Horcynus Orca - teatrobiondo.it · da Stefano D’Arrigo ... video Alessandra Pescetta produzione...

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44 da Stefano D’Arrigo regia Claudio Collovà con Vincenzo Pirrotta, Manuela Mandracchia, Giovanni Calcagno drammaturgia Claudio Collovà e Dario Tomasello scene e costumi Enzo Venezia musiche Giuseppe Rizzo video Alessandra Pescetta produzione Teatro Biondo Palermo Horcynus Orca Transito e ricongiungimento dal 6 al 15 maggio 2016 sala grande

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da Stefano D’Arrigoregia Claudio Collovàcon Vincenzo Pirrotta, Manuela Mandracchia, Giovanni Calcagnodrammaturgia Claudio Collovà e Dario Tomaselloscene e costumi Enzo Veneziamusiche Giuseppe Rizzovideo Alessandra Pescettaproduzione Teatro Biondo Palermo

Horcynus OrcaTransito e ricongiungimento

dal 6 al 15 maggio 2016

sala grande

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Manuela Mandracchia / ph. Riccardo Lupo

«L’Horcynus Orca di D’Arrigo narra il ritorno dalla guerra di ‘Ndrja Cambrìa, nocchiero della fu Regia Marina italiana. Dell’opera, vastissima, il Nostos racconta, legandoli insieme, due episodi centrali: quello di Ciccina Circé, la madremaga che lo traghetterà verso il suo paese sullo stretto, mare che per ordine delle autorità inglesi nessuno poteva solcare; e quello con Caitanello il padre, a lungo cercato, uno dei vecchi pescatori che sulla linea dei due mari, tra Scilla e Cariddi, hanno la pelle dura come gli squali. Ciccina Circè, gli offre il trasbordo in cambio di una notte d’amore, la sacra prostituta, potente e ammaliante figura di femminota, dedita a misteriosi traffici su e giù per lo scill’e cariddi, alla fine del quale finalmente ‘Ndria può ricongiungersi col padre Caitanello.Sono due episodi di estrema bellezza, fisica e linguistica: il primo reso attraverso un’epopea dell’immaginazione erotica e sensuale, il secondo quello con il padre, Caitanello, ormai anziano e che a stento lo riconosce, reso con un racconto tra il sogno e la veglia, in cui Ndrja ascolta il suggestivo sproloquio del padre, le famose “due parolette”, venato dal rimpianto di un uomo ormai anziano e prossimo alla morte.Al centro di questo lavoro, quindi, due movimenti legati insieme da un andamento insieme narrativo e musicale, il transito e il ricongiungimento. Ho immaginato e visto a lungo vivere dentro al mio cuore questa arbitraria, per me, Sacra Famiglia. Una

madre, un padre e un figlio. E solo su queste tre presenze ho confidato di rievocare la bellezza di questo romanzo, così affollato di visioni e di bellissime parole. Una tripartizione che corrisponde ai tre regni e alla tre cantiche della Commedia: il viaggio tragico sulla barca di Ciccina Circè come esperienza infernale; la commedia del ritorno a Cariddi e l’incontro con il padre come il purgatorio del romanzo; e il grado più alto di conoscenza della vita e della morte raggiunto nella terza parte, in cui la figurazione simbolica dell’Orca e la morte del protagonista realizzano il paradiso della poesia nella più assoluta visionarietà. Alla folla di voci degli innumerevoli altri personaggi e abitanti del mare, ho dedicato tutta la forza di tre vecchi saggi. Li ho visti sulla riva del mare i vecchi saggi della comunità dei pelli-squadre, pescatori con la pelle dura dei milli anni, i matusalemme del villaggio, dialogare con l’orca e con l’orizzonte del mare. La nostra Orca, quello che ne ho inteso e che riemergerà per noi non solo a parole, la Morte che rende immortali, la sua apparizione improvvisa, la ‘morte per acqua’ come nella Terra desolata di Eliot, poeta a me carissimo. La lingua è viva e concreta, scritta per il teatro, pura azione. Mi ha affascinato la dimensione pittorica dei personaggi, il paesaggio estremo, una visione della Sicilia che mi è suonata davvero come una grande metafora che ci riguarda da vicino. Tutto è vivo, nell’Horcynus, e l’enorme felice debito

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nei confronti di Melville, Proust, Joyce, me lo ha reso ancora più familiare come scrittura di matrice europea, ma il dato più affascinante è stato riscoprire e lasciarsi guidare dall’enorme autonomia creativa di D’Arrigo che ha reso possibile questo epos mediterraneo costruendolo su una radicale rielaborazione della lingua italiana. La sua meravigliosa e profonda reinvenzione di un nuovo lessico supportato da forme dialettali, ha reso visibile ogni dettaglio, ha permesso che ogni sua visione fosse concretamente abitata da me insieme alle figure dello scill’e cariddi, e queste si potessero vedere con gli occhi, come in un film. Imparare a vedere, direbbe Rilke, ed è questo che succede, già dalla prima pagina, s’impara a vedere. Con questo spirito e con

questa ambizione si è mosso il mio lavoro, confidando che il teatro sia e rimanga per eccellenza il luogo delle visioni. Mi auguro di poter restituire, grazie soprattutto all’opera di tutti gli artisti coinvolti in questo viaggio, amici e compagni di avventura, una parte di tanta bellezza. Devo infine ringraziare con tutto il cuore Siriana Sgavicchia, autrice dello splendido libro Il folle volo, un illuminante lettura dell’opera, con una magnifica introduzione di Walter Pedullà, uno dei massimi esperti di D’Arrigo e suo grande amico. Un fermo punto di partenza, per il mio lavoro sull’Horcynus Orca, chiaro e coinvolgente come raramente succede».

Claudio Collovà

«Poi ti imbatti in Horcynus Orca e tutto salta: è un libro esuberante, crudele, viscerale e spagnolesco, dilata un gesto in dieci pagine, spesso va studiato e decodificato come un arcaico, eppure mi piace, non mi stanco di rileggerlo e ogni volta è nuovo. Lo sento internamente coerente, arte e non artificio; non poteva essere scritto che così. Mi fa pensare a una certa galleria che è stata scavata secoli fa, nella roccia, in Val Susa, da un uomo solo in dieci anni; o ad una lente con aberrazioni, ma di portentoso ingrandimento. Mi attira soprattutto perché D’Arrigo, come Mann, Belli, Melville, Porta, Babel e Rabelais, ha saputo inventare un linguaggio, suo, non imitabile: uno strumento versatile, innovativo, e adatto al suo scopo»

Primo Levi, La ricerca delle radici, Einaudi, Torino 1981

Claudio Collovà

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Vincenzo Pirrotta

Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi.

“«A sentire Alberto Savinio, “uno dei probabili etimi di Mare, e proposto come tale da Curtius, è il sanscrito Maru che significa deserto e propriamente cosa morta, dalla radice Mar, morire”. Ebbene, ambientato in un piccolo paese della riva siciliana dello Stretto di Messina Horcynus Orca è un romanzo di morte e di mare che si chiude sopra il deserto dei valori di un mondo travolto dalla guerra. […] Il

romanzo di D’Arrigo possiede la solidità di chi racconta fatti veri, il funambolismo linguistico di chi fa acrobazie ignaro di quando e dove toccherà terra, la fantasia di un visionario che allunga le mani su un sogno che crede realtà».

Walter Pedullà, Introduzione in Horcynus Orca, Rizzoli, Milano 2003.4

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