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1 I LIMITI DEL REGNO DELLE DUE SICILIE Il Regno delle Due Sicilie fu uno Stato sovrano dell'Europa meridionale esistito tra il dicembre 1816 e il febbraio 1861, ovvero dalla Restaurazione all'Unità d'Italia.

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I LIMITI DEL REGNO DELLE DUE SICILIE

Il Regno delle Due Sicilie fu uno Stato sovrano dell'Europa meridionale esistito

tra il dicembre 1816 e il febbraio 1861, ovvero dalla Restaurazione all'Unità d'Italia.

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INDICE

LA SICILIA ANTIBORBONICA

DIVARIO FRA IL REGNO DELLE DUE SICILIE E GLI ALTRI STATI

IL BRIGANTAGGIO

IL LENTO SVILUPPO ECONOMICO DELLA SICILIA.

L’INDUSTRIA SICILIANA.

L’AGRICOLTURA IN SICILIA.

LA VIABILITÀ INTERNA.

L’ISTRUZIONE NEL REGNO

LOGORAMENTO DELL’ESERCITO

GLI ANNI BUI DI FERDINANDO II.

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LA SICILIA ANTIBORBONICA

Durante il regno di Carlo III (1734 – 1759) e nei primi anni di quello di Ferdinando I

delle Due Sicilie (1759 – 1816), la Sicilia non era molto diversa dal resto del

Mezzogiorno. Le grandi potenzialità economiche si alternavano con le difficoltà

dell’autorità regia ad affermarsi a causa delle resistenze dei baroni, dei feudatari e

della chiesa.

Erano presenti terreni fertili e produttivi e latifondi spesso lasciati a pascolo. L’isola

conservava la dignità dell’autonomia, tanto che Carlo era stato incoronato sia a Napoli

che a Palermo e che Ferdinando I prima del 1816 si faceva chiamare: Ferdinando IV di

Napoli e Ferdinando I di Sicilia.

PALERMO E I VICERÈ.

Il potere nell’isola veniva esercitato da un viceré di nomina regia, ma di fatto la Sicilia

doveva seguire gli orientamenti relativi alla politica estera, finanziaria e militare che

provenivano da Napoli. Palermo era il centro di tutta la vita pubblica e vi si spendeva

una grossa fetta del reddito governativo, qui risiedeva il viceré e la maggior parte

dell’aristocrazia.

A Palermo operavano gli artigiani più capaci, organizzati in 72 “maestranze” o

corporazioni in grado di influenzare la politica, soprattutto nei momenti di emergenza.

Nella città si ammassava un gran numero di proletari privi di stabile occupazione, che

abitavano nelle baracche dei quartieri fatiscenti.

SPOSTAMENTO DELLA CAPITALE NAPOLI. LA SITUAZIONE IN SICILIA SI AGGRAVA.

Gli squilibri sociali e le tensioni palpabili si acuirono dopo il 1812 con la soppressione

della costituzione e con lo spostamento della capitale a Napoli.

Da questo momento in poi la Sicilia diventò, fra le regioni del Regno di Napoli,

quella che meno di ogni altra tollerò il dominio borbonico. I siciliani non

sopportarono l'idea che il re Ferdinando I considerava la Sicilia semplicemente

come una fonte di reddito per Napoli e che sua moglie Maria Carolina,

l’austriaca, considerava Palermo un città che, sotto molti aspetti, era arretrata

di diverse generazioni rispetto a Napoli.

Il Popolo Siciliano, che aspirava all’indipendenza della Sicilia da Napoli, non si

rassegnava al pensiero che il proprio glorioso ed indipendente Regno, fosse

diventato una provincia del Regno di Napoli. Ad acuire ancor più questa situazione

problematica si aggiunsero nuove tasse, il predominio dei funzionari napoletani

nelle cariche pubbliche, dazi, corruzione, burocrazia elefantiaca, repressione ed

assenza di qualsiasi intervento statale per promuovere e sollevare l'economia (in

primis, la realizzazione di infrastrutture e le bonifiche delle vaste aree

paludose).

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FOCOLAI DI RIVOLUZIONI.

Al breve regno di Francesco I (1825 – 1830) successe il giovane sovrano Ferdinando

II (1830 – 1859), che dopo l’apertura liberale della Luogotenenza [istituto di affidamento

del potere regio a un luogotenente (solitamente di rango principesco) che esercita l'autorità reale in

caso di assenza o impedimento del re legittimo] in Sicilia affidata al fratello Leopoldo,

preferì la via della reazione e

della repressione. Ma un

ulteriore elemento di rottura

fra i Borboni e l’isola fu la

penetrazione dei principi del

liberalismo e del nazionalismo

che cominciava ad insinuarsi

nelle Accademie, nella

borghesia intellettuale e fra i

professionisti. Fu così che nei

primi due decenni del regno di

Ferdinando II si

manifestarono in tutta l'isola

(ma anche in altre parti del

regno) diversi movimenti di

protesta e sommosse.

Presi singolarmente gli

episodi insurrezionali degli

anni ’30 – ’40 furono in

effetti l’azione isolata di

patrioti tanto generosi

quanto imprudenti, che non

erano in grado di sovvertire

la monarchia.

Visti nel loro insieme invece

rappresentarono la spia di un

malessere strisciante nella

società meridionale del

tempo, destinato prima o poi

a trovare il proprio sbocco in

forma clamorosa. La spinta ad

un deciso rivolgimento iniziò, qualche anno dopo, in Sicilia, dove le condizioni di vita

erano più difficili che nel resto del regno e dove meno si era fatta sentire la politica

di modernizzazione promossa nel regno continentale.

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LA RIVOLTA DEL ’48.

In Sicilia quindi le possibilità di successo insurrezionali erano maggiori perché le

rivendicazioni di una costituzione liberale potevano saldarsi alla lotta all’indipendenza

da Napoli e giovarsi dell’apporto rivoluzionario di tanti diseredati pronti alla

mobilitazione. I briganti-contadini intendevano la loro guerriglia, come lotta di poveri

contro i ricchi, come la reazione dell’oppresso contro l’oppressore, della vittima contro

il carnefice, del derubato contro il ladro, in una parola del diritto contro l’iniquità.

LA REAZIONE DI FERDINANDO II.

Questi tentativi eversivi, assai più velleitari che realmente minacciosi, furono

stroncati con la forza. Ferdinando II non tollerava che si mettesse minimamente in

discussione la sacralità del suo

regno, ed era pienamente

convinto che contro questi

ribelli occorreva usare la mano

ferma, per evitare che la

tolleranza potesse essere

scambiata per debolezza del

regime.

DOPO IL ’48.

A partire dal 1849, data che

vide il tramonto dell'ultima e

gloriosa rivoluzione siciliana,

l'Isola visse un periodo di

incertezze e di grande fibrillazioni sociale, segnato da ripetuti episodi di ribellione

contro i Borboni.

Il più famoso fu quello del novembre del 1856, quando Salvatore Spinuzza e Francesco

Bentivegna tentarono di coinvolgere le masse contro la presenza borbonica.

Il tentativo, però, si concluse con una drammatica sconfitta: entrambi catturati,

furono sommariamente processati e condannati a morte per fucilazione.

Condanne che vennero eseguite, rispettivamente, il 20 dicembre del 1856 ed il 14

marzo del 1857. Non è un caso che per sfuggire al pervasivo e soffocante controllo

borbonico che, troppo spesso, dava luogo a gratuiti abusi, la maggior parte degli

intellettuali siciliani aveva abbandonato l'isola o si era rifugiata nel privato,

astenendosi da ogni attività politica e, perfino, da ogni manifestazione artistica.

TORNA

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DIVARIO FRA IL REGNO DELLE DUE SICILIE E GLI ALTRI STATI.

Dopo un lungo periodo di dominazione coloniale, in cui viceré prima, spagnoli e poi

austriaci, avevano mantenuto il controllo del territorio preoccupandosi solo di

sfruttarne le risorse, in Europa si erano già consolidati stati nazionali come la Francia

e l’Inghilterra, o Stati regionali solidi come il Piemonte.

Nel Meridione invece i re, che si erano succeduti, a stento erano riusciti a

centralizzare il potere indebolendo, ma non eliminandolA del tutto, l’aristocrazia

feudale. Era necessario far uscire il Meridione dalla marginalità storico-politica dei

due secoli precedenti.

Per realizzare ciò Carlo III, a partire dal 1734, e suo figlio Ferdinando I delle due

Sicilie e III di Sicilia, dal 1759 al 1816, si posero questi precisi obiettivi: consolidare

l’indipendenza del Regno, modernizzarne le strutture, organizzare l’esercito e la

flotta militare, affermare la centralità dello Stato e portare il Regno delle Due

Sicilie ad un livello tale da poter giocare un ruolo di primo piano nella politica

continentale.

Furono sicuramente degli obiettivi ambiziosi, che i re borbonici cercarono di

realizzare, ma per quasi 80 anni dovettero lottare contro il potere della Chiesa;

contro il potere giurisdizionale dei baroni; contro le varie rivoluzioni; contro il

brigantaggio.

La Chiesa, proprietaria di vastissimi latifondi, spesso incolti o sottoutilizzati, era

stata un elemento di ostacolo allo sviluppo e di forte condizionamento politico.

Bisognava ridimensionarne i privilegi fiscali, a tal proposito si ricordi il momento di

forte tensione nel 1767 quando fu espulsa dal regno la Compagnia di Gesù.

I baroni furono i veri arbitri delle sorti dell’isola in quanto controllavano i massimi

organismi politici, giudiziari, economici, religiosi, il parlamento della regione, il Senato

delle varie città, le corporazioni degli artigiani. I baroni non nutrivano alcun interesse

per i loro feudi e per l’agricoltura, che consideravano dei semplici strumenti per

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arricchirsi. Fra baroni e viceré spesso si crearono accordi, intrecci, alleanze per

salvaguardare i rispettivi interessi che si esplicitavano nell’ostentazione sfrenata del

lusso e del fasto.

TORNA

IL BRIGANTAGGIO.

Il brigantaggio era un mondo sotterraneo di fraternità segrete non era per nullo

nuovo nella storia della Sicilia. Il Re normanno del Regno di Sicilia Guglielmo II (1166 -

1189) nel 12° secolo aveva cercato di estirpare una banda chiamata "I vendicatori"

che di notte commetteva i delitti più atroci. Nel 14° secolo Federico III Re di Sicilia

dal 1296 al 1337 e Martino I (1401 - 1409) trovarono che tanto i ricchi quanto i poveri

si raggruppavano in "converticole" di parenti che avevano un proprio codice da

rispettare e che suscitavano un diffuso timore. Il brigantaggio sin dalla sua genesi

ebbe come causa di fondo la miseria; ma anche altre cause lo favorirono, come: le

diverse dominazioni straniere, l’ordinamento feudale, il ceto politico locale.

LA DIFFUSA MISERIA ALL'INTERNO DELLA SICILIA.

Verso la fine del 15° secolo si abbatté in Europa un lungo periodo di svalutazione delle

monete e di aumenti di prezzi. Molti abitanti delle campagne furono costretti a

recarsi nelle città per trovare lavoro e cibo e questo provocò un problema di

sovrappopolazione urbana ed una mancanza di manodopera nei campi. All’interno della

Sicilia, da tempo fra le montagne, si erano rifugiate singole comunità di famiglie che

vivevano con le proprie leggi e con le loro ataviche abitudini. Erano costoro dei banditi

oppure dei pastori delle colline venuti in urto con gli agricoltori residenti nelle valli e

nelle pianure, costretti ad arare più terre riducendo così i pascoli invernali nelle

pianure. La tensione nelle campagne si aggravò quando alcuni pascoli furono

privatizzati insieme con i terreni comunali e con i boschi, o quando i vari feudatari

cominciarono ad usurpare illegittimamente vaste zone di terreni. Questi diseredati,

per vivere, furono costretti a sistematiche e clandestine rappresaglie (ruberie,

violenze alle donne, ricatti, uccisioni, abigeati cioè sottrazione di bestiame, incendi a

masserie e a case…) contro i proprietari terrieri, o all’interno delle città. In questo

modo fra queste comunità si diffuse sempre di più il concetto che rubare, imbrogliare

e farsi giustizia da sé era un modo per farsi rispettare, per essere temuti e per

essere ammirati.

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LE DIVERSE DOMINAZIONI STRANIERE.

Per quasi nove secoli la Sicilia era stata dominata da stranieri e quasi sempre costoro

avevano considerato l’isola, salvo rare eccezioni, non come una parte integrante dei

loro regni, ma come un possedimento da spremere, depredare, saccheggiare,

devastare, controllare e sfruttare e i loro abitanti buoni per farli crescere poveri e

ignoranti. La presenza dello Stato nell’isola era stata quasi sempre una formale

impalcatura del potere degli stranieri, che esercitavano i loro diritti di sovranità,

tramite discontinue dinastie, non sempre impiantate nell’isola, ma spesso

rappresentate dai Viceré. Queste potenze straniere per assicurarsi quanto meno

una neutrale sopportazione e, se possibile, il consenso della nostra popolazione,

preferivano scendere a patti con i potenti locali. Tutto ciò non fece altro che

produrre un’estrema debolezza del potere dello stato, sempre costretto a

patteggiare, con il ceto politico siciliano, le condizioni della sua legittimità, sempre

incline ad accontentarsi di una sovranità formale.

Il risultato fu la creazione di una società senza Stato.

L’ORDINAMENTO FEUDALE.

Era questa un’impalcatura gerarchico piramidale che andava dalle plebi (gradino più

basso), all’imperatore (gradino più alto), che era cominciata con i Normanni e che si

sarebbe tramandata per centinaia di anni, generando un processo di formazione, di

consolidamento e di riproduzione di forti poteri indigeni, a cui i baroni e i potenti

locali erano fortemente attaccati. Non per niente il prestigio, la fama, l’importanza ed

il potere che un signorotto riusciva a gestire dipendeva dalla quantità di terre

possedute. La feudalità “istituzionale”, con i moti della rivoluzione francese del 1789

venne abolita gradualmente in tutta Europa, a partire dalla Francia. In Italia ci si

arrivò in seguito alle invasioni napoleoniche. Le prime regioni a muoversi in tal senso

furono quelle del centro-nord che per prime furono assoggettate a Napoleone.

Seguirono quelle del Mezzogiorno continentale governate da Giuseppe Bonaparte

(1806) prima e da Gioacchino Murat (1811) dopo. In Sicilia, con la Restaurazione

(dopo la caduta di Napoleone Bonaparte ed il ripristino degli antichi sovrani nei

rispettivi Stati), fu il re Ferdinando I ad abolire la feudalità. Ma poiché lo

strapotere di principi e baroni era troppo forte, tale processo si svolse troppo

lentamente e con grande astio della casta baronale nei confronti dei regnanti

borbonici. Nel 1860, al momento dell’unità d’Italia, in Sicilia solo il 10% delle terre

coltivabili era diviso in piccole proprietà mentre il resto era diviso tra i grandi

proprietari terrieri e quindi di fatto la società era ancora improntata su un modello di

tipo feudale-latifondista.

IL CETO POLITICO LOCALE.

Il Parlamento siciliano dal momento della sua creazione, ad opera del normanno

Ruggero II nel 1129, era formato da un ceto politico composto sostanzialmente da

baroni, signorotti e latifondisti locali. Non solo il Parlamento, ma anche la politica

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locale era in mano agli interessi del potentato fondiario locale ed al ceto dei notabili

che si preoccupavano solo ed esclusivamente di conservare l’ordine politico e sociale

esistente. Pur di perpetuare il loro poteri questi ceti si servivano di bande armate

locali che, creando opportunamente un clima di intimidazione, costringevano la

maggioranza della popolazione ad una condizione di subalternità assoluta, ed a far

finta di non vedere, né sentire.

La stragrande maggioranza di questi facoltosi personaggi erano dei parassiti

abituati a vivere di rendita, a fare la bella vita e a sfruttare i ceti deboli.

Costoro dimostravano con i fatti non solo che erano estranei e lontani dai

problemi della povera gente, ma che potevano determinare le sorti dell’isola in

qualsiasi momento. La lealtà di questi “signori” nei confronti dello Stato era

direttamente proporzionale alla quantità di protezione e di privilegi che riuscivano

ad ottenere.

Per centinaia di anni in Sicilia si assistette ad un tiro alla fune fra gli stranieri

dominanti, che miravano principalmente a difendere i loro titoli di sovranità, e

dall’altra parte i ceti privilegiati locali che, in cambio della loro "formale

ubbidienza”, pretendevano e normalmente ottenevano il controllo economico e sociale

dell’isola.

Il potere dello Stato dominante era accettato quindi dai potenti locali in misura

dei vantaggi che loro riuscivano di volta in volta a conseguire.

Se questo equilibrio si rompeva si assisteva a movimenti rivoluzionari, come quella dei

Vespri del 1282, del 1820, del 1830, del 1848 e del 1853.

NASCITA DEL BRIGANTAGGIO.

L’estrema debolezza del potere dello Stato; la tendenza del ceto politico locale e delle

classi dirigenti locali,

a contrapporsi allo

Stato, per strappare

concessioni, privilegi,

libertà private ed

immunità;

l’oppressione dei ceti

più deboli che

vivevano in condizioni

di servi e non come

liberi cittadini

diedero vita al

brigantaggio.

Il brigantaggio affondò quindi le sue radici soprattutto nella miseria dei contadini ed

era più intenso nelle province ove maggiore era la presenza di contadini senza terra e

prevaleva il latifondo.

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Dove invece era diffusa la piccola proprietà contadina, o forme di conduzione diretta

della terra, il brigantaggio risultò meno intenso. Il brigantaggio fu una vera reazione

dell’oppresso contro l’oppressore, della vittima contro il carnefice, del derubato

contro il ladro, del sottomesso contro le ingiustizie per la ricerca della libertà.

Nessun dominatore si era mai interessato ad educarlo, istruirlo, curarlo, aiutarlo,

difenderlo, garantirne la sua libertà. A queste cose doveva pensarci lui da solo!

Continuamente vessato da soprusi e angherie per non sottostare a questo stato di

fatto, egli pensò fosse giusto vivere fuori dalla legge, di servirsi della sua forza,

della sua astuzia per difendere la sua proprietà e custodire i suoi beni e i propri

cari.

Questo stato di fatto, ripetendosi per centinaia di anni, non fece alto che rafforzare

la fierezza del suo carattere, che successivamente degenerò trasformandosi in

disprezzo delle leggi (“che c’entra la giustizia nelle mie cose? Ai fatti miei so bastare

da solo”), odio verso le autorità ( che in definitiva sono quelle a cui è affidata

l’esecuzione della legge), prepotenza verso il prossimo e verso gli altri.

Le parole: onore, coraggio, dovere acquistarono un significato speciale per lui e

nello stesso tempo sviluppò un carattere: sospettoso, diffidente, violento,

intollerante, superstizioso, con un esagerato sentimento dell’io. Con difficoltà e

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senza successo i vari viceré cercarono di combattere il brigantaggio che costituì

certamente un importante ostacolo per lo sviluppo del meridione.

Il brigantaggio, che tanta ammirazione riscuoteva fra il popolo perché in grado di

punire o irridere i governatori tiranni, fu una forma diffusa di banditismo che si

manifestò con azioni violente a scopo di rapina ed estorsione.

In alcune circostanze esso assunse risvolti insurrezionalisti su sfondo politico e

sociale (moti del 1820 e del 1848). Da queste bande armate presenti nel Mezzogiorno,

tra la fine del XVIII secolo e il primo decennio successivo alla proclamazione del

Regno d'Italia, sarebbero poi germogliate le varie associazioni criminali: “la mafia”, “la

ndrangheta”, “la camorra”, “la sacra corona unita”. Queste forze criminali avrebbero

creato il loro potere e la loro forza incutendo paura, dipendenza e condizionamenti,

disoccupazione ed emigrazione, attentati e morti, nonché interessi comuni con le

forze dello Stato. Ma soprattutto la forza della mafia” risiede nella cultura e nella

società in cui vive, che la ospita e la protegge.

TORNA

IL LENTO SVILUPPO ECONOMICO DELLA SICILIA.

In Sicilia, da sempre, si registrava un atteggiamento snobistico nei confronti del

commercio e dell’industria. La classe media preferiva lavori burocratici e professionali

piuttosto che il commercio e l’industria.

I baroni e i latifondisti preferivano vivere di rendita e nutrivano un particolare

pregiudizio nei confronti del commercio e dell’industria. Gli aristocratici, i nobili

per pigrizia culturale erano abituati alla bella vita, a vivere di rendita, al

parassitismo. Per costoro la ricchezza era basata sull’estensione delle terre

possedute, dove facevano lavorare i contadini che sfruttavano; sui privilegi e sulle

immunità che riuscivano a strappare ai vari viceré in cambio del loro contributo al

mantenimento dell’ordine nelle campagne e nelle città.

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Diverse le cause di un tale atteggiamento: probabilmente un’eredità spagnola; i

Borboni che non seppero incidere con i loro interventi (in effetti la politica finanziaria

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di Ferdinando II non fu propulsiva, mancò un moderno servizio di credito agevolato, si

preferì una politica virtuosa per salvaguardare il pareggio di bilancio); la

responsabilità dei tribunali che non erano in grado di snellire e velocizzare il recupero

dei debiti; iniqua tassazione dei prodotti destinati all’esportazione e all’importazioni

che non favoriva l’iniziativa locale; la mancanza di fiducia nelle assicurazioni siciliane

(i pochi commercianti o industriali siciliani preferivano assicurarsi con compagnie

estere che avevano la reputazione di pagare immediatamente, senza passare per azioni

legali); credito bancario a tassi alti (dal 12% fino al 20%).

In virtù di quanto appena detto

gli investimenti di capitali

privati nel settore commerciale

e industriale furono piuttosto

modesti, soprattutto in Sicilia.

La maggior parte delle iniziative

più avanzate non furono opera

dei baroni o dei latifondisti o

della borghesia siciliana, ma

vennero realizzate da imprenditori stranieri, (molti di questi furono inglesi, presenti

soprattutto in Sicilia e nelle zone portuali di Napoli e di Bari; altri erano francesi,

interessati alla lavorazione dei prodotti agricoli. Gli svizzeri si distinsero per il loro

interesse nell'imprenditoria industriale tessile), i quali trovarono conveniente

impiegare capitali in aree dove la manodopera era a basso costo e dove potevano

contare su un mercato protetto e sufficientemente ampio. Il commercio estero in

Sicilia era in mano prevalentemente dei genovesi, dei francesi o degli inglesi

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e la mancanza di una concorrenza locale vigorosa rese statica la vita sociale ed

economica dell’isola.

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LENTA RIFORMA

AGRARIA.

Anche la

riforma agraria

stentò a

decollare, i

latifondisti e gli

aristocratici

non vollero

investire i loro

capitali, i

contadini non

erano in grado

di farla perché

senza capitali; il

governo non

aveva né i

mezzi, né il

coraggio per

farla.

TORNA

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L’INDUSTRIA SICILIANA.

Non molto diversa era la situazione industriale. In Sicilia mancavano le materie prime:

non c’era ferro, non c’era carbone, mancavano le infrastrutture, non c’erano né canali,

né fiumi navigabili, le comunicazioni di qualsiasi tipo erano insufficienti (strade, porti,

ferrovie). I prodotti napoletani, inglesi e francesi monopolizzavano il mercato e alcune

delle imprese siciliane fallirono, nonostante le misure protezionistiche che il governo

napoletano aveva concesso all’industria locale a partire dal 1815.

Come per il commercio, anche per l’industria l’assenza di iniziative locali diede la

possibilità agli stranieri di operare quasi in regime di monopolio. Fu il caso delle

miniere di zolfo, che a partire dal 1815 fu in mano soprattutto agli inglesi e ai

francesi. Nel 1834 l’esportazione dello zolfo superava del triplo l’esportazione del

vino, che rappresentava la seconda voce in ordine d’importanza dei prodotti esportati.

QUALCHE ECCEZIONE.

Qualche eccezione in questo desolante scenario fu rappresentato da Vincenzo Florio a

Palermo che si dedicò a diverse attività (pesca del tonno, zolfo, filatura, produttore di

vino, società di navigazione) divenendo un grande industriale; e dai fratelli Orlando

che si specializzarono nella costruzione di macchinari per la macinazione del grano e

delle foglie di sommacco e nella cantieristica navale.

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L’AGRICOLTURA IN SICILIA.

La grave crisi che colpì l’agricoltura siciliana dopo il 1815, mise in luce l’urgenza e la

necessità di un cambiamento radicale. Si continuò ad esportare grano, ma nelle

esportazioni entrarono in gioco anche altri prodotti.

LA VITICOLTURA

Un grande slancio all’industria del vino siciliano fu dato da due inglesi: John

Woodhouse (1773) e Bemjamin Ingham (1806) che producevano un ottimo vino.

A loro spese crearono le infrastrutture adatte per esportare il loro prodotto dal

porto di Marsala, che da tempo era quasi in disuso. Grazie a questi inglesi le dimensioni

della città di Marsala triplicarono, si svilupparono piccole proprietà e la coltivazione

intensiva dell’uva. Tutta l’area ne risentì favorevolmente, tanto che la zona di Marsala

diventò uno dei territori più prosperosi della Sicilia.

GLI AGRUMI

L’esportazione degli agrumi

cominciò ad aumentare

quando si scoprì l’utilità

secondaria dell’acido citrico

nell’industria e quando il

succo di limone e di cedro

diventarono i rimedi specifici

contro lo scorbuto negli anni

1790. Per far posto agli

agrumi si abbatterono

foreste ed anche campi

dedicati alla vite. Purtroppo

per questo tipo di frutta si

incontrarono diversi ostacoli:

Pochissime persone presero

l’iniziativa di creare un’industria locale di acido citrico.

Difficoltà a stipulare i contratti d’affitto con i proprietari e a trovare crediti a

tassi abbordabili.

La mancanza di strade costringeva il trasporto della frutta con i muli e ciò

provocava ritardi, danni alla frutta ed era costoso.

Si doveva pagare la mafia non solo per far arrivare l’acqua nei terreni, ma anche per

la protezione dei campi e della frutta dai furti.

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La conoscenza limitata

degli agricoltori, che

raccoglievano i frutti

percuotendo gli alberi.

La produzione degli

agrumi, iniziata verso la

fine del 1790 creò delle

differenze economiche

notevoli fra le ricche zone

costiere adibite a tale

produzione e l’entroterra

siciliano ancora dominato

dalla produzione granaria

del latifondo. Entrambe

queste attività agricole

contribuirono comunque a

creare una borghesia

agraria o “ nobiltà

minore” (perché senza

titoli), che si

accontentava di vivere

sulle rendita piuttosto che investire nella terra. Per loro era più importante il

possesso delle terre. Molti dei nuovi borghesi siciliani si diedero da fare per ottenere

responsabilità politiche e governative nelle nuove amministrazioni periferiche, e non

accettavano la centralizzazione burocratica di Napoli, che vedevano come una

violazione dell’autonomia locale.

L’OLIO.

L’olio di oliva era un

importante prodotto di

esportazione ed i Borboni

cercarono di favorirlo

esentandolo dalle tasse, ma

risultò impossibile cambiare i

rozzi metodi di pressa che

facevano fermentare l’olio

rendendolo rancido.

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L’ALLEVAMENTO.

L’allevamento dei

bovini e degli

ovini avveniva

nelle zone

collinose

dell’interno con

una rada

vegetazione. Gli

animali erano

costretti a

spostarsi

quotidianamente

e ogni anno

dovevano

spostarsi dalla

collina al mare e

viceversa con il cambiare delle stagioni. Questi continui spostamenti erano nocivi per

la produzione del latte e della carne e costringevano il contadino a dedicarsi o

all’agricoltura o all’allevamento degli animali.

LE FORESTE.

Si calcola che nei 30 anni che precedettero il 1847 fu tagliata quasi la metà dei boschi

che erano rimasti. Gli alberi venivano abbattuti per farne combustibile, e per uso

domestico. Anche se i Borboni tra il 1819 ed il 1826 promulgarono delle leggi per

preservare il patrimonio boschivo, l’ignoranza dei latifondisti, la complicità delle

guardie forestali (che si facevamo corrompere, perché mal pagati) e il commercio

abusivo delle bande criminali fecero svanire gli effetti di tali norme. La conseguenza

più inquietante della distruzione delle foreste fu l’erosione del terreno nelle zone

montuose. Così nei pendii scoscesi al posto degli alberi, che con le loro radici

trattenevano il terreno, comparvero i terreni coltivati, che si prestarono a frane e

crolli. A tutto ciò occorre aggiungere che durante il XIX secolo si registrarono

cambiamenti climatici, che in alcune occasioni misero in crisi l’agricoltura con cattivi

raccolti, penuria d’acqua nei fiumi e scarse precipitazioni (1824, 1866-1879). Il clima

in questo secolo fu più severo, alternava periodi più caldi a periodi più freddi, ed in

generale era più secco di prima.

TORNA

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LA VIABILITÀ INTERNA.

Dopo la rivoluzione del ‘48, secondo molti storici, la costruzione di nuove

infrastrutture viarie subì in Sicilia una battuta d'arresto. Il governo di Ferdinando II

giudicava implicitamente pericolosi i nuovi collegamenti per la stabilità politica dei

regno.

Basta ricordare che nel 1858 su una spesa totale di 32.816.623 ducati furono spesi

dallo Stato per le opere pubbliche 2.216.787 ducati a fronte degli 11.911.097 ducati

per le spese militari (cinque volte di più)

LA VIABILITÀ ORDINARIA.

La viabilità lasciava a desiderare. A nord c’erano 67.000 km di strade a sud invece

15.000 Km e si viaggiava su tratturi, mulattiere e regie trazzere. Quasi inesistenti i

ponti, per cui i fiumi erano guadati con non poche difficoltà e pericolo.

Al momento dell'unificazione meno di 7 Km di strade nazionali per ogni 100 Kmq,

contro i 12,7 della Lombardia e gli oltre 15 della Toscana. Questa disparità cresceva,

inoltre, se si considerano le strade di carattere locale, che erano presenti nel

Mezzogiorno per circa il 10 % del totale.

Inoltre la divisione adottata nel Regno delle Due Sicilie tra strade nazionali,

provinciali, comunali e vicinali, che di per sé sembrerebbe segnalare una forte volontà

di classificazione e regolamentazione del settore dei trasporti pubblici da parte del

governo borbonico, era in realtà una distinzione che ben poco teneva conto della

natura delle strade stesse, della larghezza della carreggiata e della loro reale utilità

sul piano economico e della viabilità, essendo, al contrario, stata imposta senza alcun

criterio.

C’erano 4.500Km di strade regie e provinciali maltenute e prive di ponti; dove al

momento dell’Unità ancora 1.431 comuni su 1.828 erano privi di strade. Ne risentivano

tutti i trasporti: di persone, di merci, di animali e quello postale.

LA VIABILITA' IN SICILIA.

Il sistema viario dell’isola, all’inizio del sec. XIX, seguiva una classificazione

differente rispetto al Regno continentale. Le strade si potevano classificare in:

21

Strade

vetturali di

larghezza di

circa 8 palmi

(circa 2,20 m)

per i trasporti

commerciali con

muli o di

persone con

lettighe.

22

Antiche strade chiamate a secondo delle località “consolari” o “reali”. Spesso

durante i mesi invernali erano

impraticabili per l’ingrossamento dei

torrenti e le cattive condizione dei

ponti e dei “mali passi” (guadi di

alcuni corsi d’acqua, basti pensare

che nei punti che presentavano

particolari difficoltà per le

condizioni orografiche, si trovavano

spesso uomini addetti alla guida

delle carovane).

Trazzere larghe in origine di

canne 18,2 (circa 36 m) per il

passaggio degli armenti; la loro

larghezza si contrasse nel tempo

per le usurpazioni dei privati.

Si consideri che nel 1838 solo 80

comuni dell’isola erano

raggiungibili tramite vie

carrozzabili. C’erano solamente

due strade principali, una lungo la

costa settentrionale e l’altra che percorreva

l’interno da ovest verso est. Nel periodo

preunitario, la provincia di Siracusa (sarebbe

più corretto dire Noto) era la meglio

“servita”.

In quegli anni, infatti, erano stati appaltati i

lavori per la costruzione della Siracusa-

Floridia, la Noto – Modica - Ragusa, la Noto -

Pozzallo, la Noto - Scicli - Sampietri, la

Floridia - Passomarino.

Le condizioni delle strade, in tutta la Sicilia,

erano comunque pessime, piene di buche e di

polvere ed un viaggio da Palermo a

Donnafugata, per esempio, durava tre giorni.

L’assenza di ponti, inoltre, rendeva molto

difficoltosi i collegamenti nel periodo

invernale.

23

Ecco la descrizione

che il Goethe fornì

sull’attraversamento

del fiume Salso:

“Giunti al fiume

Salso, dove

cercavamo invano un

ponte … alcuni uomini

nerboruti ….

afferrarono a due a

due i nostri muli

sotto la pancia con

tutto il bagaglio ed il

cavaliere sopra e così ci trasportarono attraversando un profondo braccio di

fiume, fino ad un isolotto di ciottoli nel mezzo; appena tutta la carovana fu

raccolta qui, si passò con la stessa manovra all’altro braccio del fiume”.

24

25

LA VIABILITÀ FERRATA

La stessa triste arretratezza si ritrovava nella viabilità ferrata. Il Regno delle due

Sicilie poteva vantare solo 99 Km di ferrovia decantati, con una Calabria

completamente priva. Tali erano le infrastrutture del Regno dei Borbone nell’anno

dell’Unità, a confronto degli 850 km di strade ferrate del Piemonte, di 607 del

Lombardo- Veneto, di 323 del Granducato di Toscana, i 132 dello Stato pontificio.

Il piccolissimo ducato di Parma ne poteva vantare 99, la stessa cifra dell’esteso

territorio delle Due Sicilie. La tanto

decantata prima ferrovia: la Napoli

Portici (per indennizzare Armando

Bayard, l'ingegnere francese

responsabile della costruzione della

linea ferroviaria tra Napoli e Portici, il

governo borbonico gli concesse per 80

anni il diritto di riscuotere le somme

derivanti dall'utilizzazione della

strada ferrata, allo scadere dei quali

sarebbe subentrato lo Stato. II 3

ottobre 1839 ci fu l'inaugurazione

della nuova "strada di ferro" alla

presenza del re e dello stesso

ingegner Bayard. Così nacque la prima linea ferroviaria italiana, sulla quale in un solo

26

mese viaggiarono circa 60.000 persone) in effetti non funzionava neanche tanto bene.

Il ministro delle finanze De Ruggiero nel 1849 ebbe a dire "non vi era quasi viaggio nel

quale non si aveva a soffrire un sensibile ritardo, dovendosi di necessità chiamar quasi

sempre in soccorso di un'altra macchina.. [a causa dello] stato deplorevole delle

locomotive...quasi tutte inutili al servizio". Neanche un chilometro di ferrovie sotto

Salerno.

27

Negli ultimi 10 anni di regno di Ferdinando II, le grandi imprese ferroviarie di

collegamento con la Puglia e con lo Stato Pontificio, iniziate o progettate negli anni

precedenti, furono lasciate in buona parte cadere; gli investimenti in viabilità

diminuirono, così come quelli per le infrastrutture portuali.

28

LE GUIDE PER I VIAGGIATORI

In tempi in cui era difficile valicare il proprio Stato per andare in quello limitrofo

senza passaporto, erano utilissimi le guide scritte dai viaggiatori che permettevano di

superare le difficoltà del viaggio. Queste guide erano redatte da Corrieri e da chi

aveva una conoscenza dei luoghi interessati e dello stato delle strade e della struttura

della “posta cavalli”, cioè del sistema di ristoro e cambio dei cavalli lungo le strade

postali. Spesso queste guide erano un resoconto del proprio viaggio, o anche il

resoconto di un viaggio altrui, magari che vedeva la stampa molto tempo dopo che il

viaggio era stato compiuto.

Le guide stampate dai viaggiatori ebbero sviluppo in Italia nel 1700 con una maggiore

diffusione a Milano, Firenze, Roma. Nel 1800 cominciarono a comparire mappe e guide

a Napoli, più aggiornate, e in Sicilia, prevalentemente guide per viaggiatori locali.

TORNA

L’ISTRUZIONE NEL REGNO.

La rivoluzione del 1820 portò una speranza di riforma per le istituzioni scolastiche.

I rivoluzionari provarono a potenziare la scuola imponendo al re di sottrarre al clero

ogni potere e sorveglianza sulle scuole, di attivare scuole

popolari in ogni comune del Regno con un piano di

insegnamento uniforme, di ripristinare una direzione generale

governativa di pubblica istruzione composta da «persone

illuminate".

Tale progetto di riforma fu affidato a Marco Gatti Salentino,

che oltre a tracciarne le linee generali si addentrò in

questioni di metodo e di programmi; per lui era indispensabile

risvegliare l'intelligenza del popolo e liberarlo dalle

superstizioni.

Stroncata la rivoluzione del 1820, grazie all’aiuto degli Austriaci, Ferdinando I,

soppresse la Costituzione e sciolse il Parlamento. La stampa fu sottoposta a feroce

censura. Vennero chiuse le scuole sospette di aver diffuso idee liberali, destituiti i

professori che con fatti, scritti o discorsi, avevano simpatizzato per la rivoluzione.

Il progetto di riforma scolastica scomparve e la pubblica istruzione del Regno

venne messa sotto il controllo ecclesiastico. Nel 1821 fu istituito "l’Indice dei libri

proibiti" e con i decreti del 13 novembre e del 15 dicembre 1821 si irrigidì sempre più

il clima di stretta sorveglianza poliziesca sia degli insegnanti che degli allievi. Questa

politica fu proseguita da Francesco I (Re del Regno delle Due Sicilie dal 1825 al 1830)

e, con un netto peggioramento dopo i moti liberali del 1830, da Ferdinando II (Re del

29

Regno delle Due Sicilie dal 1830 al 1859).

Con il decreto del 10 gennaio del 1843 Ferdinando II sancì la rinuncia completa dello

Stato ad ogni intervento e controllo sulla scuola, che venne totalmente affidata

all’autorità dei vescovi. I vescovi ottennero così la facoltà di nominare, rimuovere,

trasferire, sospendere i maestri comunali e quella di prescrivere la durata e l’orario

dell’insegnamento. Contestualmente, i gesuiti formulavano l’avversione nei confronti

dell’istruzione popolare, dichiarando che l’istruzione:

a) Rendeva le masse indocili e che la borghesia e le nobiltà liberali non si

accorgevano di lavorare a loro stesso danno affannandosi a istruire la plebe.

b) Aumentava i desideri e i bisogni della plebe e quindi la sua infelicità, turbando

inutilmente quell’opaco velo di rassegnata virtù che la Chiesa aveva così

pietosamente steso, in tanti anni di dominio spirituale, sulle sofferenze dei

poveri, con l’aiuto del Vangelo;

e questo argomento era

destinato ad aumentare

l’indolenza del popolo stesso.

c) Distruggeva la moralità: le

violenze della passata

rivoluzione, gli eccessi

compiuti contro il clero, contro

la Chiesa, lo sfrenarsi delle

passioni erano considerati

come risultato dell’istruzione

popolare».

La stessa cosa accadde con la rivoluzione del 1848, si riaccesero le speranze di

riorganizzare lo Stato e la scuola in senso liberale. Ma finita la rivoluzione, la

scuola ritornò ad essere gestita con «criteri da ancien régime e sotto il monopolio

ecclesiastico».

Per avere un’idea del nuovo

clima di reazione e di

oscurantismo che venne a

determinarsi nel Regno delle

Due Sicilie, basti pensare che

il periodico , «Lo Scandaglio

del Popolo», che vide la luce

subito dopo la sconfitta dei

moti del ’48, sosteneva che la

rivoluzione, benché domata,

aveva dimostrato un

significativo risveglio popolare

e che alcune idee erano state

propagate proprio

30

dall’istruzione. Occorreva perciò combattere sia le idee sia i mezzi attraverso cui

quelle idee si erano propagate ovvero l’istruzione popolare. Nell'articolo, fra

l'altro, si leggeva: "Abbiamo ragione di credere che il principale godimento delle

classi minute sta nel non conoscere la loro umiliante inferiorità e gli ingiusti

svantaggi. Fosse pure un’eresia, senza temere l’altrui anatema, dichiariamo

essere antisociale, anti progressivo far penetrare la istruzione fino alle ultime

classi. Istruire le classi inferiori, in altre parole, non sarebbe altro che

disseminare fra esse germi di danni incalcolabili le cui principali e più sicure

conseguenze sarebbero gelosie, disgusti, invidia e scisma sociale".

L’azione repressiva della polizia divenne intensissima dal marzo del 1849 in poi. Nel

decennio 1849-1859 ogni iniziativa di rinnovamento venne praticamente annullata dal

timore che ossessionava il sovrano e tutto il ceto dirigente borbonico di stimolare con

riforme sostanziali nuove agitazioni liberali e di turbare così il precario equilibrio

politico-sociale ristabilito nel 1848.

Nel 1854 su una spesa complessiva (per le provincie continentali) di 31.391.964 ducati,

solo 708.494 furono spesi per le opere pubbliche e 182.867 per l’istruzione, mentre le

spese militari ammontarono a ben 13.763.939 ducati.

Nel 1859 si contavano appena 2.010 scuole primarie con 39.881 allievi, 27.547 allieve e

3.171 maestri. Al momento dell’Unità, se il tasso medio di analfabetismo nel Regno

d’Italia era del 78% (72% tra la popolazione maschile, 84% tra quella femminile), nel

Mezzogiorno tale tasso saliva quasi al 90%.

Nel 1861, nel Mezzogiorno solo 14 cittadini su 100 sapevano leggere e scrivere;

mentre nel Centro - Nord si arrivava a 37 cittadini su 100.

Il tasso di scolarità indicava una situazione persino peggiore, per cui su 100 bambini in

età fra i 6 e 10 anni, solo 17 andavano a scuola, mentre nel Centro-Nord la percentuale

si attestava al 67%.

Nel Regno borbonico l’istruzione era stato un privilegio di pochi delle classi agiate a

tal punto che solo il 5% degli analfabeti mandava i figli a scuola.

TORNA

31

LOGORAMENTO DELL’ESERCITO.

L'esercito borbonico nei suoi 127 anni di vita ebbe sempre una doppia anima in quanto

separato in due fazioni da ideologie diverse, opportunismi e contrasti. Nel 1798 si

divise tra ufficiali rimasti devoti ai Borboni e ufficiali giacobini e, subito dopo, si

ebbero contrasti tra quelli che

avevano seguito il re nell'esilio siciliano

e i capi sanfedisti (costoro

rappresentavano un variegato

movimento controrivoluzionario, un

famoso esponente fu: Michele Pezza

detto Frà Diavolo ex soldato semplice

nominato colonnello) inseriti

nell'esercito. Nel novennio napoleonico

molti servirono prima Giuseppe

Bonaparte e poi Gioacchino Murat re di

Napoli, altri invece seguirono

Ferdinando IV in Sicilia. I moti

carbonari del 1820 generarono una

nuova divisione fra borbonici e

carbonari.

Le cose si sistemarono con l’arrivo di

Ferdinando II. Quando appena

ventenne, l'8 novembre 1830 venne

nominato sovrano, Ferdinando II era

ben consapevole dei problemi politici

del regno e possedeva notevoli competenze

militari dal momento che era stato

introdotto alla vita militare all'età di 15

anni e aveva maturato un naturale

interesse verso l'organizzazione delle

forze armate. Nominato capitano generale

dell'esercito, nel 1827, l'esercito delle

Due Sicilie fu oggetto di cure assidue da

parte del sovrano. Appena salito sul trono

provvide a reintegrare nelle loro funzioni

gli ufficiali murattiani radiati da Francesco

I (tra questi ufficiali spiccava la figura del

principe Carlo Filangieri, che nel 1833 fu

nominato Ispettore dei Corpi Facoltativi

(Artiglieria, Genio, Scuole), considerati al

tempo la punta di diamante delle forze

32

armate borboniche).

Questa scelta fu dettata dalla volontà di giovarsi dell'esperienza delle guerre

napoleoniche in possesso di quegli ufficiali: le loro capacità tecniche erano giudicate

dal re fondamentali per la creazione di un valido sostegno alla monarchia.

Nel periodo 1831-34 Ferdinando II promulgò una nuova legge sul reclutamento:

questa e altre riforme, ispirate al modello francese dell'Esercito di Caserma (o

permanente), stabilivano che l'esercito doveva esser composto da un nucleo di

mercenari svizzeri e da una grossa componente di soldati di professione con una

ferma di otto anni, rinnovabile alla scadenza.

Dalla leva erano esclusi i siciliani per antico privilegio. In teoria gli effettivi

ammontavano a 60.000 uomini in tempo di pace e 80.000 in tempo di guerra, mentre

nell'esercito piemontese gli organici erano rispettivamente di 25.000 e 80.000. Gli

ufficiali venivano

formati nel Real

Collegio della

Nunziatella (la

migliore scuola per

ufficiali d’Italia), i

migliori venivano

assegnati

all'artiglieria e al

genio, i sottufficiali

nella Scuola militare

di San Giovanni a

Carbonara. Era il re

che nominava i

generali, mentre

non esistevano limiti

di età per il loro

pensionamento. In

meno di un decennio

le riforme

ferdinandee

modellarono un

esercito

essenzialmente

formato da

professionisti, forte

di un consistente

nucleo di soldati a

lunga ferma.

33

Le paghe erano modeste se rapportate a quelle degli altri eserciti della penisola, ma le

divise erano estremamente sfarzose.

Ma nel 1848 ci fu un’altra divisione fra i leali al re e quelli, in numero limitato, che

continuarono a partecipare alla guerra contro gli Austriaci anche dopo l'ordine reale

di tornare in patria.

Dopo il 1848 l’esercito, che costituiva un’eccellenza, cominciò a manifestare segni di

logoramento. Concepito nell’età della restaurazione e destinato a preservare

soprattutto l’ordine interno, l’esercito subisce gli effetti dell’invecchiamento dei

quadri, delle defezioni degli ufficiali più dotati, della mancanza di progetto.

L’Accademia di artiglieria e genio della

Nunziatella, dopo il 1848 fu penalizzata

dall’esilio di alcuni tra i suoi docenti più validi.

La mancanza di energici ministri della Guerra

comportò un allentamento del controllo sulla

struttura, favorendo diffusi fenomeni di

corruzione; atteggiamenti assistenzialisti

arrivarono a dilatare il numero della bassa

forza sino a raggiungere i 100.000 effettivi,

un terzo dei quali era però destinato a

“scomparire nelle retrovie o a esistere

soltanto nei libri paga. Polizia ed esercito

riuscirono comunque a sventare congiure

34

(come il tentativo di regicidio compiuto nel 1856 da Agesilao Milano), o a reprimere

tentativi insurrezionali (come quello promosso nel 1857 a Sapri da Carlo Pisacane), ma

non sembravano in grado di sopportare l’urto di sommovimenti sociali più estesi e

meglio organizzati.

35

Nel 1859 morì a Napoli a 49 anni Ferdinando II cui successe il figlio ventiquattrenne

Francesco II. Venne così meno l'ultimo baluardo al dissolvimento del regno. Il regno

era indebolito, in preda a una profonda crisi morale, ma le forze rivoluzionarie interne

non erano in grado di rovesciare il governo e occorreva quindi una forza esterna che

non poteva essere il Piemonte per la recisa opposizione delle potenze continentali

europee. La rivolta avrebbe dovuto iniziare in Sicilia da sempre in endemica rivolta

contro i Borboni e doveva essere guidata da un capo carismatico al cui nome la gente

accorresse; tale era Garibaldi uomo da lanciarsi in una impresa dalle incognite paurose.

TORNA

36

GLI ANNI BUI DI FERDINANDO II.

Ritornando a Ferdinando II, gli anni ’50 di furono contrassegnati da provvedimenti

repressivi che scavarono un profondo solco tra il sovrano e la borghesia, che si era

tanto giovata della sua politica economica nei decenni precedenti. L’abitudine al

comando lo aveva reso insofferente al confronto e ai consigli dei collaboratori.

Ferdinando II era convinto dell’assoluto bisogno di preservare l’autonomia del suo

Regno dalle pressioni straniere e nello stesso tempo di restare fuori da tutte

le lotte e dai contrasti fra le potenze in Italia e fuori dall’Italia, badando solo a

garantire, con le proprie forze, la sicurezza del regime.

Era pure un convinto assertore della sacralità del proprio diritto sovrano (aveva un

orrore istintivo per la monarchia costituzionale che considerava un governo ipocrita,

pieno di menzogne, frode e corruzione) e così cominciò a sviluppare una forte

diffidenza nei confronti di alcuni stati europei (Inghilterra e Austria).

Pur consapevole che queste sue convinzioni lo avrebbero portato ad un isolamento

internazionale, ne accettò le conseguenze consapevolmente e volutamente.

Negli ultimi dieci anni del suo regno, Ferdinando cominciò a manifestare un

carattere mutevole e su queste trasformazioni caratteriali incisero sia fattori

genetici che fattori storico-politici.

FATTORI GENETICI.

Ferdinando II, fin da piccolo, aveva sofferto di epilessia. Con l’avanzare

dell’età queste crisi si fecero più frequenti e si manifestarono con stati convulsivi

improvvisi da cui ne usciva prostrato. Questa instabilità fisica gli condizionò

l’equilibrio nervoso.

FATTORI STORICO-POLITICI.

Come abbiamo visto precedentemente, in quasi tutta l’Europa la concezione assolutista

del potere era stata messa in discussione con varie rivoluzioni. I sacri presupposti su

cui si basava il potere, l’educazione e la tradizione dinastica di Ferdinando II stavano

per essere assediati dalla storia e spazzati via dal progresso del secolo. Le sue

aperture (aiuti economici e legislativi) nei confronti della classe media avevano

provocato un’insanabile contraddizione tra le aspettative della borghesia, sempre più

consapevole del proprio ruolo e delle proprie ambizioni (voleva contare di più), e

l’assolutismo del re che non era disposto a soddisfare tali aspirazioni.

Nell’immaginario collettivo liberale, il Regno delle Due Sicilie era ormai diventato un

paese retrivo (circolava la voce che circa 100.000 cittadini erano diventati dei

sorvegliati speciali perché notoriamente ostili al regime monarchico), privo di spazi e

di aperture liberali. Chi non finiva in carcere preferiva emigrare.

37

Circa 850 esponenti della migliore intellettualità meridionale (tra loro vi furono:

Francesco De Sanctis, Michele Amari, Antonio Scialoja, Guglielmo Pepe, Giuseppe La

Masa, Francesco Crispi, Ruggero Settimo, e Rosolino Pilo) ripararono in Piemonte,

oppure in Inghilterra e in Francia. Non c’è da meravigliarsi se queste persone furono i

primi a diffondere un’immagine negativa del regno di Ferdinando II.

I primi furono gli esuli napoletani che, nel decennio 1850-1860, con la loro propaganda

antiborbonica contribuirono a demolire il prestigio e l’onore della dinastia, e

determinarono un’immagine negativa del meridione, che descrissero come un paese

frenato nel percorso di modernizzazione economica e sociale. In un’Europa che

guardava al futuro, un re come Ferdinando II che governava guardando al passato,

rappresentava un possibile fattore di instabilità, pertanto doveva essere condotto su

posizioni meno rigide se non addirittura alla sua delegittimazione. Il regno delle Due

Sicilie rimase così isolato, represso nelle sue ansie di sviluppo dei propri uomini

migliori, frenato nel percorso di modernizzazione economica e sociale.

TORNA