Humana_Mente 04 Linguaggio

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Humana.Mente Il Pensario della Biblioteca Filosofica Notiziario trimestrale NOTIZIE DI FILOSOFIA EVENTI CULTURALI LABORATORIO DI IDEE www.humana-mente.it [email protected] - N° 4, Febbraio 2008

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Humana.Mente Journal of Philosophyvol. 04 2008

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Humana.Mente Il Pensario della Biblioteca Filosofica

Notiziario trimestrale

N O T I Z I E D I F I L O S O F I A E V E N T I C U L T U R A L I L A B O R A T O R I O D I I D E E

www.humana-mente.it

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- N° 4, Febbraio 2008

Biblioteca Filosofica © 2007 - Humana.mente, Periodico trimestrale di Filosofia, edito dalla Biblioteca Filosofica - Sezione Fiorentina della Società Filosofica Italiana, con sede in via del Parione 7, 50123 Firenze (c/o la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Firenze) - Pubblicazione regolarmente iscritta al Registro Stampa Periodica del Tribunale di Firenze con numero 5585 dal 18/6/2007.

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I contenuti di Humana.mente sono sottoposti a refereeingIl comitato scientifico della rivista è composto dai membri del Consiglio Direttivo della Biblioteca Filosofica:

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N O T I Z I E D I F I L O S O F I A E V E N T I C U L T U R A L I L A B O R A T O R I O D I I D E E

INDICE

• Editoriale - pag. II

• Filosoficamente scorretto - pag. V

PAPERS

• Tripodi, V., Contestualità e composizionalità del significato - pag. 1

• Giolito, B., - Una componente non concettuale dell’aspetto semantico del linguaggio - pag. 27

• Bellucci, S.,- I limiti dell’analisi linguistica tra Conrad e Wittgenstein - pag. 42

• Romano, D.,- Si può parlare di linguaggio del biologico? - pag. 74

• Messeri, L., – Biolinguistica: da Noam Chomsky a Andrea Moro - pag. 91

RECENSIONI

• Metafora e vita quotidiana, di George Lakoff - pag. 120

• Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente. Linguistica, epistemologia e

filosofia della scienza, di Noam Chomsky - pag. 124

• Detto non detto: le forme della comunicazione implicita, di Marina Sbisà - pag. 128

• Filosofia della Conoscenza, di Roberta Lanfredini- pag. 131

• Il significato Inesistente, di Alberto Peruzzi - pag. 136

• Per la verità. Relativismo e la filosofia, di Diego Marconi - pag. 138

• Il canto degli antenati. Le origini della musica, del linguaggio, della mente e del corpo, di

Mithen Steven - pag. 141

• Il terreno del linguaggio. Testimonianze e saggi sulla filosofia di Wittgenstein, a cura di

Silvana Borutti e Luigi Perissinotto - pag. 145

• La virtù crudele. Filosofia e storia della sincerità, di Andrea Tagliapietra - pag. 148

• Galileo in Leopardi, di Gaspare Polizzi pag. 150

• Toward an Evolutionary Biology of Language, di Philip Lieberman - pag. 153

RILETTURE

• The availability of Wittgenstein's philosophy, di David G. Stern - pag. 158

• Linguaggio e natura umana, di Ray Jackendoff - pag. – 163

INTERVISTE

• George Lakoff - pag. 171

• Luigi Perissinotto - pag. 207

• Gaspare Polizzi - pag. 212

• Marino Rosso - pag. 226

FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO:

prospettive di ricerca Numero Quarto – Febbraio 2008

Editoriale

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Editoriale – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

II

Filosofia del linguaggio: prospettive di ricerca

All’inizio del secolo scorso la filosofia ha vissuto un profondo cambiamento, oggi

comunemente noto come svolta linguistica. Il linguaggio divenne l’oggetto

principale dell’indagine filosofica sia in campo analitico, che nella tradizione

continentale. Dopo quasi un secolo il linguaggio costituisce ancora uno dei punti

di snodo principali del lavoro del filosofo. Non ci si è allontanati molto dall’idea

che la filosofia dovesse fornire, tramite l’analisi del linguaggio, una qualche igiene

del pensiero e chiarificazione dei concetti. Da allora però nuove prospettive di

ricerca si sono aperte e altre se ne sono chiuse.

Dalla seconda metà del Novecento le scienze cognitive e la linguistica in

particolare hanno dato nuova linfa alla filosofia del linguaggio. Autori come Noam

Chomsky hanno inaugurato interi e fecondi filoni di ricerca. Oggi, così come

accade per altre aree all’interno della riflessione filosofica, il dialogo si fa più

serrato con le neuroscienze e con le scoperte sull’implementazione cerebrale

della facoltà linguistica. Non a caso si è giunti a prefigurare l’estendersi di una

vera e propria nuova disciplina come la ‘Biolinguistica’.

A Firenze, il 24, 25 e 26 Gennaio si è tenuto un convegno nazionale sul Linguaggio

organizzato da un gruppo di ricerca del Dipartimento di Filosofia e dalla Biblioteca

Filosofica Fiorentina, sezione della Società Filosofica Italiana.

Il convegno ha visto il succedersi delle relazioni di alcuni tra i più importanti studiosi

italiani in materia, come Luigi Perissinotto, Alberto Peruzzi, Michele Marsonet,

Roberta Lanfredini, Maria Rosaria Egidi e Paolo Spinicci. Humana.Mente

approfittando di questa occasione ha voluto dedicare il suo quarto numero

proprio al tema del linguaggio e alle nuove prospettive di ricerca che oggi si

affacciano nel mondo filosofico.

Questo fascicolo è così legato ad una rilettura generale dei classici, ma è anche

uno sguardo gettato sul futuro delle ricerche sul linguaggio. Dalla grande

tradizione analitica del Circolo di Vienna e dall’uscita del Tractatus di Wittgenstein

è passato moltissimo, ma è sembrato imprescindibile impostare la discussione a

partire da lì. I nostri papers però sono rivolti soprattutto al futuro: da che cosa sia il

linguaggio in una scienza naturale come la genetica, a che ruolo giochino

Editoriale – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

III

neuroni specchio e reti neurali nel definire nuovi orizzonti semantici, fino alle più

recenti ricerche italiane sulla cosiddetta ‘biolinguistica’.

Il panorama scientifico italiano degli studi sul linguaggio appare – come vogliono

testimoniare le recensioni e le interviste di questo ultimo numero - non rilassato e

stanco, bensì vivo e mobile.

Sul linguaggio molto potrebbe dire oggi un progetto di ricerca che porta il nome

di NEURAL THEORY OF LANGUAGE e che vede in George Lakoff uno degli iniziatori presso

l’Università della California, Berkeley. Di questo ma anche dei suoi più recenti studi

su politica e linguistica, e sull’origine delle teorie matematiche abbiamo avuto

modo di parlare con lo stesso Lakoff in un lungo colloquio, che riportiamo

integralmente tra le nostre interviste.

In che modo la grammatica universale sia incorporata nel cervello, quali aree del

cervello regolino la sintassi e quali la semantica, che rapporto vi sia fra linguaggio,

natura umana e mente nel senso più esteso, sono i temi che il quarto numero di

Humana.Mente ha cercato di dipanare, non dimenticando la lezione dei classici

ed il contributo della ricerca italiana.

Con il numero di Febbraio 2008 la rivista giunge alla sua quarta uscita e presenta

una veste editoriale nuova e più funzionale agli standard dei formati scientifici

correnti per le riviste elettroniche. Il nuovo sito della rivista www.humana-mente.it

consentirà al lettore di scegliere tra una versione completa - in cui compaiono le

sezioni grafiche e multimediali, la storia della rivista e del suo editore, i links ad altri

siti di interesse filosofico e l’elenco di tutti i redattori/collaboratori di

Humana.Mente unitamente al comitato scientifico della rivista - e una versione

light, solo ‘accademica’, dove sarà possibile scaricare in formato pdf tutti gli

articoli scientifici e dove si potranno facilmente effettuare ricerche per autore o

argomento.

L’intento è quello di presentare ai lettori e al mercato editoriale un prodotto che

sia consultabile in maniera chiara e diretta da chi già naviga nel mondo filosofico,

ma che sia anche appetibile per chi - estraneo alla ricerca accademica - voglia

confrontarsi con le domande che questa disciplina continuamente solleva sulla

natura delle cose.

RUBRICA

Filosoficamente Scorretto

DI UMBERTO MAIONCHI

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Filosoficamente Scorretto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

V

Filosoficamente scorretto

Terza puntata

È diventato ormai un luogo comune affermare che la filosofia si occupa

perennemente di formulare con esattezza le domande relative ai grandi problemi

dell'uomo, dell'esistenza, del bene, della verità, del bello, ecc… Tutti problemi

ritenuti universali ed eterni, profondamente radicati e sentiti in ogni epoca.

Questa cura particolare per le "domande" è diventata secondo molti la funzione

principale della attività filosofica.

Ci si scorda, non sempre in buona fede, che i grandi del passato (anche se non

tutti!) si sono occupati della giusta formulazione delle domande perché erano

interessati alle risposte! E domande e risposte vertevano su problemi reali, spesso

problemi che sorgevano da situazioni concrete.

In molti casi poi questi autori hanno anche provato a costruirsi da soli gli strumenti

concettuali adeguati per rispondere a quelle domande o si sono interessati a

cercare di capire chi altro e con quali altri mezzi avrebbe potuto cominciare a

tentare la o le risposte giuste.

Oggi invece sembra accadere, e guarda caso soprattutto in Italia, che la

funzione essenziale e quasi unica della filosofia sia quella di impostare le domande

e poi di limitarsi a confrontarle con altre preoccupandosi molto poco di suggerire

almeno una strategia per le risposte.

Senza voler essere pregiudizialmente maliziosi, non sarà forse che l'arte della

domanda, pur degna ed utile, è meno, molto meno impegnativa della ricerca

lunga e spesso faticosa di una risposta convincente? E non espone forse i suoi

praticanti al fastidioso rischio di imboccare vicoli ciechi o addirittura di prendere

clamorosi abbagli? (con gravi conseguenze sulla propria autostima e sul prestigio

accademico-mediatico magari faticosamente conquistato).

Filosoficamente Scorretto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

VI

Il fatto è che, oggi in modo particolare, una volta precisato un problema, le

competenze richieste per affrontarlo seriamente sono sempre più vaste e

profonde e richiedono anni di applicazione e di studio accurato.

E i filosofi, in genere, sono abituati a volare molto in alto, a trascurare i dettagli e a

non fare troppa fatica: la cura per la precisione e le formulazioni troppo anguste

sembrano non interessarli affatto, presi come sono dalla considerazione di

problemi giganteschi.

Si sa poi che più in alto si vola e meno resistenza si incontra ... e si fa anche un gran

figurone!

Viene in mente l'aneddoto relativo ad Einstein che quando arrivò a Princeton gli fu

chiesto di cosa aveva bisogno per le sue ricerche. Rispose che sarebbero bastati

una lavagna, una modesta quantità di fogli bianchi ed un cestino. Qualche

malizioso aggiunse poi che i filosofi sono ancor più frugali: a loro non servono

neppure la lavagna e, soprattutto, il cestino.

Umberto Maionchi

1

CONTESTUALITÀ E COMPOSIZIONALITÀ DEL SIGNIFICATO

VERA TRIPODI

Il presente lavoro si propone di difendere la composizionalità del principio del contesto e

di dimostrare che in una corretta interpretazione di esso non possa sussistere alcuna

allusione a una qualche forma di olismo del significato. Il principio del contesto esprime,

secondo Quine, l’idea che i portatori primari del significato siano gli enunciati; Dummett

invece considera questa tesi o priva di senso o un truismo. L’articolo è diviso in tre parti.

Nella prima parte, si mostra il modo in cui Quine interpreta questo principio e il perché

Dummett consideri assurda questa interpretazione. La seconda parte dell’articolo è

dedicata alla spiegazione di quale sia per Dummett l’interpretazione corretta del

principio del contesto e si pone particolare attenzione alla sua duplice applicazione, alla

nozione di senso e a quella di riferimento. Nella terza parte, si discute la presunta

incompatibilità tra il principio del contesto e quello di composizionalità e si giunge alla

conclusione che i due principi siano in realtà complementari e che la supposta

conflittualità tra di essi sia solo apparente.

1. Contestualità e composizionalità.

Due importanti principi governano la teoria fregeana del significato: il principio di

contesto e il principio di composizionalità. Formulato per la prima volta da Frege

nelle Grundlagen, il principio del contesto, o altrimenti detto “principio di

contestualità del significato”, afferma che:

“è solo nel contesto di un enunciato che una parola ha significato”1.

Tale principio ha come suo corollario che:

“non si deve mai indagare sul significato di una parola in isolamento”2.

1 "Nur im Zusammenhange eines Satzes bedeuten die Wörter etwas" in G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik. § 62. 2 Ivi, Introduzione, IX.

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

2

Nelle Grundlagen, l’importanza di questo principio viene più volte ribadita. In

quest’opera, infatti, esso figura innanzitutto come uno dei principi che regolano

l’indagine fregeana sui fondamenti dell’aritmetica.

Il principio di composizionalità (noto anche come “principio di Frege”) afferma

invece che:

“Il significato di un’espressione composta è determinato dalla struttura dell’espressione

e dai significati delle espressioni componenti”.3

Si è sostenuto che tra i due principi vi sia una certa conflittualità e che questa sia

una prova dell’abbondono da parte di Frege del principio del contesto dopo le

Grundlagen. A sostegno di questa tesi c’è il fatto che mentre Frege formula il

principio di composizionalità solo dopo le Grundlagen, il principio del contesto non

viene mai più riproposto dopo il 1884.

Vediamo in che senso si può ritenere che i due principi confliggano. Il principio di

composizionalità stabilisce che il significato del “tutto” sia determinato dal

significato delle “parti”. Il senso di un enunciato, o il pensiero che esso esprime, lo

ricaviamo composizionalmente, ovvero “mettendo insieme” i sensi delle

espressioni che lo compongono. Pertanto, il principio di composizionalità esige

che il contributo dato dalle espressioni sia uniforme da enunciato a enunciato. In

altri termini, la composizionalità richiederebbe che le espressioni siano dotate di un

significato proprio, indipendente dal particolare contesto enunciativo, e di un

significato stabile, cioè “lo stesso” in tutti gli enunciati.

Ora, l’esigenza che le espressioni siano munite di un significato autonomo

confliggerebbe con il principio del contesto, il quale sembrerebbe negare alle

espressioni di possedere un significato indipendente da un enunciato. Anche la

richiesta che il significato delle espressioni sia sempre lo stesso parrebbe

incompatibile con l’idea che il significato di un’espressione possa cambiare da

enunciato a enunciato.

3 Cfr. G. Frege, Grundgesestze, paragrafo 32; G. Frege, Leggi fondamentali dell’aritmetica, a cura

di C. Cellucci, traduzione di N. Rolla, Roma 1995, p.106.

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

3

Per risolvere questa presunta conflittualità fra composizionalità e contestualità, c’è

chi4 ha proposto di considerare il principio di composizionalità come applicabile in

modo diretto solo alle lingue formalizzate (in cui ogni termine ha un significato

sistematico) e il principio del contesto come valido solo per le lingue naturali. Per

chi assume una posizione come questa, il principio del contesto si presenta nelle

lingue naturali come un’integrazione del principio di composizionalità. Nelle lingue

naturali, a differenza di quelle formalizzate, la forma logica - si sostiene - può

essere diversa da quella grammaticale e per questa ragione è necessario ricorrere

al principio del contesto per determinare il ruolo logico svolto da ogni espressione

all’interno di un enunciato. Come vedremo qui di seguito, è possibile sostenere

che non vi sia alcuna conflittualità tra i due principi fregeani ed offrire una lettura

composizionale del principio del contesto. Questa proposta poggia sul rifiuto della

tesi, che Quine attribuisce a Frege, secondo cui l’unità del significato è

l’enunciato. Mi sembra dunque opportuno, al fine di valutare la validità della

proposta che qui si vuole difendere, analizzare in primo luogo il modo in cui Quine

intende il principio del contesto e in che termini questa posizione sia da ritenersi

priva di senso.

2. Critica di Dummett all’interpretazione del principio del contesto proposta da

Quine.

2.1 L’unità del significato è l’espressione o l’enunciato?

In Two Dogmas of Empiricism5, Quine attribuisce a Frege la scoperta che l’unità di

significato non sia la parola ma l’enunciato. Quine intravede in questa tesi di

Frege un superamento della convinzione, propria di filosofi empiristi come Locke e

Hume, che la singola parola sia il veicolo primario del significato. Secondo Quine,

4 Cfr. Bonomi A. (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Milano 1973, quarta ediz. 1995. 5 W.V.O. Quine, Two Dogmas of Empiricism, in “Philosophical Review”, LX (1951), pp.20-43; ristampato in Quine, From a Logical Point of View, Cambridge (Mass.)1953, pp.20-46. [trad. ital. di E.

Mistretta, in Quine, Il problema del significato, Roma 1966, pp.20-44].

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

4

questa scoperta di Frege, che determina un così importante cambiamento di

prospettiva in filosofia, è resa esplicita dal principio del contesto.

Il principio del contesto esprime, secondo Quine, l’idea che i portatori primari del

significato siano gli enunciati. Ora, Quine respinge la posizione di Frege,

giudicandola “una rete a maglie troppo strette”6, per adottare una tesi in base

alla quale l’unità di significato non è l’enunciato, ma “tutta la scienza nella sua

globalità”7. La tesi olistica sostenuta da Quine nega che possiamo spiegare il

significato di un singolo enunciato senza tener conto dell’intera lingua a cui esso

appartiene.

Dummett considera assurda questa lettura del principio del contesto. In più

occasioni8, Dummett ha affermato che la tesi che Quine attribuisce a Frege sia

una tesi che questi non ha mai sostenuto.

Ma c’è di più. Secondo Dummett, la tesi che l’enunciato sia l’unità del significato

è passibile di due interpretazioni diverse. La si può considerare o priva di senso o

un truismo. Vediamo in primo luogo in che termini la tesi che l’enunciato sia il

veicolo primario del significato sia priva di senso.

Per illustrare efficacemente la posizione di Quine, Dummett stabilisce un’analogia.

Possiamo paragonare il rapporto che sussiste tra un enunciato e le parole che lo

compongono a quello che sussiste tra una parola e le singole lettere che la

formano. All’interno di una parola le singole lettere non sono dotate di significato.

Se infatti prendiamo le espressioni “gatto” e “matto” osserviamo che esse hanno in

comune le quattro lettere “atto”9. Ma ciò non vuol dire che le due espressioni

abbiamo una componente comune di significato. Le singole lettere dell’alfabeto

infatti non hanno un significato proprio, esse possono tutt’al più essere utilizzate per

formare altre parole.

6 W.V.O. Quine, Due dogmi dell’empirismo, cit., p. 40. 7 Ibidem. 8 Cfr. M. Dummett, Frege.Philosophy of Languague, cit., p.3-4; M. Dummett, Nominalism, “Philosophical Review”, XXV(1956) pp.491-505, ristampato in M. Dummett, Truth and othe Enigmas,

London 1978, pp.38-49; M. Dummett, Frege’s Philosophy (1967), ristampato in Truth and other Enigmas, London 1978, p.95. 9 Nell’esempio dato da Dummett al posto di “gatto” e “matto” compare “mean” e “lean”. La scelta di “gatto” e “matto” è di Carlo Penco che ha tradotto in italiano il testo di Dummett. Vedi M.

Dummett, Frege. Philosophy of Language, cit., p.3.

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

5

Ma il rapporto “parola\lettera” non è, secondo Dummett, del tutto analogo a

quello “enunciato\parola”. Se la relazione che l’enunciato ha con le parole che

lo compongono fosse analoga a quella che c’è tra una data parola e le singole

lettere che la formano, allora dovremmo concludere che le parole in un

enunciato non hanno più significato di quello delle lettere all’interno di una singola

parola10.

La tesi che l’enunciato è il veicolo primario del senso sembra poggiare

sull’osservazione che conosciamo il significato di una parola solo perché

conosciamo il significato dell’intero enunciato che la contiene. Ma Dummett

considera questa tesi, così intesa, assurda. E’ assurda perché incapace di

spiegare come sia possibile per noi afferrare e comprendere enunciati nuovi. La

tesi enunciata da Quine, secondo l’interpretazione che stiamo considerando,

nega il fatto abbastanza banale che noi possiamo comprendere enunciati nuovi

che non abbiamo mai proferito o sentito prima.

Come lo stesso Frege ha più volte spiegato, “la possibilità di comprendere

enunciati che non abbiamo ancora mai udito prima, poggia evidentemente sul

fatto che costruiamo il senso di un enunciato da certe parti, che corrispondono

alle espressioni”11. Frege ribadisce più volte che la nostra comprensione del senso

di un enunciato deriva dalla comprensione delle singole parti che lo

compongono. Noi comprendiamo i sensi degli enunciati perché già conosciamo i

sensi delle espressioni che formano l’enunciato. Non comprendiamo dunque gli

enunciati olisticamente.

Se infatti prendiamo in considerazione gli enunciati “L’Etna è più alto del Vesuvio”

e “L’Etna è in Sicilia”12 osserviamo che in essi c’è qualcosa in comune di cui

dobbiamo tener conto. In entrambi gli enunciati compare l’espressione “Etna”

che può comparire in numerosi altri enunciati in posizioni diverse. Per Frege,

l’espressione in comune nei due enunciati corrisponde a qualcosa in comune

anche nei corrispondenti pensieri che essi esprimono. La parola “Etna” nei due

esempi contribuisce all’espressione dei pensieri da parte dei due enunciati. Per

10 M. Dummett, Frege. Philosophy of Language, cit., p.3. 11G. Frege, Alle origini della nuova logica, cit., p.105. 12 Ibidem.

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Frege, questo contributo è parte del pensiero espresso dall’enunciato e in questo

precisamente consiste il senso della espressione “Etna”. Se l’espressione “Etna”

non avesse un senso, non avrebbe senso neppure l’intero enunciato che la

contiene. Un enunciato non può esprimere un pensiero se le espressioni che lo

compongono sono prive di senso. Da un lato dunque noi possiamo conoscere il

senso di un’espressione solo in relazione alla sua occorrenza negli enunciati,

dall’altro però la comprendiamo indipendentemente dal particolare enunciato in

cui può comparire.

Un parlante dunque, appartenente a una certa comunità linguistica, quando

apprende una lingua naturale non impara gli enunciati come se fossero dei

“blocchi unici”. L’apprendimento di una lingua non può consistere in questo.

Quando apprendiamo una lingua impariamo, tra le tante cose, il modo in cui le

diverse espressioni danno il loro apporto alla formazione di enunciati. Impariamo,

cioè, come le parole possono essere usate e combinate tra loro all’interno degli

enunciati.

Il carattere composizionale del senso permette dunque di spiegare un aspetto

caratterizzante la nostra pratica linguistica: la possibilità di apprendere e

comprendere nuovi enunciati. Se non fosse riconosciuto il carattere

composizionale del senso, saremmo costretti a richiedere che i parlanti siano in

grado di apprendere gli enunciati della lingua uno ad uno. Per apprendere in

questo modo una lingua dovremmo avere la capacità di memorizzare un numero

infinito di enunciati. Ma ciò naturalmente non corrisponde al modo in cui i parlanti

acquisiscono una lingua.

Si potrebbe aggiungere che procediamo non olisticamente non solo quando

udiamo e comprendiamo enunciati, ma anche quando costruiamo enunciati

nuovi. Componiamo enunciati nuovi a partire dalle singole parole perché in

qualche modo già conosciamo il significato che quelle parole possiedono. È in

virtù di questa conoscenza che scegliamo, in base al pensiero che dobbiamo

esprimere, di utilizzare un’espressione piuttosto che un’altra. Con un enunciato

possiamo, utilizzando parole “vecchie” che già conosciamo e che nella maggior

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

7

parte dei casi abbiamo già impiegato in numerosi altri enunciati, comunicare un

pensiero “nuovo”.13

La nostra competenza linguistica si basa, dunque, sulla capacità di costruire e di

comprendere un numero potenzialmente infinito di enunciati. Per Frege ciò è

possibile perché egli postula una sorta di isomorfismo tra la struttura del pensiero e

quella del linguaggio, in base al quale i pensieri sono composti di parti che

corrispondono a parti degli enunciati che li esprimono. Frege descrive il carattere

composizionale del linguaggio così:

Meravigliose sono le prestazioni della lingua. Per mezzo di pochi suoni e di poche

concatenazioni di suoni essa è in grado di esprimere un immenso numero di pensieri, e

invero, pensieri mai pensati ed espressi da alcuno. Che cosa rende possibili queste

prestazioni? Il fatto che i pensieri sono costruiti per mezzo di blocchi di pensiero. E questi

blocchi corrispondono ai gruppi di suoni di cui è composto l’enunciato che esprime il

pensiero, così che alla costruzione dell’enunciato per mezzo delle parti di enunciato,

corrisponde la costruzione del pensiero per mezzo di parti di pensiero.14

Per Frege la struttura dell’enunciato riflette la struttura del pensiero. Ciò vuol dire

che analizzare un enunciato è spiegare come le diverse parti, di cui è composto

quell’enunciato, determinano il pensiero che l’enunciato esprime; e che afferrare

un pensiero espresso da un enunciato è possibile solo afferrando i sensi delle

singole parti componenti quell’enunciato.

In base a quanto detto, non è corretto dunque interpretare il principio del

contesto come se questo conferisse significato solo agli enunciati e lo negasse alle

singole parole.15 Piuttosto, se l’enunciato - come ritiene Frege - è formato da

singole parti che distintamente contribuiscono all’espressione del senso

dell’enunciato, allora da un certo punto di vista queste parti devono essere in

possesso di un loro senso autonomo.

13 Wittgestein così scrive: “Una proposizione deve comunicare con espressioni vecchie un senso

nuovo”. Vedi L.Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, § 4.03, trad. ital.a cura di A.G.Conte, Torino1995. 14G. Frege, Logica nella matematica, in G. Frege, Scritti postumi, cit., p.360-361. 15 Cfr.: M. Dummett, Nominalism, “Philosophical Review”, XXV(1956) pp.491-505; ristampato in M.

Dummett, Truth and other Enigmas, cit., pp.38-49.

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

8

Passiamo ora ad analizzare in che termini la tesi attribuita da Quine a Frege sia un

truismo.

Per Dummett, è solo in parte corretto attribuire a Frege la tesi “l’enunciato è l’unità

del significato” nel senso in cui questa tesi è un’ovvietà. La tesi secondo cui

l’enunciato è il veicolo primario del significato è un’ovvietà se con essa si vuole

sostenere che non possiamo compiere nessun atto linguistico, non possiamo dire

nulla, se non per mezzo di un enunciato. Non c’è dubbio che il principio del

contesto riconosce questo primato all’enunciato. Questo riconoscimento è

ancora più evidente se consideriamo quello che viene ritenuto il corollario del

principio del contesto, secondo cui “non si deve mai indagare sul significato delle

parole in isolamento”. Se indaghiamo sul significato di una parola senza riferirci

all’enunciato in cui essa occorre, saremo costretti ad assumere come suo

significato un’immagine mentale o una rappresentazione. Ma il principio del

contesto ci mette in guardia, come formulato nelle Grundlagen, dall’identificare il

significato di una parola con la sua immagine mentale o con l’oggetto per cui la

parola sta. Se ci informiamo sul significato dei termini ad esempio “1” o

“Aristotele”, estrapolandoli dal contesto dell’enunciato in cui essi compaiono, la

risposta che possiamo fornire sarà legata a quell’immagine mentale o a quell’idea

che la parola evoca nella nostra mente. Tuttavia, l’immagine mentale che una

parola può evocare nella mente non ha nulla a che fare con il significato che

quel termine possiede16.

È fuori dubbio dunque che la teoria del significato di Frege ponga le basi per la

tesi di Wittgenstein secondo cui l’enunciato è la più piccola unità linguistica

dotata di significato con la quale possiamo compiere una mossa nel gioco

linguistico. Sotto questo aspetto possiamo affermare a ragione che il principio

fregeano del contesto si muove nella direzione della tesi wittgensteiniana. Nessun

16 G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik, cit., p. VI-VII, § 27. Nella maggior parte dei scritti di Frege uno degli obiettivi principali dei suoi attacchi è lo psicologismo. Frege ribadisce, più volte e con insistenza, che la logica e l’aritmetica non devono avere nulla a che fare con la psicologia. Ciò è motivato dalla profonda convinzione che ciò che è psicologico è irrilevante per la matematica e per la logica. Nelle Grundlagen, per esempio, Frege pone come uno dei principi metodologici, da lui adottato nella ricerca sui fondamenti dell’aritmetica, la separazione netta tra ciò che appartiene alla logica (l’oggettivo), e ciò che appartiene alla psicologia (il soggettivo). Per Frege il soggettivo è ciò che è privato, che appartiene al singolo soggetto, e in quanto tale non è comunicabile; mentre l’oggettivo è ciò che è indipendente dai singoli soggetti.

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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filosofo infatti prima di Frege ha mai riconosciuto con chiarezza il primato

dell’enunciato rispetto a qualsiasi altra espressione linguistica. Una lunga tradizione

anteriore a Frege, capeggiata in età moderna da Locke, aveva avallato l’ipotesi

che le parole fossero capaci di esprime idee in quanto segni sensibili di queste.

Secondo questa tradizione, i significati delle parole hanno a che a fare con le

rappresentazioni che si formano nella nostra mente associate alle espressioni che

utilizziamo: le singole parole esprimono idee semplici, mentre le combinazioni di

parole esprimono idee complesse. Questa concezione non aveva permesso però

di distinguere tra le sequenze di parole che formano enunciati completi e le

sequenze di parole che non arrivano a formare enunciati. La spiegazione di tale

distinzione, d’importanza capitale per la riflessione contemporanea sul linguaggio,

fu opera di Frege.

Ma sebbene il riconoscimento del primato dell’enunciato sia una parte

fondamentale della teoria fregeana del significato, affibbiare a Frege lo slogan

“l’enunciato è l’unità del significato” è, per Dummett, un modo riduttivo e poco

preciso di presentare la teoria fregeana del significato e del principio del

contesto.

Per questo motivo, Dummett ritiene sia opportuno sostituire il “rozzo slogan” che

Quine attribuisce a Frege con una formulazione più corretta.

Il suggerimento di Dummett è quello di esprimere la teoria fregeana nel modo

seguente:

“ai fini della spiegazione è primario il senso di un enunciato, ma ai fini del riconscimento

è primario il senso di un parola”17.

Non ha senso dunque chiedersi se la parola o l’enunciato sia l’unità di significato.

Porre la questione in questi termini significa rischiare di formulare risposte destinate

a generare equivoci. Se dobbiamo ricostruire il processo attraverso il quale un

parlante giunge a riconoscere il senso di un enunciato in cui si imbatte, allora

dobbiamo supporre che i parlanti, perlopiù, prima di comprendere enunciati

17 M. Dummett, Frege. Philosophy of Language, cit., p. 4.

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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comprendono le parole componenti. E’ solo in questi termini che si può dire che il

senso di una parola è primario rispetto a quello dell’enunciato. Come si è visto,

secondo Frege, il senso di un enunciato è determinato dai sensi delle sue parti

componenti. Per questo cogliamo il senso di un enunciato solo se ne cogliamo la

struttura, il modo cioè in cui le parole sono combinate tra loro all’interno

dell’enunciato, e se cogliamo i sensi delle singole parole che in esso occorrono.

Solo tenendo presente questa spiegazione, secondo cui ai fini del riconoscimento

è primario il senso di una parola, riusciamo a dare conto di quella che è una

proprietà essenziale del linguaggio, quella appunto di comprendere enunciati

nuovi mai sentiti prima.

Se però dobbiamo spiegare che cosa vuol dire in generale per una parola o per

un enunciato avere un senso, allora l’ordine di priorità si inverte e diventa primario

il senso dell’enunciato. Per spiegare la nozione generale di senso di una parola

dobbiamo allora spiegare il senso delle espressioni a partire dall’enunciato preso

come un tutto. In base al principio del contesto, infatti, il senso di una parola deve

intendersi come il contributo che essa dà alla determinazione del senso

dell’enunciato in cui essa compare. Attribuire un senso ad una parola, osserva

Dummett, vuol dire qualcosa solo in relazione alla sua successiva occorrenza negli

enunciati. Come abbiamo detto sopra, la parola ha un senso che è da un certo

punto di vista indipendente dal particolare enunciato in cui occorre.

Diversamente, per spiegare cosa sia in generale il senso di un enunciato non

possiamo, per evitare un circolo vizioso, riferirsi al senso delle espressioni che lo

compongono. È possibile fornire questa spiegazione solo servendoci di una

nozione indipendente. Frege sceglie la nozione di “condizione di verità”: “afferrare

il senso di un enunciato è, in generale, conoscere le condizioni in cui

quell’enunciato è vero e quelle in cui è falso”18.

Per Frege, le condizioni sotto le quali un enunciato è vero o falso dipendono dal

modo in cui l’enunciato è costruito, vale a dire da come le espressioni compaiono

e si combinano all’interno dell’enunciato. Il senso di una parola “consiste in una

18 M. Dummett, Frege. Philosophy of Languge, cit., p. 5.

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regola che, presa insieme alle altre regole costitutive del senso delle altre parole,

determina la condizione per la verità di un enunciato in cui essa occorre”.19

La conclusione cui Dummett giunge è che il principio del contesto non deve

essere inteso come se conferisse senso solo agli enunciati e lo negasse alle singole

parole. Piuttosto esso stabilisce che la nostra comprensione di un enunciato

consiste nella comprensione del modo in cui una parola contribuisce a

determinare il senso dell’enunciato in cui occorre. Più precisamente, se il senso di

una parola è il suo contributo al senso dell’enunciato in cui essa occorre e se, in

generale, il senso è ciò che è rilevante alla determinazione del valore di verità

dell’enunciato, allora il senso di una parola deve essere concepito come il suo

contributo alla verità o alla falsità dell’enunciato in cui essa figura.

3. Due diverse applicazioni del principio del contesto.

Secondo Dummett, il principio del contesto costituisce la più importante

affermazione filosofica fatta da Frege e la teoria del significato fregeana è

largamente incentrata su di esso20. L’importanza del principio del contesto è

strettamente legata alla svolta linguistica (linguistic turn) operata in filosofia a

cavallo tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, svolta

linguistica che a sua volta determina la nascita della filosofia analitica. Frege

compie tale svolta, al paragrafo 62 delle Grundlagen, quando alla domanda

“come i numeri ci possono essere dati?”, risponde che occorre indagare sui sensi

degli enunciati in cui i termini numerici occorrono. In questo modo Frege trasforma

un problema di natura epistemologica in un problema linguistico, determinando in

filosofia un cambiamento tale di prospettiva da indurlo a considerare,

diversamente da Descartes, la teoria del significato, e non più la teoria della

conoscenza, il punto di partenza di ogni indagine filosofica.

Il principio del contesto esprime una priorità del linguaggio sul pensiero: una

spiegazione filosofica del pensiero è possibile solo attraverso una spiegazione

19 Ivi, p, 194. 20 M. Dummett, Nominalism, in «Philosophical Review», vol., LXV, 1956, p.491; ristampato in M.

Dummett, Truth and Other Enigmas, London 1978, pp.38-49.

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filosofica del linguaggio e una spiegazione comprensiva è conseguibile solo in

questo modo21. Questo convincimento è considerato una massima della filosofia

analitica22.

Frege formula il principio del contesto nelle Grudlagen quando ancora non aveva

tracciato la distinzione tra senso (Sinn) e riferimento (Bedeutung )23. Per questo,

Frege non distingue tra l’applicazione del principio del contesto al senso e

l’applicazione del principio del contesto al riferimento. Dummett, invece, traccia

questa distinzione che illustrerò e farò valere di seguito.

3.1 Il principio del contesto come tesi sul senso.

Il principio del contesto come tesi sul senso assegna agli enunciati un primato

rispetto al significato. Come tesi sul senso, esso stabilisce infatti che:

21 M. Dummett, Origini della filosofia analitica, trad. ital. di E. Picardi, Torino 2001, p. 13, 15, 37. 22 Ibidem. 23 Propriamente, in base alla distizione introdotta da Frege, la Bedeutung di un termine singolare è sempre un oggetto, l’oggetto per parlare del quale utilizziamo quel nome. Il senso di un termine

singolare, invece, è il “modo di darsi dell’oggetto”, la “via per giungere al riferimento”. Il senso è ciò che un parlante di una lingua deve conoscere per determinare il riferimento di un’espressione.

Infatti, per Frege, non è possibile accedere al riferimento senza la mediazione del senso. Pertanto, dato un termine singolare T, prima afferriamo il senso di T, e poi, attraverso il senso di T,

determiniamo il suo riferimento. Tuttavia, per Frege, un’espressione può essere dotata di senso ma priva di riferimento. Vi sono nel linguaggio termini singolari che non hanno un portatore come i

nomi di personaggi della mitologia (“Ulisse”) e della letteratura, o espressioni che non si riferiscono a nulla come “il più grande numero primo” o “la serie meno convergente”. Inoltre, secondo Frege,

termini singolari diversi possono avere lo stesso riferimento ma sensi diversi, come ad esempio “Stella del Mattino” e “Stella della Sera”. I sensi diversi di queste due espressioni corrispondono a

due diversi modi di riferirsi allo stesso oggetto (il pianeta Venere). Vedi G. Frege, Senso e Riferimento, in Frege G. , Senso, funzione e concetto, a cura di C. Penco ed E. Picardi, Roma-Bari

2001. Come dimostrato nelle Grundlagen, per capire che un’espressione sta per un determinato oggetto, dobbiamo essere in grado di “riconoscere l’oggetto come sempre lo stesso”. Per comprendere quale sia l’oggetto a cui un termine singolare si riferisce, dobbiamo cioè disporre di un criterio di identità che ci permette di riconoscere l’oggetto a cui il termine singolare si riferisce. A ogni termine singolare, dunque, deve essere associato un appropriato criterio d’identità. Infatti, secondo Frege, usiamo differenti criteri d’identità che dipendono dalla categoria logica a cui appartiene il referente di un termine.

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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il senso di un’espressione è il suo contributo alla determinazione del senso (vale a dire

alla determinazione delle condizioni di verità) di ogni enunciato in cui essa può

occorrere24.

La tesi che una espressione ha significato solo nel contesto di un enunciato

esprime dunque qualcosa di più di quanto implicato dal rapporto generale che il

significato di un’espressione ha con il contesto in cui essa occorre. Il principio del

contesto conferisce agli enunciati una particolare importanza all’interno del

linguaggio. Gli enunciati hanno un ruolo centrale e ben distinguibile nel

linguaggio. L’enunciato è, infatti, la più piccola unità linguistica con la quale

possiamo fare qualcosa, vale a dire che solo proferendo un enunciato possiamo

dire qualcosa. Le cose che possiamo fare con gli enunciati sono le più diverse:

porre una domanda, fare un’asserzione, esprimere un desiderio, impartire un

ordine o fare un’esclamazione, ecc.. Diversamente, con una singola parola, o

comunque con un’espressione che sia meno di un enunciato, non riusciamo a

compiere nessun atto linguistico, e dunque non possiamo dire nulla. Con una

parola isolata non si può fare nulla, non si può – per dirla alla Wittgenstein -

compiere nessuna “mossa nel gioco linguistico”.

Un’adeguata spiegazione del significato di una parola dipende dunque

dall’analisi della struttura dell’enunciato di cui quella parola è parte. In questo

senso, l’analisi dell’enunciato è primaria nella spiegazione del significato di una

parola e per questa ragione si può affermare che il principio del contesto non solo

assegna agli enunciati “un ruolo a sé” nel linguaggio, ma gli attribuisce anche una

certa supremazia sulle altre espressioni linguistiche.

È qui necessaria una precisazione. Frege dopo le Grundlagen sviluppa una tesi

che non riconosce più all’enunciato un carattere specifico ma assimila gli

enunciati a nomi propri. In base a questa tesi, gli enunciati sono nomi propri

complessi e i loro valori di verità, in analogia alla relazione nome\portatore, sono

oggetti. Gli enunciati diventano così, dal punto di vista logico, un caso speciale di

nomi propri e il Vero e il Falso due oggetti tra i tanti. Per Frege, la relazione che

sussiste tra l’enunciato e il suo valore di verità diventa, dopo le Grundlagen,

24 M. Dummett, The Context Principle, in M. Dummett, The intrepretation of Frege’s philosophy, cit..

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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identica alla relazione tra un nome proprio e il suo portatore. Nei Grundgesestze,

Frege non assegna ai nomi di valori di verità, cioè agli enunciati, un ruolo

semantico distinguibile dai nomi di oggetti di tipo logico diverso, come per

esempio i termini singolari. Più precisamente, nei Grundgesetze Frege stabilisce

che il riferimento di un termine è stabilito se, e solo se, viene stabilito per tutte le

espressioni in cui occorre. In altre parole, un termine ha un riferimento se ogni

termine più complesso in cui esso occorre ha un riferimento. Dummett definisce

questo principio, il “principio del contesto generalizzato”. Tale principio è, per

Dummett, un passo indietro rispetto al principio del contesto formulato nelle

Grundlagen, perché viene in esso meno il primato degli enunciati.

Per Dummett, l’assimilazione degli enunciati a nomi propri è una tesi che ha un

effetto fatale sulla teoria fregeana del significato. Questa tesi è in conflitto con il

principio del contesto, preso come tesi riguardante il senso, perché non riconosce

il fatto evidente che gli enunciati funzionano nel linguaggio diversamente dai

nomi propri. In virtù del loro diverso funzionamento, gli enunciati e i nomi propri

sono espressioni di tipo logico diverso. Dal momento che gli enunciati e i nomi

propri sono tipi logici diversi allora la relazione che sussiste tra un enunciato e il suo

valore di verità può essere solo analoga, e non identica, a quella tra nome proprio

e il suo portatore. Se si riconosce questo, cosa che Frege non fa più dopo le

Grundlagen, si deve anche riconoscere che il referente di un nome proprio, il suo

portatore, è di un tipo logico diverso dal referente di un enunciato, il suo valore di

verità.

Per Dummett l’assimilazione degli enunciati a nomi propri, presente negli ultimi

scritti di Frege, è un errore. La relazione tra gli enunciati e i valori di verità è, come

la relazione tra un predicato e un concetto, analoga, non identica, a quella tra

nome proprio e oggetto. La scelta di Frege di assimilare gli enunciati a nomi propri

e di considerare i valori di verità oggetti, non è – sostiene Dummett - una scelta

obbligata. Sostenere cioè che gli enunciati debbano avere oltre a un senso

anche un riferimento non implica necessariamente che i valori di verità siano

oggetti e che gli enunciati siano un tipo particolare di nomi propri complessi. Né

d’altra parte l’idea che i valori di verità siano i referenti degli enunciati comporta

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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l’assimilazione degli enunciati a nomi propri; tanto meno essa comporta che la

relazione nome\portatore debba essere il prototipo di tutte le relazioni di

riferimento per ogni tipo di espressione linguistica.

L’assimilazione degli enunciati a nomi propri ha come conseguenza che il senso di

una parola è, come nelle Grundlagen, il suo contributo alla determinazione delle

condizioni di verità dell’enunciato di cui essa fa parte. Il referente di una parola

diventa invece nei Grundgesetze il suo contributo alla determinazione del

referente di un termine singolare complesso in cui la parola occorre.

Pertanto, nei Grundgesetze non viene riconosciuto il primato dell’enunciato

rispetto al riferimento. Dunque, Dummett sostiene che, mentre Frege nei

Grundgesetze, sia pure tacitamente, rimane fedele al principio del contesto

rispetto al senso, egli non rimane fedele al principio del contesto come tesi sul

riferimento.

3.2 Il principio del contesto come tesi sul riferimento.

Come tesi sul riferimento, il principio del contesto stabilisce invece che:

se un senso è stato fissato per ogni possibile enunciato in cui un’espressione può

comparire e tali enunciati sono veri, allora nessun’altra stipulazione è necessaria per

conferire un referente a quell’espressione.

Più precisamente, esso stabilisce che:

per determinare il riferimento di un’espressione tutto ciò che dobbiamo fare è fissare i

sensi degli enunciati in cui essa compare e stabilire certe verità.

Come tesi sul riferimento, il principio del contesto esprime l’idea che se i valori di

verità degli enunciati in cui una data espressione compare sono stati fissati, allora

abbiamo fatto tutto quanto poteva essere fatto per stabilire il riferimento di

quell’espressione. Dal momento che per determinare il riferimento di

un’espressione tutto ciò che dobbiamo fare è fissare i sensi degli enunciati in cui

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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essa compare e stabilire certe verità, allora ogni indagine sul riferimento di una

data espressione diventa un’indagine che riguarda la verità di un certo tipo di

enunciati. Così, ad esempio, chiedersi se a e b si riferiscono allo stesso oggetto è

chiedersi se è vero l’asserto d’identità “a=b”; mentre chiedersi se a ha un

riferimento è chiedersi se è vero l’enunciato “C’è un oggetto come a”.

Le distinzioni logiche e semantiche tra le diverse espressioni che impieghiamo nel

linguaggio, devono essere tracciate sulla base dell’esame degli enunciati senza

analizzare in anticipo ciò per cui le espressioni stanno. L’appartenenza di una

parola a una data categoria logica dipende dai caratteri più generali del suo uso.

È possibile dunque stabilire se un’espressione linguistica si riferisce a un oggetto, a

un concetto o a una funzione solo una volta conosciuto il tipo logico di

quell’espressione.

Un aspetto controverso del principio del contesto come tesi sul riferimento è la sua

stretta connessione con “la tesi della priorità delle categorie sintattiche su quelle

ontologiche”, tesi che può in generale essere formulata come segue:

La questione se una certa espressione può candidarsi o meno a riferirsi a un

determinato oggetto è interamente rimandata alla questione del tipo di ruolo

sintattico che essa svolge nel contesto di un enunciato25.

La “tesi della priorità delle categorie sintattiche su quelle ontologiche” è

strettamente legata al cosiddetto “Argomento di Frege”26 - utilizzato nelle

Grundlagen per dimostrare che i numeri sono oggetti - che può essere

sinteticamente presentato nel modo seguente:

(i) Se un’espressione appartenente a un certo dominio funziona come termine

singolare in enunciati veri, allora ci sono oggetti denotati da espressioni di quel

dominio.

(ii) I numerali, e altre espressioni numeriche, funzionano in questo modo in molti

enunciati veri sia della matematica pura che di quell’applicata.

25 Crispin Wright, Frege’s Conception of Numbers as Objects, Aberdeen University Press, 1983, p.51. 26 L’appellativo “Argomento di Frege” lo si deve a B. Hale e C. Wright.

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17

Quindi:

(iii) Ci sono oggetti denotati da espressioni numeriche (per esempio, i numeri).27

L’esistenza di un dominio d’oggetti a cui determiniate espressioni fanno riferimento

viene stabilita dal fatto che tali espressioni funzionano in certi enunciati come

termini singolari (i) e che gli enunciati in cui esse occorrono siano veri (ii). Frege ha

dimostrato nelle Grundlagen che i numeri sono oggetti dopo aver riconosciuto

che i termini numerici si comportano in enunciati veri della scienza primariamente

come termini singolari. La questione se qualche entità possa essere annoverata fra

gli oggetti “che ci sono” viene dunque rimandata alla questione sulla forma

logica di certi enunciati e sul loro valore di verità.

La “tesi della priorità delle categorie sintattiche su quelle ontologiche” esprime

dunque l’idea che le categorie linguistiche siano primarie rispetto a quelle

ontologiche: non possiamo spiegare a che tipo d’entità un’espressione si riferisce

se non spiegando a che tipo d’espressione linguistica essa appartenga.

Comprendere a che tipo d’entità una data espressione potrebbe riferirsi è

comprendere come quell’espressione funziona nell’enunciato di cui è parte. Per le

cose di cui parliamo disponiamo, infatti, di diverse categorie logiche che riflettono

le diverse categorie linguistiche. Per sapere che cosa sia (a quale categoria

ontologica appartenga) ciò per cui una parola sta, dobbiamo innanzitutto sapere

che sorta di parola sia (a quale categoria logica quella parola appartenga). In tal

senso, il tipo logico di un’espressione determina il tipo ontologico del suo

referente. Per redigere un inventario ontologico di ciò che “esiste”, è dunque

essenziale caratterizzare formalmente la classe dei termini singolari. Per farlo, è

necessario essere in grado di stabilire l’appartenenza di un’espressione alla sua

categoria logica solamente in relazione al modo in cui essa è impiegata nel

linguaggio.

27 Cfr. B. Hale, Abstract Objects, Blackwell, Oxford, 1987, pp.11.

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Da un punto di vista ontologico, il principio del contesto assume quindi la

prospettiva in base alla quale il linguaggio è non solo il punto di partenza, ma

anche l’unica via d’accesso alle indagini di natura ontologica. Non abbiamo

dunque bisogno d’ulteriore indagine “specificatamente” filosofica per stabilire se

un termine singolare stia o meno per un oggetto. La tesi secondo cui una parola

sta per qualcosa solo nel contesto di un enunciato ha come sua conseguenza il

rifiuto di una nozione spuria, esclusivamente filosofica, di “esistenza”.28 Tale nozione

è invece presupposta dalla concezione che afferma che solo gli oggetti concreti

esistano. Una tale distinzione porterebbe a negare che oggetti astratti come i

numeri esistano e ad affermare, ad esempio, che c’è un certo numero perfetto tra

10 e 30 ma che tale numero, vale a dire il 28, non esiste realmente29. Ma dire per

esempio che “il numero 28” non sta per un oggetto, vorrebbe dire che non c’è un

oggetto come il numero 28, o che non c’è un numero come 28, e che il 27 non ha

un successore e che non c’è un numero perfetto tra il 10 e il 30.

La tesi espressa dal principio del contesto non è dunque conciliabile con la tesi

nominalista secondo cui un oggetto astratto è qualcosa che non ci può essere

dato come referente di un’espressione linguistica. Tuttavia, il principio del contesto

è ovviamente conciliabile con la tesi che un oggetto concreto ci può essere dato

anche in altro modo. Il problema però è dato dalla possibilità relativa all’esistenza

di oggetti astratti dal momento che questi ci sono dati solo attraverso il linguaggio.

L’impossibilità di mostrare un oggetto astratto ha portato ingenuamente il

nominalista a credere che gli oggetti astratti siano entità spurie e a concepire

l’identificazione dell’oggetto da parte del senso sostanzialmente come un mezzo

per mostrare l’oggetto che un’espressione denota attraverso un atto di

ostensione. Alla base di questa concezione c’è la credenza che il senso di una

28 Così scrive Dummett: “Any further question about whether any such name has a reference or not can be, at most, a question about the truth of an existential statement: just as the question whether

the name “Vulcan” has a reference is an astronomical question, namely as to whether there is a planet whose orbit lies inside Mercuryn’s, so the question whether, say “1” has a reference is a

mathematical question, namely as to whether there is a least non-denumerable ordinal”. 28 M. Dummett, Frege. Philosophy of Language, cit., p. 497. 29 L’esempio del “numero 28” è presentato da Dummett in Nominalism. Vedi M. Dummett, Nominalism, in «Philosophical Review» LXV (1956), pp. 491-505, ristampato in Truth and other

Enigmas, London 1978, p.40.

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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parola possa in linea di principio essere dato da un confronto con l’oggetto a cui il

nome, come un’etichetta, è appiccicato30. Tuttavia, è evidente che non è

possibile compiere un atto di ostensione nel caso degli oggetti astratti. Piuttosto, il

senso di un nome proprio è - in termini fregeani - ciò che fissa il criterio d’identità

che ci permette di identificare un oggetto come il portatore del nome.

La tesi accettata dal nominalista è, secondo tale prospettiva, dunque fuorviante

perché l’idea che per determinare il riferimento di un’espressione non abbiamo

bisogno di nient’altro che di considerare gli enunciati che la contengono vale per

i termini singolari che stanno per oggetti concreti come per quelli che stanno per

oggetti astratti.

In Nominalism31, Dummett offre un’ampia discussione del presunto senso filosofico

della nozione di esistenza in relazione all’espressioni che, come “la parola ´Parigi`”,

stanno per oggetti astratti. L’espressione “la parola ´Parigi`” funziona negli

enunciati come un termine singolare. Sappiamo, infatti, come attribuire a

quest’espressione certi predicati e dire “La parola ´Parigi` ha tre sillabe”; sappiamo

come stabilire le condizioni di verità degli asserti d’identità in cui essa può

comparire e sappiamo anche compiere un’ostensione dicendo “Questa è la

parola ´Parigi`”. Dal momento che sappiamo come usare quest’espressione

all’interno degli enunciati, non ha senso continuare a chiedersi per che cosa stia

la parola “Parigi”. Se un’espressione dunque si comporta all’interno degli enunciati

come termine singolare, allora è un termine singolare. Se essa è un termine

singolare e occorre in enunciati veri, allora non si può negare a tale espressione di

avere come riferimento un oggetto. Chiedersi dunque se un certo oggetto che

sta per una data espressione realmente esiste, vuol dire esigere che venga

mostrato quell’oggetto. Ma il domandarsi questo significherebbe violare il

corollario del principio del contesto32 che ci mette in guardia dall’indagare sul

significato di una parola presa in isolamento. La conoscenza del principio del

contesto è una condizione essenziale per riconoscere che un “oggetto”, per

30 Ivi, p. 498. 31 M. Dummett, Nominalism, cit., p.42. 32

M. Dummett, Frege. Philosophy of Language, cit., p.496: “it is illegitimate to suppose that we may always ask to be

shown the object which is the bearer of a name”.

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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possedere il suo status di oggetto, non deve essere necessariamente “attuale”33. Il

principio del contesto come tesi sul riferimento stabilisce che non sia legittimo

supporre che sia sempre possibile mostrare l’oggetto che è il “portatore” del

nome34.

È opportuno osservare che il principio del contesto deve essere applicato a una

categoria di espressioni. Vi è infatti una differenza tra il fornire una spiegazione

generale del tipo di referente a cui un’espressione che appartiene a una

determinata categoria linguistica può riferirsi e il fornire una spiegazione del

referente di una particolare espressione appartenete a quella categoria.

Affermare che - ad esempio - un termine singolare si riferisce a un oggetto è dire

che quell’espressione, dal momento che soddisfa i criteri sintattici stabiliti per la

classe dei termini singolari, è capace di riferirsi a un oggetto.

4. Il principio del contesto e il principio di composizionalità: un’apparente

conflittualità.

Una delle questioni che ha maggiormente animato gli interpreti è se Frege

continuasse ad essere fedele al principio del contesto anche dopo le Grundlagen.

Dopo il 1884, Frege non ha mai più riformulato il principio del contesto né ha mai

offerto un argomento per rifiutarlo. Al contrario, come abbiamo visto, Frege

assume delle posizioni dopo il 1884 che sono palesemente in conflitto con tale

principio.

Dummett suggerisce un possibile motivo del perché tale principio, tanto

enfatizzato nelle Grundlagen, non venga più riformulato. Tale motivo sarebbe

strettamente legato all’assimilazione degli enunciati a nomi propri. Come si è visto,

Frege elabora dopo il 1884 nei Grundgesestze da un lato una teoria del senso che

continua ad assegnare agli enunciati un posto speciale, dall’altro una teoria del

33 L’espressione “attuale” traduce il termine tedesco “wirklich”. Un oggetto è “attuale” quando ha

la capacità di partecipare a interazioni causali. Un oggetto concreto, per esempio, può causare o essere soggetto a cambiamenti. In tale senso, un oggetto astratto, non avendo tale capacità, non

può dirsi attuale. Sui diversi possibili significati di “wirklich” vedi Dummett, Frege. Philosophy of Mathematics, Cambridge (Mass.) 1991, p. 80-81. 34 M. Dummett, Frege. Philosophy of Language, cit., p. 496.

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riferimento per la quale gli enunciati, presentati come nomi di valori di verità, non

hanno più un ruolo semantico distinguibile rispetto alle altre espressioni linguistiche.

Infatti, il sistema logico dei Grundgesestze, che classifica gli enunciati come

appartenenti a una suddivisione della categoria logica dei nomi propri, è

palesemente in conflitto con il principio del contesto che invece distingue gli

enunciati e i nomi propri come tipi logici diversi. In virtù di tale contrasto, Frege non

può più riaffermare esplicitamente il principio del contesto come parte ufficiale

della sua dottrina35. Pertanto, Frege non rimane fedele al principio del contesto

rispetto al riferimento come formulato nelle Grundlgen, ma adotta nei

Grundgesestze un principio del contesto generalizzato, che, secondo Dummett, è

però soltanto un’eco del principio del contesto formulato nelle Grundlagen.

Nonostante dopo le Grundlagen Frege formuli delle tesi in contrasto con il

principio del contesto, come l’assimilazione degli enunciati a nomi propri e il

conseguente mancato riconoscimento dello speciale ruolo svolto dagli enunciati

nel linguaggio, Dummett ritiene che tale principio comunque continua a essere un

guida nel pensiero di Frege.

La mancata riformulazione del principio del contesto dopo le Grundlagen non

dipende dunque dalla sua presunta conflittualità con il principio di

composizionalità, ma piuttosto dalla sua palese incompatibilità con la tesi che

assiminila gli enunciati ai nomi propri.

La conflittualità tra i due principi - che si è discussa all’inizio dell’articolo -

scompare dunque se cogliamo il carattere composizionale del principio del

contetso: dire che una parola ha significato solo nel contesto di un enunciato

equivale a dire che il significato di una parola non è altro che il suo contributo alla

determinazione del senso di qualsiasi enunciato in cui può occorrere. Per superare

l’apparente conflittualità tra contestualità e composizionalità occorre dunque

pensare gli enunciati e i pensieri che essi esprimono come connessi da una

relazione di dipendenza:

35 M. Dummett, The Context Principle, in M. Dummett, The Interpretation of Frege’s Philosophy, cit.,

p.371.

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

22

per afferrare i pensieri espressi da certi enunciati, è necessario in primo luogo essere in

grado di afferrare i sensi dalle sue parti componenti; l’afferrare il senso di una data

espressione richiede di essere capaci di afferrare i pensieri espressi da certi enunciati

che la contengono”.36

Alcune precisazioni. L’idea che conoscere il senso di una parola vuol dire

conoscere il contributo che l’espressione dà al senso dell’enunciato che la

contiene non deve essere equivocata. Ciò naturalmente non significa che per

comprendere il senso di una parola dobbiamo conoscere il senso di tutti gli

enunciati in cui la parola può comparire. Un parlante, per esempio, potrebbe non

comprendere alcuni enunciati in cui quella parola occorre perché non conosce il

senso delle altre parole che figurano come parti componenti di quegli enunciati.

Anche supponendo che un parlante sia in grado di conoscere tutti gli enunciati in

cui quella parola può comparire, la conoscenza di tutti quegli enunciati non

sarebbe comunque la conoscenza che abbiamo di quella parola. Affermare che

il senso di una parola è il suo contributo al senso dell’enunciato di cui è parte non

significa che per spiegare una parola dobbiamo riferirci in maniera esplicita alla

sua occorrenza in ogni enunciato in cui essa compare. Possiamo però isolare e

dividere le espressioni in categorie in base al diverso tipo di contributo che esse

danno al senso degli enunciati per offrire una descrizione generale di questo

contributo. Nel caso della categoria dei nomi propri37, ad esempio, questa

descrizione generale può essere data nei termini della relazione tra il nome e un

oggetto, visto che ciò per cui un nome proprio sta è sempre un oggetto. Tuttavia

affinché questa spiegazione del senso di un nome proprio sia valida deve essere

posta in relazione al suo successivo uso in contesti enunciativi e in particolare alla

determinazione delle condizioni di verità di ciascun particolare enunciato che la

possa contenere.

Dall’altra parte, il principio del contesto non afferma che il significato di una

parola cambia da enunciato a enunciato. Di fatto, il contributo di una parola è il 36 M. Dummett, Frege. Philosophy of Mathematics, cit., p. 202. 37 Qui per “nome proprio” intendo “termine singolare”. Frege include nella categoria degli Eigennamen, oltre ai nomi propri, anche le descrizioni definite. Propriamente, la Bedeutung di un termine singolare è sempre un oggetto, l’oggetto per parlare del quale utilizziamo quel nome. La Bedeutung di una descrizione è l’oggetto descritto da quella descrizione.

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

23

linea di principio uniforme da enunciato a enunciato e il suo significato è quasi

sempre lo stesso nei numerosi enunciati in cui occorre. Tuttavia la lingua naturale è

ricca di espressioni idiomatiche o metaforiche e spesso un termine può essere

impiegato con un uso non letterale o in maniera ambigua. Per questo il contributo

che una parola dà può a volte variare e dipendere dal particolare enunciato in

cui compare. Ai fini della comprensione di una lingua, diventa importante

conoscere i diversi tipi di contributi che una parola può dare in modo da poter

riconoscere di volta in volta il suo particolare contributo a seconda del particolare

enunciato.

Alla luce della composizionalità del senso, è anche da escludere che il principio

del contesto possa essere inteso come il preannuncio di una sorta di olismo

semantico. A partire da Quine, per olismo semantico alcuni intendono la tesi

secondo cui il significato di una parola dipende dalla totalità della lingua cui essa

appartiene. In questo senso l’olismo semantico si basa su di un allargamento del

principio del contesto: comprendere una parola è comprendere un enunciato,

ma per comprendere un enunciato occorre conoscere l’intera lingua di cui esso è

parte. L’olismo linguistico non è però in grado di spiegare come l’apprendimento

e la manifestazione della conoscenza di una lingua sia possibile38.

In conclusione, la massima secondo cui “non si deve mai indagare sul senso di

una parola presa in isolamento” è del tutto compatibile con il principio secondo

cui “il senso di un enunciato è composto dai sensi delle sue parti componenti”.

Come si è visto, il principio del contesto riguarda la questione di cosa sia in

generale per un’espressione avere un significato e, più in particolare, cosa vuol

dire per un’espressione essere in possesso di un senso e di un riferimento. Il principio

del contesto ha a che fare dunque con ciò che ci autorizza ad assegnare un

significato a una espressione linguistica.

Vera Tripodi

[email protected]

38 Ibidem.

Vera Tripodi, Contestualità e composizionalità del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

24

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27

UNA COMPONENTE NON CONCETTUALE DELL’ASPETTO SEMANTICO DEL LINGUAGGIO: ALCUNI

SUGGERIMENTI DAGLI STUDI CONDOTTI SU NEURONI SPECCHIO E RETI NEURALI

Barbara Giolito

I. Introduzione

Una delle peculiarità della specie umana è costituita dal possesso di un

linguaggio complesso e articolato. Il linguaggio, a sua volta, è caratterizzato

dall’avere un valore semantico, ovvero dall’essere dotato di significato. Cosa si

intenda quando si parla del significato del linguaggio è, da un punto di vista

intuitivo, facilmente comprensibile: il linguaggio rimanda a qualcosa di esterno a

esso, si riferisce a oggetti ed eventi presenti nel mondo oppure nella mente dei

parlanti. D’altra parte, nel momento in cui ci si propone di caratterizzare il valore

semantico del linguaggio naturale in modo rigoroso, si scopre che un simile

compito non è di facile realizzazione: il tentativo di associare alle singole parole

descrizioni particolareggiate che risultino necessarie e/o sufficienti per

determinare il loro significato mostra immediatamente come, per la maggior

parte dei termini di uso comune, un tale compito non sembri realizzabile in modo

determinato e rigoroso (la descrizione normalmente associata alla parola “tigre”

quale “un grosso felino a strisce gialle e nere” non vale, ad esempio, per tutte le

tigri – poiché vi sono tigri albine – ma il fatto di non essere in possesso di una

descrizione unitaria e pienamente soddisfacente non ci impedisce di utilizzare

correttamente tale termine).

Le difficoltà incontrate nel tentativo di rendere conto del significato del

linguaggio attraverso spiegazioni di natura, a loro volta, linguistica – di ricondurre,

ad esempio, il significato dei singoli termini a possibili descrizioni degli oggetti ed

eventi denotati dai termini in esame – hanno suggerito l’ipotesi che la spiegazione

della competenza linguistica umana debba essere cercata, non in ulteriori

resoconti linguistici, quanto piuttosto in capacità antecedenti al linguaggio. Il

significato – o parte del significato – di alcuni termini potrebbe quindi fondarsi,

non sul loro collegamento ad altri termini, ma sulle relazioni senso-motorie che i

Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

28

soggetti intrattengono gli uni con gli altri e con l’ambiente esterno. Alcuni risultati

di esperimenti condotti su particolari strutture neurali – i “neuroni specchio” –

sembrano rafforzare una simile ipotesi. Modelli realizzati in Intelligenza Artificiale –

in particolare, modelli connessionisti – sembrano inoltre portare un’ulteriore

conferma a tale ipotesi attraverso la definizione di meccanismi che suggeriscono

come l’organizzazione di una struttura neurale possa essere influenzata dalle

interazioni sensoriali e motorie con l’ambiente esterno.

II. I neuroni specchio e il linguaggio

II.1 Come funzionano i neuroni specchio

I neuroni specchio – scoperti agli inizi degli anni ‘90 presso l’istituto di Fisiologia

dell’Università di Parma dal gruppo di Giacomo Rizzolatti – sono neuroni che si

attivano sia quando una particolare azione finalizzata a uno scopo viene

eseguita sia quando si osserva la stessa azione eseguita da altri soggetti (Rizzolatti

et al. 1996; Gallese et al. 1996). I neuroni inizialmente scoperti da Rizzolatti e

colleghi sono neuroni facenti parte dell’area premotoria F5 del cervello delle

scimmie: questi neuroni sono tali da attivarsi sia quando una scimmia esegue

un’azione finalizzata a uno scopo (ad esempio afferra un oggetto con la mano)

sia quando la scimmia osserva un altro individuo (un’altra scimmia o un essere

umano) eseguire la stessa azione. La scoperta dei neuroni specchio ha suggerito

una spiegazione del modo in cui potrebbe avvenire la comprensione delle azioni

osservate: il fatto che l’osservazione di una determinata azione attivi lo stesso

circuito neurale attivato durante l’esecuzione di quell’azione può infatti essere

interpretato come una sorta di simulazione, da parte del cervello dell’osservatore,

di quanto avviene nel cervello dell’individuo che esegue l’azione. Interessante è il

fatto che nell’attivazione dei neuroni specchio sembri implicita una qualche

specificazione dello scopo dell’azione: i neuroni dell’area premotoria F5 che

codificano, ad esempio, le azioni costituite dall’afferrare un oggetto con la mano

si attivano al conseguimento di un determinato scopo – in questo caso l’afferrare

l’oggetto – a prescindere dai movimenti realizzati per eseguirlo (ad esempio,

Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

29

anche quando l’agente utilizza un utensile che richiede movimenti opposti

rispetto a quelli che sarebbero svolti utilizzando la propria mano) (Escola et al.

2004). Il lobo parietale inferiore delle scimmie sembra inoltre contenere neuroni

specchio che si attivano solamente quando altre scimmie eseguono azioni

finalizzate a scopi determinati (ad esempio, afferrare un oggetto per portarlo alla

bocca piuttosto che riporlo in una scatola): questi neuroni sembrano così

collegarsi in modo differente allo stesso atto motorio a seconda dello scopo

distale per il quale l’atto in se stesso viene eseguito (Fogassi et al. 2005).

L’ipotesi di una relazione tra la simulazione neurale di un’azione e la sua

comprensione è stata rafforzata da alcuni esperimenti. In uno di essi sono state

realizzate, a questo proposito, due condizioni sperimentali. Nella prima

condizione, a una scimmia è consentito di osservare un’azione nella sua

completezza: ad esempio, una mano che afferra un oggetto. Nella seconda, alla

scimmia è consentito osservare solo una parte dell’azione, mentre la parte finale

della stessa è oscurata: l’oggetto afferrato viene posto dietro a uno schermo in

modo che la scimmia non possa vedere il raggiungimento dell’oggetto da parte

della mano. La scimmia è al corrente della presenza dell’oggetto dietro allo

schermo. Più della metà dei neuroni specchio attivati nella prima condizione

sperimentale si attivano anche nella seconda: sembra quindi che la simulazione

cerebrale di un’azione possa estendersi alle sue componenti non osservate,

consentendo così una sorta di comprensione implicita dello scopo (Umiltà et al.

2001). Ulteriori studi hanno inoltre dimostrato come un particolare insieme di

neuroni specchio, sempre appartenenti all’area premotoria F5, si attivi non solo

durante l’esecuzione e l’osservazione di una determinata azione ma anche

quando il suono prodotto dal realizzarsi della stessa azione viene udito: l’esistenza

di questi “neuroni specchio audio-visivi” suggerisce la possibilità che i neuroni

specchio rappresentino un livello astratto delle azioni orientate a uno scopo

(Kohler et al. 2002). Vi sono poi neuroni specchio che si attivano durante

l’esecuzione e l’osservazione di azioni svolte dalla bocca: la maggior parte di tali

neuroni si attivano in relazione ad azioni di tipo ingestivo/consumatorio ma una

parte di essi sembra correlata all’osservazione di azioni facciali comunicative.

Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

30

L’esistenza di simili neuroni specchio “comunicativi” suggerisce così l’ipotesi che

una forma di simulazione neurale possa svolgere un qualche ruolo esplicativo in

relazione ai fenomeni di comunicazione sociale (Ferrari et al. 2003).

Le strutture neurali delle scimmie non sono – d’altra parte – le sole a possedere

neuroni specchio: anche gli esseri umani sono dotati di un sistema di neuroni

specchio, localizzato in regioni parieto-premotorie (Rizzolatti – Fogassi – Gallese

2001). Studi realizzati attraverso “risonanza magnetica funzionale” (fMRI) hanno

mostrato come i neuroni specchio si attivino negli esseri umani sia durante

l’osservazione di azioni eseguite con le mani sia durante l’osservazione di azioni

eseguite con altri effettori (quali, ad esempio, la bocca o i piedi) (Buccino et al.

2001). Il fatto che le aree parieto-motorie si attivino sia durante l’esecuzione di

una determinata azione sia durante l’osservazione della stessa azione realizzata

da altri soggetti e per mezzo di differenti effettori suggerisce così l’ipotesi che

l’organizzazione somatotopica dei circuiti parieto-premotori possa essere alla

base sia dell’esecuzione di un’azione sia della sua comprensione. Sempre

attraverso studi eseguiti per mezzo della fMRI sono stati inoltre realizzati

esperimenti che supportano l’ipotesi di un ruolo dei neuroni specchio nella

comunicazione sociale: in questi esperimenti sono stati analizzati i correlati neurali

dell’osservazione da parte di esseri umani di azioni bucco-facciali eseguite da

altri esseri umani (mentre parlano), da scimmie (mentre eseguono movimenti

ritmici con le labbra) e da cani (mentre abbaiano). I dati ottenuti attraverso

questi esperimenti mostrano come l’osservazione delle azioni eseguite attivino

aree differenti a seconda della specie di appartenenza dei soggetti osservati.

Quando i soggetti osservati sono altri esseri umani viene attivata nell’osservatore

la parte premotoria della regione di Broca; l’osservazione dell’azione eseguita da

scimmie attiva una porzione più ristretta della stessa regione bilateralmente,

mentre l’osservazione dell’abbaiare da parte di cani attiva solamente le aree

visive. Solo l’osservazione di azioni che appartengono al repertorio comunicativo

proprio degli esseri umani o che non se ne differenziano eccessivamente

sembrerebbero quindi attivare una sorta di simulazione neurale delle stesse azioni

comunicative (Buccino et al. 2004).

Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

31

II.2 Una possibile spiegazione di almeno parte del significato delle parole

Il ricorso a studi condotti sui neuroni specchio potrebbe rivelarsi utile nel compito

di chiarire alcuni aspetti del linguaggio, in particolare in relazione al tentativo di

fondare l’attività linguistica su proprietà e caratteristiche del corpo posseduto dai

parlanti (un modello della spiegazione del linguaggio che, proprio per il tentativo

di basare la comprensione linguistica su meccanismi in qualche modo legati al

corpo, è detto “incarnato”) (Lakoff – Johnson 1980; Lakoff 1987; Barsalou 1999). Le

strutture nervose collegate all’esecuzione di determinate azioni potrebbero infatti

svolgere un qualche ruolo nella comprensione delle espressioni linguistiche che

descrivono quelle stesse azioni: l’ascolto di frasi che descrivono azioni motorie

potrebbe determinare l’attivazione dei neuroni specchio attivati durante

l’esecuzione delle stesse azioni motorie. L’attivazione dei neuroni specchio

potrebbe così rappresentare il meccanismo alla base della “simulazione

incarnata” che supporta il valore semantico dei costrutti linguistici legati alle

azioni simulate.

Al fine di valutare la plausibilità di questa ipotesi sono stati effettuati da Buccino e

colleghi (Buccino et al. 2005) alcuni studi che hanno mostrato l’esistenza di una

correlazione tra l’ascolto di frasi che descrivono azioni eseguite da diversi effettori

(ad esempio le mani o i piedi) e l’attivazione di differenti e specifiche aree della

corteccia motoria che controllano le azioni di tali effettori. In questi esperimenti, i

partecipanti sono stati sottoposti a due differenti sessioni: in una di queste l’area

motoria correlata ai movimenti delle mani veniva stimolata attraverso

stimolazione magnetica transcranica (TMS), mentre nell’altra sessione era

stimolata attraverso TMS l’area motoria correlata ai movimenti di gambe e piedi.

In ogni sessione sperimentale ai partecipanti veniva chiesto di ascoltare differenti

stimoli acustici consistenti in proposizioni esprimenti azioni eseguite con le mani

oppure con i piedi e – quale stimolo di controllo – proposizioni esprimenti

contenuti astratti. I risultati hanno mostrato la presenza di differenti valori del

potenziale motorio evocato nell’area cerebrale in esame a seconda che fosse

contemporaneamente ascoltata una proposizione esprimente un movimento

eseguito dall’arto controllato da quell’area motoria o meno: in particolare,

Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

32

l’ampiezza del potenziale motorio evocato nell’area correlata ai movimenti delle

mani (vs. di gambe e piedi) tendeva a decrescere durante l’ascolto di

proposizioni esprimenti azioni delle mani (vs. di gambe e piedi) rispetto a quando

venivano ascoltate le proposizioni di controllo o quelle riguardanti azioni di

gambe e piedi (vs. delle mani). In un’altra serie di esperimenti è stato, inoltre,

chiesto ai partecipanti di valutare semanticamente le proposizioni ascoltate per

decidere se esprimessero o meno azioni concrete e fornire una risposta motoria

solo in caso affermativo. I risultati comportamentali hanno mostrato una

significativa interazione tra il contenuto delle proposizioni e gli effettori utilizzati per

la risposta: quando i pazienti fornivano la propria risposta attraverso movimenti

eseguiti con le mani (vs. con i piedi), i tempi di reazione erano più lenti in relazione

alle proposizioni esprimenti azioni delle mani (vs. di gambe e piedi) rispetto alle

proposizioni esprimenti azioni di gambe e piedi (vs. delle mani). Simili studi

suggeriscono un’evidente – e specifica in relazione agli effettori coinvolti –

modulazione dell’attività del sistema motorio durante l’ascolto di proposizioni che

esprimono azioni a esso correlate. Tali dati sembrano pertanto rafforzare l’ipotesi

di un qualche ruolo dei neuroni specchio, non solo nella comprensione delle

azioni osservate, ma anche nella comprensione delle proposizioni che le

esprimono: l’attivazione delle stesse aree motorie durante l’esecuzione di un

determinato movimento e durante l’ascolto della proposizione che lo esprime

potrebbe, infatti, supportare un collegamento tra i due. In altre parole, l’ascolto di

una proposizione esprimente un determinato movimento potrebbe provocare nel

sistema nervoso una sorta di simulazione incarnata del movimento stesso,

simulazione su cui si baserebbe la comprensione della proposizione ascoltata.

Una conferma all’ipotesi che il sistema dei neuroni specchio possa svolgere un

ruolo nella comprensione delle espressioni linguistiche esprimenti azioni viene,

d’altra parte, da alcuni studi – condotti attraverso fMRI – che mostrano come la

lettura o l’ascolto di parole o frasi che descrivono azioni di bocca, mani e piedi

comportino l’attivazione dei diversi settori della corteccia motoria e premotoria

che controllano tali azioni (Hauk – Johnsrude – Pulvermuller 2004; Tettamanti et al.

2005).

Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

33

III. Le reti neurali e il linguaggio

III.1 Come funzionano le reti neurali

Volendo sostenere l’ipotesi che almeno parte del valore semantico delle

espressioni linguistiche dipenda da una sorta di simulazione incarnata eseguita

dal sistema nervoso del parlate – ipotesi sopra formulata a proposito dei termini

denotanti azioni motorie – diviene opportuno indagare su come il sistema nervoso

potrebbe mostrarsi capace di rappresentare eventi a esso esterni. La possibilità

teorica che un dispositivo quale il sistema nervoso sia in grado di svolgere una tale

funzione sembra essere supportata da alcuni esperimenti condotti attraverso i

modelli “connessionisti” realizzati in Intelligenza Artificiale: questi modelli utilizzano

infatti particolari dispositivi computazionali, le reti neurali, una delle cui

caratteristiche peculiari è proprio quella di imitare il funzionamento del sistema

nervoso.

Le reti neurali sono dispositivi computazionali distribuiti e paralleli: in particolare,

una rete neurale può essere vista come un grafo orientato composto da “unità”,

corrispondenti ai neuroni del sistema nervoso, e “connessioni” tra unità, che

corrispondono idealmente alle sinapsi del sistema nervoso.

Un esempio di rete neurale

Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

34

Le connessioni trasportano da un’unità all’altra le informazioni elaborate: le

informazioni in entrata in una determinata unità sono dette “input” di quell’unità,

mentre le informazioni in uscita costituiscono il suo “output”. I dati elaborati dalle

unità sono valori di tipo numerico e il processo computazionale avviene

attraverso il lavoro simultaneo di più unità: la possibilità di eseguire calcoli

complessi dipende dal fatto che molte unità lavorano in parallelo e non dalla

complessità delle operazioni svolte dalle singole unità, le quali eseguono

individualmente calcoli piuttosto semplici. Le connessioni contribuiscono inoltre al

calcolo eseguito dalle reti modificando i dati trasmessi, moltiplicandoli per valori

numerici detti “pesi” o “forza” delle connessioni. Il processo computazionale ha

inizio quando vengono stabiliti i valori di attivazione delle “unità di input” (ovvero

le unità preposte a ricevere i dati dall’esterno): questi valori rappresentano la

codifica dei dati relativi al problema che si desidera sottoporre alla rete. Dopo

che la rete ha eseguito autonomamente i propri calcoli, il risultato della

computazione si presenta come valore di attivazione delle “unità di output” (le

unità che comunicano all’esterno il risultato dei processi computazionali eseguiti

dalla rete). Oltre alle unità di input e a quelle di output possono far parte di una

rete neurale anche “unità interne”, le quali comunicano solamente con altre

unità della rete e non direttamente con l’ambiente a essa esterno. Interessante è

il fatto che le reti neurali possano essere sottoposte a processi di apprendimento.

Dal momento che i calcoli eseguiti da una rete dipendono in ampia misura dai

pesi delle sue connessioni, è possibile ricorrere ad algoritmi capaci di modificare

tali pesi per ottenere comportamenti differenti da parte della rete: i cosiddetti

“algoritmi di apprendimento” possono così portare la rete a fornire la risposta

corretta paragonando, ad esempio, i risultati inizialmente ottenuti a quelli

desiderati per modificare i pesi delle connessioni sulla base delle differenze tra i

primi e i secondi (Giolito 2007).

Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

35

III.2 Un’ipotesi su come potrebbe essere rappresentato il valore semantico del

linguaggio nel sistema nervoso: modelli a rete neurale

Alcuni modelli a rete neurale sono stati realizzati al fine di mostrare la possibilità

che una qualche forma di sistema categoriale – il quale potrebbe costituire il

fondamento del valore semantico del linguaggio – dipenda almeno in parte

dall’azione che il soggetto esegue sugli oggetti ed eventi a esso esterni. In

particolare sono stati realizzati da Borghi, Di Ferdinando e Parisi (Borghi – Di

Ferdinando – Parisi 2002) due modelli a rete neurale volti a mostrare la possibilità

che il raggruppamento di determinati oggetti nella stessa o in differenti categorie

dipenda, non solo dalle proprietà sensoriali degli oggetti stessi, ma anche

dall’azione che su di essi viene eseguita dal soggetto che opera la classificazione.

Nel primo di questi modelli, al fine di testare tale ipotesi, sono state realizzate reti il

cui compito è quello di controllare il comportamento di sistemi che devono

rispondere, muovendo una sorta di braccio, a due differenti oggetti percepiti

visivamente:

A B

In ogni rete neurale alcune delle unità di input codificano i dati visivi relativi agli

oggetti percepiti, mentre altre unità di input codificano i dati propriocettivi relativi

al movimento del braccio guidato dalla rete attraverso le unità di output. Ogni

rete deve fare in modo che – quando un solo oggetto le viene presentato – il suo

braccio lo afferri; quando invece entrambi gli oggetti vengono presentati alla

rete, il suo braccio deve afferrare il solo oggetto A. Poiché gli oggetti possono

apparire nella parte destra o in quella sinistra del campo visivo delle reti, i possibili

input visivi sono i sei seguenti:

Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

36

Nei casi rappresentati dai rettangoli qui a sinistra il braccio deve afferrare

l’oggetto che appare nella parte sinistra del campo visivo, mentre nei casi

rappresentati dai rettangoli qui a destra, l’oggetto che deve essere afferrato è

quello che si trova nella parte destra del campo visivo. Le reti dell’esperimento

sono giunte a sviluppare buone capacità nell’eseguire questi compiti. Il

raggiungimento di una simile capacità è dovuto al fatto che le reti sono in grado

di realizzare una sorta di categorizzazione dei dati percepiti: tale categorizzazione

è stata ottenuta attraverso la trasformazione dei valori delle unità di input

corrispondenti a oggetti che appartengono a un’unica categoria in valori delle

unità interne tra loro simili, mentre i valori di attivazione delle unità di input

corrispondenti a oggetti appartenenti a categorie differenti sono stati trasformati

in valori di attivazione delle unità interne differenti gli uni dagli altri. I dati ottenuti

sembrano mostrare come le azioni eseguite dai bracci governati dalle reti

tendano a influenzare il modo in cui le reti organizzano i dati manipolati: gli input

visivi cui il modello deve rispondere eseguendo la stessa azione (le immagini

contenute nei rettangoli qui a sinistra, da una parte, e quelle contenute nei

rettangoli qui a destra, dall’altra) sono stati infatti codificati nelle unità interne

della rete in modo da essere tendenzialmente posti nelle stesse categorie, mentre

gli input visivi cui il modello deve rispondere con azioni differenti (le immagini

contenute nei rettangoli qui a sinistra rispetto a quelle contenute nei rettangoli qui

Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

37

a destra) sono stati codificati nelle unità interne della rete in modo da

appartenere a categorie differenti.

Nel secondo dei modelli realizzati da Borghi, Di Ferdinando e Parisi, le reti neurali

utilizzate sono state dotate di tre livelli di unità interne: le unità di input che

codificano l’input visivo inviano il loro segnale al primo strato di unità interne,

mentre le unità preposte a determinare il compito che la rete deve eseguire

comunicano con il solo secondo strato di unità interne e le unità che codificano

l’input propriocettivo comunicano con le sole unità di output. A causa di tale

organizzazione sembra plausibile supporre che, nel primo strato di unità interne, la

categorizzazione degli oggetti percepiti dipenda dalle loro sole proprietà

percettive, mentre a partire dal secondo strato di unità interne la

categorizzazione sarebbe influenzata dall’azione che il modello deve eseguire

sull’oggetto percepito. Gli oggetti presentati alla rete sono i seguenti:

A B C D

La rete vede, di volta in volta, un solo oggetto e deve categorizzarlo scegliendo

tra due categorie e premendo due diversi tasti per mezzo di un braccio. Un primo

compito è considerato adeguatamente eseguito quando alle due categorie

appartengono oggetti visivamente simili (A-B e C-D), un secondo compito

quando alle due categorie appartengono oggetti che condividono un solo

elemento (A-C e B-D) e un terzo compito quando alle due categorie

appartengono oggetti percettivamente differenti (A-D e B-C). I dati ottenuti

sembrano confermare l’ipotesi secondo la quale, nel momento in cui alle unità

interne viene data la possibilità di effettuare calcoli sui valori relativi alle azioni

eseguite, questi ultimi andrebbero a influenzare il processo di classificazione dei

dati manipolati. Mentre nel primo strato di unità interne i valori di attivazione più

simili gli uni agli altri sono quelli che codificano input percettivamente simili, a

partire dal secondo strato – ovvero quando le informazioni riguardanti il compito

Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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da eseguire influenzano le elaborazioni effettuate dalla rete – i valori di

attivazione delle unità interne tra loro più simili diventano infatti quelli che

rappresentano gli oggetti che richiedono la stessa risposta motoria, anche se le

informazioni relative agli aspetti percettivi influenzano ancora tali valori di

attivazione. Nel terzo strato di unità interne, infine, i dati riguardanti le risposte

relative all’azione motoria hanno annullato quelli riguardanti le caratteristiche

percettive degli oggetti presi in considerazione: i valori di attivazione più vicini gli

uni agli altri sono quelli relativi agli oggetti cui la rete risponde per mezzo delle

stesse azioni. Questi modelli sembrano così confermare l’ipotesi secondo cui le

azioni eseguite da un soggetto influenzerebbero il modo in cui tale soggetto

organizza la realtà esterna in categorie: le reti appena analizzate potrebbero

quindi essere considerate una sorta di modello del modo in cui l’azione del

soggetto verrebbe rappresentata all’interno del soggetto stesso, quale

costituente delle categorie attraverso le quali il soggetto organizza l’ambiente

esterno secondo schemi selezionati in quanto utili in relazione ai compiti che deve

eseguire.

IV. Conclusione

Gli esperimenti, qui analizzati, condotti in ambito neuropsicologico sui neuroni

specchio sembrano supportare l’ipotesi che almeno parte del valore semantico

del linguaggio – in particolare delle parole e delle frasi che si riferiscono ad azioni

motorie – risieda nella possibilità, da parte del sistema nervoso, di simulare gli

eventi cui il linguaggio si riferisce: l’attivazione di particolari strutture neurali sia

durante l’esecuzione o l’osservazione di un’azione sia durante l’ascolto della frase

che esprime tale azione può infatti essere interpretata come una sorta di

“simulazione incarnata” (incarnata appunto nel sistema nervoso del parlante), la

quale potrebbe fondare la comprensione della frase stessa da parte del parlante.

Le ricerche condotte in Intelligenza Artificiale per mezzo delle reti neurali hanno –

d’altra parte – fornito un modello di come una struttura quale il sistema nervoso

potrebbe incorporare una sorta di “rappresentazione” del significato di almeno

Barbara Giolito, Una componente non concettuale del significato – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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alcuni termini linguistici: il significato di parole e frasi che si riferiscono ad azioni

motorie potrebbe fondarsi sull’organizzazione delle categorie – alla base di tali

parole e frasi – formate in seguito alle interazioni motorie intrattenute con

l’ambiente esterno. Simili spiegazioni del valore semantico del linguaggio

sembrano così ricorrere a componenti, per così dire, “pre-linguistiche” e “pre-

concettuali”: nella spiegazione di come il linguaggio possa essere significante

esse si basano infatti, in ultima istanza, su componenti che, prese dal quadro

esplicativo tipico della sfera neuropsicologica, non derivano da modelli esplicativi

propri dell’ambito linguistico o concettuale. Le ricerche qui esaminate

potrebbero pertanto rappresentare un supporto all’ipotesi di una componente

non concettuale della semantica del linguaggio.

Barbara Gioito

[email protected]

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Neuron, 32.

42

LIMITI DELL’ANALISI LINGUISTICA. RIFLESSIONE SU HEART OF DARKNESS DI JOSEPH CONRAD

SCILLA BELLUCCI

Premessa

All’interno di questo contesto non è possibile presentare nella sua interezza il

lavoro1 di ricerca svolto da me in altra sede; pertanto ho dovuto trasceglierne

alcune parti che potessero mettere in luce, più delle altre, il significato del lavoro

stesso. Al fine di renderle intelligibili devo, però, aggiungervi questa premessa, in

cui ne illustrerò la struttura e i punti di riferimento, cercando di rendere quanto

seguirà il più possibile di agile lettura.

Questo studio è stato condotto secondo l’idea che il contrasto tra dire e mostrare,

esposto nel Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, potesse trovare

un illustre corrispettivo letterario nel romanzo breve di Joseph Conrad Heart of

Darkness. Prima di procedere all’avvicinamento dei due testi, ho condotto un

lavoro interpretativo del suddetto racconto orientato a decifrare, attraverso la

lettura, la tecnica narrativa e il modo in cui, tramite la sua specificità, porti

l’espressione dei contenuti a costituire un esempio narrativo di un concetto

filosofico.

In secondo luogo, ho presentato l’opera di Wittgenstein , concentrandomi

soprattutto su quegli aspetti che potevano risultare funzionali allo scopo

prefissatomi e, quindi, sul legame tra etica e logica e sui due aspetti fondamentali

del dire e del mostrare, sia dal punto di vista formale che da una prospettiva

linguistica più ampia.

Si evince facilmente che, non essendo praticabile la riproposizione integrale né

dell’una né dell’altra parte, al lettore potrebbero non risultare immediati taluni

riferimenti specifici; mi scuso fin da adesso per l’eventuale frammentarietà che

potrebbe essere riscontrata, sperando di averne chiarite le cause e

impegnandomi a ridurla quanto più possibile.

1 Limiti dell'analisi linguistica. Riflessione su Heart of Darkness di Joseph Conrad. Tesi di laurea in Filosofia del linguaggio, sostenuta nell'anno accademico 2004/2005 presso il Dipartimento di

Filosofia dell'Università degli studi di Firenze.

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

43

Introduzione

La filosofia del linguaggio oggi viene usualmente riconosciuta come un campo

d’indagine piuttosto giovane, le cui origini vengono principalmente riferite

all’opera di Frege e che, attraverso le opere di pensatori quali Russell e

Wittgenstein e un sodalizio stretto con la logica formale si muove, perfettamente a

suo agio, nelle acque della filosofia analitica. In questo modo si sono costituiti un

complesso di problematiche e un metodo di ricerca che tendono a chiudersi

nella definizione di filosofia del linguaggio. Questo carattere di esclusività che, da

un lato, ha la capacità di circoscrivere un ambito di interessi e di renderlo

riconoscibile come disciplina, dall’altro va a suo detrimento, giacché, proprio

perché pretende di essere riconosciuta come filosofia del linguaggio, dovrebbe, a

sua volta, dedicare pari interesse ad ogni problematica che al linguaggio si

riconduca.

Esistono due questioni fondamentali riguardo al linguaggio: una rispetto ai suoi

meccanismi interni di funzionamento, l’altra su quale sia il rapporto tra parola e

mondo e come esso si possa costituire attraverso chi fa uso del linguaggio.

Il modo in cui forse è possibile riproporre la riflessione è quello di abbandonare il

terreno della visibilità del linguaggio e di accostarsi ad esso solo tramite l’ascolto,

che sarebbe poi una tattica mutuata dall’apprendimento infantile e, per questo,

forse più adeguata ad un inizio.

Alla fine si tratta di formulare un’ipotesi e procedere per tentativi.

Se scegliamo di approcciare il problema dal lato della montagna che, per così

dire, appare meno scosceso, ovverosia dal nostro rapporto costante col

linguaggio, sembra allora che la prima cosa da considerare sia la natura di tale

relazione.

Questo modo di affrontare la questione presenta un doppio volto: se, da un lato è

costitutivamente più vicino a noi nella quotidianità del vivere, dall’altro, come

ogni cosa cui siamo più prossimamente in contatto, può generare una visione

maggiormente confusa, meno lucidamente prospettica. Per cercare di evitare

che la consuetudine con la materia sia fonte soltanto di ulteriore confusione,

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

44

dovremmo evitare di fare appello all’esperienza soggettiva. A questo fine

potremmo usare come espediente il riferimento ad un testo esterno.

Al momento di introdurre il testo scelto, sono doverose alcune precisazioni sulla sua

natura e sui motivi per cui ho creduto opportuno farvi riferimento. Sicuramente, tra

tutte le storie che Joseph Conrad ha raccontato, una delle più straordinarie è

Heart of Darkness e, a proposito di essa,di cui molto si è scritto, parlato e pensato,

è necessario fornire alcuni elementi che la traggano fuori da quel certo alone di

‘misticismo’ in cui si è venuta a trovare; difatti la lettura di questo racconto spesso

induce a credere che ci troviamo di fronte ad una riflessione su tematiche

nebulose ed inquietanti di cui l’autore vuole renderci partecipi costruendo un

mondo loro appropriato.

Di Joseph Conrad Calvino scrisse che non avrebbe mai dubitato che fosse stato

un buon capitano.2

Anche se si considerasse la conoscenza dell’uomo inessenziale alla comprensione

della sua opera, queste poche righe andrebbero sicuramente annoverate tra i

pareri letterari. Non soltanto quello che Conrad scrive, ma soprattutto come lo

scrive, è un dono dell’esperienza come marinaio. Dopotutto, se si può facilmente

accettare che le molteplici condizioni in cui si sarà trovato ad incontrare luoghi e

persone gli abbiano fornito materiale sufficiente per una lunga bibliografia,

altrettanto serenamente dovremmo considerare l’asciuttezza delle sue

osservazioni, delle sue descrizioni senza giudizio. Se poi si crede di riconoscere,

oltre le parole, un’allusività che porterebbe ben al di là del mero fattuale, questo

forse potrebbe dipendere dal fatto che l’occhio dell’osservatore era costretto

dall’abitudine di scrutare l’orizzonte lineare tra cielo e mare leggendovi i segni dei

fenomeni più straordinari tra quelli di questo mondo.

2 “..Perché, se a molte cose sue non ho mai creduto, al fatto che fosse un bravo capitano ho creduto sempre, e che portasse nei suoi racconti quella cosa che è così difficile da scrivere: il

senso di una integrazione nel mondo conquistata nella vita pratica, il senso dell’uomo che si realizza nelle cose che fa, nella morale implicita nel suo lavoro, l’ideale di saper essere

all’altezza della situazione, sulla coperta dei velieri come sulla pagina.”. Italo Calvino, I capitani di Conrad, “L’Unità”, 3 Agosto 1954, in Italo Calvino, Perché leggere i classici,

Mondadori, 2003.

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

45

Non c’è, nell’opera di questo autore, in particolar modo nei racconti brevi, mai un

totale distacco da ciò che vede, o che ha visto; tutti i suoi personaggi, che

sembrano sempre tratteggiati attraverso un’indagine straordinariamente sottile dei

tipi umani, conservano la loro dimensione reale proprio perché appartengono al

mondo e non all’immaginazione, o alla costruzione artificiosa dell’autore.

Oltre a questo pregio, lo stile letterario di Conrad ha la virtù di ricreare il ritmo

proprio della narrazione orale. L’incipit di Heart of Darkness somiglia a certe

bambole russe dentro le quali stanno altre bambole più piccole, della medesima

forma della prima che le contiene, ma con volti ed espressioni differenti.

C’è una voce narrante che descrive, nella stasi di una barca all’ormeggio, il

contesto in cui si trova ad ascoltare una storia e, dentro questo spazio-tempo, c’è

un uomo, Marlow, che racconta la sua avventurosa ricerca di un altro uomo, la

vita del quale è un’altra storia ancora. Questo gioco astrae il corpo narrativo

centrale dalla visibilità immediata e predispone il lettore all’ascolto. La forma del

racconto non vuole sfruttare una vaghezza creata ad arte per generare

aspettative; piuttosto si tratta di un monologo poggiato su un terreno incerto,

conosciuto attraverso la debolezza del corpo e la farraginosità della mente.

1.

Per entrare nel carattere linguistico di Heart of Darkness è necessario fare uno

scarto, ovverosia, porsi la domanda prima di cadere nel giudizio. Questo

movimento, che potrebbe sembrare una superflua battuta d’arres to, è, a ben

vedere, l’atto di coraggio che tanto Conrad, quanto Marlow chiedono

all’ascoltatore e che persegue la loro medesima volontà di comprensione.

Si può anche procedere nell’ascolto secondo le tappe di un’etica precostituita,

che illumina la tenebra col suo concetto di orrore materiale e scatena il rifiuto; ma

questo porterebbe a considerare gli avvenimenti, se non un absurdum da

racconto del terrore, solo un altro capitolo della triste aneddotica sulla capacità

dell’uomo di compiere il male. Pur non volendo dubitare della correttezza di

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

46

conclusioni che sembrano esserci date già a portata di mano, esse procedono da

un percorso diretto in cui non si attua lo scarto e la domanda è sempre retorica.

Quella pausa, se rispettata, diventa invece il luogo in cui ci viene chiesto di

considerare tutto daccapo. È solo partendo con un animo inconsapevole che

potremmo riuscire a farci guidare in questo percorso, in cui, come in ogni tensione

verso la conoscenza, ci sono essenziali e disponibili solo due strumenti: l’ascolto e

la domanda.

Da parte dell’autore, questa nostra rinuncia alle difese dell’intelletto viene

corrisposta con il recupero della parola alla sua vividezza originaria, in modo che

essa diventi lo strumento per disvelare la semplice grammatica di un gesto e aiuti

a riportare l’attenzione dell’uomo sull’uomo stesso. Quello che ci viene chiesto, in

sostanza, è la disponibilità a stabilire un rapporto intimo con la parola e col testo

tutto. Da questo punto di vista è possibile considerare il viaggio di Marlow come

un percorso dialogico teso alla comprensione.

Di fatto, la risalita del fiume ha due piani di lettura che potremmo distinguere

come esterno ed interno. È una disgiunzione che esiste solo nello studio

interpretativo e, anche in questo, sussiste per un po’ e limitatamente. Nel primo

caso si considera la storia come il racconto di Conrad, nel secondo, come il

racconto di Marlow. Il luogo in cui si ricompongono è il lettore/ascoltatore ed è

per questo che, in realtà, non può funzionare alcuna separazione dal punto di

vista letterario. Ma, come la lettura del romanzo renderà chiaro, al

lettore/ascoltatore è dato anche uno spazio suo nella narrazione: egli sta dove

Marlow tace, in tutto ciò che non è detto. È impossibile recepire ciò se non si

stabilisce una corrispondenza col testo, se non si accetta di farsi coinvolgere

direttamente.

Questa è la condizione in cui Conrad ci pone, ma lascia che siamo noi ad

arrivarci, non ci costringe ad alcun passo, semplicemente, ci lascia il tempo di

trovarla e, una volta giunti, è quasi impossibile svincolarsi. Quello che facciamo è

esattamente quello che Marlow fa, solo che, se inizialmente la sua ricerca di

avventura è più concreta della nostra, alla fine siamo tutti coinvolti nel medesimo

rischio. La domanda silente di Conrad non attende in risposta l’ascoltatore puro,

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

47

è, semmai, una tattica, in cui l’autore si rivela davvero abile, per disinibire la nostra

curiosità.

Quello che Conrad cerca di raggiungere tramite la scrittura ce lo dice con

chiarezza, a poche pagine dall’inizio del libro, descrivendo Marlow –

“..The yarns of seamen have a direct simplicity, the whole meaning of which lies within the

shell of a cracked nut. But Marlow was not tipical (if his propensity to spin yarns be

excepted), and to him the meaning of an episode was not inside like a kernel but outside,

enveloping the tale which brought it out only as a glow brings out a haze, in the likeness of

one of these misty halos that sometimes are made visible by the spectral illumination of

moonshine..”.3

3 Joseph Conrad, Heart of Darkness, Penguin Books, London, 2000. “..Le storie dei marinai hanno una semplicità terra terra, il cui completo significato sta entro un guscio di noce. Ma

Marlow non era tipico (eccetto la sua inclinazione a raccontar storie), e per lui il significato di un episodio non era all’interno, come il gheriglio, ma all’esterno, e avvolgeva il racconto che

l’aveva provocato soltanto come una incandescenza rivela una foschia, a similitudine di uno di quegli aloni nebbiosi che a volte son resi visibili dall’illuminazione spettrale del plenilunio.”

Joseph Conrad, Cuore di Tenebra, trad. Piero Jahier e Maj-Lis Rissler Stoneman, ed. Bompiani, Piacenza, 2001. L’opera tradotta è tratta da una riedizione delle opere complete di Conrad

che furono pubblicate dalla casa editrice Bompiani tra il 1949 e il 1966 a cura di Pietro Bigongiari. Nell’edizione a cui faccio riferimento le traduzioni sono state tutte riviste da Mario

Curreli che in una nota alla traduzione fa presente come queste siano state eseguite da un gruppo di intellettuali fiorentini in tempo di guerra e, in alcuni casi, neppure dall’originale, ma

dalla versione francese di Gide. D’altro canto tutte le edizioni, fino a quella che l’autore considererà definitiva, la Heinemann, sono rimaneggiate da Conrad stesso che coglieva

appunto ogni occasione per inserire correzioni e modifiche a volte davvero consistenti. Sempre nella suddetta nota Curreli aggiunge una considerazione di cui è opportuno tenere

conto, anche al di là dei problemi di traduzione : “E qui non è forse fuori luogo ricordare come i primi recensori tardo-vittoriani non mancarono di censurare il crudo realismo di

Conrad, che metteva in bocca ai suoi personaggi disdicevoli imprecazioni blasfeme, qui rese con alquanto innocui ‘dannato’ o ‘maledetto’ “.

Purtroppo temo che oltre a questo genere di censure, il linguaggio conradiano sia destinato a subirne altre, involontarie, ad opera delle traduzioni. In particolar modo, la lingua

italiana pare inadeguata a rendere la concisione e l’efficacia proprie di alcune espressioni inglesi, come, in generale, della ruvidezza stilistica dell’autore. Dal brano citato è già evidente

come questo accada. Ad esempio, l’espressione “to spin yarns”, qui resa con un semplice “raccontar storie”, ha un’accezione ambigua che va totalmente perduta in traduzione;

indica infatti, sia il ‘raccontare lunghe storie’, dove viene posto l’accento sulla lunghezza della narrazione, sia, più vivacemente, il ‘raccontar frottole’; entrambi i significati hanno un

loro valore nel contesto di cui parliamo, ma credo che dovremmo cercare di considerarli coesistenti nell’uso che Conrad fa di questa espressione appartenente all’unica lingua in cui

riuscisse a scrivere. Inoltre, l’aggettivo “spectral”, quasi immancabilmente interpretato come “spettrale”, credo venga completamente snaturato da questa versione. La lingua di Conrad

non è facile a certi lirismi e suppongo che, in questo caso, egli abbia voluto proprio

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

48

In questo modo viene detto cos’è che dobbiamo cercare, come dobbiamo

muoverci, delicatamente, per non rompere lo strato esteriore delle cose,

pretendendo che l’interesse significhi proprio questa irruzione.

La ricerca del significato spinge ad un movimento violento che è insieme una

perdita; la pretesa di poter agire, come una forza centrifuga, dal nucleo delle

cose fino ai loro limiti, esclude la possibilità di comprendere che proprio quei limiti

sono la parte accessibile, quella che confina col resto del mondo e anche l’unica

di cui possiamo avere una percezione immediata e diretta.

2.

Sembra che tutta la prima parte, introduttiva al racconto di viaggio, più che offrire

elementi di riferimento, tenti di disorganizzare ogni tipo di immagine preconcetta.

Certo, il tono di insicurezza e stupore segnerà tutto il racconto di Marlow, ma

proprio in queste pagine iniziali possiamo cominciare a prendere confidenza con

un narratore atipico. Se è vero che di questo eravamo stati avvertiti, è vero anche

che non potevamo già essere in grado di cogliere un suggerimento letterario

come reale. Conrad forse non sta rendendo più affascinante il suo protagonista,

dal momento che chiede continuamente la nostra pazienza, ma questo esercizio

è uno di quegli espedienti narrativi che dovrebbero restituire la forma originale del

racconto. L’atipicità di cui si parla è anche quella della scrittura di questo

romanzo. I primi personaggi introdotti non hanno alcuna funzione interna alla

storia, sicuramente essa poteva iniziare già in prima persona e introdurre più

rapidamente il nucleo narrativo. Ma questo è il modo della scrittura e non del

racconto orale. Il silenzio, la prospettiva di trascorrere molte ore all’ormeggio in un

porto su cui cala la notte fanno del buio uno spazio di forme, se c’è qualcuno che

racconta una storia, e chi racconta offre solo un mezzo che ciascuno manipolerà

a seconda della sua propria immaginazione. Quindi saranno molte le interruzioni e

le descrizioni, piuttosto che lunghe e articolate, dovranno avere il colore delle riequilibrare il tono della frase prendendo in prestito un vocabolo appartenente alla fisica,

ovvero penso che vada inteso come ‘dello spettro della luce lunare’.

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

49

impressioni d’un colpo d’occhio, che, altrimenti, susciterebbero la noia di chi

ascolta, anche se un lettore potrebbe trovarle interessanti, ma non è a questo tipo

di pubblico che si rivolgono. Già da questi primi accenni si vede il lavoro

dell’autore che tesse la sua tela; effettivamente viene trasmessa un’idea di

vischiosità, che poi si concretizzerà nel clima torrido e nell’irrespirabile afa

africana, ma è più a livello di una sensazione ancora vaghissima, quella che a

malapena Marlow riesce a comunicare:

“.. I began to feel slightly uneasy. You know I am not used to such cerimonies, and there

was something ominous in the atmosphere. It was just as thought I had been let into some

conspiracy – I don’t know – something not quite right; and I was glad to get out.”.

A questo punto risulta più chiara l’idea di uno spazio abitativo del

lettore/ascoltatore dentro la storia e di come questo sia il luogo degli altrui silenzi.

Quello della narrazione orale è un sistema che si basa su un principio di azione e

reazione, ovverosia sulla presenza di un narratore e di almeno un interlocutore. In

questo modo si stabilisce un nesso che necessariamente porta a ritenere il

significato della narrazione stessa nella compartecipazione di due elementi. È

come se, scrivendo, Conrad avesse tenuto conto della presenza invisibile ma

costante di un ascoltatore; così facendo, ha permesso a tale elemento di entrare

nel testo, di agire su di esso, modificandolo dall'interno. Contemporaneamente

Marlow è costretto da questa circostanza a riattraversare il contenuto di una

memoria senza avere quel comportamento da narratore onnisciente che sarebbe

presupponibile. L’autore costringe anche lui, e lo fa stordendolo con

quell’oscillazione tra chiaro e scuro che ottiene anche sui lettori il medesimo

effetto. Lo vediamo passare attraverso ‘a narrow and desert street in deep

shadow, high houses, innumerabile windows with venetian blinds, a dead silence’

per raggiungere la Compagnia commerciale che dovrà assumerlo in quella città

che lo fa pensare ad un ‘whited sepulchre’; sulla soglia, ad accoglierlo troverà

due donne in nero, che lavorano a maglia, introducono chi arriva e scrutano con

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

50

atteggiamento impassibile, alle quali,dentro di sé, Marlow si rivolge motteggiando

:« Ave! Old knitter of black wool. Morituri te salutant»4.

L’ironia con cui ci vengono descritte queste scene, che potrebbe usare la sua

forza apotropaica contro il fascino di immagini un po’ lugubri, è, invece, un

atteggiamento basato su un preciso schema di riferimenti, comune a tutta la

società britannica,e non solo ad essa, in cui la sicurezza nella razionalità e la

certezza nell’agire che ne deriva sono in cima alla scala dei valori umani.

3.

L’avvicinamento fisico a Kurtz, compiuto attraverso la faticosa risalita del fiume

Congo, coincide con una progressiva attrazione di Marlow verso di lui.

Il fiume, le difficoltà enormi che esso presenta per un’imbarcazione, continuano

quell’opera di corrosione che minaccia di rescindere definitivamente i legami tra

Marlow e il suo concetto di realtà:

“..You lost your way on that river as you would in a desert, and butted all day long against

shoals, trying to find the channel, till you thought yourself bewitched and cut off for ever

from everything you had known once – somewhere – far away – in another existence

perhaps..”5

Questo malcelato nervosismo non è destinato ad affievolirsi, ogni passaggio

successivo è il momento per un’altra verità di presentarsi, con immediatezza. Nelle

pagine che descrivono questo percorso assistiamo a molti eventi impressionanti,

Conrad ci propone immagini vivide che producono riflessioni concitate; la rapidità

4 Questo era il saluto che i gladiatori romani rivolgevano all’imperatore prima del combattimento.

Wallace Watson suggerisce che Conrad abbia potuto riprendere l’uso ironico di questa locuzione già fatto da Maupassant in L’Epave. Quanto alle influenze della letteratura francese su Conrad,

esse sono conclamate dallo stesso autore in una tardiva prefazione alla raccolta Racconti inquieti in cui egli scrive, a proposito del suo rifiuto del racconto Gli idioti , che esso è “un lavoro di così

ovvia derivazione che stento a parlarne”. Cfr. Yves Hervouet, Conrad and Maupassant, in “Conradiana” XIV,2 (1982),pp.83-111. 5 “…su quel fiume si perdeva la via come in un deserto, e non si faceva che cozzar tutto il giorno contro le secche, cercando di scoprire un canale fino a sentirsi stregati e avulsi per sempre da ogni

cosa che si fosse conosciuta in passato – chissà dove, lontano – forse in un’altra esistenza..”

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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con cui queste seguono da quelle mostra la direzione in cui Marlow si precipita, la

direzione in cui crede di poter scorgere una somiglianza con ciò che gli

appartiene. Se pensiamo a dove egli si trova, in acque infide e ingannevoli, con

un equipaggio di cannibali e di pavidi, allora il suo tendere a Kurtz può apparire

una pulsione naturale verso il conosciuto, verso il più simile e verso la speranza di

poter recuperare la parola.

“..Principles? Principles won’t do. Aquisition, clothes, pretty rags – rags that would fly off at

the first good shake. No; you want a deliberate belief. An appeal to me in this fiendish row –

is there? Very well; I hear; I admit, but I have a voice too, and for good or evil mine is the

speech that cannot be silenced.”6

Poco avanti nel testo la consapevolezza di questa ricerca verrà comunicata da

Marlow medesimo, a cui sembra sovvenire come un ricordo da tempo a riposo

che porti con sé la memoria di un sentimento di imbarazzo, o di un errore, o di un

inganno:

“..I couldn’t have been more disgusted if I had travelled all this way for the sole purpose of

talking with Mr Kurtz. Talkig with...I flung one shoe overboard, and became aware that that

was exactly what I had been looking forward to – a talk with Kurtz...The man presented

himself as a voice...The point was in his being a gifted creature, and that of all his gifts the

one that stood up pre-eminently, that carried with it a sense of real presence, was his ability

to talk, his words – the gift of expression, the bewildering, the illuminating, the most exalted

and the most contemptible, the pulsating stream of light, or the deceitful flow from the

heart of an impenetrable darkness...The other shoe went flying unto the devil-god of that

river.”7

6 “…I principi non valgono. Patrimoni, vestiti, bei cenci, cenci che volerebbero via alla prima scossa forte. No, ci vuole una fede ponderata. C’è un appello rivolto a me in questo tumulto

indiavolato, no? Va bene, lo sento, lo ammetto, ma anche io posseggo una voce, e per il bene o per il male è mio il discorso che non può essere fatto tacere..” 7 “…Non avrei potuto sentirmi più disgustato se avessi fatto tutta quella strada con il solo scopo di parlare con il signor Kurtz. Parlare con…lanciai una scarpa nel fiume e m’ avvidi che era

precisamente quello che avevo avuto di mira: parlare con il signor Kurtz…L’uomo si presentava come una voce…L’essenziale era nel fatto che fosse una creatura particolarmente dotata, e che

di tutte le sue doti quella che spiccava preminentemente, che portava con sé un senso di autentica presenza, era la sua abilità oratoria, la sua parola, il dono dell’espressione, il dono che

sbalordisce, illumina, esalta o deprime al massimo grado, il più elevato e il più sgradevole, la

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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È dunque il momento di rendere ragione di quest’attrazione formidabile esercitata

fin dall’inizio da un personaggio che, dopotutto, ancora non è apparso ‘di

persona’ sulla pagina.

Conrad racconta ancora qualcosa di lui, prima che sia possibile incontrarlo.

Queste informazioni sono il completamento necessario a capire la ragione della

fascinazione subita da Marlow, ma anche della sua rabbia improvvisa, del suo

ponderare subito la possibilità di un inganno quasi avendone la certezza. Difatti

l’anticipazione narrativa che interviene nel testo scardina il meccanismo di

aspettativa che vorrebbe fosse il personaggio stesso, con la sua apparizione, a

chiarire il significato di ciò che è finora rimasto oscuro. Il fatto che Conrad privi di

questa possibilità Kurtz, proprio nel momento in cui ci si aspetta di vederlo arrivare

e disvelare la propria identità, non è un gesto privo di significato, né tantomeno

studiato per spiazzare il lettore come già molto spesso è successo.

Kurtz, fin dal principio, esiste attraverso gli altri, attraverso la loro invidia, la loro

curiosità, la loro ammirazione, ma, soprattutto attraverso il potere che gli altri gli

concendono di prendersi su di loro. Il lume della civiltà occidentale, che si innalza

nella forza della parola, e che insieme si radica nella violenza che la parola

dovrebbe giustificare, lo ha reso dipendente, assuefatto all’esercizio del potere.

Il riconoscimento anelato da Marlow avviene con la forma deteriore che le sue

credenze potessero assumere e, nondimeno egli prosegue e ivi cerca ancora la

salvezza.

“..I’m not trying to excuse or even explain – I am trying to account to myself for – for – Mr

kurtz - for the shade of Mr. Kurtz. This initiated wraith from the back of Nowhere honoured

me with its amazing confidence before it vanished altogether. This was because it could

speak English to me... All Europe contributed to the making of Kurtz..”8

palpitante ondata di luce o l’ingannevole profluvio di parole dal cuore di un’impenetrabile

tenebra….L’altra scarpa volò al diavolo-dio di quel fiume..” 8 “..Io non cerco di scusare o spiegare – cerco di rendermi conto in me stesso del signor Kurtz – o

dell’ombra del signor Kurtz . Questo fantasma iniziato proveniente dal nulla, mi ha onorato della sua stupefacente confidenza, prima di scomparire del tutto. E fu perché poteva parlarmi in

inglese…Tutta l’Europa aveva contribuito alla formazione di Kurtz..”

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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“..The International Society for the Suppressing of Savage Customs9 had intrusted him with

the making of a report, for its future guidance. And he had written it too. I’ve seen it. I’ve

read it. It was eloquent, vibrating with eloquence, but too high-strung, I think. Seventeen

pages of close writing he had found time for! But this must have been before his – let us say

– nerves went wrong, and caused him to preside at certain midnight dances ending with

unspeakeble rites, wich – as far as I reluctantly gathered from what I heard at various times –

were offered up to him – do you understand? – to Mr Kurtz himself. But it was a beautiful

piece of writing.”10

Kurtz, dunque, uno dei fiori più alti della cultura europea, il cui eloquio rappresenta

l’oasi di civiltà che recupera Marlow alle sue origini, ha trovato l’espressione più

propria della sua forza nel dominio su uomini più deboli. Egli, come si ricava dalle

poche frasi estratte dal suo rapporto, percepisce immediatamente che, agli occhi

degli indigeni, non può apparire che come un fenomeno straordinario, provvisto di

doti soprannaturali e sfrutta questo vantaggio per raggiungere una sfera di potere

che, in altri luoghi, con altri uomini, gli sarebbe preclusa. Egli diviene il loro Dio-Re e

costringe ogni suo impulso ad assoggettarsi a questa brama di onnipotenza.

Marlow non può che riconoscere, in mezzo alle aberrazioni, di trovarsi di fronte al

campione più eminente della sua civiltà illuminata. Infatti Kurtz, per quanto

spietato, malato e inquietante, altro non è che un colonizzatore eccellente, che,

per la propria egoistica glorificazione distrugge se stesso e tutto ciò che

rappresenta.

Quando, finalmente, il vaporetto di Marlow raggiunge la stazione di Kurtz, ad

accoglierlo si trova un personaggio sconcertante; è un giovane russo vestito di

stracci colorati la cui unica occupazione sembra essere preoccuparsi di Kurtz,

idolatrarlo, cercare di compiere l’impresa più assurda di tutte: proteggerlo.

9 Molto probabilmente Conrad si riferisce all’ Association Internationale pour l’Exploration et la Civilisation en Afrique, di cui era presidente Re Leopoldo II del Belgio. 10 “ ..La Società Internazionale per la Soppressione dei Costumi Selvaggi gli aveva affidato la stesura di un rapporto a propria guida futura. Quel rapporto l’aveva anche scritto. L’ho visto. L’ho

letto. Era eloquente, vibrante di eloquenza, ma troppo astratto, a mio parere. Aveva trovato tempo per diciassette pagine, fitte fitte! Ma doveva essere stato prima che gli si fossero guastati –

diciamo così – i nervi, che lo avevano spinto a presenziare a certe danze di mezzanotte, culminanti in indescrivibili riti che – per quanto potei con riluttanza arguire da saltuarie informazioni – erano

offerti a lui stesso – mi capite? – al signor Kurtz in persona. Però era un bel saggio di composizione.”

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Quando il binocolo di Marlow, nello scrutare l’abitazione di Kurtz, gli permette di

vedere da vicino la palizzata che la circonda, egli capisce perché l’uomo che

domina in quel luogo non possa presentarsi che come una voce.

“..And then I made a brusque movement, and one of the remaining posts of that vanished

fence leaped up in the field of my glass. You remember I told you I had been struck at the

distance by certain attempts at ornamentation, rather remarkable in the ruinous aspect of

the place. Now I had suddenly a nearer view, and its first result was to make me throw my

head back as if before a blow. Then I went carefully from post to post with my glass, and I

saw my mistake. These round knobs were not ornamental but symbolic; they were

expressive and puzzling, striking and disturbing – food for thoughts and also for the vultures if

there had been any looking down from the sky; but all events for such ants as were

industrious enough to ascend the pole. They would have been even more impressive, those

heads on the stakes, if their faces had not been turned to the house. Only one, the first I had

made out, was facing my way.”11

11 Per ciò che concerne il riferimento storiografico, Adam Hochschild(In Adam Hochschild, Gli spettri del Congo, Rizzoli 2001, pp.180-181)riferisce di tre uomini le cui vicende potrebbero risultare assimilate nella figura di Kurtz. Georges Antoine Klein, agente di una società francese per la raccolta dell’avorio, che morì a bordo di un battello; Arthur Hodister, belga, famoso per il suo harem femminile e per le enormi quantità d’avorio accumulate e, infine, il capitano della Force Publique, Léon Rom. Quest’ultimo è stato generalmente ignorato dai commentatori di Conrad, eppure è forse colui che più somiglia a Kurtz. Un giornalista (E.J.Glave in “The Century Magazine”, Settembre 1897) riferisce di come venne sedata una rivolta nella zona di cui era responsabile Rom << Furono catturati molte donne e bambini e furono portate alle cascate ventuno teste, che il capitano Rom utilizzò a mo’ di decorazione intorno a un’aiuola davanti a casa sua!>> , sappiamo inoltre che fu un entomologo dilettante, ma anche pittore (cinque dei suoi dipinti sono tuttora esposti in un museo belga, il Musée Royal de l’Afrique Centrale di Tervuren.) e, soprattutto, scrittore. In quest’ultima veste nel 1899, ritornato in Belgio, pubblicò un volume da titolo Le Nègre du Congo, i cui toni sono oltremodo sprezzanti, senza contare la superficialità dei contenuti che vorrebbero offrire un saggio delle usanze e delle caratteristiche degli indigeni. Da altre fonti sappiamo anche che Rom si faceva trattare come un capo dagli indigeni, anche a discapito degli altri bianchi presenti nella stazione. Non è possibile sapere se Conrad lo conobbe mai di persona, quasi sicuramente lesse l’articolo sopra citato nel “Saturday Review”, rivista che leggeva con assiduità, e probabilmente aveva già sentito parlare di quest’ uomo che godeva di una fama straordinaria nelle vicende del colonialismo belga.

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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“..I want you clearly to understand that there was nothing exactly profitable in these heads

being there. They only showed that Mr Kurtz lacked restraint in the gratification of his various

lusts, that there was something wanting in him – some small matter wich, when the pressing

need arose, could not be found under his magnificent eloquence. Whether he knew of this

deficiency himself I can’t say. I think the knowledge came to him at last – only at the very

last. But the wilderness had found him out early, and had taken on him a terrible

vengeance for the fantastic invasion. I think it had whispered to him things about himself

wich he did not know, things of wich he had no conception till he took counsel with this

great solitude – and the whisper had proved irresistibly fascinating. It echoed loudly within

him because he was hollow at the core..”12

Kurtz, nella solitudine che consapevolmente si è ricercato, impegna le sue doti

nell’esercizio della propria glorificazione e lo fa contemplando incessantemente

se stesso. Eppure Kurtz non c’è mai stato, in tutto il testo egli non è mai esistito che

per tramite altrui. La sua magniloquenza è l’esempio di quest’assenza, poiché in

nessun caso, la sua voce, ciò che gli restituirebbe presenza, può essere trasmessa

attraverso la scrittura. Come nella finzione letteraria egli si determina attraverso la

sua deificazione a cui altri attendono, così, nella costruzione narrativa è il lettore

che anela a lui, che lo presentifica, fino al punto in cui scopre che il vuoto al

12 “ Poi feci un brusco movimento, e uno dei pali rimasti, di quello steccato scomparso, balzò nel campo visivo del binocolo. Ricordate che ero stato colpito, a distanza, da certi tentativi di

ornamentazione piuttosto eccezionali, nell’aspetto rovinoso del luogo. Ora ne ebbi d’un tratto una visione ravvicinata, e il primo risultato fu quello di farmi buttare la testa all’indietro come per

schivare un colpo. Poi riesaminai attentamente, palo dopo palo, col binocolo, e compresi il mio errore. Quelle palle tonde non erano ornamentali, ma simboliche; erano espressive, e davano da

pensare; colpivano e disturbavano insieme – alimento alle riflessioni, e anche agli avvoltoi, se ce ne fosse stato qualcuno a scrutare dall’alto del cielo; ma ad ogni modo alimento per quelle formiche

che fossero state abbastanza industriose da scalare il palo. Sarebbero state ancor più impressionanti quelle teste sui pali, se le loro facce non fossero state rivolte verso la casa. Soltanto

una, la prima che avevo identificato, era volta verso di me..” “..Ma voglio che comprendiate chiaramente che non c’era nulla di particolarmente

vantaggioso nel tenere lì quelle teste. Esse dimostravano unicamente che il signor Kurtz mancava di ritegno nel soddisfare le sue svariate brame, che vi era qualche lacuna in lui – un nonnulla che,

quando sorse una necessità urgente, non si potè trovare sotto la sua magnifica eloquenza. Se egli stesso fosse conscio di questa sua manchevolezza, non ve lo so dire. Credo che se ne accorgesse

all’ultimo – soltanto all’ultimo momento. Ma la terra desolata l’aveva scoperto presto e si era orrendamente vendicata su di lui di quella fantastica invasione. Penso che gli abbia dovuto

sussurrare cose su se stesso che lui non conosceva, cose di cui non aveva la minima idea, finchè non si fu consigliato con quella grande solitudine, e quel sussurro si fu dimostrato irresistibilmente

affascinante. Aveva echeggiato profondamente dentro di lui, perché era vuoto nell’intimo..”

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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centro di questo personaggio non è altro che la nullificazione del mondo e, quindi,

della parola.

“..A voice! a voice! It was grave, profound, vibrating, while the man did not seem capable

of a whisper..”

“..I had to deal with a being to whom I could not appeal in the name of anything high or

low. I had, even like the niggers, to invoke him – himself – his own exalted and incredible

degradation. There was nothing either above or below him, and I knew it. He had kicked

himself loose of the heart. Confound the man! He had kicked the very earth to pieces..”13

L’unica possibilità di recuperare un frammento sopravvissuto di questo

personaggio è attendere quel momento finale a cui è stato accennato e che

coincide con l’unico istante di realtà che ormai gli possa appartenere:

“No eloquence could have been so withering to one’s belief in mankind as his final burst of

sincerity. He struggled with himself, too. I saw it, - I heard it. I saw the inconceivable mystery

of a soul that knew no restraint, no faith, and no fear, yet struggling blindly with itself.”14

Se esiste una reale grandezza di Kurtz, essa si rivela in questo momento, il delirio a

cui Marlow assiste è la manifestazione esteriore della lacerazione che egli trova la

forza di operare per riaccogliere, all’ultimo, la realtà del mondo, e la

consapevolezza che ciò richiede la separazione da quel Nulla in cui si era

precipitato.

È proprio in virtù di questa lotta dolorosissima contro se stesso che Kurtz può

recuperare per sé il mondo, affacciarsi alla realtà, alla verità del suo mondo e dire

la sua ultima parola, l’unica parola autentica che egli possa pronunciare.

13 “.. Che voce! che voce! Era grave, profonda, vibrante, mentre l’uomo stesso non sembrava

capace di un bisbiglio..” “..avere a che fare con un essere al quale non potevo rivolgermi nel nome di una qualunque cosa,

alta o bassa che fosse. Ero costretto invece, proprio come i negri, a invocare lui stesso, la sua esaltata e incredibile degradazione. Non c’era nulla né al di sopra né al di sotto di lui, e io lo

sapevo. Si era sciolto dalla terra, quel maledetto! aveva fatto a pezzi la terra stessa.” 14 “..Nessuna eloquenza avrebbe potuto essere così distruttiva per la fede di un uomo nell’umanità

quanto quel suo ultimo scoppio di sincerità. Anche lui lottava con se stesso. Lo vedevo, lo sentivo. Vidi l’inconcepibile mistero di un’anima che non conosceva né ritegno, né fede, né paura, e

lottava in pari tempo con se stessa, ciecamente.”

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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“ Anything approaching the change that came over his features I have never seen before,

and hope never to see again. Oh, I wasn’t touched. I was fascinated. It was as tough a veil

had been rent. I saw on that ivory face the expression of sombre pride, of ruthless power, of

craven terror – of an intense and hopeless despair. Did he live his life again in every detail of

desire, temptation, and surrender during that supreme moment of complete knowledge?

He cried in a whisper at some image, at some vision, - he cried out twice, a cry that was no

more than a breath –

‘ The horror! The horror!’15

4.

Nota al §. 4.

Seppur già dichiarato nella premessa, voglio qui ricordare che il testo presentato al lettore

è incompleto. Mi permetto di ricordarlo in questo punto perché di seguito viene riportata

l’ultima parte dell’analisi svolta del Tractatus logico-philosophicus, in cui si perviene a

considerazioni che muovono, ovviamente, da una lettura integrale dell’ opera, ma che

vengono proposte a partire dalla conclusione della sezione 5 dell’opera16.

Attraverso i successivi momenti di quest’indagine, Wittgenstein perviene ad

individuare la forma generale della proposizione che, infine, si presenta secondo

due caratteristiche eminenti tra di loro coniugate, massima generalità e massima

semplicità( T 5.47; 5.4732I; 5.522; 5.523; 5.524). La logica deve possedere queste

qualità perché essa ci viene data col mondo, ma prima di conoscere le

determinazioni contingenti del mondo:

15 “ Non ho mai visto nulla di simile al mutamento che avvenne sul suo viso, e spero di non vederlo

mai più. Oh, non rimasi commosso. Rimasi affascinato. Fu come se un velo fosse stato squarciato. Colsi su quel viso d’avorio l’espressione di un cupo orgoglio, di una potenza spietata, di un terrore

codardo, di una intensa e assoluta disperazione. Aveva rivissuto la sua vita, ogni particolare, di desiderio, di tentazione e di sconfitta, durante quell’istante supremo di completa consapevolezza?

Gridò in un sussurro verso qualche immagine, verso qualche visione, due volte gridò, un grido che non fu più di un sospiro: ‘ L’orrore! L’orrore!’. 16 Il Tractatus logico-philosophicus è composto da 526 proposizioni numericamente ordinate. Esistono sette proposizioni fondamentali con numero intero di una sola cifra, ad ognuna di esse

segue un gruppo di proposizioni di commento, la cui gerarchia è indicata dai decimali apposti dopo la cifra di riferimento. (Così, le proposizioni I.I, I.2, I.3 etc.. sono commenti alla proposizione I ,

mentre le proposizioni I.II, I.I2, I.I3 sono commenti ad I.I , fino ad un massimo di sei cifre decimali).

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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‘L’ ‘esperienza’ che ci serve per la comprensione della logica, è non l’esperienza che

qualcosa è così e così, ma l’esperienza che qualcosa è: ma ciò non è un’esperienza.

La logica è prima d’ogni esperienza – d’ogni esperienza che qualcosa è così.

Essa è prima del Come, non del Che cosa.’( T 5.552)

‘È chiaro che noi abbiamo un concetto della proposizione elementare, a prescindere dalla

particolare forma logica di essa.

Ma ove si possono formare simboli secondo un sistema, ivi questo sistema è ciò che è

logicamente importante, e non i singoli simboli.

E come sarebbe possibile che nella logica io avessi a che fare con forme che posso

inventare? Io devo invece avere a che fare con ciò che mi rende possibile inventarle. ( T

5.555)17

Poiché al soggetto è negata la possibilità di muoversi senza i meccanismi logici

che gli permettono di rappresentarsi il mondo, egli possiede quest’unico mezzo

per accedere ai fatti e, quando egli cerchi di trascenderli adoperando questo

mezzo, allora crea il nonsenso.

La logica determina la struttura del nostro linguaggio, e prima del nostro pensiero,

e con ciò segna i limiti di rappresentazione della realtà per mezzo di esso. Lo

spazio logico è lo spazio delle possibilità dell’accadere dell’ente concepito

secondo la natura del soggetto che lo genera. Poiché tale generazione avviene

per una necessità immanente al soggetto, l’Io diviene limite del mondo e ‘I limiti

del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.’ ( T 5.6) ( T 5.6I; 5.62; 5.632;

5.64; 5.64I )

Le leggi logiche che operano nella formazione del linguaggio non operano allo

steso modo nel mondo, esse sono unicamente regole logiche, ovvero agiscono

nella formazione della rappresentazione del mondo, ma mai fuori di questa.

Possiamo pensare alle possibilità del darsi di uno stato di cose, ma che esso si attui

o meno non possiamo determinarlo assolutamente, poiché ogni avvenimento è

contingente, accidentale. Non si danno nel mondo né causalità, né necessità,

17Tutte le citazioni dalle opere di Wittgenstein sono tratte da Tractatus logico philosophicus e

Quaderni 1914-1916 , Einaudi, 2001.

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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queste leggi operano solamente nella logica e, dove esse vengano trasferite alla

realtà, viene commesso l’errore di trasferire nel rappresentato forze che agiscono

nel metodo di rappresentazione. ( T 6.32; 6.34; 6.34I; 6.35).

‘Tutte le proposizioni sono di pari valore’. ( T 6.4)

Questa proposizione ci apre la porta dell’ultima stanza di questo percorso, quella

in cui vengono infine dichiarate le conseguenze che dovrebbe affrontare

chiunque riconoscesse la validità della teoria della raffigurazione di Wittgenstein.

Esse sono di una natura particolare, poiché, dopo averci spiegato per quali motivi

dovremmo scegliere di rinunciare ad un certo tipo di uso del linguaggio, in

conclusione l’autore manifesta la qualità etica di questa scelta.

Sostenere che tutte le proposizioni abbiano uguale valore significa destituirle

definitivamente di qualunque pretesa assiologica; le proposizioni, intese come le

descrive il Tractatus, possono parlare sensatamente solo dei fatti, i fatti sono

contingenti ed il loro accadere non è in alcun modo determinabile dalle nostre

capacità.

‘Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene

come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore.

Se un valore v’è, esso dev’esser fuori di ogni avvenire ed esser-così. Infatti ogni avvenire ed

esser-così è accidentale.

Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua

volta, accidentale.

Dev’essere fuori del mondo.’ ( T 6.4I )

‘Né, quindi, vi possono essere proposizioni dell’etica.

Le proposizioni non possono esprimere nulla di ciò che è più alto.’ ( T 6.42 )

A mio parere, in questo contesto, l’uso della parola ‘etica’ merita una riflessione

particolare, poichè, secondo i modi in cui essa è stata introdotta nelle varie

epoche del pensiero e segnatamente nelle giustapposizioni al concetto di

‘morale’ operate nella filosofia di Kant prima e di Hegel poi, ad essa viene

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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generalmente attribuito un significato che credo non rispecchi interamente

l’intenzione di Wittgenstein.

Semplificando: con ‘morale’ usualmente s’intende l’ambito delle determinazioni

individuali di volontà ed intenzione, un movimento interiore che spinge all’azione il

soggetto che, in questo momento, valuta soltanto il proprio sentire. L’ ‘etica’,

invece, si configura nel rapporto tra l’indivuduo e il mondo e costituisce un

complesso di regole comportamentali (anche secondo il significato più proprio

della parola greca) che dirige la volontà individuale a partecipare al bene

comune del mondo-società.

Tuttavia, se considerassimo l’ ‘etica’ del Tractatus solo secondo questa lezione,

molte delle affermazioni che la riguardano non sarebbero spiegabili.

Credo, piuttosto, che per rispettare la coerenza del testo, per etica si debba

intendere proprio il volere individuale che, ovviamente, nulla ha a che fare con i

fatti, ma soltanto con il soggetto metafisico ( T 6.422 ):

‘Se il volere buono o cattivo àltera il mondo, esso può alterare solo i limiti del mondo, non i

fatti, non ciò che può essere espresso dal linguaggio.

In breve, il mondo allora deve perciò divenire un altro mondo. Esso deve, per così dire,

decrescere o crescere in toto.

Il mondo del felice è un altro mondo che quello dell’infelice .’ ( T 6.43 )

D’altra parte non va dimenticato che, sebbene tracciare un limite alle possibilità

d’espressione del linguaggio sia l’azione che scaturisce da un’esigenza morale di

Wittgenstein stesso, credo che rinunciare all’uso scorretto della parola, alla

produzione di nonsensi filosofici, si possa considerare una scelta etica, ossia un

comportamento i cui effetti positivi non ricadrebbero unicamente sul soggetto

che la opera.

Quando sia compresa appunto quest’esigenza morale dell’autore, allora potrà

essere compresa appieno anche la sua teoria linguistica:

“Riconoscere la giustezza della teoria raffigurativa equivale a riconoscere i limiti al cui

interno qualcosa di vero o di falso può essere pensato e asserito…Qualificare come

insensato tutto il resto equivale non a condannare come letteralmente incomprensibili le

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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proposizioni che violano i principi di quella teoria, ma ad ammettere che, quando si usa il

linguaggio per affermare qualcosa che vada al di là di quei limiti, non si stanno avanzando

pretese di verità, non si sta comunicando un’informazione, non si sta esprimendo una

genuina conoscenza.”18

‘Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che

può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale – dunque, qualcosa che con la

filosofia nulla ha a che fare -, e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di

metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato

alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro – egli non avrebbe la

sensazione che noi gli insegniamo filosofia , eppure esso sarebbe l’unico metodo

rigorosamente corretto.’ ( T 6.53 )

Con questo Wittgenstein non solo limita le possibilità del linguaggio, e quindi di

ogni analisi che tramite il linguaggio si possa fare, ma nega anche che questo

possa essere di alcuna importanza reale per le nostre necessità più profonde:

‘Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano

avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo, allora non

resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.’ ( T 6.52 )

Ogni interrogativo che riguardi il perché della nostra esistenza, la natura del

tempo e dello spazio non può essere indagato, poiché le risposte a queste

domande si trovano nell’essere, nell’atemporalità e nel nulla, ambiti che non

possiamo raggiungere con la parola. Pertanto, se non c’è risposta, neppure la

domanda può essere formulata, o meglio, dovrebbe essere formulata. ( T 6.43II;

6.43I2; 6.5 )

‘Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico.’ (T 6.522 )

Quello che Wittgenstein chiama ‘Mistico’ è la non esperienza, il sentimento del

mondo, ciò che spinge a domandare dell’essere. Esso è ciò che rende povera

18 Pasquale Frascolla, Tractatus logico-philosophicus Introduzione alla lettura, Carocci 2003, pp.

293-294.

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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l’indagine condotta dalla logica, poiché i mezzi da essa impiegati non possono

estendersi al di là delle possibilità dell’accadere dell’ente.

‘Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.’ ( T 7)

Se adesso considerassimo conclusa l’esperienza del Tractatus e ci limitassimo a

considerare Wittgenstein come un giovane principe dell’Inquisizione che voglia

eternamente costringerci a piegare il capo e a non distrarci dal fragile e caduco

mondo dei fatti, avremmo perso per sempre la possibilità di cogliere la bellezza del

suo pensiero.

In fondo potremmo dire, con altre parole, che il limite tracciato nel linguaggio

attraverso quest’opera abbia nella parola ‘verità’ il suo paradigma fondamentale;

esso risponde alla domanda su che cosa possa dirsi ‘vero’ e cosa ‘falso’.

Dispiegato secondo l’estensione reale della sua ampiezza esso giunge a

contemplare il silenzio come il luogo logico delle infinite possibilità dell’essere che

non si attualizzano nell’ente. Ciò che non deve essere trascurato assolutamente è

che è il soggetto che genera questo spazio, sempre secondo le sue necessità. In

che modo, dunque, dovremmo intendere quel che si dice a proposito del

mostrarsi del Mistico? Se i limiti del mio linguaggio rappresentano i limiti del mio

mondo e tutto ciò che è nel mondo è contingente, il linguaggio può

rappresentare unicamente il contingente. Il non-contingente non è nel mondo,

perché non può essere rappresentato dal linguaggio.

Esso è rappresentato logicamente dalla cessazione del linguaggio, dunque, se

vogliamo attribuire un significato alle parole di Wittgenstein che sia coerente con i

pensieri fin qui espressi, dovremmo concludere che il non dire è mostrare.

Il non dire è logicamente generato dal dire ( come sua negazione), dunque esso si

esplica nello spazio logico, vuoto di parole, che genera il parlare solo del

contingente, dei fatti. Dove manchi questo spazio vuoto, dove esso sia occupato

da nonsensi, il mostrare è impossibile.

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

63

5.

L’incontro tra la teoria di Wittgenstein e l’opera di Conrad avviene solamente su

un piano teoretico. Non solo non possiamo rintracciare alcun accenno ad un

genere più diretto di rapporti dei due autori con i rispettivi lavori, ma, anche in

questo contesto, il confronto tra di essi avviene per accostamento, non per

sovrapposizione.

Questo studio scaturisce dal ravvisamento di una somiglianza ed essendo dunque

basato su un’analogia non pretende di mostrare una certezza, ma piuttosto di

prospettare una possibilità.

Il testo che segue è stato apposto da Conrad come prefazione al racconto The

nigger of the ‘Narcissus’ ed è apparso, insieme alla quinta puntata del romanzo,

sulla “New Review” nel Dicembre 1897. L’occasione in cui è stato pubblicato,

tuttavia, non ne determina interamente il contenuto, poiché in esso sono portate

ad espressione molte delle convinzioni di Conrad riguardo la letteratura e la

funzione che essa dovrebbe svolgere.

Proprio in virtù di questo ho creduto opportuno riportarlo nella sua interezza, di

modo che se ne possa considerare tutto il contenuto, ma anche per rispettarne la

bellezza nella sua integrità.

Prefazione19

Un’ opera che aspiri, pur umilmente, alla condizione di arte, dovrebbe recare la

propria giustificazione con sé, in ogni riga. E l’arte stessa dovrebbe esser definita

come un tentativo sincero di rendere il più alto grado di giustizia all’universo visibile,

che porti alla luce la verità, multiforme ed una, velata in ogni suo aspetto. È un

tentativo di trovare nelle sue forme, nei suoi colori, nella sua luce, nelle sue ombre,

negli aspetti della materia e nei fatti della vita, cosa in ciascuno è fondamentale,

cosa rimane ed è essenziale – la loro qualità che illumina e convince – la verità

incontestabile della loro esistenza. L’artista, dunque, come il pensatore o lo

scienziato, cerca la verità e tenta il suo richiamo. Colpito dall’aspetto del mondo il

19 Trad. nostra.

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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pensatore si immerge nelle idee, lo scienziato nei fatti – quando ne riemergono essi

parlano a quelle qualità del nostro essere che sono più adeguate all’azzardosa

impresa del vivere. Essi parlano autorevolmente al nostro buonsenso alla nostra

intelligenza, al nostro desiderio di pace o al nostro desiderio d’inquietudine, non di

rado ai nostri pregiudizi, qualche volta alle nostre paure, spesso al nostro egoismo –

ma sempre alla nostra credulità. E le loro parole sono ascoltate con rispetto,

poiché riguardano serie questioni: l’educazione delle nostre menti e la cura dei

nostri corpi, la soddisfazione delle nostre ambizioni, il perfezionamento dei nostri

mezzi e la glorificazione dei nostri preziosi scopi.

Altrimenti è per l’artista.

Di fronte al medesimo, enigmatico spettacolo, l’artista si cala in se stesso, e in

quella solitaria regione di fatica e di lotta, se ne è degno ed è fortunato, egli trova i

modi del suo richiamo.

Il suo parlare chiama le nostre capacità meno evidenti: quella parte della nostra

natura che, a causa delle condizioni di lotta della nostra esistenza, è

necessariamente tenuta nascosta dentro le qualità più resistenti e dure – come il

corpo vulnerabile nell’armatura d’acciaio.

Il suo richiamo è meno gridato, più profondo, meno chiaro, più eccitante – e prima

dimenticato. Eppure il suo effetto dura per sempre.

La conoscenza che muta con le generazioni scarta idee, mette in dubbio fatti,

demolisce teorie. Ma l’artista chiama quella parte del nostro essere che non

dipende dalla conoscenza: ciò che in noi è dono e non acquisizione – e, perciò,

più a lungo presente.

Egli parla alla nostra capacità di piacere e meraviglia, al senso di mistero che

avvolge la vita, al nostro sentimento di pietà, e bellezza, e dolore, alla sensazione

latente di comunanza con tutta la creazione – ed alla sottile, ma invincibile

certezza della solidarietà che unisce le solitudini di innumerevoli cuori: alla

solidarietà in sogni, gioia, dolore, aspirazioni, illusioni, speranza, paura, che lega gli

uomini l’uno all’altro, che lega tutta l’umanità – i morti coi vivi e i vivi con quelli che

verranno.

È solo un simile corso di pensiero, o piuttosto di sensazioni, che può spiegare, in

qualche misura, lo scopo del tentativo fatto nel racconto che segue, di presentare

un inquietante episodio nelle vite oscure di pochi individui tratti dalla moltitudine

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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ignorata dei confusi, dei semplici e dei senza voce. Perché, se c’è anche solo una

parte di verità nella credenza appena confessata, diviene evidente come non ci

sia un luogo di splendore o un angolo buio sulla terra che non meriti anche solo

uno sguardo di meraviglia e pietà. L’intenzione, dunque, può essere la

giustificazione della materia dell’opera, ma questa prefazione, che è

semplicemente la confessione di un tentativo, non può finire qui – perché la

confessione non è ancora completa.

La narrativa – se dopotutto aspira ad esser arte – chiama il temperamento. Ed in

verità dev’essere, come la pittura, la musica, l’arte tutta, il richiamo di un

temperamento a tutti gli altri, innumerevoli, temperamenti, il cui potere sottile e

irresistibile dona agli eventi passeggeri il loro vero significato, e crea la morale,

l’atmosfera emotiva di spazio e tempo. Un tale richiamo, per essere efficace,

dev’essere un’impressione trasmessa dai sensi e, in effetti, non può essere reso

altrimenti, giacché il temperamento, sia individuale che collettivo, non è soggetto

a persuasione. L’arte tutta, perciò, chiama prima di tutto i sensi, e lo scopo

dell’arte, quando si esprima con parole scritte, deve anch’esso chiamare

attraverso i sensi, se il suo più grande desiderio è trovare la sorgente segreta delle

reazioni emotive. Deve strenuamente aspirare alla plasticità della scultura, al colore

della pittura, ed alla magica suggestione della musica – che è l’arte delle arti. Ed è

solo con una completa e indefettibile devozione alla perfetta unione di forma e

sostanza, solo attraverso un’incessante, incrollabile attenzione per la costruzione e il

suono delle frasi che è possibile avvicinarsi alla plasticità, al colore; e la luce della

suggestione può agire per un istante sulla comune superficie delle parole. Delle

vecchie, vecchie parole, consunte, sfigurate da secoli di uso noncurante.

Lo sforzo autentico di riuscire in questo impegno creativo, di giungere fin dove la

sua forza glielo consente, di andare imperterrito attraverso l’esitazione, la

stanchezza o il rimprovero, è l’unica giustificazione valida per il lavoratore della

prosa. E, se la sua coscienza è pulita, la sua risposta a chi gli chieda, nell’ottusità

del buon senso che cerca il profitto immediato, di essere in particolare educato,

consolato, divertito: a chi chieda di essere rapidamente corretto, o incoraggiato, o

atterrito, o scioccato, o incantato, dev’essere questa: - Il compito che cerco di

realizzare è, col potere delle parole scritte, di farvi udire, di farvi provare – è, prima

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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di tutto, di farvi vedere. Questo – e nient’altro, ed è tutto. Se riuscirò, troverete,

secondo i vostri meriti, incoraggiamento, consolazione, paura, meraviglia – tutto

ciò che domandate, e, forse, anche quel barlume di verità che avete dimenticato

di chiedere.

Sottrarre, in un momento di coraggio, allo spietato assalto del tempo, un inaridito

aspetto della vita è solo il principio del lavoro. Il lavoro, iniziato con tenerezza e

fede, è riuscire a tenere, senza alternativa e senza paura, il frammento salvato

davanti agli occhi di tutti e nella luce di uno stato d’animo sincero. È mostrare la

sua vibrazione, il suo colore, la sua forma; e attraverso il suo movimento, la sua

forma e il suo colore, denudare la sostanza della sua verità – far conoscere il suo

segreto ispiratore : la fatica e la passione che sono il nucleo di ogni momento che

convince. In un tentativo autentico di questo tipo, se si è meritevoli e fortunati, si

può forse arrivare ad una tale limpidezza di autenticità che, alla fine, la visione resa

di rimpianto o pietà, di terrore o allegria, risveglierà nei cuori di chi guardi quella

sensazione di ineluttabile solidarietà, della solidarietà in origini misteriose, in fatica,

in gioia, in speranza, in incerto destino, che lega gli uomini uno all’altro e tutta

l’umanità al mondo visibile.

È evidente che chi, a torto o a ragione, sia fermo nelle convinzioni ora espresse,

non può esser fedele ad alcuna delle formule temporanee della sua arte. La parte

di esse che rimane – la verità che ciascuna solo imperfettamente nasconde –

dovrà rimanere con lui come il suo bene più prezioso, ma esse tutte: Realismo,

Romanticismo, Naturalismo, anche il non ufficiale sentimentalismo ( che, come il

povero, è estremamente difficile da allontanare); tutte queste divinità devono,

dopo un periodo di comunanza, abbandonarlo – seppure sulla soglia del tempio –

ai balbettamenti della sua coscienza e all’esplicita consapevolezza della difficoltà

del suo lavoro. In questa solitudine difficile anche il supremo grido di Arte per l’Arte

perde il suono eccitante della sua apparente immoralità. Si sente lontano. Ha

cessato di essere grido, e si sente solo come un sussurro, spesso incomprensibile, ma

a volte, e vagamente, incoraggiante.

Qualche volta, riposando comodamente all’ombra di un albero sul bordo della

strada, guardiamo i movimenti di un bracciante in un campo lontano, e dopo un

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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po’ cominciamo a chiederci distrattamente che cosa stia facendo. Guardiamo i

movimenti del suo corpo, l’ondeggiare delle sue braccia, lo vediamo piegarsi e

distendersi, esitare, ricominciare. Può aggiungere piacere ad un momento d’ozio

che ci dicano il motivo dei suoi movimenti. Se sappiamo che sta cercando di

sollevare una pietra, di scavare un fossato, di sradicare un ceppo, guardiamo con

maggior interesse i suoi sforzi, siamo disposti a perdonare lo stridore della sua

agitazione con la quiete del paesaggio; ed anche, se siamo in una disposizione

d’animo fraterna, potremmo giungere a perdonare il suo fallimento.

Comprendiamo il suo proposito e, dopotutto,ci ha provato e forse non ne aveva la

forza, forse non aveva la conoscenza. Perdoniamo, andiamo per la nostra strada –

e dimentichiamo. E così è per l’artigiano dell’arte. L’arte è lunga e la vita è breve, e

il successo è molto lontano. Perciò, dubitando della forza per arrivare così lontano,

parliamo un poco dello scopo dell’arte, che, come la vita stessa, è fonte

d’ispirazione, difficile – oscurato da nebbie. Non è nella chiara logica di una

conclusione trionfante, non è nello svelamento di uno di quei crudeli segreti che

chiamano Leggi di Natura. Non è meno grande, ma solo più difficile.

Fermare, per lo spazio di un respiro, le mani impegnate nel lavoro della terra, e

costringere gli uomini ipnotizzati dalla vista di mete lontane a guardare per un

momento alla veduta che li circonda di forma e colore, di sole e d’ombre; riuscire

a fermarli per uno sguardo, per un sospiro, per un sorriso – questo è lo scopo,

difficile ed evanescente, e raggiungibile solo da pochi. Ma qualche volta i degni e

i fortunati riescono anche in questo. E quando sia fatto – guarda! – c’è tutta la

verità della vita. Un momento di visione, un sospiro, un sorriso – ed il ritorno ad un

eterno riposo.

La natura di questa riflessione di Conrad sul linguaggio è necessariamente diversa

da quella operata da Wittgenstein. Oltre alla differenza fondamentale tra

l’impianto letterario e quello filosofico, è evidente anche che, mentre il primo si

interroga su che cosa dovrebbe fare la scrittura, l’altro si interroga su che cosa

essa possa fare. Senza dubbio questa discrepanza è prodotta dai diversi interessi

nell’applicazione del medesimo strumento. D’altra parte, sembra che i due

pensieri collidano proprio nella convinzione che esista la possibilità di mostrare la

vita attraverso parole che ne colgano gli aspetti sensibili più semplici ed immediati.

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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È rintracciabile anche un altro aspetto della scrittura di Conrad che trova un

riscontro nella concezione di Wittgenstein; in essa tutti i richiami fatti attraverso le

parole rimandano sempre anche alla struttura interna della frase. Come ho

cercato di mostrare nell’analisi di Heart of Darkness, esiste un rapporto circolare tra

significato e forma per il quale l’uno rimanda incessantemente all’altro senza

offrire una via di fuga. È grazie a questo meccanismo che è possibile investire il

personaggio di Kurtz dei significati prima espressi, esso dimostra fattivamente

l’impossibilità di uscire dal linguaggio attraverso le parole.

Heart of Darkness costituisce un esempio valido proprio perché il testo attua un

progressivo sgretolamento dei meccanismi logici di riferimento con la realtà e

conclude che questo porta ad una trasformazione della realtà stessa, perché il

mutamento del soggetto muta il mondo ad esso correlato. È vero che tale

cambiamento non sembra messo in atto dal soggetto, ma dal suo esterno,

eppure, a ben guardare, è solo il dubbio del soggetto che lo rende possibile. Negli

individui in cui non si produce la domanda c’è una sostanziale immobilità,

rappresentata attraverso il persistere dei consueti meccanismi di riconoscimento.

Secondo un’interpretazione d’altro genere, si può dire, semplicemente, che

l’esperienza vissuta da Marlow, l’abbia reso critico verso la società cui appartiene,

fino al punto di contestarne le regole. Tuttavia questa soluzione non potrebbe

rendere ragione dell’intero sviluppo della vicenda. In essa dovrebbe venire

presupposto un giudizio morale sugli accadimenti che non trova riscontro nel testo

ed anche un’interpretazione di Kurtz che svilirebbe la sua reale importanza,

relegandolo al ruolo di un indemoniato ciarlatano senza speranze.

La decostruzione che Conrad mette in atto, invece, ha la forza straordinaria di

arrivare ad un passo dal Nulla e mostrarcelo attraverso la cessazione dell’attività

della parola. Egli riesce in questo compito nella maniera più perspicua possibile

alla materia che affronta: tacendo.

È precisamente questa scelta narrativa che coincide con il pensiero del Tractatus,

rappresentandone l’applicazione pratica nell’esercizio della scrittura.

Le idee espresse nella prefazione sopra riportata, sostengono la convinzione che

la letteratura debba parlare ai sentimenti dell’uomo, al suo temperamento, e che

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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ciò sia possibile solo adoperando la scrittura come mezzo per toccare i sensi

attraverso la rappresentazione di ciò che può risvegliarne l’attività. Dopotutto si

tratta proprio di quel ‘parlare di qualcosa’ che, per essere sensato, ha bisogno del

mondo e che cessa con esso.

L’estrema concretezza della scrittura di Conrad contrasta fortemente con

l’assoluta astrattezza del Tractatus; essa infatti, è come il negativo della fotografia

dell’altra, eppure entrambe trattano del medesimo oggetto. La concretezza di

Conrad non è solo una caratteristica del suo stile, anzi, questa corrisponde agli

oggetti della sua letteratura, che riflettono la sua esperienza del mondo e degli

altri uomini. La sua ricerca della qualità essenziale all’oggetto non trascende mai

l’oggetto stesso, si concentra sulle forme della sua attualizzazione e tra esse

ricerca il modo della rappresentazione verbale. Anelare alla riproduzione della

plasticità, della forma, del colore, altro non è che la ricerca di quella

corrispondenza tra le strutture della rappresentazione e dell’accadimento che

consente di creare un’immagine del mondo. Questo significa recuperare la

parola alla sua originaria capacità generativa. La tenacia con cui Conrad

persegue questo scopo lo porta, infine, a riproporre sulla pagina quella scelta

etica che ha nell’accettazione del silenzio la sua alternativa tanto più ovvia

quanto più dolorosa e meno praticata. Il soggetto che lotta contro questo limite è

un soggetto che lotta contro se stesso e, nella migliore delle ipotesi, possiamo solo

augurarci che si stia dirigendo consapevolmente verso il Nulla. Purtroppo non

sempre è possibile rintracciare tanta onestà o coscienza ed è molto più probabile

che si abbia a che fare con un soggetto che, mentre distrugge se stesso, tenta di

dimostrare affannosamente di essere riuscito a colonizzare quel vuoto o di aver

finalmente scoperto ‘la cosa in sè’. Il soggetto che presuppone la possibilità di

superare quella che egli ritiene soltanto una realtà apparente, o scavando nella

profondità delle cose o mirando molto lontano da esse , forma un concetto

fallace di conoscenza. La realtà, per quanto sminuzzata in atomi e particelle,

siano chiamati essi logici o fisici, gli si presenterà diversa solo nella misura della

diversità dei mezzi di rappresentazione che egli avrà fatto propri, ma tutto ciò che

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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egli avrà trovato, farà comunque parte del mondo così come egli è in grado

concepirne l’esistenza.

Quando il soggetto cerca di rintracciare nel mondo una regola, una logica, che

non appartenga al proprio meccanismo di rappresentazione, allora la

conoscenza assume le forme del possesso, perdendo la distinzione fondamentale

tra rappresentazione e rappresentato, nome ed oggetto. In questo modo egli

crede di potersi impadronire di tutto ciò che sia altro da sé e alimenta una

continua brama di trascendenza che è la spinta ad inventare nuove tecniche di

dominio. Così facendo egli perde la capacità di riconoscere la sua sostanziale

unità col mondo, quella forma di appartenenza non violenta che lega l’io alla

realtà attraverso la rappresentazione, la sua azione diviene allora guerra e il suo

linguaggio mortifero.

“ ‘The horror!’..this was the expression of some sort of belief; it had candour, it had

conviction, it had a vibrating note of revolt in its whisper, it had the appalling face of a

glimpsed truth – the strange commingling of desire and hate.”

La verità che Kurtz intravede, un attimo prima che il mondo appena riconosciuto

termini definitivamente, è esattamente questo ‘miscuglio di desiderio e di odio’.

Non è un compito facile introdurre l’ultimo argomento di questa ricerca, spiegare

come la parola possa esprimere la vita, poiché, in buona parte, se ne ha

percezione attraverso un’attività che non pertiene al linguaggio. Si tratta di quella

capacità di mostrare che non può essere esplicitata e che richiede di essere

intuita. Quello che si può dire in proposito è una parte molto limitata, rispetto alla

grandezza dell’effetto, e riguarda solo la forma del discorso.

Sia nella succitata prefazione di Conrad, sia da alcuni stralci del carteggio tra

Wittgenstein ed Engelmann20, emerge l’attribuzione di questa capacità al

20 “Ed è così: quando non ci si studia di esprimere l’inesprimibile, allora niente va perduto. Ma

l’inesprimibile è – ineffabilmente – contenuto in ciò che si è espresso!” Lettera di L. Wittgenstein a Paul Engelmann del 9/4/1917 tratta da Lettere di Ludwig Wittgenstein con ricordi di Paul

Engelmann, La Nuova Italia, 1990.

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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linguaggio che si attiene all’espressione degli aspetti più tangibili dell’esistenza e

alla ricerca, in esso, della semplicità.

Quel che si può fare, dunque, è solo un discorso sul significato attribuito alla parola

semplicità. Con essa, fondamentalmente, si intende un linguaggio spogliato di

quegli elementi che non abbiano alcun referente nella realtà conoscibile. Mentre

Wittgenstein pone come suo limite espressivo la possibilità dell’accadere dei fatti,

Conrad sembra aver fatta propria quest’idea nella sua ricerca di una scrittura

veritiera e autentica. Nella sua ricerca di una parola a cui possa rispondere un

movimento non passivo del lettore, egli infine giunge proprio a scegliere una

rappresentazione dei fatti che produca in esso quell’attività intuitiva che gli

permette di percepire la vita che non si dice. E allora, perché la scrittura sia

efficace in questo senso, è necessario che essa assuma la forma più perspicua al

fatto che rappresenta. Tale è l’ambito in cui si misurano le forze dello scrittore, il

terreno sul quale egli deve calibrare la struttura della frase affinché essa possa

rimanere in equilibrio tra il dire e il non dire. Perché sia possibile questo equilibrio

essa deve essere scevra di ogni ambiguità, la rappresentazione del suo oggetto le

deve essere immanente, deve non poterne uscire in alcun modo ed esaurirsi in

essa. La medesima architettura si ripete in modo macroscopico nella costruzione

complessiva del racconto laddove ad esso venga attribuita una sorta di ciclicità.

In Heart of Darkness il racconto di Marlow svolge anche questa funzione che, in

qualche modo, assume i caratteri della ritualità. La narrazione gli permette di

liberarsi per un momento della sua storia, ma, dandole questa forma, egli innesca

contemporaneamente il meccanismo di ripetizione proprio del racconto. In

questo modo Conrad preserva una delle dinamiche fondamentali della tradizione

orale, la quale riesce a sfuggire all’ipostatizzazione della scrittura mantenendo il

tratto distintivo della ‘ripetizione ad alta voce’. Inoltre, questa forma costituisce

una variazione propriamente letteraria in cui il lettore si trova a ricoprire il ruolo

dell’ascoltatore attivo. Non necessariamente questo espediente sarà più valido di

altri nel catturare l’attenzione del lettore, tuttavia la presenza di questo elemento

può manifestare che il testo richiede un rapporto simpatetico tra le parti affinché

la storia narrata possa raggiungere la sua vera forma e la pienezza del suo

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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significato. Un esempio mirabile degli effetti di questo movimento trova

espressione nel poema di Samuel Taylor Coleridge, The Rime of Ancyent Marinere,

in cui la consapevolezza della necessità che esso si compia prende l’aspetto della

pena come espiazione della colpa:

‘O shrieve me, shrieve me, holy man!’

The Hermit cross’d his brow.

‘Say quick’,quoth he, ‘ I bid thee say –

What manner of man art thou?’

Forthwith this frame of mine was wrench’d

With a woeful agony,

Wich forc’d me to begin my tale;

And then it left me free.

Since then, at an uncertain hour,

Now oftimes and now fewer

That anguish comes and makes me tell

My ghastly adventure.

I pass, like night, from land to land;

I have strange power of speech;

That moment that his face I see,

I know the man that must hear me:

To him my tale I teach.”21

Scilla Bellucci

[email protected]

21 Samuel Taylor Coleridge, The Rime of the Ancyent Marinere, part VII, from Lyrical Ballads, the Bristol imprint of 1798. L’unica copia esistente dell’edizione originale delle Lyrical Ballads, pubblicate

anonime da S. T. Colerige e William Wordsworth nel 1798 si trova presso la British Library.

Scilla Bellucci, Limiti dell’analisi linguistica – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Bibliografia

� Joseph Conrad, Heart of Darkness, Penguin books, 2000.

� The Nigger of the ‘Narcissus’, Penguin books, 2000.

� Cuore di Tenebra, Garzanti, 1993.

� Cuore di Tenebra, Rizzoli, 2000.

� Opere. Romanzi e racconti. 1895-1903, Bompiani, 2001.

� AA:VV: Heart of Darkness. Joseph Conrad. A case study in contemporary

criticism. Edited by Ross C Murfin for Bedford Books, 1989. Published and

distributed outside North America by MACMILLAN PRESS LTD.

� Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916,

Einaudi, 2001.

� Note sul “ Ramo d'oro” di Frazer, Adelphi, 1995.

� Libro blu e libro marrone, Einaudi, 2000.

� Diego Marconi, Guida a Wittgenstein, Laterza, 1997.

� La filosofia del linguaggio. Da Frege ai nostri giorni, UTET, 2002.

� Pasquale Frascolla, Tractatus logico-philosophicus. Introduzione alla lettura,

Carocci, 2003.

� Ray Monk, Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, 2000.

� Paul Engelmann, Lettere di Ludwig Wittgenstein con ricordi di Paul Engelmann,

La Nuova Italia, 1990.

� Adam Hochschild, Gli spettri del Congo. Re Lepoldo II del Belgio e L'olocausto

Dimenticato Rizzoli, 2001.

� Samuel Taylor Coleridge, The Ancyent Marinere, da Lyrical Ballads, Bristol, 1798.

74

SI PUÒ PARLARE DI LINGUAGGIO DEL BIOLOGICO? DANIELE ROMANO

La diversa matrice sperimentale e teorica dei vari livelli di analisi della biologia

crea, talvolta, degli iati esplicativi. La genetica molecolare, in particolare, è una

scienza largamente autonoma con un raggio di applicazione ristretto, ma i suoi

risultati sono fondanti per ogni analisi di livello superiore. In questo passaggio, le

modalità di riferirsi al gene, ma anche di intervenire su di esso, perdono contatto

con la natura chimica e meccanica della struttura del DNA, limitando la possibilità

di fare riferimento ad esse. Parallelamente, diviene possibile valutare il ruolo svolto

da ogni gene in un contesto organico e temporale più ampio, attribuendo loro

‘proprietà macroscopiche’ che chiariscono il suo ruolo nello sviluppo degli

organismi e nel processo di ereditarietà. Concetti come l’informazione genetica, il

ruolo attivo e talvolta intenzionale del gene nello sviluppo degli organismi, la

sostanziale omologia fra la lettura del DNA e l’implementazione informatica di

istruzioni, sono esempi di tali riletture che, oltre l’aspetto divulgativo, hanno saputo

influenzare la riflessione scientifica e filosofica nella ridefinizione teorica dei

processi biologici. Inoltre, analisi di questo genere non riescono e non possono

prendere in considerazione le macro-funzioni del gene e la sua natura chimica e

meccanica nella stessa analisi e spesso sfociano in una riflessione metaforica.

Strettamente legate agli studi sull’informazione genetica, e parallelamente alle

grandi scoperte sul genoma, sono emerse alcune riflessioni tese a identificare i

caratteri costitutivi di un linguaggio biologico elementare1 che rafforzerebbe la

costruzione teorica di un ruolo informativo ed attivo del DNA nello sviluppo degli

organismi. Gli elementi portanti di questa teoria sono la presenza di un alfabeto e

la corrispondenza determinata fra le combinazioni delle lettere e gli amminoacidi

utilizzati nella sintesi delle proteine, che evidenzierebbero un contenuto

‘semantico’ dei geni, ed una intenzionalità caratteristica delle informazioni

trasmesse. Qui di seguito si intende prendere in esame alcuni aspetti fondanti di

questa teoria per mostrare come tale metafora risulti inadeguata e fuorviante.

Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

75

1. Gli elementi costitutivi.

A partire dalla metà del ventesimo secolo, i risultati della ricerca biologica

evidenziarono il ruolo svolto dalle proteine nello sviluppo, sia in qualità di elementi

costitutivi dell’organismo, sia come regolatori a livello cellulare dell’attivazione

genica. In breve venne mostrato come tutti i processi cellulari fossero condizionati,

e talvolta attivati, da proteine. Il ruolo teorico indiscusso svolto dal dogma

centrale2, parallelamente, evidenziava come la sintesi delle proteine fosse

strettamente legata all’espressione genica. Lo schema riassuntivo di Watson

indicava come unidirezionale, deterministico e causale l’insieme di processi che

dal DNA portano alla sintesi delle proteine. Per conseguenza, i geni contenuti nel

DNA di un organismo, da sempre studiati come fattori causali dello sviluppo dei

caratteri fenotipici, venivano ora ad essere legittimati come causa assoluta di tutti

i processi cellulari e di sviluppo dell’organismo.

È questo un ruolo molto più vasto di quanto la genetica classica avesse fino ad

allora attribuito ai geni, inglobando alla risultanza dei caratteri fenotipici il mistero

delle regole di sviluppo, stadio dopo stadio, degli organismi. Il dogma centrale

della genetica formulato da Watson3, che riassume in maniera univoca i processi

che regolano la corrispondenza biunivoca ed unidirezionale fra genoma e

caratteri fenotipici di un organismo, riesce ad interpretare tutte le successive

scoperte della genetica, compresa la sintesi delle proteine che regolano lo

sviluppo di un organismo. Questo passaggio risulta importante per lo sviluppo di

teorie deterministiche che porteranno al concetto di informazione genetica: il

gene diviene agente causale delle regole di sviluppo degli organismi.

Il processo di sintesi di una proteina viene illustrato come risultante da una serie di

processi che si susseguono in maniera coerente e consequenziale. Tali processi

elaborano l’informazione contenuta nei geni e la traducono in una successione di

amminoacidi, ovvero nella proteina corrispondente4. Possiamo considerare un

filamento di DNA, semplificando le sue caratteristiche ai fini della discussione,

Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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come un successione di unità di base, i nucleotidi, catalogabili in quattro tipologie

differenti: adenina, citosina, guanina e timina (A, C, G, T) disposte casualmente in

una sequenza lineare, senza alcun vincolo di successione. A livelli macroscopici o

comunque rappresentativi, una stringa di DNA può essere descritta come una

successione lineare di basi, rappresentate da lettere, la cui successione

determina, in maniera inequivocabile, la sintesi delle proteine.

Per queste sue caratteristiche, il DNA è stato interpretato come un linguaggio

composto da quattro diverse lettere, le cui combinazioni producono messaggi in

grado di specificare composizione e struttura delle proteine. In questa ottica un

gene coincide con una particolare sequenza di DNA in grado di ‘codificare’ per

una proteina che viene elaborata ed interpretata conformemente ad una serie di

strutture e regole, delle quali solo attraverso le attuali conoscenze è possibile

fornire una spiegazione meccanicista. Negli anni settanta, tuttavia, la metafora di

un linguaggio, successivamente definito anche come codice, ovviava

all’impossibilità di rendere conto della totalità di questi processi.

Dal punto di vista della struttura chimica del DNA, non esiste nessuna caratteristica

che, data la presenza di una particolare base nucleotidica, condizioni la presenza

della base successiva, ragione per cui si afferma che il potenziale espressivo del

DNA è massimo rispetto al proprio linguaggio. La successione di amminoacidi in

una proteina è strettamente vincolata alla successione delle basi nucleotidiche

presenti in un particolare frammento di DNA5.

Una proteina è una lunga sequenza di unità fondamentali chiamate

amminoacidi, di cui esistono venti tipi differenti. In linea di massima, le proprietà

dei singoli amminoacidi e le proprietà che derivano dalla loro interazione

determinano forma e funzione della proteina. Anche gli amminoacidi vengono

spesso rappresentati come l’alfabeto di un linguaggio alla base della sintesi delle

proteine. Tale processo, nonostante la sua stretta connotazione biochimica, viene

definito come ‘processo di traduzione’, per evidenziare il passaggio da un

linguaggio ad un altro. La sequenza nucleotidica è letta per triplette di basi, e ad

ogni tripletta corrisponde un solo amminoacido. Dal momento che le triplette

possibili, ottenute combinando le quattro basi, sono 64, più di una tripletta può

Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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codificare per lo stesso amminoacido. Per questa ragione si dice che il linguaggio

genetico è degenerato, ovvero ridondante6.

Nel compartimento nucleare l’informazione genetica è trascritta dal DNA in RNA e

trasmessa alle strutture addette alla sintesi di proteine, presenti nel secondo

compartimento. L’RNA ha una struttura molecolare simile a quella del DNA, anche

se le basi dei due filamenti non si corrispondono esattamente: alla timina del DNA

corrisponde l’uracile nell’RNA.

Il processo di sintesi delle proteine è operato invece da particolari strutture

macromolecolari, i ribosomi, nei quali avviene l’associazione fra triplette ed

amminoacidi. Questi ultimi verranno disposti secondo lo stesso ordine delle triplette

corrispondenti del filamento di RNA e uniti fra loro fino ad ottenere la proteina

richiesta. In questo passaggio dai filamenti di RNA alle proteine si parla di

traduzione, a sottolineare che in gioco sono chiamate due tipologie di strutture

non confrontabili dal punto di vista fisico-chimico. L’espressione “processo di

traduzione” deve essere inteso nel senso più stretto del termine, intendendo un

passaggio radicale fra due linguaggi fisici differenti: si passa da un alfabeto

costituito di quattro basi nucleotidiche ad un alfabeto composto da venti

amminoacidi. È difficile interpretare le modalità che abbiano permesso lo sviluppo

di processi che permettessero una associazione così rigida fra triplette ed

amminoacidi; ad ogni modo questa corrispondenza risulta essere una costante sia

nel confronto fra i vari organismi, sia nella storia evolutiva delle specie. Nell’analisi

della rigorosa corrispondenza messa in evidenza dal dogma centrale fra i geni e le

proteine e, entrando nei dettagli, fra le triplette di nucleotidi ed amminoacidi, è

importante notare come il processo di sintesi delle proteine ‘trasmetta’ un preciso

ordine7 fra strutture fisiche diverse8.

2. La componente semantica.

I meccanismi biochimici che permettono il riconoscimento delle triplette e la

successiva associazione del corrispondente amminoacido sono stati individuati in

un secondo momento e riguardo tali processi restano aperte alcune domande. In

Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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particolare, nonostante tali associazioni risultino una regolarità non confutata -

costante in tutte le specie e in ogni momento dello sviluppo - non è stata

determinata alcuna condizione materiale necessaria per cui le strutture

biologiche abbiano sviluppato, nel corso della propria evoluzione, tale

determinazione. Fra i molti misteri sulle prime manifestazioni del DNA, si ignora con

quale modalità gli organismi abbiano delineato e conservato tali associazioni al

punto che nessun cambiamento evolutivo intacchi o condizioni tale processo.

Nell’ordine che il DNA riesce ad imporre nella sintesi delle proteine e nel successivo

sviluppo degli organismi, lontani dalla necessità biologica e lontani dal caso, al

DNA si è guardato come portatore di un messaggio che l’organismo doveva

interpretare. I primi accenni della teoria di un’informazione contenuta nel DNA e

trasmessa all’organismo si trovano già nel lavoro di Watson che ha conosciuto uno

sviluppo incredibile, rafforzato dalla similitudine fra ‘programma genetico’ ed

‘informatica’ operata da Jacob negli anni ’70, e successivamente

dall’adattamento delle teorie dell’informazione alla biologia negli anni ’90. Tale

sviluppo storico non è oggetto di questa analisi, preme comunque evidenziare qui

come l’ipotesi di un linguaggio del DNA abbia costantemente accompagnato la

ricerca biologica degli ultimi 50 anni. Pur senza tener conto storicamente di tale

sviluppo, è comunque possibile, ora, individuare gli elementi costitutivi di questa

ipotesi.

Il DNA avrebbe un proprio alfabeto, costituito dalle quattro differenti tipologie di

basi nucleiche, le quali, combinate in triplette, hanno un significato determinato. Il

significato di ogni tripletta è un amminoacido, più triplette possono codificare per

un amminoacido, ma ognuna ne determina uno e uno solo. Esistono inoltre

triplette che determinano l’inizio e la fine della futura sequenza di amminoacidi,

ovvero l’inizio e la conclusione della lettura del DNA, necessaria per la sintesi della

proteina. Queste triplette determinano gli estremi di un gene. Un gene sarebbe

pertanto un messaggio complesso formato dalla sequenza di ‘parole’ elementari:

le triplette. L’organismo ha il compito di leggere ed interpretare (tradurre) il

messaggio del DNA per creare le proteine, ovvero delle strutture biologiche in cui

nulla della struttura del DNA può essere riconosciuta, se non l’ordine trasmesso.

Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Altre caratteristiche della struttura e delle funzioni del DNA hanno ampliato tale

visione, fino ad attribuire all’informazione del DNA una proprietà intenzionale. In

altre parole, il DNA non verrebbe letto dall’organismo secondo le proprie

‘esigenze’, ma esso stesso imporrebbe la propria informazione, agendo

direttamente sullo sviluppo degli organismi. Tale credenza si è sviluppata

lentamente, sia attribuendo al DNA ogni informazione necessaria per lo sviluppo,

sia osservando il suo processo di replicazione e di trasmissione ereditaria.

Attraverso ciò, il DNA è diventato agente unico di tutti i processi evolutivi e di

sviluppo, causa deterministica di ogni aspetto del vivente. Anche per chiarire

questo aspetto è necessario fare riferimento alla prima formulazione di Watson.

L’altra proprietà messa in evidenza dal dogma centrale era la capacità del DNA

di replicare se stesso, in modo da garantire, durante i processi di divisione

cellulare, la trasmissione inalterata dello stesso contenuto genico della cellula

madre ad entrambe le cellule figlie. Il DNA è una doppia elica, costituita da due

successioni di basi nucleotidiche fra loro complementari, secondo una rigida

corrispondenza biunivoca fra le basi. Durante il processo di replicazione del DNA, i

due filamenti si separano per fungere entrambi da ‘stampo’ per la sintesi di un

nuovo filamento complementare. In questa maniera a processo ultimato si

ottengono due copie identiche dello stesso materiale genetico9. Parallelamente, il

processo di trasmissione ereditaria trasmette e conserva il materiale genetico degli

organismi fino alle generazioni successive.

Tale struttura ha messo in evidenza la capacità del DNA di conservare la propria

struttura e di trasmettere le proprie informazioni alle generazioni successive. Al DNA

venivano attribuite peculiarità di organismi superiori, come la conservazione di se

stesso, una particolare capacità di organizzazione - soprattutto una propria

intenzionalità - espressa attraverso un proprio linguaggio. Tali sfumature toccarono

l’apice in testi scientifico-divulgativi, come il Gene egoista di Dawkins e sono

tuttora alla base della comunicazione scientifica della genetica.

3. Critica ad una teoria del linguaggio biologico

Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Le ricerche della genetica molecolare, della biologia cellulare e dello sviluppo,

non hanno mai fatto oggetto di analisi la possibilità di un linguaggio del DNA, ma

hanno reso propri alcuni termini della teoria dell’informazione genetica. Ad

esempio, l’associazione fra un gene ed una proteina viene identificata attraverso

l’espressione ‘il gene X codifica per …’, locuzione che ancora evidenzia un’azione

causativa e deterministica del gene e l’idea di una informazione che deve essere

interpretata. D’altro canto, la sperimentazione è rimasta indipendente da questa

rielaborazione. In altri campi, al contrario, la metafora dell’informazione genetica

ha trovato terreno più fertile. Non solo nella fase divulgativa, ma anche nel

tentativo di creare una teoria più generale dell’azione genetica, nonché nel

contributo di diversi filosofi della biologia. Bisogna inoltre tenere presente che molti

studi informatici legati allo sviluppo biologico basano le proprie ricerche sull’idea

di un contenuto informativo del DNA. Al giorno d’oggi tuttavia resta una

interpretazione parziale e fuorviante della realtà dei processi biologici che dal

DNA portano allo sviluppo dell’organismo.

In primo luogo, bisogna prendere in considerazione il fatto che il DNA non sia

coinvolto direttamente nel processo di sintesi delle proteine. La sua conservazione

è fondamentale per la corretta trasmissione del materiale genetico da una

generazione all’altra. La caratteristica fondamentale degli organismi eucarioti è

proprio quella di essere dotati di due compartimenti intracellulari sufficienti a

separare sia spazialmente che temporalmente i processi di decodifica

dell’informazione contenuta nel DNA ed il processo di sintesi delle proteine10.

Molti sono gli aspetti relativi ai processi di sintesi proteica che ai tempi della

formulazione del dogma centrale non erano stati ancora approfonditi. Non solo il

processo di traduzione, ma anche tante rielaborazioni a cui l’RNA viene sottoposto

fra la sua genesi ed il momento in cui raggiunge i ribosomi, che - sebbene note -

non erano ancora state comprese in termini chimici. Un caso esemplare è il

fenomeno dello splicing, in cui vengono eliminati gli introni dal neotrascritto di

RNA. L’idea che alcuni segmenti venissero interpretati come non-senso, mentre

altri segmenti fossero conservati come significativi, contribuiva senz’altro a

Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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fomentare l’opinione secondo cui quanto contenuto nel DNA e trasmesso

dall’RNA ai ribosomi fosse portatore di un significato intrinseco nella stessa

struttura11. Inoltre, Il DNA non ha nessun ruolo attivo nelle fasi di espressione genica

e non è capace di conservare se stesso al di fuori dell’attività delle proteine che

proteggono la sua struttura. La lettura, la trascrizione del DNA, la disgiunzione e la

ricongiunzione dei due filamenti, le diverse ‘riparazioni’ a cui è sottoposto, sono

tutti processi gestiti e regolati da proteine in cui il DNA ha un ruolo passivo. Nei

processi di duplicazione intervengono poi strutture cellulari, come la membrana e i

microtubuli, dei quali né la composizione né le funzionalità dipendono in alcun

modo da una qualche informazione contenuta nel DNA.

La possibilità che il contesto cellulare fosse in grado di assemblare catene di

amminoacidi seguendo istruzioni contenute nella sequenza di basi nucleotidiche

sembrava comunque implicare la trasmissione di significato o, come diventerà

presto consuetudine dire, di informazione, fra i due sistemi distinti12.

Bisogna tener presente che in questo stesso periodo, sebbene antecedente per

formulazione ma già parzialmente confutata dai nuovi studi, l’espressione “un

gene, un enzima” manteneva tutto il suo vigore. Questa concezione aveva due

risvolti teorici essenziali: da una parte la perfetta corrispondenza fra gene e

proteina - da cui nessun ricercatore riusciva - e riesce tuttora a prescindere in

qualsiasi studio debba affrontare; dall’altra, il fatto che il gene venisse interpretato

ancora come l’unico fattore causale della produzione delle proteine all’interno

della cellula, mentre venivano completamente ignorati tutti gli altri processi

cellulari. Nel 1970, ad esempio, il dizionario di biologia edito da Garzanti, definisce

ancora i geni come corpuscoli microscopici situati nei cromosomi dai quali

dipendono tutti i caratteri degli organismi. Indipendentemente dalla loro

descrizione fisica, è evidente come i geni fossero considerati concretamente

‘agenti’ nel contesto cellulare. L’idea che un qualcosa dovesse comunque essere

trasmesso si impose, a mio avviso, come il miglior modo di unificare

concettualmente entità che sono fisicamente distanti come il gene e la proteina

e che non interagiscono in maniera diretta. L’idea che ad essere trasmessa fosse

una sorta di informazione conciliava non solo questa difficoltà, ma anche quelle

Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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legate alla presenza di linguaggi fisici radicalmente differenti, sfruttando i successi

che la teoria informatica riscuoteva in quegli anni in diversi settori. L’introduzione di

un linguaggio a tratti teleonomico nella caratterizzazione dei processi, condizionò

l’interpretazione di tutti i processi che vedevano coinvolto il genoma,

attribuendogli molte peculiarità che le tecniche di quel periodo non

permettevano di individuare, ed in particolare un ruolo attivo nella regolazione dei

vari processi13.

Nel ventennio a seguire, i rapidi progressi della biologia molecolare avevano

messo in luce la maggior parte dei meccanismi che dal DNA portano alla sintesi

delle proteine, ma l’immagine di un’informazione, contenuta nei geni ed espressa

con un linguaggio proprio nella costituzione del prodotto proteico, continuava a

rafforzarsi. Il grande merito di questa ‘metafora’ è stato quello di conservare una

visione di insieme molto robusta dei processi cellulari, mentre la considerazione dei

dettagli dei singoli meccanismi risultava sempre meno efficace e difficilmente

integrabile nel contesto man mano che ci si allontanava dal singolo processo14.

Sebbene si ponesse come una metafora efficace, non si è comunque dimostrata

in grado di integrare i successivi risultati ottenuti dalla biologia molecolare e dalla

biologia dello sviluppo. Questa teoria, infatti, ha presto perso la sua componente

metaforica15 ponendosi come rigida interpretazione dei processi di sintesi delle

proteine, prima, e successivamente dell’intero processo di sviluppo

dell’organismo.

Focalizzando l’attenzione su questo secondo aspetto, l’idea di un’informazione

rigidamente interpretata dal contesto cellulare e dall’organismo ha

completamente distolto l’attenzione dal ruolo svolto dai fattori non genetici dello

sviluppo, disconoscendo le nuove scoperte riguardanti il ruolo dei fattori extra-

genetici in questo contesto teorico16. Per le stesse basi di questa teoria, parlare di

informazione a riguardo dei processi di sviluppo, conferisce, consciamente o

inconsciamente, un ruolo causale prioritario all’aspetto genetico, proprio perché

su questo aspetto la teoria è stata formulata17. Quando, al contrario, si tenta di

tradurre gli altri fattori negli stessi termini, il loro potenziale esplicativo perde

efficacia, in quanto troppo distanti da questo livello di spiegazione.

Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Nell’ultimo decennio la possibilità di una continua conciliazione fra ricerca e dati

sperimentali da una parte e la teoria dell’informazione dall’altra, si è resa

maggiormente impraticabile. In questo periodo, lo studio dei sistemi di eredità

epigenetici, che per il momento possiamo definire semplicemente come tutti quei

sistemi di eredità non direttamente genetici, è diventato pregnante per la stessa

comprensione delle strategie di sviluppo adottate dall’organismo, al fine di

avviare una nuova ridefinizione teorica in grado di renderne conto attribuendo a

tali sistemi una pari dignità rispetto al materiale genetico, diversi autori spingono

ora verso un ripensamento sia di alcuni concetti che della terminologia della

materia.

Daniele Romano

[email protected]

Note

1. Non legato allo sviluppo del linguaggio umano, né sul piano dello sviluppo, né sul piano

evolutivo.

2. Watson, 1968. Il dogma centrale riassume in un breve schema le funzioni del DNA.

3. Watson delinea la catena di processi che portano alla sintesi di una proteina nella maniera

seguente: gene (o filamento di DNA) → filamento di RNA → Proteina, dove ogni anello è

causativo ed ogni azione unidirezionale.

4. La prima descrizione esauriente è di Watson (1953, 1968).

5. Si veda Graham (2002); Morante (1998).

6. Si veda Sterelny (1999).

7. ‘Ordine’ è inteso come risultante di una informazione trasmessa.

8. Si veda Graham (2002).

9. Si veda Watson (1953b, 1968).

10. Si veda Moss (2004).

11. Si veda Keller (2000); Sterelny (1999).

12. Si veda Graham (2002).

13. Si veda Blute (2004). “Viewing the genome with its protein packaging as a brain gets ridof Gods

and ghosts while plausibly integrating machine and information-based views. While the

‘wetware’ of brains and genomes are very different, many fundamental principles of how they

Daniele Romano, Si può parlare di linguaggio del biologico? – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

84

function are similar. Eukaryotic cells are compound entities in which case the nuclear genome

might best be thought of more as a government than simply as a brain.”

14. Si veda Godfrey-Smith (2000b).

15. Si veda Griffiths (2001).

16. Si veda Keller (1999).

17. Si veda Oyama (2001); Griffiths (2001).

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‘BIOLINGUISTICA’: DA NOAM CHOMSKY A ANDREA MORO

LORENZO MESSERI

1. Chomsky e la Biolinguistica

All’interno della ormai lunga storia della linguistica generativa di Noam Chomsky

esiste un filo rosso che – negli intenti del linguista americano – serve a tenere la

teoria della Grammatica Universale (GU) ancorata alle scienze cognitive: la

linguistica, as the Chomskyan views it,1 ha come fine ultimo l’elaborazione di una

teoria in grado di integrarsi con le indagini sperimentali in campo neuroscientifico.

In questo articolo cercherò di riepilogare – alla luce degli sviluppi più recenti – il

punto di vista di Noam Chomsky sulla biolinguistica e sulle più o meno fruttuose

‘interazioni’ tra questa disciplina e le neuroscienze: in particolare, prenderò a titolo

esemplificativo alcune ricerche condotte negli ultimi anni a cura di – per la prima

volta – èquipe di lavoro miste tra neuroscienziati e linguisti.

Perchè questo? Per tre ragioni: la prima è che, nonostante pur autorevoli voci di

dissenso, la GU rimane ancora oggi una ‘teoria efficace’2 e, come tale, è giusto

mantenere vivo il dibattito su di essa; la seconda è che poche altre teorie del

linguaggio riescono quanto la GU ad interagire con le neuroscienze nella ricerca

del complesso di meccanismi biologici alla base del linguaggio; la terza è che

oggi è realmente possibile un confronto scientifico tra le più recenti formulazioni

teoriche della GU e le indagini sperimentali. Alcune di queste riescono a dare

prova di una sostanziale fondatezza dell’ipotesi chomskiana.

Per ragioni di sintesi in questo articolo compariranno, laddove necessario,

riferimenti solo alle versioni più recenti della GU (Modello dei Principi e dei

1 Per parafrasare il titolo della celebre opera di Watson del 1913, Psychology as the Behaviorist

Views it, che segnò la nascita del comportamentismo. 2 Nel senso usato da S. Hawking, The Universe in a Nutshell, The Book Laboratory, London 2002; trad.

it. L’Universo in un guscio di noce, Mondadori, Milano 2002, p. 35.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

92

Parametri, PP, e Programma Minimalista, PM), dando per scontate la conoscenza

della GU e delle più recenti prospettive chomskiane sul linguaggio3.

Gli argomenti principali che Chomsky porta a sostegno della natura

essenzialmente biologica del linguaggio sono i seguenti:

Il linguaggio è una facoltà specie-specifica dell’uomo: non è data la conoscenza

di nessun altro animale in possesso di una simile caratteristica. Come tale, lo studio

della facoltà del linguaggio (FL) non può fare affidamento sullo studio di altre

forme di comunicazione in specie diverse. Nel cervello umano esiste una sorta di

‘architettura interna4’ che sottostà alla produzione del linguaggio. In tutte le lingue

fino ad ora esaminate esistono strutture sintattiche riconducibili a procedure simili

di costruzione grammaticale.

Accanto ad una facoltà del linguaggio in senso esteso (FLB) che include, fra gli

altri, i sistemi senso-motorio e concettuale-intenzionale, il solo cervello umano è

dotato di una facoltà del linguaggio in senso stretto (FLN), una sorta di kernel di FL,

dotata della capacità di ‘processare’ il linguaggio secondo caratteristiche di

ricorsività e infinità discreta.

Il linguaggio è caratterizzato da processi fondamentali di funzionamento che non

possono essere totalmente appresi; tali processi – la grammatica universale –

fanno parte del bagaglio genetico del cervello umano, e consentono

l’apprendimento di una lingua in tempi rapidissimi.

La facoltà del linguaggio si caratterizza come una sorta di ‘modulo’ cerebrale

privilegiato per quanto concerne l’apprendimento del linguaggio: in questo senso

FL è un vero e proprio ‘organo’ del corpo umano.

3 Si vedano: N. Chomsky, The Minimalist Program, The MIT Press, Cambridge 1995; N. Chomsky, Minimalist Inquiries: the Framework, ms., The MIT Press, Cambridge 1998; N. Chomsky, An On-Line

Interview with Noam Chomsky: On the Nature of Pragmatics and Related Issues, «Brain and Language», 68, Issue 3, 1999, pp. 393-401, in Internet:

<http://cogprints.ecs.soton.ac.uk/archive/00000126/00/chomsweb_399.html> [02/04]; N. Chomsky, The Biolinguistic Perspective After Fifty Years, Lezione Magistrale, Università degli Studi di Firenze,

2004. 4 In questo articolo adotterò il termine «architettura» (interna, cognitiva) nel senso impiegato in L.

Aprile, Linguaggio lessicale e conoscenza sociale nel bambino, Giuffrè, Milano 1993, p. 8.). Si veda anche J. Fodor, The Modularity of Mind: an Essay on Faculty Psychology, The MIT Press, Cambridge

1983; trad. it. La mente modulare, Il Mulino, Bologna 1999.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

93

La povertà dello stimolo: si può dire che l’ambiente in cui il bambino apprende la

lingua è ricco di lessico ma è povero di struttura. Non accade mai che il genitore

(o chi per lui) insegni la sintassi al bambino. Il bambino impara una lingua in modo

assai veloce: a) senza commettere errori di sintassi;5 b) producendo e/o ricreando

le regole laddove non ci sono (ad es. nel pidgin). Nel corso dello sviluppo il

bambino sente pronunciare enunciati quasi sempre corretti sintatticamente, o

quanto meno che non violano le più basilari proprietà sintattiche espresse dalla

GU. Questo significa che il bambino deve poter fare a meno di un elemento,

quello dell’errore, che invece è fondamentale nei processi di apprendimento.6

L’influenza dell’ambiente nello sviluppo del linguaggio è determinante al pari di

quanto lo è ai fini dello sviluppo di pressoché tutte le altre facoltà mentali e

capacità fisiche; in altre parole, senza uno stimolo appropriato, il cervello umano

non riesce a sviluppare la facoltà del linguaggio, così come rimarrebbe

irrimediabilmente cieca una persona costretta a vivere al buio per i primi anni

dello sviluppo.7

Una diretta conseguenza della natura biologica del linguaggio è che la sua

varietà ‘esecutiva’ – la moltitudine di lingue parlate nel mondo – è apparente:

alcune proprietà fondamentali del linguaggio sono osservabili in tutte le lingue

naturali conosciute; le uniche variazioni riscontrate dalle analisi comparative in

linguistica sono, per così dire, ‘interpretazioni’ di queste proprietà. Le lingue

naturali variano molto per quanto concerne gli aspetti fonologici e morfologici,

ma poco – o, meglio, sono soggette ad importanti restrizioni – dal punto di vista

della sintassi; questo perché il cervello umano è in grado di elaborare solamente

un certo ‘tipo’ di sintassi.

5 S. Pinker, The Language Instinct: How the Mind Creates Language, Morrow, New York 1994; trad. it. L’istinto del linguaggio. Come la mente crea il linguaggio, Mondadori, Milano 1998. 6 Sull’importanza dell’errore e del feedback nelle fasi di apprendimento si veda L. Trisciuzzi, F. Corchia, Manuale di pedagogia sperimentale, 3° ristampa, Edizioni ETS, Pisa 1999, pp. 137-170. 7 Come ammette Cook (V. Cook, M. Newson, Chomsky’s Universal Grammar. An Introduction, 2nd Ed., Basil Blackwell, Oxford 1996; trad. it. La Grammatica Universale – Introduzione a Chomsky,

Nuova Edizione, Il Mulino, Bologna 1996), le teorie ‘ambientaliste’ sull’apprendimento linguistico nel bambino possono rappresentare un complemento all’approccio chomskiano nella misura in cui la

GU si pone come core di una ipotetica teoria integrata dell’apprendimento linguistico.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Esiste una differenza sensibile tra il livello di conoscenza della madrelingua e di

un’altra lingua imparata dopo i primi anni di vita. Così come per altre funzioni (il

movimento, la percezione, l’udito, ecc.), sembra esserci uno stadio biologico in

cui l’apprendimento del linguaggio è favorito. Per altro, la specializzazione dello

sviluppo di funzioni specifiche negli organismi viventi è verosimilmente inscritta nel

nostro patrimonio genetico: poiché la capacità di imparare una lingua si realizza

in un dato momento dello sviluppo, è lecito ipotizzare che essa dipenda da una

particolare predisposizione del cervello (determinata geneticamente) e dalla

necessità dello stimolo ambientale.

Le indagini neurologiche confermano l’esistenza di aree del cervello specializzate

(anche se in modo non esclusivo) per il linguaggio; il che rende plausibile l’ipotesi

che esista un unico modo – caratteristico della specie umana – in cui il linguaggio

viene prodotto.

La biolinguistica – in un confronto con le neuroscienze – si trova oggi nelle stesse

condizioni in cui si trovava la chimica nei confronti della fisica agli inizi del ‘900:

una teoria ancora non del tutto unificabile in una disciplina ‘forte’, poiché ancora

non sono stati costruiti gli strumenti adatti per farlo.

Una precisazione sull’ultimo punto: la principale leva che, secondo Chomsky,

dovrebbe avvicinare la linguistica generativa alle neuroscienze è che la teoria

della GU dovrebbe fornire strumenti formali in grado di rendere conto delle

cosiddette «condizioni di leggibilità all’interfaccia»:8 l’ipotesi è che FL sia ‘costruita’

secondo criteri di economia in relazione agli altri sistemi cognitivi con cui deve

interfacciarsi; il principio di economia consiste in questo caso nell’individuare le

modalità con cui si connettono le rappresentazioni di interfaccia, cioè le

condizioni necessarie e sufficienti attraverso cui FL ‘parla’ con le altre

componenti.9 Non esistono più soltanto uno stato iniziale L0 e uno finale L1 per la

8 N. Chomsky, Su natura e linguaggio, Ed. Università degli Studi di Siena, 2001, p. 76. 9 L’idea chomskiana del linguaggio come organo biologico è qui piuttosto evidente: «La facoltà

del linguaggio deve interagire con tali sistemi, altrimenti non è utilizzabile per niente. […] dato che il linguaggio è essenzialmente un sistema di informazione, l’informazione che immagazzina deve

essere accessibile a quegli altri sistemi. […] L’informazione che fornisce è ‘leggibile’ da questi

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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facoltà del linguaggio, ma una successione di stati che la GU deve essere in

grado di spiegare in termini di completa leggibilità all’interfaccia.

Il tema centrale del recente Programma Minimalista, PM, è proprio quest’ultimo: se

il sistema linguistico deve rispettare condizioni di economia delle rappresentazioni,

le rappresentazioni della struttura sintattica non devono contenere più elementi di

quelli necessari. Secondo l’approccio minimalista le nozioni di struttura-p e

struttura-s non appaiono più necessarie: poiché la lingua è un sistema di

collegamento fra suono e significato, «le uniche rappresentazioni veramente

necessarie si trovano all’interfaccia dei componenti semantico e fonetico del

sistema linguistico».10 Il PM si chiede se sia possibile che «il sistema stesso del

linguaggio corrisponda ad una sorta di ‘disegno’ ottimale».11 In altre parole,

sostiene Chomsky, affrontare la natura biologica del linguaggio implica chiedersi

«fino a che punto sia ben disegnato il sistema»12 per soddisfare le «condizioni di

accessibilità» con gli altri sistemi interni del cervello:

[…] per esempio, a livello sensomotorio non si può avere una parola che non sia

espressa foneticamente, perchè il sistema sensomotorio non saprebbe cosa fare. […] E

lo stesso sarà vero all’interfaccia con il pensiero: si devono eliminare i tratti non

interpretabili.13

Chomsky ritiene che FL sia progettata in modo da soddisfare condizioni di

interpretabilità tra architetture cognitive: il movimento sintattico potrebbe essere

un modo attraverso il quale sono ‘eliminati’ aspetti sintattici non interpretabili.

Quindi, il movimento sintattico sarebbe in qualche modo ‘innescato’ dalla

presenza di tratti non interpretabili.14

sistemi? È come chiedersi: il fegato è accessibile agli altri sistemi con cui interagisce?» (Chomsky, Su

natura e linguaggio, cit., p. 60). 10 Cook, Newson, La Grammatica Universale, cit., p. 345). 11 Chomsky, Su natura e linguaggio, cit., p. 52. 12 Ivi, p. 59. 13 Ivi, p. 60. 14 Non tutti sono concordi con questa visione: in un recente contributo (A. Moro, Linear

compression as a trigger for movement, in Riemsdijk, H. van - Breitbarth, A (a cura di) Triggers, Mouton de Gruyter, Berlin,2004), Andrea Moro ipotizza che il movimento sintattico riguardi per lo

più aspetti di interfaccia con il componente fonologico-articolatorio.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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La linguistica come scienza cognitiva segue gli stessi metodi sperimentali adottati

dalle altre scienze cognitive che si occupano di indagare le capacità mentali. Dal

momento che l’indagine diretta sul cervello non è possibile, non resta che

procedere all’analisi comparativa degli enunciati delle varie lingue naturali, sulla

grammaticalità dei quali può essere indicativo il giudizio dei parlanti nativi delle

lingue prese in esame. Non solo l’indagine diretta non è possibile, ma potremmo

non possedere gli strumenti adatti per ‘leggere’ i dati:

Supponiamo che le nostre conoscenze siano contenute in qualche curiosa specie di

registro all’interno del cervello. L’informazione presente nel registro non è immagazzinata

in forma leggibile da noi osservatori esterni. Perché dovrebbe esserlo? L’informazione

non è lì per il beneficio di osservatori esterni, ma per essere usata dal resto del cervello.15

2. La facoltà di linguaggio in a narrow sense

In un ormai famoso articolo pubblicato su Science nel 200216 Hauser, Chomsky e

Fitch (HCF) ipotizzano che la facoltà del linguaggio in senso stretto sia costituita

essenzialmente da un sistema computazionale ristretto (narrow syntax) che

genera rappresentazioni interne e le dirige all’interfaccia senso-motoria tramite il

sistema fonologico, e all’interfaccia concettuale-intenzionale attraverso il sistema

semantico.17 Fattori interni all’organismo, ma esterni alla FLB – quindi esterni anche

alla FLN – impongono restrizioni all’uso di questo sistema: ad esempio, la capacità

respiratoria dei polmoni condiziona la lunghezza delle frasi producibili, mentre la

memoria di lavoro impone limiti sulla complessità delle frasi che devono essere

capite. Altri limiti, per esempio sulla formazione dei concetti o sulla velocità

dell’output motorio, sono invece aspetti della FLB con una propria storia evolutiva

che possono avere influenzato l’evoluzione della FLN, anche se, essendo

15 R. Jackendoff, Patterns in Mind: Human Language and his Nature, Hemel Hempstead, Harvester

Wheatsheaf 1993; trad. it. Linguaggio e natura umana, Il Mulino, Bologna 1998, p. 67. 16 M. D. Hauser, N. Chomsky, T. W. Fitch, The Faculty of Language: What Is It, Who Has It, and How

Did It Evolve?, «Science», 298, 2002, pp. 1569-1579. 17 Rispettivamente, Forma Fonetica e Forma Logica, così come ipotizzate dalla teoria della

Grammatica Universale.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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plausibilmente condivisi da altri esseri viventi – e questa è una svolta di notevole

importanza nel pensiero chomskiano – possono non essere considerati nello studio

dell’evoluzione di questa componente della facoltà del linguaggio, che è

esclusivamente in dotazione alla nostra specie;18 in sintesi, ciò che

contraddistingue il linguaggio dell’uomo sono l’infinità discreta19 e le proprietà

ricorsive della grammatica, che consentono modi potenzialmente infiniti di

espressione linguistica (e anche infiniti modi di espressione linguistica del pensiero)

sfruttando un limitato numero di regole.20 Questi aspetti sembrano mancare del

tutto nella comunicazione animale.

HCF postulano che la FLN – la facoltà del linguaggio in senso stretto – sia specie-

specifica per l’uomo, e che si sia evoluta in un secondo momento rispetto alla

facoltà del linguaggio estesa; quest’ultima sarebbe invece basata su meccanismi

biologici condivisi con altre specie animali. La maggior parte della complessità

che si manifesta nel linguaggio deriverebbe perciò dalla complessità delle

componenti periferiche della FLB: le interfacce senso-motorie e concettuali-

intenzionali, combinate con gli imprescindibili fattori socio-ambientali. La FLB, nel

suo complesso, ha un’antica storia evolutiva, di molto anteriore alla comparsa del

linguaggio e contiene molti meccanismi cognitivi e percettivi condivisi da altre

specie. La FLN, dal canto suo, comprende solo i «core mechanisms of recursion»,21

dunque solo le proprietà ricorsive del linguaggio, che esclusivamente l’ Homo

Sapiens sembra possedere.

18 Jackendoff (Linguaggio e natura umana, cit., pp. 227-235) osserva che la musica, in quanto

«attività esclusivamente umana», presenta connotati di infinità discreta e proprietà ricorsive: la capacità di percepire un senso nei brani musicali implicherebbe l’esistenza di una «grammatica

musicale inconscia» che organizza la nostra comprensione della musica. Al di là dell’apprendimento ambientale, «la nostra capacità inconscia di costruire grammatiche musicali

esige alcune risorse innate soggiacenti, che non si riducono alla capacità di ‘assorbire’ sequenze di suoni». 19 «The core property of discrete infinity is intuitively familiar to every language user. Sentences are built up of discrete units: there are 6-word sentences and 7-word sentences, but no 6,5-word

sentences.» (Hauser et al., The Faculty of Language, cit., p. 1571). 20 «FLN takes a finite set of elements and yields a potentially infinite array of discrete expressions. This

capacity of FLN yields discrete infinity (a property that also characterizes the natural numbers). Each of these discrete expressions is then passed to the sensory-motor and conceptual-intentional

systems, which process and elaborate this information in the use of language.» (Hauser et al., The Faculty of language, cit., p. 1571). 21 Ivi, p. 1573.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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In che modo portare avanti l’idea di una componente ristretta di FL che sia

esclusiva della specie umana? Chomsky ritiene che le indagini di anatomia ed

etologia comparata possano in futuro fornire una risposta a tale domanda.

Relativamente al sistema concettuale-intenzionale non linguistico degli animali,

molti studi indicano che mammiferi non umani e uccelli possiedono ricche

rappresentazioni concettuali, cui però non fa riscontro un’adeguata capacità

comunicativa. Pertanto, secondo Chomsky, lo scarto tra l’uomo e gli altri animali

dotati di sistemi di comunicazione22 è dato dal sistema computazionale che lega

la facoltà del linguaggio alle funzioni concettuali-intenzionali. Questo sistema

computazionale, particolarmente evoluto nell’uomo,23 è in grado di costruire un

insieme virtualmente infinito di espressioni interne a partire dall’insieme finito del

sistema intenzionale concettuale24 e deve fornire gli strumenti per esprimerli e

interpretarli a livello senso-motorio;25 inoltre, questo sistema computazionale è

responsabile del grado di fitness del bambino in fase di apprendimento della

lingua.

Recentemente sono stati elaborati alcuni modelli matematici di in grado di

simulare filogenesi e processo di apprendimento del linguaggio, su cui vale la

pena soffermarsi brevemente.

22 Gli autori riportano a questo proposito un parallelismo tra l’ampiezza del sistema comunicativo del cercopiteco e quella dell’uomo; il giudizio è un perentorio «additional evidence is required

before such signals [quelli del cercopiteco] can be considered as precursors for, or homologs of, human words» (Ivi, p. 1576).

23 Come ampiamente riconosciuto, rapidità di apprendimento e caratteristiche semantiche del lessico appreso distinguono nettamente l’uomo da qualsiasi altro primate: « […] the rate at which

children build the lexicon is so massively different from nonhuman primates that one must entertain the possibility of an independently evolved mechanism. […] most of the words of human language

are not associated with specific functions.» (Ibidem). Si ripropone, in questo passaggio, l’argomento della ‘povertà dello stimolo’, secondo il quale un bambino è esposto solo ad una

piccola porzione dell’insieme di tutte le frasi possibili nella propria lingua madre. 24 « […] no species other than humans has a comparable capacity to recombine meaningful units

into an unlimited variety of lager structures, each differing systematically in meaning.» (Ibidem). 25 In termini più strettamente linguistici, scriveva Chomsky qualche anno prima, data una lingua

particolare L e una facoltà del linguaggio FL, «L è una procedura ricorsiva che genera un’infinità di espressioni. Ciascuna espressione può essere considerata come una raccolta di informazioni per

altri sistemi della mente/cervello» (Chomsky, Su natura e linguaggio, cit., p. 34).

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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A circa due anni di distanza dall’articolo su Science di Chomsky, Hauser e Fitch,

Steven Pinker e Ray Jackendoff rispondono considerando ‘problematica’ l’ipotesi

che la ricorsività sintattica sia ciò che rende unico il linguaggio umano rispetto ad

altre forme di comunicazione nelle altre specie.26 Pur condividendo in linea di

principio il modello duale tra Facoltà del linguaggio in senso ristretto e Facoltà del

linguaggio in senso esteso, Pinker e Jackendoff (PJ) evidenziano che un’ipotesi

forte come la FLN nei termini di Chomsky mal si concilia con alcune evidenze

sperimentali e di anatomia comparata le quali piuttosto tenderebbero a

considerare FL non come un sistema ottimale sviluppatosi nel cervello inizialmente

per altri scopi e poi diventato determinante per il linguaggio-sistema di

comunicazione, bensì – ribaltando tale visione a centottanta gradi - un sistema

che si è evoluto di concerto con i sistemi percettivi e senso-motori e che fin

dall’inizio ha avuto funzioni di comunicazione.

PJ sottolineano che il modello della FLN/FLB è in qualche modo figlio del

Programma Minimalista, che negli anni Novanta del secolo scorso ha mirato ad

una semplificazione/riduzione dei cosiddetti principi e parametri della GU

cercando di individuare i meccanismi primi che causano aspetti della

grammatica come il movimento sintattico e la dipendenza dalla struttura. Così

facendo, si è giunti a formulare l’ipotesi della ricorsività come elemento che

governa la FLN, ma si è arrivati a tralasciare aspetti della stessa grammatica che

non sono spiegabili esclusivamente nei termini del principio di ricorsività o

dipendenza dalla struttura, ma che sono ugualmente determinanti in una lingua.

In sintesi, la critica di PJ al Chomsky di inizio nuovo millennio abbraccia sia gli

aspetti più tecnici della GU (non tutti i linguisti sembrano aver digerito il

Programma Minimalista), sia le questioni meramente biologico-evolutive.

La contro-risposta di Fitch, Hauser e Chomsky (FHC) non si è fatta attendere molto.

In un articolo del 200527 i tre rivendicano il modello duale di FLB e FLN precisando

26 S. Pinker, R. Jackendoff, The Faculty of Language: What’s Special About It?, «Cognition», 1376,

2004, in Internet: http://pinker.wjh.harvard.edu/articles/papers/2005_03_Pinker_Jackendoff.pdf [01/08] 27 W.T. Fitch, M.D. Hauser, N. Chomsky, The evolution of the language faculty: Clarifications and implications, Cognition, 97, 2005, pp. 179-210, in Internet:

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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che tale distinzione terminologica può essere utile per studiare al meglio gli aspetti

biologici del linguaggio, per i quali è necessario ‘frazionare’ la FL delimitandone i

meccanismi di interfaccia con gli altri sistemi biologici ed evidenziandone il nucleo

caratteristico del cervello umano. FHC inoltre precisano che FLN riguarda ‘come

minimo’ gli aspetti legati alle proprietà ricorsive della grammatica, lasciando

campo aperto anche ad altri aspetti fondanti FL.

Riguardo la critica di PJ al collegamento FLN – Programma Minimalista, FHC

ribattono che tale collegamento rappresenta una forzatura interpretativa da

parte di PJ e che non è mai stato nelle intenzioni di FHC spingersi oltre alcune

considerazioni di massima:

we did suggest and maintain here that a core element of FLN may be structured by

considerations of efficient use of the core computational mechanisms of recursion; this is the

only place where the discussion in HCF ties in directly to the minimalist program. 28

Infine, per quanto concerne la diversità di vedute sugli aspetti evolutivi di FL, in

questo contributo troviamo nuovamente un Chomsky estremamente prudente il

quale liquida le ipotesi adattative del linguaggio come speculazioni prive di

fondamenti scientifici validi a causa della ‘cronica’ mancanza di evidenze

sperimentali circa la storia evolutiva del linguaggio.

Nell’ultimo round29 del dibattito tra Chomsky, Hauser e Fitch da una parte,

Jackendoff e Pinker dall’altra, questi ultimi (JP) insistono nel criticare la separazione

troppo netta tra FLN e FLB che creerebbe una dicotomia tra sistemi cognitivi

specificatamente umani e non: tale separazione ometterebbe di considerare

capacità che possono aver conosciuto un’evoluzione nel corso della storia della

specie umana. Altre dicotomie problematiche, secondo JP, riguardano il

considerare FLN come un trans-adattamento di una funzione originariamente http://www.wjh.harvard.edu/~mnkylab/publications/languagespeech/FitchHauserChomksyLangFacCog.pdf [01/08] 28 Ivi, p. 184. Per approfondimenti, in Internet: www.wjh.harvard.edu/~mnkylab [01/08] 29 R. Jackendoff, S. Pinker, The Nature of the Language Faculty and its Implications for Evolution of Language (Reply to Fitch, Hauser, and Chomsky), Cognition, 97, 2005, pp. 211-225, in Internet:

http://pinker.wjh.harvard.edu/articles/papers/2005_09_Jackendoff_Pinker.pdf [01/08]

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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preposta ad altro che però in tale ottica appare troppo separata dalle altre

componenti anatomico-funzionali che concorrono alla produzione linguistica.

JP illustrano inoltre come certi aspetti ricorsivi siano presenti anche in altre

componenti cognitive come la percezione: in definitiva, JP contestano a Chomsky

e coautori il fatto di non considerare che aspetti ricorsivi sono presenti anche in

funzioni ‘di contorno’ alla FL – cioè nella FLB. Andando più a fondo negli aspetti

prettamente di teoria linguistica, JP rimarcano che un’ipotesi come quella della

FLN presuppone a monte una teoria come la GU secondo la più recente

prospettiva minimalista (quindi – nonostante Chomsky scriva il contrario – un

collegamento tra il Programma Minimalista e l’idea della FLN esisterebbe).

In altre parole, l’ipotesi di una distinzione tra FLN e FLB comporta – sul piano della

teoria linguistica – una separazione tra la grammatica e il lessico. Ma, osservano

JP, studi recenti ne evidenziano lo stretto rapporto, che di fatto mette quanto

meno in dubbio una netta separazione tra FLN e FLB.

3. Biolinguistica, genetica e anatomia funzionale

Esiste una correlazione tra il nostro codice genetico e le proprietà universali del

linguaggio postulate dalla GU? Se sì, in che termini? Ad oggi non si dispone di

strumenti per determinare con esattezza quali geni intervengano esattamente

nello sviluppo del linguaggio. D’altra parte, non un singolo gene, né un numero x

di geni, sono responsabili del linguaggio: come per tutte le proprietà di un

organismo vivente, determinate configurazioni di materiale genetico,

comprendente vari tipi di geni con varie funzioni,30 concorrono nello sviluppo di

una certa caratteristica dell’individuo. Variazioni anche minime in queste

particolari configurazioni portano a risultati completamente diversi. Riguardo al

linguaggio, si possono al massimo formulare ipotesi, delineare orizzonti di ricerca

30 E. Boncinelli, I presupposti biologici del linguaggio I. Aspetti evolutivi, «Lingue e Linguaggio», 1, Il

Mulino, Bologna 2003, pp. 147-159.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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che, se intrapresi, potranno offrire contributi di chiarezza: è quanto ha cercato di

fare Andrea Moro in un recente contributo.31

Il cervello umano può essere rappresentato come una struttura sistemica; un

modello sistemico consente di mettere nella giusta relazione caratteristiche ‘di

rete’ – «vi sono sistemi formati da diverse unità cerebrali interconnesse» e aspetti

modulari – «questi sistemi sono in effetti devoluti ad attività relativamente

separabili che costituiscono la base delle funzioni mentali». Il cervello è un «sistema

di sistemi»32 originato da un’architettura neurale su più livelli, il primo dei quali è

rappresentato dalle cellule cerebrali, i neuroni. Un dato a cui Damasio si appella

per sostenere l’ipotesi di un’architettura sistemica del cervello riguarda il fatto che,

a livello citologico,

molti neuroni parlano solo con altri neuroni che non sono molto distanti nell’ambito di circuiti

relativamente locali di nuclei e regioni corticali; altri, seppure dotati di assoni che si

protendono per diversi millimetri [...] nel cervello, entreranno in contatto soltanto con un

numero relativamente piccolo di tali neuroni.33

La conseguenza principale di tale disposizione è che l’attività del singolo neurone

dipende generalmente dal gruppo di neuroni che lo circonda e di cui fa parte.

Eventuali aree di specializzazione sono conseguenza del posto occupato da

gruppi di neuroni connessi in un certo modo all’interno di un sistema di più ampia

scala, il «supersistema di sistemi»34 di cui parla Damasio.

Riguardo al linguaggio, esistono aree specifiche nel cervello che si attivano in fase

di comprensione e produzione linguistica; anche altre aree cerebrali sono però

parzialmente coinvolte per il linguaggio. Inoltre, le stesse aree specifiche del

linguaggio si attivano anche in fase di svolgimento di altri compiti, come alcune

31 A. Moro, ‘Linguistica mendeliana’ ovvero quali domande su genetica e grammatica?, «Lingue e Linguaggio», 1, Il Mulino, Bologna 2002. 32 A. R. Damasio, Descartes’ Error. Emotion, Reason and the Human Brain; trad. it. L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 2001. 33 Ivi, p. 66. 34 Ibidem.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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funzioni motorie.35 Come possiamo interpretare, allora, l’ipotesi chomskiana di una

facoltà del linguaggio modulare in relazione al modello sistemico di Damasio?

Considerare le patologie afasiche una prova della ‘separazione’ del linguaggio

da altre funzioni cerebrali è quanto meno problematico: un modularismo ‘forte’

giustificabile dalle «sindromi patologiche ben definite» di cui parla Fodor36 è stato

smentito da (almeno) i seguenti dati:

• esistono disturbi afasici riconducibili a lesioni di altre strutture cerebrali come

la superficie mediale del lobo frontale, il polo temporale sinistro e il talamo;37

• le forme pure di afasie sono ancora oggi oggetto di discussione circa la loro

stessa esistenza come patologie autonome;38

• In generale, le afasie sono accompagnate da disturbi – anche se più lievi

rispetto a quello specifico del linguaggio – di tipo cognitivo,39 visivo e motorio;40

• Premesso che le patologie afasiche presentano un quadro piuttosto

eterogeneo, nell’evento patologico si assiste sia ad effetti collaterali in aree

cerebrali lontane dall’area lesionata, sia in genere ad un processo di ri-

organizzazione neurale inter- e post-traumatica: nella realtà clinica è infatti un

caso piuttosto raro che la lesione cerebrale resti strettamente confinata ad una

sola delle aree deputate al linguaggio.41 La generale plasticità che consente

una riorganizzazione della facoltà del linguaggio conseguentemente ad un

evento traumatico è stata oggetto di numerosi studi.42

Gli studi sulle patologie afasiche confermano sia l’esistenza di una «localizzazione»

di una «funzione cognitiva specifica come il linguaggio», sia una più generale

«asimmetria» degli emisferi cerebrali: «il linguaggio può venir localizzato in uno dei 35 P. Lieberman, Human Language and Our Reptilian Brain, Harvard Univ. Press, Cambridge (MA) and London, UK 2000., p. 27 36 J. Fodor, The Modularity of Mind: an Essay on Faculty Psychology, The MIT Press, Cambridge 1983; trad. it. La mente modulare, Il Mulino, Bologna 1999, p. 154. 37 E. Bisiach, et al., Neuropsicologia clinica, Franco Angeli, Milano 1993, p. 37. 38 Ivi, p. 33. 39 Lieberman, Human Language, cit., pp. 95-96. 40 Bisiach, et al., Neuropsicologia, cit., p. 40. 41 Ivi, pp. 38-39. 42 Si vedano, ad esempio, i riferimenti bibliografici in H. Neville, D. Bavelier, Neural Organization and Plasticity of Language, in «Current Opinion in Neurobiology», 8, pp. 254-258, 1988, in Internet:

<http://biomednet.com/elecref/0959438800800254> [02/04].

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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due emisferi», anche se non si tratta di una «facoltà semplice, ma costituisce un

insieme di facoltà delle quali le due principali, la comprensione e l’espressione,

possono oggi venire distinte in base alle loro localizzazioni regionali».43 Dati

sperimentali evidenziano che le interconnessioni tra le aree specifiche del cervello

sono determinanti per il quadro cognitivo generale dell’individuo: in un recente

contributo, che indaga una possibile relazione tra la computazione linguistica e

alcune aree specifiche del cervello, Caramazza e Finocchiaro riportano una serie

di studi i cui risultati «lasciano supporre che due circuiti neurali separati

nell’emisfero sinistro siano coinvolti nella rappresentazione dei nomi e dei verbi».44

Un circuito fronto-parietale (comprendente le parti del lobo frontale situate

anteriormente e superiormente all’area di Broca) sarebbe principalmente

implicato nell’elaborazione dei verbi, mentre un circuito fronto-temporale

(comprendente le parti inferiore e posteriore del lobo frontale) sarebbe

principalmente implicato nell’elaborazione dei nomi.45 È evidente, in questo tipo di

ricerche, l’importanza che la linguistica come scienza cognitiva può rivestire in

campo neuroscientifico, anche a prescindere dalla ‘ortodossia’ chomskiana.

Philip Lieberman ipotizza l’esistenza di un Functional Language System (FLS)

rappresentato da una rete di circuiti neurali che si attivano simultaneamente per

manifestare un particolare comportamento che contribuisce alla fitness

dell’organismo; in altre parole, un sistema che contribuisce ad assicurare la

sopravvivenza della propria specie.46 I gangli basali rappresentano alcuni tra gli

elementi chiave del FLS: in genere associati al controllo motorio, e

filogeneticamente risalenti ad un’anatomia cerebrale presente anche nei rettili, i

gangli basali riflettono la storia evolutiva del FLS nella misura in cui la selezione

naturale ha operato e reso possibile risposte di tipo neurale (cognitivo) nell’uomo,

43 E. R. Kandel, J. H. Schwartz, Principles of neural science, Elsevier Science Publishing Co., New York 1985; trad. it. Principi di neuroscienze, Casa Editrice Ambrosiana, Milano 1988, p. 739. 44 A. Caramazza, C. Finocchiaro, Classi grammaticali e cervello, «Lingue e Linguaggio», 1, Il Mulino, Bologna 2002. 45 «dove, per nomi e verbi, si intende l’insieme dei tratti lessicali e morfosintattici ad essi associati» (Ivi, p. 32). 46 Cfr. Lieberman, Human Language, cit., pp. 32-38. Trattandosi di un’esposizione estremamente sintetica della teoria del Functional Language System, eviteremo di riportare i (numerosissimi)

riferimenti bibliografici relativi agli studi che Lieberman cita nel suo lavoro.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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laddove in altre specie queste strutture danno luogo a risposte esclusivamente di

tipo motorio.

La funzione del FLS è di trasmettere, comprendere e memorizzare le informazioni, e

coordinare l’uso di un mezzo (medium) come la parola (speech). La possibilità di

pronunciare un discorso assicura, dal punto di vista comunicativo, un’alta velocità

di trasmissione di dati, mantenendo il lessico – con i relativi componenti sintattico,

semantico e pragmatico – in una ‘memoria di lavoro verbale’ (verbal working

memory); il significato dell’enunciato, invece, è derivato dal contesto. L’Homo

Sapiens sarebbe dunque in possesso di un complesso meccanismo cerebrale che

gli permette di parlare, trasmettere un’informazione concettuale codificata

(coded) come lessico, integrando altre componenti informazionali (visive, tattili,

pragmatiche) con la conoscenza codificata nelle parole di un lessico interno

(internal lexicon). Le parole appaiono sia come elementi ‘concettuali’ che come

elementi ‘comunicativi’:

The word tree doesn’t necessary refer to a particular tree o even to a species. Tree codes a

concept. The conceptual information coded in the brain’s lexicon appears to recruit

information represented in structures of the brain concerned with sensation and motor

control.47

Secondo il modello del FLS la conoscenza linguistica attiene alla conoscenza del

mondo esterno, archiviata all’interno del cervello in forma di parole alle quali la

mente ha accesso attraverso il componente fonologico, mentre una sorta di

‘linguaggio interno’ costituisce il medium del pensiero. Dal punto di vista

neuroanatomico il FLS presenta una configurazione a rete neurale, secondo uno

schema analogo a quello dei sistemi neurali proposto da Damasio: circuiti neurali

formati da popolazioni di neuroni in varie strutture neuroanatomiche processano e

trasmettono segnali ad alte popolazioni neurali; una certa struttura

neuroanatomica può riguardare anche popolazioni neurali che regolano altri

aspetti del comportamento in altri sistemi funzionali neurali. Per quanto concerne

l’FLS le strutture neurali subcorticali che regolano certi aspetti del controllo motorio

47 Lieberman, Human Language, cit., pp. 32.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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riguardano anche circuiti che regolano la produzione linguistica così come la

comprensione. Inoltre, come già detto, i gangli basali subcorticali rivestono un

certo ruolo nel pensiero astratto (‘abstract’ cognition).

Dal punto di vista evolutivo il FLS assicurerebbe una maggiore fitness poiché

sarebbe in grado di integrare rapidamente l’informazione sensomotoria e

concettuale con le conoscenze in possesso, rappresentata sotto forma di parole e

frasi, per produrre una risposta appropriata nei confronti dell’ambiente esterno o

dello stato mentale interno. Dunque, secondo Lieberman il linguaggio può così

essere considerato:

[...] human language and thought can be regarded as neurally ‘computed’ motor activity,

deriving from neuroanatomical systems that generate overt motor responses to

environmental challenges and opportunities. In short, the anatomy and physiology of the

human FLS reflects its evolutionary history. Natural selection operated on motor control

systems that provide timely responses to environmental challenges and opportunities.48

In sintesi, l’approccio di Lieberman nei confronti della natura biologica del

linguaggio è orientato ad indagare le componenti neuronanatomiche interessate

alla computazione linguistica. Lieberman non propone una teoria della mente,

limitandosi ad un’ipotesi sull’evoluzione del linguaggio sulla base delle ricerche di

anatomia comparata.

Le argomentazioni che Lieberman presenta contro l’ipotesi dell’organo del

linguaggio chomskiano non possono essere ignorate. Di questo lo stesso Chomsky

ne è probabilmente consapevole, tant’è che in Hauser, et. al. (2002) il linguista

americano ci presenta una nuova ipotesi sulla facoltà del linguaggio che, sotto

certi aspetti, è riconducibile al FLS di Lieberman (in particolare la nozione di

facoltà del linguaggio in senso esteso). Inoltre, la prospettiva modulare della

facoltà del linguaggio sembra essere indebolita dalla massa di dati che

Lieberman porta a sostegno della propria ipotesi; senza dimenticare le critiche

mosse dallo stesso Lieberman circa i criteri di scientificità della GU. A tal riguardo, il

paragrafo che segue tratta tre ricerche sperimentali che consentono una

48 Ivi: p. 158.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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riflessione su una questione molto importante: a fronte dell’organizzazione

reticolare dei circuiti neurali coinvolti nel linguaggio, si dimostra che esiste una

correlazione significativa tra le proprietà del linguaggio espresse dalla teoria della

GU e il comportamento di sistemi neurali interemisferici associati alla produzione e

alla comprensione linguistica.

4. Andrea Moro: primi esempi di interazione tra linguistica e neuroscienze

Le ricerche seguenti, che presento in estrema sintesi, si sono basate su strumenti

quali la PET (Positron Emission Tomography)49 e la fMRI (functional Magnetic

Resonance Imaging)50 per indagare tre questioni:

1. Quali aree specifiche della corteccia cerebrale intervengono nella

computazione della sintassi e della morfologia degli enunciati grammaticali?51 I

risultati di questo studio, in linea con altri, suggeriscono che le capacità sintattiche

non vengono implementate in una singola area cerebrale. Piuttosto, esse

interessano una struttura reticolare di neuroni che riguarda le aree neocorticali sia

49 La tomografia ad emissione di positroni (PET) usa composti radioattivi e visualizza il decadimento di queste molecole radioattive. Il decadimento libera positroni che a loro volta, scontrandosi,

liberano radiazioni elettromagnetiche (gamma). Le radiazioni gamma vengono registrate ed elaborate elettronicamente per comporre immagini che ne indicano l'origine nel cervello. La PET è

perciò in grado di visualizzare quale regione cerebrale accumuli la sonda molecolare (tracer) impiegata. Così è possibile, ad es. con l'uso di glucosio radioattivo, visualizzare regioni cerebrali che

hanno un metabolismo particolarmente attivo in un determinato momento, come durante l'esecuzione di un particolare compito. Per quanto riguarda l'esame dell'attività cerebrale la PET

viene ad oggi sempre più spesso sostituita dalla risonanza magnetica funzionale. 50 La tecnica delle neuroimmagini funzionali è in grado di determinare quali parti del cervello sono

attivate da specifici tipi di attività fisiche o psichiche, come ad es. la vista, l’udito o il movimento di un dito della mano. Questa sorta di ‘mappatura cerebrale’ si realizza attraverso un uso particolare

della risonanza magnetica, impostata in modo tale che, all’attivazione di una certa area cerebrale, causata dallo svolgimento di un certo ‘compito’ da parte del soggetto sperimentale,

venga evidenziato graficamente l’incremento del flusso sanguigno relativamente alle suddette aree attivate. Vengono registrate le variazioni di ossigenazione del sangue nelle zone di

attivazione: questo rappresenta un indice del livello di metabolismo in atto. Ulteriori dettagli sull’utilità di queste tecniche per indagare il metabolismo cerebrale sono riportati in Lieberman,

Human Language, cit., pp. 30-31). 51 A. Moro, et al., Syntax and the brain: disentangling grammar by selective anomalies,

«NeuroImage», 13, Chicago Academic Press, 2001, pp. 110-118.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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sinistre che destre, così come altre porzioni cerebrali come i gangli basali e il

cervelletto. Inoltre, la non completa corrispondenza fra i correlati neurologici dei

processi sintattici e morfosintattici sembra corrispondere bene con tale distinzione

operata in linguistica in ambito teorico tra sintassi, morfologia e fonologia.

2. Eventuali differenze di attivazione dell’area di Broca nel processo di

acquisizione di enunciati sintatticamente grammaticali vs/ non grammaticali.52

Questa ricerca dimostra un selettivo ed importante ruolo dell’area di Broca nel

processo di acquisizione di regole inventate ‘grammaticali’ (che seguono i principi

della GU) in confronto all’acquisizione di regole inventate ‘non grammaticali’. I

dati ottenuti contribuiscono inoltre a chiarire i meccanismi cerebrali che

sottostanno all’acquisizione di una seconda lingua in individui adulti; l’incremento

di competenza di specifiche caratteristiche linguistiche inventate appare essere

strettamente associato con variazioni di attività esattamente in quelle regioni

cerebrali implicate nella computazione degli aspetti linguistici corrispondenti.

Inoltre, nelle prime fasi di acquisizione della lingua la computazione di strutture

linguistiche inventate coinvolge porzioni dell’area di Broca che supportano meno

processi automatici. In sintesi, esiste una certa evidenza del fatto che l’area di

Broca possa essere addetta alla computazione della struttura gerarchica della

grammatica. Questo studio dimostra che, in individui adulti, l’acquisizione di

strutture sintattiche linguistiche di tipo gerarchico riguarda un sistema neurale che

comprende l’area di Broca.

3. Relativamente all’area di Broca, come si misura l’incremento di attivazione

nel processo di acquisizione di una nuova lingua naturale che segue i principi

della GU vs/ acquisizione di una nuova lingua che non rispetta la GU?53 Questa

ricerca mostra che, in individui adulti, l’acquisizione di nuove competenze

linguistiche coinvolge un’architettura funzionale cerebrale sostanzialmente diversa

da quella implicata nell’apprendimento di regole grammaticali che violano le

proprietà della Grammatica Universale. Nello specifico, l’area di Broca sembra

52 M. Tettamanti, et al., Neural Correlates for the Acquisition of Natural Language Syntax, «NeuroImage», 17, Chicago Academic Press, 2002, pp. 700-709. 53 M. Musso, et al., Broca's Area and the Llanguage Instinct, «Nature Neuroscience», vol.6, 2003, pp.

774-781.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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rivestire un ruolo chiave nell’apprendimento di regole linguistiche ‘reali’,

indipendentemente dalla lingua che viene appresa, sia essa vicina o lontana alla

lingua madre come famiglia; inoltre, come evidenziato in studi precedenti,54 la

computazione degli aspetti sintattici del linguaggio (particolarmente la pars

triangularis) risulta essere una funzione essenziale di questa regione cerebrale.

Sembra dunque che questa particolare area cerebrale sia specializzata

nell’acquisizione e nella computazione di strutture sintattiche di tipo gerarchico,

(piuttosto che lineare), proprie di ogni lingua naturale conosciuta. La correlazione

negativa, rilevata tra il segnale BOLD (Blood Oxygen-Level Dependent) nell’area

di Broca e l’apprendimento di regole grammaticali artificiali, dà ulteriore

conferma all’ipotesi che questa regione cerebrale sia specializzata

nell’identificazione dei principi naturali e universali del linguaggio. I ricercatori,

inoltre, ritengono che nelle fasi di apprendimento di una lingua ‘inventata’ l’area

di Broca progressivamente venga interessata sempre meno da questa attività:

d’altra parte, questa potrebbe essere una conferma dell’ipotesi che le strutture di

tipo gerarchico non siano specifiche per il linguaggio, ma che riguardino anche

altre caratteristiche mentali come la produzione musicale e le capacità

matematiche.55 Le caratteristiche anatomiche e funzionali dell’area di Broca

consentono di postulare che la differenziazione ontogenetica di questa regione

cerebrale possa rappresentare uno sviluppo evolutivo di grande rilevanza, una

tappa che ha contribuito a determinare lo scarto di capacità intellettive fra gli

esseri umani e gli altri primati: questi ultimi sono in grado di imparare singoli

elementi di un lessico, ma non hanno la capacità di organizzare il lessico in una

struttura gerarchica (e ricorsiva) come riescono a fare gli umani.

54 Ivi, p. 778. 55 Riprendiamo l’indicazione bibliografica di uno studio che non abbiamo preso in esame, ma dal titolo eloquente: G. Maess, et al., Musical Syntax is Processed in Broca’s Area: An MEG Study, «Nature Neuroscienze», 4, 2001, pp. 540-545. Si vedano anche: R. Jackendoff, Patterns in Mind: Human Language and his Nature, Hemel Hempstead, Harvester Wheatsheaf 1993; trad. it. Linguaggio e natura umana, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 227-248; N. Chomsky, Language and Problems of Knowledge: the Managua Lectures, The MIT Press, Cambridge 1988; trad. it. Linguaggio e problemi della conoscenza, 2a edizione, Il Mulino, Bologna 1998, p. 127; Hauser, et al., The Faculty of Language, cit.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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I dati ottenuti da questi studi su alcuni aspetti dell’apprendimento della sintassi non

hanno – a detta degli stessi autori – pretesa di esaustività, tanto meno presumono

di dire l’ultima parola in un campo di studi piuttosto recente. Se, come già

ricordato, Chomsky è fiducioso circa le possibilità offerte dall’impiego delle

tecniche di neuroimmagine, utili per indagare «quali sono i meccanismi fisici che

fungono da base materiale per questo sistema di conoscenza [quello che sottostà

alla competenza linguistica] e per l’uso di questa conoscenza»,56 questi strumenti

di indagine presentano alcuni limiti: come osserva Nicolai,

possiamo dire che di fatto gli strumenti di indagine sono attualmente in numero maggiore,

[...] e ciò anche senza condividere l’entusiasmo incondizionato di molti per le neuroimmagini,

considerate il maggior progresso degli anni di fine ventesimo secolo. Tali tecniche [...] nel

complesso non consentono di esaminare cosa sta facendo il neurone di cui vediamo

l’attivazione e, più in generale, la rappresentazione dell’attività cerebrale che forniscono è in

qualche misura un’astrazione, per quanto indubbiamente significativa: i fenomeni fisici

misurati non è detto che siano esattamente tutti quelli coinvolti nella specifica funzione che si

sta valutando.57

Quel che è certo, comunque, è che le tecniche e gli strumenti in mano oggi agli

scienziati del linguaggio permettono di portare avanti un modo di fare ricerca che

è intrinsecamente interdisciplinare: ulteriori nuovi strumenti di indagine potranno in

futuro essere elaborati per raffinare sempre più i risultati, proseguendo il cammino

verso la scoperta dei fondamenti biologici del linguaggio.

5. La biolinguistica domani 56 Chomsky, Linguaggio e problemi, cit., p. 5. Più avanti, Chomsky spiega il suo punto di vista circa il

ruolo-guida della linguistica nell’indagare le basi biologiche del linguaggio: « [...] la scienza che si occupa del cervello può iniziare ad esplorare i meccanismi fisici che manifestano le proprietà

rivelate dalla teoria linguistica astratta. In assenza di una risposta a queste domande [quelle che emergono allorché ci proponiamo di studiare i meccanismi del linguaggio], la scienza che si

occupa del cervello non sa cosa cercare; la ricerca in questo campo è, da questo punto di vista, cieca». Gli fa eco recentemente Nicolai, secondo la quale, sottolineando l’importanza della

collaborazione tra la teoria linguistica e la pratica neuroscientifica, una premessa fondamentale in questo ambito è « [...] la necessità di conoscere prima le regole del linguaggio per poterne

studiare, poi, l’implementazione neurale» (F. Nicolai, Argomenti di Neurolinguistica - Normalità e patologia nel linguaggio, Del Cerro, Tirrenia 2003, p. 48). 57 Nicolai, Argomenti, cit., p. 16.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Chomsky e i generativisti hanno elaborato un modello astratto che tentava di far

luce sui meccanismi sottostanti alla grande variabilità delle lingue. Non più

dunque un approccio storico-culturale alla ricerca della ‘madre di tutte le lingue’,

ma un approccio ‘generativo’, cioè formalmente esplicitato, in grado di

presentarci un modello di funzionamento di un fenomeno del tutto straordinario

come la rapida acquisizione di una lingua naturale e il suo uso creativo nella

pratica di tutti i giorni.

Attribuire al linguaggio proprietà come quelle di infinità discreta, ricorsività,

dipendenza dalla struttura, costituisce un modo innovativo di affrontare il

problema della diversità delle lingue, nell’obiettivo di trovarne, laddove vi siano,

elementi comuni. La cosa, adottando un orientamento biologico, non dovrebbe

stupire: sul nostro pianeta esiste un’unica specie del genere Homo, ed è verosimile

che variazioni linguistico-cognitive all’interno di una specie come quella umana

avvengano su una base comune, un modo comune con cui il cervello è in grado

di elaborare il linguaggio.

Nonostante le recenti acquisizioni nell’ambito della biologia evoluzionista – e ormai

accertata l’adesione della linguistica chomskiana a questo paradigma scientifico

–, il problema sembra essere sempre il solito, cioè, cosa dobbiamo considerare

come innato e cosa appreso, se (ed eventualmente dove) esista un ‘canale

cognitivo’ privilegiato per il linguaggio o se tutto sia dovuto all’architettura

generale cognitiva. Sappiamo che i bambini appena nati non camminano, come

tuttavia sappiamo che ciò è dovuto al fatto che la deambulazione necessita di

adattamenti posturali, muscolari e cerebrali che richiedono tempo e con ogni

probabilità anche una esposizione alla forza di gravità. Ciononostante i bambini

acquistano tutti una stazione eretta e una deambulazione bipede, in idonee

condizioni ambientali e di salute. In condizioni di normalità tutti gli esseri umani ad

un certo stadio evolutivo imparano una lingua: lo sviluppo del linguaggio ha

dunque bisogno di un certo lasso di tempo perché tutte le architetture cerebrali si

sviluppino e forniscano il substrato indispensabile all’emergere del linguaggio. In

definitiva, allo stato attuale delle conoscenze non possiamo stabilire con certezza

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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quante e quali caratteristiche del linguaggio siano innate/geneticamente

determinate e quali apprese, poiché verosimilmente si tratta di un processo

circolare individuabile quanto meno a partire dal livello dei circuiti neurali, e

difficilmente scindibile nelle sue parti.

Si potrebbe pensare che alcune funzioni cognitive necessarie per la comparsa del

linguaggio siano apprese, e che il linguaggio possa svilupparsi solo se queste

funzioni cognitive vengono interiorizzate dall’ambiente nella giusta misura.58 Poi

però bisognerebbe capire in che misura queste funzioni cognitive sono apprese e

in che misura determinate dal nostro patrimonio genetico; per di più, in ottica

evoluzionista, il problema è trovare una conferma empirica ai vari ‘– attamenti’

(ad-attamento, pre-adattamento, es-attamento)59 che potrebbero risolvere la

questione su cosa è innato e cosa è appreso. A livello genetico questo si traduce

nella necessità di capire secondo quali modalità la selezione naturale produce la

variabilità genetica, e come le influenze ambientali contribuiscono ad alimentare

questa variabilità, il tutto nel senso diacronico dell’evoluzione.

Allo stato attuale delle conoscenze non possiamo sapere se il linguaggio o altre

strutture cognitive rappresentino uno sviluppo quasi ‘meccanico’ prestabilito fin

dalla nascita, o se invece dipendano in modo consistente dall’interazione con

l’ambiente, riducendo così la portata quantitativa e qualitativa

dell’equipaggiamento biologico innato; per il momento dobbiamo accontentarci

di ipotesi che siano ragionevoli. L’ipotesi di Chomsky, così come di altri, è che la

facoltà del linguaggio sia comparsa filogeneticamente ‘all’improvviso’.

Chomsky ritiene che le proprietà del linguaggio in senso stretto, ricorsività ed

infinità discreta, possano essere comparse in seguito ad una mutazione del

genoma della specie umana che ha determinato il gap cognitivo tra Homo

Sapiens e le altre specie. Autori come Lieberman ritengono invece che il

linguaggio sia una proprietà che ha molti tratti in comune con quella parte del

cervello rettiliano che lega filogeneticamente i vertebrati: semplificando, colgo in

Chomsky un’ipotesi discontinuista, mentre in Lieberman un’ipotesi più

marcatamente continuista. Perché queste divergenze? Ma soprattutto, se

58 Damasio, L’errore di Cartesio, cit., pp. 166-176. 59 Cfr. E. Boncinelli, I presupposti biologici del linguaggio I. Aspetti evolutivi, cit.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

113

Chomsky ha ragione, come ha potuto una mutazione genetica ‘improvvisa’

influire sull’architettura neurale al punto da consentire lo sviluppo del linguaggio?

Da qualche anno la nostra visione dei mutamenti evolutivi è cambiata in maniera

abbastanza significativa. Sappiamo infatti che i geni presenti nel nostro patrimonio

genetico non hanno tutti la stessa importanza, ma che esistono tra di loro precise

gerarchie (geni strutturali, geni regolatori, geni master).60 Boncinelli ipotizza che

l’alterazione di un gene master «potrebbe fornire il sostrato biologico per la

comparsa del linguaggio articolato in un primate particolarmente dotato».61 Ma si

tratta di ipotesi ancora lontane dal trovare conferma o smentita. Già da alcuni

anni Chomsky ammette le difficoltà di spiegare la natura del linguaggio in termini

filogenetici:62 su questo punto – a mio avviso – i critici hanno frainteso le posizioni

del linguista americano, accusato di essere contrario alla teoria evoluzionista.63 Il

contributo in Hauser et al. (op. cit.) dovrebbe servire a chiarire che non vi è oggi

alcuna divergenza tra il paradigma evoluzionista ed il programma di ricerca

chomskiano, ma tutt’al più opinioni diverse in merito alla maggiore o minore

specificità del linguaggio in relazione alle altre architetture cognitive.

Alcune tra le evidenze sperimentali qui discusse mostrano l’attivazione di aree

specifiche in fase di comprensione, elaborazione e produzione linguistica – non

tanto investendo una sola area cerebrale, quanto piuttosto un sistema

interemisferico. In alcuni casi, però, le aree cerebrali responsabili del linguaggio si

attivano anche in sede di elaborazione di stimoli motori e percettivi.64 Questo dato

– unitamente alle ricerche sulla plasticità neurale – compromette la possibilità di

un modulo del linguaggio ‘incapsulato informazionalmente’? Nel senso di Fodor

60 Ivi, p. 149. 61 Ivi, p. 151. 62 In particolare, Chomsky (Su natura e linguaggio, cit.) sostiene che parlare della filogenesi del

linguaggio implica un livello di formulazione di ipotesi tale da non costituire, a quel punto, un argomento molto rilevante per la ricerca in linguistica generativa; pur lasciando il campo aperto

alle possibilità, Chomsky preferisce partire dall’assunto che l’uomo possegga una struttura cognitiva specifica per il linguaggio che facilita l’apprendimento e l’uso di una lingua. 63 Cfr.: Lieberman, Human Language, cit., pp. 127-142. 64 Ivi, pp. 127-128, 130, 141. Riguardo alle evidenze sperimentali, ci permettiamo un’osservazione: in

letteratura se ne possono trovare tanto a favore dell’esistenza di una specializzazione delle aree cerebrali quanto a favore dell’esistenza di una rete diffusa di strutture funzionali. La verità sta nel

mezzo, con ogni probabilità: tutto dipende da cosa i ricercatori si propongono di studiare.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

114

(1983), pare di sì. Ma non nel senso di Chomsky, che ipotizza una stretta relazione

tra il linguaggio e altre funzioni come quelle senso-motorie e somato-sensitive.

Chomsky riconosce che almeno alcuni aspetti della facoltà del linguaggio sono

comuni anche ad altre specie animali oltre l’uomo, dal momento che – in senso

esteso – esistono elementi costituenti il linguaggio troppo vasti e strutturalmente

trasversali ad altre architetture cognitive funzionali per poter essere prerogativa

esclusiva di un ‘modulo’ come quello del linguaggio. Nella stessa chiave di lettura,

un ulteriore elemento di distacco dalle tesi modulariste forti è compiuto da

Chomsky nel momento in cui ipotizza che il principio di ricorsività possa sottendere

anche ad altre funzioni mentali, come le capacità matematiche.65 Questo

aspetto potrebbe essere conseguenza di un certo livello di ridondanza anche in

sistemi cognitivi come quelli sottostanti alle proprietà di ricorsività e infinità discreta

che caratterizzano il linguaggio.

La linguistica generativa si mostra come un ambito disciplinare in cui, a partire dai

primi contributi di Chomsky negli anni Cinquanta, i ricercatori si sono posti nuovi

interrogativi sulla base dei quali è stata costruita una teoria che da almeno

quarant’anni è sottoposta ad un continuo confronto con i dati sperimentali, negli

ultimi anni rappresentati anche dalle indagini neuroscientifiche. Alcuni dati

empirici, come gli studi sui tempi di apprendimento in età precoce, gli studi sulle

differenze tra L1 e L2, le ricerche sulle lingue gestuali, hanno portato prove a

sostegno di come lo sviluppo del linguaggio segua alcuni binari66 ben precisi.

Senza nulla togliere in importanza alle strategie generali dell’apprendimento67

(imitazione, osservazione, meccanismi socio-relazionali, sufficiente quantità di

input linguistici), la nostra indagine sull’orientamento biologico della linguistica

chomskiana dà conto di come potrebbero funzionare questi binari.

65 Fino ad alcuni anni fa Chomsky riteneva che le capacità matematiche fossero la risultante dello sviluppo – solo e soltanto nell’uomo – della facoltà del linguaggio (cfr. Chomsky, Linguaggio e

problemi, cit., p. 144). 66 Cfr. M. Piattelli Palmarini, I linguaggi della scienza. Ultime notizie su mente, cultura, natura, Oscar Saggi Mondadori, Milano 2003, pp. 183-208. 67 Cfr. C. Cornoldi, Metacognizione e apprendimento, Il Mulino, Bologna 1995.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

115

Questi dati non hanno la pretesa di verificare inconfutabilmente una teoria come

la GU. Ci troviamo oggi in una fase della ricerca in cui appare troppo prematuro

pretendere di trovare conferme o smentite di un’ipotesi ‘forte’ come quella

chomskiana. Si tratta di risultati passibili di verifica o confutazione: quel che è

certo, a nostro avviso, è che le risposte date dalla linguistica generativa sono

scientifiche almeno quanto quelle fornite da altri ambiti disciplinari costituenti le

scienze cognitive. In definitiva, una teoria come la GU è figlia di quell’approccio

cognitivista secondo il quale si cercano di elaborare modelli di funzionamento

della mente attraverso un’astrazione ‘controllata’ dei processi: nessun

generativista sosterrà mai che dentro il cervello c’è un complesso di neuroni che

‘conosce’ la dipendenza dalla struttura o il movimento sintattico: quello che il

linguista fa è costruire un’ipotesi di spiegazione di un fenomeno – il linguaggio –

plausibile con i dati a disposizione.

La cooperazione tra linguistica generativa e neuroscienze è appena agli esordi.

Molte delle assunzioni di Chomsky e di chi segue il suo programma di ricerca

dovranno non solo misurarsi con altre teorie linguistiche emergenti, ma – se

Chomsky intenderà portare avanti la sua idea di «biolinguistica» – dovranno anche

confrontarsi con le prossime acquisizioni sull’anatomia funzionale e sulla genetica

del cervello, in futuro destinate a cambiare il nostro modo di concepire la

«mente/cervello».68 La «biolinguistica» è appena iniziata: il primo passo, la

formulazione di una serie di interrogativi, è stato compiuto: da pochissimo si è

aperta la stagione della ricerca integrata tra linguistica generativa e

neuroscienze. Potremo venderne i risultati solo tra molti anni:

We can formulate the goals with reasonable clarity, but as always, there is no sensible way to

speculate about how closely they can be reached; to what extent, that is, the states of the

language faculty are attributable to general principles, possibly even holding for organisms

generally. With each step towards this goal, we gain a clearer grasp of the core properties

that are specific to the language faculty, still leaving quite unresolved problems that have

been raised for hundreds of years about how properties ‘termed mental’ relate to ‘the

organical structure of the brain’, problems far from resolution even for insects, and with

68 Chomsky, Linguaggio e problemi, cit., p. 8.

Lorenzo Messeri, ‘Biolinguistica’: da Noam Chomsky a Andrea Moro – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

116

unique and deeply mysterious aspects when we consider the human capacity and its

evolutionary origins.69

Con queste parole Chomsky conclude la sua lezione magistrale – tenuta nel mese

di aprile 2004 presso l’Università degli Studi di Firenze – in occasione del

conseguimento di una Laurea Honoris Causa in Lettere. Le straordinarie capacità

del cervello umano, scrive Chomsky, sono ancora un mistero, destinato a rimanere

celato per chissà quanto tempo ancora. Dobbiamo, per così dire, ‘accontentarci’

di ipotesi ragionevoli, utili, ma soprattutto studiabili empiricamente in ottica

interdisciplinare.

Lorenzo Messeri

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120

RECENSIONE

George Lakoff , Metafora e vita quotidiana, (Bompiani, Milano 2004)

Qual è la natura del nostro sistema concettuale? Qual è il

legame tra cognizione, percezione e linguaggio? È possibile

definire il significato e la verità all’interno di una cornice

concettuale libera dagli inconvenienti dell’oggettivismo puro

e del soggettivismo puro? È possibile formulare un modello di

razionalità fondato sulla corporeità? E in che modo la

metafora, intesa come struttura cognitiva, contribuisce a

organizzare la nostra vita mentale?

Secondo il linguista George Lakoff e il filosofo Mark Johnson, la metafora, lungi

dall’essere una mera figura retorica, è un vero e proprio strumento cognitivo che

fonda il nostro sistema concettuale e regola le nostre attività quotidiane. Indagare

i processi metaforici significa, allora, impostare un’indagine concettuale sulla

natura della conoscenza e sul rapporto che intercorre tra i ‘concetti’ e le nostre

culture di appartenenza.

La nostra vita interiore, sostengono gli autori, è tutta modellata su processi

metaforici che individuano sia gli elementi oggetto della nostra rappresentazione,

sia le oper-azioni mentali con le quali agiamo su quegli stessi elementi o entità

concettuali. Gli autori propongono un “approccio esperienziale” che colloca la

mente e i sistemi concettuali, insieme alla capacità di categorizzazione, di

immaginazione e di trarre inferenze, all’interno di una cornice naturalistica. Alla

base dei nostri sistemi concettuali starebbe, secondo Lakoff e Johnson, una ben

determinata capacità di “razionalità immaginativa” che rende possibili i nostri

processi metaforici, le nostre inferenze, le nostre categorizzazioni, e la stessa

comprensione della verità. La tesi principale del libro è che il nostro sistema

concettuale è “strutturato in forma metaforica”: noi comprendiamo i concetti per

mezzo di mappe fondate che conservano la struttura tra domini e che

George Lakoff – Metafora e vita quotidiana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

121

permettono la comprensione dei concetti astratti nei termini di concetti più

concreti.

Esistono, però, alcuni concetti che derivano direttamente dalla nostra esperienza

spaziale: per esempio, il “concetto SU” dipende dalla posizione eretta del nostro

corpo e dai programmi motori che implementano il nostro orientamento su-giù. Il

concetto SU, allora, emerge dall’insieme delle nostre funzioni motorie: un essere

sferico che vivesse al di fuori del campo gravitazionale, probabilmente,

svilupperebbe un altro concetto per SU, osservano gli autori. Comprendere i

sistemi concettuali umani significa mettere in risalto la natura della “nostra

esperienza fisica”, ma, allo stesso tempo, significa ammettere che il corpo e le sue

tipologie di interazione con gli oggetti, hanno luogo soltanto all’interno di una

cultura. Il nostro retroterra culturale, infatti, struttura a sua volta l’esperienza, e noi

“facciamo esperienza di un nostro mondo, in modo tale che la cultura è già

presente perfino nell’esperienza stessa”. Le tesi di Lakoff e Johnson hanno

importanti implicazioni filosofiche: rifiuto della concezione oggettivista pura del

significato, così come della concezione soggettivista pura del significato, rifiuto

della teoria oggettivista della verità (la verità, secondo gli autori, è sempre relativa

a un sistema concettuale in larga misura definito dalla metafora),

categorizzazione fondata su gestalt strutturate con dimensioni che emergono

dalla nostra esperienza (gli oggetti che compongono “i nostri ambiti fondamentali

di esperienza” hanno proprietà interazionali vincolanti le possibilità di

interpretazione concettuale), teoria della comprensione della verità, teoria

‘interazionistica del significato’. Le metafore, siano esse concettuali o di

orientamento (basate su schemi spaziali come su-giù, davanti-dietro, dentro-fuori,

centrale-periferico, vicino-lontano) o ontologiche (basate su esperienze fisiche dei

nostri corpi, tali da indurre a considerare ‘eventi’, ‘idee’, ‘azioni’, ‘emozioni’, come

sostanze o oggetti di dimensioni finite) strutturano l’esperienza in modo soltanto

parziale. Come in una figura-sfondo, le strutture metaforiche mettono in luce

alcuni elementi delle entità rappresentate e ne nascondono altri. Questa

particolare caratteristica, sostengono gli autori, è alla base della possibilità di

trasferimento di struttura da un ambito di esperienza ad un altro: infatti, “se la

George Lakoff – Metafora e vita quotidiana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

122

strutturazione metaforica fosse totale, un concetto coinciderebbe totalmente con

un altro, e non sarebbe soltanto compreso come un altro”.

Il linguaggio, allora, conserva e ci mostra la sua struttura metaforica. I concetti,

articolabili attraverso le parole, sono, in realtà, gli elementi che organizzano i nostri

comportamenti. Pensiamo, infatti, alla metafora concettuale, largamente

condivisa, LA DISCUSSIONE È UNA GUERRA. Tale metafora, riflessa in una

molteplice varietà di espressioni quotidiane, come “Le sue critiche hanno colpito

nel segno” o “ Ho demolito le sue argomentazioni”, non solo induce a pensare alle

discussioni in termini di dispute con vinti e vincitori, ma determina le nostre

condotte comportamentali agite durante una discussione. Noi, infatti, vinciamo o

perdiamo in una discussione e il nostro interlocutore è percepito come un

oppositore dal quale difendersi, tanto che non accettiamo di essere sconfitti da

argomentazioni più lucide delle nostre, insomma, la metafora modifica e “struttura

le azioni che compiamo quando discutiamo”.

Per concludere, tentiamo un esperimento mentale. Proviamo a comprendere,

seguendo l’impostazione degli autori, la logica alla base di un’espressione che

ricorre spesso nel libro: “i concetti con cui viviamo”. I concetti, concepiti come

oggetti, secondo la metafora concettuale ‘LE IDEE SONO OGGETTI’, sono altresì

raffigurati internamente in un rapporto di stretta vicinanza, secondo la metafora

spaziale CAPIRE È AFFERRARE. Rappresentiamo i pensieri stessi come oggetti-entità

incorporate, dove la preposizione ‘con’ indica proprio questo rapporto di

vicinanza privilegiato… con un concetto. Descriviamo, così, degli itinerari

(concettuali) interni possibili soltanto in virtù di processi metaforici che conservano

la struttura tra ambiti sensoriali, spaziali e concettuali. Riflettiamoci un attimo: noi,

inconsapevolmente, rappresentiamo il linguaggio stesso come uno spazio dove le

parole ne individuano le coordinate geometriche. I nostri stessi pensieri sembrano

possedere delle coordinate che li identificano come oggetti dotati di ‘finitezza’. Si

ha la sensazione, ci sia concessa un’osservazione personale, che la

manifestazione interna di un concetto sia fortemente vincolata dalle sue modalità

di espressione. Come la varietà dei movimenti dei nostri arti e di tutto il nostro

corpo si organizza su schemi che limitano la gamma delle potenzialità espressive

George Lakoff – Metafora e vita quotidiana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

123

e motorie di un essere umano, così, anche la possibilità concettuale, sembra

guidata (automa-ticamente) dagli stessi limiti sensoriali che definiscono,

dall’interno dei nostri corpi, i gradi di libertà del pensabile. Se pensiamo all’anno di

pubblicazione di questo libro (1980) e al paradigma allora dominante negli studi

sul linguaggio, non possiamo non riconoscere ai due autori il merito di aver

proposto, quasi trent’anni fa, una visione fortemente innovativa del linguaggio e

della mente umana e in linea con i recenti sviluppi delle neuroscienze cognitive

contemporanee.

Alberto Binazzi

124

RECENSIONE

NOAM CHOMSKY, NUOVI ORIZZONTI NELLO STUDIO DEL LINGUAGGIO E DELLA MENTE, IL SAGGIATORE,2005

Chomsky è ormai riconosciuto come uno degli intellettuali più

influenti della seconda metà del XX secolo: oltre ai suoi più

recenti contributi al dibattito politico mondiale, i suoi studi in

linguistica, a partire dagli anni cinquanta, lo hanno reso uno dei

principali punti di riferimento all’interno del programma di

ricerche delle Scienze Cognitive, programma rivoluzionario,

promettente, ma anche molto dibattuto.

Questo recente volume (l’edizione originale risale al 2000) è organizzato in sette

lunghi saggi, sviluppati sulla base di conferenze tenute da Chomsky negli anni

novanta.. L’autore argomenta riguardo problemi fondativi, come l’approccio

metodologico e lo status esplicativo, legati all’elaborazione di un programma di

ricerca che abbia per oggetto gli eventi linguistici o, più in generale, gli eventi

mentali. Tenendo come punto di riferimento l’impostazione più recente data alle

sue ricerche, presentata principalmente nel primo saggio, l’autore si confronta

principalmente con le idee più diffuse della filosofia della mente contemporanea

(i nomi che ricorrono più spesso sono del calibro di Quine, Davidson, Putnam,

Dummett…), e il confronto porta ad una contrapposizione netta delle posizioni e

ad una messa in discussione di alcuni dei punti cardine della filosofia della mente.

Non possiamo qui fornire una presentazione, nemmeno sommaria, del suo

programma di ricerca attuale, che porta allo sviluppo della cosiddetta teoria dei

principi e dei parametri nel programma minimalista, finalizzato allo sviluppo di un

resoconto della struttura del linguaggio umano per mezzo di un insieme minimo di

entità, regole e livelli di rappresentazione. Al fine di introdurre gli argomenti

principali del libro, ci limiteremo a fornire un accenno ad alcune caratteristiche

essenziali dei programmi di ricerca di stampo chomskiano, linee comuni fin dalle

prime formulazioni della teoria della grammatica universale. Punto fisso degli studi

Noam Chomsky – Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

125

di Chomsky è l’identificazione delle strutture cognitive (la grammatica universale,

appunto) alla base della nostra capacità linguistica. Tali strutture sono innate, di

derivazione genetica, e universali, comuni a tutti i parlanti di tutte le lingue; esse

permettono lo sviluppo in ogni individuo della capacità linguistica, vincolando le

proprietà della struttura manifesta delle varie lingue naturali (lessico e grammatica

delle lingue parlate) e permettendone facilmente l’apprendimento e la

competenza nell’uso. Due punti fondamentali di questo tipo di ricerche sono il

carattere naturalista e internalista. Naturalista nel senso che vengono utilizzati

metodi comuni alle varie discipline scientifiche, a partire da un approccio

fortemente sperimentale, principalmente rivolto all’osservazione dei processi di

apprendimento dei linguaggi naturali e alla valutazione delle capacità linguistiche

e cognitive degli individui, con particolare riferimento ad individui affetti da

patologie e danni cerebrali; sulla base di tali osservazioni la linguistica cognitiva

propone modelli di tipo computazionale finalizzati a render conto della capacità

linguistica umana. L’approccio internalista invece punta allo studio dei

meccanismi del linguaggio osservandone lo sviluppo e l’acquisizione, come

qualunque altra funzione biologica, per identificare modelli in grado di descrivere

come i singoli individui gestiscono l’informazione linguistica; viene così messa in

secondo piano la classica prospettiva esternalista allo studio del linguaggio,

incentrata sulla dimensione sociale, convenzionale, dei linguaggi naturali.

Negli anni, i programmi di ricerca della linguistica cognitiva hanno attirato

molteplici e forti critiche da parte dei maggiori filosofi del linguaggio e della

mente, che mettono in discussione proprio la possibilità di un’indagine naturalista

ed internalista del linguaggio e degli eventi mentali in genere: tali oggetti di

indagine non si danno ad un tipo di ricerca empirico, adatto alle imprese

scientifiche più tradizionali, e si prestano naturalmente ad essere analizzati

mettendo in primo piano l’interazione tra gli individui e tra questi e l’ambiente. La

preoccupazione principale di Chomsky è quella di rivendicare con forza

l’inserimento dello studio del linguaggio e della mente all’interno del dominio delle

scienze naturali. Gli eventi mentali non devono essere considerati portatori di uno

status particolare, dettato principalmente dall’incapacità di una riduzione al

Noam Chomsky – Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

126

‘fisico’, che li differenzia dagli altri eventi del mondo e porta ad un dualismo

metodologico nell’indagine.

Tale dualismo metodologico viene presentato come un rimasuglio ingiustificato

del dualismo metafisico fra corpo e mente, di derivazione cartesiana. Chomsky

presenta argomentazioni che suonano quasi più come una provocazione,

ridefinendo in parte il problema: mentre un’impostazione dualistica aveva un

senso nella cornice della fisica meccanicistica, l’affermazione della fisica

newtoniana ha messo in discussione la formulazione stessa del problema mente-

corpo - e questo non per problemi legati alle nozioni mentali - ma perché in

discussione è la stessa nozione di corpo: posta in un universo di azioni a distanza, al

di fuori della sicurezza della cornice meccanicista, diviene una nozione di difficile

definizione, che compromette la possibilità stessa di formulare sensatamente il

problema del dualismo. Non è comunque il problema dell’irriducibilità del mentale

al fisico a dover inibire un’indagine di stampo naturalista del linguaggio. Il

problema principale nella coordinazione dei vari campi di indagine del reale non

è di carattere riduzionista: molte discipline scientifiche si sono sviluppate

nonostante un’iniziale incompatibilità con la teoria fisica del tempo; la stessa

teoria chimica ha trovato piena compatibilità con la fisica solo nello scorso secolo,

con lo sviluppo della teoria quantistica, e fino ad allora si è sviluppata

indipendentemente. La questione principale è per Chomsky quella

dell’unificazione metodologica: mostrare come, sotto certe condizioni, il mentale

sia passibile di una fruttuosa indagine scientifica. La presenza e la natura delle

connessioni interdisciplinari sono problemi da porsi in seguito, quando una

tipologia di indagine empirica è risultata fruttuosa e promettente. E la messa in

discussione della possibilità di un’impostazione naturalistica nello studio del

mentale, in base alle proprietà peculiari del tipo di eventi osservati, non ha per

Chomsky fondamento. Due sono i tipi di strategie di difesa che utilizza: i problemi

messi in rilievo o sono comuni a molti domini scientifici, o sono inesistenti, perchè

legati a nozioni di senso comune che erroneamente vengono considerate come

essenziali alla caratterizzazione del mentale e che potrebbero invece essere

escluse dagli ingredienti alla base dell’indagine cognitiva.

Noam Chomsky – Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

127

Difatti, se da un lato questioni come la sottodeterminazione empirica delle teorie

sono condivise da ogni dominio scientifico, e non precludono quindi la ricerca,

altri problemi peculiari del dominio mentale sono legati a nozioni tradizionali della

filosofia, ereditate dal senso comune, che possono essere messe in discussione.

Non c’è motivo ad esempio, di presupporre una nozione di ‘riferimento’ che

mette in relazione le entità mentali con entità del mondo reale: la connessione fra

parole e mondo si basa su un complesso intreccio di interessi e tipologie di

interazione, intreccio talmente complesso da rendere inefficace una relazione

diretta fra parole e oggetti del mondo. Analogamente, l’essenzialità di nozioni

psicologiche di senso comune, come credenze e desideri, è una presupposizione

ingiustificata e possiamo lavorare alla ricerca di modelli cognitivi interessanti ed

esplicativi che fanno a meno dell’uso di questi strumenti concettuali. La

conclusione di Chomsky è che l’attribuzione al dominio del mentale di elementi

antinaturalistici non è giustificata. L’attacco qui portato alla filosofia di stampo

quineano proviene chiaramente da una persona esterna al dibattito puramente

filosofico; questo può lasciare a momenti interdetti di fronte ad alcune

argomentazioni. Sebbene si presentino tutt’altro che ingenue, il fatto che tali

argomentazioni non siano vincolate da percorsi delineati dalla tradizione

filosofica, le rende potenzialmente importanti nello scuotere un campo che più

volte ha girato le spalle al confronto con le altre discipline, prima di tutto con la

linguistica, a vantaggio di un uso, spesso ‘spericolato’, degli esperimenti mentali e

di forti idealizzazioni.

Giovanni Casini

128

RECENSIONE

M. Sbisà , Detto non detto – Le forme della comunicazione implicita - LATERZA, 2007

L’opera di Marina Sbisà affronta una ricerca linguistica che

si pone in relazione a temi complessi e di grande attualità. Il

lavoro ha l’intento di fornire strumenti critici ed operativi per

ampliare quelle conoscenze che derivano da quelle

dimensioni del linguaggio contenenti presupposti e

sottintesi. Riconoscere queste dimensioni “nascoste” del

comunicare significa aumentare la comprensione degli atti

linguistici. In sintesi la comunicazione si viene esplicitando

come un insieme di “enunciati presenti e accessibili a vario titolo nello spazio

intersoggettivo tra parlante e interlocutore, attingere al quale si propone come

manovra per approssimare i contesti cognitivi dei partecipanti al contesto

oggettivo” (p. 197). L’analisi dell’Autrice mette così a fuoco il rapporto fra il

contesto inteso nella sua dimensione sia cognitiva che situazionale (oggettiva) e

gli impliciti che vengono trattati come entità di carattere normativo.

Lo studio alterna riflessioni teoriche a ricerche operative. In particolare nel testo si

fa riferimento ad autori il cui lavoro appartiene al contesto della filosofia analitica.

Le ricerche di J. L. Austin offrono all’autrice l’ottica dello studio del linguaggio

ordinario e il concetto di atto linguistico nelle sue dimensioni constative

(descrittive) e performative (relative al compimento di una azione). In particolare

la riflessione si incentra sul concetto di “presupposizione d’esistenza”, rapporto

problematico tra i livelli lucutorio e illocutorio che caratterizzano la dimensione

performativa (p. 29). Sempre nella riflessione critica relativa al tema della

presupposizione, l’analisi affronta il contributo di P. Grice sul principio di

cooperazione che tratta l’attività linguistica come atto razionale e cooperativo e

che riconduce il significato del linguaggio ordinario alle intenzioni del parlante e al

suo conseguente riconoscimento da parte di chi ascolta. La centralità del

Marina Sbisà – Detto non detto: le forme della comunicazione implicita – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

129

parlante viene analizzata ancora nella teoria della presupposizione pragmatica

sviluppata nell’opera di R. Stalnaker. L'autrice affronta quindi lo studio delle forme

della comunicazione con una tesi centrale: la possibilità di distinguere tra

presupposizioni (impliciti accettati in un dato enunciato) e implicature (impliciti

che possono essere inferiti dal fatto che un parlante abbia prodotto un enunciato)

che danno un "senso aggiuntivo o correttivo rispetto a quanto esplicitamente

detto, reso disponibile dal testo" (p. 125). In effetti per Marina Sbisà non si possono

escludere le problematiche relative agli impliciti per affrontare il fenomeno della

comprensione: la dimensione dell'implicito è presente comunque in ogni testo.

L'autrice fa seguire alle riflessioni sulle presupposizioni e sulle implicature due

capitoli con esempi di analisi pragmatica del testo: un attento lavoro di

smontaggio e rimontaggio della superficie testuale, attraverso una prassi centrata

sullo sviluppo di “parafrasi esplicitanti”. Questa opera riconosce dunque una

problematizzazione effettiva verso una "cultura dell'implicito", intesa come

capacità critico-linguistica del soggetto che si trova ad agire il suo essere

comunicativo in una società complessa. Usare la parafrasi esplicitante porta ad

acquisire una abilità linguistica che rende possibile una comprensione più

“profonda” nei confronti sia del linguaggio ordinario sia dei linguaggi specialistici,

quelli scientifici in particolare. Ed è questa prassi accolta come “tensione

quotidiana” che rende effettivo un "esercizio di ragione", che rende possibile una

più vera "costruzione del sapere" (p.203). Un’area tematica toccata a fondo nel

libro è quella relativa alle dimensioni educative connesse agli impliciti.

Gli impliciti sono un argomento problematico. Per Marina Sbisà può presentarsi il

rischio che la comprensione rimanga ad un livello acritico. L’autrice segnala

pertanto la necessità di una opera educativa che favorisca strategie di

esplicitazione che possano garantire livelli di comprensione più profondi e

completi: tema questo oggi molto sentito e particolarmente pressante nella

riflessione pedagogica. L'autrice presenta una sua ricerca sul campo che, partita

dalla misura dei livelli di comprensione di brani di libri di testo per Storia e

Geografia nelle scuole secondarie, ha messo a fuoco l'effettiva necessità ed utilità

Marina Sbisà – Detto non detto: le forme della comunicazione implicita – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

130

di attivare percorsi formativi specifici mirati a sviluppare quelle competenze

linguistiche che stanno alla base della comprensione.

Matteo Borri

131

RECENSIONE

Roberta Lanfredini - Filosofia della conoscenza - Le Monnier, 2007

L’ultimo lavoro di Roberta Lanfredini è, nel senso

etimologico del termine, un’introduzione alla filosofia della

conoscenza. Il suo obiettivo è infatti quello di «far entrare» il

lettore in contatto con i problemi che contraddistinguono la

filosofia della conoscenza e questo in un duplice senso.

Innanzitutto, nel senso in cui si tratta di un testo che invita a

sondare quali sono temi e problemi che caratterizzano la

riflessione gnoseologica: «Che cosa significa conoscere? »

(Parte I); «Come conosciamo? » (Parte II); «Che cosa conosciamo?» (Parte III). Ma

anche, in secondo luogo, nel senso in cui il volume si prefigge di mostrare le

potenzialità esplicative di un metodo – quello teoretico-filosofico – e dei suoi

strumenti concettuali. La peculiarità del testo sta infatti nell’esemplarità – non solo

metodologica, ma anche argomentativa ed espositiva – che distingue Filosofia

della conoscenza da un manuale di tipo tradizionale. Per rendersi conto della

differenza di approccio tra i due generi di introduzione, basta guardare, ad

esempio, al trattamento riservato ai testi classici della storia della filosofia, i quali,

nel lavoro di Roberta Lanfredini, sono presi in considerazione in quanto exempla

metodologici cui viene affidato il compito di mostrare in che modo un certo

problema è stato e può essere affrontato.

Il testo è diviso in tre parti. La prima, di stampo metodologico e definitorio, è

dedicata al problema riguardante che cosa significa conoscere. A partire dalla

sfida lanciata dallo scetticismo, vengono qui prese in esame le principali definizioni

di conoscenza fornite dai pensatori dell’età moderna (Cap. 1). Il razionalismo

cartesiano, l’empirismo riduzionistico humeano, l’immaterialismo di Berkeley, ma

anche la fenomenologia husserliana e la nuova filosofia della scienza, vengono

riletti attraverso la distinzione tra «conoscenza come immagine delle cose» (Cap.

Roberta Lanfredini – Filosofia della conoscenza – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

132

2) e «conoscenza come costituzione» (Cap. 3). Nella seconda parte è il problema

epistemologico riguardante come conosciamo a divenire oggetto di analisi.

Innanzitutto, a partire dalla questione del ruolo che l’intuizione gioca nella

conoscenza, è il rapporto tra forma e contenuto che viene analizzato seguendo

un’argomentazione che vede nelle critiche alle teorie dell’astrazione il suo centro

nevralgico. È poi sulla proposta husserliana di una fenomenologia come scienza

del dato e della singolarità che si sofferma l’attenzione dell’autrice (Cap. 4). Se

l’intento è quello di descrivere come conosciamo, di centrale importanza è

comprendere che tipo di relazione lega la realtà sia alle nostre conoscenze sia al

linguaggio. Il primo problema viene affrontato attraverso un’analisi convergente

delle nozioni di asserzione protocollare (Carnap), constatazione (Schlick) ed

espressione occasionale (Husserl). Il secondo, invece, è trattato concentrando

l’attenzione sulle cosiddette teorie del riferimento (soprattutto Putnam e Searle).

Particolare attenzione è qui dedicata ai problemi dello sfondo e del contenuto

non concettuale (con particolare riferimento a Sellars e Mc Dowell)(Cap. 6). Infine,

la terza parte rappresenta il controcanto ontologico della prima. In essa sono i

problemi riguardanti l’individuazione dell’oggetto del conoscere e la definizione

del termine realtà ad essere affrontati. Le prospettive che consentono di farlo

sono, non solo quella che fa riferimento all’impostazione critico-trascendentale di

stampo kantiano – l’oggetto è un misto di passività e spontaneità – e quella

proposta dalla fenomenologia husserliana nelle analisi dedicate all’enigma della

trascendenza, ma anche il realismo interno di Putnam e Searle. Il testo si conclude

mostrando come il problema del rapporto mente-mondo può essere affrontato

parallelamente e simmetricamente a quello riguardante il legame che

intrattengono mente e cervello, nell’ambito del dibattito sul mind-body problem

(Cap. 7). Nonostante la quantità e l’eterogeneità dei temi trattati da Roberta

Lanfredini in Filosofia della conoscenza ne rendano difficile una sintesi esaustiva, è

possibile individuare gli elementi portanti su cui si regge la struttura espositiva e

concettuale del testo in una serie di tesi strettamente connesse le une con le altre.

Iniziamo dalla nozione centrale e fondamentale di giustificazione epistemica. Se ci

si attiene alla definizione di conoscenza come credenza vera e giustificata da cui

Roberta Lanfredini – Filosofia della conoscenza – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

133

muove l’intero testo, al centro del lavoro di chi si occupa teoreticamente del

problema della conoscenza sta il tentativo di rendere conto degli strumenti

metodologici, concettuali e argomentativi attraverso i quali è possibile giustificare

le nostre credenze. La tesi da cui muove l’intero lavoro sembra essere quella

secondo cui lo strumento metodologico attraverso il quale giustifico le mie

credenze e seleziono le mie conoscenze pregiudica (1) la definizione di che cosa

significa conoscere ( Parte I) e (2) l’individuazione di che cosa siamo in grado di

conoscere (Parte III). Esempi di tali strumenti di giustificazione e di selezione delle

credenze sono il dubbio scettico e l’Epochè fenomenologica. Le pagine del

lavoro di Roberta Lanfredini sono organizzate facendo perno su queste due

alternative. La tesi che regge l’intero percorso tracciato nel testo può quindi

essere riformulata in questo modo: se decido di avviare una teoria della

conoscenza attraverso il dubbio scettico, o se decido di utilizzare il complesso

strumentario metodologico dell’Epochè, sono portato ad elaborare risposte

sostanzialmente differenti ai problemi (1) di che cosa significa conoscere e (2) di

che cosa sono in grado di conoscere. Se si decide, come fa Cartesio, di fare uso

dello strumento del dubbio scettico, ovvero se si inizia mettendo in dubbio

l’esistenza del mondo – nel pieno delle sue caratteristiche sensibili e intelligibili –,

allora si arriva a negare il mondo e, così facendo, si rimane intrappolati nella sfera

della pura coscienza. Evidente è solo l’immanenza assoluta, ovvero il cogito. È in

questo modo, attraverso l’uso del dubbio, che si arriva a duplicare il mondo in un

interno affidabile e in un esterno per essenza inattingibile. Conoscere il mondo

significa duplicarlo. Una tale definizione di che cosa significa conoscere può

essere criticata da una duplice prospettiva (1) epistemologica – critica al valore

conoscitivo delle immagini – e (2) ontologica – critica alla nozione di realtà che ne

deriva – . (1) Da un punto di vista epistemologico l’uso del dubbio scettico ha forti

ripercussioni anche su posizioni filosofiche estremamente eterogenee rispetto a

quella cartesiana. È ciò che avviene ad esempio nel caso del riduzionismo

humeano, stando al quale la conoscenza non è rivolta al mondo, ai suoi oggetti o

ai suoi stati di cose, bensì alle sole idee, intese come contenuti di coscienza; ma

anche in quello dell’immaterialismo di Berkeley, per il quale la relazione di

Roberta Lanfredini – Filosofia della conoscenza – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

134

immagine può valere solo tra idea e idea e non tra idea e cosa – esse est percipi,

è impossibile separare l’essere di una cosa dal suo essere percepita –.

L’immaterialismo sembra essere la conseguenza naturale e coerente dell’uso del

dubbio scettico e di tutte le filosofie che intendono la conoscenza come

duplicazione.

(2) Dal punto di vista ontologico, la nozione di realtà fatta propria dalle

gnoseologie che fanno uso del dubbio scettico è una nozione metafisica e

assoluta. La realtà diventa un esterno che, una volta separato dall’interno, non

può che essere irraggiungibile. Le immagini che stanno nella coscienza e che

riteniamo essere l’unica certezza, non ne forniscono infatti se non una copia

sbiadita, di cui non è possibile valutare l’affidabilità. Chi prende le mosse da un

atteggiamento di tipo scettico non può che approdare a soluzioni altrettanto

scettiche. Un esempio di inizio alternativo è rappresentato dal meccanismo

fenomenologico delle riduzioni. Si tratta di un meccanismo che, se applicato,

anziché negare il mondo, lo mantiene, partendo dal presupposto che esso si dà

alla coscienza secondo determinate modalità. L’obiettivo che si impone all’analisi

filosofica diventa quindi la descrizione di come la coscienza stessa riesca a dare

forma agli oggetti, come possa costituirli. In sintesi il verbo conoscere non è più

sinonimo di duplicare, ma di costituire. L’ambito della trascendenza non deve

essere inteso come esistenza effettiva ed assoluta, ma come presenza

intenzionale, ossia relazionale e costitutiva. La teoria dell’intenzionalità ha infatti

l’obiettivo di fornire “una trattazione articolata di esperienza, che distingua tra

processo soggettivo dell’esperire e oggetto esperito, sentire e sentito, fra

percezione e percepito” (pag. 60). In questo modo, (1) se guardiamo ai prodotti

dell’attività conoscitiva, se assumiamo cioè un punto di vista epistemologico, le

nostre conoscenze non sono più immagini, esse non sono una copia della realtà,

mentre, (2) se assumiamo un punto di vista ontologico, la realtà stessa non è più

un qualcosa d’irraggiungibile, ma è per noi in quanto possibile oggetto di

esperienza che si costituisce nella coscienza. Quella delineata fino a questo punto

sembra essere l’ossatura argomentativa dell’intero lavoro di Roberta Lanfredini. Se

si volesse metterne in discussione l’impianto generale, ovvero se si volesse pensare

Roberta Lanfredini – Filosofia della conoscenza – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

135

un’introduzione alternativa alla filosofia della conoscenza, bisognerebbe ripartire

dal modo in cui nel testo viene considerato il processo di giustificazione

epistemica e, quindi, dalla scelta dei dispositivi metodologici che utilizziamo per

portarlo a termine. Altra possibilità potrebbe consistere nel suggerimento, ancora

tutto da mettere alla prova, di spostare l’accento delle elaborazioni

gnoseologiche da una logica che fa capo a meccanismi di giustificazione a una

incentrata su quelli di scoperta. Suggerimenti interessanti a riguardo si trovano, ad

esempio, nei lavori di Hanson, Peirce, Newell, Simon e Schaffner. Entro l’ampio

quadro prospettico di riferimento in cui si muove Filosofia della conoscenza, è

possibile individuare un atteggiamento attento all’importanza del punto di vista

soggettivo, in campo gnoseologico, in antitesi nei confronti di tendenze

obiettivistiche, fisicalistiche, ma anche spiritualistiche di vario genere e grado.

L’atteggiamento di pensiero che pervade il testo si ispira a motivi di tipo

essenzialmente antiriduzionistico, nell’accezione stando alla quale può dirsi

antiriduzionista un atteggiamento che nutre un certo rispetto – ontologico ed

epistemologico al contempo – per la complessità del reale e per i diversi modi che

possediamo di dirlo e conoscerlo. Il testo mostra infine come, facendo uso di

astrazioni doverose ma caute, tale complessità possa essere adeguatamente

affrontata.

Guido Caniglia

136

RECENSIONE

Alberto Peruzzi - Il Significato inesistente - Firenze UNIVERSITY Press, 2004

È probabilmente un compito delicato parlare di un

volume come “Il significato inesistente”. Talvolta capita di

imbattersi in raccolte di saggi o lezioni, la cui estensione

enciclopedica serve solo ad appesantirne la lettura,

offuscandone la comprensione, questo non è il caso del

manuale in questione che pone al centro dell’indagine il

complesso tema del significato. Lo sviluppo di questa

nozione è stato affrontato con perizia e completezza ed

è difficile produrre considerazioni critiche in merito.

L’autore riesce a fotografare, anzi a filmare, con sintetica ma esaustiva

completezza ogni aspetto legato alle indagini attorno alla semantica, dalle prime

ipotesi d’inizio novecento sulla natura del linguaggio e sul suo ruolo antropologico,

fino all’avvento di inquadramenti più settoriali. All’interno dell’opera Alberto

Peruzzi affrontata le analisi linguistiche legate alle formulazioni logico-

matematiche e il loro successivo adattamento in seno alla psicologia, fino

all’avvento dei modelli computazionali, ovvero alle ipotesi sulla natura delle

attività intellettuali nell’orizzonte della sintassi e della semantica formulate dai

teorici dell’intelligenza artificiale e infine le recenti teorie sulle reti neurali, quale

modello dell’elaborazione coerente e conseguente dell’informazione. L’opera

mira nel suo insieme a supportare la tesi secondo la quale le capacità

semantiche sarebbero radicate all’interno di un orizzonte naturalistico, e punta a

sottolineare il ruolo svolto dall’ambiente e dalle capacità motorie e recettive

nell’influenzare e selezionare la strutturazione di categorie “astratte”. Il taglio

linguistico adottato dall’autore possiede il merito di alleggerire la trattazione,

adottando in alcuni punti toni vicini alla narrativa che permettono l’emergere di

un impegno assunto in prima persona, alla maniera dell’autobiografia

intellettuale, rendendo la presenza dell’autore quasi palpabile, al limite

dell’orizzonte dialogico.

Alberto Peruzzi – Il significato inesistente – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

137

Capita a volte che siano introdotte nozioni il cui impiego diviene risulta smarrirsi

nel corso dell’opera, o che certi inquadramenti teoretici vengano presentati

presupponendone già una conoscenza di livello accademico. Inevitabile il taglio

introduttivo dato alla teoria delle categorie, anche se il breve cenno che se ne fa

risulta sufficientemente chiaro per comprendere l’evoluzione che questa

concezione rappresenta rispetto alla teoria insiemistica.

Tutto questo non poteva essere svolto, in termini di pagine, con maggiore brevità;

quanto è stato scritto è quello che necessita per tracciare un quadro esauriente,

senza soluzione di continuità tra la totalità delle lezioni riportate nel testo. Inoltre le

singole parti sono fruibili con assoluta autonomia, in modo da non richiedere

necessariamente la lettura integrale del volume; caratteristica che ne fa un ottimo

esempio di manuale per corsi universitari di filosofia del linguaggio, o

un’occasione per chi riscopre ogni tanto il piacere di rinvigorire la conoscenza di

competenze altrimenti destinate a inaridirsi.

Fabio M. Vannini

138

RECENSIONE

DIEGO MARCONI - PER LA VERITÀ. RELATIVISMO E FILOSOFIA - EINAUDI, 2007

Col saggio Per la verità. Relativismo e filosofia Diego Marconi

entra nel vivo del dibattito su verità e relativismo che, da un po’

di tempo, anima “l’arena pubblica” e lo fa sfruttando le sue

competenze di filosofo del linguaggio. Infatti l’autore pensa che

questo argomento sia uno di quelli su cui i filosofi possano, per

preparazione personale, esprimere la loro opinione. È così che

egli precisa innanzitutto quali siano i termini della questione:

nonostante non ci sia una teoria filosofica della verità che sia

unanimemente condivisa, la discussione su questo argomento ha raggiunto dei

risultati non irrilevanti. Ad esempio possiamo affermare che è utile distinguere tra

verità, credenza, conoscenza e certezza; che il nostro uso comune della parola

“vero” deve corrispondere a certi requisiti; che le giustificazioni di una verità

possono essere figlie del tempo in cui vengono asserite, ma allo stesso tempo

quando diciamo che un’asserzione è giustificata, c’impegniamo anche a ritenerla

vera. In particolare Marconi sembra difendere il valore di una ricerca che non è

fine a se stessa, affermando che, se davvero pensassimo che non c’è nessuna

verità da trovare o che è impossibile trovarla (è la cosiddetta drammatizzazione

della verità), smetteremmo di cercare, così come non si cerca più il moto

perpetuo o la quadratura del cerchio. Questa analisi preliminare del significato di

“vero” permette a Marconi di passare ad occuparsi dei relativismi, termine che

preferisce usare al plurale perché, a suo parere, esistono molte accezioni di

questo concetto che non sono riconducibili ad una sola forma. C’è un relativismo

epistemico secondo cui i criteri di giustificazione delle credenze sono o possono

essere diversi da epoca a epoca, da società a società, da persona a persona, e

non ci sono dei metacriteri che ci permettano di scegliere tra di essi; c’è un

relativismo concettuale, in base al quale gli schemi concettuali adottati

determinano quali proposizioni possano essere vere e quali false; c’è anche la

posizione di coloro che ritengono che non esistano fatti, ma solo interpretazioni e

Diego Marconi – Per la verità. Relativismo e filosofia– Humana.Mente 4, Febbraio 2008

139

che i presunti fatti siano resi inconsistenti dall’essere “sospesi su un abisso di

possibilità”. Marconi contesta quest’ultima teoria perché, a suo parere, la

possibilità di un’alternativa non è un’obiezione. Inoltre la pluralità di alternative, a

differenza di quanto sostengono alcuni, non rappresenterebbe un modo sicuro

per poter scegliere l’opzione migliore: le preferenze possono essere deplorevoli e

produrre scelte esecrabili. Seguendo questa linea, Marconi introduce una

specificazione ulteriore, cioè il cosiddetto pluralismo dell’equivalenza: le diverse

alternative sono equivalenti, hanno lo stesso valore, o comunque non è possibile e

ragionevole istituire tra di esse una gerarchia assiologica. Tutte queste posizioni

non rappresentano pienamente il relativismo che, per Marconi, s’esprime

pienamente nel soggettivismo assiologico e della verità: se qualcosa non è

riconosciuto da me come valore, non è affatto un valore (per me),

indipendentemente dal fatto che altri lo riconoscano come tale. In conseguenza

di ciò il relativista morale ritiene che la sua forma di vita, ma anche quella degli

altri, non siano giudicabili, proprio perché manca un punto di vista superiore in cui

collocarsi per giudicarle. L’autore ritiene assai debole questo “rispetto

astensionista” predicato dai relativisti, perché i valori, a suo dire, esigono di essere

messi a confronto e, contestualmente, non possiamo abbandonare neanche il

concetto di verità ed aderire al relativismo scettico. Infatti egli pensa che la nostra

vita si basi sul presupposto che la maggior parte delle affermazioni dei nostri

interlocutori siano non solo sincere, ma anche vere. Se in campo etico o religioso è

difficile trovare opinioni le cui giustificazioni siano riconosciute unanimemente

come solide, non c’è ragione però di estendere la diffidenza al concetto di verità

in generale.

Viene inoltre contestata l’idea che il relativismo scettico sia la sola giustificazione

possibile per una politica di tolleranza e di pace: per essere tolleranti non è

necessario pensare che la verità non esista, basta ricordare i frutti negativi

dell’intolleranza. D’altra parte il filosofo accusa di fondamentalismo coloro che

credono in valori assoluti. A mio papere, la questione potrebbe essere articolata in

maniera più complessa, considerando anche la posizione di chi crede in valori

universali senza volerli imporre ad altri. In conclusione Diego Marconi con questo

suo lavoro non ha voluto esporre una nuova teoria della verità, ma, come afferma

Diego Marconi – Per la verità. Relativismo e filosofia– Humana.Mente 4, Febbraio 2008

140

egli stesso nell’introduzione del libro, ha cercato di mettere un po’ d’ordine,

“richiamando distinzioni e argomentazioni ben note, ma forse non proprio a tutti; e

comunque, a quanto pare, spesso dimenticate”.

Stefano Liccioli

141

RECENSIONE

S. MITHEN - IL CANTO DEGLI ANTENATI. LE ORIGINI DELLA MUSICA, DEL LINGUAGGIO, DELLA MENTE E

DEL CORPO - CODICE, 2007

Il titolo dell’ultimo lavoro di Steven Mithen, Il canto degli

antenati. Le origini della musica, del linguaggio, della mente

e del corpo, ne individua immediatamente i nuclei tematici.

L’archeologo britannico propone infatti un’analisi delle

origini del linguaggio, stando alla quale, solo se si tiene

conto del ruolo che la musica ha nell’evoluzione delle forme

di comunicazione, si può comprendere come, a un certo

punto della sua storia, l’uomo abbia cominciato a

comunicare linguisticamente. Porre l’accento su una forma

di comunicazione non verbale quale la musica per gettare

luce sulle caratteristiche del linguaggio rende necessario prendere in considerazione

molteplici caratteristiche dell’essere umano: la sua mente, il suo copro, le sue capacità

motorie, la sua anatomia, le sue emozioni e via dicendo.

A livello metodologico Il canto degli antenati si muove su un doppio binario che non

sarebbe sbagliato definire statico-genetico. Nello spiegare il fenomeno del linguaggio,

infatti, pari dignità viene assegnata a prove e indagini che provengono da discipline che

si occupano sia di come l’uomo è ora sia di come era migliaia di anni or sono. In altri

termini, si capisce che cosa è e a che cosa serve il linguaggio, solo se si tiene conto del

fatto che esso si è evoluto da forme di comunicazione prelinguistica. Il testo è

caratterizzato, inoltre, da un approccio spiccatamente interdisciplinare che vede nella

psicologia dello sviluppo, nella paleontologia, nell’etologia, nonché nella primatologia e

nella linguistica - quest’ultima nella doppia veste di disciplina teorica e applicata - le

principali fonti di argomenti, ragionamenti e prove.

Il testo è infatti diviso in due parti. Alla prima, Il presente (Capitoli 2-7), è affidato il compito

di indagare le caratteristiche possedute dalle forme di comunicazione sia musicale che

linguistica al giorno d’oggi. In particolare musica e linguaggio, in quanto forme di

comunicazione, vengono analizzate nelle loro caratteristiche di similarità e differenza

(Cap. 2). È, poi, sui casi clinici di perdita di capacità linguistiche – afasia linguistica –

Silvana Borutti, Luigi Perissinotto – Il terreno del linguaggio – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

142

(Cap.3) o musicali – amusia – (Cap. 4) che si sposta l’attenzione. Dopo essersi soffermato

sulla possibilità di localizzare nel cervello i moduli musicali (Cap. 5), Mithen passa ad

analizzare le forme di comunicazione utilizzate dagli adulti per parlare con i bambini

prelinguistici (Cap. 6). L’ultimo capitolo della prima parte si occupa dell’importantissimo

ruolo che la musica ha sia a livello di rapporti inter-persononali sia nella creazione di

legami sociali: la musica serve infatti a comunicare e trasmettere emozioni.

La seconda parte, Il passato (Capitoli 8-17), è dedicata all’indagine storico-evolutiva degli

aspetti del linguaggio individuati nella parte precedente. Il primo capitolo ha per oggetto

i sistemi di comunicazione delle scimmie antropomorfe e funge da ponte per un rimando

al nostro remoto passato evolutivo. I sistemi di comunicazione delle scimmie sono infatti

molto simili a quelli dei nostri antenati e, pertanto, la loro analisi può risultare

estremamente utile al fine di individuare come le nostre capacità linguistiche si sono

evolute (Cap. 8). È quindi all’evoluzione della comunicazione negli ominidi che Mithen

rivolge l’attenzione, facendo vedere come il bipedismo ha notevolmente influenzato lo

sviluppo di particolari forme di comunicazione (Capitoli 9-15). È infine all’Homo Sapiens e

al percorso che dal protolinguaggio, attraverso una biforcazione evolutiva, ha condotto

allo sviluppo della musica e del linguaggio verbale che sono dedicate le ultime pagine

del libro (Capitoli 16-17).

Dopo aver esposto sinteticamente i principali passaggi dell’argomentazione, è possibile

concentrare l’attenzione su due tesi dalle ricadute particolarmente significative dal punto

di vista filosofico. La prima riguarda l’importanza da attribuire allo studio dell’origine

evolutiva del linguaggio per poterne comprendere le caratteristiche; la seconda

concerne il ruolo della corporeità nella comunicazione linguistica e musicale.

1) Dalla particolare impostazione statico genetica che caratterizza il testo (dal presente al

passato, dal passato al presente), emerge una tesi di fondamentale importanza: musica e

linguaggio hanno lo stesso precursore evolutivo, ovvero un sistema di comunicazione che

ha caratteristiche comuni a entrambe e che, a un certo punto della storia evolutiva

umana, si è disgregato dando vita a due diversi sistemi di comunicazione.

Pertanto è alle caratteristiche di questa forma di comunicazione prelinguistica che

bisogna guardare se si vogliono comprendere le caratteristiche che il linguaggio

possiede. Il proto-linguaggio (Hmmmm) è un sistema di comunicazione non composto da

parole, ma da messaggi che si presenta come: olistico (holistic), nel senso che le

Silvana Borutti, Luigi Perissinotto – Il terreno del linguaggio – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

143

espressioni multisillabiche che lo compongono non sono scomponibili in sottounità

significanti; manipolativo, poiché non ha lo scopo di comunicare cose sul mondo, bensì

quello di spingere all’azione o di provocare particolari stati emotivi; multimodale, nel

senso che coinvolge diversi moduli cognitivi ed emotivi; mimetico, poiché, attraverso

rapporti sinenstetici e onomatopeici, imita sia i suoni naturali sia quelli dei versi animali;

musicale.

Il problema sta nel vedere come, da questo tipo di comunicazione, si sia passati a forme

linguistiche e verbali di comunicare e dire il mondo. Il processo consiste in due movimenti:

(a) la segmentazione e (b) la creazione di espressioni dal valore simbolico. La

segmentazione consiste nello spezzettamento dei messaggi del protolinguaggio in

espressioni più piccole e di valore significante. Inoltre, è attraverso la donazione di un

significato simbolico e referenziale alle parole – ovvero attraverso la produzione di

espressioni utilizzate con riferimento a cose e stati di fatto – che il linguaggio si trasforma in

un sistema di comunicazione composizionale.

La differenza tra linguaggio e musica è che quest’ultima non utilizza simboli. Le note

musicali, vale a dire le unità minime di una melodia, infatti, non rappresentano nulla.

Tuttavia, la differenza fondamentale tra i due sistemi di comunicazione consiste nel loro

diverso ruolo comunicativo: il linguaggio, riferendosi al mondo, serve a comunicare

informazioni, mentre la musica, essendo un sistema manipolativo e non referenziale di

natura olistica, ha il compito essenziale di suscitare e trasmettere emozioni. Essa è tanto

pervasiva da riuscire a catalizzare quelle reazioni che consentono il disgregamento di un

forte senso dell’io in favore di un collettivo senso del noi.

2) Data l’impostazione essenzialmente interdisciplinare del testo di Mithen, è doveroso

fare qualche osservazione su come argomenti e testimonianze appartenenti a discipline

extrafilosofiche possano supportare tesi che riguardano concetti di tipo schiettamente

filosofico. Nella struttura argomentativa e concettuale del testo è possibile infatti

riscontrare, in alcuni casi, una forte discrepanza tra le trattazioni particolari e le tesi più

generali che tali osservazioni pretendono di supportare. Quando entrano in gioco le

nozioni di corpo, gene e cervello, da prove e testimonianze di vario genere, Mithen

compie salti categoriali un po’ ingenui verso nozioni estremamente complesse che,

proprio per questo, dovrebbero essere utilizzate e spiegate con maggiore cautela.

Silvana Borutti, Luigi Perissinotto – Il terreno del linguaggio – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

144

Ad esempio, nelle primissime pagine del libro l’archeologo Mithen scrive che: “Anziché

rivolgerci ai fattori sociologici o storici, possiamo spiegare la propensione umana a

produrre musica e fruirne solo riconoscendo che essa è stata codificata all’interno del

genoma umano nel corso della storia evolutiva della nostra specie. Come, quando e

perché sono i misteri che mi propongo di risolvere.” (pag. 3). In realtà se si tiene conto di

quanto emerge dalle analisi contenute nel testo, questo proposito non viene soddisfatto

e, sugli stessi argomenti, emergono suggerimenti e prospettive, a dire il vero, più

interessanti e stimolanti. Mithen, infatti, sembra suggerire l’esistenza di una complessa

relazione tra la nostra corporeità – non intesa fisicalisticamente – e la nascita del

linguaggio e della musica. Tale relazione è complessa poiché estremamente complessi

sono entrambi i termini che la compongono. La nozione di corporeità, infatti, fa

riferimento a un corpo che si muove e desidera, agisce e si evolve in relazione

all’ambiente o in riferimento a esigenze dettate dal contesto sociale. Se la nozione di

base fisico-biologica si intende in relazione a tale nozione di corporeità, è possibile

acconsentire con Mithen quando egli scrive che “La musica è profondamente radicata

nella nostra biologia” (pag. 7 ). Infatti, il corpo ha un ruolo fondamentale nella

sincronizzazione motoria, nell’espressione delle emozioni o nell’intrattenimento di legami

interpersonali. Il suggerimento più interessante, che parla contro semplicistici processi di

localizzazione e riduzione, emerge ad esempio dalle analisi sul bipedismo. È infatti grazie

all’evoluzione dell’intero organismo che le facoltà musicali e linguistiche degli ominidi

possono svilupparsi. È l’intero corpo, l’intero organismo che si modifica e rende possibile

l’evoluzione di alcune facoltà piuttosto che di altre.

Mithen sembra pertanto suggerire che, per comprendere l’origine di musica e linguaggio,

ma anche per capire come essi funzionano, a che cosa servono e perché ne facciamo

uso, bisogna tenere in considerazione l’intera anatomia umana: la musica e il linguaggio

non esistono né sono pensabili se non in relazione ad un corpo che si muove, appetisce e

soffre. In questo senso non si può che concordare con Blacking, secondo il quale, il

fondamento di tutti i processi essenziali della musica – ma, si potrebbe aggiungere a

questo punto, anche del linguaggio – va ricercato nell’intero corpo umano e non

semplicemente nel suo genoma o nel suo cervello.

Guido Caniglia

145

RECENSIONE

SILVANA BORUTTI, LUIGI PERISSINOTTO (A CURA DI)

- IL TERRENO DEL LINGUAGGIO. TESTIMONIANZE E SAGGI SULLA FILOSOFIA DI WITTGENSTEIN -

(CAROCCI, ROMA 2006)

Nella prefazione di questo libro i due curatori mettono in

evidenza gli intenti che hanno portato alla stesura del

volume, nato da una collaborazione tra alcuni studiosi

dell’Università della Provenza, dell’Università di Pavia e

dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Le riflessioni sulla

filosofia di Wittgenstein vengono svolte in tre direzioni. In

primo luogo si tratta di ripensare «le fonti, gli incontri, le

suggestioni»1 che hanno portato alla formazione del

pensiero del filosofo. Per un altro verso la maggior parte

degli autori cerca di uscire dalle mere ricostruzioni del suo pensiero per cercare di

«tornare ad interrogare le mosse filosofiche wittgensteiniane nelle loro ragioni,

nelle loro tensioni, anche nei loro limiti e nelle loro, per così dire, inadempienze»2. In

terzo luogo il volume si propone di reinserire Wittgenstein nel dibattito filosofico

contemporaneo:

Troppe celebrazioni lo hanno allontanato dall’odierno filosofare; troppi facili formulari –

giochi linguistici, forme di vita – lo hanno reso più un repertorio a cui attingere o un padre

fondatore in cui trovare legittimità che un filosofo che ancora dà da pensare. La sfida che

qui si raccoglie è che Wittgenstein non sia consegnato ad un glorioso passato, ma che

possa essere uno stimolo fecondo anche per chi non si riconosce più, per esempio, nel suo

antimentalismo o nella sua diffidenza nei confronti di ogni dimensione teorica nella

filosofia3.

Gli autori sottolineano altri due meriti del libro: da una parte esso è la

dimostrazione che la discussione su Wittgenstein ha raggiunto in ambito francese

e italiano una maturità inimmaginabile qualche decennio fa; dall’altra mostra

come in esso «convivano e dialoghino autori che, dal punto di vista delle facili

Silvana Borutti, Luigi Perissinotto – Il terreno del linguaggio – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

146

etichette, appartengono a orientamenti filosofici diversi, analitici alcuni,

continentali gli altri»4.

Il testo è diviso in due parti. La prima è dedicata alle testimonianze di alcuni

studiosi che hanno contribuito a far conoscere in Italia, attraverso saggi e

traduzioni il pensiero di Wittgenstein. Amedeo G. Conte, Tullio De Mauro, Aldo

Giorgio Gargani, Diego Marconi, Michele Ranchetti narrano le circostanze

personali, culturali e filosofiche che li hanno portati alo studio e

all’approfondimento della filosofia di Wittgenstein. Gargani per esempio racconta

della sua prima scoperta del Tractatus Logico Filosoficus, durante il primo anno di

liceo e poi alla Scuola Normale Superiore di Pisa grazie alle lezioni di Francesco

Barone e all’incontro con Giulio Lepschy, entrambi fondamentali per il suo

orientamento di studio verso la filosofia analitica e il pensiero di Wittgenstein, che

egli ebbe poi modo di approfondire all’Università di Oxford sotto il tutorato di uno

dei più noti specialisti del pensiero del filosofo, Bernard Francis McGuinnes. Diego

Marconi invece ricorda le lezioni su Wittgenstein del giovane e brillante assistente

di Pareyson, Gianni Vattimo, e della sua proposta di laurearsi con una tesi sul

filosofo. Michele Ranchetti ricorda ancora la passione per Wittgenstein condivisa

con uno studioso dell’Università di Firenze, Marino Rosso, una passione comune

che li porta a quella che Ranchetti definisce « la nostra grande avventura

wittgensteiniana durata quindici anni»5. Egli rievoca inoltre i suoi incontri con Yorick

Smythies, uno degli allievi più cari a Wittgenstein, e con la fidanzata Margherite

Respinger di cui il filosofo parla nel suo diario recentemente scoperto e tradotto

proprio da Ranchetti. La seconda parte raccoglie invece alcuni saggi che

prendono in esame taluni aspetti della filosofia di Wittgenstein: dalla questione

dello psicologismo a quella dell’antirealismo, dall’etica alla logica, dal rapporto

con Russell all’empirismo.

Chiara Erbosi

Note

Silvana Borutti, Luigi Perissinotto – Il terreno del linguaggio – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

147

1. S. Borutti, L. Perissinotto (a cura di), Il terreno del linguaggio. Testimonianze e saggi sulla filosofia di Wittgenstein, Carocci Editore, Roma, 2006, p. 9.

2. Ibid.

3. Ivi, p. 9-10.

4. Ibid.

5. Ivi, p. 53

148

RECENSIONE

A. TAGLIAPIETRE - LA VIRTÚ CRUDELE. FILOSOFIA E STORIA DELLA SINCERITÀ - EINAUDI, 2003

In questo libro l’autore traccia una storia del concetto di

sincerità cominciando con l’analizzarne i vari significati.

In un primo senso la sincerità è veridicità: «il dire la verità – o

meglio, ciò che si ritiene sia la verità – ai nostri interlocutori,

appare come il livello più ampio, semplice ed elementare

della sincerità»1. La veridicità è affermare ciò che si pensa o

si ritiene vero, il far corrispondere le parole al pensiero.

Un secondo significato di sincerità è la veracità, cioè il comportarsi negli atti e nei

fatti coerentemente a come ci si esprime. «La veracità è essere conseguenti alla

verità. Non ci si limita a dire ciò che si pensa vero ma si fa come si dice, perché

nella prospettiva della veracità le parole sono fatti»2. Mentre il veridico dice la

verità sulle cose, il verace, non solo testimonia la verità con le parole, ma anche

con gli atti.

Questi due significati di sincerità riguardano strettamente il rapporto con gli altri.

Ma c’è un terzo modo di intendere la sincerità, che riguarda invece il rapporto

con se stessi: l’autenticità, che è «espressione di sé e dinamica del divenire ciò che

si è»3.

Cosi Tagliapietra descrive nell’introduzione del suo libro la nozione di autenticità:

Se nelle parole e negli atti possiamo anche disvelare i nostri pensieri agli altri e comunicare

loro ciò che crediamo sia la verità, gli unici testimoni di questa effettiva sincerità siamo

sempre noi stessi. Solo introspettivamente, infatti, nel dispiegarsi di quello spazio metaforico,

concavo e speculare, che la tradizione filosofica chiama, di volta in volta, con i nomi di

anima, interiorità, io, soggetto, persona, coscienza individuale, ecc., sappiamo con quale

intenzione diciamo le cose che diciamo e facciamo le cose che facciamo4.

Andrea Tagliapietra – La virtú crudele: filosofia e storia della sincerità – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

149

L’autenticità dunque è la sincerità con se stessi, è

quell’accordo interno che ci impone come un dovere morale, e ancor di più, come

un’irrinunciabile esigenza del nostro io e della nostra personalità individuale l’essere

autentici, il realizzare noi stessi, il riconoscersi e il farci riconoscere dagli altri per quello che

veramente siamo5.

Dunque intesa come autenticità, la sincerità abbandona ogni criterio di verità nei

confronti degli altri configurandosi come la ricerca di essere ciò che siamo. La

prima parte del libro intitolata Il lessico della sincerità è quindi dedicata

all’indagine linguistica ed etimologica dei termini che ruotano intorno al concetto

di sincerità, dalla veridicità alla veracità, dalla naturalità all’autenticità. Le altre

quattro parti sono invece dedicate, secondo una sequenza storica, all’analisi del

concetto di sincerità nel pensiero filosofico occidentale. In Archeologia della virtù

Tagliapietra si sofferma sulla genealogia della sincerità nel pensiero classico e

medioevale per passare nei capitoli successivi allo studio delle implicazioni

moderne di tale concetto: se infatti nell’antichità la sincerità si configura come la

virtù morale dell’adeguamento esteriore delle parole alle azioni, con l’età

moderna e sempre più in epoca contemporanea la sincerità diventa il modo di

essere dell’individuo attraverso la quale egli afferma la propria singolarità e la

propria autenticità. Tutto lo studio dell’autore è condotto attraverso l’analisi dei

grandi testi della filosofia e dei grandi autori della letteratura, da Shakespeare a

Molière, da Stendhal a Dostoevskij, da Baudelaire e Conrad a Ibsen e Pirandello.

Chiara Erbosi

Note

1. A.Tagliapietra, La virtù crudele. Filosofia e storia della sincerità, Biblioteca Einaudi Torino, 2003, p.3.

2. Ivi, p.30.

3. Ivi, p.43.

4. Ivi, p.IX.

5. Ivi, p.X.

150

RECENSIONE

GASPARE POLIZZI - GALILEO IN LEOPARDI - (LE LETTERE, FIRENZE 2007)

Nel suo Galileo in Leopardi Polizzi conduce un’attenta indagine, diretta a

evidenziare la presenza della figura, dello stile e del pensiero di Galileo nell’opera

di Giacomo Leopardi. La ricerca prende avvio dalle letture del giovane Leopardi,

per poi proseguire nei suoi scritti giovanili, quindi nelle opere della maturità, edite e

inedite. Ciò che emerge è un quadro diverso da quello che risulta dalla comune

ricezione degli scritti leopardiani, secondo la quale la presenza di Galilei, almeno

per quanto riguarda le opere pubblicate in vita, sarebbe “marginale e non

particolarmente significativa”(p. 5). Leopardi si accosta alla figura di Galileo fin

dalle letture giovanili: a questo proposito Polizzi ricorda la circostanza di un

contatto diretto con le sue Opere, presenti nella biblioteca monaldiana

nell’edizione del 1744, ma soprattutto ricostruisce minuziosamente il rapporto con

tutta una serie di fonti collegate alla stesure delle prime opere scientifiche di

Leopardi, prima fra tutte la Storia della Astronomia. Così facendo l’autore struttura

un primo sistema di riferimenti, dal quale risulta che la vita e l’opera di Galilei

furono presenti al poeta di Recanati in più versioni e interpretazioni, che sono però

accomunate da una scarsa attenzione alle vicende processuali e

dall’accettazione del copernicanesimo in forma ipotetica, e dunque compatibile

con l’ortodossia cattolica.

La stessa attenzione nei riguardi di Galileo è registrata da Polizzi anche nelle letture

legate alla maturità del pensiero leopardiano. Qui la presenza si fa più forte,

l’ammirazione si trasforma in un dialogo che penetra fino all’interno di alcuni snodi

teorici della filosofia leopardiana, quali “il problema del metodo della

conoscenza, il rapporto tra caso e progresso della scienza, la visione dinamica

della natura, la questione del valore della conoscenza in rapporto alla felicità e

del rapporto tra ragione e sentimento” (p. 50). Polizzi procede quindi all’esame

delle opere di Leopardi, rilevando come nei suoi lavori giovanili la figura di Galileo

Gaspare Polizzi – Galileo in Leopardi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

151

sia certamente presente, e sovente con toni di elogio ed ammirazione. Tuttavia

egli non manca di mettere in evidenza come in questo stadio il contributo di

Galileo sia spesso sottodeterminato, e come le vicende processuali che lo videro

coinvolto siano quasi del tutto sottaciute o comunque sottovalutate, a

testimonianza di come sia presente nel giovane Leopardi la volontà di non entrare

in esplicito contrasto con la Chiesa cattolica. A tale riguardo occorre ricordare

come anche la favorevole descrizione del sistema copernicano, fornita nella

Dissertazione sopra l’astronomia, sia del tutto in linea con le posizioni ortodosse,

essendo questo sistema “una ipotesi più di ogni altra idonea a spiegare i celesti

fenomeni”.

Queste considerazioni, unite ad altre relative all’atteggiamento fortemente critico del

padre Monaldo nei confronti del sistema galileiano e delle sue conseguenze, inducono

Polizzi a sottolineare la “difficoltà di Giacomo nell’affrontare la questione del processo a

Galilei e nel rendere pubblicamente allo scienziato pisano quel posto centrale nella cultura

italiana che privatamente aveva riconosciuto con certezza, per stile e per pensiero” (p.

163).

Infatti, nella Crestomazia della prosa, opera della maturità, il pensiero di Galilei

assume un ruolo centrale: esso diviene il fulcro teorico su cui poggia la filosofia

della natura leopardiana; nelle selezioni dei brani galileiani, in buona misura

sapientemente manipolati da Leopardi, si registra forse il punto più alto della

presenza di Galileo in Leopardi. Nondimeno, è solo nello Zibaldone che si ha un

esplicito riconoscimento della grandezza di Galileo, che non viene soltanto

considerato un grande letterato, fisico e matematico, ma viene posto tra coloro

che “hanno veramente mutato la faccia della filosofia”. La presenza di Galileo in

Leopardi si fa progressivamente più forte e radicata: dal Galileo visto come

insigne uomo di cultura si passa al Galileo inteso come vero e proprio modello di

stile e di pensiero. A tale proposito occorre ricordare la predilezione leopardiana

per il ‘Galileo lunare’. In uno dei brani scelti per la Crestomazia si trova una

descrizione crepuscolare che ritorna nel verso 19 del Sabato del villaggio “Al

biancheggiare della recente luna”, una descrizione che, dice Polizzi, “non manca

di suggestioni nel quadro di un’estetica dell’infinito” (p. 84). Considerazioni come

Gaspare Polizzi – Galileo in Leopardi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

152

questa inducono a ritenere che in Leopardi vi sia un diffuso apprezzamento

stilistico nei riguardi degli scritti di Galileo, che a volte trascende quello teorico,

soprattutto quando questo trova un limite nella diffidenza leopardiana nei riguardi

del linguaggio matematico.

A questo proposito riteniamo sia degna di una segnalazione particolare la prima

delle due appendici contenute nel testo di Polizzi, “Uno sguardo sul cosmo:

Calvino tra Galileo e Leopardi”, ove si mette in luce come Calvino avesse

“espressamente connesso la letterarietà di Galileo a quella di Leopardi proprio in

relazione al loro sguardo cosmologico, e in particolare al modo di ‘descrivere’ la

luna”(p. 166):

leggendo Galileo mi piace cercare i passi in cui parla della Luna: è la prima volta che la

Luna diventa per gli uomini un oggetto reale, che viene descritta minutamente come cosa

tangibile, eppure appena la Luna compare, nel linguaggio di Galileo si sente una specie di

rarefazione, di levitazione: ci s’innalza in un’incantata sospensione. […] L’ideale di sguardo

sul mondo che guida anche il Galileo scienziato è nutrito di cultura letteraria. Tanto che

possiamo segnare una linea Ariosto-Galileo-Leopardi come una delle più importanti linee di

forza della nostra letteratura. (I. Calvino, Due interviste su scienze e letteratura, in Id. , Una

pietra sopra, A. Mondatori, Milano 2002, pp. 225-226)

Ancora:

il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare

alla luce lunare. Le numerose apparizioni della luna nelle sue poesie occupano pochi versi

ma bastano a illuminare tutto il componimento di quella luce o a proiettarvi l’ombra della

sua assenza. (I. Calvino, Lezioni americane, Sei proposte per il prossimo millennio, Mondatori,

Milano 1993, p. 31)

Matteo Leoni

153

RECENSIONE

PHILIP LIEBERMAN - TOWARD AN EVOLUTIONARY BIOLOGY OF LANGUAGE - BELKNAP PRESS, 2006

Il titolo dell’ultimo lavoro di Philip Lieberman, Toward an

evolutionary biology of language, ne richiama l’intento. Il

testo propone infatti un percorso che ha l’obiettivo di

mostrare come sia possibile ricondurre gli studi sul

linguaggio nell’alveo delle scienze evoluzionistiche del

vivente. La biologia evoluzionistica fornisce lo strumentario –

il toolbox – concettuale e argometativo, che consente al

linguista americano di analizzare il fenomeno, tutto storico-

biologico, del linguaggio in quanto discorso, in quanto

speech. Se questo è l’obiettivo che il testo si prefigge, è chiaro che, nonostante si

tratti di un lavoro in cui si parla soprattutto di anatomia, fisiologia, linguistica,

evoluzionismo e biologia, le sue ricadute sul piano della riflessione filosofica sono

estremamente interessanti. Il fenomeno del linguaggio può essere spiegato e

chiarito solo in relazione a un corpo, quello umano, che nella sua complessità

anatomica e fisiologica si è evoluto e continua a evolversi. In questo senso, è

lecito chiedersi, come fa lo stesso Lieberman, «Has anyone seen an ape dancing?

». Infatti «Fully human speech capacity involves having a species-specific tongue

and brain that reflects both the continuity and the tinkerer’s logic that mark

biological evolution» (pp. 1-2). Il testo è diviso in sette capitoli. Il primo è dedicato

ad una panoramica in cui Liebermann esplicita i motivi essenziali della sua

proposta teorica (Cap.1). Il secondo capitolo è dedicato alle componenti

anatomiche e ai meccanismi fisiologici del nostro corpo, grazie ai quali un discorso

(speech) può essere prodotto: polmoni, laringe, faringe e apparato sovralaringeo.

Queste caratteristiche vengono analizzate non in quanto specifiche dell’uomo,

ma poiché legano essenzialmente l’anatomia umana a quella di altre specie

(Cap.3). Al contempo, tuttavia, il linguaggio è una fenomeno che caratterizza la

specie umana ed è pertanto irriducibile alle forme di comunicazione che

Philip Lieberman – Toward an evolutionary biology of language – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

154

caratterizzano altre specie (Cap.2). Solo dopo aver considerato il linguaggio

come un fenomeno che può emergere solo da una complessa e articolata base

biologica (anatomo-fisiologica), Lieberman passa ad analizzare in che modo gli

atti linguistici sono regolati e controllati nel cervello. È in questo capitolo che

l’autore formula una delle tesi portanti dell’intero testo: la creatività e la capacità

reiterativa che caratterizzano il linguaggio umano sono radicati evolutivamente

nel controllo motorio; inoltre, flessibilità cognitiva e abilità sintattica derivano

entrambe dall’evoluzione del motor control (Cap.4). Nel quinto capitolo, inoltre,

viene affrontato il problema di quale sia il ruolo da affidare al cosiddetto gene del

linguaggio FOXP2. Si tratta di un gene regolatore che governa lo sviluppo della

strutture neurali subcorticali che controllano le abilità coinvolte nella produzione

orale. Nella parte finale, Lieberman si sofferma di nuovo sulle basi anatomiche e

fisiologiche del linguaggio umano, mettendone questa volta in evidenza la storia

evolutiva che ha consentito loro di divenire ciò che esse sono attualmente. Il testo

si conclude con una sorta di ecumenico “Studiosi del linguaggio di tutto il mondo

unitevi!” rivolto a biologi, psicologi, linguisti, filosofi e a chiunque possa apportare

contributi significativi alla comprensione di quel complesso fenomeno che è il

linguaggio (Cap.7).

È possibile entrare nel merito della peculiarità teorica del testo di Lieberman se si

mette in evidenza quale è il suo principale referente teorico, ossia l’evoluzionismo

di Charles Darwin nella particolare curvatura interpretativa che esso assume nei

lavori dello zoologo e storico della biologia E. Mayr. I meccanismi che guidano i

processi evolutivi sono considerati da Lieberman, alla pari di quanto fa Mayr,

come guidati da una logica complessa di tipo storico che vede nella casualità

degli eventi mutageni uno dei motori principali dei meccanismi evolutivi.

L’evoluzione è infatti un miserly tinkerer (p. 317). I sistemi biologici, inoltre, – ad

esempio il corpo che ci consente di parlare – e i fenomeni direttamente collegati

ad essi – ad esempio il linguaggio – non possono che essere estremamente

complessi. Per tali sistemi l’utilizzo del rasoio di Occam infatti non rappresenta uno

strumento metodologico adeguato. La tesi che regge le singole argomentazioni

dell’intero lavoro sembra essere la seguente: se mettiamo al centro delle nostre

Philip Lieberman – Toward an evolutionary biology of language – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

155

riflessioni sul mondo vivente la variazione e con essa la diversità, non è possibile

pensare che vi siano componenti essenziali e universali, siano esse fisiche o ideali,

che di quel mondo rappresentano l’essenza. Questa posizione si lascia declinare

da diversi punti di vista.

Passiamo ora ai bersagli polemici. In generale, da un punto di vista sia linguistico

che filosofico e storico-evolutivo, Lieberman elabora le proprie critiche facendo

riferimento alla cosiddetta standard view – all’interno della quale vengono

accomunati pensatori differenti come Pinker, Chomsky e Fodor –. Il nucleo teorico

della standard view consiste nel sostenere che: «The neural basis of human

language is a ‘module’ devoted to language and language alone, and this

module is distinct from the mechanisms that regulate other aspects of human or

animal behaviour. Modular theories implicitly claim that the functional architecture

of the human brain is similar to that of a conventional digital computer in which a

discrete set of devices controls a printer, another the display, another the

keyboard and so on.» (p. 3). È interessante, a questo punto, vedere secondo quali

direttrici si articola e sviluppa la critica di Lieberman a questa prospettiva teorica.

Innanzitutto è possibile individuare diversi sottoteorie che, se cucite assieme,

forniscono la base teorica su cui si fonda la standard view. In primo luogo, anche

per l’importanza attribuitagli nel testo, la linguistica generativa di Noam Chomsky

(1); in secondo luogo il modello esplicativo-riduzionistico del linguaggio di

Wernicke-Broca (2); in ultimo, il ruolo assegnato al cosiddetto gene del liguaggio

FOXP2 (3). (1) Nelle critiche alle nozioni elaborate originariamente da Chomsky si

fa sentire l’importanza assegnata da Mayr al pensiero darwiniano nel confutare

definitvamente posizioni di tipo platonico-essenzialiste. Infatti, Lieberman fa uso dei

risultati elaborati dalla biologia evoluzionistica al fine di criticare l’idea stando alla

quale: (a) le regole della sintassi umana sono innate; (b) tali regole sono inscritte

nel nostro codice genetico e (c) in quanto tali esse sono ereditabili e trasmissibili

(cfr. p. 62).

La peculiarità delle critiche di Lieberman sta nel fatto che gli strumenti concettuali

su cui essa fa perno sono di tipo biologico-evolutivo: “Biologic evidence does not

Philip Lieberman – Toward an evolutionary biology of language – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

156

support Chomsky’s claim. […] solid biologic evidence rules out any version of

innate Universal Grammar.” (p. 5). Infatti Lieberman argomenta contro l’esistenza

di regole universali che riguardano la sintassi sostenendo che, se tali regole

esistessero, (1) se ne troverebbero tracce nei nostri antenati o nelle specie

filogeneticamente più vicine all’homo sapiens; (2) dovrebbe essere possibile

spiegare il comportamento umano attraverso meccanismi innati e universali; (3)

tali regole dovrebbero riuscire a fornire le basi biologiche della reiterazione

motoria che è fisiologicamente alla base dei fenomeni linguistici. Ma in tutti tre i

casi le indagini biologico-evolutive non confermerebbero le ipotesi. 2) La critica

all’atteggiamento riduzionistico, etichettato da Lieberman come atteggiamento

di Broca-Wernicke, è un'altra delle costanti polemiche del testo. Infatti, secondo

Lieberman, se si assume una prospettiva di stampo evoluzionistico, non ha senso

voler individuare dei loci cerebrali in cui risiederebbe la facoltà de linguaggio: non

è possibile né ridurre né localizzare il linguaggio in particolari circuiti neurali, né in

altri organi del nostro corpo. Questo vale inoltre per molte caratteristiche

comportamentali. Ciò non significa, tuttavia, che una spiegazione del linguaggio,

che pretenda tra l’altro di dirsi biologico-evoluzionistica, possa fare a meno di

considerare il ruolo dei meccanismi neurali. Se si vogliono spiegare le basi neurali

del linguaggio, bisogna innanzitutto tener presente il fatto che le reti neurali – e, si

badi bene, non i luoghi cerebrali – che presiedono alla produzione del linguaggio

sono gli stessi che sono anche responsabili della flessibilità cognitiva, tipica

dell’homo sapiens, e di quel particolare tipo di controllo motorio, sviluppatosi

attraverso il passaggio al bipedismo. I gangli basali della corteccia subcorticale

sono responsabili sia delle nostre capacità di apprendimento, sia delle capacità

reiterattive che caratterizzano la nostra motorietà e il nostro linguaggio, nonchè

della regolazione delle emozioni (cfr. p. 211-2). 3) È chiaro che anche un

atteggiamto riduzionistico di stampo genetico, ovvero un atteggiamento che si

pone l’obiettivo di identificare quale sia il gene responsabile delle nostre capacità

linguistiche, il language-specific gene, come fa Pinker, deve a questo punto

essere reso oggetto di critica. Ciò non toglie che lo studio dei geni deputati allo

sviluppo di organi e capacità utili alle capacità linguistiche sia considerato di

Philip Lieberman – Toward an evolutionary biology of language – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

157

grande utilità. Infatti, è proprio lo studio delle mutazioni e modificazioni che hanno

interessato il FOXP2 a gettare nuova luce su come il linguaggio si è evoluto. Infatti,

questo gene contribuisce allo sviluppo delle strutture dei gangli basali che

servono, come detto precedentemente, a regolare il controllo della motilità oro-

facciale, della produzione di discorsi, delle regole sintattiche, del comportamento

cognitivo, e del motor learning.

In conclusione, il take-home-message del libro, come lo definirebbe il suo autore,

consiste nel diffidare di strategie di analisi che utilizzano spiegazioni monolitiche e

monocausali dei fenomeni linguistici. Al contrario, ed in questo sta l’esemplarità di

Toward an evolutionary biology of language, l’approccio biologico-

evoluzionistarisca può riescire nell’intento di chiarire e valorizzare la complessità di

tali fenomeni, spiegandoli in relazione a fenomeni di tipo cognitivo, neurale, fisico

e motorio: «The primary argument of this book is that the biologic bases of linguistic

as well as cognitive ability cannot be studied in isolation from other aspects of

human behaviour or the behaviour of other species.» (p. 17).

Guido Caniglia

158

Idee per una rilettura

D. G. STERN - THE AVAILABILITY OF WITTGENSTEIN'S PHILOSOPHY -CAMBRIDGE UNIVERSITYPRESS,1996

L’articolo fa parte di un tomo intitolato The Cambridge Companion to

Wittgenstein1, testo fondamentale che raccoglie quattordici saggi appositamente

commissionati ad altrettanti accademici di chiara fama, al fine di costruire un

manuale altamente referenziato.

Quella di D. G. Stern, in particolare, è una retrospettiva critica estremamente

documentata sulla intricata vicenda in cui incorse l’opera inedita di Ludwing

Wittgenstein; per inciso, la sua argomentazione ha il pregio di riconoscerla proprio

come un’ ‘opera’, piuttosto che come un insieme di appunti, sulla scia delle

considerazioni di Michel Foucault2 e in contrarietà agli standar editoriali proposti a

suo tempo da Joachim Schulte3. Conosciuta come Nachlass e costituita da circa

dodicimila pagine di manoscritti e ottomila di dattiloscritti, questa massa di

documenti autografi, da cui sono state estrapolate tutte le opere postume

attribuite all’autore, ha costituito un vero e proprio giallo filosofico-letterario che, a

più di cinquanta anni dalla morte di Wittgenstein, desta ancora sconcerto. Stern

cerca di far luce esaustivamente su questa incredibile vicenda per rispondere ad

una perplessità condivisa, ovvero come sia possibile il persistente disaccordo su

che cosa Wittgenstein credesse e perché. Egli ricostruisce la storia del lascito agli

eredi letterari,4 dall’apertura del testamento all’accordo con il Trinity College di

Cambridge; dall’istituzione dei due comitati (quello degli ‘amministratori’ e quello

degli ‘editori’)5 alla realizzazione della collezione microfilmata di Cornell (1967);

dalla vendita di copie ai ricercatori e alle biblioteche universitarie6 agli accordi

con l’università di Tubinga7 etc. Documenta lo scempio da loro perpetrato e tutte

le arbitrarietà di presentazione dell’opera - titolo per titolo-, come anche gli incerti

tentativi di pubblicazione del Nachlass. L’episodio più improbabile, tra tanti, è

David Stern – The availability of Wittgenstein's philosophy – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

159

quello del giornale spagnolo che pubblica la parte nascosta dei Quaderni 1914-

1916 senza il permesso degli eredi8.

Lo scandalo è che, nonostante Wittgenstein sia uno tra i filosofi più influenti dello

scorso secolo – e tra i più citati-, la sua filosofia non sia ancora ‘accessibile’. Per

fare un esempio della ricostruzione della storia delle singole pubblicazioni, basti

citare il caso delle Ricerche Filosofiche, a seguito del quale Stern conclude che la

prefazione di Wittgenstein è precedente all’abbozzo di quella che è edita come

Parte II; che niente ci testimonia che Parte II fosse la seconda parte (il dattiloscritto

originale è andato sfortunatamente perduto poco dopo la pubblicazione) e che

probabilmente è la rivisitazione della Parte I; infine che, secondo Oliver Scholz9,

Parte II sarebbe il dattiloscritto che Wittgenstein preparò per Norman Malcolm in

occasione della sua visita a Cornell, nel 1949 (e che avrebbe quindi un carattere

ancora più provvisorio della Parte I). Resta vero, come per tutti gli altri testi, che il

Nachlass, contenendo le altre possibili combinazioni proposte da Wittgenstein per

le Ricerche, getta, con ognuna di esse, nuova luce su ciò che è stato pubblicato

sotto questo nome. Ma un altro esempio valido per capire l’interesse ad una sua

pubblicazione integrale è la riflessione sul solipsismo, di cui nel Nachlass si può

seguire lo svolgimento, dalla fascinazione iniziale alla scelta di rigettarlo: un lavoro

prezioso se si considerano le telegrafiche affermazioni del Tractatus.

Accanto alla questione principe, ovvero la dissennata gestione dell’eredità

letteraria, Stern elenca tuttavia alcuni fattori singolari che contraddistinguono

l’interpretazione del pensiero di Wittgenstein, mostrando come di certe mancanze

siano responsabili anche i suoi divulgatori. La prima considerazione è rivolta al

peso esercitato dalle aspettative degli interpreti: la maggior parte dei filosofi ha

cercato in Wittgenstein una ‘teoria’ del linguaggio e, nel tentativo di attribuirgliene

una soggiacente le sue parole, ha disconosciuto la peculiarità del suo modo di

scrivere e, con essa, il suo antidogmatismo; un altro approcio scorretto, ma

ricorrente, consiste nel focalizzare l’attenzione sui passaggi maggiormente discussi

(perché in essi Wittgenstein sembra riassumere per sommi capi la sua concezione

David Stern – The availability of Wittgenstein's philosophy – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

160

delle cose) e, in seguito, attingere dal Nachlass l’appunto che sembra confermare

la propria interpretazione; in questi casi, inoltre, raramente viene reso conto del

contesto da cui le citazioni sono estratte, arrivando a giustificare ogni sorta di

conclusione.

La seconda considerazione va alla ‘letteratura secondaria’, ovvero alla folta

bibliografia di diatribe tra interpreti. Si tratta di una produzione così complessa da

scoraggiare qualsiasi neofita e che, infatti, ha ormai vita a sé stante; la tragica

conseguenza è che, quando crediamo di parlare di Wittgenstein, spesso stiamo

invece parlando delle opinioni sul suo pensiero. In sostanza, per Stern, una parte

della inaccessibilità alla sua filosofia è dovuta anche al fatto che chi si occupa di

Wittgenstein tende a proiettarvi le proprie idee (e questo non capita a caso) al

punto che, se anche egli diceva

I ought to be no more then a mirror, in which my reader can see his own thinking with all its

deformities so that, helped in this way, he can put it right.10

oggi la deformità che egli più d’ogni altra osteggiava, quella della filosofia

sistematica, è ricordata solo accidentalmente. Di questi aspetti si era già

occupato Stanley Cavell11, nel suo articolo The Availability of Wittgenstein’s later

philosophy. Egli criticava le assunzioni di David Pole, il quale, considerando lo stile

letterario e di composizione di Wittgenstein alla stregua di una idiosincrasia,

aveva concluso che la sua fosse l’esposizione parziale di una filosofia che ambiva,

senza riuscirci, ad essere sistematica. Per Cavell, Pole aveva arbitrariamente

attribuito a Wittgenstein quelle stesse posizioni che, paradossalmente, erano state

oggetto, quando egli era in vita, delle sue più feroci critiche. All’epoca, Cavell

scelse di enfatizzare la connessione tra lo stile di composizione di Wittgenstein e le

sue idee per concludere che, nonstante i suoi scritti contenessero

‘argomentazioni’, essi non chiedono ‘comprensione’, ma una nuova sensibilità, un

cambiamento nel modo di vedere le cose; ferme restando queste conclusioni,

sappiamo ora che il Nachlass non è altro che il corpus operae di Wittgenstein e

che pertanto una lettura come quella di Cavell è limitata dalla sua ostinazione12 a

David Stern – The availability of Wittgenstein's philosophy – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

161

considerare le opere postume testi dal valore nominale, mentre nessuno di essi

può essere capito a sé, essendo una parte sottratta all’intero. Quella che vuole i

singoli libri editi a suo nome come testi ‘reali’, è una percezione fallace e imposta

dal lavoro di presentazione portato avanti dai curatori. Ogni pubblicazione è una

selezione dal Nachlass, un prodotto che, per essere ‘convenzionale’, ha richiesto

scelte drastiche da parte degli editori: le manipolazioni occorse non sono mai

state rese pubbliche (talvolta sono accennate in termini molto generali nella

prefazione), perchè nessuno ha mai pensato di fornire un’edizione critica del

materiale. Considerato dunque il disordine che ha regnato per anni nei

documenti autografi, identificare il contesto di uno qualsiasi di essi resta più

problematico di quanto non si pensi: per mettere fine a tale situazione, è

fondamentale ora poter utilizzare una pubblicazione integrale del Nachlass,

finalmente considerato come un tutto, un insieme cronologicamente ordinato,

perché è così che Wittgenstein, nell’unicità della sua vicenda filosofica, lo ha

lasciato alla posterità. A partire dalla possibilità di attingere uniformemente al

Nachlass, diverrà impossibile usarlo per avallare interpretazioni infondate del

Tractatus o delle Ricerche Filosofiche. 13

In conclusione, non si è voluto tener presente che Wittgenstein sapeva di non

poter organizzare un ‘libro’: tra il 1929 ed il 1951, egli scrisse, risistemò, corresse le

sue opere, lasciando intenzionalmente alla posterità la dettagliata

documentazione di un dialogo interiore, che è la forza trainante del suo lavoro

filosofico. La gravità della vicenda editoriale del Nachlass, come della maldestra

cernita compiuta di volta in volta, consiste nell’aver escluso proprio il processo di

ripensamento e riscrittura, che collega ciò che è stato pubblicato a cosa non lo è

stato: una vera e propria negazione della natura della eredità filosofica di

Wittgenstein.

Laura Beritelli

David Stern – The availability of Wittgenstein's philosophy – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

162

Note

1 AA.VV. The Cambridge Companion to Wittgenstein, Cambridge University Press, NY, Usa, 1996.

2 Michel Foucault, Archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1971.

3 Joachim Sculte è uno dei parteciapanti al primo tentativo di pubblicazione del Nachlass, nonchè

editore in Germania delle opere di L.Wittgenstein. All’epoca dell’articolo di D.G.Stern, Schulte

aveva proposto che venissero considerati testi compiuti solo quelli che rispondevano ad una serie

di requisiti.

4 G.E.M.Ancombe, R.Rhees, G.H.von Wright.

5 Entrambi formati dai tre eredi e poi allargati a Antony Kenny e Peter Winch.

6 Nonostante ciò sembrasse rendere finalmente accessibile il materiale (almeno agli accademici),

in realtà comportò altrettanta frustrazione. Gli studiosi si trovarono a che fare con microfilm di

scarsa qualità o copie illeggibili.

7 Nel 1974, i curatori presero accordi per la fondazione del Wittgenstein-Archiv Tubingen: un team

guidato da M. Nedo e dal professor H.J.Heringer avrebbe dovuto trascrivere in un database l’intero

Nachlass ma, nonostante nel 1980 fosse stato fatto più di metà del lavoro, il progetto s’interruppe e

non fu mai pubblicato niente.

8 Secondo Stern, fu Willhelm Baum a pubblicare su un giornale spagnolo le parti mancanti dei

Quaderni. Tuttavia, spiega, piuttosto che criptate, le parti in questione erano state trascritte in un

semplice codice di sostituzione delle lettere. L’incomprensibilità di un simile gesto - che

probabilmente voleva proteggere la privacy del filosofo davanti a lettori casuali -, ha dato adito

alle più svariate ipotesi sul perché fosse stato deciso di nasconderle.

9 Altro critico che si è occupato dell’esegesi del Nachlass.

10 AA.VV. The Cambridge Companion to Wittgenstein, Cambridge University Press, NY, Usa, 1996,

riportato in David Stern, The availability of Wittgenstein’s philosophy, come L.Wittgenstein, Culture

and Value, pp. 17-18. Souce:MS 112, p. 225.1931.

11 AA.VV. Op. Cit, p. 443, riportato come S. Cavell, The availability of Wittgenstein’s later philosophy,

in Wittgenstein: The Philosophical Investigations, ed. G. Pitcher (New York: Doubleday, 1966).

12 Così parla di sé Stanley Cavell in un’intervista riportata in D.G.Stern, Op cit, pp 445-446.

13 Per Stern, entrambi i due testi, nonostante solo il Tractatus sia stato pubblicato da Wittgenstein,

hanno un ruolo preminente, essendo i lavori che più si sono avvicinati a soddisfarlo.

163

Idee per una rilettura

RAY JACKENDOFF - LINGUAGGIO E NATURA UMANA - IL MULINO, 1998

Pubblicato in Italia nel 1998 da Il Mulino, per la traduzione di Alberto Peruzzi,

Linguaggio e natura umana è un ottimo testo introduttivo ai moderni temi della

filosofia del linguaggio. Lo scopo di Jackendoff è mostrare l’ipotesi dello sviluppo

della capacità linguistica da un punto di vista biologico e funzionalista, per cui

l’acquisizione delle complessità del linguaggio umano è permessa grazie a

specifiche configurazioni cerebrali, geneticamente ereditate che strutturano

l’architettura di una grammatica mentale predisposta alla comunicazione

verbale.

“Il linguaggio è un prodotto di natura e cultura”

Seguendo le ricerche della filosofia del linguaggio e della linguistica degli anni

’60, intraprese da Noam Chomsky, l’autore integra l’analisi del linguaggio classica

con delle considerazioni di natura neuro-fisiologica, biologica e evoluzionistica

che inseriscono in un contesto più ampio la nostra capacità di acquisire fin dai

primi mesi di vita molti dei principi della comunicazione verbale.

Il testo è organizzato in quattro parti: nella prima l’autore delinea gli argomenti

fondamentali a favore di una grammatica mentale; nella seconda e terza parte

si sviluppano tali argomenti partendo da come si struttura la grammatica

mentale, e prosegue con l’individuazione biologica di queste capacità. Nella

quarta parte le conclusioni vengono inserite in un contesto che comprende

capacità mentali diverse dal linguaggio.

Gli argomenti fondamentali.

Tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, Noam Chomsky , in contrasto con la

psicologia e la linguistica dell’epoca, ispirata dal comportamentismo, che

Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

164

sosteneva che il linguaggio fosse sommariamente frutto dell’ambiente, sviluppa

l’intuizione per una nuova teoria del linguaggio.

Per spiegare le complesse configurazioni linguistiche di cui quotidianamente, con

la più completa naturalezza, facciamo uso, Chomsky suppone che il nostro

cervello sia strutturato con analoga complessità; la nostra mente, insomma, deve

già contenere una struttura in grado di codificare i suoni in enunciati corretti

sintatticamente e grammaticalmente, una ‘grammatica mentale’.

L’intuizione di Chomsky riguardo la ‘grammatica mentale’ viene definita da

Jackendoff come una “rivoluzione cognitiva”, uno dei pilastri delle moderne

teorie di filosofia del linguaggio e della linguistica. Il “secondo pilastro” della teoria

si integra alla nozione di grammatica mentale, che il nostro autore sviluppa come

l’argomento della “conoscenza innata” ossia un ‘bagaglio genetico’ ereditario. Il

lavoro di Jackendoff di portare argomentazioni favorevoli alle due ipotesi, che nel

corso degli anni sono diventate molto più precise e dettagliate grazie alle

numerose questioni risolte dalla ricerca, si sviluppa fino all’ultimo capitolo in cui

l’autore definisce, dopo averlo presentato, un terzo e conclusivo argomento del

lavoro: la ‘costruzione dell’esperienza’. Il linguaggio è solo una delle capacità

che mettiamo all’opera quando facciamo esperienza del mondo, esperienza,

quindi, che viene costruita da principi inconsci del nostro cervello. Prima di

considerare però la validità delle ipotesi e il contesto in cui operano, è opportuno

seguire Jackendoff e vedere cosa c’è dietro il linguaggio.

La grammatica mentale.

La nozione di “grammatica mentale” sostiene che la varietà espressiva dell’uso

linguistico implichi, nel cervello di chi impiega il linguaggio, l’esistenza di principi

grammaticali inconsci. C’è un numero infinito di enunciati che siamo in grado di

costruire, com’è possibile contenerli in un solo cervello, invita a chiedersi

Jackendoff, sicuramente non abbiamo un semplice elenco imparato a memoria,

infatti siamo in grado di costruire anche enunciati mai pronunciati prima; inoltre

Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

165

l’informazione può essere tradotta in tutte le lingue senza che se ne perda il

senso.

Tutto ciò proverebbe l’esistenza di una struttura inconscia, una sorta di modello

ideale, sulla base del quale possiamo costruire un numero infinito di enunciati.

In breve, è assolutamente impossibile che memorizziamo tutti gli enunciati che ci capita di

sentire o che vogliamo impiegare, per non dire di quelli inverosimili. D’altra parte, siamo

evidentemente preparati a riconoscerli: è come se sapessimo quali sono le possibilità che

ci sono offerte dalla lingua.

Il modo in cui il cervello sembra conseguire questa varietà espressiva consiste

nell’immagazzinare non enunciati interi, bensì parole – con i loro significati – e certe

configurazioni o schemi (patterns), in cui si possono disporre le parole. 1

Non siamo certo l’unica specie che comunica informazioni, ma non esiste un’altro

animale in grado di articolare una così vasta gamma di elementi, o di esprimere

con precisione tutte le sfumature linguistiche di cui gli esseri umani sono capaci,

siamo biologicamente adatti allo sviluppo linguistico, uno sviluppo estremamente

complesso.

I linguisti si riferiscono a queste configurazioni come a regole linguistiche memorizzate e

indicano l’insieme completo delle regole come la grammatica mentale della lingua data

o, più semplicemente, la sua grammatica.2

L’organizzazione della grammatica mentale riguarda la produzione e la codifica

dei suoni linguistici, in altre parole: la fonologia. Il nostro autore indica come

processo di produzione del linguaggio, il percorso dal pensiero alle istruzioni

motorie, che azionano corde vocali, lingua e tutti gli apparati necessari; mentre

quello che va dalle percezioni uditive al pensiero è il processo di decodificazione.

1 Ray Jackendoff, Linguaggio e natura umana, Il Mulino 1998, p. 24-25.

2 Ivi, p. 27.

Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

166

La capacità di percepire le vibrazioni dell’aria prodotte dalla bocca del nostro

interlocutore, codificarle in una frequenza che ha senso e ripetere il processo a

nostro piacimento, quasi istantaneamente è affascinante, presentata così,

questa capacità, sembra quasi miracolosa. Per rendere il processo più familiare al

lettore, Jackendoff opera un’analogia con il funzionamento del

videoregistratore. L’analogia è esemplare della strategia analitica di tipo

funzionale che il nostro autore intende delineare per spiegare la struttura della

grammatica mentale: “Questa impostazione generale dell’indagine sulle

capacità mentali prende il nome di funzionalismo e rappresenta una strategia

che funge da guida in gran parte della psicologia cognitiva e dell’intelligenza

artificiale, non meno che in linguistica.”3, questa impostazione consiste nel

considerare un elemento dal punto di vista di ciò che fa o permette di fare: dalla

sua funzione, indipendentemente dalla struttura fisica o dalla definizione comune.

Da un punto di vista funzionale quindi, non c’è molta differenza con il

videoregistratore costruito per codificare i segnali provenienti dal nastro

magnetico della videocassetta e inviarli al televisore che ce li presenta sotto

forma di immagini e suoni. Abbiamo quindi un codice che è il linguaggio e le

strutture per codificarlo/produrlo sono identificate nel cervello e gli organi

preposti, quali apparato vocale e uditivo: come il videoregistratore, così il cervello

deve contenere un complesso sistema di meccanismi in grado di leggere quel

particolare codice. Il processo di codifica gestito dalla mente viene spiegato dal

nostro autore attraverso l’ipotesi della modularità del cervello, che viene descritto

suddiviso in aree specializzate tra loro connesse.

La percezione e la produzione del linguaggio esigono meccanismi specializzati per

elaborare informazioni in formati diversi e per tradurle da un formato all’altro. Stiamo

dicendo che, nell’apprendere una lingua, i bambini non costruiscono dal nulla questi

3 Ivi, p. 66.

Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

167

meccanismi specializzati. Piuttosto, non fanno altro che “sintonizzare”, rafforzare o

aggiustare certi meccanismi che sono già presenti grazie alla struttura biologica.4

Nei capitoli successivi vengono minuziosamente descritte le parti del corpo che

servono alla produzione fonetica, dall’analisi fonologica vengono estrapolate

serie di tratti distintivi la cui combinazione consente tutta la produzione verbale,

tale analisi, consente di spiegare anche curiose differenze che talvolta si

presentano tra pronuncia e scrittura. Se l’apparato vocale con la contrazione

delle corde vocali, della laringe e l’abbassamento e alzamento della lingua è il

protagonista della produzione verbale, altrettanto lo è l’apparato uditivo, il quale

deve distinguere tre fattori: chi sta parlando (riconoscimento vocale), cosa il

parlante sta dicendo (percezione del linguaggio) e come lo sta dicendo

(intonazione, implicazioni emotive); ognuno di questi fattori viene registrato da un

“modulo” distinto del cervello.

L’idea è che ci siano tre diversi processori specializzati, pronti ad attivarsi col segnale

uditivo. Ognuno di essi cerca di trovare ciò che è preparato a trovare: il processore

linguistico riguarda segmenti linguistici, il riconoscimento vocale riguarda la complessiva

miscela di frequenze che identifica la voce di chi parla, mentre il riconoscimento

emozionale riguarda la variazioni di frequenza che caratterizzano il tono di voce.5

L’elemento costitutivo seguente della grammatica mentale è la struttura

sintattica; dopo il riconoscimento dei suoni possiamo infatti capire ciò che viene

detto grazie al riconoscimento delle parti del discorso. La struttura sintattica è il

passaggio intermedio tra la percezione fonetica e la comprensione del

significato, essa esprime l’organizzazione della proposizione negli elementi

fondamentali che la costituiscono quali il soggetto, il verbo, gli aggettivi e le

preposizioni, nella posizione in cui vengono pronunciati. Jackendoff esclude

perentoriamente che la struttura sintattica dipenda dal significato, facendoci

4Ivi p. 73

5ivi p. 90

Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

168

notare che tutte le entità linguistiche significanti possono ricoprire qualsiasi parte

del discorso, così il medesimo nome può avere un ruolo diverso a seconda del

posto in cui è collocato nella proposizione. L’autore ci mostra, a questo punto,

una serie di sintagmi sempre più complessi sottolineando la naturalezza con cui

riusciamo a distinguere l’organizzazione del discorso; tutto ciò a favore di

un’ulteriore prova della grammatica mentale, ipotizzando, in base alle

conclusioni raggiunte, una struttura mentale predisposta al linguaggio, identica, o

molto simile, per tutti gli esseri umani: una Grammatica Universale, a cui

corrispondono tutte le grammatiche.

Come già nel caso della Grammatica universale per la struttura fonologica, anche nel

caso della sintassi conviene pensare a un repertorio di presupposti universali (circa le

possibili unità e le loro mutue relazioni, adisposizione di tutte le lingue umane) con in più

una specie di menu (come il menu di un programma per computer) che aiuta chi

apprende ad orientarsi fra le varie opzioni.6

Prove per un fondamento biologico del linguaggio.

Il fatto che la grammatica mentale presenti un livello di astrazione molto più alto

rispetto al linguaggio parlato lascia supporre che qualcosa di innato deve essere

presente nel nostro cervello. Le ricerche sullo sviluppo linguistico a partire dal

periodo neo-natale aiutano Jackendoff nella mappatura della struttura

geneticamente determinata da cui dipendono le nostre capacità linguistiche.

Già nei primi mesi i neonati sviluppano una vocalizzazione costituita di gridolini per

passare, intorno ai sei mesi, a quella che viene definita la fase della “lallazione” in

cui il bambino si esercita legando insieme sillabe senza alcuna pretesa

comunicativa; il neonato balbetta in risposta a chi gli parla esibendo un

comportamento proto-linguistico come se stesse arrivando all’idea di come

funziona una conversazione.

6Ivi p. 114

Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

169

Tra i dieci e i venti mesi il bambino comincia a parlare, pronunciando singole

parole o frasi elementari formate da soggetto e verbo; man mano che questi

stadi progrediscono il soggetto si sintonizza con la lingua parlata nel proprio

ambiente, contemporaneamente in grado di imparare più lingue diverse. Verso il

secondo anno di vita il lessico padroneggiato comincia ad essere notevole ed il

bambino si trova ad affrontare simultaneamente molti vocaboli, in questo stadio

preliminare di approccio linguistico è possibile notare come i bambini non

imparino a memoria ciò che sentono ma, al contrario, applichino delle regole: in

primo luogo quando pronunciano parole che non hanno sentito direttamente dai

propri genitori, in secondo luogo, e in modo più evidente, dagli errori che

commettono, ad esempio con i nomi irregolari. Nel tentativo di formulare il plurale

di alcuni termini irregolari , infatti, i bambini spesso sbagliano, dimostrando che il

loro parlare non è un semplice esercizio di memoria. La capacità d’acquisizione

linguistica rimane flessibile e facilitata fino all’età di circa dodici anni quando

ormai il linguaggio viene fissato e non è più possibile imparare una lingua senza

sforzo. Questo spiegherebbe come per gli adulti sia molto difficile imparare

correntemente una lingua diversa dalla propria, nonostante la cultura e

l’applicazione con cui si cimentano nello studio non avranno mai la fluidità

discorsiva di un madrelingua.7

Capacità mentali diverse dal linguaggio.

Quest’ultima parte del lavoro di Jackendoff completa la visione funzionalista ed

evoluzionista delle capacità mentali dell’uomo descritta attraverso lo sviluppo

linguistico. Fondato su un architettura modulare suddivisa in aree specie-

specifiche, il cervello è uno strumento complesso che permette l’esplicazione,

attraverso il linguaggio, di un corpo di regole articolato e complesso.

7 Il primo a formulare l’ipotesi di imprinting è l’etologo Konrad Lorenz, dopo una serie di esperimenti

simulando i comportamenti di uno stormo di oche. Ivi, p. 165.

Ray Jackendoff – Linguaggio e natura umana – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

170

Analogamente ciò accade con l’elaborazione visiva sottolineata attraverso

l’analisi delle figure gestaltiche, dimostrando la nostra predisposizione a vederle in

particolari modi. Più suggestiva ancora è l’analogia con la capacità di sentire la

musica; anche la percezione di una melodia, il riconoscimento di una sonorità

adeguata ai canoni musicali postula l’esistenza di una “grammatica musicale”.

Le ultime pagine sono dedicate all’importanza dell’ambiente e delle condizioni

sociali in relazione alle nostre caratteristiche naturali. Con un lessico semplice ed

una prosa scorrevole Jackendoff ci introduce nel dominio della ricerca linguistica

e neuro-biologica permettendo un accesso facilitato anche nei passaggi più

tecnici e permettendoci così di giudicare un’ipotesi affascinante che risponda

all’interrogativo su ciò che siamo senza avere l’impressione di trasformarci in meri

automi o “zombie” filosofici: un prodotto perfettamente integrato di natura e

cultura. Rileggere oggi il lavoro di questo autore consente di fare un po’ di

chiarezza sull’apporto della ricerca scientifica allo studio del linguaggio e ci offre

una prospettiva originale da cui guardare ad una dicotomia filosofica classica

come quella tra innatismo e anti-innatismo.

Riccardo Furi

Biblioteca Filosofica © 2007 - Humana.Mente, Periodico trimestrale di Filosofia, edito dalla Biblioteca Filosofica - Sezione Fiorentina della Società Filosofica Italiana, con sede in via del Parione 7, 50123 Firenze (c/o la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Firenze) - Pubblicazione iscritta al Registro Stampa Periodica del Tribunale di Firenze con numero 5585 dal 18/6/2007.

Filosofia del Linguaggio:

prospettive di ricerca Numero 4 – Febbraio 2008

Intervista a George Lakoff

The mind of the 21st century and its consequences

Duccio Manetti & Silvano Zipoli

http://www.humana-mente.it

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

171

George Lakoff, americano, è professore di linguistica (in particolare, linguistica cognitiva)

all'Università di California, Berkeley.

Sebbene una parte della sua

ricerca riguardi questioni

tradizionalmente studiate dai

linguisti, è famoso soprattutto per le

sue idee riguardanti la centralità

della metafora nella società e nel

pensiero umano, nonché per le

descrizioni originali di come si

formano i processi di pensiero. Le

sue ricerche negli ultimi anni

vertono sul concetto di "mente

incorporata". Consulente politico

dei Democratici americani fa della

politica un suo impegno quotidiano. (fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/George_Lakoff)

Mente e linguaggio

1. Che cosa intende con “mente incorporata” così come la ha definita nel suo

testo Philosophy in the Flesh? Che relazione c’è tra la sua teoria della mente e il

filone dell’epistemologia naturalizzata inaugurata da Quine?

Ciò che Quine ha inaugurato è una cosa completamente diversa. Egli credeva

che una tradizionale logica simbolica fosse il modo in cui le persone pensano, e

che ciò sarebbe rimasto invariato. Perciò l’unico problema per Quine era stabilire

quali fossero le particolari costanti e i concetti all’interno della logica, quali fossero

i predicati; e ciò era da scoprire scientificamente. L’assunto da cui Quine partiva

era conservare la logica in quanto tale, poi la scienza avrebbe semplicemente

avuto il compito di scegliere “questo predicato” invece di “quest’altro predicato”.

Non era un’idea particolarmente interessante.

La mia teoria della mente è una faccenda completamente diversa. Un tempo mi

occupavo di logica, con la convinzione che la cognizione umana fosse qualcosa

di logico, e ho lavorato su quest’idea per molti anni. Ma non ha funzionato e ha

Figura 1 George Lakoff all’Università di Berkeley

(fonte: www.berkeley.edu/.../08/images/lakoff_1541_2.jpg)

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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continuato a non funzionare, finché – verso la metà degli Anni Settanta – non è

nata la scienza cognitiva, che ha mostrato che le persone pensano in modi molto

diversi tra loro. Per esempio, prendiamo la frame semantics: è stata studiata allo

stesso tempo da Charles Fillmore in linguistica, da Marvin Minsky nel campo

dell’intelligenza artificiale, e da Erving Goffman in sociologia. Fondamentalmente,

sono tutti e tre giunti alle stesse conclusioni. Goffman si occupava dello studio

delle istituzioni – che era molto diverso da ciò di cui Fillmore si occupava –, e

giunse alla conclusione che, al proprio interno, ogni istituzione è caratterizzata da

un insieme di ruoli e che essi sono interpretati dalle persone quasi come in una

rappresentazione teatrale. Per esempio, in un ospedale ci sono dottori, pazienti,

infermieri etc., e ognuno sa esattamente ciò che deve fare: ognuno conosce il

proprio ruolo, e interpreta una determinata parte secondo un certo “copione”. E

ci si può accorgere di tutto ciò proprio quando qualcuno non rispetta le regole

imposte dal proprio ruolo. Infatti, se una persona entrasse in un ospedale come

visitatore e gli fosse messo in mano un bisturi con la richiesta di procedere ad

un’operazione chirurgica, quello sarebbe un esempio eclatante di “rottura” del

frame, perché i visitatori notoriamente non eseguono operazioni chirurgiche.

Ma il punto è che Fillmore scoprì qualcosa di molto diverso. Attraverso

l’osservazione del linguaggio, egli notò che ogni singola parola è definita rispetto

ad un frame dello stesso tipo (con ruoli, scenari, etc.), che se si usa la parola si

evoca il frame, e che le persone pensano in termini di sistemi di frame. Questa fu

una scoperta scientifica, e la stessa cosa fu anche scoperta nel campo della

psicologia cognitiva, dove – per altre ragioni – si arrivò alla stessa conclusione.

Così, entro la metà degli anni settanta, fu chiaro che la logica non funzionava in

quella maniera.

Inoltre, si vide anche che le persone pensano in termini di prototipi, e che esistono

molti tipi di prototipi, di logiche dei prototipi, e ciò è completamente diverso da

come funziona la logica formale. Un’altra scoperta di grande rilevanza fu che i

nostri concetti, come quello di “colore”, non sono là fuori nel mondo. Era risaputo

già da lungo tempo che i colori sono proprietà secondarie, ma non si aveva

ancora idea di come questi funzionassero. Nella tradizione filosofica anglosassone

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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degli anni sessanta e settanta si riteneva che la verità dovesse essere stabilita in

base alla sua corrispondenza con il mondo. Perciò, se per esempio si dice “La

sedia è rossa”, si sta dicendo che tale affermazione è vera solo nel caso in cui la

sedia faccia parte del “gruppo delle sedie” e di quello delle cose rosse. Ma

abbiamo visto che non esiste nessun “gruppo delle cose rosse” al mondo, che il

colore non è causato da fattori esterni, ma da un’interazione tra lunghezze

d’onda, coni retinici, e un sistema di circuiti neurali. Il colore non esiste

autonomamente, è creato dal nostro funzionare nel mondo, con i nostri corpi. E

ciò significa che l’embodiment è di fondamentale importanza.

Ci sono anche altri motivi – scoperti negli anni settanta – per i quali l’embodiment

è importante. Per esempio, Leonard Talmy e Ronald Langacker studiavano i

termini usati per descrivere le relazioni nello spazio nelle varie lingue. In ognuna ci

sono tanti diversi modi di riferirsi alle relazioni spaziali. Nonostante vi fossero

differenze tra lingua e lingua, Leonard Talmy e Ronald Langacker scoprirono che

queste sono primitive, che sono le stesse in ogni lingua. Cose come contenitori,

sorgenti, schemi sorgente-percorso-obiettivo, schemi di rotazione, schemi di forza

dinamica, come contatto e supporto, erano presenti in ogni lingua. Ma erano

definiti rispetto al corpo; dunque, espressioni come “sopra” e “sotto”, “davanti” e

“dietro” sono definite rispetto al corpo. Come si può notare, anche in questo

campo l’embodiment ha avuto grande rilevanza.

Più tardi, Eleanor Rosch scoprì quelle che chiamò “categorie di livello basilare”. Le

categorie più semplici sono definite – ancora una volta – rispetto a ciò che il

corpo fa: rispetto alla percezione gestaltica, all’azione motoria e all’abilità di

sviluppare un linguaggio mentale simbolico. Quando si mettono insieme queste tre

cose, si ottiene l’idea che il significato sia incorporato, che dipenda dal modo in

cui il nostro corpo opera nel mondo.

Dunque, queste erano le idee; ed eravamo nel 1975.

Da allora, fu chiaro che studiare l’embodiment era necessario e di fondamentale

importanza.

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

174

2. In Metafora e Vita Quotidiana, lei e Mark Johnson avete proposto una terza via

per la filosofia oltre all’oggettivismo e al soggettivismo, che chiamavate

esperienzialismo; è una traccia che si sentirebbe ancora oggi di seguire?

Sì. Allora lo chiamammo esperienzialismo, così come un altro modo per definirlo

era realismo incorporato – poiché è una posizione realista.

Una delle cose che abbiamo scoperto è che certe metafore non sono arbitrarie.

Se si afferma che “più” è “su” e “meno” è “giù”, e si dice – per esempio – “I prezzi

sono saliti” o “I prezzi sono scesi”, ciò che si sta usando è una metafora. Ma è

anche un’affermazione basata sull’esperienza: è un’esperienza vera ogni giorno

della nostra vita che se si versa più caffè in una tazza il livello sale, e che se si beve

il caffè il livello scende.

Abbiamo inoltre notato che alcune azioni corrispondenti nell’esperienza danno

vita a certe metafore e da allora abbiano imparato sempre di più riguardo a ciò.

Ma l’idea era che molte metafore fossero basate sull’esperienza e che perciò, in

aggiunta agli altri tipi di embodiment, questo tipo di esperienza – anche per cose

astratte come le metafore – fosse da considerarsi incorporata. Ciò significava che

non si poteva semplicemente avere una nozione di razionalismo ed empirismo, o

realismo ed idealismo; nessuna di queste sarebbe stata corretta. Bisognava

aggiungere una concezione attraverso la quale si potesse interagire con il mondo;

quando si interagisce con il mondo si ha a che fare qualcosa di reale che sta

accadendo, sia ha un’esperienza di questa interazione e ciò è reale. Ma non si

tratta di qualcosa di esterno che è là fuori nel mondo. Perciò si ha ciò che noi

chiamiamo un realismo incorporato; ed in molti casi sembra che ciò che

percepiamo sia semplicemente là fuori nel mondo, ma non è così: è solo perché

abbiamo tutti praticamente lo stesso corpo.

3. Nello stesso libro (Metafora e Vita Quotidiana), era evidente la sua idea di un

ancorarsi delle strutture cognitive a schemi basici corporei che poi nel testo

successivo (Philosophy in the Flesh) ha chiarificato. Ritiene che questo

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

175

approccio alla mente consistente nel legare i processi mentali alla corporeità

sia un modo per risolvere molte delle diatribe della filosofia della mente?

Innanzitutto, la denominazione “filosofia della mente” deriva dall’idea che la

filosofia sia la disciplina ultima, che non dipenda dai fatti, che sia tutta a priori, e

che si possa spiegare la mente semplicemente attraverso il ragionamento a priori,

senza nessuno studio scientifico. Ma ciò sarebbe ridicolo. Sarebbe un po’ come

avere una filosofia della fisica senza neanche studiare la fisica! Comunque, ciò

che questo significa – poiché questo riguarda la mente, e i filosofi usano la ragione

– è che in effetti le scoperte scientifiche influenzano la filosofia, e che sono molti i

quesiti posti dai filosofi (o le supposizioni fatte dai filosofi) che potrebbero risultare

privi di senso per il semplice fatto che non tengono conto della scienza (in senso

proprio) della mente. Ed è proprio questo il nocciolo della questione.

Dovrebbe davvero esistere una scienza cognitiva della filosofia e quello che Mark

Johnson e io abbiamo tentato di fare in Philosophy in the Flesh è stato proprio

interrogarci su cosa accade quando si studia la filosofia dalla prospettiva della

scienza cognitiva. Facendo ciò, si scopre che ogni filosofia ha una struttura. In ogni

filosofia viene usato un metodo, un metodo di analisi. E la scienza cognitiva ha

anch’essa un metodo di analisi. Inoltre, bisogna applicare quel metodo di analisi a

una certa gamma di concetti e nella storia della filosofia questa include: il tempo,

gli eventi, la causalità, la mente, l’Io, la moralità, l’essere. Noi abbiamo preso

questa lista e abbiamo deciso di studiarla. È venuto fuori che sono tutti concetti

metaforici, il che è molto interessante.

Poi, l’altra cosa che le varie correnti filosofiche dovrebbero fare è rifarsi alle

filosofie precedenti e descrivere quanto esse si differenziano dalle precedenti.

Così, abbiamo deciso di applicare la scienza cognitiva alle filosofie precedenti, e

quello che abbiamo scoperto empiricamente è che ogni filosofia considera come

vere un certo gruppo di metafore e poi molto attentamente elabora tutte le

inferenze. Infatti, la metafora ha un’importantissima proprietà: la metafora

concettuale preserva l’inferenza, e preservando l’inferenza preserva i modi di

ragionamento. Quindi, se in ogni filosofia c’è una serie di metafore che sono

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

176

considerate come vere, allora le inferenze scaturiranno da queste stesse

metafore. Ciò che abbiamo scoperto non è niente di più di quello che un

qualunque studente di filosofia potrebbe scoprire, cioè che i grandi filosofi sono

molto attenti quando elaborano le inferenze delle loro metafore. Abbiamo

studiato tutto questo nei minimi dettagli, scoprendo che porta a un approccio alla

filosofia completamente diverso. Bisogna guardare alla scienza cognitiva per

porre domande riguardanti la filosofia, perché abbiano senso, il che in pratica

significa che se una domanda filosofica non è compatibile con i fatti riguardanti la

mente e il sistema concettuale, allora è un concetto che “non funziona”, che

porta ad affermazioni sulla mente e sul linguaggio che sono false; quindi non

dovrebbe essere considerata una domanda filosofica ragionevole. In questo

modo, si può notare come molti quesiti posti da filosofi presuppongono una teoria

della mente o del linguaggio che si rivela essere non vera. Dovrebbe esserci un

vincolo scientifico a stabilire la ragionevolezza di una domanda filosofica.

4. Considera la sua posizione una forma di riduzionismo? Se sì, quale tipo di

riduzionismo, o eliminativismo?

Non è una forma di eliminativismo, per niente. Tuttavia, esistono altre versioni di

riduzionismo in cui potrebbe rientrare anche la mia posizione. In queste forme di

riduzionismo individuiamo le metafore che collegano certi livelli di analisi, e

prendiamo in esame quello che le nostre metafore creano nel fare ciò. Diciamo –

per esempio – che esiste un livello di analisi in cui si analizza il cervello fisico, uno in

cui si analizza la computazione neurale, e uno che si tiene in conto quando si

studia la semantica linguistica, etc., e che questi livelli devono tutti essere

compatibili fra loro: la linguistica deve essere compatibile con la computazione

neurale, e quest’ultima deve esserlo con tutto ciò che si sa riguardo al cervello. Ed

è questa “compatibilità” che si potrebbe chiamare riduzionismo (io non la

chiamerei così, ma alcune persone lo fanno). In ogni caso, tutto ciò non ha nulla a

che fare con l’eliminativismo.

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

177

5. Pensa che la teoria delle categorie possa sostituire del tutto la teoria degli

insiemi, come sostenuto da Bill Lawvere, Colin McLarty e Alberto Peruzzi? Crede

che una delle ragioni sia che questa si accorda meglio proprio con quegli

schemi basici della mente di cui sia lei che Peruzzi parlate?

A dire il vero, la teoria delle categorie è molto diversa. È molto importante

distinguere una comprensione filosofica o cognitiva della matematica dalla

matematica in sé, e dai fondamenti o dalle correnti per i fondamenti. Le varie

correnti per i fondamenti della matematica supposero che i fondamenti fossero

essi stessi all’interno della matematica: una forma di meta-matematica. Così, nella

teoria degli insiemi si ritiene che la logica formale si trovi all’interno della teoria

degli insiemi. L’ipotesi è che tutta la matematica possa essere formalizzata nei

termini di quella logica, che si possa ricavare un significato dai simboli quando li si

combina con modelli teorici, che esistano funzioni che mappano dai simboli ai

modelli, e che queste funzioni siano esse stesse matematica. Alla fine, si ottengono

risultati all’interno della meta-matematica riguardo alla completezza o coerenza

di certi sistemi. Questi sono risultati matematici.

La teoria delle categorie, per quanto ne so, (poiché non sono certo un esperto su

questo argomento) è un tentativo di avere diverse forme di matematica (la teoria

delle categorie è essa stessa una forma di matematica), in modo da usare queste

come meta-matematica, di affermare che noi comprendiamo l’algebra,

l’aritmetica, la geometria, etc. secondo la teoria delle categorie, che la teoria

delle categorie dovrebbe essere la nuova meta-matematica, e che i risultati di

queste discipline dovrebbero essere ottenuti all’interno della teoria delle

categorie. In questo modo, ciò che si ottiene sono due versioni di matematica;

ma sono entrambe matematica.

Quello che noi stiamo facendo – invece – è completamente diverso. Noi ci

interroghiamo su come quella matematica venga compresa. Stiamo tentando di

capire come la mente e il cervello umano abbiano dato origine alla matematica.

La questione non è scegliere tra teoria delle categorie e teoria degli insiemi. Se

fosse la teoria delle categorie a essere la meta-matematica, noi vorremmo capire

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

178

quella struttura cognitiva; se invece fosse la teoria degli insiemi, sarebbe

quest’altra struttura che vorremmo comprendere.

Ciò di cui ci occupiamo è su un piano completamente diverso rispetto alle due

teorie. La nostra scoperta è stata arrivare a capire che sono i comuni meccanismi

del pensiero che danno origine alla matematica. La matematica non è là fuori nel

mondo come se fosse indipendente dagli esseri umani, ma nasce da normali

processi, quali: frame, prototipi, metafore, metonimie, parole derivanti dalla

fusione di altre due parole, e legami neurali. È un prodotto del cervello umano, del

corpo umano e dell’esperienza incorporata umana. E questo si può notare in molti

modi. Innanzitutto, ciò che Nuñez ed io siamo riusciti a fare è stato proprio stabilire

i fondamenti. Uno dei quesiti più importanti che ci siamo posti è: qual è la

differenza tra le metafore in matematica e quelle usate nel linguaggio quotidiano

o in poesia? Qual è la differenza tra la cognizione matematica e quella usata

nella vita di tutti i giorni? La differenza è che esistono delle restrizioni in più, basate

sulla matematica. La matematica usa la normale cognizione, ma vi aggiunge

vincoli di coerenza, precisione, simbolizzazione, l’abilità di mettere per iscritto, la

formulazione di precise inferenze, la calcolabilità. Tutte queste sono restrizioni

applicate alla matematica, e ogni sistema cognitivo che soddisfi questi requisiti

potrebbe essere ragionevolmente considerato matematica. Affermando che la

matematica è speciale – e non perché è la fuori nel mondo, ma perché ha dei

requisiti speciali – abbiamo dunque caratterizzato in modo preciso i vincoli su

quella che è considerabile come un’analisi cognitiva della matematica. Oltre a

ciò, la meta-matematica, soddisfacendo queste condizioni, diventa essa stessa

una forma di matematica. Una volta abbiamo provato a farlo: abbiamo

realmente tentato di stabilire dei fondamenti cognitivi per caratterizzarli usando

metafore precise, precisi frame, precisi legami etc., e per mostrare come si

possano definire molti dei rami della matematica ed ottenere i risultati.

Inoltre, un’altra cosa molto importante riguardo la matematica, di cui ho parlato

in Donne, fuoco e cose pericolose, è che non è vero che esiste una sola

matematica. Per esempio, all’interno della teoria degli insiemi coesistono molte

teorie degli insiemi, e il grande risultato raggiunto da Paul Cohen è stato quello di

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

179

mostrare che la risposta alla domanda “Esistono gradi di infinità tra ‘tutto di nulla’

e ‘tutto di uno’?” dipende da quale teoria degli insiemi si usa; la risposta è “sì” con

alcune teorie degli insiemi, e “no” con altre.

Perciò, se mi si chiede se la teoria delle categorie potrebbe prendere il posto della

teoria degli insiemi come fondamento della matematica – che è una domanda di

carattere prettamente matematico – io posso affermare che non esiste una

risposta netta. È anche stato scoperto che esistono alcune congetture in

topologia e in algebra in cui la risposta è vera se si usa una certa teoria degli

insiemi e falsa se se ne usa un’altra. Per questo non è possibile affermare che esiste

un regno platonico in cui tutto sia assolutamente vero o indiscutibilmente falso;

persino in algebra, in aritmetica e in topologia, semplici quesiti possono non avere

un’unica risposta. Nel libro con Nuñez, abbiamo posto un interrogativo simile: è

0,99999… uguale a 1? Non abbiamo mai creduto che lo fosse, ma tuttavia

eravamo in grado di dimostrarlo. Sapevamo perfettamente come dimostrare che

0,9999… è uguale a 1, ma sapevamo anche che tale dimostrazione avrebbe

implicato la doppia negazione e cose del genere. Alcune persone non

credevano a questa dimostrazione, e noi neanche! Alla fine, è venuto fuori che

tutto dipende da se si ammette o non si ammette l’uso dei numeri infinitesimali.

Esistono due metodi che sono stati elaborati per fare della analisi matematica: il

metodo più comune (elaborato da Newton) usa i limiti, mentre gli infinitesimi sono

stati introdotti da Leibniz, e sono numeri talmente piccoli che si può moltiplicarli

per un qualsiasi numero reale, ma non si arriverà mai ad ottenere un altro numero

reale. Quindi, ciò che abbiamo fatto è stato elaborare una forma di matematica

infinitesimale in cui 0,99999… non era uguale a 1 – ed era possibile calcolare la

differenza tra i due numeri –, e dove un altro numero – come per esempio

0,33333… – era anch’esso diverso da 1, ma in cui si potesse vedere chiaramente

che la differenza tra 0,33333… e 1 era ben diversa da quella tra 0,99999… e 1.

Osservare ciò è stato fondamentale per capire che quelle domande non hanno

risposte nette. Tutto dipende da cosa si accetta come numero. Quindi, se si

considerano gli infinitesimi come numeri, si ottiene una risposta; se invece non li si

considera come dei numeri, allora si ottiene un’altra risposta.

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

180

Ma sono entrambe delle forme di matematica, ugualmente accettabili.

6. Alberto Peruzzi, ha proposto un modello degli schemi cognitivi (che fa uso di

alcune sue idee) basato su una definizione matematica di trasferimento di

struttura da un dominio ad un altro attraverso la nozione di “funtore”. Inoltre,

Peruzzi collega questa sua concezione della teoria matematica delle categorie

ad una visione generale secondo la quale “la comprensione umana non può

essere isolata dai naturali vincoli corporei che rendono possibile l’esistenza di

ogni soggetto conoscente”. Intravede punti di contatto tra l’”esperienzialismo”

e il “naturalismo intrecciato” di Peruzzi?

Ai tempi in cui scrivemmo Metafora e Vita Quotidiana, anche io e Johnson

pensavamo che la nozione matematica di funtore fosse corretta. Ora sappiamo

che non lo è. Fortunatamente o sfortunatamente, ma non lo è.

Ciò che è stato scoperto da allora è che le metafore hanno avuto origine dal

cervello umano e dal modo in cui esso funziona. Esiste un sistema di metafore

primarie, che vengono acquisite durante l’infanzia; questo processo avviene

grazie al modo in cui l’apprendimento neurale funziona. Per esempio, se tutti i

giorni uno versa dell’acqua in un bicchiere e vede il livello salire, ogni singolo

giorno il cervello registrerà che quantità e verticalità coesistono: entrambe sono

registrate contemporaneamente dal cervello; i due processi sono entrambi attivati

allo stesso tempo, ma in zone diverse del cervello. A causa della propagazione

dell’attivazione delle loro connessioni a varie parti del cervello e a molti pathway –

e attraverso questi –, l’attivazione si propaga attraverso le vie metaboliche fino a

quando vengono a congiungersi da entrambe le estremità formando circuiti

neurali; questi circuiti che si formano sono le metafore. E le persone ne imparano

tantissime, semplicemente vivendo nel mondo, semplicemente osservando quali

tipi di cose accadono contemporaneamente.

La cosa interessante di tutto ciò è che non funziona proprio come i funtori. Infatti,

prendiamo per esempio la frase: “Ti ho dato un’idea”. Se ti dessi un libro, subito

dopo non lo avrei più; se invece ti dessi un’idea, continuerei comunque ad averla

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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anch’io. Tutto ciò ci è noto perchè sappiamo come funzionano le idee e come si

svolge la comunicazione. E quando impariamo la metafora per “comunicare

idee”, sappiamo che l’inferenza di perdere l’idea non è nel dominio bersaglio;

“imparare” quale connessione neurale mettere in atto per collegare le due cose

non è proprio possibile.

Ma su un funtore normalmente si prende un intero concetto e lo si mappa per

intero. Otre a ciò, in alcuni casi si ha un dominio bersaglio al quale vengono

aggiunte cose dal dominio sorgente, le quali potrebbero variare a seconda di

quale metafora si abbia. Per esempio, il dominio bersaglio per qualcosa come

“amore” sarebbe un concetto emozionale in cui vi siano due persone che si

amano in una relazione d’amore. Si tratta di uno stato emozionale positivo, ma

probabilmente questo è tutto. Poi, però, esistono metafore in cui l’amore è inteso

come “viaggio”, come “collaborazione”, oppure come “essere legati”, o come

“calore”… Esistono tantissime possibili metafore, ma ciò che una di queste

metafore aggiunge al concetto di amore potrebbe non essere coerente con

quello che un’altra aggiunge. Infatti, si può avere l’amore come “collaborazione”

o come “viaggio”, ma solitamente non si usano le due concezioni assieme:

intendere l’amore come “collaborazione-viaggio” non avrebbe molto senso.

I funtori matematici non aggiungono mai nulla e sono completi; danno tutto

l’input alla funzione. Le vere metafore concettuali possono aggiungere elementi

grazie al fatto che sono sistemi fisici che possono essere attivati o disattivati (o

inibiti) – e quindi è possibile che funzionino oppure no – invece i funtori matematici

ci sono oppure no; esistono o non esistono. Sono quindi le loro stesse proprietà a

rendere i funtori inutilizzabili in una scienza neurale della metafora.

7. Prima, lei ha parlato di prototipi; pensa che la memoria e i circuiti neurali creino

dei prototipi per le azioni?

Sì. Prima di tutto è importante rendersi conto che esistono molti e diversi tipi di

prototipi.

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Uno ha a che fare con i casi più tipici. Questo è ciò che Eleanor Rosch ha

scoperto. Se per esempio si prende in esame la categoria degli uccelli, si possono

osservare esemplari tipici (come i passeri e i pettirossi) e esemplari meno tipici

(come i pellicani, gli struzzi e i pinguini). Chiunque è in grado di riconoscere quali

sono quelli tipici e quali no. Poi, naturalmente, esiste tutta una gamma di

sfumature nel mezzo: esistono gradi di tipicità. E questo è un primo tipo di

prototipo.

Esiste un altro tipo di prototipo, che ha a che fare con le inferenze, in cui, per una

determinata categoria, si possono avere tre diversi prototipi: il prototipo ideale, il

caso tipico, e il caso “incubo”. Per esempio, per una categoria come quella delle

macchine usate, esiste la macchina ideale, quella tipica e quella “da incubo”. E

sono estremamente diverse: il caso ideale è usato per stabilire degli standard e

rappresenta ciò che è più desiderabile, il caso tipico è ciò che normalmente ci si

aspetta, e il caso “incubo” è ciò che si cerca di evitare. Ma tutti e tre

contribuiscono alla comprensione della categoria, e li si usa per ragionare in modi

diversi.

Poi ci sono quelli che sono chiamati “esemplari salienti”, che sono semplicemente

dei casi particolarmente rappresentativi di una categoria, e modificano i giudizi

probabilistici.

Un altro prototipo molto importante è il prototipo dell’essenza, che presuppone

una teoria delle essenze, secondo cui tutto è definito da un’essenza; è da questo

che deriva il concetto di “condizioni necessarie e sufficienti”.

Dunque, in conclusione, non ogni categoria è definita da condizioni necessarie e

sufficienti – che è ciò che la metafora dell’essenza suggerirebbe –, ma ci sono

tantissimi, diversi tipi di cose, e tutti avvengono.

8. Quindi, se sei un sistema fisico con diverse strutture percettive e hai una diversa

esperienza della realtà, tu crei prototipi diversi. In questo modo, sembra quasi

che lei stia dando ragione a Thomas Nagel, o a quel tipo di articoli sul

soggettivismo nella filosofia della mente.

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Non è per niente soggettivismo. Penso sia assolutamente sbagliato chiamarlo così.

Gli esempi di Nagel in Che cosa si prova ad essere un pipistrello? sono molto

arguti. Ma, pensandoci bene, egli afferma che se si ha una diversa mente fisica,

un corpo diverso, allora si avrà anche un diverso sistema concettuale. E credo che

ciò sia assolutamente vero. Ma non è comunque soggettivo. Ed è importante

capire perché non lo è. Infatti, gli esseri umani hanno tutti lo stesso tipo di corpo:

abbiamo praticamente tutti lo stesso tipo di cervello, viviamo in ambienti più o

meno tutti simili tra loro, etc. Tutto è simile, quasi uguale e il risultato di ciò è che

abbiamo sistemi concettuali che si assomigliano molto, ma che non sono

perfettamente identici. Il problema è che, spesso, quando si osservano le parti che

sono simili o praticamente uguali, si è portati a credere che esse siano

semplicemente reali e là fuori nel mondo, ma non lo sono: sono in realtà parte di

noi. Ma dire ciò non significa affermare che esse sono soggettive, poiché

“soggettivo” implica che qualcosa sia completamente diverso da persona a

persona. E questo sarebbe sbagliato, perché non sono completamente diverse:

sono in gran parte uguali.

9. Ma pensa che se un uomo vivesse in un ambiente diverso, per esempio in

assenza di gravità, avrebbe prototipi diversi (prototipi spaziali, o schemi di

movimento, etc.) nella sua mente?

Assolutamente sì. Quest’uomo avrebbe diverse nozioni di forza dinamica, diverse

metafore, etc. Variare il sistema concettuale di una persona renderebbe tutto

diverso.

10. Una scoperta molto importante fatta in Italia, i neuroni specchio, – che è stata

molto studiata anche da voi a Berkeley – apre molte strade alla ricerca sul

comportamento imitativo e getta luce almeno in parte su quella che la filosofia

ha chiamato intenzionalità. Quali sviluppi pensa che possano nascere da

questi progetti, specialmente nel campo della ricerca filosofica? E qual è la sua

opinione su questo programma di ricerca?

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

184

Penso che sia un programma di ricerca meraviglioso e di estrema importanza.

Infatti, assieme a Gallese, ho anche scritto un articolo riguardo a questo. E ne ho

seguito gli sviluppi molto da vicino.

È importante sotto molti punti di vista. Innanzitutto afferma che esiste un legame

fisico-biologico con le altre persone, ma anche con altre cose del mondo, con la

natura, etc. Inoltre, afferma che esiste pure un legame emozionale, poiché i

neuroni specchio sono situati nella corteccia premotoria e sono collegati

attraverso la corteccia insulare alle vie metaboliche positive e negative (il

pathway della norepinefrina e quello della dopamina). Molti concetti e narrazioni

hanno componenti emozionali. È risaputo che la ragione non può esistere senza

l’emozione, e che l’emozione – invece di interferire con il ragionamento – in realtà

è ciò che lo rende possibile.

Il motivo è molto semplice. Se, per esempio, una persona subisse un ictus e non

potesse più provare nessuna emozione, quella persona non saprebbe più cosa

fare; se dovesse decidere come agire, se volesse stabilire un obiettivo, non

sarebbe neanche in grado di prevedere se questo potrebbe essere soddisfacente

oppure no, non potrebbe sapere se una determinata azione potrebbe ferire le

altre persone, o renderle felici o indurle ad attaccare, etc. Dunque, l’emozione è

assolutamente necessaria per essere razionali. Questa scoperta è di cruciale

importanza.

Grazie alla connessione tra le regioni emotive e la corteccia premotoria, esiste

quella che è chiamata la fisiologia dell’emozione, che è stata studiata da Paul

Ekman e da molti altri. È risaputo, per esempio, che quando una persona è

arrabbiata, la temperatura della sua pelle si alza di mezzo grado, la pressione

sanguigna aumenta, il battito del cuore accelera, etc. Inoltre, l’abilità percettiva è

condizionata da molti fattori fisiologici.

È grazie ai neuroni specchio che si può capire se qualcuno è arrabbiato,

spaventato o felice. E questo permette di immedesimarsi nelle altre persone, il che

suggerisce che l’empatia sia qualcosa di innato, e che quindi non sia affatto vero

che l’unico istinto naturale dell’uomo sia la ricerca e il conseguimento

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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dell’interesse personale. Tutto ciò ha conseguenze morali, politiche ed

economiche molto importanti.

Sono molte le teorie delle scienze politiche incentrate sulla ricerca dell’interesse

personale. Ma non sono vere, e hanno pesanti ripercussioni politiche.

I neuroni specchio hanno anche importanti conseguenze per una teoria del

significato. I neuroni specchio si attivano quando si compie una certa azione,

oppure quando si vede qualcun altro compierla. Questo loro comportamento

mostra che sono in un qualche modo neutrali tra azione e percezione. E questo è

esattamente ciò che il linguaggio è. Se si considerano verbi come “bere”, o

“spingere”, o simili, è irrilevante che siano alla prima o alla terza persona. Ciò

significa che è molto probabile che i neuroni specchio siano coinvolti nel

significato di tali azioni. Ciò dà origine a una teoria del significato, che afferma

che questo è basato sulla simulazione mentale; e l’importanza di tutto ciò deriva

da altri studi nel campo delle neuroscienze.

Intorno al 1990, uno studio di Martha Farah ha mostrato che quando si immagina

di vedere qualcosa viene attivata una parte del cervello che è la stessa che viene

attivata quando si compie quella stessa azione; quando si immagina di muovere il

proprio corpo, è attiva la stessa parte del cervello che “lavora” quando il corpo si

muove per davvero. Ed è stato osservato un simile meccanismo anche per

quanto riguarda i sogni.

Tutto ciò ha portato ad una teoria del significato avanzata da Jerome Feldman, il

quale sostiene che se si ha una frase (per esempio: “Io bevo un sorso d’acqua”)

uno non capisce cosa significa l’azione descritta nella frase se non è in grado di

simularla e immaginarsela.

Dunque, l’idea è che la comprensione – come minimo delle frasi che descrivono

azioni fisiche – è basata sulla simulazione mentale, che può essere sia conscia che

non. Quando poi si ha a che fare con nozioni più astratte, esse possono essere

basate su metafore o azioni fisiche o su schemi dell’immagine, che sono

rappresentati da altri tipi di strutture mentali.

La convinzione è che tutto è incorporato in termini di significato e che da ciò si

possa ricavare un’appropriata teoria del significato. E una delle caratteristiche più

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

186

importanti dei neuroni specchio è proprio il fatto che iniziano a sostenere una

teoria del significato.

Inoltre, i neuroni specchio sono alla base di una diversa concezione di moralità e

politica.

11. La NTL, che lei ha proposto assieme ad altri colleghi (in particolare con Jerome

Feldman, che ha da poco pubblicato From molecule to metaphor), viene

definita come uno dei contributi più importanti alla linguistica cognitiva. In

Italia, il ricercatore Andrea Moro ha verificato sperimentalmente la classica

idea chomskyana della grammatica generativa; nel suo ultimo libro I confini di

Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili, espone tutti i passi

dell’esperimento che lo ha portato a vedere come il cervello umano sia come

una radio pronta a sintonizzarsi su tante lingue, ma non su alcune che vengono

definite impossibili. Il cervello avrebbe innata una grammatica universale che

lo rende in grado di riconoscere regole possibili da regole impossibili, lingue

possibili da lingue impossibili. Il cervello del soggetto sperimentale si dimostra

capace di distinguere dove le strutture sintattiche violano questa specie di

grammatica universale da dove invece la rispettano. Cosa conosce e cosa

pensa di questa ricerca?

Non conosco i dettagli della ricerca, ma una delle prime cose che ogni filosofo sa

è che non si può semplicemente verificare qualcosa. Nella filosofia della scienza, si

impara che la verificazione è un errore. Quindi Moro non ha verificato nulla.

Tuttavia, alcuni dei risultati della sua ricerca potrebbero adattarsi a molte teorie.

Per esempio, la NTL – che è incompatibile con ciò che Chomsky afferma – sostiene

che il linguaggio è basato sul sistema concettuale, che è incorporato, e afferma

che esistono limiti alle lingue possibili e che non qualunque sintassi è possibile. Non

so se questo abbia a che fare con la ricerca di Moro, ma non importa se una

teoria è completamente incompatibile con quella di Chomsky: se ne può ricavare

comunque una teoria sui limiti del linguaggio. Mostrare che una sintassi non è solo

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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arbitraria non significa ammettere che Chomsky aveva ragione, ma significa

semplicemente mostrare che una sintassi non è solo arbitraria.

12. Pensa che il sogno di un’intelligenza artificiale “forte” che ha dominato gli anni

Settanta e Ottanta del secolo scorso sia del tutto tramontato, oppure le nuove

teorie sull’umana computazione in relazione alla nuova strada suggerita dal

connessionismo ibrido, e con la sua specifica organizzazione in estese reti

neurali, potrebbero tener vivo quel sogno?

No, assolutamente non tiene vivo il sogno di un’intelligenza artificiale. È

scientificamente morto, ma non politicamente. Ci sono molte persone che

lavorano nel campo dell’intelligenza artificiale che ci credono ancora. Tutto il

lavoro e gli studi fatti sulla natura del cervello e del corpo, sull’embodiment, hanno

mostrato che non ha completamente senso fare una cosa del genere.

Si prenda come esempio la nozione di “emozione”: essa ha a che fare con gli

effetti dei neurotrasmettitori. Non è un effetto computazionale: è un effetto che ha

a che fare con altre proprietà neurochimiche del cervello e del corpo.

Dunque, i legami con l’emozione sono importantissimi per il linguaggio e per la

comprensione del pensiero. L’emozione non è certo parte dell’intelligenza

artificiale.

Tuttavia, potrebbe invece essere utile ideare dei modelli che possano essere fatti

funzionare attraverso computer, dai quali si possano ottenere modelli di

computazione neurale. Tutto ciò si potrebbe sicuramente fare, ma rimarrebbe

comunque molto diverso dal sostenere che un computer capisce qualcosa; i

computer non sono in grado di capire nulla.

13. NTL, neuroni specchio e biolinguistica sono tutte scoperte tramite le nuove

tecniche di indagine sul cervello chiamate neuroimaging. Queste nuove

tecniche consentono finalmente di svelare l’architettura del cervello. Pensa

che queste nuove tecniche ci porteranno a teorie che spieghino l’interazione

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

188

tra mente e cervello, e che quindi superino quello che è stato chiamato gap

epistemico?

Quando un neurone è attivo, parte un flusso di ioni; poi il neurone ha bisogno di

nuovo ossigeno per attivarsi un’altra volta. Allora il sangue affluisce e

l’ossiemoglobina cede l’ossigeno al neurone, diventando, in questo modo,

deossiemoglobina. Ossiemoglobina e deossiemoglobina hanno proprietà

magnetiche diverse e il segnale dato dal sangue nella fMRI varia in funzione del

livello di ossigenazione. Infatti, tutto ciò che questa tecnica è in grado di

visualizzare è la risposta emodinamica (cioè i cambiamenti nel contenuto di

ossigeno) correlata all'attività neuronale del cervello.

La risoluzione con cui si vede il cervello è di circa 3 mm³; la risoluzione temporale è

1 secondo. In un secondo, ogni singolo neurone può attivarsi circa 200 volte, e in 3

mm³ di cervello esistono milioni di neuroni, ognuno dei quali forma circuiti che si

attivano 200 volte al secondo. È quasi come se si avesse una fotografia

dall’esterno di un palazzo, con un certo numero di finestre illuminate: tutto ciò che

si potrebbe concludere osservando questa fotografia è se la quantità di luci è

elevata o meno, senza però avere la minima idea di ciò che sta accadendo

all’interno del palazzo. La stessa cosa succede quando si osserva un fMRI del

cervello.

Tuttavia, se si fosse particolarmente scrupolosi e si portasse avanti un’attività

sperimentale su un considerevole campione di persone, si potrebbe arrivare a

scoprire che certe regioni del cervello sono attive quando si verificano alcune

esperienze. Si potrebbe imparare molto da una cosa del genere. Dunque, il lavoro

di ricercatori attenti sicuramente permette di apprendere molte cose sul cervello,

ma non potrebbe mai essere in grado di dare informazioni dettagliate sulle

strutture concettuali.

È sicuramente importante rendersi conto che le tecniche di neuroimaging sono

ottimi strumenti di indagine scientifica sul cervello, tuttavia non potranno mai dare

gli stessi risultati che si possono ottenere attraverso la semantica cognitiva.

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

189

14. Recentemente è stato pubblicato anche in Italia il libro di Benjamin Libet, Mind

Time. Le ricerche di Libet sono state contrastate da più fronti. Cosa pensa dei

risultati della sua attività sperimentale e della sua teoria?

Libet, per quello che ricordo, ha mostrato che quando si decide di fare qualcosa,

la mente inconscia prende la decisione prima della mente conscia. È un fatto che

il 98% del pensiero sia inconscio. Sarebbe invero sorprendente se la mente conscia

e quella inconscia agissero contemporaneamente. L’idea che le persone pensino

consciamente di stare decidendo qualcosa in un determinato momento, mentre

invece lo hanno inconsciamente già fatto prima è esattamente ciò che comporta

l’affermazione che il 98% del pensiero è inconscio. Non è per nulla sorprendente. E

ha perfettamente senso.

15. Ma pensa che l’origine di questo esperimento sia una qualche folk

psychology?

Non saprei semplicemente rispondere. Se mi si interroga riguardo l’accuratezza

dell’esperimento, non saprei cosa dire. Libet è un ricercatore molto stimato e i suoi

risultati sono considerati accurati nel campo della psicologia cognitiva. Ma non

sono certo la persona più adatta per giudicare tutto ciò.

16. Qual è la sua opinione sulla filosofia della mente? Il suo compito è finito e la

parola spetta solo alle neuroscienze, oppure la filosofia ha ancora un qualche

ruolo teoretico?

Credo che la filosofia abbia una funzione regolatrice ancora molto importante.

Tuttavia, nonostante debba essere vincolata da quello che si è scoperto grazie

alle neuroscienze, la filosofia della mente consente di porre domande che non si

potrebbero formulare se si avesse a che fare solo con le neuroscienze. Esistono

molte dimensioni di coscienza. Alcune di queste possono o potranno essere

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

190

comprese all’interno delle neuroscienze (per esempio la nozione di “attenzione”),

ma altre probabilmente non lo saranno mai (per esempio la nozione di “qualia”).

17. Crede che alcune nuove competenze sul cervello e sui processi cognitivi

potrebbero avere un impatto sul modo in cui concepiamo la nostra vita

sociale?

Sicuramente un impatto molto rilevante!

Farò soltanto un esempio. Ieri, sul New York Times, era riportato uno studio sul

concetto di rimozione, sul rifiuto di ammettere certi aspetti della realtà. Questo

studio mostrava che la rimozione è dappertutto, che ognuno la usa, e che serve

alle persone; in certi casi crea loro dei problemi, ma la maggior parte delle volte le

aiuta semplicemente ad andare avanti nella vita. La negazione è uno strumento

molto importante, ma bisogna essere consapevoli di quanto lo si sta usando e di

quanto ricorrere ad esso potrebbe nuocere.

Le cose che stiamo imparando sulla frame semantics sono molto importanti in

campo politico. Abbiamo scoperto che se si usa lo stesso linguaggio degli

oppositori politici, anche se si stanno in realtà sostenendo opinioni contrarie, si

finisce per aiutarli, poiché ogni parola è definita rispetto ad un frame, e ogni frame

è caratterizzato all’interno di un sistema di frame; perciò quando si attiva la

parola, automaticamente si attiva il loro frame, il loro intero sistema di frame e

quindi il loro intero sistema di valori. Dunque, quando si usano i frame di altre

persone – anche se per contrastare le loro opinioni – si sta in realtà accettando il

loro sistema di valori e di conseguenza li si sta favorendo.

Questa è la ragione per cui è estremamente importante essere consapevoli di

questo meccanismo.

18. In Da dove viene la matematica, lei e Rafael Nuñez suggerite che i concetti

basilari della matematica si trovino nella mente umana e nell’esperienza

incorporata. In questo modo, vi opponete alla classica idea di un dominio

della matematica trascendente e indipendente. Quali sono le più importanti

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

191

differenze tra la vostra concezione e la tradizionale, platonica immagine della

matematica e anche della razionalità?

Sono enormemente diversi! Non saprei da dove cominciare con le differenze! La

tradizionale concezione della matematica sostiene che essa è trascendente, che

è là fuori nel mondo, che struttura non solo quest’universo ma ogni possibile

universo. E ciò porta a certe idee pazzesche, come per esempio il progetto SETI,

dove alcune persone stanno cercando di scoprire se esiste vita intelligente nello

spazio. Queste persone inviano nello spazio il segnale di π in numeri binari, con la

convinzione che un qualsiasi essere intelligente proveniente da un qualunque

luogo dell’universo sia in grado di comprendere π in numeri binari. Ma a pensarci

bene, addirittura la maggior parte delle persone sulla Terra non capirebbero π in

numeri binari e se si prende per esempio un mammifero simile a noi, come il

pipistrello, anch’esso non capirebbe i numeri binari!

Una volta appurato che l’intelligenza umana e i sistemi concettuali sono

strettamente legati al corpo umano e all’esperienza umana, ci si rende conto di

come l’idea di trovare da qualche parte nell’universo degli esseri simili – che

abbiano lo stesso tipo di cervello, mente ed evoluzione – sia estremamente

improbabile, praticamente impossibile.

Dunque, questa era un’importantissima differenza; infatti, la matematica non è

semplicemente neutrale. Ci sono altre questioni cruciali riguardanti la

matematica. Chi si occupa di studi statistici presuppone che la statistica sia reale.

Gli studi statistici si basano su un importante gruppo di metafore, tra le quali quella

secondo cui la probabilità ha proprietà distributive. Le statistiche sono basate sulla

distribuzione: estendono alla realtà attuale i risultati ottenuti attraverso dati rilevati

in passato su un certo campione di popolazione. Supponiamo di studiare i rischi di

cancro: se fai un certo tipo di test ed ottieni un certo risultato, allora hai una

determinata probabilità di sviluppare un cancro. Questo risultato significa soltanto

che una certa percentuale di persone partecipanti allo screening ha avuto il

cancro, e che tu condividi con loro alcune caratteristiche (per esempio il luogo di

residenza); ma questo potrebbe anche non c’entrare nulla con il cancro. Davanti

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

192

ad un risultato di questo tipo – che, in realtà, dà solo informazioni su persone con

le quali condividi alcune, ma non molte altre, caratteristiche – non puoi avere la

minima certezza che esso abbia davvero a che fare con te. È così che funziona la

statistica.

Le statistiche sono continuamente utilizzate per stabilire i piani di azione politica,

quasi come se i risultati predetti dalle statistiche si realizzassero poi davvero nel

mondo reale. Per esempio, supponiamo di fare un sondaggio (le risposte al

sondaggio dipendono dalla domanda che si fa, dai frame che si adottano, etc.),

e che l’83% delle persone intervistate risponda “sì” alla domanda. Il conduttore del

sondaggio, allora, se ne verrebbe fuori con affermazioni del tipo, “Gli americani

credono a ‘questo’!”, ma non sarebbe per niente vero, perché molte altre

persone avevano risposto “no” alla domanda. Le statistiche non descrivono per

niente fatti oggettivi e reali.

Sono molti i casi in cui le statistiche sono usate per presentare un’idea della

persona “tipica”; come se esistesse davvero una persona “tipica”! Non esiste un

individuo del genere.

È molto importante capire che il modello matematico non è il mondo; ci si può

rendere conto di ciò, per esempio, prendendo in considerazione il modello della

scelta razionale come utilizzato in economia e in politica estera. Il modello della

scelta razionale è costituito da un insieme di metafore e può essere applicato solo

attraverso il linguaggio metaforico. Tuttavia, la maggior parte di coloro che ne

fanno uso non notano neanche le metafore e credono che la matematica sia là

fuori nel mondo, ma no lo è. La matematica non ha nulla a che fare con la

razionalità o con l’azione; necessita di tre livelli di metafore per arrivare ad avere a

che fare con la razionalità o l’azione. Se si crede alla teoria della scelta razionale,

si ritengono veri dei concetti riguardanti l’analisi costi-benefici in economia che in

realtà sono falsi. E di conseguenza si elaboreranno delle linee di azione politica

che danneggeranno le persone.

Per questo, è molto importante rendersi conto che la metafora non è

semplicemente là fuori nell’universo, ma che la matematica è sempre compresa

in termini di qualcos’altro.

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

193

Scienza e Società

19. Lei è in Italia per ritirare un premio della Regione Toscana intitolato alla

memoria di un grande filosofo italiano – ma molto poco riconosciuto in Italia –,

Giulio Preti. Cosa pensa del forte legame sostenuto da Preti tra lo sviluppo di

una cultura scientifica, filosoficamente consapevole dei suoi modelli linguistici,

e la crescita di una democrazia, ugualmente consapevole dei frame di

pensiero del linguaggio corrente?

Ci sono molte questioni complicate da prendere in considerazione a questo

proposito.

Innanzitutto, ciò cui si sta assistendo negli Stati Uniti è l’uso e l’abuso della cultura

scientifica, in modo tale che anche la democrazia ne risulta danneggiata.

L’interesse per tutto ciò si è manifestato – negli Stati Uniti – verso gli inizi degli anni

settanta, quando si sono stanziate ingenti somme di denaro (per un totale – a

tutt’oggi – di circa 4 miliardi di dollari) per creare dei think tank, in pratica degli

organismi di ricerca non dipendenti dalle università, con il compito di applicare il

conservatorismo a ogni possibile ambito della vita. Hanno speso così tanti soldi in

questo processo che sono riusciti pienamente nel loro intento: fare in modo che il

linguaggio riflettesse le idee dei conservatori, diffondere tutto ciò attraverso i

media, e cambiare il cervello delle persone per far pensare tutti come dei

conservatori.

I think tank hanno avuto un forte impatto anche sul mondo accademico. L’analisi

economica del diritto, ad esempio, è un movimento conservatore – sviluppatosi

nell’Università di Chicago – che a sostegno della propria oggettività vanta un

legame con solide teorie economiche. Ma naturalmente non è per niente

oggettivo: è basato su metafore per il modello della scelta razionale, metafore

che, come mostrato dalla scienza cognitiva, non funzionano. Invece l’analisi

economica del diritto applica queste metafore come se fossero oggettivamente

vere, quando invece non lo sono.

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

194

La scienza cognitiva ha dovuto assolutamente rivelare tutto ciò, ha dovuto

denunciare questo “attentato” alla democrazia. La società ha estremo bisogno

che la scienza cognitiva mostri che le idee conservatrici sono idee conservatrici,

perché spesso – invece – succede che, quando le idee conservatrici sono le

uniche in circolazione, allora vengono considerate neutrali. Il compito forse più

importante della scienza cognitiva è proprio quello di svelare quali tipi di idee

derivano da dove, quali sono le loro implicazioni, etc. È per questo che la

mancata comprensione della scienza cognitiva da parte dei leader politici, dei

loro staff, dei commentatori e dei giornalisti politici ha creato e sta creando una

situazione disastrosa. La situazione che si verifica. Infatti, accade che i

commentatori politici, i giornalisti e gli studiosi usino le metafore e i frame “di

destra” come se fossero neutrali, e – senza neanche accorgersene – finiscano per

favorire la linea politica avversaria.

20. Cosa pensa dell’immagine “pubblica” della scienza?

Lei vive in un paese che dal secondo dopoguerra in poi ha preso il posto della

Germania come paese leader in campo filosofico e che è stato considerato

per molti anni l’eldorado della ricerca. Quali sono i fattori che rendono le vostre

università così appetibili ai ricercatori di tutto il mondo?

Sicuramente molti fattori. La Seconda Guerra Mondiale ha avuto importantissime

conseguenze sulle università americane. Arrivarono in America non solo molti

profughi del regime nazista, ma anche l’intera comunità intellettuale ebrea che

era sopravvissuta in Europa. Inizialmente, gli ebrei non furono ammessi nelle

università a causa dell’antisemitismo allora diffuso anche in America, ma questa

situazione presto cambiò grazie a Einstein. Finalmente, a partire dagli anni

sessanta, agli ebrei fu concesso di insegnare nelle università, cosa che solo poco

tempo prima sarebbe stata impensabile.

Anche l’istituzione del cosiddetto G.I. Bill of Rights [fondo statale stanziato da un

Government's Issue, “disegno di legge governativo”, ndr] segnò una svolta

fondamentale per le università americane. Quando i soldati tornarono in America

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

195

dopo la guerra, il governo fornì ad ognuno di loro una somma di denaro per

frequentare l’università, e ciò – di conseguenza – consentì alle università di

svilupparsi ulteriormente.

Un altro importante impulso allo sviluppo scientifico in America fu l’inizio delle

missioni spaziali sovietiche con lo Sputnik, che mise in allarme il Dipartimento della

Difesa e lo indusse a finanziare le università affinché incrementassero la ricerca

scientifica e gli studi nelle discipline ad essa correlate, come per esempio la

linguistica e l’antropologia. Io stesso ho potuto frequentare l’università solo grazie

ad una borsa di studio messa a disposizione dal Dipartimento della Difesa a causa

dello Sputnik.

La follia dell’industria della Difesa ha dato – a causa dello Sputnik – delle ingenti

quantità di denaro alle università, il G.I. Bill ha permesso di frequentare l’università

anche a chi non avrebbe mai potuto permetterselo, e la persecuzione nazista ha

scacciato dall’Europa e riversato negli Stati Uniti grandi cervelli: l’insieme di questi

fattori ha prodotto una combinazione straordinaria, che ha creato nelle università

un ambiente perfetto per un’eccezionale crescita, creatività, e apertura.

Un altro elemento che ha favorito enormemente lo spirito di crescita delle

università americane è stato assicurare a ogni docente assunto un contratto di

lavoro, garantito per un minimo di sei anni. Terminato questo periodo, l’università

avrebbe deciso se prolungare il rapporto di lavoro del docente a tempo

indeterminato, o interromperlo. Questo sistema assicurava l’assenza di pressioni

politiche di alcun tipo sui docenti e di conseguenza ne garantiva la libertà di

pensiero; anche se alcuni avessero avuto idee politiche diverse, avrebbero

comunque avuto la sicurezza di un posto di lavoro fisso per almeno sei anni.

Oggigiorno – invece – le università americane stanno attraversando un periodo

molto difficile di cui molti non americani – ma anche moltissimi americani – non si

sono ancora resi conto. Esistono parecchi problemi. Il primo è sicuramente che le

grandi compagnie stanno “comprando” le università, in particolare quelle

pubbliche, così che – di conseguenza – i loro budget vengono tagliati

dall’assemblea legislativa. Perciò, le compagnie hanno il controllo, promuovono

solo il tipo di ricerca scientifica che permetta loro di incrementare i profitti, e – in

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

196

questo modo – finiscono per dirigere la ricerca stessa, creando una situazione

molto pericolosa.

Un’altra situazione estremamente negativa presente negli Stati Uniti riguarda il

modo in cui i lavoratori vengono trattati. I lavoratori non hanno un’occupazione

garantita per un lungo periodo, sono costretti a passare continuamente da un

lavoro all’altro e vengono pagati sempre meno perché la politica occupazionale

negli Stati Uniti tende ad abbassare sempre di più le retribuzioni. La forza lavoro è

vista come una semplice risorsa da comprare, alla stregua di carbone e acciaio:

l’idea è di minimizzarne i costi ed è per questo che si concedono in appalto a

società esterne determinate funzioni o servizi. A causa di tutto ciò, le organizzazioni

sindacali hanno perso il loro potere, e i loro diritti vengono sempre più ridotti.

Le università americane stanno praticamente mettendo in atto una strategia

simile: assumono sempre più personale a tempo determinato in qualità di docenti

a contratto, invece di offrire reali posti di lavoro come docenti di ruolo. Questo

processo è terribile, non solo perché i professori a contratto sono pagati molto

poco e hanno turni di lavoro pesantissimi, ma anche perchè finiscono per non

avere più tempo da dedicare alla ricerca, che dovrebbe essere portata avanti

proprio da persone molto creative. Il risultato di questo meccanismo è un vero

disastro. Sono molto preoccupato per il futuro delle università americane.

Politica

21. Lei è stato consulente dei Democratici Americani. Di recente è stato nominato

come consulente dal governo Zapatero.

Sono un membro del consiglio di personalità di livello internazionale istituito dal

loro governo; è più che altro una posizione onoraria, ma ha comunque alcune

importanti funzioni.

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

197

Lei non rispecchia minimamente la “classica” figura del filosofo o scienziato

cognitivo, rinchiuso nel suo iperuranio accademico. Quale ruolo pensa che la

grammatica cognitiva e la sua filosofia possano giocare nell’attuale società?

C’è sicuramente un importante ruolo da giocare.

Ciò che è davvero interessante è che la grammatica cognitiva e la sua filosofia

hanno già avuto un fortissimo impatto in America. Il concetto di frame e framing è

ormai dappertutto; spesso non è ben compreso, ma tuttavia è ovunque e ha reso

consapevoli molte persone che la mente e il cervello sono importanti.

Drew Westen, nel suo libro di recente pubblicazione – The Political Brain –, ha

insistito molto sul fatto che il ruolo dell’emozione in politica è estremamente

importante. E io sono convinto che la possibilità che la scienza cognitiva possa

influenzare la politica americana sia molto aumentata. Ma non è semplice, per

svariati motivi. Innanzitutto, ci sono molte persone nel Partito Democratico che

davvero credono nell’Illuminismo della ragione, e non capiscono che metafore e

frame sono reali; molti semplicemente non comprendono il significato di queste

parole. Il problema è superare questo scoglio.

Questo fatto è vero anche per molti giornalisti, viene loro insegnato a pensare in

termini di Illuminismo della ragione: credono che ogni cosa che studiano e della

quale scrivono sia neutrale, che i fatti siano neutrali, che si possa semplicemente

riportare i fatti in modo neutrale e che la lingua stessa sia neutrale. Tutto ciò è

falso. Ma i giornalisti sono formati in questo modo e ciò è un considerevole

ostacolo.

L’altra difficoltà risiede nel ruolo delle campagne elettorali e nell’apparato

pubblicitario che le porta avanti. Tutti coloro che si candidano per una carica

governativa devono avere alle proprie spalle una squadra che li supporti: esperti

pubblicitari, agenti elettorali, strateghi, consulenti, etc. Queste persone fanno soldi

grazie alla pubblicità e hanno un loro tornaconto economico nel non pensare in

termini di linguaggio metaforico.

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

198

22. La guerra al terrore è stata spacciata per esportazione della democrazia. Ma

con l’approvazione del Patriot Act l’amministrazione Bush è arrivata fino al

punto di bandire alcune canzoni ritenute anti-patriotiche. Se da un lato portare

alla destituzione di dittatori può essere considerato un bene così come

l’instaurarsi di regimi democratici, dall’altro gli stessi Stati Uniti hanno visto al

loro interno sfaldarsi gli elementi minimi di quella stessa democraticità che

vogliono diffondere. Cosa possono fare gli Stati Uniti per garantire una migliore

vita democratica interna?

Credo sia importante sottolineare che non si deve mai parlare degli Stati Uniti

come se fossero una cosa sola. Occorre ricordarsi che nelle elezioni del 2000 Bush

ha preso la minoranza dei voti e che Gore poteva contare su mezzo milione di

preferenze in più. La decisione di affidare la presidenza a Bush è stata presa con

un voto della Corte Suprema. Bush da allora concepisce il proprio potere in termini

assoluti, una possibilità che gli è concessa anche grazie all’incapacità dimostrata

dall’ala democratica di comprendere l’efficacia comunicativa dei modelli

espressi nel suo pensiero.

Oggi la metà, o forse anche più della metà, degli americani si riconoscono in

disaccordo con ciò che il governo sta facendo; sembra pertanto difficile poter

parlare degli Stati Uniti come di una cosa sola. Sarebbe opportuno, piuttosto,

parlare del governo Bush.

Per quanto riguarda la domanda che mi è stata posta, ci sono diversi problemi da

considerare. Il più importante riguarda cosa si debba intendere per democrazia.

Occorre inoltre chiedersi se il governo Bush voglia realmente diffondere la

democrazia. Cosa si deve intendere per diffusione della democrazia?

Occorre tener ben distinte queste diverse questioni.

Conservatori e Progressisti in America hanno due modi diversi di intendere la

democrazia. Se ci si identifica con un Conservatore radicale, qual è Bush, la

parola democrazia non significa solo capitalismo, ma anche libero mercato. I

Conservatori di questo tipo sostengono la teoria secondo la quale il libero

mercato, se introdotto come primo elemento, condurrà necessariamente a

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

199

elezioni, permetterà l’affermarsi di diritti civili, l’equilibrio del potere e così via. In

questo modo, i Conservatori dimostrano di possedere un’erronea teoria riguardo a

ciò che la democrazia può consentire (del resto se la teoria fosse vera Singapore

sarebbe una democrazia, ma in realtà non lo è). Questo tipo di visione non è la

stessa che la maggior parte degli americani condivide, essa rappresenta piuttosto

una prospettiva ideologica.

Quando l’amministrazione Bush attaccò l’Iraq era davvero intenzionata a

diffondere la democrazia nei termini in cui la concepiva? Certo non lo fece per

sostenere le idee e la concezione di democrazia di qualcun altro! Così la prima

cosa che fu fatta dopo la rimozione di Saddam Hussein fu privatizzare tutto,

eccetto alcune porzioni del mercato del petrolio. La ragione di quest’eccezione

la si comprende alla luce della necessità che il governo iracheno garantisca per i

prossimi trent’anni i contratti di appalto alle compagnie americane, concedendo

loro il 75% dei profitti derivanti dall’estrazione. Si comprende come le intenzioni

dell’amministrazione non si limitino quindi all’instaurazione di un libero mercato, ma

a qualcosa di più della semplice privatizzazione. Un obiettivo che non sono stati

ancora in grado di ottenere dal governo iracheno.

La questione è: l’amministrazione Bush è andata in Iraq per portare la

democrazia? Credo che essi siano propensi a trasformare l’Iraq in una democrazia

conservatrice secondo il modello caro a Bush, e non credo certo che sarebbero

soddisfatti se l’Iraq diventasse una democrazia di tipo progressista. Le due formule

sono piuttosto diverse.

L’amministrazione Bush ha predisposto in Iraq cinque basi permanenti, ha fatto

costruire un’ambasciata dieci volte più grande di ogni altra ambasciata presente

sul territorio, la quale disporrà di ben cinquemila impiegati. La sola ragione che

giustifica una simile ambasciata si rintraccia nel desiderio di controllare il paese e i

suoi affari. Una parte delle privatizzazioni eseguite in Iraq hanno permesso alle

compagnie americane di comprarsi il paese; ciò non è destinato a produrre le

condizioni per una democratizzazione dell’Iraq, quanto piuttosto a incrementare

gli interessi finanziari dell’amministrazione Bush in Medio Oriente.

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

200

Alcune persone in America sono convinte che quando è in carica un presidente

conservatore, il quale crede nella militarizzazione e privatizzazione del paese, e

quando gran parte della capacità di governo è sottratta a favore delle grandi

compagnie, una simile condizione possa ancora essere definita democrazia. Allo

stesso tempo, una buona metà del popolo americano non crede che ciò possa

rappresentare la vera democrazia, ma piuttosto una forma di tirannia.

Come possiamo cambiare tutto ciò? I Democratici sono convinti che basti

semplicemente eleggere un loro presidente, o aumentare la presenza

democratica al Congresso. Ma non è così semplice. La ragione è che i

Conservatori hanno modificato non solo la mente di molti americani, ma anche le

istituzioni: hanno fatto in modo che il governo divenisse incapace di attuare

programmi sociali aumentando la spesa pubblica. Hanno fatto fuori i buoni

amministratori e chi intendeva effettivamente servire lo stato.

L’intero governo degli Stati Uniti necessita di essere risanato affinché si possa

ricostituire una Democrazia. Questa è la maggiore difficoltà e la più grande sfida

da affrontare, ma purtroppo molti in America non se ne rendono conto e i

Democratici non stanno attuando una buona campagna comunicativa. Coloro

che si sono schierati contro il governo repubblicano non riescono a esprimere la

concretezza del pericolo che stiamo correndo. Esiste un serio rischio per la

democrazia; solo alcuni progressisti hanno compreso la situazione e sono

continuamente impegnati a scriverne per renderla nota, ma la questione non è

ancora entrata al centro di una vera discussione pubblica.

23. In Europa molti condividono la sua stessa opinione, ma di questi tempi

contestare la linea politica degli Stati Uniti porta ad essere immediatamente

considerati “anti-americani”, così come disapprovare la linea politica

israeliana porta a essere accusati di essere “anti-israeliani”, – o peggio ancora

“antisemiti”. Non si tratta forse di un evidente caso di fallacia concettuale?

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

201

Il problema qui sta nell’uso delle metonimie. Questa è una metonimia che

scambia l’esistente governo per l’intera nazione. Due cose completamente

diverse.

La metonimia è un processo cognitivo naturale, l’unico modo per evitare questa

confusione consiste nel parlare del governo, o dell’amministrazione Bush, piuttosto

che degli Stati Uniti, così come del governo israeliano piuttosto che di Israele.

Ritengo che si debba fare questo, ma non è certo una cosa facile.

24. Negli ultimi cinque anni negli Stati Uniti, ma anche in una larga parte d’Europa, i

progressisti si trovano a fare i conti con una comune crisi ideologica e

programmatica. I movimenti conservatori negli Stati Uniti, così come in Francia

e in Germania, hanno la maggioranza e, diversamente dalla sinistra, appaiono

all’opinione pubblica capaci di risolvere i problemi in agenda e mantenere il

potere per lungo tempo. Quali sono secondo lei le ragioni di questa crisi?

La destra europea sta assumendo consulenti dall’America in grado di insegnare

come influenzare le menti dei cittadini europei, facendoli diventare più

conservatori attraverso l’ausilio dei media e di altri meccanismi. Allo stesso tempo, i

progressisti in Europa hanno lo stesso problema dei progressisti in America:

entrambi continuano a pensare nei termini di una ragione illuministica. Essi non

hanno idea del ruolo del framing o di come la mente e il cervello lavorino, e in

questo modo continuano a peggiorare le cose.

In Europa vi trovate in una situazione davvero difficile, simile a quella statunitense,

solo che negli Stati Uniti le condizioni sono ancora più gravi.

Un altro problema è che in Europa la sinistra si rifà a una tradizione socialista e

marxista più solida di quella americana. La sinistra americana è maggiormente

democratica e capitalista, questo grazie a Roosevelt. In Europa è diverso, ma le

risposte socialista e marxista probabilmente non funzionano più. A questo punto la

questione è: qual è l’altra forma di democrazia capitalistica che propone

l’America? La forma tradizionale che deriva da Roosevelt assume che il

capitalismo è fondamentalmente un’opzione valida, ma anche che ci possono

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

202

essere delle occasioni in cui il mercato fallisce, ed è per questo che esso va

costruito, ovvero regolato attraverso la legge. Ciò che secondo Roosevelt occorre

fare consiste nel monitorare i crolli del mercato e solo allora utilizzare il governo per

porvi rimedio, facendo attenzione ai diversi gruppi sociali (bambini senza

assicurazione sanitaria, veterani, studenti, etc.) Individuare realtà sociali sensibili e

sviluppare programmi di governo in loro sostegno: questa è la strada tracciata da

Roosevelt verso il capitalismo democratico.

Questa proposta è però fallita a causa di molteplici ragioni. Innanzitutto, i

Conservatori hanno attaccato il governo, rendendo impossibile un suo

funzionamento secondo il progetto concepito da Roosevelt. Inoltre, i Democratici

non hanno compreso cosa stavano sostenendo i loro avversari e non hanno

saputo reagire. Prendiamo la questione delle tasse – problema peraltro presente

anche in Europa e in molti altri paesi del mondo; è importante comprendere qual

è il giudizio dei progressisti attorno a questo tema. In America la storia delle tasse è

molto interessante. Fu il Re d’Inghilterra ad introdurre le tasse in America,

imponendole ai coloni americani e usando poi tutto il ricavato per sé; dopo la

Rivoluzione Americana le tasse non furono abbattute, ma fu ridefinito il loro ruolo.

Da un punto di vista progressista la tassazione ha due funzioni: la protezione e lo

sviluppo. I soldi sono utilizzati dal governo per proteggere la gente, non solo

attraverso l’esercito, la polizia o i vigili del fuoco, ma anche per prevenire alluvioni,

proteggere i lavoratori, i consumatori etc. La tassazione permette la costruzione di

strade, di progettare la costruzione di ferrovie, la possibilità di comunicazioni

satellitari o via Internet, di migliorare la rete bancaria del paese etc. Questo

processo aiuta la gente comune, ma anche e soprattutto le imprese e le società,

infatti a quest’ultimi sono destinati i maggiori contributi – ed è per questo che

dovrebbero pagare più tasse.

Fondamentalmente, la tassazione è un metodo per promuovere protezione e

sviluppo basato sul trasferimento di denaro o di altre risorse; esso dà alle persone

la possibilità di ricevere beni e servizi che in altra maniera non sarebbero loro

accessibili (strade, servizi bancari etc.). Ma il fatto che la tassazione dia qualcosa

a tutti è spesso un dato tralasciato. Per esempio, prendiamo il caso in cui si riceve

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

203

una notifica delle tasse. Spesso si prende tale notifica come se dicesse: “Tu

guadagni una certa cifra e adesso siamo venuti a prenderne una parte”. Invece,

bisognerebbe leggerla come qualcosa del tipo: “Il governo ti restituisce – sotto

forma di beni e servizi – la somma che ti sottrae attraverso le tasse”. In questo

modo, la parola ‘tassa’ acquisterebbe il significato di un dare qualcosa alle

persone. È molto importante comprendere tutto ciò.

C’è un miliardario in America – Warren Buffett –, il quale deve la sua fortuna a vari

investimenti. È un miliardario liberale, e sostiene di non pagare abbastanza tasse.

Buffett afferma che le tasse sulle aziende sono già troppo basse, e che egli paga

meno della sua segretaria. Warren Buffett si domanda: “Cosa farei e dove sarei

oggi se non fossi un cittadino americano? Se mi avessero paracadutato in

Bangladesh trent’anni fa, oggi sarei povero: non c’è sistema bancario, non potrei

avere un conto in banca, non esiste la borsa valori e io non potrei investire. Ciò

che mi ha permesso di fare miliardi di dollari è il modo in cui il governo ha

sviluppato il commercio e ha permesso l’affermazione individuale. Gli sono

debitore. Ogni compagnia, ogni persona che fa soldi in America è debitore al

governo”. Ciò che Buffett va sostenendo è che esiste una reciprocità fra denaro e

sviluppo, che il governo fornisce beni e servizi, per i quali si paga un costo

relativamente basso, che è in proporzione molto minore quanto più è alto il

reddito.

Ci sono inoltre altri casi di trasferimento di benessere, che non sono però chiamati

così. Ad esempio, quando un’industria (come quella del petrolio, o altre) viene

sovvenzionata, questo è trasferimento di benessere; o quando si sovvenziona il

settore agricolo, si sta trasferendo benessere dai comuni cittadini che pagano le

tasse agli investitori. Tutto ciò non è comunemente definito come un trasferimento

di benessere, ma in realtà lo è. Il problema è che nessuno ne parla in questi

termini.

Esistono poi ancora altre modalità di trasferimento che appaiono importanti. Per

esempio, il petrolio oggi costa 100$ al barile; prima della guerra in Iraq ne costava

25. Tre quarti dell’aumento del prezzo sono imputabili proprio alla guerra in Iraq.

Questo è un fatto molto importante: rappresenta praticamente una forma di

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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tassazione. Possiamo considerarlo come una ‘tassa’ sulla guerra in Iraq; certo, non

viene sicuramente usato questo termine, ma sarebbe opportuno farlo. Si

dovrebbe tener presente il prezzo del petrolio prima della guerra, e quando si

passa a fare rifornimento fare la considerazione: “Questo è il prezzo standard a cui

è stata aggiunta una tassa sulla guerra in Iraq, che ammonta a tre volte il prezzo

originale”. Ma nessuno lo fa.

Come si può vedere, è estremamente importante impiegare i giusti concetti per

comprendere la realtà; questa è una delle ragioni per cui le scienze cognitive

sono così cruciali.

25. Qual è la sua opinione sulle primarie dei Democratici del 2008? Pensa che

l’elezione di un presidente democratico porterebbe il suo paese a muoversi

diversamente sullo scacchiere internazionale?

Entrambe sono due questioni molto complesse.

Nelle primarie, i tre candidati da prendere sul serio sono: Hillary Clinton, Barack

Obama e John Edwards. Quest’ultimo ha però meno possibilità, dato che ha

raccolto una minor quantità di fondi.

Hillary Clinton dispone della miglior organizzazione: la vecchia ‘struttura Clinton’ e

l’ormai collaudato sistema di raccolta di fondi. Se lei fosse eletta, governerebbe il

paese nel modo in cui l’ha fatto suo marito: attraverso una triangolazione,

spostandosi verso destra, verso quello che lei ritiene il centro. Hillary si considera

una progressista pragmatica; inoltre, in quanto donna, si sente in dovere di

mostrare un’immagine forte, ed è per questo che sta spingendo per un’energica

politica estera. La scommessa è che Hillary Clinton otterrà la sua nomination

semplicemente perché lei possiede il miglior staff organizzativo; ciò non toglie che

sia anche una candidata formidabile, molto intelligente e popolare.

Barack Obama è una persona notevole; è probabilmente il più intelligente dei tre

candidati, oltre ad essere sicuramente il più eloquente e carismatico. Ma la sua

campagna sta soffrendo a causa dell’incomparabilità organizzativa rispetto alla

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

205

Clinton. Credo anche che Obama di per sé non si sia impegnato abbastanza.

Potrà essere il solo carisma a trascinare Obama verso la vittoria?

John Edwards sta facendo leva esclusivamente su argomenti popolari che

toccano la sfera economica, ma il populismo è una forma di cultura, non di

economia. Dubito seriamente che possa andare lontano. Edwards, Hillary e

Obama, per quanto riguarda il caucus dell’Iowa, sono considerati l’uno vicino

all’altro, ma dopo Edwards sarà fuori (ndr: l’intervista è stata rilasciata un mese

prima del caucus in Iowa).

I tre candidati sono tutti promettenti riguardo alla soluzione di molte

problematiche, ma purtroppo ognuno dei loro programmi ha delle carenze

riguardo ad alcuni dei problemi che affliggono il paese. Personalmente, preferisco

avere un Presidente con il quale sono d’accordo l’85% delle volte piuttosto che in

nessun caso. Ciò fa dei candidati democratici un’opzione preferibile rispetto a

quella dei conservatori, e sarei felice di eleggerne uno qualsiasi piuttosto che un

conservatore.

Il suo nuovo libro

26. Il suo nuovo libro su Gödel sta per uscire; può anticiparci qualcosa sul suo tema

principale?

Un altro suo libro, The Political Mind: Why You Can’t Understand 21st-Century

American Politics with an 18th-Century Brain, mette assieme scienze cognitive e

politica. Qual è il suo scopo?

Negli ultimi trent’anni è stato scoperto molto riguardo al rapporto tra la mente e il

cervello, e ciò ha distrutto le teorie illuministe al riguardo. Ma la maggior parte

della gente non ha idea dei passi avanti che si sono fatti. Questo porta con sé

diverse conseguenze politiche. L’idea che muove The Political Mind è proprio

quella di introdurre una conoscenza della mente che metta in evidenza le sue

conseguenze politiche.

Intervista a Gorge Lakoff – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

206

Il libro su Gödel è scritto assieme ad altri due autori: Aaron Siegel, il quale è stato

un mio studente ed è ora un ottimo matematico, e Rafael Nuñez, un eccellente

storico della matematica, nonché una persona eccezionale con la quale scrivere

un libro.

Aaron ed io abbiamo estrapolato le metafore contenute all’interno del teorema

di Gödel. Ciò che abbiamo fatto è stato mettere in evidenza le metafore che

collegano uno dei maggiori teoremi di Cantor, il teorema di diagonalizzazione, il

quale dimostra che esistono più numeri irrazionali che razionali. Abbiamo

dimostrato che se si parte con questo teorema e si aggiungono cinque metafore

si ottiene il teorema di Gödel.

Alcuni pensano che i teoremi di Gödel provino che non esiste alcun insieme

infinito di assiomi dai quali si possa derivare tutta la matematica, ovvero che non è

possibile che la matematica si basi su un insieme finito di assiomi. Ma questo non è

ciò che Gödel ha effettivamente dimostrato. Con la sua dimostrazione, Gödel

mette in luce come una volta scelti gli assiomi si arrivi sempre alla possibilità di

definire delle affermazioni indecidibili. Certo, si potrebbe sempre aggiungere tali

affermazioni in qualità di nuovi assiomi, ma – pur facendo questo – si otterrebbe

comunque sempre una nuova affermazione indecidibile. E si potrebbe andare

avanti all’infinito con questo processo. Perciò, l’idea è che un’assiomatizzazione

finita per la matematica non è possibile.

Tuttavia, se si guarda al contenuto di ciascun teorema si può notare come questi

non riguardino direttamente la matematica, ma piuttosto la formalizzazione della

matematica e della logica. Essi affermano che certe assunzioni sono indecidibili,

ma la decidibilità non è una proprietà che riguarda l’aritmetica. La decidibilità

diventa una proprietà dell’aritmetica solo quando formalizzata all’interno della

logica. L’aritmetica riguarda le addizioni, le moltiplicazioni, l’elevamento a

potenza e non ciò che i giudizi di indecidibilità affermano. Si assume normalmente

che la formalizzazione in matematica preservi i propri oggetti, ma Gödel ha

provato che non è così. Una conseguenza davvero notevole per la matematica.

Biblioteca Filosofica © 2007 - Humana.Mente, Periodico trimestrale di Filosofia, edito dalla Biblioteca Filosofica - Sezione Fiorentina della Società Filosofica Italiana, con sede in via del Parione 7, 50123 Firenze (c/o la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Firenze) - Pubblicazione iscritta al Registro Stampa Periodica del Tribunale di Firenze con numero 5585 dal 18/6/2007.

Filosofia del Linguaggio:

prospettive di ricerca Numero 4 – Febbraio 2008

Intervista a Luigi Perissinotto

Etica e mistica in Ludwig Wittgenstein

Laura Beritelli

http://www.humana-mente.it

Intervista a Luigi Perissinotto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

207

Luigi Perissinotto, Professore di Filosofia del Linguaggio all’Università degli Studi Ca’

Foscari di Venezia..

In occasione del seminario Etica e mistica in Ludwig Wittgenstein, organizzato

dall’associazione Asia a S. Vincenzo dal 1 al 4 novembre 2007, abbiamo avuto

l'opportunità di chiedere al relatore delucidazioni su ciò di cui si era discusso.

Tuttavia, se in questo stesso numero di ‘Humana.mente’ abbiamo deciso di offrirvi

una puntuale recensione dell’evento, questa intervista ha piuttosto lo scopo di

soddisfare alcune nostre illegittime curiosità.

Professore, ci siamo chiesti quale sia la motivazione che l’ha spinta a condurre

questo seminario; in particolare, dato il suo impegno come responsabile del

master in Consulenza Filosofica presso l’università Ca’ Foscari di Venezia, ci siamo

chiesti se ciò non avesse a che fare con una sua più ampia progettualità, volta ad

avvicinare i ‘non addetti ai lavori’ alla filosofia.

No, non partecipo di questo tipo di tensioni…Inoltre, la consulenza filosofica, così

come è offerta dalla nostra didattica, non è legata alla cosidetta ‘educazione

degli adulti’ (come nel caso della consulenza filosofica individuale), quanto

piuttosto alla preparazione di professionisti che lavorino in team eterogenei (con

psicologi ed educatori, ad esempio), per gestire collettivamente richieste

specifiche (come quelle dei malati terminali o quelle necessarie all’interno di

strutture quali case famiglia, consultori).

Come è approdato qui, allora? Conosceva l’associazione Asia, ne era socio?

Devo ammettere che, prima di essere contattato, avevo un’idea molto vaga di

cosa fossero le Vacances de l’esprit. Mi è sembrata una cosa interessante ed ho

accettato. In effetti, questa si è rivelata un’esperienza intensa e gratificante

rispetto alle normali conferenze o, più in generale, alle dinamiche congressuali. In

Intervista a Luigi Perissinotto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

208

quattro giorni abbiamo avuto tempo di approfondire gli argomenti ogniqualvolta

è stato necessario ed ho potuto rispondere a tutte le domande dei partecipanti.

Nella prima lezione lei ha illustrato uno scenario di barbarie, una sorta di

medioevo, durante il quale i curatori letterari di Wittgenstein ritennero di poter

tenere il mondo all’oscuro di una consistente parte di documenti autografi. Il loro

scopo sarebbe stato di mantenerne il ‘decoro’ e, soprattutto, l’immagine

‘pubblicitaria’ di neopositivista che il filosofo aveva ottenuto in vita. Tuttavia,

sembra impossibile che nessun neopositivista si fosse precedentemente opposto a

questa considerazione.

Ed infatti non è così. Tuttavia, tra tutti gli appartenenti al Circolo di Vienna, un solo

membro comprese che Wittgenstein non era un neopositivista, ed è Otto Neurath.

Egli fu decisamente critico nei suoi confronti, avvertendo che fuoriusciva dalla

sensibilità, dalle atmosfere, del neopositivismo. Molto tempo dopo, nella sua

biografia, Rudolph Carnap, raccontando di quando si trovavano a leggere il

Tractatus, scrisse che lo spirito di Wittgenstein era diverso da quello dello

‘scienziato’ (ovvero del filosofo).

Passando invece alle interpretazioni religiose del Tractatus: come mai, anche in

questo caso, nessuna voce si è alzata per osteggiarle come ‘distorsioni’?

Il problema della lettura teologica è diverso - nonostante anche in questo caso

non si possa prescindere dal dato che due curatori letterari fossero cattolici. Sul

piano generale, le interpretazioni teologiche non sono così peregrine: soprattutto il

Tractatus ed i Quaderni 1914-1916 danno loro buoni appigli e materiale. Molti

passaggi le sostengono. La sua biografia ci dice che Wittgenstein non era

credente, ma la sua aspirazione ad una vita etica, l’antidogmatismo e l’interesse

per la religione hanno lasciato impressioni contrarie su chi lo conosceva. Ad

esempio, il suo allievo Norman Malcolm racconta di come Wittgenstein osservasse

tutte le cose con ‘sguardo religioso’.

Intervista a Luigi Perissinotto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

209

Lei ha parlato in questi giorni ad una platea di ‘non-filosofi’ richiamati dal tema:

‘etica e mistica’. Ha spiegato loro la logica del Tractatus; ha sostenuto che non

può essere scissa dall’etica, che l’etica non è formulabile ed infine che la filosofia

niente può dire sui loro problemi vitali. Come crede sia stata recepita questa

massa di ‘sentenze’, questa affermatività?

Credo, in primo luogo, che l’etica proposta da Wittgenstein, per quanto non

performativa, proponga un ‘io devo’. Ho quindi cercato di mostrare come,

nonostante Wittgenstein non voglia fornire alcun criterio di valutazione, attraverso

di essa egli indichi un verso, orientato secondo tre linee direttrici: l’etica in prima

persona, la necessità di chiarezza e di sincerità e l’antidogmatismo. Potrà

sembrare inconsistente o vago, ma non è meno di quel che offrono molte forme

di etica, come quella dell’autoresponsabilità, ad esempio. La differenza da

un’etica riconosciuta come tale è che quella di Wittgenstein non è conoscitiva.

Esiste, per lei, la possibilità di ‘essere aiutati’ da Wittgenstein?

Spesso mi viene chiesto: quale filosofia, per la consulenza filosofica? Certamente

non suggerirei Carnap! La fenomenologia, ad esempio, dà ottimi spunti per

risolvere i problemi che Wittgenstein chiamava ‘vitali’, perché insegna la messa in

parentesi dei pregiudizi che ci impediscono di accedere alle cose. Secondo me,

Wittgenstein è un filosofo a cui potersi ispirare, nonostante sostenesse esattamente

il contario, ovvero che la filosofia corrompe. Se c’è qualcuno che ha ricucito la

cesura tra filosofia e vita - che da Hume arriva fino a Nietzsche-, quello è proprio

Wittgenstein.

La fortuna di un pensiero che unisce linguaggio ed etica è stata infatti alimentata

dall’ispirazione che da esso hanno tratto artisti e letterati. Penso all’opera di

Ingeborg Bachmann, la poetessa austriaca che a Wittgenstein dedica Il dicibile e

l’indicibile e alla sua riflessione sul linguaggio in Letteratura e utopia, ovvero anche

Intervista a Luigi Perissinotto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

210

alla ricerca di una prassi orientata dalle idee di Wittgenstein sul pensiero (uso del

linguaggio ed etica).

Purtroppo, non mi sono mai interessato a confronti di questo genere. Da un punto

di vista strettamente filosofico, penso che queste similitudini non siano

propriamente fuorvianti, ma oziose. Personalmente, per lavorare alla relazione tra

Wittgenstein e altri autori, preferisco avere un riscontro filologico. Tuttavia, già nel

confronto tra due grandi personalità, quali Wittgenstein e Heidegger, abbiamo a

disposizione poco materiale: sappiamo solo che il primo cita il secondo e che

questi aveva una copia del Tractatus in biblioteca, niente di più.

Ma non si può negare che esista un ‘successo’ di Wittgenstein tra gli artisti…

Wittgenstein ha ispirato soprattutto l’arte visiva. Tra tanti, il più famoso è lo scultore

Eduardo Paolozzi, esponente della pop-art inglese. In ambito musicale è invece

famoso un compositore svedese, M.A.Numminen, che ha musicato il Tractatus

(The Tractatus Suite), o la composizione Un'immagine di Arpocrate (su frammenti di

Goethe e Wittgenstein) di Salvatore Sciarrino.

Durante il seminario, lei ha accennato anche alla questione etica nella scienza,

dato che nel Tractatus si distinguono le proposizioni scientifiche, sensate, da quelle

dell’etica, insensate: ovvero del problema dell’orientamento etico della ricerca

scientifica. Lei che cosa ne pensa?

Seguendo Wittgenstein, sembra si possa affermare l’oggettività della scienza e

quindi ritenere che essa sia ‘avalutativa’, occupandosi del ‘come’ del mondo.

Tuttavia, rifacendosi in questo caso alla questione così come la pose Max Weber

in La scienza come professione (1919), una scienza davvero neutrale, i cui fini sono

posti dalla società, o dall’istituzione che la rappresenta, e che si limiti a trovare i

mezzi adeguati per raggiungerli, non può esistere (come per altro sosteneva la

scuola di Francoforte). In primis, perché lo scienziato non dovrebbe mai

pronunciare un giudizio etico; in secondo luogo, perché i fini sono in

contraddizione e contrapposizione tra loro e, quindi, non è possibile rendere la

Intervista a Luigi Perissinotto – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

211

scienza estranea alla questione del valore; ma, soprattutto, anche volendo ridurre

la pertinenza della scienza ai soli mezzi, poichè questi sono diversi e vari, la ricerca

scientifica opererà comunque una valutazione ed una scelta tra di essi.

Molti partecipanti al seminario erano interessati al collegamento tra la filosofia di

Wittgenstein e le discipline orientali, in virtù di un messaggio che riconoscono

curiosamente analogo. Lei ha già risposto che il paragone era fuori luogo, ma in

particolare cosa le impedisce di accogliere questo genere di riflessioni?

Come ho già spiegato, anche in questo caso non esistono prove storiche del

contatto o dell’influenza di simili discipline su Wittgenstein: in effetti, l’unico

collegamento tra Wittgenstein e l’oriente è il fatto che aveva letto Schopenauer.

Tuttavia, per chi fosse interessato, esiste una nutrita letteratura sull’argomento.

Da un punto di vista filologico, che radice ha la coincidenza tra etica ed estetica

in Wittgenstein?

Per quel che possiamo capire, sembrerebbe che bello, buono e vero siano

inseparabili, come se Wittgenstein avesse recuperato i trascendentali medievali

che Nietzsche aveva demolito. Di un quadro, come di una vita, non ci importa

‘che cosa’ rappresenta: il bello sta dove si mostra e si realizza la meraviglia.

Biblioteca Filosofica © 2007 - Humana.Mente, Periodico trimestrale di Filosofia, edito dalla Biblioteca Filosofica - Sezione Fiorentina della Società Filosofica Italiana, con sede in via del Parione 7, 50123 Firenze (c/o la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Firenze) - Pubblicazione iscritta al Registro Stampa Periodica del Tribunale di Firenze con numero 5585 dal 18/6/2007.

Filosofia del Linguaggio:

prospettive di ricerca Numero 4 – Febbraio 2008

Intervista a Gaspare Polizzi

Le attività 2008 della Biblioteca Filosofica

Matteo Leoni e Duccio Manetti

http://www.humana-mente.it

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

212

Gaspare Polizzi, docente a contratto di Storia della Scienza presso l’Università di

Firenze, vicepresidente e membro del direttivo della Biblioteca Filosofica, di

Duccio Manetti e Matteo Leoni

La Biblioteca Filosofica si è costituita più di un secolo fa, nel 1905, con l’intento di

promuovere una vivace attività di lezioni, letture, e discussioni. Pur tra molte

difficoltà l’associazione è stata capace di durare e di proporsi come luogo

d’incontro tra studiosi e cultori della filosofia. Dunque essa risponde a delle reali

esigenze del mondo filosofico e, più in generale, culturale? In particolare, ritiene

che il dialogo tra mondo universitario e scuola secondaria, argomento

tradizionalmente caro alla Biblioteca Filosofica, sia tra queste?

Il richiamo alla “Biblioteca Filosofica” mi offre l’opportunità per una breve

riflessione. La storia della “Biblioteca Filosofica” – così efficacemente ricostruita da

Eugenio Garin (La Biblioteca Filosofica di Firenze, in AA. VV., Le Biblioteche

Filosofiche italiane. Firenze, Palermo, Torino, Edizioni di “Filosofia”, Torino 1962, pp.

1-11) – è significativa per chi voglia ripensare alla storia della cultura filosofica

fiorentina del primo Novecento e può fornire spunti e ammaestramenti per il

presente. Tale istituzione espresse tuttavia – nel breve periodo della sua esistenza

(dal 1905 al 1917) – una tensione speculativa per certi aspetti mistica e teosofica,

che ad esempio contrastava con gli indirizzi, prevalentemente positivistici, della

nascente filosofia accademica fiorentina, evidenti in figure esemplari dell’Istituto

di Studi Superiori, quali Pasquale Villari, direttore della Sezione di Filosofia e

Filologia. Scrive Garin: «La Biblioteca Filosofica di Firenze ebbe origini teosofiche e

magiche, ben rispondenti a un certo clima culturale del primo decennio del

secolo»; e aggiunge: Sotto un certo profilo verrebbe fatto di dire che la Biblioteca

Filosofica con il suo nucleo di libri e riviste, con le sue discussioni, coi suoi cicli di

lezioni e conferenze, tendesse a concretare in un istituto, in una specie di libera

facoltà di studi filosofici e religiosi, quelle posizioni culturali, idealistiche,

spiritualistiche, moderniste, che in qualche modo polemizzavano con la tradizione

universitaria ufficiale». Mentre da un lato il professore ordinario di filosofia teoretica

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

213

dell’Istituto di Studi Superiori Francesco De Sarlo ricordava, nel discorso inaugurale

dell’anno accademico 1906-1907, letto nell’aula magna di Piazza San Marco il 3

novembre del 1906, che la filosofia ha una funzione di critica «sul valore obbiettivo

delle cognizioni ottenute coi metodi e i procedimenti delle singole scienze», nelle

sale della “Biblioteca Filosofica” in Piazza Donatello si tenevano fortunate

conferenze domenicali su temi come Per un nuovo umanesimo ariano (Roberto

Assagioli) o Il Paradiso terrestre e il dogma del peccato originale (Salvatore

Minocchi) e uno tra i principali promotori della Biblioteca, Guido Ferrando,

scriveva nell’introduzione a un volume che raccoglieva le conferenze del 1907

(Per una concezione spirituale della vita. Conferenze, Seeber, Firenze 1907) – in

sintonia con uno tra i più noti sostenitori e collaboratori della Biblioteca, Giovanni

Papini – che le conferenze di Piazza Donatello avevano per fine «la glorificazione

dell’energia creativa dello spirito umano», ben oltre, se non contro, l’oggettività

della scienza, e aggiungeva, nel segno di una netta reazione anti-positivistica e

anti-accademica, che vi era «bisogno di una istituzione che si adoperi

efficacemente alla formazione del carattere e della mente dell’individuo e che

tenga alto, ben alto, l’ideale della vera cultura». Le distanze e i dissidi si

attenuarono con il tempo e si realizzò infine una produttiva circolazione di idee tra

l’Istituto di Studi Superiori e la Biblioteca, soprattutto nell’ambito dei temi etico-

religiosi, più consoni allo spirito delle conferenze e delle letture della Biblioteca

stessa.

L’esperienza della Biblioteca è quindi senz’altro rilevante per aver posto l’esigenza

di un superamento della cultura filosofica di ambito accademico e di un

avvicinamento ai problemi del tempo, tra i quali avevano largo spazio quelli

morali e religiosi, in un orizzonte storico di crisi che avrebbe di lì a poco condotto

alla prima guerra mondiale. Tuttavia la fisionomia attuale della Società Filosofica

fiorentina, come ha ben ricordato Amedeo Marinotti nella sua bella e articolata

ricostruzione, L’attività della sezione fiorentina della Società Filosofica Italiana dal

1953 al 1998 (presente nel nostro sito), è descritta da vicende che partono dal 14

marzo 1953 e che non hanno un’immediata connessione con la storia della

“Biblioteca Filosofica”. Basta leggere l’elenco dei soci fondatori – «Gaetano

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

214

Chiavacci, E. Paolo Lamanna, Alessandro Levi, Ernesto Codignola, Arrigo Levasti,

Antonio Lantrua, Vito Fazio-Allmayer, Eugenio Garin, Cesare Luporini, Pietro

Piovani, p. Ernesto Balducci, Domenico Pesce, Francesco Adorno, Francesca

Rivetti Barbò, Giulio Preti, Maria Luisa Stringa» – per cogliere la distanza rispetto a

quell’esperienza di inizio secolo. Mi pare che sia quindi più opportuno cercare

oggi i nostri riferimenti ideali in quella schiera di filosofi rigorosi, aperti alla cultura

europea e alle più moderne istanze della filosofia. Per limitarmi a quell’elenco,

penserei che valgono molto di più per l’odierna cultura filosofica fiorentina, per

l’attuale orientamento degli studi filosofici a Firenze, il modello di ricerca e di

impegno filosofico e civile di Giulio Preti (rinnovato dal nostro attuale presidente

Alberto Peruzzi) o, su un terreno teoreticamente divergente, ma parallelo per la

vocazione a far convergere la rigorosa pratica filosofica con l’iniziativa civile,

quello di Eugenio Garin, piuttosto che non quelli di Ferrando o di Papini. Oggi la

cultura filosofica fiorentina è radicalmente cambiata e non credo vi sia un

rimpianto per il mondo da Belle Epoque. Rimane tuttavia viva l’esigenza –

presente nella “Biblioteca Filosofica” – di coltivare luoghi di incontro filosofico che

non siano collocabili nel contesto pur variegato dell’università fiorentina e che

mettano in gioco competenze ed interessi di origine diversa. Neppure il mondo

della scuola, spesso soffocato da richieste strettamente e a volte asfitticamente

didattiche, offre spazio a tale esigenza, che ha la possibilità di esprimersi in luoghi

e tempi cittadini, nei quali docenti universitari e di liceo, cultori di filosofia, studiosi

variamente interessati, cittadini colti e studenti possono incontrarsi e interagire a

partire da problemi filosofici di sicuro impatto pubblico e attuale. Certo è

pressante anche il bisogno di mettere in gioco competenze oggi non valorizzate,

spesso presenti in forma frammentata nel mondo della scuola, ma anche

nell’università, di far interagire stili diversi del filosofare; rispetto a tale bisogno la

Società Filosofica Italiana nel suo complesso e la sezione fiorentina in particolare

molto ha fatto e molto può ancora fare.

Corre l’obbligo di ricordare che il suo interessamento, insieme a quello di altri soci

provenienti dal mondo della scuola, è stato fondamentale per il rilancio

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

215

dell’attività della Biblioteca alla fine degli anni ’90. Che cosa è cambiato da

allora?

Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso – ricordo una lettera dell’8 novembre 1989

indirizzata alla presidente di allora, Maria Moneti Codignola – un gruppo di

docenti di filosofia volenterosi e impegnati, sia sul piano didattico che su quello

scientifico, stimolò il Direttivo della SFI fiorentina ad attivare momenti di incontro, di

confronto e di studio che coinvolgessero i soci, sia insegnanti che ricercatori, e ad

operare con maggiore incisività nel settore dell’aggiornamento degli insegnanti,

da intendersi soprattutto come aggiornamento disciplinare, dinanzi alle grandi

linee di movimento della filosofia novecentesca, che a stento erano conosciute

dai colleghi di liceo e raramente venivano trasmesse agli studenti. L’operazione

ebbe un certo successo, perchè mise in moto cicli e attività di aggiornamento e di

approfondimento disciplinare. Ricordo, oltre agli incontri sullo stato

dell’insegnamento della filosofia, cinque seminari di approfondimento organizzati

nel periodo 1991-1995, anche con la collaborazione del CIDI di Firenze, e rivolti agli

insegnanti di filosofia: Epistemologia ed etica nella filosofia contemporanea,

Filosofia e scienze umane; il circolo di Vienna e la filosofia analitica, Nietzsche e

Wittgenstein nella cultura e nella filosofia del Novecento e La riflessione sul

linguaggio tra comunicazione e interpretazione. Tale attività permise di far

emergere un settore, minoritario, ma motivato, di giovani docenti liceali che

hanno poi in vario modo rinnovato l’insegnamento della filosofia e offerto

contributi anche di qualche rilievo nella cultura filosofica fiorentina.

Tanto è tuttavia cambiato. Innanzitutto i docenti liceali di filosofia oggi non sono

più così disponibili e ricettivi per iniziative che, oltre al piacere del confronto e della

ricerca, non offrono alcuna concreta gratificazione, né di tipo remunerativo, né

per un miglioramento della carriera lavorativa. E poi i momenti di

approfondimento e di formazione si sono diversificati e frammentati e un ruolo

sempre maggiore giocano le relazioni e le esperienze anche conoscitive via

internet, come peraltro dimostra la stessa rivista che ospita questa intervista. Un

qualche ruolo può ancora essere svolto – a mio avviso – da un impegno di

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

216

discussione, anche filosofica, rivolto alla cittadinanza, indirizzato a coltivare

problemi e riflessioni che concernono da vicino il presente.

Come responsabile dell’organizzazione del ciclo di conferenze al Vieusseux può

illustarci l’attività del 2008?

Quest’anno proporremo per il terzo anno consecutivo (ma con maggiori difficoltà,

soprattutto nelle risorse) il fortunato ciclo Pensare il presente, che - a mio avviso -

possiede alcune peculiarità nel panorama culturale fiorentino. Innanzitutto si tratta

di una serie di incontri che per la prima volta ha messo in relazione istituzioni

culturali molto diverse tra loro – la SFI, il Gabinetto Scientifico Letterario “G.P.

Vieusseux”, l’Istituto Gramsci Toscano, la Società Italiana per lo studio dei rapporti

tra Scienza e Letteratura – facendole convergere per la realizzazione di un

progetto che ha una forte vocazione al potenziamento dello spirito di

cittadinanza, di una cittadinanza attiva e motivata, e che richiede alla filosofia di

mettere e mettersi in questione intorno a temi legati al presente delle forme di

sapere e di esperienza. In secondo luogo la formula degli incontri, sempre

organizzati a due voci, una delle quali filosofica, modulate da un moderatore che

sappia equilibrarle, è particolarmente efficace, perché impone “socraticamente”

allo specialista, sia esso uno scienziato o un artista, di mettere in discussione le

proprie competenze e al filosofo di interrogare sapientemente e non oziosamente

l’interlocutore, uscendo dalle secche a volte opprimenti di un presunto e ostinato

“specialismo” filosofico. Infine la dimensione dialogica è valorizzata dall’intervento,

spesso incisivo, del pubblico, che mostra non soltanto di gradire la formula, ma

anche di voler partecipare attivamente al dialogo, ridefinendone e a volte

trasformandone i termini e la direzione.

La sfida di quest’anno sarà rivolta al mondo delle arti figurative e della musica,

settore verso il quale la filosofia ha di recente testimoniato un rinnovato e

articolato interesse, come mostrano anche a Firenze le iniziative promosse negli

ultimi anni dal Dipartimento di Filosofia nella direzione della cultura musicale e dal

Seminario permanente di Estetica in quella delle forme artistiche più recenti, che

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

217

mettono in gioco e costringono a ripensare con una mise en abime il concetto di

esperienza estetica. Mi pare utile riportare al proposito la presentazione del ciclo,

redatta da Fabrizio Desideri:

«In un’epoca in cui le questioni all’ordine del giorno sono quelle della pluralità e

del fattuale intreccio di fedi, culture e tradizioni e uno dei problemi più dibattuti è

quello del relativismo quale significato può avere un dialogo tra le pratiche della

filosofia e quelle delle arti? Si può parlare di una responsabilità di fronte alla inedita

drammaticità comune sia all’esercizio filosofico del pensiero e all’impegno degli

artisti sul fronte dei differenti linguaggi espressivi? È ancora lecito parlare di una

trama comune o almeno di affinità e zone di contatto e di sinergia tra l’evidente

pluralismo dei modi stessi di intendere la filosofia e l’arte? A queste domande

cercherà di rispondere il ciclo di quest’anno di “Pensare il presente”, dedicato

appunto a dialoghi tra filosofi e artisti. Diverse saranno le questioni dibattute.

Anzitutto quella relativa alla dialettica tra invenzione e vincoli che caratterizza sia il

lavoro del filosofo sia quello dell’artista. Seppure in modalità diverse, in entrambi i

casi nessun compito e nessuna sfida, soprattutto rispetto a questioni inedite che

oggi si profilano per gli umani destini (per il senso stesso di cosa significhi

“umanità”), possono essere affrontati senza un’accelerazione e un potenziamento

delle virtù immaginative della ragione. D’altra parte, nel momento stesso in cui il

lavoro filosofico e quello artistico scoprono la libertà del procedere e la necessità

dell’invenzione, capiscono anche che entrambe non sono per così dire assolute: si

muovono all’interno di tradizioni e debbono rispondere non solo a problemi, ma a

leggi e vincoli immanenti. Una seconda cruciale questione che impegna le

filosofie e le arti oggi è quella relativa a un rapporto né di generica ripulsa, né di

adesione senza riserve con le nuove tecnologie e, ancor più, con le nuove forme

di produzione, organizzazione e diffusione del sapere. A questo proposito, forse,

hanno molto da insegnare ai filosofi proprio quegli artisti che si sono mostrati

capaci di fare dell’attuale orizzonte tecnologico e multimediale dell’espressione e

della comunicazione il terreno di un lavoro innovativo. Proprio a partire dal

dialogo con questi artisti, né catastrofici né integrati, possiamo infatti

comprendere lo spazio della tecnica come una chance, anziché come un

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

218

destino. Una chance per ricostituire un nuovo senso dell’identità umana, né risolta

in una fluidità senza trama, né meramente nostalgica di pur nobilissime tradizioni.

In questo senso i dialoghi tra filosofi e artisti che proponiamo hanno anche il valore

di avviare una riflessione su cosa significhi oggi, proprio a Firenze, pensare e

ripensare il Rinascimento. Se c’è una trama problematica comune che lega –

oggi – arte e filosofia, questa è data, forse, proprio dalla necessità di un nuovo

“umanesimo”, di un senso dell’umano non ancora scritto o fissato, dove pluralismo

e unità respirino assieme in un comune ethos dialogico».

Il rilievo internazionale degli artisti coinvolti e lo spessore teoretico dei filosofi che

interverranno fanno scommettere sulla qualità del ciclo. Riporto l’elenco degli

incontri, perché gli interrogativi posti e le presenze mostrano bene di che si tratta:

Pensare la musica, comporre la musica: un ritmo comune? (31 gennaio, Daniele

Lombardi e Sergio Givone, coordina Eleonora Negri); Una nuova arte per l'epoca

delle tecnologie? (12 febbraio, Paolo Rosa e Pietro Montani, coordina Fabrizio

Desideri); Qual è il "laboratorio" per l'arte oggi? (29 febbraio, Gianfranco

Baruchello e Giuseppe Di Giacomo, coordina Fabrizio Desideri); Un’arte possibile

tra Oriente e Occidente? (6 marzo, Omar Galiani e Pina De Luca, coordina

Fabrizio Desideri); Musica, scienza e filosofia: quale ordito le lega insieme ? (3

aprile, Lelio Camilleri e Maria Luisa Dalla Chiara; coordina Luca Farulli); Pensare il

rinascimento: un nuovo umanesimo? (17 aprile, Michel Serres e Carlo Sisi, coordina

Roberto Berardi); tavola rotonda conclusiva Filosofia, musica, arti figurative: quale

trama le unisce? una trama in comune? (6 maggio, Marco Bagnoli, Fabrizio

Desideri, Elio Matassi e Dani Gal, coordina Angelika Stepken). I filosofi, ben noti al

pubblico fiorentino, si confronteranno stavolta con compositori e artisti di fama

nazionale e internazionale, e non mancherà anche un Accademico di Francia…

Sappiamo anche che si è prodigato per organizzare una giornata di

commemorazione del prof. Carlo Monti il 19 febbraio. Può brevemente ricordarne

la figura e, in particolare, il contributo che diede alla Biblioteca Filosofica ?

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

219

Carlo Monti è stato un testimone attivo delle vicende della SFI fiorentina fin dagli

anni ‘60 del secolo scorso e non ha mai mancato di aderire alle sue iniziative e di

condividerne lo spirito aperto e dialogico. La sua lunga esperienza didattica e di

ricerca è stata esemplare per la sua capacità di collegare il rigore di studi

impegnativi, quali soprattutto quelli sull’opera di Giordano Bruno, con l’entusiasmo

dell’insegnamento della filosofia a numerose generazioni di allievi, alcuni dei quali

hanno seguito la sua strada affermandosi nella comunità filosofica italiana, come

Emanuela Scribano, ordinario di storia della filosofia presso l’Università di Siena e

Nicoletta Tirinnanzi, ordinario di storia della filosofia presso l’Università di Chieti-

Pescara, che peraltro ha sviluppato interessi di ricerca strettamente connessi a

quelli del suo insegnante liceale, divenendo una tra le principali esperte italiane di

Bruno. Il nome di Monti rimane a segnare l’edizione UTET dei Poemi latini di Bruno,

tuttora insostituibile per gli stessi studiosi del Nolano, ma è anche profondamente

scolpito nella memoria dei suoi numerosissimi allievi, che seguivano con

venerazione il loro maestro non vedente, e in quella degli associati dell’Unione

Italiana Ciechi, alla quale ha dedicato gran parte del suo impegno di vita.

Vorremmo quindi dedicargli un pomeriggio di ricordo, nell’anniversario della sua

morte, il 19 febbraio, nel Liceo che più a lungo lo ha visto alacre e instancabile

docente di filosofia, il Liceo “Machiavelli”, sito ora nel Palazzo Rinuccini, in Via

Santo Spirito 39. L’iniziativa, coordinata insieme alla vedova, la prof. sa di filosofia

Mariarita Bartalucci, vedrà la partecipazione delle ricordate Scrivano e Tirinnanzi e

di Giorgio van Straten, un fiorentino ben noto a livello nazionale, sia come

Presidente dell'Orchestra Regionale Toscana, consigliere della Biennale e

presidente dell'AGIS, sia e soprattutto come autore di romanzi, molto apprezzati

dalla critica.

Attualmente ci sono altre attività della Biblioteca Filosofica che ritiene degne di

nota?

La SFI fiorentina sta sviluppando, grazie al suo presidente e anche ai giovani

studiosi di filosofia che ne hanno di recente rivitalizzato l’ambiente, una mole

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

220

rilevante di iniziative che possono contribuire al suo rilancio. Non starò qui a

ricordare il recente convegno sul Linguaggio e l’adesione al Progetto nazionale SFI

per la lettura di testi filosofici nelle scuole secondarie superiori. E neppure l’impulso

che può dare alle azioni locali la recente elezione di un illustre storico della filosofia

come Stefano Poggi a presidente della SFI nazionale. Ma anche attività meno

appariscenti e più di servizio, come l’apertura del sito della sezione fiorentina

(http://www3.unifi.it/bibfil/), attivato nel gennaio 2007, la bella rivista elettronica

“humana.mente”, che ci ospita, o il protocollo per la cura nazionale della sezione

“filosofia” dell’archivio di schede bibliografiche on line offerto dall’INDIRE ai

docenti, sono degne di nota perché sviluppano contatti e interessi di lettura e di

approfondimento su temi filosoficamente rilevanti. Mi pare che possa avere un

ruolo importante per il futuro della SFI fiorentina il collegamento tra i giovani

studiosi, pieni di volontà di impegnarsi e di sviluppare iniziative, e gli insegnanti

liceali di filosofia, che vivono a stretto contatto con il mondo giovanile e sanno

coglierne le esigenze, tra le quali spicca un forte interesse per le problematiche

filosofiche. Riuscire a mettere in moto un circuito virtuoso che avvicini i giovani

universitari ai docenti liceali potrebbe fornire alla SFI una leva per far breccia nel

mondo degli interessi giovanili, che rappresenta oggi il punto critico per la

trasmissione del sapere e per la diffusione ragionata e consapevole della

riflessione filosofica. Le ultime attività menzionate, che si servono egregiamente

della rete informatica, mostrano quanto ampia sia l’opportunità di internet per

potenziare il dialogo filosofico, estendendolo anche ai giovani, e come la SFI

fiorentina appaia ben attrezzata in questo settore, che assume un’immediata

visibilità nazionale. Vanno infine menzionate le conferenze e le presentazioni di

libri, che svolgono sempre una funzione propositiva e stimolante: ricordo l’interesse

per l’incontro recente tra Fritjof Capra e Paolo Galluzzi intorno alla figura filosofica

e scientifica di Leonardo da Vinci.

Lei fa parte anche dell’Istituto Gramsci; che collaborazione ci sarà con la

Biblioteca e quali saranno invece le attività del 2008 proprie del Gramsci?

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

221

Il ciclo Pensare il presente è il frutto di una collaborazione con l’Istituto Gramsci

Toscano che risale al 2001, anno in cui fu inaugurata la serie Filosofi nella città,

ospitata nella sede del Gramsci e primo modello dei cicli attuali. Mi sembra utile

riportare la presentazione di quel ciclo (proposta da Fabrizio Desideri), perché vi

sono tutte le ragioni della collaborazione, non così ovvia, con l’Istituto Gramsci e

della funzione cittadina e “socratica” della SFI:

«“Filosofi nella città” nasce dalla collaborazione tra l’Istituto Gramsci Toscano e la

Sezione fiorentina della Società Filosofica Italiana. L’idea-guida di tale iniziativa è

quella di dare un respiro ‘cittadino’ alla riflessione e alla ricerca filosofica,

portando i filosofi nello spazio pubblico della città e nella dimensione plurale. Si

tratta, perciò, di invitare dei filosofi (fiorentini e non) a misurarsi pubblicamente su

parole-chiave e temi (come “responsabilità”, “disagio”, “coscienza” e così via)

che riguardano la singola esistenza ed il comune destino di ciascuno di noi.

Proprio per sottolineare il carattere ‘civile’ di questa iniziativa, appunto nel senso di

non essere destinata ad un nucleo ristretto di addetti ai lavori o di interessati

d’ufficio alle discipline filosofiche (insegnanti, studenti e così via), si è preferito dare

una forma dialogica a ciascun incontro. Due o più relatori intrecceranno di volta

in volta un pubblico dialogo intorno al tema sul quale sono stati invitati a parlare.

Assumendo questa forma, anziché quella tradizionale della conferenza, l’iniziativa

è pensata proprio per coinvolgere nel vivo di un dialogo il pubblico che di volta in

volta interverrà. Lo scopo, in breve, è quello di gettare dei semi al fine di favorire

una crescita dello spirito di cittadinanza, nel presupposto che il senso comune è

innanzitutto qualcosa che si costruisce e che suppone l’autonomo sviluppo della

capacità critica di ognuno. “Filosofi nella città” è pensata, dunque, come una

chance attraverso la quale la filosofia potrebbe dimostrare, proprio all’interno

della vita cittadina, il carattere non semplicemente retorico-astratto della sua

vocazione universalistica. Movendo, appunto, da quella forma del comune

interrogarsi e, dunque, del libero dialogare che, sin dall’esperienza socratica, lega

filosofia e città in un unico nodo. Come sappiamo, spesso si è trattato di un nodo

difficile, carico di tensioni e di contraddizioni e, talvolta, di un nodo tragico.

Eppure la città che sciogliesse ogni legame con la dimensione propria della

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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riflessione filosofica sarebbe più esposta al pericolo di una perversa oscillazione tra

l’omologazione di massa e l’atomistica solitudine dei singoli (individui o gruppi, che

siano). Ogni dialogo suppone l’ascolto delle parole e delle ragioni dell’altro; è

proprio da questa disposizione che dovranno partire i filosofi partecipanti a questa

iniziativa, nel presupposto che nessuna domanda è inutile o sciocca. Anche nella

domanda più apparentemente ingenua si nasconde un problema e, con esso,

l’occasione per una pubblica chiarificazione e un pubblico approfondimento, il

più possibile affrancato dai paternalismi semplificatori della divulgazione a buon

mercato. Un modo per mostrare la persistente attualità dell’intreccio

problematico che stringe insieme la vita della polis e i percorsi tentati oggi dalla

filosofia, sarà, perciò, anche quello di mettere in scena un confronto tra il sapere

filosofico e altri tipi di sapere (quello scientifico, quello teologico, quello artistico).

Intesa in questo senso, la filosofia non sarà certo chiamata a dare facili risposte o a

surrogare funzioni che non le competono. Semmai sarà chiamata a rinnovare il

senso della sua presenza nella città e, con esso, il suo autentico ruolo di voce

scomoda, talvolta ostinatamente critica, talaltra inquieta e inquietante verso le

irriflesse consuetudini e le opinioni consolidate. Una voce difficile, senza la quale,

però, la vitalità democratica di una città risulterebbe priva di un nervo essenziale.»

Tale impegno per una riflessione democratica, che veda al centro l’obiettivo di

una crescita del senso comune collettivo e «l’autonomo sviluppo della capacità

critica di ognuno», è un obiettivo “socratico” della filosofia ed è parimenti da

sempre al centro dell’interesse del Gramsci, che di recente ha dato luogo a una

serie di iniziative per il 70° della morte di Antonio Gramsci, culminate in un

convegno “intrigante” e interdisciplinare su Gramsci e la questione dell’identità

nazionale (15-17 novembre 2007), con la presenza di italianisti quali Giulio Ferroni,

Bartolo Anglani e Umberto Carpi, studiosi del linguaggio quali Tullio De Mauro e

Franco Lo Piparo, filosofi come Giuseppe Cacciatore, Michele Maggi e Alberto

Burgio.

Mi auguro che la sintonia tra la SFI fiorentina e il Gramsci Toscano possa proseguire

e consolidarsi e che il Gramsci possa superare la fase di difficoltà che sta

attraversando.

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Pochi mesi fa è uscito per Le Lettere il suo ultimo libro, Galileo in Leopardi. Esso non

è che l’ultimo dei lavori che ha dedicato allo studio di Leopardi; crede di poterci

illustrare brevemente a che punto è arrivata la sua ricerca?

Ringrazio per questa domanda, particolarmente gradita, perché tocca il settore di

ricerca che mi è al momento più caro e che coltivo da più di dieci anni. La mia

“passione” per il pensiero di Giacomo Leopardi mi ha condotto a battere vie

nuove nella pur vastissima bibliografia leopardiana, quali quelle del suo rapporto

con il sapere scientifico e filosofico del suo tempo, che hanno messo in luce

aspetti insospettati della sua formazione più propriamente scientifica e la

profondità del confronto con la scienza naturale, che costituisce un asse decisivo

del pensiero leopardiano, non riducibile soltanto alla visione poetica della natura

“madre” e “matrigna”, ma esteso a una filosofia della natura articolata e

argomentata. Il nostro più grande filosofo ottocentesco ha scritto pagine di

grande spessore teoretico nello Zibaldone sui limiti e le forme della nostra

conoscenza della natura; il nostro più grande poeta e scrittore ottocentesco ha

offerto segni e motivi ineguagliabili di una poetica cosmica della natura che

permea di sé i Canti e le Operette morali, un’opera «filosofica, benché scritta con

leggerezza apparente» (Lettera ad Antonio Fortunato Stella del 6 Dicembre 1826).

Su questi temi ho lavorato a lungo, pubblicando tre libri – G. Polizzi, a cura di,

Leopardi e la filosofia, Polistampa, Firenze 2001; Leopardi e “le ragioni della verità”.

Scienze e filosofia della natura negli scritti leopardiani, Prefazione di R. Bodei,

Carocci Editore, Roma 2003 e Galileo in Leopardi, Le Lettere, Firenze 2007 – e

mettendone in cantiere un quarto che conto di pubblicare presto per Franco

Angeli di Milano («…per le forze eterne della materia». Natura e scienza in

Giacomo Leopardi).

Nel mio ultimo libro – Galileo in Leopardi – ho cercato di dimostrare, attraverso una

lettura attenta dei libri astronomici della formazione e dell’opera di Galileo

posseduta in Casa Leopardi, come Leopardi scopra Galileo negli studi scientifici

giovanili e nella Storia della Astronomia e quanto cresca il suo apprezzamento

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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dell’opera di Galilei nel contesto della sua maturazione filosofica e letteraria, fino

al riconoscimento del fisico pisano come «forse il più gran fisico e matematico del

mondo» e ancor più come «il primo riformatore della filosofia e dello spirito

umano». Se da un lato il pensiero di Galilei sostiene la riflessione leopardiana sul

problema del metodo della conoscenza, sul rapporto tra caso e progresso nella

scienza, ma anche la sua concezione “stratonica” del cosmo e finanche la sua

visione della relazione tra conoscenza e felicità, dall’altro Leopardi glissa sulla que-

stione del processo allo scienziato pisano, non soltanto per la sua nota ritrosia a

seguire gli ideali liberali, ma anche per la presenza di un celato conflitto a distanza

con il padre sulla legittimità del sistema galileiano e in fondo sull’accettazione o

meno della centralità della fede cristiana rispetto alle verità dei filosofi. Mi pare di

poter riconoscere al proposito, nel pensiero di Leopardi, forme di dissimulazione

che ben evidenziano le difficoltà culturali e religiose presenti ancora nei primi

decenni dell’Ottocento e subite pesantemente dal filosofo e poeta di Recanati.

In studi più recenti, non ancora resi pubblici, mi sono progressivamente orientato a

indagare le relazioni tra l’elaborazione leopardiana di una filosofia della natura e

la corrispondente filosofia “pratica”, ovvero la riflessione di Leopardi su temi

antropologici e di filosofia morale, così largamente diffusa in tutta l’opera

leopardiana, ma prevalente a partire dalle venti Operette morali del 1824. A mio

avviso è riconoscibile e ricostruibile un itinerario che dalla filosofia della natura

conduce all’antropologia, specie per ciò che concerne la grande questione della

condizione umana, lungo un percorso che dall’utopia, esemplificata nel mito dei

Californi, conduce al disincanto, ben rilevabile in alcune operette e, tra tutte, nella

Scommessa di Prometeo. La genesi di tale concezione antropologica negativa

avviene in Leopardi attraverso un processo di letture e di pensiero che sto

cercando di ricostruire, anche in vista della relazione che terrò al XII Convegno

internazionale di studi leopardiani, intitolato La prospettiva antropologica nel

pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi, che si terrà in autunno a Recanati.

Esso muove da una visione utopica e “positiva” di un’umanità primitiva “felice” e

di una cultura greco-latina eroicamente naturale e progressivamente perviene a

riconoscere la negatività della condizione umana in ogni tempo e in ogni luogo

Intervista a Gaspare Polizzi – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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rispondendo negativamente alla domanda “retorica” posta nelle ultime parole

dell’Islandese («[…] a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima

dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo

compongono?»). Si tratta di seguire da vicino una trama di letture e di riflessioni

che sfocia in un’elaborazione tematica che darà luogo all’Abbozzo dell’Inno ai

Patriarchi e alla quinta strofa dell’Inno. Se si pone come termine a quo dell’utopia

antropologica dei popoli primitivi “felici” la quinta e ultima strofa dell’Inno ai

Patriarchi (luglio 1822), considerata l’ultimo significativo reperto del “mito” dei

Californi, quasi il residuo di una concezione ormai abbandonata, e si guarda alle

letture compiute nel primo soggiorno romano, fra il 17 novembre 1822 e il 3

maggio 1823, si possono rintracciare nelle note di lettura e nelle meditazioni

zibaldoniche gli elementi costituitivi che daranno luogo al grande affresco

dell’antropologia negativa tracciato nelle Operette. Ne emerge la nuova visione

leopardiana della Grecia antica che riconosce le radici del pensiero tragico

greco e consolida una concezione negativa della condizione umana,

sintetizzabile nel motto “meglio non esser nati”. In questo contesto La Scommessa

di Prometeo rivela un’originale torsione della tradizione prometeica e si sviluppa in

una dinamica di pieno disincanto antropologico.

Spero di aver la fortuna di proseguire questi miei studi, che possono

accompagnare degnamente la vita di un uomo e renderla degna di esser vissuta.

Biblioteca Filosofica © 2007 - Humana.Mente, Periodico trimestrale di Filosofia, edito dalla Biblioteca Filosofica - Sezione Fiorentina della Società Filosofica Italiana, con sede in via del Parione 7, 50123 Firenze (c/o la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Firenze) - Pubblicazione iscritta al Registro Stampa Periodica del Tribunale di Firenze con numero 5585 dal 18/6/2007.

Filosofia del Linguaggio: prospettive di ricerca

Numero 4 – Febbraio 2008

Intervista a Marino Rosso

L’eredità di Wittgenstein

Riccardo Furi

http://www.humana-mente.it

Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Marino Rosso, Docente di Filosofia del Linguaggio all’Università degli Studi di

Firenze…

Il professor Marino Rosso è uno stimato e profondo conoscitore della filosofia di

Ludwig Wittgenstein. Accettato o criticato che sia, il suo controverso pensiero è

ancora oggi oggetto delle più disparate interpretazioni e viene citato da linguisti,

psicologi e filosofi della mente come fulcro di molte loro teorie.

In occasione di un numero dedicato al linguaggio abbiamo ritenuto utile porre a

Marino Rosso alcune domande riguardanti una tra le opere di Wittgenstein: le

“Ricerche filosofiche”.

Pubblicate postume grazie alla supervisione dell’amico G.E. Moore e alla

dedizione della sua allieva Anscombe, possiamo considerare il pensiero

contenuto nelle Ricerche come l’espressione più matura della filosofia

wittgensteiniana.

Nelle ricerche filosofiche, per sua stessa ammissione, Wittgenstein cerca di

rimediare ai ‘gravi errori’ contenuti nel Tractatus Logicus -filosoficus.

Prende corpo l’idea del linguaggio come insieme/sistema di ‘giochi linguistici’.

Questa svolta segna il ritorno di Wittgenstein alla filosofia e la fine della ricerca di

un linguaggio logico univoco che descriva la realtà.

Le due opere presentano notevoli divergenze; secondo lei possiamo parlare di

uno sviluppo coerente nel lavoro di Wittgenstein, o di rottura e abbandono di un

sistema esclusivamente teorico?

Non c’è distanza, in realtà, tra il Tractatus e le Ricerche, in entrambe possiamo

osservare il tormentato bisogno di chiarezza che Wittgenstein manifesta in tutta la

sua filosofia, e, seppur con percorsi metodologicamente diversi, è simile anche la

conclusione dell’umana impossibilità di trovare la forma logica del linguaggio

naturale.

Nonostante Wittgenstein detestasse terribilmente anche le più piccole

imperfezioni, uno degli errori più gravi, che lo convinse a rimettere l’opera

Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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completamente in discussione, riguarda la natura proposizionalistica delle

complessità logiche che rivestono il Tractatus. Tutta la struttura logica del

Tractatus, costruito con le più sofisticate formalizzazioni fregeane e russelliane

descrive ben poco della realtà effettiva, bensì genera ulteriore, eccessiva,

proposizionalità che riveste il fatto puro, senza spiegarlo ma nascondendolo.

Cosa ha convinto Wittgenstein dell’inapplicabilità del Tractatus al linguaggio

ordinario?

Già durante i colloqui con Ramsey, Wittgenstein intuisce le problematiche

principali del Tractatuts, ma è nel periodo intermedio che prende consapevolezza

della struttura ‘monadologica’ dell’opera: tutte le conclusioni derivate nel

Tractatus hanno significato solo come descrizione alternativa e soggettiva della

realtà.

La visione soggettiva, messa in primo piano, descrive il mondo che è

esclusivamente il mondo del soggetto e il linguaggio è il suo limite. Monologando

con se stesso il soggetto esprime il limite del mondo.

Il rischio di cadere nel solipsimo tormentava Wittgenstein che si accorse presto del

rivestimento proposizionalistico del Tractatus, rivestimento che nascondeva il

fenomeno così come si dà.

Il Wittgestein del periodo intermedio, dei “Quaderni”, radicalizza le conclusioni del

suo primo periodo. L’osservazione che fa sull’inutilità logica della doppia

negazione è esemplare della nascente concezione dei giochi linguistici: nella

grammatica una doppia negazione si annulla, cosa che non accade nel

linguaggio naturale, in quanto non viene annullato il senso della negazione.

Progressivamente Wittgenstein prende consapevolezza della natura

fenomenologica del linguaggio.

Non è essenziale, anzi, forse è sbagliato cercare una forma logica assoluta; il

linguaggio ordinario presenta una moltitudine di “linguaggi” che funzionano, non

sempre e non necessariamente tramite espressioni grammaticalmente corrette o

verbali.

Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

228

La comprensione linguistica avviene ad un livello fenomenico puro di cui è

ininfluente, se non impossibile, voler chiarire le cause. Abbiamo in questo caso un

raro esempio di convergenza concettuale con Husserl, sulla considerazione del

fenomeno puro, senza che Wittgenstein l'avesse mai letto.

Possiamo considerare le intuizioni di Wittgenstein come fondamento dell’attuale

ricerca, filosofica e non, sul linguaggio?

Wittgenstein è stato interpretato partigianamente da molti filosofi del linguaggio;

esiste una letteratura esegetica che si allontana molto da Wittgenstein; dare un

quadro complessivo è molto rischioso proprio per la varietà e diversità delle

traduzioni filosofiche.

Sarebbe utile tuttavia al linguista, per capire meglio la nozione di gioco linguistico,

guardare dei film muti che contengono solo il minimo linguaggio verbale, in

modo da sviluppare una comprensione riguardante esclusivamente la mimica.

L’asserzione verbale infatti, in alcuni casi, può essere vuota proposizionalità.

Pensiamo a due enunciati come: “Ho mal di denti” e “Lui ha mal di denti”.

Sembra che veicolino la stessa informazione, ma sono radicalmente diversi.

Allo stesso modo vedere film in lingua straniera può essere un altro modo per

studiare i ‘giuochi linguistici’. È strabiliante vedere quanto si capisca anche con

l’handicap linguistico.

Tutto ciò era per Wittgenstein completamente marginale, in quanto, per lui,

l’analisi del linguaggio avviene ad accordo linguistico avvenuto; in sostanza il

linguista si occupa dell’inessenziale del linguaggio.

L’interpretazione del movimento di un punto ci permette di considerare numerosi

aspetti da cui ricavare leggi fisiche; questa osservazione viene usata nelle

Ricerche filosofiche come analogia con il comportamento umano: osservandolo

possiamo dunque ricavare leggi psicologiche?

Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Nello stesso passo da lei ricordato possiamo osservare il punto di vista di

Wittgenstein: «in psicologia sussistono metodi sperimentali e confusione

concettuale».

Cercare di ricavare leggi è un’attività fallimentare nell’idea stessa della

psicologia.

Nonostante la pubblicazione postuma delle Ricerche filosofiche (’64), il testo è

attualissimo per l’epoca, anche grazie alla diffusione del Comportamentismo di

Gilbert Ryle. Fondamento del comportamentismo è l’idea che l’analisi logica del

comportamento parafrasi gli stati interni di un individuo. Anche nelle Ricerche si

parla di stati interni ma in relazione alla loro espressione proposizionale, quanto le

intuizioni di Wittgenstein hanno influenzato Ryle?

Il comportamentismo di Gilbert Ryle ha sicuramente Wittgenstein tra i suoi massimi

ispiratori.

Ryle, se si può dire, è un divulgatore di Wittgenstein, e - come molti divulgatori

scientifici - è autore di un’interpretazione qualitativamente inferiore. Wittgenstein

era molto duro con i suoi allievi, che definiva, non proprio teneramente, come

possessori di un mazzo di chiavi rubate.

Gli stati interni menzionati dai due autori sono radicalmente diversi: mentre il

comportamentismo esteriorizza tutti i processi mentali, riconoscendoli come

processi del cervello, nelle Ricerche essi sono esperienza e vissuto.

Per Wittgenstein il mentalista commette un errore inferiore rispetto al

comportamentista, poiché riconosce gli stati interiori come parte effettiva

dell’esperienza, mentre l’ipotetica traduzione del comportamentismo è coattiva

e aggiunge proposizionalità al fenomeno puro.

Quanto hanno in comune le espressioni come “credere”, “volere”, “desiderare”,

ecc…, che informano sull’azione dell’individuo - che Ryle chiama proprietà

‘disposizionali’ - e Wittgenstein stati interiori e che possono essere accostati ai

moderni stati intenzionali dibattuti in filosofia della mente?

Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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C’è una grossa differenza qualitativa del mentale: gran parte degli asserti sul

mentale infatti non sono asserti. Secondo Wittgenstein qualsiasi analisi che si

occupi di stati mentali genera proposizionalità, cioè un volume proposizionale

eccessivo che non riesce comunque ad individuare le cause dell’accordo.

Enunciati che esprimono stati interni del tipo: «io credo di sapere come sento…» o

«so ben io come mi sento…» non aggiungono niente alla comprensione,

l’accordo è un primum che avviene nei giochi linguistici, un primum che

ipostatizza la proposizione.

Per il nostro filosofo la traduzione di uno stato mentale genera falsa

proposizionalità e ritiene che qualsiasi conclusione sia solo superstizione.

Cosa risponderebbe Wittgenstein ai riduzionisti che eliminerebbero il vocabolario

della psicologia per ricondurre le spiegazioni dei fenomeni mentali al vocabolario

della neurobiologia, a scapito di numerosi giochi linguistici?

Come appena detto sarebbero solo proposizioni vuote.

L’analisi del mentale presenta un doppio inganno solo nella riflessione filosofica;

nel linguaggio ordinario è sufficiente l’esperienza del fenomeno, della ripetizione

e funzionalità del gioco linguistico.

La lingua è una iattura dal punto di vista dell’analisi filosofica, è l’analisi della

superfluità; la filosofia del linguaggio è giocata dal linguaggio come sistema in cui

si attua l’interpretazione dei giochi linguistici.

La duttilità del riferimento linguistico viene considerata da Wittgenstein con

l’osservazione delle figure gestaltiche, in cui si mischiano vari elementi come: la

percezione, il pensiero, il comportamento e il contesto. Essi determinano la

varietà semantica da cui Chomsky ricava la nozione di ‘grammatica mentale’.

È possibile che la forma logica tanto cercata da Wittgenstein nelle sue ricerche

sia dentro di noi?

Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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Anche Fodor negli anni ’70 cerca di formalizzare una grammatica mentale, ma

per Wittgenstein sarebbe stato come costruire un grattacielo su di uno spillo. Le

regole di una grammatica universale hanno un’evidenza non probatoria.

Wittgenstein è molto lontano da una causa genetica, non è, anzi, affatto

interessato ad una teoria della causazione della comprensione linguistica: sia che

parli di cervello, di una grammatica mentale o di altro, la nozione fondamentale

è che i giochi linguistici che facciamo continuamente funzionano. Nel momento

in cui il gioco si manifesta e viene giocato ha soddisfatto tutte le nozioni di cui ha

bisogno.

In linguaggio e natura umana di Jackendoff si descrive il linguaggio come un

prodotto di natura e cultura, per cui la comprensione linguistica è in parte

esplicata da una determinazione genetica. Pensa che W. si riferisca a questa

quando definisce l’esperienza vissuta come costituita da un substrato che

evidenzia una tecnica/capacità particolare?

Il substrato indicato da Wittgenstein è un colpo basso al vissuto. Il vissuto è come

un’increspatura nel fluire della realtà e del mondo.

Padroneggiare una tecnica permette di lasciar fluire il vissuto; se l’acquisizione

delle regole tramite l’esperienza non riesce, questo fluire s’inceppa, come

succede in alcune situazioni patologiche o particolari in cui, sottoponendo ad un

individuo una figura come l’anatra-lepre, egli non riesca a vederne che una sola

per quanto ci provi. In questo caso il fluire si arresta e il soggetto non riesce a

giocare quel particolare gioco.

Quando Wittgestein parla di tecnica in relazione ad un ‘gioco linguistico’ si

riferisce ad una tecnica da condividere poiché non si può giocare ai giochi

linguistici da soli.

Per Wittgenstein dunque il linguaggio ordinario è una collezione di giochi

linguistici, nei contesti dei quali un termine acquisisce un significato specifico in

base al suo impiego.

Intervista a Marino Rosso – Humana.Mente 4, Febbraio 2008

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L’uso di un termine, tuttavia, deve essere appreso e ogni gioco ha il suo corpo di

regole.

Quanto conta l’insegnamento della grammatica e quanto l’esperienza, nel saper

giocare un ‘gioco linguistico’?

L’insegnamento della grammatica permette di acquisire le regole di alcuni giochi

linguistici ed è fondamentale nella costruzione di giochi nuovi, tuttavia la

padronanza delle regole viene consolidata dalla pratica. Il rapporto

maestro/allievo a cui semplicemente allude l’autore viene integrato dal vissuto

che, più che di una conoscenza, permette l’acquisizione delle capacità per

comprendere le varie situazioni cui ci sottopone il flusso della vita.

Cosa penserebbe Wittgenstein della sovraesposizione mediatica dell’odierna

società?

L’estrema vivacità dell’informazione globale, nell’odierna società,

rappresenterebbe per Wittgenstein una serie di fenomeni totalmente superflui.

L’onnipresente rumore prodotto dai media, che siano consigli per gli acquisti o

idee imposte con forza da uomini potenti, sono un continuo parlare senza dire

nulla, il trionfo quasi onnipervasivo del marginale: una semplice curiosità.