zia paterna, era co-stretta a raccogliere qua e là i soldi per ogni chemio. Ma ogni volta che si riuscivano a raggiungere i 400mila scellini ugandesi (circa 158 euro) necessari era già tempo di ricomin-ciare a cercare soldi per pagare il successivo ciclo di terapie. Questo fino all’incontro con la Katalemwa Cheshire Home, un’associa-zione di Kampala che dà assistenza a bam-bini disabili o con gravi problemi di salute.

Da quel momento Christine venne aiu-tata da AVSI tramite il sostenitore ita-liano che l’ha conosciuta solo attra-verso una foto e la corrispondenza.

Christine è molto timida e fa fatica a parlare di sè. Alla richiesta di scrivere su un foglio il suo pensiero, lei risponde scrivendo “I wish you help me” (desidero che mi aiuti). Sarà poi un libro di storia, la materia che preferi-sce, a darle il coraggio di far sentire la sua voce, tramite la lettura di qualche brano del libro. Comunica poi che da grande vorrebbe diventare un’insegnante. Christine sa scrivere e parlare bene l’inglese (la lingua ufficiale in Uganda), solo che non vuole. Sceglie volontariamente il silenzio probabilmente perché

nessuna parola potrebbe esprimere quello che ha dentro. Eppure Christine frequenta con piacere e con buoni risultati la secon-da classe della scuola superiore a Gulu.

E’ tutta la mattina che aspetta che il medico arrivi per visitarla. Paziente. Silenziosa. Ma per quel giorno non se ne farà nulla. Il medico non è arrivato, lasciando molti altri picco-li pazienti, la maggior parte provenienti da lontano, ad aspettare nei corridoi dell’ospe-dale o fuori sull’erba. Qui la presenza del personale medico non sempre è certa. Certo invece è che Christine, grazie al Sostegno a distanza, non è più sola nell’affrontare la ma-lattia che, seguita regolarmente, può essere superata. E far tornare Christine a sorridere.

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“Qui la presenza del per-sonale medico non sem-pre è certa. Certo invece è che Christine, grazie al Sostegno a distanza, non è più sola nell’affrontare la malattia”

Anthony BBubba

“Ampliando l’osservazione della realtà dal bambino alla sua famiglia e al suo ambiente siamo

riusciti a lavorare al concetto di vulnerabilità, che abbiamo identificato nello sbilanciamento tra risorse e bisogni” Marco Trevisan, responsabile progetto OVC in Uganda

Kireka children

Uganda

Elizabeth aveva 15 anni quando lasciò la casa di Kabale, distretto a sud-ovest dell’Uganda, per andare a vivere con la zia e frequentare, grazie al programma di sostegno di AVSI, la scuola secondaria Mother Kevin di Jinja, dove dimostrò su-bito grande entusiasmo e ottimi risultati.

Eppure, dopo un po’ di tempo, qualco-sa cambiò. Elizabeth restò incinta. Ebbe il coraggio di confessare la cosa solo a Sister Boni, preside della scuola. La cosa che la spaventava di più era es-sere mandata via da scuola e, soprat-tutto, la reazione dei parenti e della zia. La preside scelse di accompagnare lei stessa Elizabeth a casa al momento della confessione con la zia. Le cose andarono meglio del previsto: non solo la zia comprese la situazione ma Sister Boni promise ad Elizabeth che sarebbe potuta tornare a scuola dopo che aves-se partorito, a patto che gli altri familiari accettassero di prendersi cura del bam-bino nelle ore di scuola. Che gioia per Elizabeth che, invece, aveva previsto il peggio! Eppure, il peggio doveva anco-ra arrivare: una visita pre-parto le rivelò che era affetta dal virus dell’HIV. Difficile immaginare cosa Elizabeth abbia pro-vato in quel momento. Più facile capi-re perché a questo punto abbia deciso

di tener nascosta a tutti questa terribi-le verità. Ma non era così che doveva andare. Un giorno la zia si ritrovò tra le mani i risultati di quegli esami medici e mandò Elizabeth via di casa. Cos’altro poteva fare lei, che non aveva nessun altro a cui affidarsi, se non Sister Boni?

Non era una situazione facile e la pre-side non poteva certo affrontarla da sola. Così, tramite AVSI, mise in contatto la ragazza con Rose Busingye, respon-sabile del Meeting Point International (MPI) di Kampala, uno dei partner locali di AVSI. Da quel momento un immedia-to senso di fiducia ha avvolto Elizabeth che è riuscita ad aprire il suo cuore a

Rose senza grosse difficoltà, raccontan-dole tutto di sé e della propria vita. Pre-sto, grazie ai contatti di Rose, attorno a Elizabeth si è stretta la solidarietà delle donne del luogo, a loro volta preceden-temente aiutate e accompagnate nella malattia e nelle difficoltà da Rose. Che aveva infatti discusso della questione con le donne del Kireka Acholi Quarter, una baraccopoli di Kampala. Proprio queste donne, la maggior parte affette dall’AIDS, hanno deciso, senza pensar-ci nemmeno un attimo, di prendersi in carico Elizabeth promettendo di aver cura di lei e del bambino che sarebbe nato. D’altronde, era ciò che aveva fatto Rose con loro quando si erano trovate sole e in difficoltà. Fare lo stesso con una giovane ragazza era il minimo che potessero fare. Memori di quello sguar-do buono una volta ricevuto e che da allora non le aveva mai abbandonate.

Elizabeth ora ha 17 anni, è tornata a scuola dopo aver avuto una bam-bina bella e sana. Ora ha anche tan-tissime zie, le donne di Kireka, sem-pre pronte a prendersi cura di lei.

Elizabeth, una storia di amicizia e solidarietàDai giorni della pauraa quelli della speranza

“Presto attorno a Eli-zabeth si è stretta la solidarietà delle don-ne malate di AIDS di Kireka. A loro volta precedentemente aiu-tate e accompagnate nella malattia e nel-le difficoltà da Rose”

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Elizabeth, una storia di amicizia e solidarietàDai giorni della pauraa quelli della speranza

Elizabeth e la sua bambina Uganda

RwandaUna nuova vitaper gli orfani del genocidio

Era la primavera del 1994 quando AVSI venne contattata da UNICEF (Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia) per interveni-re in Rwanda, in particolare nel recupero dei bambini non accompagnati, di tutti quei bambini tutsi i cui genitori avevano perso la vita nel massacro ad opera di alcuni espo-nenti della tribù hutu, in maggioranza e al potere a seguito dell’indipendenza del paese dal Belgio. “Non ci sono più diavoli all’infer-no. Sono tutti in Rwanda”, titolava il Time nel maggio di quello stesso anno riprendendo la frase di un missionario, per sottolineare a quale livello di irrazionalità si fosse giunti.

Fu proprio nel periodo del post-genocidio che Carlo Maria Zorzi giunse in Rwanda. E contribuì alla nascita del Sostegno a distanza in questo paese. Il progetto nacque dunque sulla scorta dell’emergenza, dalla volontà di AVSI di dare un aiuto immediato a bambini che, altrimenti privi di qualunque mezzo di sostentamento, non sarebbero sopravvissuti.

“Arrivai nel ’97. Il Sostegno a Distanza in Rwanda era partito in un momento di emer-genza”, racconta Zorzi. “Ora occorreva al-largare la visione e cominciare a lavorare per dare risposte sul medio e lungo termine. In quegli anni ho lavorato per consolidare

il Sostegno a distanza e i rapporti tra le fa-miglie italiane e i bambini sostenuti. Occor-reva ragionare e tener conto dell’aspetto psicologico, occupandosi di bambini così

profondamente colpiti; dell’aspetto sociale, cercando di reinserire il bambino nel con-testo di appartenenza e, infine, anche del-l’aspetto economico, guardando ai bisogni delle famiglie naturali del bambino. Bisogna-va, cioè, fare in modo che anche gli adulti intorno a lui beneficiassero del sostegno, ad esempio con attività generatrici di guada-gno, in modo da diventare sempre più au-tonomi e in grado di provvedere, almeno in parte, alle necessità primarie della famiglia.

La nostra intenzione, con il tempo, è stata modificare l’approccio al bambino. In questo senso mi piace pensare al grosso lavoro di trasformazione culturale e professionale degli operatori sociali locali impegnati nel proget-to, che grazie al Sostegno a distanza hanno cominciato a guardare al bambino dal punto di vista dei suoi particolari bisogni. Stare con lui, vedere la sua evoluzione, il contesto, la to-talità. Questa è diventata pian piano la nostra metodologia. Niente routine ma attenzione e

“Bisognava fare in modo che anche gli adulti in-torno al bambino bene-ficiassero del sostegno. Ad esempio con attivi-tà generatrici di guada-gno, in modo da diventa-re sempre più autonomi”

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verifica continua di quello che si sta facendo. E’ comunque importante far capire, a chi ma-gari non ha mai visitato certi paesi e non ne conosce le condizioni di vita, come lavoria-mo e perché facciamo certe scelte. Va poi sottolineato che il Sostegno a distanza da solo non risolve tutti i problemi ma risponde a certi bisogni e spesso è inserito in progetti più ampi che vanno oltre il singolo intervento.

Un’altra questione riguarda i rapporti tra il bambino sostenuto e la sua famiglia natura-le con i sostenitori italiani. A volte possono crearsi difficoltà di comunicazione dovuti al fatto che non ci si conosce, che non ci si è mai incontrati. E’ importantissima mettersi sempre e comunque nell’ottica del bambino. Per esempio, dall’Italia spesso si sollecitano le lettere dei bambini ed è ovvio che faccia pia-cere riceverle. Eppure, per molti dei bambini sostenuti nelle varie parti del mondo, la scrit-tura non è un’abitudine consolidata. È difficile dunque, anche se facciamo sforzi in questo

senso, convincere un bambino a scrivere una lettera, magari parlando di se stesso, delle sue condizioni, della sua vita, della famiglia.

Altra questione è quella del denaro: a mio av-viso un intervento di gruppo e più generale, insieme ad un utilizzo personalizzato verso un singolo bambino, ne aumenta l’efficacia complessiva. Certo è importante, ad esempio nei casi di cure mediche, che il singolo bambi-no riceva i costanti trattamenti necessari. Ma in generale, è importante un utilizzo globale della cifra messa a disposizione dal sosteni-tore. Non va dimenticato che quel bambino sostenuto non è un universo a sé stante, ma vive in una famiglia, spesso con numerosi fra-telli, e in un villaggio, frequenta una scuola e dei compagni. È dunque a tutto il suo am-biente che pensiamo quan-do ci occupiamo di lui e del-la sua crescita complessiva.

Jean Claude: fratello, padre e madreDopo il genocidio fu lui a prendersi cura dei piccoli.Oggi è infermiere volontario.

Fino ai 12 anni la vita di Jean Claude Ha-vugimana è stata quella di un normale ra-gazzino rwandese: le giornate spese in una zona rurale, i giochi con i coetanei, il lavo-ro nei campi dopo la scuola. Poi, un brutto giorno, il 2 giugno del 1994, ogni cosa cam-biò. La brutalità del genocidio, che in soli tre mesi fece oltre un milione di vittime aveva colpito anche la sua famiglia. Vicini assassini dei propri vicini. Così sono morti, in maniera violenta e crudele, i genitori di Jean Claude. Lui riuscì a scappare, insieme alla sorella e al fratello più piccoli. Poi, quando l’orrore finì, tornarono a casa, a Kinazi nel distretto di Ruhango. “Del resto non avremmo sapu-to dove andare”, racconta oggi Jean Claude. “Qui c’erano la nostra casa e i nostri campi”. Così i tre fratelli si ritrovarono a vivere fianco a fianco con gli assassini dei genitori. “Furono questi stessi vicini”, ricorda Jean Claude, “ad offrirci il loro aiuto all’inizio, quando non sa-pevamo neanche cosa mangiare. Certo, non potevamo chiedere: sei stato tu ad uccidere nostro padre e nostra madre? E non poteva-mo neanche rifiutare il loro aiuto, avevamo paura che ci avrebbero uccisi e far finta di niente era l’unico modo per stare tranquilli”.

Jean Claude è uno tra le centinaia di migliaia di bambini che all’epoca sono stati testimoni

e vittime di qualcosa di orribile. Ma la forza che questo ragazzo è riuscito a tirare fuori ha determinato in lui un eccezionale carattere e lo ha portato a fare scelte positive per sé e per gli altri. A 12 anni, dunque, Jean Claude è diventato genitore dei suoi fratelli più piccoli. Per sei anni non ha pensato ad altro che a lavorare e a mandare i fratelli a scuola. Poi, nel 2000, ha incontrato AVSI e qualcuno che si occupasse di lui e del suo futuro. Oggi Jean Claude è infermiere ed è superfluo domandar-gli il perché abbia scelto questa strada: “sono stato in condizioni talmente difficili nella mia vita che sento un forte desiderio di aiutare gli altri. Se fossi solo, forse riuscirei a pagarmi l’università, sarebbe bello studiare medicina”. Ma a casa ci sono ancora i suoi fratelli, lui con-tinua a essere anche padre e madre per loro.

Con alcuni amici ha creato un’associazione che mira a diffondere la conoscenza sull’HIV/AIDS e a responsabilizzare i giovani sull’ar-gomento. Un impegno volontario, nato sulla scorta delle nozioni apprese durante un cor-so di formazione organizzato da AVSI e di cui Jean Claude e i compagni hanno fatto tesoro.

Jean Claude, che oggi ha 26 anni, è un uomo magrissimo. Il centro sanitario dove lavora è a circa 45 chilometri da casa. La mattina per

andare al lavoro si sveglia alle 5, dà istruzio-ni ai contadini che lavorano i campi in sua assenza (ora può permetterselo) e poi va al lavoro. Spesso un amico passa a prenderlo con la motocicletta, ma quando non può Jean Claude deve mettere in conto un cam-mino di circa 4 ore su e giù per le colline.

La stanza dove Jean Claude riceve gli ospiti è semplice: tre sgabelli e un tavolinetto basso fanno l’arredamento. Ma c’è una particolarità che intenerisce: alle pareti, attaccati con chio-dini, ci sono disegni di bambini. Sono i disegni fatti dal fratello e dalla sorella nel corso degli anni scolastici. Per Jean Claude sono un tesoro e, come molti genitori fanno con le “opere” dei loro figli, li tiene esposti ed è felice di mostrarli a chi va a trovarlo nella sua povera ma acco-gliente casa tra i campi del sud del Rwanda.

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Anthony B

“Da una condizione di attesa dell’aiuto si è passati ad una

capacità attiva e propositiva da parte degli stessi beneficiari. Che hanno compreso quanto il loro contributo sia fondamentale non solo per migliorare la condizione dei bambini vulnerabili ma per dare a se stessi nuove opportunità”. Lorette Birara, responsabile progetto OVC in Rwanda

Rwanda

Bambini grandi come adultiLa storia di Judith e dei suoi fratelli

Crescere velocemente in Africa è una regola. Senza questo impulso sopravvivere sarebbe difficile in quelle aree rurali dove per un bam-bino la giornata comincia alle 5 del mattino e termina quando il sole tramonta e il buio ren-de difficile ogni occupazione. Judith Nijomu-geni si è adattata tanto velocemente a questa regola da non essere mai stata una bambina. A sei anni la vedi alle cinque del mattino cor-rere per i campi, fino alla fonte d’acqua più vicina, con la sua tanichetta gialla. Poi la vedi tornare a casa, mangiare una patata bollita rimasta della sera (se c’è) e correre all’asilo. Quando torna a casa, Judith non ha il pran-zo a tavola ad attenderla, non ha ad atten-derla il padre, e spesso non ha ad attenderla neanche la madre. Ci sono i suoi fratelli però: Jean Bosco Iraducunda, 9 anni; Jean Baptiste Nisingizwe, 7 anni e Fabrice Ishimwe, 2 anni. Tutti sieropositivi. Tutti grandi come adulti. I genitori, che oggi sono separati, hanno con-tratto il virus dell’HIV quasi subito dopo il loro incontro e, anziché sostenersi a vicenda, han-no finito con l’incolparsi l’un l’altro. Poi basta,

ognuno per la sua strada: il padre a Kigali, capitale del Rwanda, di tanto in tanto in visita a casa con un peluche per tutti e quattro, la madre in giro gran parte del giorno a cercare il modo di far soldi per comprarsi da bere.

Quando Judith è stata individuata dalle as-sistenti sociali del distretto di Kamonyi, dove

vive, nessuno avrebbe scommesso sul suo fu-turo. Eppure c’è stato chi non si è arreso e ha cominciato a pianificare non solo il Sostegno a distanza, ma un intervento d’urgenza per questa bambina sieropositiva e in gravi con-dizioni di denutrizione. Oggi, dopo un paio d’anni di cure costanti e controlli continui, Judith racconta quanto le piaccia andare al-l’asilo, quanto non le pesi andare a prendere l’acqua per la famiglia tutte le mattine. Confi-da che la diverte tanto giocare con la terra e l’erba facendo finta che sia cibo da cucinare.

Judith, una volta al mese si reca a Kigali con la madre per essere sottoposta al trattamen-to antiretrovirale. L’attenzione riservata alla bambina è stata da AVSI rivolta anche alla madre e al fratellino Jean Bosco, che ricevo-no anch’essi il trattamento, cosi come al resto della famiglia. Judith è stata da subito inserita nel programma alimentare ed ogni mese la sua famiglia riceve fagioli, pasta di mais, olio di palma, zucchero e sosoma, un misto di sor-go, soia e mais, fondamentali perchè il loro

“Considerare le perso-ne protagoniste assolu-te del nostro intervento è l’aspetto più evidente dell’approccio al bambi-no. Sono gli stessi benefi-ciari a comprendere che il successo di ogni azio-ne dipende da loro e dalle capacità che, insieme a noi, mettono in campo” Lorette Birara, Rwanda

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fisico venga rafforzato per permettere l’assi-milazione dei potenti farmaci antiretrovirali.

Jeanette, la madre di Judith, finirà per riav-vicinarsi ai suoi figli. In ogni caso, spingerla ad un impegno preciso almeno una volta al mese, quando accompagna i figli in ospe-dale, è un modo per riportarla ad una realtà che per lungo tempo ha affrontato solo con disperazione, urla verso il marito e atteggia-menti di autodistruzione. Oggi Jeanette, che ha solo 31 anni, grazie alle cure mediche è in grado di lavorare i campi e di far da man-giare ai bambini quando torna dai suoi va-gabondaggi. Oggi Jeanette e i suoi figli han-no anche una casa, costruita, anche questa, con l’appoggio dei sostenitori. Oggi Jeanette guarda ai suoi figli, voluti bene da persone lontane e vicine, in modo diverso. Sono una risorsa e una riserva d’amore anche per lei.

Ogni volta che finisce la visita degli assi-stenti sociali di AVSI, i quattro fratellini fan-no il muso. Ma poi si ricredono, ripensan-

do che il mese prossimo li rivedranno. E come sempre, verranno accolti con un for-te abbraccio, come si usa da queste parti.

Rwanda

La voglia di vivere della piccola ProvidenceL’handicap non ha fermato chi credevanelle capacità di recupero della bimba

Quando Providence venne individuata da-gli assistenti sociali di AVSI, sua madre dis-se che sarebbe stato meglio aiutare la fi-glia più giovane, che non aveva problemi di salute, spiegando che Providence era “un inutile peso” e che la bimba era con-siderata morta agli occhi della famiglia.

Providence era “un inutile peso” fin da quan-do la mamma l’aveva partorita, a soli 15 anni. Providence era “un inutile peso” per quel pa-dre che dopo poco tempo aveva voltato le spalle ad entrambe e si era allontanato. Pro-vidence, infine, era diventata “un inutile peso” anche per la nuova famiglia che si era forma-ta quando la madre aveva accettato una pro-posta di matrimonio e dall’unione erano nati altri figli. Non c’era tempo per lei, né qualcu-no pensava avesse senso occuparsi di que-sta bimba affamata, ammalata e “diversa”.

Oggi, a guardarla, nessuno direbbe che si tratta della stessa Providence malnutri-ta che veniva lasciata fuori casa mentre gli altri si dedicavano alla cura dei campi. Che, in quanto non in grado di muoversi, rimaneva sotto la pioggia finché qualche vicino non arrivava e la portava in casa. Di cui ci si dimenticava se aveva mangiato o da quanto non mangiava. Del resto, non

c’era cibo a sufficienza neanche per gli altri.

Il primo impegno di AVSI è stato quello di scegliere proprio Providence come la bam-bina da sostenere all’interno della fami-glia, dimostrando così alla madre come la bambina avesse un valore, fosse impor-tante nonostante il suo handicap. E che la sua vita valeva la pena di essere soste-nuta. E lei di andare a scuola, essere nu-trita e curata. Come tutti gli altri bambini. AVSI iniziò poi a intervenire in modo mirato.

Grazie a cure specifiche e a un regolare sup-porto alimentare, Providence è uscita dal pe-riodo peggiore, pronta ad iniziare una fisiote-rapia. La bambina è stata quindi iscritta in una scuola a tempo pieno per bambini con ne-cessità particolari, Handicapped restored in its rights - Handicappati reintegrati nei loro diritti. Qui Providence ha ricevuto tutte le cure che

il medico specialista, a cui AVSI si era rivolto, aveva indicato, inclusa la fisioterapia. E sicura-mente grandi risultati hanno dato le cure spe-ciali di un membro del personale della scuo-la che ogni giorno ha dato alla bimba tutto l’amore e le attenzioni di cui aveva bisogno.

Oggi Providence può camminare, mangiare da sola e sorridere, un’espressione che la sua famiglia non le aveva mai visto sul volto. La capacità di recupero della bambina e lo sguardo degli assistenti sociali di AVSI verso di lei hanno stupito persino la madre. Che oggi ha iniziato a guardarla con occhi diversi. “Oggi Providence può

camminare, mangia-re da sola e sorridere, un’espressione che la sua famiglia non le ave-va mai visto sul volto”

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“Assistere i bambini che non riescono ad ottenere buoni risultati a scuola deve

coincidere con il comprendere appieno quali siano i loro veri talenti, spesso in campi diversi da quello scolastico. Nell’ottica di valorizzarli. Per il loro benessere”. Jackline, assistente sociale AVSI in Kenya

Rwanda

Nascosta tra i campi per salvarsiOggi Josepha ha terminato la scuola, ha una bambina e sogna di vivere in città

Josepha Nijonshuti aveva 12 anni quando ha visto uccidere tre dei suoi fratelli a colpi di machete. Si era nascosta tra l’erba e accovac-ciata come un cucciolo di animale è restata lì finché non è stata certa che gli assassini dei fratelli fossero andati via. Nel distretto di Nyanza, a sud del Rwanda, dove Josepha abi-tava ed è poi tornata a vivere, il genocidio del 1994 ha fatto migliaia di vittime. Tre mesi di inferno, tre mesi in cui ogni legame familiare è stato cancellato e si tentava di sfuggire alla mattanza con tutti i mezzi possibili: pagando gli assalitori, passando dalla parte dei carne-fici, dandosi alla fuga lasciandosi indietro tutti gli altri. Quanto è accaduto alla famiglia di Josepha. Dopo l’uccisione dei fratelli, i geni-tori, lei e le altre due sorelle sono scappati disordinatamente, ognuno per proprio conto. “Era molto più facile nasconderci se eravamo divisi”, ci racconta Josepha. L’amicizia con un hutu diede a Josepha una speranza. Que-st’uomo le procurò infatti un documento falso in cui la sua etnia tutsi era stata modificata. Una speranza che però non durò a lungo,

dato che Josepha non riuscì a passare il confi-ne con il Burundi, dove si era diretta. Eppure è stata fortunata perché è riuscita a nasconder-si fino a quando la furia non ha cominciato a placarsi. “Allora sono tornata verso casa”, ri-corda oggi la ragazza. “Quando sono arriva-ta non c’era nessuno, tutto distrutto e abban-donato, ma sono rimasta qui, è la mia casa, l’unico posto dove posso vivere”. Josepha è rimasta sola spendendo il suo tempo a guar-dare le colline della provincia del sud e la gente camminare verso casa. Poi, lentamen-te, prima la madre, poi le sorelle e il padre (che era stato gravemente ferito) sono tornati.

Ma come è possibile sopravvivere dopo aver assistito alla morte dei tuoi fratelli e in un modo così feroce? La necessità di an-dare avanti, di usare la furbizia e l’ingegno per evitare di essere massacrata aveva dato a Josepha la forza di superare lo choc ini-ziale. Nel ‘95 la giovane entrò nel program-ma di Sostegno a distanza e, avendo perso un anno, fu riscritta al secondo anno della

scuola elementare. Eppure a scuola era an-cora più difficile cercare di dimenticare. “La maggior parte dei miei compagni aveva i miei stessi problemi”, ricorda Josepha. “Spes-so accadeva che all’improvviso qualcuno si mettesse a urlare ‘stanno arrivando, stanno arrivando, ci uccideranno’ e allora tutti inco-minciavano a piangere e a nascondersi”. Il trauma collettivo dei bambini e ragazzi del Rwanda è una delle questioni più serie che gli operatori umanitari, le ONG, e i singoli progetti hanno dovuto affrontare negli anni successivi al genocidio. Sostenere un bambi-no in Rwanda ha avuto un significato che è andato ben oltre le cure materiali e il sup-porto scolastico. Ecco perché quando Jose-pha è rimasta incinta, circa 4 anni fa, AVSI ha continuato a sostenerla. Sonia Keza, la bam-bina di Josepha, ha oggi tre anni. È cresciu-ta guardando la mamma andare a scuola e studiare, un modo sicuramente stimolante per imparare e diventare curiosi del mondo.

Oggi Josepha è una donna di 26 anni con

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l’obiettivo, ora che ha terminato la scuola secondaria, di trovare lavoro. Certo non sarà facile in una realtà in cui la disoccupazione tocca altissime percentuali e la corruzione anche. La fortuna in questi luoghi è vivere in una famiglia allargata dove chi ha soldi li mette a disposizione di tutti e dove la cura dei campi è una responsabilità collettiva. Josepha e la sua bambina hanno tutto quello che tra queste colline occorre per vivere con serenità nell’attesa, un giorno forse, di trasferirsi in città.

Rwanda

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Bimbi a scuola grazie a mamme imprenditriciA Gatsibo per rispondere alle esigenze dei piccoli e di tutta la comunità nasce una cooperativa

Qualche volta basta un po’ di riflessione e la capacità di mettere insieme le forze, per dare risposta a un problema che sembra-va insolubile. Lo ha dimostrato un gruppo di donne del distretto di Gatsibo in Rwanda che, grazie alla loro iniziativa, sono riuscite da un lato a consentire ai loro bambini di frequentare la scuola materna mentre loro lavorano, dall’altro a creare una cooperati-va in grado di gestire, con spirito democra-tico e competenza, le esigenze del distretto.

Tutto cominciò da un gruppo di mamme di bambini sostenuti dal Sostegno a distanza e poi entrati nel progetto OVC che, con l’aiu-to di AVSI, hanno creato Abishyizehamwe, un’associazione che svolge con successo attività generatrici di reddito legate alla cura del bestiame e della terra. Presto però si ma-nifestò un problema: come potevano le 44 mamme lavorare e prendersi contempora-neamente cura dei propri bambini più picco-li, che non erano ancora in età scolare? Ce n’erano 75 in tutto da accudire. Anche se gli affari andavano bene, quale futuro potevano avere bambini che rischiavano di restare per strada mentre le mamme erano al lavoro? Sono state loro stesse a trovare la soluzio-ne: avrebbero messo insieme le proprie ri-sorse finanziarie per affittare una stanza e

pagare una maestra che si prendesse cura dei figli e cominciasse a dare loro i pri-mi rudimenti scolastici. E così hanno fatto.

Le cose sono andate oltre le aspettative. Questa piccola iniziativa privata infatti, ha su-scitato l’interesse di altri genitori, che hanno talmente pressato l’associazione, che questa alla fine ha deciso di costruire una scuola materna con il seguente accordo economico: ogni famiglia avrebbe contribuito con mez-zo dollaro a testa, il resto lo avrebbe pagato l’associazione. In questo modo nessun bam-bino sarebbe rimasto in strada e privo di cure mentre entrambi i genitori erano al lavoro.

Forti del successo ottenuto con questa inizia-tiva, i membri dell’associazione hanno deci-so di mettersi insieme ad altri due organismi analoghi fondando così una cooperativa. Oggi ne fanno parte 154 persone, di cui 116 sono donne. Un’idea nata sotto buoni au-spici, considerando che le tre associazioni hanno condiviso, e continuano a farlo, quote e introiti seguendo quel principio di ugua-glianza che fa la differenza tra un’impresa ad esclusivo fine di lucro e una cooperativa. Questa di Gatsibo opera non solo per for-nire i mezzi di sussistenza a famiglie in diffi-coltà, ma assicura ai genitori la possibilità di rispondere ai principali bisogni dei figli: non solo cibo, ma anche scolarizzazione e salute.

“La cooperativa ope-ra non solo per fornire i mezzi di sussistenza a famiglie in difficoltà, ma assicura ai genitori la possibilità di rispondere ai principali bisogni dei figli: non solo cibo, ma an-che scolarizzazione e sa-lute”

Qualche volta basta un po’ di riflessione e la capacità di mettere insieme le forze, per dare risposta a un problema che sembrava inso-lubile. Lo ha dimostrato un gruppo di donne del distretto di Gatsibo in Rwanda che, grazie alla loro iniziativa, sono riuscite da un lato a consentire ai loro bambini di frequentare la scuola materna mentre lavorano, dall’altro a creare una cooperativa in grado di gestire, con spirito democratico e competenza, le esi-genze del distretto.

Tutto cominciò da un gruppo di mamme di bambini sostenuti dal Sostegno a distanza e poi entrati nel progetto OVC che, con l’aiu-to di AVSI, hanno creato Abishyizehamwe, un’associazione che svolge con successo attività generatrici di reddito legate alla cura del bestiame e della terra. Presto però si ma-nifestò un problema: come potevano le 44 mamme lavorare e prendersi contempora-neamente cura dei propri bambini più picco-li, che non erano ancora in età scolare? Ce n’erano 75 in tutto da accudire. Seppure gli

affari andassero bene, quale futuro potevano avere bambini che rischiavano di restare per strada mentre le mamme erano al lavoro? Sono state loro stesse a trovare la soluzione: avrebbero messo insieme le proprie risorse finanziarie per affittare una stanza e pagare una maestra che si prendesse cura dei figli e cominciasse a dare loro i primi rudimenti scolastici. E così hanno fatto. Le cose sono andate oltre le aspettative. Questa piccola iniziativa privata infatti, ha su-scitato l’interesse di altri genitori, che hanno talmente pressato l’associazione, che questa alla fine ha deciso di costruire una scuola materna con il seguente accordo economico: ogni famiglia avrebbe contribuito con mezzo dollaro a testa, il resto lo avrebbe pagato l’associazione. In questo modo nessun bambino sarebbe rimasto in strada e privo di cure mentre entrambi i genitori erano al lavoro.

Forti del successo ottenuto con questa inizia-tiva, i membri dell’associazione hanno deci-so di mettersi insieme ad altri due organismi analoghi fondando così una cooperativa. Oggi ne fanno parte 154 persone, di cui 116 sono donne. Un’idea nata sotto buoni auspi-ci, considerando che le tre associazioni han-no condiviso, e continuano a farlo, quote e in-troiti seguendo quel principio di uguaglianza che fa la differenza tra un’impresa ad esclu-sivo fine di lucro e una cooperativa. Questa di Gatsibo opera non solo per fornire i mezzi di sussistenza a famiglie in difficoltà, ma assi-cura ai genitori la possibilità di rispondere ai principali bisogni dei figli, non solo cibo, ma

“I nostri interventi sono efficaci se danno risultati che riguardano non solo il bambi-no ma anche chi gli vive intorno. Oltre a quelli diretti sul bambino (tasse scolastiche, cure mediche…) insistiamo sugli interventi indiretti rivolti alla sua famiglia e alla comunità in cui vive (attività generatrici di reddito, ristrutturazione della casa…)” Marco Trevisan, responsabile progetto in Uganda

KenyaFormazione e sostegno per togliere i giovani dall’inferno degli slum

Leo Capobianco, in Kenya per AVSI da 16 anni, questo paese lo conosce bene. Una esperien-za che, negli anni, lo ha portato a sviluppare una grande capacità di pensare a progetti che, partendo dal concreto, portino a risultati altrettanto concreti e visibili anche a distanza di tempo. E quella di agire su basi realistiche è sempre stata una caratteristica molto netta delle scelte di AVSI Kenya fin dall’inizio. Scelte da cui, dopo alcuni anni, è nato il Sostegno a distanza che ha sviluppato la struttura flessi-bile e assai valida che mantiene ancora oggi.

“AVSI in Kenya” spiega Capobianco, “ha co-minciato a impegnarsi da subito in un am-bizioso progetto, la realizzazione di corsi di formazione professionale che aiutassero ragazzi di Nairobi a imparare un mestie-re”. Era il 1986 e, fino al 1991, questi corsi realizzati con i fondi della cooperazione ita-liana, riuscirono a far diplomare circa 300 ragazzi. Falegname, elettricista, meccanico erano i mestieri insegnati. Forte di questo successo nel 1993 AVSI realizzò una vera e

propria scuola, il St. Kizito Vocational Training Institute - l’Istituto Professionale San Kizito.Per adeguarsi alle continue richieste e al mercato del lavoro, ai corsi tradizionali se ne aggiunsero altri, come quello per sarti, idraulici, muratori, segretaria d’azienda e, in-fine, quello di informatica. Lo sforzo di AVSI, in quel periodo, fu quello di sostenere que-ste scuole, per la maggior parte frequentate dai ragazzi poveri delle baraccopoli (slum) della capitale. La partecipazione era sempre più massiccia arrivando anche a 350 ragazzi all’anno per ogni singolo corso. “Per noi era fondamentale che questi ragazzi mettessero a frutto quello che avevano imparato e non ritornassero nelle baraccopoli a far niente”, ricorda Capobianco. “È così che, nel 1999, abbiamo dato vita al COWA, The Companion-ship Work Association, una sorta di “ufficio di collocamento”, con l’obiettivo di creare un raccordo tra il centro di formazione e le im-prese. Era un modo per continuare a seguire i ragazzi e le ragazze che avevano termina-to i corsi anche nella ricerca di un lavoro.

Poi, in modo naturale, abbiamo cominciato anche le attività del Sostegno a distanza. Tutto è partito da una semplice richiesta di aiuto. Nel 1995 il prete di una parrocchia dello slum di Kibera a Nairobi, ci chiese se potevamo pren-derci in carico 60 bambini orfani dello slum. Nel 1999 i bambini erano già diventati 400. Un numero che è andato crescendo sempre più, fino agli oltre 3000 sostenuti oggi. L’inten-so impegno ci ha portato con il tempo a lavo-rare non solo con le nostre forze, ma a creare una rete di collaborazione con partner locali che oggi sono già diventati 22. Sin dall’inizio e poi nel passaggio alla fase più strutturata del Sostegno a distanza, è stato fondamenta-le l’azione di Romana Jeptoo Koech che an-cora oggi è la persona che meglio conosce i nostri bambini e ragazzi dal primo all’ultimo.

Quando ci siamo resi conto del vertiginoso incremento dei bambini abbiamo cominciato a soffermarci anche sulla qualità dell’inter-vento. Non era più possibile distribuire solo cibo e operare in una logica di assistenzia-

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lismo. Così, quando abbiamo raggiunto la cifra di 800 bambini, abbiamo deciso che ogni nostro assistente sociale non poteva prenderne in carico più di 100. Solo in questo modo si poteva pensare ad interventi mira-ti e fatti di un rapporto di conoscenza reale dei bisogni del singolo. Inoltre abbiamo co-minciato ad assumere personale qualificato e a organizzare corsi di formazione per gli assistenti sociali che già lavoravano con noi”.

Quando la vedi giocare con i compagni di scuola penseresti che Jackeline Vien-da è una bambina come tante altre, anzi un po’ più fortunata di molte bambine keniote che a scuola non possono an-darci. Eppure Jackeline ha una dolorosa esperienza alle spalle. Quando anche la mamma morì di AIDS, la famiglia di Jac-keline si disgregò completamente. Lei, penultima di nove fratelli, era troppo pic-cola, appena 12 anni, per poter decidere della sua esistenza. Così rimase a vivere con i fratelli e la sorella di poco più gran-de nello slum di Kware, a Nairobi. Una vita ai margini, in ogni senso. Ai margini di una società indifferente. Ai margini di un’esistenza fatta di deprivazioni mate-riali e violenze fisiche e psicologiche. Ai margini di un sistema scolastico che non si accorgeva che qualcosa nella bambi-na non andava. Ma la realtà era davvero difficile da scoprire. Jackeline l’ha tenuta nascosta per tanto tempo ed ancora oggi fa fatica a ricordare. Furono le suo-re dell’Evangelizing Sisters of Mary, uno dei 22 partner di AVSI in Kenya, a pren-dersi a cuore la bambina. All’inizio non fu facile capire perché Jackeline aveva cominciato a saltare le lezioni, oppure quando era a scuola non voleva più tornare a casa. Poi, parlando con i vicini e raccogliendo anche le confidenze del-

la sorella maggiore tutto fu più chiaro. Per mesi e mesi Jackeline e sua sorel-la avevano dovuto sopportare violenze di ogni tipo da parte dei fratelli e degli amici che questi ultimi si portavano in casa. Restare senza cibo per giorni era solo l’aspetto meno tragico di una vita di abusi a cui le due sorelle erano co-strette a sottostare. Oggi Jackeline, se le si chiede di quel periodo, tace e si tormenta il vestito cercando un posto in aria dove posare lo sguardo. Eppure se la vedessi giocare con i suoi compa-gni di scuola non diresti che nella sua vita c’è un’esperienza così traumatica.

Oggi la bambina, che ha 14 anni, fre-quenta la quarta classe della scuola pri-maria St. Bernard. In questa scuola, ben lontana da Nairobi, Jackeline vivrà tutto il periodo del ciclo scolastico. Qui ha stretto un forte legame con Sister Lucy, la suora che in particolare l’ha seguita e sostenu-ta con affetto in questi due anni. Nelle cure di Sister Lucy ci sono anche la sorel-la più piccola di Jackeline, che quando la mamma è morta aveva solo 3 anni e mezzo e la sorella maggiore, Maureen, che oggi ne ha 16. Entrambe sono sie-ropositive e Maureen nel frattempo ha partorito un bambino, anch’esso affet-to dal virus dell’HIV. Jackeline, invece,

è sana: tutti i test sono risultati negativi.

Jackeline da grande vorrebbe diventare suora. Dopo mesi di angosce e terrore, ha trovato sister Mary e sister Lucy a ten-derle la mano e ad abbracciarla forte. Vorrebbe quindi seguire il loro esempio, occupandosi delle persone bisogno-se, ammalate, ma soprattutto delle ve-dove. A Jackeline piace anche cantare e ballare e in ogni festa scolastica è la prima a farsi avanti. La capacità dei bambini di superare i traumi è eccezio-nale. Forse Jackeline non potrà dimenti-care, ma sicuramente potrà ridere, gio-care ed essere felice. Come è quando gira felice nei giardini della St. Bernard.

“Grazie per essere venuta”, dice prima di salutarci. “Per favore dì alle perso-ne che conosci di aiutare anche altri, non solo me”. La lasciamo mentre in-treccia un girotondo con i compagni dimenticandoci che pochi minuti pri-ma ha pianto ricordando il passato.

Una vita di violenze poi la speranzaAndare a scuola, per Jackeline,è stata la salvezza

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Una vita di violenze poi la speranzaAndare a scuola, per Jackeline,è stata la salvezza

Jackeline insieme alla sua classe

Kenya

Bubba

“Quello che era nato come puro progetto di assistenza si è evoluto fino a diventare un progetto educativo. Questo noi pensiamo sia oggi il Sostegno a distanza e, ora, il progetto OVC”.Leo Capobianco, responsabile Sostegno a distanza in Kenya

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“Quello che era nato come puro progetto di assistenza si è evoluto fino a diventare un progetto educativo. Questo noi pensiamo sia oggi il Sostegno a distanza e, ora, il progetto OVC”.Leo Capobianco, responsabile Sostegno a distanza in Kenya

La scelta di IgnatiusAttore della baraccopolisogna di diventare presidente

Qualche volta succedono cose incredibili, che stenteresti a credere se non le avessi vi-ste con i tuoi occhi. Come essere notato in uno slum tra migliaia di bambini da un regi-sta americano, girare un film sul posto in cui vivi, lo slum, appunto, e diventare la perso-na più nota e rispettata della baraccopoli. In uno slum, come quello di Kibera a Nairobi, dove circa un milione di persone vive in un groviglio di lamiere, fango e spazzatura, tutti sono uguali. Poveri, stracciati, affamati, mol-to spesso malati. Eppure Ignatius Mayiah ha avuto delle occasioni davvero speciali che lo hanno fatto diventare Ignatius l’attore di Kibera. Quando, grazie all’avvio del Soste-gno a distanza, è stato ammesso alla scuo-la elementare Little Prince - Piccolo Principe (un’oasi appena adiacente alla baraccopoli), era solo un ragazzino bisognoso di andare a scuola, di essere nutrito e di frequentare, almeno per qualche ora, un ambiente diver-so rispetto a quello dove stava crescendo. Il padre, sieropositivo, aveva abbandonato la madre che, anch’essa sieropositiva, era rima-sta sola a crescere quattro figli. Nessuno, ve-dendo quel piccolo ragazzino, allora avreb-be immaginato che in lui ci fosse del talento. Invece, è bastata un po’ di attenzione da parte degli adulti che lo circondavano, dagli assistenti sociali agli insegnanti, per consen-

tirgli di tirare fuori il meglio di sé. Sulle tavole del palcoscenico del teatro della Little Prince, Ignatius si è trovato ad interpretare sempre il protagonista nelle recite scolastiche. Lui era il Piccolo Principe, era Pinocchio, Peter Pan o il Signore degli Anelli. Nel 2006 il regista americano Nathan Collett ha girato un corto-metraggio a Kibera, che è poi arrivato fino al Festival di Berlino e ha vinto numerosi premi. Per il ruolo del protagonista, un giovane or-fano coinvolto in una gang, che si troverà a scegliere tra una vita di furti e delinquenza e la redenzione, è stato scelto lui, Ignatius.

Nei suoi progetti per il futuro non c’è però quello di fare l’attore. Quest’anno ha gli esami per passare alla scuola superiore “e il mio obiettivo è superarli e con buoni voti” dice con un piglio da uomo maturo. “Il mio grande desiderio è diventare avvocato e poi presidente del Kenya”. Verrebbe da sorridere ad un sogno che potrebbe apparire così im-modesto. D’altronde, solo chi osa e ha grandi progetti può capovolgere situazioni che sem-bravano disperate. “Esiste un divario troppo grande qui a Nairobi tra i ricchi e i poveri, tra chi ha tutto e chi non ha niente”. Quello che Ignatius pensa non è che il frutto di soli 14 anni di vita, ma di vita in uno slum. “I politici spesso non pensano a fare il bene dei cittadi-

ni”, continua con sicurezza. “Se diventassi pre-sidente non metterei i soldi nelle mie tasche”.

Mentre attraversiamo lo slum tutti lo salutano, ma quando gli facciamo notare che è famoso lui risponde: “qui a Kibera le persone sono tut-te uguali”. È così, ma è anche vero che, come si sente dire Otieno, il ragazzino del film inter-pretato da Ignatius da chi cercherà di aiutar-lo: No matter how bad things may seem, you always have a choice (non importa quanto le cose possano sembrare terribili, nonostan-te ciò hai sempre la possibilità di scegliere).

La storia di Jane che nasconde il cibo per darlo ai fratelliNello slum di Kibera la concreta esperienzadi genitori che forniscono pasti alle scuole

Come è possibile andare a scuola con la pancia vuota? E come è possibile rimanere con la pancia vuota da giorni? Lo sanno le centinaia di bambini di Nairobi che vivono a Kibera, uno dei più popolosi slum del con-tinente africano dove l’indolenza derivata dalla fame vince su tutto. Non ha vinto però sulla giovane Jane Anyango. Jane un giorno è stata colta in flagrante dagli insegnanti del-la Toy Primary School che sta frequentando grazie al programma di Sostegno a distanza, mentre nascondeva del cibo nella cartella. Era il suo cibo, o almeno una parte del vitto scolastico giornaliero. “Non posso permetter-mi di mangiare tutto quello che mi viene dato qui quando so che a casa mio fratello e mia sorella non mangeranno niente per tutto il giorno. Devo dividere con loro”. È stata que-sta la risposta, semplice e meravigliosa che Jane, che all’epoca aveva 15 anni, ha dato alle insegnanti. Ed è questa semplice risposta che condensa i risultati di un progetto a cui AVSI ha lavorato per sostenere 800 bambini dello slum. Quando si è cominciato, l’inten-to era quello di togliere questi bambini dalla strada tentando di dare loro un futuro diver-so. Col tempo, e frequentando ogni giorno queste persone, gli operatori di AVSI hanno sviluppato la consapevolezza che mandare i

bambini a scuola non sarebbe bastato. “Mol-tissimi dei bambini che sosteniamo lamen-tavano ogni giorno mal di testa, stanchezza o altre patologie”, spiega Romana Koech, una delle responsabili del programma di AVSI. “E i risultati a scuola ne risentivano”.

Così è nata l’idea: una scuola di cucina per alcuni dei genitori dei bambini di Kibera, com-pleta delle attrezzature e garantita da fondi di sostegno di inizio attività. Questi genitori sembrava non aspettassero altro che dare prova di capacità gestionale e imprenditoria-le. Tant’è che oggi cinque gruppi di genito-ri forniscono quotidianamente cibo caldo a 1100 bambini. “I ricavi di questa attività sono divisi tra i genitori che fanno parte dell’inizia-tiva”, spiega Edward Malelu, leader di uno dei gruppi. “Non solo riusciamo a guadagnare qualcosa, ma provvediamo ai bisogni primari delle nostre famiglie e, indirettamente, a quel-li di altre supportando altri bambini a scuola”. “Chi ha cibo in abbondanza non può im-maginare cosa vuol dire aver fame”, spiega Janet, una mamma del progetto. “Ma io che sono stata sveglia intere notti perché i miei figli erano andati a letto con la pancia vuota vorrei dire come ci si sente felici e soddisfatti quando si vedono questi bambini mangiare”.

“Da quando abbiamo avviato il progetto nes-sun bambino ha più problemi di cibo”, spie-ga Romana Koech. “Potremmo davvero dire che il cibo ha funzionato da ‘medicina’ e i loro risultati scolastici sono subito migliorati”.

Jane sta crescendo e ha un grande ap-petito, ma anche un grande cuore. E così, ogni giorno continua a prendere una par-te dalla sua razione, la avvolge in una bu-sta di plastica e la mette nella sua cartella, così da essere sicura che anche la sorella e il fratello più piccoli, più tardi quando lei tornerà a casa da scuola, mangeranno.

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“Le attività generatrici di reddito sono modi attraverso cui fornire agli adulti la possibilità di avviare e gestire una piccola attività lavorativa in grado di ga-rantire il sostegno della famiglia. E dunque degli stessi bambini che oggi sono aiu-tati dal SAD/OVC, ma domani saranno capaci di vivere la loro vita in maniera autonoma”. Leo Capobianco, responsabile Sostegno a distanza in Kenya

Kenya

Camminano senza una meta da mat-tina a sera. Oppure li vedi stesi sotto un albero appisolati e assenti. Sono sempre sporchi, malandati, qualche volta aggressivi, spesso persi nell’effet-to dell’alcool e della colla che sniffano per non sentire la fame e guadagnare l’impressione di essere forti e poten-ti. Sono i ragazzi di strada di Nairobi, la capitale del Kenya. A zonzo tra la periferia e i grattacieli della metropo-li. Cercando qualcosa da mangiare, qualcosa da rubare, qualcosa da fare.

Peter Wekesa è stato uno di loro per al-cuni anni. Ha vissuto di espedienti e di elemosina, bevendo e sniffando senza domandarsi mai dove sarebbe andato a finire. Non era la vita che sua madre desiderava per lui ma non c’era molto che lei, senza un marito e altri figli da badare, potesse fare. Gli affari avevano cominciato ad andar male e la vendi-ta delle verdure nel piccolo chioschet-to occupato per anni non bastava più neanche per assicurare un pasto al giorno. Figuriamoci per mandare i figli a scuola. E così, uno dopo l’altro, Peter compreso, furono costretti a restare a casa. La rabbia ed il rancore di Peter erano i sentimenti con cui sopravvive-re nella vita di strada che si era scelto.

Peter oggi non riesce a raccontare le esperienze di quegli anni, le umiliazioni, la solitudine, il desiderio di rivalsa. Riesce solo a dire “in tanti mi hanno aiutato e ora sono qui”. Il qui è l’ottava classe - la terza media italiana - in una scuola in cui ha trovato compagni con cui intrec-ciare relazioni amichevoli e insegnanti che si prendono cura di lui. Peter è stato fortunato. Moltissimi altri come lui con-sumano la vita tra arresti, furti e stenti. Pochi vivono a lungo e la maggior parte finisce per entrare a far parte di una del-le tante gang che fanno di Nairobi una delle città più insicure al mondo. Andare a scuola per Peter, che ha iniziato il so-stegno quando aveva 14 anni e oggi ne ha 16, ha significato ritrovare fiducia in se stesso e anche imparare a credere in un cambiamento reale nella propria vita.

Certo le cose non sono state facili. Pe-ter ha dovuto abituarsi a una vita fatta di orari e impegni che non conosceva. Eppure, il fatto di essere stato promosso per due anni consecutivi è un segnale positivo. Le cose non sono state facili e continuano a non esserlo soprattutto per le persone più povere del paese. Gli scontri seguiti alle elezioni presiden-ziali del dicembre 2007 si sono lasciati dietro oltre 1000 morti e circa 500.000

sfollati. Tra questi la madre e le sorelle di Peter, che hanno dovuto cercare un al-tro posto, più sicuro, dove vivere. Peter è rimasto non lontano dalla scuola e ora condivide una stanza con il fratello più grande, che per fortuna qualche volta lavora e riesce a pagare l’affitto. Ancora oggi Peter è costretto a saltare i pasti. Ma non salta neanche un giorno di scuola.

La madre del ragazzo ha ripreso l’attività di vendita di ortaggi e, anche se guada-gna poco, non ha più l’ansia di mette-re da parte i soldi per pagare le tasse scolastiche. “Vorrei tornare a vivere con mia madre e i miei fratelli e sorelle”, con-fessa Peter, lasciando intendere di aver compreso il valore della famiglia. “Tutto quello che posso fare ora è studiare”. Con la speranza, un domani, di diventa-re ingegnere. E poter mantenere da solo tutta la famiglia. Togliere Peter dalla stra-da ha dunque coinciso con una sua re-sponsabilizzazione. La stessa che nasce in chi, per la prima volta, si sente voluto bene. E non può far altro che ricambiare.

Ragazzi di strada in cerca di aiutoPeter l’ha trovatoe oggi studia per cambiare la sua vita

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Ragazzi di strada in cerca di aiutoPeter l’ha trovatoe oggi studia per cambiare la sua vita

Peter

Kenya

Una scuola materna per i bambini di KiberaCaroline, 19 anni,ha deciso da sola di offrire loro un’opportunità

Immaginate il posto più sporco e degrada-to della terra. Immaginate un posto dove si cammina sull’immondizia e tra liquami di varia specie. Immaginate un posto dove le case, grandi qualcosa come due metri per tre, sono fatte di fango e lamiera e tenute insieme da assi di legno e tronchi tagliati male. Immaginate una latrina all’aperto, co-stituita da quattro assi e un buco nel terre-no. Immaginate gli odori più terribili e intensi in un normale giorno di caldo equatoriale africano. E immaginate, infine, che in questo posto, di poche migliaia di metri quadri, sia-no ammassate circa un milione di persone. Riuscite anche ad immaginare che in un luo-go come questo ci sia una scuola materna?

Questa è Kibera, a Nairobi, considerata una delle baraccopoli più grandi dell’Africa. In questo luogo qualcuno ha pensato di met-tere su una scuola: una piccola stanza, al-l’interno di un vicolo di immondizia e terra battuta, dove un tavolino funge da catte-dra, qualche panchetta funge da banco e una lavagna è cosparsa di disegni infantili. Un’iniziativa nata dal bisogno e che pote-va nascere solo dalla sensibilità di qual-cuno che nella baraccopoli ci ha vissuto per anni e continua a viverci. Caroline Ndunge è una ragazza di 19 anni, fresca

di diploma. La scuola superiore è riusci-ta a finirla grazie al Sostegno a distanza.

Ogni giorno, dalle otto del mattino fino alle tre del pomeriggio si prende cura di alcuni bam-bini. Sono in diciotto, la maggior parte con un solo genitore. Caroline segue un programma didattico regolare, con l’insegnamento delle materie di base per i più grandi: lingua ingle-se, kiswahili (la lingua nazionale) e matema-tica. Non tutti possono permettersi di pagare la retta e spesso c’è chi salta i pagamenti per mesi. Per Caroline, che vorrebbe continuare a studiare per diventare infermiera, guadagnare qualcosa è importante. Ma ancora più impor-tante è tenere impegnati questi bambini che altrimenti passerebbero ogni giorno tra i vico-li e i pericoli della baraccopoli. Caroline è fie-ra dei suoi bambini, ci mostra i loro quaderni e, come tutte le maestre, manifesta una affet-tuosa preferenza per qualcuno di loro. Per la piccola Emma Okumu, per esempio. “Ha solo 4 anni”, dice. “Ma è così sveglia e intelligen-te. È sempre avanti agli altri. Spero tanto che riesca ad andare via da questo posto prima o poi. Merita una vita migliore, come tutti qui”.

Emma, sotto il sole ostinato di questa parte d’Africa, indossa un maglioncino di lana con il collo alto. Ci domandiamo come possa re-

sistere. Forse è l’unico indumento che possie-de. O forse nessuno ha cura di lei. Ma Emma, come tutti gli altri bambini che incontriamo, sorride e gioca serena. Conosce solo questo luogo e questa vita, ma conosce anche Ca-roline, la sua prima maestra. “Non resterò qui per sempre”, dice convinta Caroline. “Vorrei lavorare in un ospedale e vivere in una casa vera. Ora sto con questi bambini perché non tutti hanno la possibilità di andarsene. E vo-glio quindi cercare di portare un po’ di luce all’interno dello squallore dello slum. Come qualcuno, una volta, ha già fatto con me”.

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“E’ molto importante poter aiutare sempre più bambini. Ma la nostra più grande vittoria è quando qualcuno ci dice: “gra-zie per quello che avete fatto, ora non ho più biso-gno del vostro aiuto”. Leo Capobianco, responsabile Sostegno a distanza in Kenya

Kenya

Un sogno diventato realtàA Mutuati adulti dipendenti dalle foglie di miraahanno imparato a diventare imprenditori

La vita offre sempre nuove opportunità. Non ci avrebbero mai creduto i tanti bambini e ragazzi di Mutuati, un piccolo villaggio nel di-stretto di Meru in Kenya. Un luogo assai noto, tra le popolazioni locali, per la fertilità della terra. Ma la fama del posto è anche legata alla facilità di crescita e riproduzione della miraa, una pianta in grado di sopportare lun-ghe siccità e di cui gli abitanti del luogo hanno scoperto gli effetti stimolanti ed euforici delle foglie. Col tempo, intorno alla miraa è comin-ciata a circolare la vita di tutti, grandi e bambi-ni. Masticare foglie di miraa per gli adulti era un modo per sfuggire alle durezze della quo-tidianità, ma anche per evitare di prendersi delle responsabilità. Per i più piccoli, invece, rappresentava un modo per guadagnare qualcosa. Produttori senza scrupoli per lungo tempo hanno utilizzato i bambini, che per il loro peso e agilità sono i soli in grado di salire i fragili rami della pianta e coglierne le foglie.

Scuole deserte, analfabetismo, disoccupazio-ne: per anni e anni è stata questa la situazio-

ne a Mutuati. I più giovani erano addirittura diventati fonte di sostentamento per genitori e adulti della famiglia che, a causa dell’uso prolungato delle foglie della pianta, hanno cominciato a subirne gli effetti collaterali. L’abuso della miraa, infatti, incide sulla ferti-lità e, in genere, ostacola sia le attività fisiche che psichiche. A Mutuati intere generazioni di bambini hanno perso l’infanzia, impegnati a badare a se stessi e ad assumere il ruolo di capofamiglia, fino a che essi stessi non diveni-vano vittime e schiavi delle foglie di miraa. Un circolo vizioso e terribile che non trovava sosta.

Ma questo è il passato. Oggi, quegli stessi bambini che un giorno passavano le gior-nate accovacciati sui rami di un albero a raccogliere foglie, sono in classe. E quegli stessi adulti che un giorno passavano le gior-nate stesi in terra o sotto una pianta a ma-sticare foglie di miraa sono nei campi, o in un negozietto, o in una fabbrica, a lavorare.

Mutuati oggi è nota per le attività messe in

piedi dall’associazione Don Bosco. L’iniziati-va, semplice e nello stesso tempo risolutiva, si deve a un gruppo di persone che hanno cominciato a pensare in positivo grazie alle proposte arrivate da AVSI. Tutto è nato così: incoraggiando i genitori di ragazzi aiuta-ti ad andare a scuola grazie al Sostegno a distanza e al progetto OVC e a credere nel-le proprie capacità. I primi gruppi di genito-ri hanno cominciato a partecipare a corsi e lezioni per imparare le norme basilari per avviare un’attività generatrice di reddito. In seguito, spinti forse prima dalla curiosità, poi dal reale desiderio di fare, a quei piccoli gruppi se ne sono aggiunti altri e altri anco-ra. “Oggi”, racconta Cyprian Kaliunga, leader dell’associazione Don Bosco e insegnante alla scuola elementare di Mutuati, “abbia-mo genitori che gestiscono serre, negozi, che allevano pollame e coltivano la terra”.

Ma non è tutto: non solo ora i bambini fre-quentano regolarmente le lezioni ma, negli ultimi due anni, circa 400 adulti sono entrati

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in un programma di studio e vanno a scuo-la. Un’attività che li ha resi particolarmente sensibili ai successi scolastici dei propri figli. “La maggior parte dei nostri bambini erano malnutriti”, ricorda ancora Kaliunga. “Erano costretti spesso a subire gli abusi dei colti-vatori di miraa e non sapevano cosa fosse la scuola”. Oggi tutto è cambiato e que-sto cambiamento si deve a loro stessi che hanno saputo portare avanti prima un so-gno, poi un progetto. Oggi diventato realtà.

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Anthony B

Anthony B

In 37 paesi nel mondo AVSI sostiene, attraverso il Sostegno a distanza, quasi 35.000 bambini. Ogni volta che incontriamo uno di loro ci ricorda: “per favore, saluta il mio sostenitore italiano quando lo vedi…”. La storia del Sostegno a di-stanza è una storia fatta di amicizie e affetti coltivati a migliaia di chilometri di distanza tra persone che non si sono mai viste e che forse non si incontreranno mai, eppure è una storia di sentimenti profondi e di legami che durano nel tem-po. Ognuno dei bambini che insieme a voi abbiamo accompagnato nel suo per-corso di crescita vorrebbe dire “Grazie!”. Noi allora vi lasciamo il loro saluto, attraverso le loro storie, i loro volti e i loro sorrisi.

Potete far conoscere ai vostri amici le storie di questi bambini, le storie di chi avete aiutato a crescere e a realizzarsi. Potete continuare, insieme a coloro che nel frattempo decideranno di seguirvi in questa scelta, a tenere stretti questi legami di immenso affetto e amicizia.

Dania Tondini, Responsabile Sostegno a distanza AVSI

“Per suscitare in un bambino la fiducia in se stesso, la stima e la consapevolezza delle proprie capacità, per stimolare la sua crescita come essere umano capace di affrontare la vita e le sue difficoltà, è necessario che, almeno una volta nella vita, abbia potuto fare l’esperienza di un incontro.

Di uno sguardo capace di valorizzarlo, di dargli fiducia, di comprenderlo e di accoglierlo”.

Lucia Castelli, responsabile regionale progetto OVC

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Realizzione AVSI

Fotografie Antonella Sinopoli, eccetto copertina e retro di Brett Morton, p.2,3,6 di Valentina Frigerio, p.32,36,44,50 di Lucia Castelli, p.38 di Giacomo Frigerio, p. 51 di AVSI Staff.

Stampato nel dicembre 2008

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