Ho percorso il Cammino l’estate scorsa, fra la fine di ......tregua. Sono partita da Burgos con...

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Ho percorso il Cammino l’estate scorsa, fra la fine di giugno e l’inizio di luglio 2003, vale a dire in quei pochi e felici giorni in cui l’estate più torrida del secolo ha concesso una tregua. Sono partita da Burgos con uno zaino di circa cinque chili e sono arrivata a Santiago con un ginocchio fuori uso ma, tutto sommato, in buone condizioni. Questo diario è nato lungo la strada. Avevo un blocnotes blu, piccolo e maneggevole. Scrivevo ad ogni sosta, in ogni occasione, a volte, se la strada era piana e priva di ostacoli, anche mentre camminavo, nella convinzione che scrivere mi consentisse di cogliere più intensamente ciò che avevo attorno. Ritornata a Milano, ho inserito tutto in computer e, man mano, ampliavo le descrizioni, cercando di fermare i ricordi quando avevano ancora una vita propria, per quanto sempre più flebile. Così facendo, la mole di quello che ho scritto è quasi raddoppiata rispetto alla versione iniziale. Ma se le descrizioni sono più accurate, o se ho aggiunto particolari che - pur ben chiari alla memoria - non avevano formato oggetto di immediata trascrizione, non ho modificato le riflessioni originali. La ripartizione in paragrafi segue le fratture fra una sosta e l'altra, anche se a volte ho accorpato brani consecutivi, ma redatti in due luoghi differenti, per evitare il tedio di una continua puntualizzazione. Ho cercato di riportare così com’erano stati, i pensieri, le impressioni e le sensazioni. Mi sono sforzata di descrivere cosa significa camminare per ore, cosa frulla in testa, cosa si prova, la frustrazione, la noia di certi momenti. Volevo che quanto più potevo di quei giorni si mantenesse inalterato, volevo soprattutto evitare che i giorni sul Cammino si riducessero ad una manciata di aneddoti, più o meno "emblematici" o "caratteristici". Solo una cosa non sono riuscita a raccontare, anche se ha attraversato in filigrana ogni passo che ho compiuto: Il rimpianto costante e doloroso di non poter condividere ciò che vedevo con mia madre, una persona meravigliosa e la mia più grande amica, che è mancata tre anni e mezzo fa dopo una malattia terribile. Ma tante persone mi hanno soccorso e consolato ed anche questo è un dono del Cammino. E lei ne sarebbe stata felice. Donatella [email protected] 28 giugno 2003 Milano/Pamplona/Burgos – Rabè de la Calzada (12 km) Linate. La frescura e la luce opaca del salone suggeriscono un autunno artificioso che mi riporta all’Irlanda. Provo un improvviso desiderio di quei luoghi, il cielo costantemente rannuvolato, l’aria densa di sospensioni acquee; ma alla pioggia, per quest’anno, ho preferito il sole ed ora mi aspettano le pianure aride, il deserto della meseta. Mi ha accompagnato mio fratello e questo, oltre ad essere grande segno, mi ha consentito di superare indenne la prima prova, quella dell’arrivo in aeroporto. Sono anche riuscita a far accettare il mio zaino come bagaglio a mano: insomma, tutte le banali preoccupazioni preliminari sono state superate e non so che altro aspettarmi. In realtà ci sono ancora tante cose entro cui potrei perdermi prima di iniziare: la gamba mi duole, devo fare scalo a Barcellona, arrivare a Pamplona, raggiungere la stazione dei treni, arrivare a Burgos; e anche decidere se partire da Burgos, iniziando direttamente dal tratto più difficile. Ieri la cugina della Michela mi ha detto che la meseta sarà durissima. * Scrivo sull’aereo. Dormicchiavo quando è arrivata la colazione, molto old economy: brioche, panino al formaggio ed una raccapricciante frutta sciroppata, niente a che vedere con le colazioni postmoderne della KLM o dell’AerLingus. Ho mangiato la brioche, bevuto il caffè, imboscato la bustina di zucchero e lasciato tutto il resto,

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Ho percorso il Cammino l’estate scorsa, fra la fine di giugno e l’inizio di luglio 2003, vale a dire in quei pochi e felici giorni in cui l’estate più torrida del secolo ha concesso una tregua. Sono partita da Burgos con uno zaino di circa cinque chili e sono arrivata a Santiago con un ginocchio fuori uso ma, tutto sommato, in buone condizioni. Questo diario è nato lungo la strada. Avevo un blocnotes blu, piccolo e maneggevole. Scrivevo ad ogni sosta, in ogni occasione, a volte, se la strada era piana e priva di ostacoli, anche mentre camminavo, nella convinzione che scrivere mi consentisse di cogliere più intensamente ciò che avevo attorno. Ritornata a Milano, ho inserito tutto in computer e, man mano, ampliavo le descrizioni, cercando di fermare i ricordi quando avevano ancora una vita propria, per quanto sempre più flebile. Così facendo, la mole di quello che ho scritto è quasi raddoppiata rispetto alla versione iniziale. Ma se le descrizioni sono più accurate, o se ho aggiunto particolari che - pur ben chiari alla memoria - non avevano formato oggetto di immediata trascrizione, non ho modificato le riflessioni originali. La ripartizione in paragrafi segue le fratture fra una sosta e l'altra, anche se a volte ho accorpato brani consecutivi, ma redatti in due luoghi differenti, per evitare il tedio di una continua puntualizzazione. Ho cercato di riportare così com’erano stati, i pensieri, le impressioni e le sensazioni. Mi sono sforzata di descrivere cosa significa camminare per ore, cosa frulla in testa, cosa si prova, la frustrazione, la noia di certi momenti. Volevo che quanto più potevo di quei giorni si mantenesse inalterato, volevo soprattutto evitare che i giorni sul Cammino si riducessero ad una manciata di aneddoti, più o meno "emblematici" o "caratteristici". Solo una cosa non sono riuscita a raccontare, anche se ha attraversato in filigrana ogni passo che ho compiuto: Il rimpianto costante e doloroso di non poter condividere ciò che vedevo con mia madre, una persona meravigliosa e la mia più grande amica, che è mancata tre anni e mezzo fa dopo una malattia terribile. Ma tante persone mi hanno soccorso e consolato ed anche questo è un dono del Cammino. E lei ne sarebbe stata felice.

Donatella [email protected]

28 giugno 2003 Milano/Pamplona/Burgos – Rabè de la Calzada (12 km) Linate. La frescura e la luce opaca del salone suggeriscono un autunno artificioso che mi riporta all’Irlanda. Provo un improvviso desiderio di quei luoghi, il cielo costantemente rannuvolato, l’aria densa di sospensioni acquee; ma alla pioggia, per quest’anno, ho preferito il sole ed ora mi aspettano le pianure aride, il deserto della meseta. Mi ha accompagnato mio fratello e questo, oltre ad essere grande segno, mi ha consentito di superare indenne la prima prova, quella dell’arrivo in aeroporto. Sono anche riuscita a far accettare il mio zaino come bagaglio a mano: insomma, tutte le banali preoccupazioni preliminari sono state superate e non so che altro aspettarmi. In realtà ci sono ancora tante cose entro cui potrei perdermi prima di iniziare: la gamba mi duole, devo fare scalo a Barcellona, arrivare a Pamplona, raggiungere la stazione dei treni, arrivare a Burgos; e anche decidere se partire da Burgos, iniziando direttamente dal tratto più difficile. Ieri la cugina della Michela mi ha detto che la meseta sarà durissima.

* Scrivo sull’aereo. Dormicchiavo quando è arrivata la colazione, molto old economy: brioche, panino al formaggio ed una raccapricciante frutta sciroppata, niente a che vedere con le colazioni postmoderne della KLM o dell’AerLingus. Ho mangiato la brioche, bevuto il caffè, imboscato la bustina di zucchero e lasciato tutto il resto,

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poi, mezzo addormentata, ho inseguito oziosamente un pensiero dietro l’altro, ma è inutile cercare, le motivazioni affioreranno più avanti. Ho voluto fortemente questo viaggio, sin da quando ero piccola la strada ha popolato le mie fantasticherie. Gli oziosi allenamenti cui mi sono dedicata in questi ultimi due mesi hanno però dimostrato che il camminare è cosa diversa dall’immagine costruita fra libri e cartine; prima che nella fatica, l’avventura si sbriciola nella continua tempesta di stati d’animo, nella noia, nel contrasto fra i balzi della mente e la materiale lentezza dello spostamento. Di Barcellona ho scorto soltanto la sala degli imbarchi, luminosa e rassicurante. Mi piaceva stare in quello spazio rettangolare, aperto sui quattro angoli del mondo, c’era poca gente e la calma contrastava piacevolmente con la frenesia che avevo appena lasciato. In attesa del volo per Pamplona ho potuto godere delle ultime certezze mentre assaporavo la falsa tranquillità del non luogo, il pagamento anticipato, il documento di legittimazione. Non ho paura, solo un’incuriosita perplessità, o no, forse un po’ mi inquieta il pensiero di entrare nei meccanismi di questa cosa che ancora non conosco, la prospettiva di dover chiedere, di organizzarmi per dormire. Nel dirigermi verso il cancello ho dato una ginocchiata contro un porta-valige, devo aver sbriciolato il menisco della gamba sinistra. In generale, comunque, non mi sento affatto in forma.

* Sono in un parco fresco e silenzioso accanto alla stazione di Pamplona, festeggio il mio arrivo in Navarra assaporando un jamon serrano spesso, dolce e roseo, accompagnato da pane appena sfornato, croccante e morbido. Il parco si affaccia su un fiume a ridosso delle mura della città vecchia e prosegue in una passeggiata di cui non scorgo la fine, disseminata di panchine all’ombra di alberi alti e frondosi. La stazione si trova in una zona periferica, il quartiere è popolare e moderno, blocchi di casermoni rossicci che non hanno nulla di pittoresco, però la gente che cammina per strada o che entra ed esce dai negozi ha un’aria serena, tranquilla. La panetteria era dentro un supermercato e la salumeria, all’interno di una sorta di spaccio molto alla buona, ma il prosciutto è ottimo e sul bancone facevano bella mostra una profusione multicolore di salsicce e sanguinacci e bei pezzi di carne rossa. Ora mi avvio alla ricerca di un bar, manca mezz’ora alla partenza del treno per Burgos, forse dovrei bere qualcosa e senz’altro devo pulire una scarpa. Non sono ancora in cammino, mi sento in una sospesa beatitudine, libera persino dalla mia stessa avventura e, in ogni caso, l’aria fresca mi fa rinascere. Ho bevuto un caffè al pulitissimo bar della stazione, dove mi ha servito una signora sorridente. Questi navarri, che dai racconti di Callisto mi figuravo cupi e sanguinari, si rivelano invece amabili e gentili. Fra un po’ arriva il treno, la banchina è già affollata, un gruppo di pellegrini ostenta pacchiane conchiglie sugli zaini. Se cerco di ricapitolare l’impressione che ho tratto da quel poco che ho visto di Pamplona, posso ricordare le case, alte come in Italia, ma con maggiori severità, ordine e pulizia, la tonalità più grigia dei muri, lo straniamento dato dalle scritte in basco, per le vie e sui manifesti, ma anche dalle

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insegne in stile anni settanta inserite in una struttura urbana periferica anni novanta. In un certo modo mi ricorda l’Italia della mia infanzia. E quelle montagne verdi e aspre appena a ridosso, a suggerire, come in un affresco medievale, la chiave di lettura delle persone e dei luoghi. Fino qui tutto bene, come diceva quello che cadeva dal grattacielo. Salvo la scarpa, che ho provveduto a pulire con un chiodo trovato per terra: per dirla con la Michela, sono troppo randagia…

* Gli oblò e la sede profondamente incassata del binario fanno sembrare il treno un sottomarino, dal finestrino scorrono basse colline a pan di zucchero, campi di grano e boschi. Ho letto per un po’ il giallo che mi sono concessa come via di fuga, poi inizierò a studiare il cammino (con due emme). La letteratura tecnica è costituita dalla guida di Terre di Mezzo, le pagine di Luciano, il tipo del sito, con un breve resoconto di ogni tappa e gli schemi coi chilometri fra ciascuna località e le ore di percorrenza; poi le pagine in inglese di Mundicamino, che recano una descrizione più dettagliata dei percorsi, le altimetrie e le distanze per ogni singola tappa; nonché infine, l’elenco degli albergue, stampato da Jacobeo.net, preziosissimo perché riporta la distanza da Santiago per ciascuna località. La carta mi pesa un po’, ma ogni giorno getterò via la pagina relativa al percorso già compiuto, metaforico alleggerimento dal vago sapore dantesco. Sto attraversando una bella natura, osservo i cespugli dorati che costeggiano la ferrovia e, appena più in là, le colline coperte di boschi, eppure sento ancora l’elastico trascinarmi verso l’angoscia.

* Nel momento stesso in cui scendevo dal treno ho realizzato che non avrei più messo piede su di un mezzo di trasporto per 475 chilometri. Mi sono affacciata sul viale alberato che dalla stazione di Burgos portava verso il centro e mi sono diretta verso la Cattedrale, lasciandomi alle spalle la ferrovia e la mia vita precedente. Ero in cammino. E’ sera. Dopo quasi tre ore ho raggiunto Rabè de la Calzada, un villaggio a dodici chilometri da Burgos. Non c’è nulla, salvo una bella chiesa romanica, il rifugio ed il bar dove mi trovo ora, una sorta di dopolavoro parrocchiale, uomini giocano a domino facendo crepitare le tessere sul tavolo di formica. Il mio primo giorno di Cammino si conclude come tutti i miei viaggi profani, in un bar. Fuori, il sole del crepuscolo bagna di sbieco i campi di grano, l’aria è fresca, alla tele diffondono Recreativo-Mallorca, la ragazza al bancone non ha capito la mia richiesta di una cerveza e mi ha indicato la toilette. Un signore bizzarro mi ha offerto un sorso di vino dalla borraccia ed un assaggio di prosciutto, brandelli grassi e scuri in un cartoccio di alluminio, jamon de pata negra, salato, unto, molto buono. Nell’uscire da Burgos avevo attraversato il bel parco che ospitava il rifugio cittadino. Ero affascinata dai pellegrini che oziavano sotto gli alberi, ma la tentazione è durata poco, non potevo fermarmi ancor prima di iniziare. Da lì ho scorto le prime frecce gialle e le ho seguite; dalla strada principale si addentravano per viette polverose lungo il limitare della periferia, mentre la città si sfilacciava sempre più nella campagna. Poco dopo ho costeggiato un sobborgo dove camion parcheggiati

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vendevano cose improbabili, come porte, finestre, paperotti. Man mano che mi allontanavo le frecce mi costringevano a oscure gimcane fra i campi. Iniziavo a trovare il tutto piuttosto inquietante fino a che, a Villabilla, la vista di una cicogna e quella della ferrovia mi hanno rinfrancato. Quando sono giunta a Tardajos, mia meta originaria, ho deciso di proseguire ancora per qualche km fino a Rabè de la Calzada, così da iniziare direttamente domani con la meseta. Il rifugio Virgen de la Guia è un’accogliente via di mezzo fra un’abitazione ed un ostello. Gli ospiti sono pochi, cinque austriaci impolverati, arrivati con me – ma la loro credencial è già stracolma di timbri - ed un ragazzo messicano con cui ho cenato. Gli ho insegnato ad arrotolare gli spaghetti e lui mi ha raccontato le ragioni del suo viaggio, con gli stessi accenti vagamente misticheggianti della Claudia, la cugina della Michela. Ed io? Mah. Cibo, strade, poesia dei luoghi e che altro? Non sento le generazioni prima di me, non mi sento parte di una tradizione vivente, non percepisco il carisma del Cammino. Quando oggi nella cattedrale di Burgos il sacrestano mi ha messo il timbro, anzi il sello, il primo, augurandomi “buen camino!”, mi sono sentita stringere il cuore, ma era solo l’emozione per il mio inizio. Sul sagrato brillavano coriandoli rosa a mucchi, mescolati a paillettes luccicanti. Il ragazzo messicano mi ha spiegato che ieri notte c’è stata una grande festa, ma in quel momento nei mucchi di petali scintillanti ho letto il mio benvenuto sul Camino.

* Nel bar si stava troppo bene – 65 centesimi una birra! - ma ho dovuto andare, per rispettare il coprifuoco delle dieci imposto dall’albergue. Al rientro ho incontrato l’hospitalero – un bel ragazzo moro molto compreso del suo ruolo – che attendeva sulla strada i pellegrini ritardatari e che mi ha chiesto del vecchietto austriaco. Non gli ho detto che poco prima avevo illuminato di immenso il malcapitato rivelandogli l’esistenza del bar, ma la mia impacciata omertà ha in qualche modo confermato il suo sospetto e lui si è scaraventato come una furia a recuperare il reprobo. Ora sono nel sacco a pelo, in questa splendida stanza vuota. Ho preso un aulin perché la caviglia mi da fastidio e non vorrei trovarmi con un’infiammazione ancora prima di iniziare. Ho vagato nei pressi del paese per osservare la meseta, dentro cui mi tufferò domani. Rabè è un porto sulla riva di un ondulato mare di grano. Nell’aria fresca della sera, nulla lascia presagire l’inferno di sete e calura che mi attende. Stasera ho mangiato un’insalata, pane, formaggio e yogurt nella cucina del rifugio. A Burgos, da ogni ristorante uscivano profumi favolosi, ma qui, ai bordi della meseta, non c’è nulla e mi sono dovuta adattare all’offerta del rifugio; poi ho lavato i piatti mentre chiacchieravo col ragazzo messicano. I piedi stanno quasi bene, il sacco a pelo è morbido, setoso e caldo, fra un po’ dormo, domani inizierò sul serio e sarà dura. 29 giugno 2003 Rabè de la Calzada – Castrojeriz (28 km) Sono le 6.35, devo partire. Ho dormito benissimo, gli uccellini cantano; anche se il sole non è ancora sorto, ci si vede come in pieno giorno. Ieri l’hospitalero ha detto che la colazione sarebbe stata alle sette, ma non posso attendere oltre, gli ho

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lasciato un messaggio di scuse e ho imboccato l’uscita. Spero che la caviglia, finito l’aulin, non si svegli. Attorno a me il paese dorme nella luce pallida del primo mattino e anche il grano sembra ancora assopito.

* Sono a San Bol, un’oasi fra le spighe: alti alberi fruscianti racchiudono una fonte e una cappella, affrescata con strani disegni templar-surrealisti. Mi fermo un istante, levo scarpe e calze, calpesto a piedi nudi l’erba fresca, mi affaccio sul ciglio della vasca gelata, vergo queste poche righe ma subito riprendo la via; sono le 9.15, ho ancora tanta strada e devo approfittarne finchè non fa caldo. In ogni caso, come direbbe Christy, di un caffè nemmeno a parlarne.

* Ho attraversato il primo altopiano mentre era ancora immerso nell’ombra, il sole nascosto sotto i fianchi delle colline. Ignoravo che la meseta fosse un susseguirsi di altopiani collinosi coltivati a grano e la immaginavo confusamente come una sterminata pianura arida, una specie di spagnolo deserto dell’Arizona. All’improvviso la pianura mi si è spalancata davanti ed il sentiero è precipitato per la discesa che conduceva a Hornillos del Camino: appena un gruppo di case raccolte ai lati della strada. Era troppo presto perché i bar fossero aperti così, dopo un sorso d’acqua alla fonte accanto al rifugio (dove ho potuto usare il bagno, suscitando le ire della signora che stava già chiudendo), ho ripreso la strada sulla scia dei vecchietti austriaci che stanotte hanno dormito con me alla Virgen de la Guia. Li ho incontrati mentre ripartivano, nel salutarmi mi hanno indicato con lunghi discorsi la statua di bronzo che raffigurava un gallo. Ho faticato a risalire la seconda meseta ma sono stata ripagata dalla visione ondeggiante del grano mescolato al rosso dei papaveri ed al blu dei fiordalisi. Al termine di ogni salita l’ingresso all’altipiano è segnato da alte pile di sassi, complesse sculture di roccia invase dai fiori, sono le pietre deposte nei secoli dai pellegrini in segno del loro passaggio. Ho letto che in Tibet i pellegrini allo stesso modo costruiscono muri di pietra, mani, così che ogni pietra continui nei secoli le preghiere di chi l’ha deposta. Ad un certo punto mi sono trovata davanti una distesa di terra rossa non coltivata, soltanto papaveri e camomilla a perdita d’occhio, il profumo che si levava dal suolo come una nebbia. Qualche ora di cammino dopo Hornillos dal grano è affiorata Hontanas, rannicchiata in una piega della meseta. Nel rifugio c’era solo una macchinetta del caffè, attorniata da pellegrini che si rifocillavano, i miei austriaci, un gruppo di francesi, alcuni americani, una ragazza spagnola già incontrata e superata due volte lungo la strada, che mi ha regalato 10 centesimi per la macchinetta. In quel momento l’angolo della macchinetta mi è sembrato un luogo paradisiaco. Ho preso un caffè descorchado, credendo fosse un caffè ristretto ed ho scoperto invece una mistura deliziosa a base di caffè e cioccolato che mi ha prodigiosamente rinvigorito. Dall’altro lato della strada sorgeva una chiesa singolare, una facciata romanica ma innalzata ad un’altezza quasi gotica, peccato che l’interno fosse sciatto, malamente intonacato in bianco. Nel frattempo è uscito il prete e si è messo a spazzare il sagrato, mugugnando. Il pesante mazzo di chiavi e la tonaca nera impolverata ne facevano un’immagine da

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archivio fotografico. Ho bevuto alla fonte dietro la chiesa: quante fonti e quanti fossi e canali in questa meseta, altro che deserto. Dopo Hontanas fino a San Anton la strada ed il paesaggio sono stati piacevolissimi, una valle alberata e quella vegetazione gioiosa che denota ricchezza di acque, circondata da colline coperte di grano. Il grano cantava al soffio del vento e il fruscio mi accompagnava, sommesso e costante. Ne avevo bisogno, iniziavo a patire il lungo passo tenuto per distanziarmi dagli altri. Ognuno si crea i propri fantasmi: io desidero sempre sfuggire chi ho dietro e superare chi ho davanti, e su questo stupido postulato imposto la mia marcia. Una volta raggiunte le rovine del convento di San Anton, ho cercato una radura dove riposarmi. Alla fine mi sono accoccolata fra l’erba, sul ciglio di un sentiero alle spalle delle rovine, e mi sono tolta calze, scarpe e le magliette fradice. Il fruscio del vento era divenuto un fischio che sovrastava il cinguettio degli uccelli e accarezzava i miei poveri piedi. Purtroppo era troppo freddo per restare a lungo, così sono ripartita ed ho percorso coi sandali i 3 km fino a Castrojeriz. Il paese mi è quasi subito apparso di lontano, sovrastato dal castello che gli da il nome. Sul limitare dell’abitato sorge la collegiata, una chiesa maestosa con la facciata in pietra gialla, adibita a museo di immagini della Madonna, soprattutto statue lignee, alcune molto belle ed espressive. L’ho visitata rapidamente, lasciando lo zaino all’ingresso, poi senz’altro indugio mi sono diretta in paese e mi sono fermata in un ristorante lungo la strada principale. Ho mangiato una pasta e fagioli con vongole e peperoni (“alubia blanca con almeijos”) che meriterebbe di essere ricordata in un libro. La sala, restaurata di recente, aveva un bel soffitto di travi, i muri in pietra e si affacciava su di un giardinetto. Le pareti erano gialle, intonacate a strati pesanti ed in un angolo un faretto illuminava un tavolo coperto di oggetti a formare una specie di leziosa natura morta, mentre di fronte a me un bel mobile in noce ospitava bottiglie e bicchieri. Il ragazzo, gentilissimo, mi ha portato una seconda porzione di quella meravigliosa zuppa poi un merluzzo con piselli e asparagi davvero buono. Ho trovato singolare il contrasto fra l’ambiente curato e la cucina casalinga. Il flan è arrivato circondato da ciuffi di panna montata spolverati di cannella e immerso in un lago di caramello, una poesia. E in tutto, mi ha detto il ragazzo, sono nove euro: non ci potevo credere. Alla fine ho ceduto alla tentazione: la prospettiva di sistemarmi in un rifugio stracolmo di gente si è fatta ancora più sgradita quando ho visto che in questo albergo bellissimo, pieno di tappeti, per i pellegrini una singola costa solo € 22. La stanza è azzurra e bianca, il bagno è pulito e tutto è accogliente e lindo, con un tocco di eleganza. Non me la sentivo neppure di oltrepassare Castrojeriz, varcare l’aspra collina prospiciente e affrontare altri 10km fino al rifugio della confraternita di Perugia, per quanto la prospettiva mi attirasse. Comunque non posso lamentarmi, oggi ho percorso senza problemi 28km. Camminare è un’attività cui sono abituata, forse per questo non provo nessuna emozione particolare. Oltretutto è difficile perdersi nella contemplazione dell’immensità del cielo e del fruscio incessante del grano quando devo tenere

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d’occhio miei piedi, e la strada con essi, e quando ogni istante di abbandono apre la via a pensieri angoscianti. Ora, mentre mi crogiolo, piacevolmente insonnolita, fra le lenzuola fresche e la penombra, i pensieri che ho rincorso durante il cammino appaiono un magma malevolo, vago ed inconsistente, scorie che devono essere schiumate, come il grasso che affiora quando si chiarifica il burro.

* Dopo il sonnellino, ho girato e rigirato per Castrojeriz, poi sono salita fino al castello per una strada costeggiata da folti arbusti di cardo in fiore, alcuni alti e vigorosi come giovani alberi. Il castello è una brutta rovina, precariamente appollaiata su di uno sperone roccioso. Tirava un vento troppo forte perché mi avvicinassi alle mura, così mi sono limitata ad osservare dall’alto la pianura che si stendeva deserta da ogni lato. Mi sono chiesta a chi appartenessero queste distese di campi, sconfinate, senza un casolare, una cascina, una fattoria, un trattore. Chi mai lavorasse questo grano che sembra crescere da solo e mietersi in una notte. Sono ridiscesa ed ho ripreso a vagare per il paese silenzioso, esplorandone le misteriose chiese di pietra gialla e cercando un luogo dove procurarmi un po’ di derrate. Purtroppo è domenica, quindi niente panetteria né prosciutto, ho comprato solo una bottiglietta d’acqua in una drogheria buia e poco accogliente. Ho tentato di pagare l’albergo ma mi hanno chiesto di tornare dopo, identico esito ha avuto il mio tentativo di farmi mettere il sello in uno dei due albergue. I campi sono ancora pieni di fiori. Papaveri, narcisi, camomilla, fiori gialli, bianchi, cardi. I papaveri sono piccoli, raggrinziti ma numerosi e forti, la camomilla è folta, profumata e tenace. Oggi, quando sono arrivata nell’albergo, la ragazza ha spiegato alla collega che una peregrina cercava una stanza per la notte. Sentirmi definire così mi è sembrato conferisse una prematura patina di solennità alla mia maldestra avventura. L’albergue comunale era il salone di una palestra, con materassi stesi per terra, quello privato era in una casa antica nel centro del paese. Un po’ rimpiango la mia scelta, ma l’essermi svegliata alle sei del pomeriggio in quella camera meravigliosa è stato un balsamo per il mio fisico, già provato dopo così pochi giorni. Oggi il tempo è stato clemente, non ho mai patito il morso del pieno sole. All’alba avevo visto avanzare la linea viola della coltre di nubi che presto ha serrato l’orizzonte da ogni lato e mi ha permesso di camminare veloce e col cuore leggero. Terminate le perlustrazioni mi sono concessa una birra in questo locale proprio a ridosso dell’albergue privato. Il posto, bello e particolare, occupa l’estremità di un fabbricato in angolo fra due vie. L’ambiente ha un’unica finestra sul lato più stretto, che fa anche da ingresso e le pareti sono di pietra ricoperta con lo stesso intonaco spesso e giallo del ristorante di oggi. Lo spazio è attraversato per tutta la sua lunghezza da un enorme trave, montato su di una struttura in legno e che termina con una sorte di vite di legno poggiata su di una macina. Non so a cosa serva o sia servito, ma la grande suggestione dell’insieme non è guastata neppure dagli orrendi quadri che affollano le pareti. Io mi trovo in una nicchia centrale, incassata nel terreno sotto il trave, mentre il bancone rimane da un lato. Vorrei riuscire a fotografarlo. Ora andrò, devo pagare l’albergo e trovare qualcuno che mi metta il sello.

*

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Mi sono seduta fuori della casa di riposo Gutierrez Barona, un palazzo quadrato di questa pietra gialla porosa con cui sono costruite le chiese e le case più importanti. Osservavo la gente chiacchierare e bere fuori dei bar. Il vento era fresco e insistente, il cielo immenso era solcato da nubi grigie e compatte, le rondini volavano basse. Qui a Castrojeriz l’aria ha un odore particolare, che non so definire, un lievissimo sentore come di fermentazione, prodotto forse dal grano, forse dallo sgretolarsi delle pietre. Le nuvole correvano, come un cupo esercito verso la battaglia. Erano quasi le dieci, la luce era bianca ma l’aria si raffreddava e il vento chiamava la notte, attorno a me la gente continuava a chiacchierare e ridere. Sono tornata in albergo, ho preparato tutto e puntato la sveglia sulle cinque. Chissà se riuscirà ad alzarmi ed uscire, chissà soprattutto se riuscirò ad arrivare, domani. Ora leggo un po’ e poi provo a dormire. 30 giugno 2003 Castrojeriz – Villalcazar de Sirga (38,5 km) Sono sulla sommità del colle che sovrasta Castrojeriz. Mi sono avviata alle cinque e mezza, mentre il buio era ancora fitto. Ho percorso lentamente la prima parte della strada: uscita dal paese non distinguevo le frecce gialle e mi sono lasciata guidare, come Pollicino, dallo scintillio delle pietre bianche incastonate nello sterrato. Percorrevo una spianata deserta, immersa nell’oscurità, dal cielo nero erano tramontate anche le stelle e mi sentivo l’unico essere umano sulla terra. Poi un’ombra è affiorata dal buio, era forse un contadino che andava o tornava dai campi, mi ha salutato ed è scomparso alle mie spalle. Quando sono arrivata ai piedi del colle di Mostelares albeggiava e si distinguevano già il sentiero e le frecce. Ho dovuto chiamare a raccolta tutto il mio quarto di sangue bergamasco per superare la salita, breve ma aspra, ed in poco tempo sono arrivata in cima. Dall’alto, quello che credevo un colle si è rivelato un piccolo altopiano in cui i sentieri si confondono fra le stoppie sino quasi a perdersi. Arrivo al ciglio e sotto di me, appena oltre l’ennesimo mucchio di pietre, segno amichevole di chi mi ha preceduto, intravedo una sconfinata pianura a losanghe irregolari, in tutte le sfumature fra il giallo e il bruno, è la Tierra de Campos . Alle sei e mezza, nel nulla assoluto il solo segno di vita è il canto degli uccelli. Le nuvole corrono ancora e finalmente il chiarore si trasforma in luce. Ora scendo, verso – credo – Puente Fitero.

* La discesa è stata aspra e frustata dal vento. Ai piedi della collina il sentiero proseguiva, netto come un taglio, e si srotolava sottile lungo le onde dell’altipiano. Attorno a me niente altro, né strade, né case né tracce di vita, a perdita d’occhio soltanto questo deserto di grano. Ho bevuto un sorso alla sorgente Piojo, che si scorge da lontano, remota sentinella dell’accesso alla nuova meseta, che ho raggiunto al termine di una breve salita; ora percorro una strada asfaltata, finalmente. Il grano qui è stato mietuto oppure è già chino a terra; il cielo è enorme, barocco, sereno a sprazzi, altrove cupo, poi rosa, viola, le nubi si attorcigliano in volute una diversa dall’altra. Uno stormo di uccelli nereggia sopra un campo di grano, per poi planare e sprofondare fra le spighe, e riemergere. Non so spiegare questo luogo, è di una bellezza assoluta, non descrivibile né

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fotografabile. Penso alla gioia di Mosè nello scorgere Canaan, la terra dell’olio e del grano. Qui. Ho attraversato Itero della Vega e mi sono diretta verso San Nicolas, il rifugio gestito dal Centro di Perugia, un’ermita medievale ristrutturata che spicca solitaria nella pianura presso il fiume. La cosa più bella della mia fugace sosta a San Nicolas è stata l’addio che mi ha rivolto la signora “salutaci l’Apostolo!”. Non mi ero raffigurata il cammino in questi termini ma da allora mi interrogo oscuramente sul senso di questo mio andare verso l’Apostolo. Nel lasciarmi alle spalle San Nicolas ho oltrepassato il bel ponte sul Rio Pisuerga, entrando così nella provincia di Palencia e lasciandomi alle spalle quella di Burgos, segno che – per quanto impercettibilmente - sto avanzando. Sono arrivata con fatica a Boadilla del Camino verso le dieci. Non c’erano bar aperti ma un passante mi ha indicato un albergue privato dove avrei potuto far colazione. Il posto aveva un grande giardino ben curato ma l’aspetto da agriturismo era smentito appena varcato l’interno, che mi è sembrato molto alla buona e mal tenuto. O forse era solo l’impressione suggerita dalla smobilitazione mattutina. Come ieri a Hontanas, a quell’ora il posto diveniva il casuale punto di incontro di tutti i pellegrini di passaggio. Entrando, ho incontrato un gruppetto di persone in partenza, fra i quali un signore ciccione di Verbania e la ragazza spagnola di Hontanas. Mentre attendevo di strappare un cafè con leche ai due hospitaleri bellocci e arroganti, è arrivato un ragazzo spagnolo che teneva avvolto nella propria felpa un piccolo rapace ferito trovato sul Camino. Stavo finalmente assaporando il cafè con leche quando mi sono stati presentati due ragazzi di Milano, i cui abiti eleganti e l’aspetto curato erano del tutto incongrui con l’ambiente; mi sono stupita per le dimensioni spropositate dei loro zaini e loro mi hanno raccontato di non essere pellegrini, bensì attori impegnati nelle riprese di un film sul Camino di Santiago. Si sono divorati un pacco di Prince sotto i miei occhi famelici, senza che riuscissi a trovare il coraggio di scroccarne neanche uno. Dopo Boadilla e fino a Fromista la strada corre piana e gradevole lungo il Canal de Castilla, un bel canale dalle acque verde scuro e le rive coperte di canne. La campagna è tutta un alternarsi di campi di grano, riquadri di terra appena arata e campi verdi, bordeggiati da cardi, fiordalisi, cespi di camomilla. Ad un certo punto mi sono imbattuta in un’edicola di pietra, diroccata, col pavimento coperto di paglia pulita. Non ho avuto esitazioni, sono entrata e mi sono sdraiata scalza una decina di minuti, guardando le nuvole inseguirsi e leggendo le scritte lasciate dai pellegrini. Com’era intenso lì il profumo dell’erba, così diverso dal particolare profumo dei campi di grano maturo. Ma poi le nubi che tanto mi hanno afflitto questa mattina hanno ceduto il passo ad un sole cocente. Era ora di andare, ho rimesso scarpe e calze e sono ripartita. Sono arrivata facilmente a Fromista, dove ho visitato due chiese straordinarie, San Martin e San Telmo. La prima è una chiesa romanica, famosa e perfetta per forme e proporzioni, abbellita da un riccioluto nastro di pietra a scacchiera che corre dentro e fuori. Sulle arcate all’ingresso stanno in agguato strane bestie canine, alcune con

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la lingua fuori e le fauci spalancate, altre coi denti serrati e lo sguardo furbo. Dentro, i capitelli sono una summa di fantasia romanica. San Telmo è più spettinata, più tardo medievale, forse più romantica, un ingresso ampio, proporzioni più allargate, costoloni nervosi a segnare le larghissime arcate della navata, che le attribuivano una curiosa somiglianza con l’Opera di Sydney. Non so ancora dove riuscirò ad arrivare. Ho chiacchierato fuori di San Martin con la ragazza spagnola di ieri, che ho poi incontrato a Castrojeriz, incrociato a Boadilla e ritrovato qui a Fromista. Lei è una forza della natura, vuole raggiungere Carrion de los Condes, percorrendo oltre 40 km in un giorno, e giustamente sostiene che bisogna approfittare del clima favorevole, perché fra un po’ iniziano le salite, mentre il tratto da Fromista a Carrion de los Condes è un unico rettilineo che costeggia comodamente la nazionale per 18 km. In ogni caso, ci siamo date appuntamento al rifugio di Carrion. Quando cammino gli stati d’animo variano, a volte sono arrabbiata, a volte solo esasperata. Ciò che conta è tenere lo sguardo fisso a terra e non pensare, in questo modo i pensieri cadono come foglie lungo la via. Sebbene abbia cercato a lungo, ancora non ho capito le ragioni ultime o le spinte mi hanno condotto qui. Ormai sono convinta di essermici trovata, forse sono stata portata, forse in seguito comprenderò il motivo, o forse no. Mi sono rifugiata in una pasticceria, davanti ad un cafè con leche ed una specie di brioche all’anice. Il vento non sa cosa fare, un ragazzo tedesco, che oggi ho incrociato già altre volte, si è seduto al mio tavolo per una chiacchierata, defraudandomi del tempo che avrei dedicato alla scrittura. Il bagno del locale era una reggia, e per tutto, caffèlatte, dolcino, una brioche e una pagnotta rotonda, ho speso solo 2 euri.

* Tre chilometri dopo Fromista sono arrivata in un posto chiamato Ermita di San Miguel, una chiesina romanica poggiata su una collinetta erbosa, a pochi metri da un boschetto e una fonte; mi sono seduta su una panca fra gli alberi. Il vento ulula sempre più impetuoso, ho dovuto prendere il pile dallo zaino, altrimenti non avrei potuto proseguire. E’ stano pensare che, freddolosa come sono, stamattina ho sopportato in maglietta quattro ore di vento gelido senza contrarre neppure un accenno di polmonite. Ho tolto le calze e mi sono goduta la bellezza di quel luogo, la facciata commovente sovrastata dal minuscolo campanile, il grande arco acuto che racchiude una piccola bifora. Pietra gialla butterata e scurita dal tempo. Perfetta. Sono ripartita, convinta che, per quanto arrivare a Carrion de los Condes fosse fuori discussione, avrei dovuto proseguire, finchè potevo e tempesta permettendo. La strada infatti si manteneva piacevole ma facevo ormai molta fatica, più per la testa che per i piedi. Uscita da Poblacion de Campos - il rifugio era chiuso, quindi niente sello e soprattutto niente toilette - sono giunta ad un ponte dove due frecce gialle indicavano direzioni opposte, una costeggiava la nazionale, l’altra si addentrava a destra attraverso i campi. Una scritta in francese in calce alle frecce gemelle esprimeva la mia stessa mia perplessità. Mentre indugiavo, un signore in macchina

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ha frenato di colpo e mi si è accostato, con grande stridore di gomme. Mi sono spaventata, ma lui intendeva solo esortarmi a prendere la via interna. Qui ognuno si sente responsabile del Camino. Così ho preso per i campi, ritrovandomi a percorrere un ambiente ben più segnato dalla presenza dell’uomo rispetto a quello di stamattina, fra tralicci e strane condotte in pietra per l’acqua, lunghe chilometri. Il paesaggio si è fatto via via meno bello, più banale, alberi senza personalità, cespugli, canne e sterpaglia, tutto spezzava l’infinito titanico della pianura, aggiungendole un non so che di padano. Le gambe mi rispondevano ma non sapevo per quanto avrebbero tenuto. Dopo circa tre chilometri ho scorto la sagoma di un campanile. Ma qui l’occhio è il più ingannato dei sensi e il primo avvistamento non significa nulla, come avevo appreso stamattina, quando Boadilla non arrivava mai, e più camminavo, più il profilo del campanile sembrava allontanarsi. Alle tre meno un quarto ho finalmente raggiunto, arrancando, quel campanile; ero a Revenga de Campos. Mi sono fiondata in un giardinetto per levare di nuovo scarpe e calze. I piedi mi facevano molto male e da lì per altri sei chilometri non c’era nulla. Mentre mi riposavo, il cielo si era nuovamente rannuvolato. Il tempo mutevole, i grandi spazi, il vento così impetuoso, mi facevano venire in mente l’Irlanda, attendevo di percepire un sentore di torba. Dietro ad un albero due operai in tuta gialla dormivano distesi nell’erba, rannicchiati l’uno accanto all’altro per difendersi dal vento. Alle tre ho ripreso la strada lungo un sentiero nascosto fra le canne che costeggiava le sponde del Rio Ucieza. Il riparo fornito dalle canne mi ha altresì consentito di ovviare dignitosamente alla momentanea indisponibilità di un bagno. All’altezza di Villarmentero de Campos sono stata riportata sulla strada principale, che corre parallela alla nazionale e le cui pietre miliari mi davano costantemente la dolorosa misura di quanto interminabile sia un chilometro. Un paio d’ore dopo sono arrivata a Villalcazar de Sirga, dove mi trovo tuttora. All’ingresso del paese suscita impressione il maestoso portale della cattedrale gotica sovrastato dall’imponente arco, popolato da centinaia di figure a rilievo. Ma l’interno della chiesa, ora in restauro, ha un qualcosa di spettrale. Sono entrata di sfroso da una porticina posteriore e sono rimasta atterrita dalle profonde e spesse crepe che devastavano le volte e le pareti delle navate. Nella penombra, le alte arcate ed i pilastri rammentavano quelli del Duomo – appena più piccoli – e ciò rendeva quelle crepe ancora più sinistre. Sono fuggita. Il paese mi ha suggerito un’analoga impressione di lugubre abbandono. Forse perché è tutto chiuso mentre la piazza principale e le vie circostanti sono un cantiere a cielo aperto, disseminato di precarie reti d’acciaio sbattute dal vento o forse mi ha messo di malumore lo scarso impatto umano del barista, che mi ha servito di malavoglia. Comunque sia, il paese proprio non mi piace e, se mi passa il dolore ai piedi, voglio arrivare fino a Carrion. Domani sconterò questa follia ma il tempo nuvoloso di oggi è troppo propizio per non approfittare. Gli ultimi chilometri sono stati difficili, anche il trucco di guardare sempre il terreno ad un certo punto non soccorre più e le canzoni finiscono. Non so come farò ad affrontare i sei chilometri che mi separano da Carrion de los Condes, ma ora me ne andrò da questo bar deprimente.

*

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Non ce l’ho fatta, il ginocchio destro non mi sorregge più e per arrivare a Carrion de los Condes mi ci vorrebbe almeno un’altra ora se non di più. Così, uscita dal bar, ho ripiegato nel rifugio, vecchio, silenzioso e tetro come tutto in questo paese. Però posso sdraiarmi in un letto e nemmeno a castello, con una bella coperta calda, dopo tanto freddo e tanto vento. La strada percorsa oggi, a partire dall’ascesa notturna dopo Castrojeriz, si è già sbiadita, remota come in sogno, anche se le sensazioni provate nei vari mi appaiono ancora distinte e differenti come i paesaggi che ho attraversato. Mi spiace questa ingloriosa conclusione della giornata ma non potevo proseguire. Tento di consolarmi pensando che il tempo sta decisamente virando al brutto e che non so cosa avrei fatto se avessi dovuto trascinare la gamba sotto la pioggia per sei chilometri. Oramai riconosco la sinfonia dei dolori che si alternano nelle gambe e nei piedi, e questo al ginocchio non era come gli altri, invece di attenuarsi si accentuava. Il vento continua a fischiare e gli uccelli cantano: sono solo le cinque, dormirò un pochino.

* Rieccomi nel bar lugubre, non per affezione ma solo perché è il solo locale aperto. Ho vagato per il paese un po’ depressa, pensavo ai monumenti ed alla vita di Carrion de los Condes, alla possibilità di stare nel rifugio con la ragazza spagnola e gli altri suoi compagni di viaggio. Fa molto freddo, persino il pile non mi basta, e dire che ero partita pensando con timore alla gente morta di caldo sulla meseta… Ho però trovato una pasticceria che vende amaretti alle mandorle, cotti su di una sorta di cialda; l’inattesa scoperta mi ha riconciliato per quanto possibile con questo paese-cantiere popolato solo di spettri e stradini. Nel corso della mia esplorazione ho scoperto che un buon numero delle case più vecchie – antiche sarebbe una parola grossa… - è fatto di terra impastata con la paglia e qualche mattone, altre sono in parte di pietra e in parte di terra. Solo la chiesa e i palazzi importanti sono di pietra, mentre le case nuove invece – purtroppo - sono di mattoni traforati. Quasi tutte le vecchie case del centro sono diroccate o presentano profonde crepe pelose. Se invece di pavimentare il sagrato e le strade attorno con lastroni cimiteriali di marmo bianco, il Comune avesse deciso di ristrutturare le vecchie costruzioni utilizzando i materiali originali, l’atmosfera del paese sarebbe meno angosciante. Ci sono due ristoranti, che oggi naturalmente sono chiusi. Uno è ospitato in un antico rifugio costruito dai templari, Villalcazar era infatti un villaggio templare e ancora oggi alcune case diroccate sfoggiano orgogliosamente le croci del Tempio. Ho scattato qualche foto, ma temo che la luce livida le abbia rovinate. Il bar si è riempito di vecchi che bevono l’aperitivo e chiacchierano, ogni tanto entra un pellegrino, fra cui molte donne, generalmente tedesche o spagnole. Le spagnole più giovani, le tedesche di mezza età. Uno alla volta ecco arrivare nel bar tutti gli ospiti del rifugio. Ho fotografato una singolare costruzione rotonda di paglia e mattoni, inerpicandomi fra le siepi e rischiando ferite ai piedi o morsi di qualche mortifero animale nascosto fra la sterpaglia, forse il Ragno Velenoso di Villalcazar oppure il Serpente a Sonagli

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di Villalcazar, unica specie di serpente a sonagli esistente in Europa, che ha trovato degno ricetto in questo paese orrendo. Da oggi a mezzogiorno non faccio che mangiucchiare, cercando nel cibo un succedaneo all’inattività o alla noia. La cosa più bella è stata intridere alle fontane incontrate sulla strada, pezzettoni del pane rotondo comprato a Fromista, e mangiarli camminando, mollicci e grondanti. La birra mi ha rilassato ma quello squallido rifugio non mi attira per niente. Altro che Ermita di San Nicolas, è in quello stanzone affollato e pieno di correnti che si compie il vero recupero filologico degli albergue medievali. La stanchezza si fa sentire, lo sguardo vaga, annoiato: nel bar, gli uomini sfoggiano il basco, il bastone o i baffi e spettegolano col bicchiere in mano. Il mio ginocchio grida vendetta, se riesco a cenare, cosa di cui dubito, ci vorrà un aulin. Ed ora andrò. A volte anche la mistica del Camino è questione di umore o di stomaco pieno. 1° luglio 2003 Villalcazar da Sirga – Shagun (47 km) Il sole non è ancora sorto: è l’ora del lupo. Mi soffermo un istante sulla soglia del rifugio, prima di tuffarmi nella notte ventosa. C’è una certa consolante comicità nel constatare che ieri tutto è stato completamente spiacevole, senza cedimenti. I ristoranti erano chiusi perché era lunedì, così – giusto contrappasso - ho cenato nel bar che tanto avevo disprezzato all’arrivo: Quantomeno la cena fetida ha dimostrato che il disprezzo era pienamente giustificato. Le persone non erano male; mi è piaciuta una signora tedesca, di Heidelberg, che l’anno scorso ha abbandonato il Camino perché schiantata dal caldo, una scelta coraggiosa che non molti saprebbero affrontare; quest’anno è partita da Roncisvalle, ma ormai ha finito le ferie e riparte domani per la Germania. Ho conosciuto una ragazza brasiliana che fa il cammino in bici e parla un ottimo italiano con uno spiccato accento toscano. Mi ha raccontato dei suoi, di quando sono emigrati in Brasile e del fatto che non tornerebbero mai in Italia, se non per le vacanze. Un francese dall’aspetto ascetico, partito a maggio da Le Puy e si accompagnava ad un inglese grande e grosso con la barba e l’aria da guerriero celta (sembrava una comparsa di Braveheart) che parlava della Spagna di Franco, della Catalogna, argomenti che avrei ascoltato volentieri, ma ero seduta troppo distante per prendere parte alla conversazione. Così mi sono ritrovata a parlare di cucina catalana con un ragazzo di Barcellona, che viaggia con la brasiliana, ed un tedesco con un piede spaventosamente devastato dalle vesciche. Alle dieci ero a letto: ultimo grave errore, perché non avevo sonno. Né mi sono addormentata poi, in quanto il vecchietto francese ha russato mostruosamente tutta notte e mi chiedo come abbia fatto a non finire ammazzato in qualche ostello nel suo lungo viaggio da Le Puy. Federica la brasiliana ad un certo punto non ha resistito, ha preso il sacco a pelo ed è andata a dormire sul pavimento nel corridoio. Io, più codarda, mi sono limitata a rodermi fino all’alba. Ma tant’è. Ad ogni giorno è bastata la sua pena, ho approfittato del primo trapestio per vestirmi ed ora esco. Poche cose sono difficili come chiudere lo zaino e ripiegare il sacco a pelo senza provocare imbarazzanti fruscii nel silenzio del dormitorio. Le guide raccomandano di stare attenti quando ci si alza presto, per rispettare il riposo degli altri pellegrini: si possono avere tutti i buoni propositi del mondo, si può preparare tutto la sera prima, ma è inutile, ci sarà sempre il sacchetto o la

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fodera che crepita a tradimento nella notte, inducendo a fuggire con una bracciata di indumenti od oggetti che scivolano da tutte le parti. Sono le sei meno venti, è notte fonda ma la strada è diritta, dovrei farcela a proseguire senza smarrirmi sino al levar del sole. Addio.

* Sono partita seguendo il raggio proiettato dalla torcia di una ragazza avviatasi pochi minuti prima di me. Nell’uscire dal paese abbiamo smarrito le frecce e ci siamo inoltrate nella direzione sbagliata, verso l’abitato. Ad un certo punto il buon senso mi ha suggerito di invertire la marcia e riportarmi sulla nazionale. Ho cercato di convincere la ragazza con la torcia a seguirmi ma lei non mi ha creduto. Quando ho ritrovato le frecce sono tornata a cercarla, ma era troppo lontana, persa nella notte. Una volta imboccato il Camino, il primo tratto è stato semplice, anche se il vento attraversava la bandana e il fazzoletto perforandomi l’orecchio come una lama gelata. Le nubi fitte all’orizzonte mi hanno impedito di ammirare il sorgere del sole ma ho visto uno stormo di cicogne alzarsi in volo, virare e sparire nel cielo striato di rosso, le sagome stranamente affusolate. Poi, a Carrion de Los Condes, un miracolo del tutto inatteso: ho trovato un bar aperto. Erano appena le sette e probabilmente quello era il solo di tutta la regione. Sono entrata gioiosa e trepidante: lontano da Villalcazar, la ruota aveva ripreso a girare. Ho bevuto uno di questi tazzoni di cafè con leche, buono come lo fanno qui in Spagna: caldo, dolce e abbondante, appena velato da un filo di schiuma, viatico irrinunciabile delle fredde mattine sul Camino. Il luogo era placido, il televisore acceso sul telegiornale contribuiva ad ispirare agio e tranquillità. Le previsioni del tempo erano funeste, ma ieri la signora tedesca mi diceva che il caldo di settimana scorsa aveva reso il camminare una fatica infernale, quindi meglio non lamentarsi, sia benvenuto il brutto tempo. Ho terminato il caffè, salutato gli altri pellegrini approdati nel frattempo ed ho ripreso il cammino. Anche nel sopore dell’ora morta, Carrion de Los Condes si è rivelata bella come me l’aspettavo, piena di locali, ristoranti e negozi. Il fregio romanico della chiesa di Santiago, col grande Cristo Pantocratore in rilievo, ha meritato la sosta ed una foto. Così ritemprata ero pronta per affrontare la prima vera prova: la distesa di diciassette km attraverso il rettilineo medievale fino a Calzadilla de la Cueza. A Villotilla le frecce gialle abbandonavano l’asfalto per uno stradello che si perdeva fra i cespugli. Ho messo la pomata seduta su di una roccia in mezzo all’erba, dopo qualche minuto il ginocchio è stato in grado di reggermi ed ho iniziato la marcia, sperando di sopravvivere al vento. Sono rimasta sorpresa dal paesaggio, così verde e lombardo, anche se meno affascinante di quello dei giorni scorsi. Il freddo era intenso ma i dodici km fino a Calzadilla sono stati sopportabili, per quanto duri. Ho incontrato persone che facevano colazione accucciate in un fossato per difendersi dalla sferza del vento. Io mi sono fatta il pieno di zuccheri divorando gli amaretti di Villalcazar mentre camminavo. Per sopportare l’immutabilità dell’orizzonte giocavo ad individuare le persone quando ancora erano puntini indistinguibili, poi partivo in velocità fino a raggiungerle e superarle, lasciandole svanire e ritornare puntini alle mie spalle.

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In assenza di persone, mi svagavo inseguendo obbiettivi fittizi, segnali stradali, un cespuglio, un filare d’alberi, un casolare, niente altro che trucchi per occupare la mente. Ho capito che quando si percorrono queste distanze, conta solo il tempo, non l’occhio e persino non la gamba. Basta tenere il passo, poi ci si può anche distrarre, tanto tutto si raggiunge. Ma lo spazio e il tempo non sgarrano né regalano nulla: solo dopo le ore e le mezz’ore si “arriva”, quale che sia l’impressione dettata dall’occhio, dal pensiero o dal desiderio. Le pagine di Mundicamino mi avevano avvertito che, ad un certo punto, dal nulla sarebbe emerso il campanile del cimitero di Calzadilla, e così è stato, dopo quasi tre ore di marcia serrata. Quando, come per milioni di pellegrini da mille anni prima di me, la visione tanto desiderata ha preso forma all’improvviso, non ho potuto trattenere il loro stesso grido di esultanza. Raggiungere il paese ha comunque richiesto un’altra mezz’ora di lotta contro la furia degli elementi. Appena arrivata a Calzadilla mi sono fiondata nell’unico bar, indicato da un’enorme freccia gialla tracciata sull’asfalto, accompagnata dalla una scritta di cubitale esultanza: “BAR!”. Un accogliente locale di frontiera in cui ho ritrovato, in compagnia di un gruppo di baschi, la ragazza spagnola, che ora intende arrivare fino a Shagun, ed ho fraternizzato con una ragazza italiana molto simpatica. Purtroppo, se fraternizzare soddisfa un’esigenza del mio spirito, dopo un po’ mi fa sentire deprivata. Già mentre chiacchieravo, rimpiangevo acutamente di non poter gustare a fondo l’ambiente del bar, pieno di pellegrini più o meno scalzi, più o meno estenuati, o di non poter riversare immediatamente sulla carta i residui delle mie irrilevanti riflessioni. Appena uscita dal locale ho salutato la ragazza italiana, che aveva le ginocchia troppo rovinate per camminare alla mia velocità, le ho regalato un po’ di amaretti e mi sono rimessa sulla strada, che costeggiava in diagonale belle colline rossicce dalle sommità tornite, un pacifico sentiero lungo la nazionale, curve sinuose e, in lontananza, le rovine dell’abbazia de las Tiendas. Dopo Calzadilla de la Cueza e prima di Ledigos mi sono fermata in un’area di sosta affacciata su nuove colline, scure linee diritte contro un’enorme scodella rovesciata di nubi. Strano a dirsi, avevo sbagliato calze. Delle cinque paia che ho portato, due comprate da Decathlon, grigie e verdi, sono le mie preferite. Altre due paia, bianche e blu, comprate da Longoni, sono buone e le alterno ad un solo paio delle verdi, perché l’altro è riservato alle emergenze. Oggi ho indossato il quinto paio, che si è invece dimostrato inadatto alla marcia, dopo appena un’ora stava brasandomi i piedi, una vera camicia di Nesso. Le userò solo la sera. Mi rendo conto che, avendo portato con me quasi meno del minimo indispensabile – i fatidici cinque chili - con ogni componente del mio equipaggiamento si è instaurato un rapporto di singolare intensità. Il vento rimaneva gelato e impetuoso ma i pochi sprazzi di sole erano così roventi da far preferire le nubi. Accanto, un cippo segnava la metà del percorso dai Pirenei a Santiago. Non per me, purtroppo. Ascoltare la ragazza italiana partita da Roncisvalle, i suoi racconti sui 40° a Logrono, la pioggia e il vento sui Pirenei, le aspre salite dei Montes de Oca, i legamenti distrutti e le visite al pronto soccorso,

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mi ha fatto provare invidia e una certa vergogna per la mia tranquilla partenza da Burgos. Ho regalato quanto rimaneva dei miei amaretti ad una coppia di signori olandesi in bici che si era fermata a pranzare nell’area di sosta. Tanta generosità era dettata da quello che avrebbe voluto essere cinico calcolo. Dovevo sbarazzarmi degli amaretti - se ne avessi mangiati ancora sarei crollata per collasso glicemico - e speravo anche di suscitare negli olandesi un impulso emulativo: mi faceva gola il bel burro grasso e dorato che li avevo visti attingere da una grande scatola e spalmare sulle gallette. Ma non per niente gli olandesi hanno dominato per secoli il commercio, mentre l’italiano Mussolini regalava a Franco intere squadriglie di aeroplani senza pretendere nulla. I maledetti Batavi si sono mangiati i miei amaretti, mi hanno ringraziato e si sono tenuti ben stretto il loro burro. Così ho ripreso la via in preda a visioni di burro, con la bocca piena delle ormai nauseabonde briciole degli amaretti, estremo picaresco rimedio contro la fame. A Ledigos ho bevuto di malavoglia una coca in un bar, uno stanzone desolato che dissuadeva dal soffermarsi. Uscendo mi sono però imbattuta in un un furgone che vendeva pane ed ho acquistato un grande filone, morbido e croccante. L’ho divorato quasi senza accorgermene lungo la strada per Terradillos de Templares. Terradillos era un paese triste. Nessuna traccia dei templari cui deve il nome, però l’atmosfera lugubre era la stessa di Villalcazar, altro paese templare. Forse uno strascico dell’antica maledizione serpeggia ancora fra le rovine dei luoghi che furono cari ai cavalieri del Tempio. Mi sono fermata a riposare nel giardino dell’albergue e qui ho ritrovato Veronica, la ragazza italiana di Calzadilla. Non eravamo stanche ed il tempo era clemente, così abbiamo deciso di proseguire insieme fino a Shagun. La prima parte del tragitto è scivolata via fra chiacchiere ed aneddoti, mentre la strada si arrotolava attorno a verdi colline ed a campi di grano. Veronica mi ha raccontato degli accaparramenti di pellegrini ad opera di albergue rivali, del prete di Bergamo che costringeva i suoi malcapitati compagni a percorrere 50km al giorno e, tradito dalla sua stessa fretta, è finito in ospedale con una spalla fratturata, della strada sulla Rioja, quando faceva così caldo che la gente si riempiva il cappello d’acqua ad ogni fonte, delle ragazze italiane che viaggiavano coi cagnolini ma sono tornate indietro quando hanno scoperto che le ferrovie spagnole non accettano animali, del suo viaggio avventuroso verso Roncesvalles nel bel mezzo dello sciopero delle ferrovie francesi e altre cose ancora. Il lento avvicinamento a Shagun è stato però una vera sofferenza. Le gambe erano sempre più rigide e la strada sembrava non finire mai. Finalmente siamo arrivate in città, risalendo faticosamente una brutta via alle spalle del paese, muraglie di cemento, desolazione, filo spinato e impianti dismessi. Il rifugio è stata una splendida sorpresa, ospitato in una vecchia e grande chiesa, un luogo di grande bellezza e suggestione. Letti a castello in gruppi di otto, belle docce, cucina, tutto su alti soppalchi di legno installati a ridosso delle vertiginose navate, una meraviglia. Ho ritrovato Federica la ragazza brasiliana e il suo amico catalano, il signore di Verbania incrociato ieri a Boadilla, la ragazza spagnola, altra gente incontrata per strada ed altra che mi ha presentato Veronica.

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Alla fine questo è il Camino, le frecce gialle e il filo invisibile che ti guida, la stima della gente che ti guarda passare e l’industria secolare che prospera da oltre mille e duecento anni, i visi delle altre persone che stanno vivendo questa cosa. Tuttavia, se per altri l’intensità degli incontri sul Camino è tale da mascherare l’assenza di rivelazioni più profonde, per me questo non avviene. Ho già vissuto a Taizè, ad un’altra età e con ben altra pienezza, il facile stupore ed il fascino dell’incontro e della condivisione con gente di altri paesi. Così, insoddisfatta dalla più immediata delle esperienze emotive del Camino, continuo ad aspettarmi qualcos’altro, e mi sento irragionevolmente delusa. Speravo forse in una chiamata più appariscente, mentre mi trovo ad amministrare piccoli indizi che non riesco a connettere in un disegno più grande. Comprendo che sono tutti segni, il furgone del pane apparso giusto mentre stavo uscendo dal villaggio, il bar di Carrion già aperto prima dell’alba, un Irish pub - dove mi trovo ora – qui a Shagun, proprio a ridosso del rifugio, il falchetto di ieri, i sassi bianchi che mi hanno guidato nel buio nella campagna attorno a Castrojeriz, la sveglia del mio vicino di letto che stamattina mi ha consentito di partire all’alba, persino la bruttezza del pomeriggio a Villalcazar e l’imbattermi in una pasticceria tanto raffinata in un luogo apparentemente dimenticato, il tempo nuvoloso che mi ha consentito di percorrere la meseta in tre giorni senza soffrire. La mia è tuttavia una consapevolezza cieca, razionale, cui non fa riscontro una risposta dal cuore: ancora la gratitudine stenta a venire, ancora non ho messaggi da portare all’Apostolo. Ora però assaporo una Guinness così buona da sembrare quasi irlandese e per la prima volta dopo giorni mi sento libera dall’angoscia. Ho scambiato sms con tutte le mie amiche ed è come se avessi chiacchierato a lungo. E’ stata una giornata memorabile. L’orgoglio di aver camminato 47km e la birra cancellano l’onta della resa di ieri ed anche questo è un dono. Sono le sei e mezza, ora voglio andare un po’ in giro e visitare Shagun.

* Il paese non è un gran che. Il centro non offre bei monumenti o chiese, o anche solo angoli suggestivi. Fra le vie anonime, dominate da asfalto e cemento, non ho trovato nulla che giustifichi gli echi suscitati da questo nome da avamposto giapponese o turco. Shagun. Ho scelto ristorante più vicino al rifugio ed ho ordinato il solito menu del pellegrino. Ora assaggio la zuppa e credo che il secondo sia una specie di pesce. Il voler cenare al ristorante oggi è poco più di un capriccio, ho già mangiato un salamino per strada e mezza pagnotta, da stamattina non faccio altro che mangiare. Il pesce non era male, almeno rappresentava qualcosa di diverso dal pane, elemento ormai predominante nella mia dieta. La torta invece faceva schifo e giustamente così perisce il tentativo di viziarmi, a riprova che avrei dovuto approfittare della cucina dell’albergue, fare la spesa e mangiare con gli altri. La stanchezza mi avvolge, spero di dormire, stanotte. I piedi mi fanno male e non oso flettere le ginocchia.

* E’ sera, nel rifugio la gente rovista negli zaini o chiacchiera nella penombra: io ho solo voglia di sdraiarmi e leggere un po’. Mi sono comprata una felpina gialla in un

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negozio che proponeva i saldi, fa troppo freddo per indossare solo due t-shirt sotto al pile. Ho comprato anche pane e il burro per domani mattina, me ne era rimasto il capriccio dall’incontro con gli olandesi. Guardo le volte della chiesa sopra di me sbiadire nel crepuscolo. Santiago sembra così lontana, irraggiungibile nonostante tutto il mio camminare. Le tappe si accavallano ma la fine non si riesce neppure a immaginare. 2 luglio 2003 Shagun -/ Mansilla de las Mulas (37 km) Sono in un bar in un paese sperduto dieci km dopo Shagun, Bercianos: quattro cascine e questo bar. Il tempo resta triste e coperto, ma è molto meglio così dei quaranta gradi patiti a Logrono, come mi raccontava ieri Veronica mentre riposavamo all’ombra della chiesa di San Nicolas del Real Camino. Stanotte ho dormito proprio bene. Mi sono alzata prima dell’alba e appena uscita dal rifugio ho dovuto respingere gli assalti di uno dei conoscenti di Veronica, il solito sfigato italiano di mezza età in cerca di una vittima. L’avevo inquadrato ieri, quando all’ingresso nel rifugio mi aveva trattato con una familiarità del tutto ingiustificata. Stamane, nel vedermi uscire, si è preparato in tutta fretta ed è saltato su chiedendomi con fare mellifluo se stessi uscendo. Io ho chiarito che in ogni caso intendevo camminare da sola. Questo allora ha assunto un atteggiamento offensivo ed ha cercato di provocarmi, io non gli ho dato corda, gli ho offerto un po’ di burro e me ne sono andata. Uscendo, ho realizzato che mi stava seguendo lungo la strada e mi sono spostata per lasciarlo passare. Quando invece mi ha abbordato chiedendomi di punto in bianco se ero cattolica, non ci ho visto più, ho alzato la voce e gli ho intimato di levarsi dai piedi e lasciarmi in pace. La mia reazione l’ha mandato fuori di testa, impreparato com’era al fallimento del solito vecchio approccio basato su quella che è una vera e propria prepotenza morale. Entrerà così nel mio repertorio di aneddoti l’immagine di me che nel buio delle strade di Shagun tento di sbarazzarmi di questo malato di mente che urla “Stai peccando! Il cammino non ti appartiene! Tu sei una falsa pellegrina!”. Forse mi sono dimostrata troppo insofferente, ma le mie già limitate doti diplomatiche sono state annichilite dal dover affrontare alle sei del mattino una persona che mi aspetta al varco e, solo perché sono una ragazza e viaggio da sola, pretende di impormi la sua compagnia. Comunque, accantonato l’avvilente episodio, sono riuscita a far subito colazione, grazie a due ragazzi, un’austriaca e un brasiliano, usciti con me dal rifugio, che mi hanno guidato nel buio fra i meandri di Shagun fino ad un bar aperto, un posto vagamente psichedelico fra l’american bar e la discoteca. Ho camminato con questi ragazzi per un po’ ma dopo un’ora circa mi sono staccata, perché preferisco davvero andare da sola. Osservo la desolazione di queste strade lunghe e strette, a mala pena asfaltate e popolate di cani randagi, le porte delle abitazioni confuse con quelle delle stalle, e mi chiedo che tipo di vita si conduca qui a Bercianos, penso all’isolamento che si deve patire in inverno. Non so cosa farò oggi, non ho molta voglia di percorrere i 37 km fino a Mansilla per ritrovarmi con la stessa gente di ieri, mi sento già soffocare.

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* Ho raggiunto El Burgo Ranero dopo altri otto km di una strada noiosissima, costeggiata da inutili alberelli appena piantati, campi piatti, per lo più incolti, natura del tutto priva di bellezza. L’aria è fresca, del resto siamo a 800 metri e non c’è sole. Arrivare è stato pesante, anche questa volta più per la testa che per le gambe. La camminata di ieri esigerebbe la compensazione con un giorno di riposo e la scarsa attrattiva dei luoghi non fa nulla per incentivare la marcia. Il prossimo paese, Reliegos, dista 13 km e poi ce ne sono ancora sei fino al successivo. Non so cosa farò, forse un altro caffè mi tirerebbe su. La sola consolazione è che ho ripreso l’austriaca, sebbene lei non si fosse fermata a Bercianos. Ci siamo sedute su una panchina fuori della chiesa, io ho tolto le scarpe e mi mangio una merendina – pan di Spagna al cioccolato ripieno di cioccolato - lei si sbuccia una mela.

* Da El Burgo Ranero fino a Reliegos sono tre ore di strada piatta in mezzo al niente, solo il filare di alberelli da una parte, e dall’altra, sul limitare dell’orizzonte, la ferrovia. Per la prima ora ho preso come riferimento gli operai che rifacevano l’asfalto, poi betoniere, uomini e camion sono stati risucchiati dalla strada alle nostre spalle e sono rapidamente scomparsi. Secondo la mappa, e le mie carte, strada e ferrovia avrebbero dovuto incontrarsi verso i due terzi del percorso, ma vedevo ogni treno avanzare parallelo alla strada fino a perdersi dietro la curvatura del globo. E lo sconforto cresceva, fino che i miei piedi ed il mio spirito sono collassati, molto prima che strada e ferrovia si congiungessero. Ho dovuto fermarmi su di una delle panchine che la scrupolosa Junta de Leon ha collocato ad intervalli regolari nel -vano ma ammirevole – tentativo di attenuare la durezza del tratto. Dopo la pausa, ho ripreso in compagnia di un portoghese piccolino che sembra fare il pellegrino di professione, arriva da Parigi e, una volta raggiunta Santiago, arriverà a piedi sino a Fatima. Mi ha mostrato la sua collezione di rosari ed il suo pacco di credenciales, io gli ho regalato uno dei miei numerosi Labello, una merendina al cioccolato e metà del pane che mi avanzava. Tutto molto pilgrim. Ci eravamo incontrati una prima volta all’uscita da Shagun e di nuovo sulla strada. Mi ha ammonito perché tengo un passo troppo veloce e mi ha consigliato, se mi perdo, di prendere sempre i filari come riferimento. Anche questo è molto pilgrim. Infine ho raggiunto ed attraversato la ferrovia: metafora dell’esistenza questo inesorabile raggiungere ciò che sembra non dover mai arrivare. L’ultimo tratto è stato il più duro della giornata, anche se il paesaggio era migliorato; esaurita la pianura, il Camino si attorcigliava attorno ad una serie di colline basse e tozze, lungo cui mi sono inerpicata per quasi un’ora, senza intravedere alcun centro abitato. All’improvviso, dalla campagna deserta sono affiorate alcune persone, come gabbiani che preannunciano l’approssimarsi della terraferma: infatti, dopo l’ennesima curva, è finalmente apparso Reliegos. Sono entrata nel bar - ancora uno stanzone dall’aria parrocchiale, ma a modo suo accogliente - ed ho preso una fetta di tortilla alle patate. Mi vergognavo con me stessa perché lungo la strada, per vincere la noia, avevo già mangiato il pane, tre merendine al cioccolato e un salamino, ma ero incuriosita,

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anche perché rammentavo quanto ci aveva raccontato il ragazzo di Barcellona a Villalcazar circa la ricetta della tortilla fatta da Ferran Adrià con le patatine. Erano intanto arrivati la ragazza austriaca ed appunto Ignatio, il ragazzo di Barcellona. Lui, che per quanto ho visto è il più simpatico fra quelli incontrati finora, arriverà stasera a Leon – è in bici – e si fermerà un paio di giorni. Due chiacchiere, poi ci siamo dati appuntamento a Leon e ciascuno ha ripreso la propria strada. Io però non riuscivo ad alzarmi per i crampi ed il male al ginocchio finché, non so come, mi sono trascinata fuori del bar ed ho raggiunto questa panchina, dove sono stramazzata. Ora ho tolto scarpe e calze e non so come fare per riprendere. Mancano sei chilometri a Mansilla ma mi sento come l’altro giorno a Villalcazar, se non peggio. Sono anche sfinita e vorrei tanto andare subito a dormire nell’albergue che c’è qui a Reliegos. Il tempo continua a mutare, ma l’aria resta fredda. Proverò a rimettere le scarpe.

* L’ultima parte del tragitto è stata, prevedibilmente, massacrante. Memore della lezione di Davide Gandini, ho camminato pianissimo ma senza interruzioni. Chi la dura la vince e alla fine sono arrivata a Mansilla de las Mulas. L’albergue è proprio bello, accogliente, pieno di fiori. E’ una casa antica, aperta su di un grazioso patio, tante stanze con pochi letti a castello ciascuna, bagni puliti ed un’atmosfera conviviale ed amichevole. L’hospitalero è un anziano signore tedesco, di quei tedeschi col piglio del missionario in mezzo ai selvaggi, come ne ho visti fra i frères di Taizè. E infatti, per la prima volta da Burgos, ho visto affisso nella bacheca dell’albergue un avviso con gli orari delle Messe. In camera sono con una cinese, il portoghese piccolino di stamattina ed un pezzo di figliolo non so se portoghese o brasiliano, che va in giro con una specie di turbante bianco. Mi sono rinfrescata, ho indossato la tenuta da “libera uscita”, riposo - sandali, pantaloni azzurri leggeri e maglietta azzurra di seta - e sono andata ad esplorare il paese. Le vecchie case di Mansilla hanno tutte un bel portico di travi, i negozi ostentano splendide insegne di legno; edifici sbrecciati che cadono a pezzi si alternano senza armonia a case moderne in mattoni traforati. Il bar dove mi trovo ha un nome da noir anni trenta, Cafè Marseilles; ogni cosa trasuda una spessa atmosfera provinciale e rétro, l’ampio salone dalle vetrine rettangolari in vetro molato, il lungo bancone di formica, le tre elaborate colonne di ghisa color mattone simili a quelli dei pub irlandesi, i tubi al neon impolverati, i tavolini di marmo e ferro, i muri rossicci, gli uomini che giocano a carte, il pavimento lurido, pieno di cartacce e cicche di sigaretta, gli operai della Cerveza San Miguel che riempiono la spina, odore di fumo e di birra. Ho fotografato l’interno di una merceria, incantata dagli scaffali di legno alti fino al soffitto e traboccanti di merce colorata: la signora nel consentire alla fotografia, ha chiosato orgogliosa e lusingata che ogni articolo è collocato da sempre al medesimo posto. Tre cicogne hanno preso il volo da un campanile, non ne avevo mai viste così da vicino. Nel darsi lo slancio sembravano inciampare nelle proprie zampe, maldestre come puledri appena nati, poi hanno spalancato le ali e si sono tuffate nell’aria: ho atteso dieci minuti nella speranza di fotografarle, ma non sono tornate.

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Sono le cinque e mezza, ho finito la birra, tornerò all’albergue a dormire un po’. Ho pagato 3 euri per la notte e così anche ieri. Domani voglio percorrere una tappa breve: raggiungerò Leon e mi fermerò lì, sono davvero stanca.

* Mi sono svegliata intirizzita e tutta storta, come se fossi malata: devo assolutamente riposare sul serio. Mi sono scossa e sono andata a cenare in un ristorante dietro l’albergue, magnificato da una scritta nella bacheca. Un posto vecchiotto, un salone dalle pareti gialle raccolto attorno ad un patio, finestre dai vetri malamente stuccati e telai sottili, soffitto con un’improbabile decorazione e lampadari a palla. Non appena ho iniziato a mangiare sono stata raggiunta dal brasiliano di stamattina, che ho invitato al mio tavolo; abbiamo chiacchierato un po’, lui mi ha raccontato che fa il musicista ed ha un albergo dalle parti di Rio; anzi, come ha tenuto a precisare, ha un albergo ma fa il musicista. Esiste una disciplina o un’etichetta implicita fra la gente che percorre il Camino in base alla quale non è necessario giustificare nulla: come paracadutisti in caduta libera, ci si incontra e ci si lascia senza spiegazioni. Allo stesso modo le domande personali sono superflue o fuori luogo, ad eccezione delle blande investigazioni circa le ragioni che hanno condotto sul Camino. Ad esempio, il brasiliano è andato a trovare i suoi che sono ritornati in Portogallo dopo trent’anni di Brasile e lì ha deciso di intraprendere il Camino. Questa è una, ma tutte le risposte che ho ottenuto sinora denotano una risoluzione accidentale, non ho ancora incontrato nessuno, tranne forse il messicano di Rabè, che esibisse una motivazione forte, ideale, umana o religiosa. Del resto penso che il riconoscere l’accidentalità della propria decisione sia un buon punto di partenza, perché consente di mettersi completamente a disposizione dell’esperienza concreta, senza la sovrastruttura di ideologie o zeli non necessari. La cena è stata buona, piattoni col pomodoro (“judias vertes”) e nodino di maiale. Sono rientrata rapidamente, ho fatto una doccia, spalmato la pomata sul ginocchio e preso l’aulin, chissà se ora riuscirò a leggere... Sono nella stanza con la ragazza spagnola ma lei domani intende percorrere 40 km, così non credo che la riprenderò più. Anche il brasiliano vuole superare Leon. Il rifugio non passa coperte, dormirò col solo sacco a pelo. Il mio letto è casualmente il solo ad avere accanto una presa di corrente, così ho potuto mettere in carica il telefono, piccolo consolante lusso in questa giornata strana, in cui mi sono sentita molto affaticata e triste. Il paesaggio oggi mi è parso decisamente poco piacevole, nulla a che vedere con l’infinita bellezza del tratto fino a Fromista o persino quello percorso ieri da Terradillos des Templares e poco prima di Shagun. Proprio l’insoddisfazione di attraversare luoghi per me privi di ogni attrattiva mi ha portato a spingere troppo sull’acceleratore, col disastro traumatologico che ne è seguito. Ho assaporato solo l’ultimo tratto fra Ledigos e Mansilla, benché poco interessante e affollato di tralicci – qui in Spagna l’inquinamento elettromagnetico è un problema decisamente poco sentito - sono stata costretta a percorrerlo senza fretta ed ho così apprezzato con la giusta lentezza il grande cielo e la distesa di campi. Però, una volta arrivata, le cicogne, la telefonata in studio, la cena e questo bell’ostello dall’atmosfera conviviale e distesa mi hanno rasserenato. Ed ora dormo.

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3 luglio 2003 Mansilla de las Mulas – Villadangos del Paramo (42 km) Sono sulla via per Leon. Il tempo continua ad essere misericordiosamente nuvoloso, il cammino costeggia l’asfalto e i camion minacciano la mia vita. Ho dormito bene e sono uscita rapidamente da Mansilla attraverso il ponte, mentre albeggiava. Nell’aria aleggia ancora un buon profumo di erba. Mi sembra di essere appena partita ma sono le 7.20, quindi sto camminando da almeno un’ora e un quarto. La gamba e il piede mi danno già fastidio, se arrivo a Leon, mi sa che mi fermo lì.

* Eccomi a Leon. Ho camminato con Maria Jesus la ragazza spagnola, ritrovata al bar di Villamoros, il primo paese dopo Mansilla, dove lei si era imbarcata in una lunga discussione col barista circa i vari tratti del Camino prima e dopo Leon. E’ stato un tragitto rapido e piacevole; come sempre, in compagnia la strada svanisce sotto le scarpe senza che ce ne si accorga. Lei è di Vigo, gallega quindi, ma è partita da Burgos come me. Mi ha spiegato che in Galizia le case sono tutte in pietra, non di fango e paglia come sulla meseta. Anche lei non ha saputo dire a chi appartengano quelle immense distese di grano (“trigo y trigo y trigo”) o quale sia la mano invisibile che le lavora. In Galizia è diverso, gli appezzamenti sono piccoli e recintati. Mi ha raccontato che è già stata altre volte a Santiago, fin da piccola ci andava con suo padre, che ora non c’è più. E’ molto organizzata, fa il bucato tutte le sere e la mattina si appende la biancheria umida allo zaino. Devo prendere esempio, le mie magliette invocano il sapone a gran voce, per non parlare dei pantaloni. Raggiungere Leon ha richiesto tre ore di saliscendi, percorsi ora all’interno, ora sul ciglio della nazionale, sempre più trafficata ed insicura. Ad un certo punto, dopo una curva, abbiamo visto la città stendersi da un lato all’altro della vallata sotto di noi, e le guglie della cattedrale che spiccavano in lontananza sulla foresta di tetti. Leon non è solo la prima grande città che tocco da quando sono partita, rappresenta anche una meta simbolica, il punto d’arrivo del tratto più duro del Camino, la prova che – forse - sono in grado di farcela. Le arterie periferiche sono interminabili ma il centro di Leon è bello, ben conservato, pieno di localini, negozi e posticini alla moda che hanno ingolosito il mio sguardo, abbrutito da cinque giorni di meseta. Era tutto ancora chiuso, le strade popolate solo di fattorini, che scaricavano casse di bottiglie destinate ad annaffiare la prossima notte brava, e di camerieri, che ripulivano frettolosamente le vestigia di quella passata. Ci siamo tolte scarpe e calze su una panchina nella piazza della cattedrale ed abbiamo atteso l’apertura rifocillandoci e chiacchierando con un vecchietto un po’ bizzarro, che ci ha mostrato alcune foto di quando faceva il ciclista in Italia. Poco dopo una signora dall’aria distinta ha sorriso vedendoci scalze, si è avvicinata e ci ha confidato di aver fatto anni fa il Camino in bici. Lungo il Camino è normale incontrare persone che salutano con gentilezza, chiedono, consigliano, suggeriscono scorciatoie. In questo consiste il sentirsi “sul Camino”: non un volo mistico, bensì l’esperienza tangibile, materiale che nasce dall’arrivare in un luogo che non si è mai visto e

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scoprirsi parte – non meri turisti o osservatori, ma parte viva ed essenziale - di una realtà che si intuisce profonda e diffusa. E l’augurio di buon camino diventa il suggello di questo reciproco riconoscimento. Alle dieci abbiamo potuto entrare nella Cattedrale e devo dire che, nella tenzone fra Burgos e Leon, il fulgore delle vetrate multicolori racchiuse fra le altissime arcate gotiche mi fa propendere per Leon; addirittura, posso arrivare a riconoscere che questa cattedrale è bella quasi come il Duomo, seppure – ovviamente – un po’ più piccola. Una volta apposto il sello, abbiamo preso un cafè con leche, non già nel locale raccomandato dal vecchietto di prima, bensì sedute ad un tavolino all’aperto, in un bar di fronte ad un palazzo progettato da Gaudì nelle forme di un castello delle fiabe, dove il marmo sembra avere la consistenza di una meringa. Di fronte al palazzo, un’effige in bronzo dell’architetto seduto su una panchina, un po’ come a Dublino le statue di Joyce o di Patrick Kavanagh. Il caffè era buono e il barista ci ha offerto un cioccolatino ed una piccola madeleine. Abbiamo approfittato della sosta per spalmare un po’ di pomata sulle ginocchia e sulle spalle devastate e siamo ripartite, alla volta della chiesa di San Isidoro, un edificio romanico che ricordava San Martin di Fromista, ma senza quell’algida perfezione. Ciò che soprattutto meritava la visita era l’annesso Pantheon dei re di Spagna, un portico chiuso, dalle volte interamente coperte di coloratissimi affreschi romanici tutti in perfetto stato di conservazione. Pastori, animali, contadini, angeli, immagini sacre, sembrano animarsi a seconda del punto da cui le si osserva: la chiamano la Cappella Sistina del romanico spagnolo. La guida era un bel ragazzo molto spagnolo, capace di comunicare con fervore il senso della sacralità del luogo che, ci spiegava, era stato il palazzo reale della dinastia di Leon, cuore politico e religioso della Spagna medievale. Fra i tanti personaggi evocati mi ha affascinato la figura della regina Urraca, con quel nome gutturale, da saga nordica, me la immaginavo crudele e vendicativa, un’imperatrice madre bizantina o la strega di Biancaneve. Poi ci siamo separate e Maria è partita per Villar de Mazarife. Dopo il paese la Virgen del Camino la strada per Astorga si biforca infatti in due itinerari, il più lungo dei quali si inoltra fra i campi del Paramo e raggiunge Villar de Mazarife, mentre l’altro costeggia la nazionale fino a Villadangos del Paramo. I due sentieri si riuniscono poi ad Hospital de Orbigo. Maria preferisce camminare di più pur di evitare l’asfalto; io non so ancora cosa fare ma ho deciso di non cedere alle sirene dei locali e dei bei negozi e procedere oltre per la via più breve, così da arrivare ad Astorga entro domani. Dopo che ci siamo salutate sono quindi venuta a rifocillarmi in questa specie di enoteca con degustazione di salumi, dietro San Isidoro, che avevo notato passando e che ho preferito a tutti i posticini bellini ma convenzionali nei dintorni della cattedrale. Sto quindi divorando un piatto di jamon serrano, molto buono, accompagnato da tante fettone di pane mollicoso. Ho ficcato lo zaino sotto un tavolaccio e mi sono arrampicata su di una sedia di paglia piuttosto casuale, mentre il locale si riempie. E’ un posto simpatico, arredato in modo spartano ma accurato e non sembra una trappola per turisti, affollato com’è da spagnoli che approfittano della pausa per bere e sgranocchiare qualcosa. Se non dovessi camminare

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prenderei del vino, ma preferisco lasciar stare, anche se questi bei calici colmi dalle scintillanti tonalità granata mi suscitano uno sconsolato desiderio. Ora mi sto rilassando, penso alla strada e mi sento felice. Il tempo resta incerto, conviene andare, diciotto km fino a Villadangos del Paramo sono tanti, è già l’una ed io sono stanca.

* Lasciare il centro di Leon non è un’impresa facile se si perde il bandolo delle frecce gialle, è sufficiente deviare di pochi metri e ci si trova abbandonati a sé stessi. Finalmente rimessa sulla retta via dalle indicazioni di una decina di passanti, ho attraversato il grande ponte di fronte allo splendido convento di San Marcos dalla sontuosa facciata plateresca in marmo bianco. Poco dopo mi sono fermata in una pasticceria ed ho preso un dolce di sfoglia, che mi ha un po’ deluso. Il Camino attraversa la periferia occidentale di Leon per una lunga strada che, senza soluzione di continuità, trasforma Leon in Trobajo del Camino, ultimo sobborgo prima della salita alla Virgen del Camino. Man mano che ci si allontana dal centro, la città diventa più brutta e confusa: domina un’impressione di promiscuo, di approssimativo. Costruzioni non finite, uso smodato dei mattoni traforati senza alcuna preoccupazione per accessori voluttuari quali calce o intonaco. Vecchio e nuovo, entrambi di poco valore, mescolati disordinatamente, una quantità di negozi di ogni genere. Eppure l’insieme è stranamente piacevole. Mi sono concessa un caffè in un bar fetidissimo alla fine di Trobajo del Camino, proprio di fronte alla strada che sale ripida verso la Virgen del Camino. Prosciutti sudati pendevano dai ganci, tocchi di formaggi sofferenti occhieggiavano da una vetrina, la televisione parlava della bella figura di Berlusconi al parlamento europeo, il caffè era troppo caldo, il mio equilibrio sullo sgabello era precario, non avevo voglia di posare lo zaino. Sono ripartita subito. Ho risalito sotto il sole a picco una squallida zona industriale di capannoni deserti o abbandonati, che un tempo non lontano doveva essere una collina di pascoli e case coloniche. Infine sono arrivata alla Virgen del Camino, poco più di uno stradone costellato di alberghi e ristoranti dall’aspetto dozzinale. Avendo già rinunciato all’attraente movida di Leon ero tentata di fermarmi, ma ero ancora troppo vicina alla città, così ho deciso di proseguire, nell’illusione di trovare un albergo in qualche villaggio dopo una manciata di chilometri,. La chiesa del santuario attorno a cui è sorto il paese ha una sua maestosa bellezza in stile anni sessanta, che contrasta con la generale pacchianeria: l’ingresso è sovrastato da una facciata rettangolare popolata da alte figure in bronzo, una specie di maestà moderna, con la Vergine in centro e gli apostoli ai lati. Lo stile ricorda un po’ le statue più pretenziose del cimitero maggiore, ma l’effetto non è sgradevole. Mi sono seduta su una panchina fuori della chiesa, poi ho preso un caffè e sono partita. Ho raggiunto Villadangos solo alle sette passate, ciò significa che ho impiegato circa cinque ore per percorrere ventuno chilometri e mezzo (non già diciotto come credevo) e questo dà la misura della fatica che mi è costato. I piedi mi dolevano, ero stanca ma non c’erano aree di sosta in cui riposare né fontane cui bere. Purtroppo, i primi due paesi che ho attraversato non offrivano né alberghi aperti né

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camere, né bar accoglienti in cui riposare, così ho dovuto sorbire l’amaro calice fino in fondo. A San Miguel del Camino sono entrata in un bar e ho chiesto se ci fossero camere ad un vecchietto che ha iniziato un discorso confuso in un dialetto del tutto incomprensibile. Alla fine ho capito che il titolare era ad un funerale e con lui tutti gli avventori. Me ne sono andata senza insistere oltre, seguita dagli sguardi diffidenti del vecchietto. Da lì a Villadangos erano otto km, che ho percorso in due ore e mezza. Non pensavo a nulla, né il paesaggio mi ispirava. Ad essere sincera, non ho quasi notato ciò che mi circondava. Ho veramente patito ogni palmo di strada percorsa, ogni salita, ogni discesa, ogni chilometro, mezzo chilometro, duecento metri. Anche quando levavo il capo dalla mia sofferta battaglia con la distanza per guardare che aspetto avesse questo Paramo che stavo attraversando, non notavo nulla di diverso dal succedersi di campi più o meno incolti che mi perseguita da giorni e giorni. Ad un certo punto mi sono imbattuta in due uomini carichi di catene d’oro, che discutevano sul limitare di un campo, in mezzo al niente. Mi sembrava di essere in un film di Francesco Rosi, loro, appena mi hanno visto si sono zittiti, io li ho superati senza voltarmi. Sui muri o lungo la strada mi facevano compagnia le scritte che promuovevano entusiasticamente il nuovo rifugio di San Martin del Camino, circa sette km dopo Villadangos, ognuna forniva distanze diverse da quelle dei miei calcoli, mi sentivo presa in giro, ma non c’era nulla da fare, solo andare avanti. In certi momenti si smette persino di ragionare lucidamente, ci si riduce ad un rimuginare costantemente sull’interminabile lunghezza del singolo chilometro percorso, un continuo ebete ricalcolare ogni metro, passo dopo passo, un instancabile confrontare i segni esteriori dello spazio con l’impressione registrata dalla mente. Ogni chilometro sembra più lungo del precedente, ogni pietra miliare è una truffa dolorosa, un’amara delusione, una conferma che il Camino, come la vita, non concede sconti, mai. Il solo modo di farcela è considerare lo spazio un contorno da circoscrivere entro un punto di riferimento qualsiasi, per poi riempirlo di passi e di parole, di canti e di imprecazioni, come un disegno si colora coi pastelli. Qualunque cosa, pur di ignorare il peso delle gambe sempre più rigide, le cinghie dello zaino che scavano sempre più le spalle, le mani che perdono sensibilità a furia di rimanere abbassate. Dal momento in cui ho intravisto – molto in lontananza – la sagoma di una torre che non poteva appartenere ad altro che a Villadangos, l’avvicinamento è sembrato farsi ancora più lento, ancora più sofferto. Alla fine stentavo a portare un piede avanti all’altro. Incorreggibile, ho ugualmente superato due alberghi che ho giudicato troppo periferici ma una volta entrata in paese, non mi sono neppure posta il problema, ho ignorato il rifugio e sono andata direttamente nel primo hostal, un alberghino bianco e nuovo lungo la strada accanto ad un bar-ristorante. Secondo i miei calcoli oggi ho percorso 41 km, secondo il conto a ritroso dei fogli di Jacobeo.net ne ho fatti solo 35 ma preferisco pensare che tanta fatica sia valsa almeno 41 km.

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Una doccia veloce e un po’ di lavanderia, ho appeso calze e biancheria per tutto il bagno, allagandolo come una foca, mi sono cambiata e sono uscita alla ricerca di un ristorante. Ho cenato ancora col ragazzo brasiliano, capitato poco dopo di me nel ristorante, una cascina arredata in stile vero-finto rustico sulla riva del fiume. Lui era depresso perché aveva perso la macchina fotografica digitale e con essa i ricordi di quasi due settimane di Camino: alternava così momenti di buon umore ad improvvise cadute di tono. Mi tornava in mente quella canzone di David Riondino sui brasiliani, tutti samba e allegria un istante e tristezza e saudade l’istante successivo, non sembrava neppure una persona reale. Lui comunque intende raggiungere domani Rabanal, un’impresa decisamente al di fuori della mia portata. Ho mangiato molto bene, sopa de ajo e nodini di maiale, e per dolce natillas, una buona cremina gialla alla vaniglia. Salutato il ragazzo brasiliano ed uno svedese pelato conosciuto al ristorante, sono venuta in un bar nei pressi dell’albergo a concedermi la rituale birretta da meditazione prima di dormire. Villadangos è un paese di pianura, basse casette a un piano, unite le une alle altre a formare vie sinuose e senza sbocchi. Sta scendendo la sera, l’aria si rinfresca, meglio andare.

* Finalmente a letto, un vero letto morbido. Dalla finestra vedo soltanto cielo ed un’antenna della televisione gremita di nidi di cicogne. Il cammino oggi pomeriggio è stato brutto, cioè sgradevole, faticoso. Anche i lunghi giri viziosi per il terreno incolto attorno al raccordo autostradale dopo la Virgen non mi hanno entusiasmato anzi, se non ci fossero state le frecce a farmi compagnia, avrei decisamente avuto paura. Eppure, stesa in questo bel letto mentre il cielo sbiadisce mi sento proprio bene, contenta e soprattutto libera. Non ho voglia di riflettere, i piedi mi fanno ancora male e vorrei solo leggere un pochino. Mi piace questa zona, gli uomini sono tutti piccoletti e mi ricordano il nonno Attilio, hanno un che di simpatico e familiare. Domani mi alzerò con calma, ho bisogno di riposo. 4 luglio 2003 Villadangos – Astorga (28 km) Mi trovo in una Guinness cerveceria nella Plaza Mayor di Astorga, cioè la piazza del municipio, e mi sto lentamente riprendendo. Stamane sono uscita alle otto meno un quarto. A quell’ora il bar dell’albergo era aperto ed ho lussuosamente fatto colazione appena sveglia, anche se ho dovuto rinunciare alla brioche dopo tre tentativi di farmi comprendere da un barista evidentemente troppo cretino. All’uscita del paese, un ingorgo causato dal rifacimento del manto stradale mi ha consentito per una volta di superare decine di auto bloccate nel traffico. Dopo un’ampia curva in discesa che ieri sera avevo fantasticato preludere ad un anglico percorso ricco di verde e di acque, mi sono trovata su di un rettilineo che correva parallelo alla statale. Solo una piccola deviazione attraverso un boschetto per evitare i lavori stradali, poi è sempre stato l’asfalto e il consueto deserto di campi spogli. Dopo circa un’ora ho raggiunto San Martin del Camino. Mi sono tolta lo sfizio di visitare il rifugio tanto pubblicizzato lungo la strada, che sorge all’ombra del grande ed incomprensibile serbatoio di cemento, tanto simile alla palla di Corsico.

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Data l’ora il rifugio era deserto ma la porta era aperta. Mi piace questa cosa di lasciare aperti i rifugi anche nelle ore di chiusura, in modo che il pellegrino di passaggio, se lo vuole, possa dissetarsi, usare il bagno o riposarsi qualche minuto. Il ginocchio mi faceva male e per i dieci km da Villadangos fino ad Hospital de Orbigo mi sono letteralmente trascinata. Lì – mentre stavo seduta senza calze su di un muretto cercando di riprendere possesso del ginocchio e progettando il saccheggio della salumeria di fronte - ho incontrato Maria che arrivava da Villar de Mazarife. Lei appariva riluttante a fare la strada con me ma io ho finto di non accorgermene - rinunciando persino alla salumeria – nella convinzione che da sola oggi non sarei riuscita a farcela. Così ci siamo avviate assieme. Anche il rifugio di Hospital era deserto, ma meritava senz’altro una visita, con le vetrate che si affacciavano attorno ad un patio pieno di fiori, i muri blu ed un grande trompe l’oeil su di una parete. Uscite dal paese, dopo circa un’ora ci siamo fermate all’ombra di un cartellone stradale, io ho spalmato la pomata sul ginocchio e il dolore si è attenuato. Il sole splendeva, fin troppo, e da lì abbiamo fatto tutta una tirata, tranne una sosta da un benzinaio dieci km prima di Astorga, per un caffè, la toilette ed un pacco di Prince. Il paesaggio era più verde di quello di ieri, ma la marcia è stata lo stesso molto faticosa. Il ragazzo del benzinaio ci ha detto che dopo Astorga il cammino sarebbe diventato molto bello, che la meseta era finita. La strada sassosa correva parallela alla ormai familiare N120, non c’erano aree di sosta e gli alberi erano troppo piccoli per offrire un po’ d’ombra. Per la prima volta ho sperimentato gli effetti del nostro andare verso occidente, col sole che ci martellava le spalle. E’ emozionante percepire il senso del proprio muoversi nello spazio, questo seguire il percorso del sole, sentirsi nel solco di tutte le migrazioni della storia. Finalmente, verso mezzogiorno, dopo continue discese e risalite sotto il sole a picco, abbiamo intravisto Astorga nella valle sotto di noi. Ma l’entusiasmo è durato poco, scendere e raggiungere la città nella canicola del primo pomeriggio è stato massacrante. In centro, Maria si è trovata con un suo amico francese, un bretone, ciccione e barbuto palesemente suo fidanzato, l’incontro col quale era la ragione della sua fretta e – immagino – della sua scarsa comunicativa iniziale. Io li ho salutati rapidamente e mi sono messa a vagare per trovare l’albergue. In assenza di segnali – eravamo entrate dalla parte sbagliata della città - ho chiesto in giro, ricevendo diverse indicazioni, tutte contrastanti e che mi hanno fatto girare come una trottola per oltre un’ora. Ad un certo punto ho scoperto di avere perso il pile ed ho dovuto ritornare sui miei passi fino a che non l’ho ritrovato, appeso ad un cartello stradale da qualche mano invisibile. Il male al ginocchio si era fortunatamente attenuato e, alla fine, sono arrivata all’albergue, che non era né vicino alla Cattedrale né nei pressi della chiesa di San Francesco, ma in una scuola in disarmo affacciata sui bastioni della città alta. Un casermone di tre piani con camerate di tipo militare ed un’ampia sala da bagno nel seminterrato, in cui ho lavato - col bagnoschiuma - le mie t-shirt ormai quasi putrefatte. Dopo di che, con addosso solo la felpina gialla comprata a Shagun, mi sono messa a girare per il bel centro di Astorga ed ho trovato questo posto, dove ho potuto assaporare, la Guinness, una tortilla buonissima e una quantità di ricordi irlandesi per nulla scontati. In particolare, di fronte a me, vedo incorniciata la copia della presentazione di una rivista degli anni venti “the Bell”. Leggere i nomi di Elizabeth

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Bowen, Patrick Kavanagh, Flann O’Brien, Ernie O’ Malley (!), Sean O’Faolain, Jack B. Yeats, mi ha folgorato. Le sensazioni legate all’Irlanda sono tornate prepotentemente in superficie, accentuate dalla Guinness (mi chiedo perché in Spagna sia così buona). Tante cose lungo il Cammino mi ricordano l’Irlanda, il fatto stesso del camminare, il vento, le distese di campi. La birra è finita, ora cercherò di visitare la Cattedrale e comprare queste mantecadas, specialità propinate ad ogni angolo, poi farò riposare la gamba da qualche parte.

* Ho perlustrato, al solito, tutti i negozi del centro, infine mi sono comprata i dolci in una pasticceria antica ed elegante a ridosso della Cattedrale. Una signora anziana dal piglio altero mi ha servito con molta gentilezza, nonostante il mio aspetto da vagabonda. Oltre alle mantecadas, una specie di pane degli angeli alle mandorle, ho preso altri dolcini di pasta di mandorle e sfoglia, nessuna rivelazione mistica, ma tutti abbastanza buoni. Terminati i giri, mi sono lasciata cadere su una panchina dietro il palazzo episcopale di Gaudì, una casa delle fiabe color crema, architettura gommosa da cartone animato. Sono rimasta lì al sole a fare progetti ed a studiare le mie preziose fotocopie, poi sono andata a visitare la Cattedrale, rimanendo abbacinata dall’arco d’ingresso, una profusione di merletti, pietra lavorata così finemente da sembrare sapone, riccioli e petali di roccia, puro stile plateresco. L’interno è un gotico grandioso, ricorda il Duomo, appena più stretto. Ci sono tavole dipinte ovunque, a me ne è piaciuta molto una che raffigurava la Madonna, forse un po’ romantica ma con colori meravigliosi, appesa a portata di mano: mi ha affascinato questa accessibilità, così inconsueta in una chiesa. Nell’abside domina invece un enorme retablo, incastonato di pitture, statue, cornici dorate, come un sacro monte in verticale. Mi sono fatta mettere il sello nella Cattedrale. Ovunque vada, estraggo ormai automaticamente la credencial e chiedo il sello, nei bar, come nelle chiese, come nei rifugi e persino alla stazione di servizio, collezionando timbri e ricordi; ho superato la reticenza dei primi giorni quando mi sono resa conto che tutti sono orgogliosi di appormi gli uni e lasciarmi gli altri. E poi il rituale contribuisce ad alimentare la mia incerta identità di pellegrina. Fuori della chiesa ho ritrovato Federica, la ragazza brasiliana che fa il Camino in bici e che, nonostante l’accento toscano e l’inquietante somiglianza con la Debora, sto trovando molto simpatica. Lei non ha fretta, mi ha spiegato. Era con una ragazza americana molto grassa ed apparentemente disturbata, cui ho regalato un po’ dei miei dolcini. Poco prima, davanti al rifugio, Federica mi aveva raccontato che oggi aveva percorso solo dieci km portando la bici a mano per fare compagnia ad una sua amica americana che era in crisi. Vedendo poi l’amica ho compreso appieno: ecco un gesto da vero pellegrino. Ho comprato il pane caldo da una vecchietta, in una piccola rivendita nei pressi del rifugio, un ragazzo l’aveva appena consegnato insieme ad una succulenta pila di fumanti empanadas. Mi sono comprata anche un po’ di jamon e la cecina, una specie di prosciutto di mucca che producono solo da queste parti: ieri all’uscita di

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San Miguel del Camino mi ero imbattuta in un salumificio, ma ero troppo concentrata nello sforzo di superare gli ultimi otto km per avere voglia di fermarmi a fare compere. Durante i miei giri per il bel centro di Astorga, ho trovato un’altra chiesa favolosa, San Bartolomè. All’esterno sembra preromanica, ricorda le chiese della Val di Non, il tetto ad un solo spiovente, la facciata di pietra, l’ingresso ad arco. Dentro, si è investiti da un tripudio di barocco, stucchi ed ori, con tanto di cupola. Ora sono al rifugio per dare un po’ di requie ai miei poveri piedi, domani devo salire per i montes de Leon e non so come farò.

* Da un’occhiata alle varie réclame affisse sulla bacheca del rifugio, ho scoperto che qui la specialità è un piatto denominato cocido meregato, la cui composizione mi è ancora oscura, ma le cui foto mi hanno incuriosito ed ingolosito. Così ho fatto una doccia nell’enorme e gelido bagno dall’aspetto sovietico ed ho ritirato la roba che avevo steso nel vecchio cortile, profondo come il pozzo di san Patrizio, ma scendere le scale e risalirle è stata una vera tortura, Infine, dopo un pisolino, sono uscita in perlustrazione. Astorga ha una certa vivacità provinciale, le strade sono piene di ragazzi che si divertono chiassosamente dentro e fuori dei locali, mentre panchine e bar traboccano di anziani che conversano o guardano lo struscio. Insomma, vecchi e giovani si dedicano tutti alle medesime attività. Fra i ristoranti che proponevano il famoso piatto, due erano chiusi, uno era una via di mezzo fra un pub ed un rifugio per turisti. Quello che ho scelto, “Las Termas”, aveva appena aperto quando sono arrivata. I gestori, gentilissimi, invece di cacciarmi a calci, invitandomi a tornare più tardi, mi hanno fatto accomodare e si sono coscienziosamente dedicati ad avviare sotto i miei occhi il complesso meccanismo. Ero ammirata, il ristorante non è piccolo e loro erano solo due, facevano pensare al “cirque imaginaire” di Geraldine Chaplin e suo marito. Il banchetto però è stato tutt’altro che immaginario. Tutto ha avuto inizio con un piatto da portata contenente almeno sei porzioni di altrettanti i tipi di carne bollita; i pezzi avevano ciascuno un sapore differente ma erano legati da un aroma speziato di fondo. Ho riconosciuto pollo, manzo, salamini, piedino, prosciutto, pancetta, costine di maiale, salsiccia, poi non so più, però sono riuscita a finire tutto. Ero così estenuata dalle proteine che ho provato un indecente piacere nel mangiare i pomodori con l’aceto portati a parte come contorno. Alla carne ha fatto seguito un piattone di ceci e verze brasati, di cui ho mangiato circa la metà. Dire che questo sia un piatto sostanzioso è un eufemismo, volendo tracciare una similitudine, potrei azzardare la definizione di casseoula destrutturata. Poi è seguita la zuppa. Non avevo fatto in tempo a rallegrarmi delle ridotte dimensioni della fondina,che si è materializzata una zuppiera da quindici persone, colma fino a traboccare di un brodo densissimo con gli spaghettini. La zuppa era buonissima, probabilmente era fatta col brodo di cottura di tutte le carni, tanto che la si sarebbe potuta tagliare col coltello.Ne ho preso una sola volta, non volevo morire.

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Poi è arrivata la crema alla vaniglia e il signore ha osato chiedermi se ne volevo ancora. Sono riuscita a rantolare un diniego, prima di ricevere il caffè e un liquorino dall’aspetto gelatinoso, con una violetta candita sul fondo del bicchiere. Alla fine mi hanno fatto firmare il libro degli ospiti, sono stati carini ma forse avevo manifestato a tal punto il mio entusiasmo che sentivano di non potersi esimere. Ho lasciato una banalità piena di complimenti e punti esclamativi. Qualcuno prima di me aveva scritto “Veni Sancte Spiritu, per Mariam”.Mi è sembrata un’ostentazione inutile e persino un po’ di cattivo gusto, comunque la si volesse leggere. Ci sono tempi e luoghi appropriati per ogni cosa. Ora andrò, perché se non faccio due passi morirò di indigestione.

* Mi sono seduta su una delle panchine collocate sulla passeggiata lungo i bastioni. La campana della cattedrale batteva le ore, mentre strane ed inquietanti esplosioni sollevavano remote nubi di polvere nella sconfinata piana sottostante, mentre ad occidente la luce sbiadiva contro le sagome scure dei monti di Leon. Sono rientrata nel rifugio prima che annottasse. All’ingresso, un folto gruppo di ragazzini appena arrivati ascoltava rumoreggiando le ultime istruzioni dell’accompagnatrice. L’ambiente del rifugio è simile a quello di Shagun, un posto grande ed ospitale dove ci si ritrova sciancati e zoppicanti con gli amici e le persone che si sono incontrate durante la giornata, ci si medica le ferite e ci si spalma con tutte le pomate immaginabili. 5 luglio 2003 Astorga – Manjarin (32 km) Mi trovo a El Ganso, un paese a pochi km dopo Astorga, sono le nove. Ho dormito piuttosto male: all’albergue la gente era tanta e troppi russavano. Nel letto sopra il mio una balena olandese continuava a rigirarsi, facendo cigolare sinistramente la rete e sprofondando il suo enorme sedere sempre più vicino alla mia faccia. Dopo mezzanotte, quando dal dormiveglia stavo finalmente scivolando nel sonno, ho sentito un violento colpo sulla spalla. Sono sobbalzata col cuore in gola per lo spavento, poi ho capito che la stupida mi aveva fatto cadere addosso la sua bottiglia – piena - dell’acqua. Ho tirato un paio di Madonne ad alta voce nel buio, ipotecando così tutte le indulgenze non ancora conquistate. Poi lei ha allungato la mano ed io le ho passato in silenzio la bottiglia, ingoiando vilmente gli improperi che mi venivano alle labbra. Alle cinque e mezza mi sono alzata. Mi sono lavata nel bagno deserto e pieno di spifferi, sbirciando dalle strette finestre che davano sull’infinita pianura e sulla notte. Pensavo al deserto dei tartari. Pochi minuti dopo il rifugio era tutto un andirivieni. Alle sei sono uscita, insieme al gruppo dei ragazzini incrociato ieri sera, ho bevuto un sorso alla fontanella dal getto verticale di fronte alla panetteria, ed ho guadagnato rapidamente la fine della città, percorrendo le strade deserte nell’oscurità ventosa. Ieri sera, fra la piacevole calca dell’affollatissimo rifugio avevo ritrovato Maria ed il suo bello francese, che avevano rinunciato a proseguire ed erano approdati lì. Organizzata come sempre, Maria mi aveva indicato come uscire dalla città, ciò che mi è stato utile visto che ieri sera mi ero troppo ingozzata per ricordarmi di perlustrare il percorso dell’indomani.

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Davvero le amicizie sul Camino, come la manna, durano un solo giorno e l’indomani marciscono. Lungo il tragitto per Leon, io e Maria avevamo parlato di un sacco di cose, il tutto sembrava preludere ad una specie di amicizia. Ieri invece la strada è stata costellata di silenzi e intrisa di quella reciproca malavoglia che rovina qualsiasi dialogo. Forse lei era preoccupata di non arrivare in tempo ad Astorga per l’incontro col francese, forse io mi sentivo in colpa per aver imposto la mia presenza, poi la lunga marcia tiratissima sotto il sole a picco, fatto sta che sono stata contenta quando ci siamo separate. Una mezz’ora dopo aver lasciato Astorga ho iniziato la salita verso i monti di Leon, instaurando una staffetta con un alcuni ragazzi spagnoli, ora distanziandoli, ora lasciandomi distanziare da loro. Avrei voluto liberarmene, come avrei fatto sulla meseta, ma non riuscivo: la gamba mi faceva male e, quel che era peggio, il piede destro non sopportava più la scarpa. Pur di sottrarmi al fastidioso minuetto, mi sono portata lungo una stradina, parallela allo sterrato, che ho seguito fino a Murias de Rechivaldo. Lì ho trovato un bar aperto ed ho potuto finalmente concedermi il cafè con leche. Il barista mi ha offerto mezzo croissant senza farmelo pagare. Mi sono fatta mettere il sello per meglio ricordare quel gesto gentile. Il paese è carino, niente più di una fila di case, ma le costruzioni sono di pietra e tutto è ben tenuto. Dopo Murias de Rechivaldo la strada si è fatta bellissima: percorrevo una sorta di altopiano racchiuso fra colline verde cupo solcate da lontane strade forestali; il Camino era una pista sottile di terra rossa che si srotolava diritta fra cespugli bassi e quercine dalle foglie scure. Finalmente stavo per dire addio alla meseta. Man mano che procedevo il dolore al piede si faceva più intenso, ad un certo punto stentavo a camminare persino con la scarpa praticamente slacciata. Iniziavo a preoccuparmi, a temere addirittura una lesione all’osso, quando ho notato un pellegrino piuttosto male in arnese che marciava coi sandali in luogo degli scarponcini: quella vista si è mescolata al ricordo di ciò che era capitato a Luciano ed alla cugina della Michela e finalmente le nubi della mia ottusità si sono squarciate: ho sostituito i sandali alle scarpe e sono riuscita a riprendere. Un altro segno, un altro aiuto. Meno di un’ora dopo ho attraversato Santa Catalina, un villaggio ammucchiato attorno alla chiesa, che non ho potuto fotografare, ostacolata dalla luce abbacinante del mattino. Lì ho ritrovato il folto gruppo di ragazzini partiti da Astorga pochi minuti prima di me ed ora, chi più chi meno sdraiati contro qualsiasi parete disponibile, con l’aria disfatta, dopo due sole ore di cammino. Avevo nei piedi ormai abbastanza strada per sorridere dall’alto del loro sfinimento e sono passata via, sentendomi una vera pellegrina temprata dall’esperienza. Distratta dalla piacevolezza del percorso, El Ganso mi si è parato davanti quasi all’improvviso: ho pensato a tutti i paesi che mi sono apparsi così, sorgendo dal nulla, ed alla gioia che ho provato, Hontanas, Boadilla, Calzadilla, Reliegos, Leon, Astorga. Ora sosto per qualche minuto in un bar magazzino arredato in uno stile western che non ha nulla a che vedere con questi paesini tutti pietra e fiori selvatici ma il

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proprietario è simpatico, in un suo modo rumoroso. Il gruppo di ragazzini scorre via senza entrare e si allontana rumorosamente. Sono le nove e cinque e, come minimo, ancora due ore mi separano da Rabanal, villaggio templare e tappa fondamentale del Camino medievale.

* Dopo El Ganso il percorso ha ripreso a salire in un ambiente ormai montano. Il paesaggio è ora dominato da erica e querce, erbe e fiori di montagna, i pali sul ciglio della strada rammentano la neve che domina d’inverno. Tutto però è basso, bonsai. Le montagne restano esposte e lo sguardo spazia dovunque come su di un altipiano. Il sole è splendido. In lontananza, Rabanal coi suoi campanili mi appariva come adagiato in grembo alla montagna. L’asperità della salita è stata mitigata dalla compagnia di un milanese di mezza età, un baffo simpatico e bauscione con cui ho chiacchierato volentieri e che tirava tantissimo, così non ho fatto fatica e sono arrivata rapidamente a Rabanal. Ora sono seduta nell’antiportico della chiesa di Santa Maria, fresco e riparato, l’umidità traspira dalle pietre sgretolate. Ho lasciato lo zaino e mi sono fatta mettere il sello dall’hospitalero inglese che gestisce il rifugio Gaucelmo, un piccolo paradiso medievale fra le montagne, riaperto dopo secoli dalla Confraternita di St. James: si varca una porta e sembra di entrare in un monastero fortificato. Sono entrata in chiesa. Le pareti della piccola navata immersa nella penombra erano scrostate e polverose eppure, invece di suggerire squallore, l’insieme aveva un che di accogliente, metteva a proprio agio. Un foglietto realizzato dalla Confraternita di St. James suggeriva numerosi spunti di riflessione. Ho indugiato nel silenzio fino a che due turisti spagnoli hanno iniziato a spingere sulla porta che, inceppata, non li lasciava entrare. Ho aperto dall’interno e abbiamo parlato un po’, mi hanno chiesto con un certo stupore se ero pellegrina e da dove venissi, loro sono marito e moglie, vengono da Madrid e probabilmente considerano i pellegrini qualcosa di insolito. Dal mio nascondiglio al riparo del portico sento una vecchia riferire scandalizzata all’hospitalero che il milanese le ha chiesto se il rifugio avesse la piscina. L’hospitalero partecipa con britannica compostezza dell’indignazione della signora, ed io medito tristemente sugli italiani. Andrò a bere un succo di frutta prima di tentare l’ascesa alla croce di ferro ed al rifugio Manjarin. Ho salutato il milanese che, pur in assenza di piscine, intende fermarsi qui a Rabanal. Se non fossero solo le undici mi fermerei anch’io. Spero di poter proseguire coi sandali perché altrimenti non credo di farcela. L’hospitalero mi ha avvertito, Manjarin è un luogo “very basic”. Mi intriga questa cosa, mi tornano in mente le tende militari dei primi anni di Taizè o forse sono solo attratta dall’entusiasta recensione di Jacobeo.

* Lungo la salita alla cruz de hierro mi sono fermata ad una fontana ai margini del bosco, non avevo davvero sete però so che con questo sole è meglio bere. La via sale ripida verso il Monte Irago. Pini, querce, erica e felci. La giornata è bellissima e luminosa, salire è un piacere. Lungo la strada mi ha superato l’auto targata Madrid

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con a bordo i due signori incontrati poco fa in chiesa che mi hanno salutato sbracciandosi. Sul Cammino ogni incontro sembra speciale. Per fortuna posso percorrere l’asfalto, un giorno intero senza scarpe forse mi rimetterà in sesto il piede. In tasca, da pellegrina scrupolosa, custodisco la pietra da deporre alla cruz de hierro, la croce santa piantata da tempo immemorabile sulla sommità del Monte Irago, all’ingresso della valle del Bierzo.

* Foncebadon, che le carte presentano come un “villaggio fantasma” in cima alla montagna; nella realtà è un posto malamente sfruttato e funestato da due orrendi locali incongruamente sorti fra le rovine per sfruttare la fama e la suggestione del luogo. Mi sono bevuta un cafè con leche in uno dei due bar, giusto per “prendere un po’ di sostanza” come avrebbe detto la nonna, ma il posto è davvero squallido, cioè fasullo, inutile. La ragazza al banco mi ha fatto attendere dieci minuti – da lei spesi a raccontare i fatti propri ad un avventore - prima di chiedermi cosa volessi. Ciò dimostra che qui il Camino è solo un pretesto per fare soldi. In fondo alla sala, il ragazzo svedese che ho incontrato a Villadangos termina un pranzo che non fatico ad immaginare sgradevole come il resto del locale.

* Sono a Manjarin, sotto un albero. Attorno, le rovine del villaggio ed il rifugio, una capanna di pietre e tronchi, arredata come una casa di pionieri. Ho deciso di fermarmi perché volevo godermi la montagna, per non fare del Cammino una corsa a tappe. Però il clima del rifugio è un po’ troppo “caratteristico” per i miei gusti, ma forse il mio è solo cinismo. O forse sono rimasta infantilmente delusa dal fatto che l’anziano spagnolo che ci ha accolti ha avvisato che potremo entrare solo dopo cena, mentre io avevo deciso di fermarmi alle due anche per farmi una dormita. Speravo di separarmi dal ragazzo svedese con cui sono salita fin qui da Foncebadon ma lui, ispirato dalla particolarità del luogo, ha deciso di fermarsi e come me ora vaga, perplesso e forse pentito, fra i campi e i dossi di questo villaggio abbandonato. Nel portico davanti al rifugio alcuni ragazzi parlano fra di loro, io mi sono sentita subito a disagio. Sto mangiando il pane preso ieri, con la cecina, il prosciutto di mucca di Astorga, buono ma con un forte sapore di mucca, che male si sposa col caldo ed il profluvio di mosche. Mi sono pulita le mani, che puzzavano di bestia morta, con la salvietta che avevo conservato sull’aereo, sentendomi molto previdente. Ora puzzano di bestia morta marinata nell’acqua di colonia. Alla cruz de hierro ho abbandonato la mia pietra ma non mi ci sono soffermata né coi piedi né con la mente, un po’ perché ero con lo svedese, un po’ perché il posto mi ricordava più un mausoleo hippy che un punto fermo del misticismo jacopeo. Legati attorno alla croce, sparsi sull’alto cumulo di pietre, tantissimi oggetti, lasciati dai pellegrini in pegno o in ricordo. Per un attimo lo spirito di emulazione mi stava inducendo a lasciare la conchiglia irlandese raccolta sulla spiaggia a North Bull Island, molto, molto prima che tutto cominciasse. Ma non me la sono sentita di abbandonare al gusto di un occasionale beau geste un oggetto così forte, la prova materiale della rivelazione che questo

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destino (o destinazione?) preesisteva addirittura alla chiamata. Così, copiando l’idea dallo svedese, ho lasciato una delle mie pur preziose monetine con l’arpa. Provavo un sottile disagio in mezzo a tutta quella paccottiglia, frutta marcia e fotografie – di morti? di vivi? – da cui non traevo alcun messaggio o suggestione emotiva. I luoghi importanti sono quelli che parlano al cuore senza interposizioni. Quanto più intensa era stata la sosta nella chiesa di Rabanal, l’interno cadente e sbrecciato, la luce che si rovesciava dall’unica finestrella quadrata. Alle richieste seguono sempre le risposte. Oggi camminavo bene, sarei arrivata senza accorgermene ad El Acebo, ma temevo di rimpiangere l’occasione perduta ed anche di stancarmi eccessivamente. Così, giunta a Manjarin ho preso la grande decisione, mi sono fermata e sono entrata a chiedere se potevo rimanere per la notte. Il tempo sta cambiando, le nuvole si affollano all’orizzonte, mi piacerebbe provare a dormire sotto quest’albero.

* Ritornata al rifugio ho trovato la troupe incrociata a Boadilla che sta girando il film sul Camino. Macchine e persone hanno invaso il posto e mentre chiacchieravo coi due ragazzi dell’altro giorno, sempre più griffati, palestrati ed unti d’olio, una tipa mi ha chiesto se, in assenza di altri pellegrini, volessi fare la comparsa. Naturalmente ho risposto di no, l’idea di mettermi in gioco, persino per una cosa tanto banale, mi atterriva e non mi andava che qualche imbecille si permettesse di dirmi che stavo sbagliando. Ho chiamato la Michela, dall’altra parte del mondo. Lei e la Lori hanno tentato di convincermi, ma a me raccontare bastava, condividere il simulacro di un’avventura. Era così strano essere in un posto tanto lontano da tutto, in mezzo a quelle strane montagne così verdi, calpestare la polvere di Manjarin e contemporaneamente parlare con loro due, sentirmi quasi risucchiata nella familiare rete di atteggiamenti e rapporti. Bello, finché è durato. Il sole è riapparso e si è alzato il vento. I ragazzi che gravitano attorno al rifugio sono ancora seduti a parlare sulle panche sotto il pergolato, è come sbattere contro una campana di vetro. Poiché odio mendicare compagnia, ho ripreso a vagare e mi sono imbattuta in una fonte, alla fine delle quattro case diroccate che compongono il villaggio, ora scrivo nel prato lì accanto, affacciato sulle montagne. Le mucche rientrate dal pascolo si abbeverano all’altra estremità della fonte e muggiscono, facendo risuonare i campanacci, mentre i vitellini corrono qua e là.

* Alla fonte ho fatto amicizia con una delle due ragazze che vivono qui, una spagnola di Madrid, che resterà fino all’autunno. Ha un bel modo di fare ed è simpatica, forse per questo non sono riuscita a capire il senso della sua scelta e lei non mi ha spiegato le sue motivazioni. Strana giornata. Gentilmente, Tomas l’hospitalero-templare mi ha offerto di riposare sul suo letto al pian terreno, perché il soppalco di giorno non è praticabile. Il letto era una specie di catafalco, alto, massiccio, comodo. Le persone entravano e

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uscivano ed io mi sentivo imbarazzata ad oziare mentre loro si davano da fare ma la mia offerta di dare una mano è stata rifiutata. La perfezione non esiste, funestata com’è da mosche, formiche, dall’esistenza degli altri, dal doversi in ogni caso rapportare a loro. Tomas mi ha messo il sello, la croce dei templari ed il motto Non nobis domine. Ogni volta che passa un gruppo di pellegrini Tomas suona la campanella del rifugio, memoria dei tempi in cui la campana impediva ai pellegrini di precipitare nei crepacci o di smarrirsi fra le nebbie invernali. La troupe è andata a caricare un po’ di figuranti pellegrini volenterosi a Rabanal, hanno girato qualche scena, hanno fatto loro firmare un contrattino di ingaggio temporaneo e li hanno riportati indietro coi furgoni. Verso sera, nel tentativo di placare i morsi della fame, in attesa di una cena che nessuno sembrava ansioso di preparare, io e lo svedese ci siamo seduti nel prato lungo il declivio alle spalle di Manjarin. Abbiamo ammirato la distesa sconfinata di montagne verde cupo; non si scorgeva alcun segno di vita ad eccezione di un filare di pale eoliche su di un crinale lontano. Poi lo spagnolo anziano che vive qui quasi tutto l’anno, ha coinvolto lo spagnolo piccolino e noi tre pellegrini nel tentativo di domare un puledrino, tentativo durato a dir tanto dieci minuti. Anche quella mi è sembrata un’azione senza costrutto, vera? falsa? Parte della coreografia? Poi siamo ritornati al rifugio, ci siamo seduti in circolo sotto il bersò ad ascoltare gli altri parlare. Tomas ha messo a palla il canto Non nobis domine - che era stata anche la splendida colonna sonora di Henry V con Kenneth Branagh - una cosa da pelle d’oca. Infine si è mangiato, Tomas ha recitato una preghiera e ci siamo gettati sul cibo. La cena era costituita da un piatto di verdure aromatizzate con tante erbe preparato sin dal primo pomeriggio dallo spagnolo anziano, buonissimo e di cui avrei preso dieci volte. Non potendo, ho preso solo due volte e mi sono ingozzata di pane. Tomas raccontava aneddoti sul Camino poi, con solennità e commozione ha annunciato la riapertura del rifugio di Foncebadon, chiuso da centinaia di anni. Secoli. In quel momento mi sono sentita sfiorata dall’ala della storia. Eravamo lì, anche noi pellegrini, anche noi avevano attraversato le montagne, come per secoli altri avevano fatto prima di noi, fino a quel tempo remoto in cui a Foncebadon esisteva un rifugio, e che ora era ritornato, il Cammino si ritrovava sempre uguale a sé. Poi Tomas si è messo a scherzare sul fatto di essersi sporcato di pomodoro la cotta con disegnata la croce dei templari, che indossa abitualmente, e l’emozione del momento è passata. Finita la cena siamo entrati nel rifugio ed abbiamo chiacchierato a bassa voce con le due ragazze, mentre rigovernavano alla luce delle fioche candele e dei lumini che la corrente si ostinava a spegnere. Poi noi tre pellegrini, io, lo svedese e una ragazza basca, ci siamo arrampicati per una scaletta a pioli fino al sottotetto, tiepido per il calore accumulato durante il giorno. Ora sono sdraiata nel sottotetto pieno di materassi, ciascuno con una bella coperta. La lampadina è ancora accesa e sotto la ragazza brasiliana sta finendo di lavare i piatti. Si è spenta la luce, per ultima anche la brasiliana è uscita, siamo solo noi tre questa notte nel rifugio, che può ospitare fino a venti persone. Qui sotto dormirà Tomas, i ragazzi ed il vecchio spagnolo dormono nelle tende nel prato affacciato

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sulla vallata. Nella notte echeggiano le voci della troupe, ritornata per girare in notturna alcune scene dal più caratteristico dei rifugi del Camino. Mah… 6 Luglio 2003 Manjarin – Cacabelos (38,5 km) Ho dormito splendidamente, il posto era caldino e silenzioso. Alle sette – ci era stato tassativamente vietato alzarsi prima, secondo Tomas i pellegrini devono riposare - ci siamo vestiti al buio e siamo scesi aggrappati alla scala di legno, calando i sacchi a pelo nella stanza sottostante, sovraccarica di oggetti. Mi guardavo attorno, chiedendomi quanti di tutti quei contenitori e barattoli incrostati servissero davvero e quanto fossero semplicemente stati dimenticati. Abbiamo fatto una spartana colazione coi ragazzi di quella strana comune, che forse sarebbe piaciuta a Christy. Una delle ragazze si è scusata per il poco che ci poteva offrire ed io mi sono sentita in colpa per i miei Prince. Li ho offerti, ma non li hanno voluti, voi dovrete camminare. Sono fuggita prima degli altri per evitare la raccapricciante toilette di legno (dove “ho visto cose che voi umani…”), ma sul Camino l’intimità è un bene tanto prezioso quanto precario. Mi chiedo se non sia snobismo questa ostentazione di un preteso ritorno alle origini. Perché la cucina a gas sì e un gabinetto chimico, no? In questo compiacimento autoreferenziale, nell’eccesso del caratteristico, ho avuto la sensazione che si diluisse il senso dell’accoglienza. O forse è solo esasperazione per un pomeriggio ozioso che non ha prodotto i frutti che speravo. Del resto non posso addebitare ad altri il peso della mia timidezza. Così mi sono ritrovata con Christian, e Iniri, la ragazza basca, e con loro ho proseguito, lungo le ripide curve che scendevano dal Monte Irago. Mentre contemplavamo il mare di nubi, racchiuso dalla massa verde smeraldo delle montagne attorno, un ciclista austriaco si è fermato a chiacchierare ed a scattare una foto, un insegnante di sci dal viso incartapecorito dal sole. Ad un certo punto dalla curva è sbucata un’auto lanciata a velocità folle. Con incredibile prontezza l’austriaco ha raccolto e scagliato un sasso fra le ruote della macchina, che ha rallentato di colpo, poi ha ripreso la bici e se ne è andato molto soddisfatto. Ieri Tomas ci spiegava che le macchine sono un problema serio in questo tratto di Camino, la gente del posto si scatena lungo la bella strada tutta curve, spesso mettendo in serio pericolo l’incolumità dei pellegrini. Ci siamo immersi nel mare di nubi e, dopo aver salutato Christian, il cui misticismo salutista imbevuto di rigore filologico gli impediva di proseguire sull’asfalto, io e Imiri in circa un’ora abbiamo raggiunto El Acebo, villaggio montano dalle vie lastricate, dove la nuvola offuscava le sagome delle case di pietra e delle verande in legno scurito dal tempo, come un paese valdostano nella bruma di un mattino di novembre. Al bar di El Acebo abbiamo fatto colazione ed io ne ho approfittato per lavarmi – finalmente - i denti e le mani, mentre Iniri parlava con una signora che conosceva. Siamo uscite dal paese sempre camminando nella nuvola, mentre la strada costeggiava i castagni ed io rimpiangevo una volta di più la mia scelta di ieri, pensando a quanto mi sarebbe piaciuto passare la notte in quel bel villaggio. Un’ora dopo, arrivate a Riego de Ambros, altro bellissimo paesino di montagna, la polizia ci ha fatto abbandonare la carretera, occupata da un rally del campionato di Spagna. Abbiamo ripreso il Camino, calandoci per il letto roccioso di un torrente in secca,

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fino ad una valletta disseminata di grandi querce e castagni, dove ci siamo fermate a riposare ed io anche a sgranocchiare qualche Prince. Lì siamo state raggiunte da Christian e siamo ripartiti assieme. Presto ci siamo ritrovati su di uno sterrato aspro e sassoso, funestato da continui incroci con le rumorose ed instabili macchine del rally, che rombavano su e giù per la valle a malapena protetti da precari nastri di plastica di dubbia utilità. Man mano che scendeva verso Molinaseca il sentiero sembrava addentrarsi nel grembo stesso della montagna, per poi curvare a gomito lungo il dirupo sino ad uno spigolo affacciato sulla vallata. Iniri ci ha raccontato che l’anno scorso si era seduta proprio lì ad ascoltare la musica e contemplare la valle sotto di lei, stretta e profonda come un cuneo, con le case di Molinaseca sullo sfondo. Quest’anno ha perso il lettore di cassette da qualche parte lungo il Camino, insieme al cappellino e infatti ha tutta la testa ustionata. Iniri ha diciannove anni ma è la seconda volta che percorre il Camino e lo rifarà in agosto col ragazzo. Ieri aveva spiccicato forse due parole, allora oggi ho cercato di capire che tipo fosse e alla fine ho trovato nel calcio il catalizzatore della nostra conversazione, così per tutta la mattina abbiamo parlato, in un esperanto italo-ispano-inglese, di calciatori e dei pochi personaggi spagnoli da rotocalco che conosco. Nei pressi di Molinaseca grande subbuglio per il rally, l'evento mondano dell’anno. La gente si accalcava fin sulle creste della montagna, rendendo ancor più difficile per noi farci largo con lo zaino lungo il sentiero. Il rifugio era in una bella chiesona dai fianchi larghi come un magazzino. Avevamo le montagne di Leon alle nostre spalle, eravamo ormai nel Bierzo, la valle che porta al passo di O Cebreiro e di lì alla Galizia. Non abbiamo visitato Molinaseca, limitandoci a percorrere le vie esterne al centro, fra le auto rombanti. Ci siamo fermati per una sosta in un bar affollato dagli spettatori del rally dove Christian ha mangiato qualcosa, mentre io ho bevuto solo un succo d’arancia e Iniri ha telefonato per circa un’ora. Avrei dovuto dire ai ragazzi, voi andate, io mi fermo qui a fare un giro per il paese, invece ho lasciato perdere, subendo la compagnia altrui come il consueto male necessario da cui so liberarmi in un solo modo, cioè arrivando alla meta il più rapidamente possibile. Dopo la sosta abbiamo ripreso la strada per Ponferrada. In un primo tempo ci ha stupito la rapidità con cui abbiamo raggiunto la città, ma poi siamo stati costretti ad un assurdo aggiramento del centro abitato, sotto il sole, che ci ha portato via oltre un’ora. Iniri mi ha rivelato allora una grande verità del Camino, che ha capovolto tutte le mie precedenti convinzioni: il Camino è “siempre mas largo”, la carretera è sempre più corta. Da qui sorge la domanda, se sono le frecce gialle che “fanno” il Camino, quali sono le ragioni sottintese a queste frecce? E queste ragioni sono sempre legittime? Lungo la strada ci siamo separati, Christian è di nuovo andato avanti per conto proprio, poco dopo Iniri si è sdraiata per un pisolino sulla soglia di una villetta disabitata - very pilgrim! – ed io, che volevo arrivare subito a Ponferrada per poi proseguire oltre, ho ripreso la strada, arrancando sotto il sole del pomeriggio. Entrata finalmente in città, la sola cosa che mi è piaciuta di Ponferrada - la sola che ho notato accecata com’ero dalla frenesia di proseguire – è stata il castello dei templari, una costruzione tutta torrioni, torrette e ponticelli rampanti, bandiere e

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stendardi che garrivano al vento. Purtroppo avevo finito la pellicola e non ho potuto fotografarlo. Nei pressi del castello ho incontrato Josè, il pellegrino portoghese che mi ha raccomandato di andare avanti perché al rifugio era arrivato un gruppo di 60 persone e non c’era più posto. In centro c’era una sorta di sagra medievale e, mentre vagavo fra le bancarelle cercando un posto dove sedermi, ho incontrato Christian. Avevo progettato di riposarmi un po’, girare per Ponferrada, bere qualcosa, comprare la pellicola, invece ho rosicchiato un pezzo di sabbioso cioccolato alla cannella offertomi da Christian e sono ripartita con lui, facendomi trascinare in una mostruosa camminata di 14 km, prima attraverso l’interminabile e squallida periferia di Ponferrada, poi per altri quattro paesi, tutti desolatamente privi di alberghi o pensioni di sorta. Poco fuori Ponferrada abbiamo incontrato un gruppo di pellegrini che si riposava accanto ad una fontanella, una ragazza svizzera munita di una splendida guida del Camino in tedesco, un’americana di Seattle che mi ha scambiato per una compatriota a causa della maglietta ed un messicano dalle gambe devastate per uno strappo muscolare. Abbiamo camminato assieme per qualche km, poi ad un certo punto io, che non sopportavo la parlata della svizzera, troppo simile a quello della mia odiata cuginastra svizzera, mi sono staccata; sono partita col mio passo più veloce, consapevole del fatto che, se mi fossi fermata – anche solo ad un semaforo – non sarei mai riuscita a ripartire. Dopo un altro po’ Christian mi ha raggiunto ed abbiamo ripreso insieme. Per i primi dieci km il percorso è stato decisamente brutto, una strada polverosa fra campi insignificanti e sterpaglia, che congiungeva agglomerati piatti e privi di qualsiasi attrattiva. Ad ogni paese cercavo di individuare un luogo ove fermarmi per dormire, ma invano. Come in “passaggio a nord ovest”, sapevo che una semplice sosta sarebbe stata inutile e pericolosa, dovevo arrivare in fondo. Negli ultimi cinque km, da Camponaraya a Cacabelos il sentiero è salito inoltrandosi fra boschetti, vigneti e canali, consentendoci di godere finalmente della decantata bellezza della valle del Bierzo. Io mi sentivo ormai male dalla stanchezza e dalla sete, tuttavia, per rabbia o per puntiglio, non intendevo distanziare Christian e volevo raggiungere al più presto Cacabelos. Lui, dal canto suo, essendo bionico e soprattutto provvisto di una disgustosa imbracatura interna per bere munita di cannuccia che mi ricordava sinistramente “Dune”, non accusava alcun cedimento né ha mai provato la necessità di fermarsi. Alle porte di Cacabelos, un parco giochi ha rivelato una fonte, bella, grande, con un getto forte e intenso come una lama di ghiaccio. Mi ci sono letteralmente gettata sopra, fulminando con lo sguardo un bambino che stava andando a bere. Sono rimasta attaccata al getto per almeno cinque minuti, non mi sembrava neppure di bere, era come se con ogni sorso mi entrasse nei polmoni una boccata d’aria fresca. Cacabelos mi è apparso come un’unica interminabile sequela rettilinea di costruzioni ad un piano, gente seduta fuori dalle soglie, aria prospera da villeggiatura adriatica anni sessanta. Quando abbiamo raggiunto il centro sono entrata nel primo hostal, una pensione sopra una pulperia, scintillante per pulizia e marmi. Stavo malissimo e anche attendere nel bar che il proprietario recuperasse la chiave mi è sembrato uno sforzo superiore alle mie capacità. Ho salito le scale dietro al proprietario solo con la forza di volontà e solo perché non avevo scelta. Una volta entrata in camera,

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sono rimasta per oltre un’ora seduta sul letto senza riuscire a muovermi od articolare pensieri coerenti. Verso le otto mi sono sentita in condizioni di camminare, sono scesa ed ho girato un pochino il paese. Il centro era il tratto mediano della lunga strada principale, costeggiato da negozi, bar e ristoranti. Mi sono fermata ad una pulperia dove ho ordinato una tapa di polpo alla gallega accompagnandola con una birra. Mi hanno servito una porzione enorme e gustosissima di polpo lessato, tagliato a fettine, saltato nell’olio, cosparso di pimento e ricomposto a formare una piramide. Ora sono nel bar sotto la pensione per la seconda birra: fumo, televisioni accese, gente che gioca a biliardo, il ginocchio mi fa un male terribile e così i piedi. E dire che la prima parte della giornata era stata deliziosa. Ho iniziato a patire dal momento in cui ci siamo dovuti arrampicare sulla roccia e poi sia l’entrata che l’uscita da Ponferrada sono state un incubo. Da stamattina ho percorso solo 37 km, ma mi sono sfondata le ossa dei piedi camminando per 10km sulle pietre coi sandali, a causa di quello stupido rally. Mi sento la febbre, non riesco a camminare, non ho nemmeno apposto un sello. Non ci si può ridurre così. In tutto il giorno ho mangiato appena qualche biscotto e bevuto un’aranciata a Molinaseca, eppure ho cercato di tenere il passo dello svedese, non sopportavo l’idea di fermarmi o di cedere, di arrendermi. E tutto questo senza mai smettere di scambiare con lui in inglese le consuete banalità politically correct. Lui fa il pranoterapeuta ed è molto sensibile all’aspetto salutistico del Camino, che vive come una splendida occasione di fitness, che vorrebbe fosse proposta alle giovani generazioni, per sottrarle alle trappole delle ore piccole e dello junk food. Con la mente aperta del nordico illuminato percorre questi pittoreschi luoghi, ancora intrisi di superstizione medievale, e viaggia con la zucca sullo zaino per meglio entrare nello spirito dell’esperienza. Abbiamo percorso l’ultimo tratto di 6 km in un’ora, vale a dire alla velocità di un uomo ben allenato su terreno pianeggiante. Poi mi stupisco che, giunta in albergo, non riuscissi neppure a muovermi. E stanotte non ho guardato le montagne meravigliose o il cielo, sentivo la gente girare il film e mi crogiolavo nel tepore del sacco a pelo, non ho neppure fotografato il castello dei templari e non ho comprato cartoline che me ne riproducessero il ricordo. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la preghiera o col Camino. E’ solo l’espressione peggiore di quella frenesia autodistruttiva che a volte sfugge al mio controllo come una motosega impazzita. Ora vado, devo anche restituire la penna alla barista, poiché la mia ha sboccato, giustamente disgustata dalla stupidità e dalla follia della sua proprietaria. Ha un che di emblematico questo essere senza mezzi di espressione - niente fotografie, niente penna, niente sello - proprio nella giornata in cui la frenesia di arrivare ha preso il sopravvento sul Cammino, una giornata di muta follia, insomma, di cui – il suggerimento è inequivocabile - devo cancellare persino la memoria. 7 luglio 2003 Cacabelos – Vega de Valcarce (26 km) Biro nuova, comprata a Villafranca del Bierzo. Stamattina ho dormito fino alle otto, stavo ancora male ma soprattutto mi sentivo depressa e svogliata. Ripartire è stato difficile: lo sforzo di ieri mi aveva spaccato in due, non solo le gambe ma anche il morale, mi sentivo asciugata emotivamente.

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Ogni volta mi rendo conto che camminare in compagnia fa macinare più km con meno fatica, ma annulla i ritmi interiori, distrugge il ricordo dei luoghi, impedisce la riflessione. Anche l’altro ieri, non ho visto nè annotato nulla della bellissima salita fra cespugli bassi, fiori ed erica, limitandomi a qualche doveroso apprezzamento scambiato con lo svedese. La cruz de hierro, che aveva creato in me tante aspettative, meritava forse un’attenzione meno superficiale; invece ne ho scorto solo gli aspetti eclatanti, la frutta guasta e la paccottiglia, ho lasciato il mio sasso senza convinzione e la moneta con l’arpa quasi per gioco. Stamane la tristezza è stata però rapidamente mitigata dal prodigioso incontro con una churreria aperta di primo mattino, un cubicolo in cui vi era posto a malapena per la friggitrice e la signora sorridente che ingannava il tempo leggendo una rivista. Così, dopo il cafè con leche in un american bar tutto velluti rossi e atmosfera stantia, mi sono concessa sei libidinosissimi pezzettoni di churro bollente, appena fritto. Nell’uscire da Cacabelos sono riuscita a farmi mettere il sello all’albergue, anch’esso, come quelli di Shagun e di Molinaseca, ospitato in una chiesa, un bell’edificio sulle rive di un fiume dal fondale basso e roccioso. Il rifugio era già chiuso ma una ragazza che faceva le pulizie ha risposto al mio richiamo e, con fare cospiratore (“non si potrebbe, ma…” e perché poi?), si è fatta passare la credencial fra le sbarre del cancello, rendendomela di soppiatto timbrata. Due stradini sembravano discutere nuovi ed artistici modi di collocare le beole lungo un interminabile marciapiede. Mi sono chiesta quanti mesi sarebbero stati loro necessari per terminare il lavoro. La strada che da Cacabelos porta a Villafranca, corre sinuosa ed in lieve salita lungo i molli fianchi delle colline, costeggiata da innumerevoli alberi da frutto: Cacabelos è la capitale delle ciliegie. Ingolosita da un cartello affacciato sul ciglio della strada, ho comprato un kg di ciliegie gialle e rosa, grandi come piccole prugne, sugose, dolcissime, da una signora che le vendeva nel garage di casa. Me le ha pesate con una vecchia stadera, rabboccandomene un bel po’ e mi ha augurato buon cammino. Ogni augurio istilla nuova fiducia nella mia capacità di compierlo, questo Cammino; è la conferma di un’appartenenza che da sola non saprei scorgere, persa nel mio misurare km e ore, nel continuo pensare al cibo, al ginocchio o alle gambe. E’ stato facile arrivare a Villafranca in compagnia di un kg di ciliegie, i cui noccioli ho disseminato come Pollicino lungo tutto il percorso, sfiorata ogni tanto dai camion che mi stringevano fra la massicciata e il fosso. Il Bierzo è davvero un luogo benedetto, colline morbide e accoglienti disseminate di filari, orti, campi coltivati, un trionfo della campagna che rammenta la prosperità, la dolcezza e l’inclinazione disassata delle colline dell’Oltrepo’. L’ingresso di Villafranca è sovrastato dalla chiesa romanica di San Giacomo, col magnifico portale del perdono, che consentiva ai pellegrini malati o moribondi la stessa indulgenza che avrebbero guadagnato a Santiago. Mi sono inerpicata sino lì, stremata, sentendomi anch’io prossima alla fine del viaggio. La chiesa era splendida, una sola ampia navata, dominata da una finestrella centrale che inondava di luce bianchissima un grande Crocefisso di legno. Una signora, seduta su una panca, vendeva brutte immaginette. Non avevo pellicola, ne ho comprata una, nel vano tentativo di serbare il ricordo tangibile di tanta bellezza.

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Mentre mi trascinavo fra le salite diagonali ed i selciati pietrosi di Villafranca, ho incrociato un furgone coi ragazzi del film, ci siamo sbracciati. Ho pensato all’immagine sempre più sderenata che avrò fornito e mi sono chiesta se loro, dopo averla sfiorata ripetutamente, si siano alla fine trovati un po’ più coinvolti da questa cosa, che a Boadilla avevano commentato con toni beffardi ma che già a Manjarin avevano guardato con occhi diversi. Ho comprato le pellicole e la penna, mi sono presa un cafè con leche e ho riposato un poco su di una panchina in una piazza del centro. Questi ultimi giorni, e soprattutto il peggiorare del dolore al ginocchio, hanno cambiato il mio modo di vivere i tempi, mi trovo costretta a soste più frequenti e più brevi, che però assaporo meno di quanto non facessi all’inizio. Dopo l’uscita dalla cittadina per un bel ponte massiccio, il Bierzo si riduce ad una stretta gola entro cui si incassa il Rio Valcarce. Non ho preso la deviazione in montagna per la Portela, tracciata allo scopo di evitare ai pellegrini l’asfalto e il traffico pesante del fondovalle, ma più lunga e particolarmente aspra. La scelta si è rivelata felice, perché il Cammino proseguiva sì lungo la nazionale ma - contrariamente a quanto indicato sulle mie carte - era stato protetto da un robusto guard rail in cemento, mentre la nuova autostrada ha comunque ridotto il traffico ad un rivolo trascurabile. Ho chiamato in studio, c’era stata un’udienza importante ma si erano dimenticati della promessa di chiamarmi per farmi sapere com’era andata. Mentre parlavo, costeggiavo una cascatella che scendeva dal fianco della collina e, chiusa fra le mascelle della montagna all’ombra dell’autostrada, mi sentivo triste e dimenticata. Poco prima di Pereje ho incontrato Josè il portoghese, che mangiava sotto un albero un panino con la frittata generosamente offerto – mi ha precisato - dalle monache di Villafranca; era in compagnia dell’americana di Seattle, cui ha invece magnificato le proprietà terapeutiche del mio labello. Bisogna dire che sa valorizzare i propri sponsor. Poi mi ha trattenuto mezz’ora a chiacchierare ed a descrivermi i vari rifugi della Galizia. L’americana ne ha approfittato per sfuggirgli, lasciando me a remare, come nella fiaba del barcaiolo. Ma poi sono scappata anch’io, dopo avergli regalato dieci euro per dormire in qualche posto decente. Pereje è un pugno di case all’imbocco della superstrada, muri di pietra qua e là rappezzati con la calce, insegne oscillanti, balaustre di legno e tetti di ardesia. Sono entrata in questo rifugio nuovo, ancora odoroso di vernice, silenzioso e deserto, e sono rimasta per un po’ a scrivere. Solo il cigolio delle travi, il cinguettio degli uccelli ed il ronzio delle mosche accompagnano le mie incuriosite esplorazioni. Benché sia già l’una ho percorso solo 13 km, ma a Pereje ho tagliato il traguardo dei 300 km, quindi a Santiago ne mancano solo 175. Non mi sembra vero. Spero di farcela a raggiungere Vega de la Valcarce ad un’ora decente, così da riposarmi sul serio.

* Mezz’ora dopo Pereje mi sono fermata in un’area di sosta, stretta fra l’ombra sovrastante dell’autostrada, incassata a mezza altezza nel fianco della collina, ed il

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letto del fiume Valcarce che correva nel cuore della vallata, nascosto dalla vegetazione. Mi hanno accolto una bella fontana gorgogliante e panche in pietra. Ho quindi proseguito lungo la nazionale, con occasionali deviazioni all’ombra dei castagni che conducevano a paesini silenziosi, Trabadelo, la Portela, Ambasmestas, lungo strade secondarie costellate dalle carcasse di grandi alberi abbattuti e lasciati ad ammuffire. A Trabadelo ho stentato ad individuare il rifugio, camuffato da casa privata. Quando sono entrata – una sala con tanti divani dall’aspetto confortevole e un po’ di gente sdraiata oziosamente qua e là – ho spiegato all’hospitalero che volevo solo farmi mettere il sello, al che lui, deluso, me lo ha apposto di malavoglia. Ad Ambasmestas, bellissimo nome, una signora molto vecchia seduta all’angolo di una strada vendeva un fascio di bordoni dalle sommità assurdamente elaborate, destinate agli stessi amanti del pittoresco che si comprano le zucche o i cappelli con la conchiglia, primo ingenuo segno di quella commercializzazione del Camino che mi attende sulla via per la Galizia. Poco distante mi sono fermata ad una bella fonte sotto una pensilina di legno, nella grata dello scarico luccicavano irraggiungibili due grosse ciliegie bianche e rosa, le superfici velate come immagini riflesse. Dopo Ambasmestas il guard rail di cemento è terminato e mi sono trovata in mezzo alla nazionale, all’altezza di una orribile stazione di servizio, dove si vendevano ciliegie ad un prezzo quadruplo di quello pagato a Cacabelos. Per fortuna ho imboccato subito la deviazione per Vega de la Valcarce e non ci sono più state né autostrada, né nazionale, solo una stradina che attraversava il bosco addentrandosi negli ultimi recessi della valle. La poesia si è un po’ incrinata quando mi sono imbattuta in un enorme pilone che sorreggeva il viadotto dell’autostrada, poco prima di Vega. Ma sopra vi era verniciato un bell’augurio francescano, “buen camino buena gente”, sovrastato da un enorme tau giallo.

* Arrivata a Vega mi sono sistemata nel rifugio, accogliente anche se vecchiotto e dotato di docce, lavatrici, corde per stendere. Ho fatto immediatamente una doccia, ho conversato con due arzille signore italiane, partite da Saint Jean con zaini di dieci chili. Ora mi riposo sulla playa fluvial, nome pomposo per un prato in riva al fiume, con panchine, qualche scaletta per immergersi e alberi a fare ombra. Le colline attorno non sembrano tanto alte, eppure mi trovo ai piedi del temibile Cebreiro. Mi piace molto quest’atmosfera da mezza montagna, eppure incontaminata, che ho trovato solo in certe valli remote dell’Alto Adige, ad esempio in Val Venosta. Ho immerso i piedi nell’acqua gelida del Rio Valcarce, per pochi secondi appena, il freddo sembrava spiccarmeli dalle caviglie da un momento all’altro. Avevo appena iniziato a scrivere quando ho intavolato una conversazione con un ciclista romano, belloccio – quasi un sosia di Stefano Accorsi - ma un po’ troppo concentrato su se stesso. Siamo rimasti a parlare oltre due ore, poi alle sette è ripartito per affrontare col fresco la salita di O Cebreiro. Si è discorso, come al solito, del Camino, delle persone strane o buffe incontrate lungo il percorso, degli albergue - ad esempio, a Molinaseca in quanto ciclista ha dovuto dormire all’aperto - delle strade, del tempo. Chissà come ha fatto Davide Gandini ad incontrare

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unicamente persone con cui scambiare i profondi pensieri di cui ha riferito ne Il Portico della Gloria … Del resto sto iniziando a comprendere che sul Camino non si raccoglie niente più di quello che si è seminato e si trova solo ciò che si ha già: il dono è poterlo distinguere con maggior nitidezza. Salutato il romano, sono andata al rifugio per mettere il sello, registrarmi e fare un po’ di bucato: in realtà ho solo lavato le calze, sperando che l’ultimo sole del tramonto ne facesse giustizia. Poi ho visitato la chiesa di San Francesco, il cui sello era lo stesso tau riprodotto sul pilone dell’autostrada e col medesimo motto. Anche San Francesco è passato di qui e questo pensiero mi emoziona. Ho comprato le barrette di muesli al supermercato ed i biscotti in una minuscola panetteria, stranamente collocata nel seminterrato di una villetta all’inizio del paese. La signora, gentilissima, non sapeva più cosa offrirmi ed io mi sono vergognata di comprare solo un sacchetto di biscottoni casalinghi al burro. La gola mi ha portato poi su di una panchina in riva al fiume, dove ho dato fondo a 750 ml di yogurt dolce “la Asturiana”(buono!). Quando credevo di poter scrivere in pace davanti ad un bicchiere di sidro in un bar, scelto dopo accurata selezione fra i tre esistenti nel paese, mi sono imbattuta in Josè, che mi ha presentato a tutto il locale e si è prodotto in manifestazioni di amicizia eccessive, imbarazzanti e forse un po’ alcoliche. Dopo di che nel bar si è improvvisamente creata un’atmosfera da romanzo di Simenon, con la barista slava, sfatta, che biascicava malmostosa un po’ di italiano, l’avventore ubriaco, il barista baffuto ed ingrugnito che mi scrutava con diffidenza. L’anelata pausa di meditazione si è così forzatamente tradotta in un fugace intermezzo, ho ingollato il mio sidro, pagato un paio di giri al mio sempre troppo riconoscente amico e sono fuggita. Ora sono approdata in un ristorantino dove spero di poter restare tranquilla e sola. Ho ordinato la zuppa, o meglio il caldo, una specie di passato grezzo di verdura e patate, buonissimo, e me ne è arrivata un’intera bacinella tutta per me! Mi sta sopraffacendo la stanchezza e comunque ho mangiato troppo. L’idea di affrontare O Cebreiro mi spaventa, ma la vicinanza della Galizia è elettrizzante. Vorrei condividere questa emozione con qualcuno con cui ho fatto un po’ di strada, Veronica, la ragazza italiana di Calzadilla, o il ragazzo brasiliano, o Maria, quelli con cui ho condiviso gli interminabili km della meseta, o Federica o Ignatio o Iniri. Non riesco ancora a pensare a cosa farò dopo O Cebreiro. Anche il padrone del ristorante mi ha detto, mangi che domani le tocca la salita più dura. Dopo la trota, cioè due trotone fritte con le patate – che però ho lasciato – ho preso la torta di arujo (?) una specie di cheese cake con un caramello liquoroso, buonissimo. Mi sa che stanotte ci vorrà una dose doppia di buscopan, piacevole alternativa all’aulin di ieri sera. Uscendo dal ristorante ho dimenticato sulla sedia il sacchetto dei biscotti e la signora mi ha inseguito in strada per restituirmelo.

*

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Sono tornata a sedermi vicino al ponte, l’aria è ancora tiepida, gli uccelli giocano nel cielo, gli alberi profumano. In sere così, in posti così, viene il desiderio di rimanere per sempre. A Hontanas sarei rimasta per sempre, a El Acebo, a Rabanal, a Castrojeriz, ad Astorga, a Mansilla, a Carrion. In tutti quei luoghi che ad un primo sguardo appaiono accoglienti e quieti. Poi l’incantesimo si spezza e torno preda del nervosismo che mi induce a fuggire.

* In quest’umida sala al pian terreno del rifugio l’aria sa di muffa, i letti sono in gelido tubolare di ferro. Oltre al mio, solo un letto è occupato ma la proprietaria dello zaino non è rientrata. Oggi ho camminato meno e il fisico me ne è grato, prova ne è che alle undici ancora riesco a stare sveglia, a sfruculiare fra le cartine, a pensare alla strada di domani, a contare e ricontare i km. Al rientro, ho chiacchierato un po’ con le signore italiane, che ho scoperto essere le “signore di Prato” con cui Veronica aveva affrontato i primi tratti del Camino. Non sappiamo dove sia Veronica, se avanti o dietro di noi, ma probabilmente è a Leon o poco più avanti. Da una tappa all’altra si instaura un ordito fra le persone, fili che vanno e vengono. Il romano mi ha mandato i saluti di Josè il portoghese, ricevuti senza sapere chi fossi io o chi fosse lui. Il tipo sfinito che avevo incontrato per strada è qui al rifugio, ma domani torna a casa, lui è di Ceuta, il possedimento africano della Spagna, ha lineamenti marcati e mi ha spiegato che gli piace molto vivere in Africa perché può scorrazzare nel deserto con la macchina. Una delle signore mi ha illuminato: ciò che affligge il mio piede destro non è una misteriosa calcificazione dell’osso, bensì una normale tendinite. Così mi balocco con questo nuovo concetto, e non so se sentirmi consolata o preoccupata. Loro, come quasi tutti gli occupanti del rifugio, domani mattina si faranno trasportare gli zaini in macchina fino a O Cebreiro, è un servizio offerto dal rifugio e dai vari bar o ristoranti di Vega. Io preferisco tentare da sola, senza aiuti esterni, sempre che i miei poveri piedi e le gambe lo consentano. Ci sto prendendo gusto, i paesaggi ora sono davvero belli, la strada si consuma, le persone si riconoscono, la Galizia è vicina. Non è quell’illuminazione prepotente in cui, con una certa ingenuità, speravo. E’ piuttosto la consapevolezza di vivere un’esperienza unica, percepita nel momento stesso in cui si compie. Non so se ce la farò a raggiungere O Cebreiro. Anche il nome incute timore, con quel suono totemico, da entità animale, malevola. Parlando con gli altri ci si rende conto che tutti si sentono come alla vigilia di una battaglia. Io ho letto e riletto le mie guide, ho fantasticato mille volte sulla minacciosa altimetria di Mundicamino, immaginandomi in equilibrio sulla linea quasi a strapiombo del dislivello, spaventosa come un abisso rovesciato. Rivedo a caso i momenti di questi ultimi giorni. Ieri, mentre scendevamo dopo Vega de Ambros, nel bosco bellissimo in cui ci siamo fermati a riposare sotto le querce, abbiamo incontrato un vecchietto seduto sotto un albero pieno di foto e santini. Iniri ci ha spiegato che l’aveva incontrato anche l’anno scorso nello stesso posto, che sta lì a soccorrere i pellegrini bisognosi di aiuto o massaggi e poi la sera torna a casa a dormire. Un cane abbaia nella notte. L’altra mattina a Manjarin i galli non smettevano più di cantare, si sono alternati per ore dall’alba alla mattina inoltrata. Formiche e

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uccellini, le creature con cui ho più avuto a che fare durante questo Cammino. Sottili nastri di formiche mi attraversano continuamente la strada, una delle principali occupazioni durante il giorno è posare i piedi senza provocare stragi. E gli uccellini, che saltano fuori dall’erba, dai fossi, dai campi, come lampi variopinti, azzurri, gialli, di ogni sfumatura, colore e dimensione, a coppie, a stormi o da soli. Adesso dormo. La signora spagnola che divide con me la stanza sembra un po’ paranoica, insiste perché ci chiudiamo dentro a chiave “per sicurezza”. Chiunque ardisse rubarmi lo zaino ci guadagnerebbe solo qualche malattia, e forse mi farebbe persino un piacere. Ma ora dormo davvero, qui dentro l’aria si è fatta ancor più umida e fredda. La coperta è orrenda ma profuma di pulito, l’ondata estiva dei pellegrini, altro argomento dibattuto, non si è ancora abbattuta su Vega de Valcarce. 8 luglio 2003 Vega de Valcarce – Alto do Poio (20km) Sono uscita molto presto. Ho incontrato la mia compagna di stanza già in mezzo alla via, seduta su un muro a contemplare la notte. Sono passata via ma camminavo molto piano. Quando mi ha raggiunto, circa mezz’ora dopo, si è offerta di portarmi lo zaino, credendo che stessi troppo male per farcela da sola, ho rifiutato, lei mi ha salutato e si è allontanata, non l’ho più vista. Alle sei era ancora buio, gli alberi quasi bianchi scintillavano incorporei, ombre argentate nella foschia contro il nero denso delle montagne. In sottofondo nell’oscurità, l’incessante scorrere del Rio Valcarce. La strada si addentrava nel bosco, deserta e sinuosa. Unico suono, il battito cadenzato del bordone di tre tedeschi che poi mi hanno superato procedendo in fila indiana, come i nani di Biancaneve diretti alla miniera. Ruitelan è spuntato dagli alberi, nero e disabitato, un pugno di case e tronchi fra il letto del fiume e la parete della valle. Prima di Herrerias la strada ha curvato in discesa e, superato un ponticello di pietra seminascosto fra gli alberi, la valle si è aperta su di un grande prato circondato da un’ansa del fiume. Il silenzio era magico, ma dalla gora stagnante si diffondeva un sentore malsano, la luce era livida, spettrale. Guardavo le montagne che mi si stringevano addosso e cercavo di individuare O Cebreiro. Naturalmente, fra le malmesse case di travi di Herrerias neppure un bar aperto. Anche il lussuoso agriturismo all’imbocco del paese era desolatamente buio. Ho quindi soffocato il dolore alla gamba nella materia densa e burrosa dei biscottoni comprati ieri a Vega e mi sono diretta lentamente verso la salita che conduce a la Faba, sfiorata ogni tanto dalle sagome silenziose di altri pellegrini che si allontanavano rapidamente. Ora sono le 7.30 e ho fatto appena 4 km in piano, sono seduta su di un ponte, poco fuori Herrerias, di fronte all’inizio della grande salita. Mi gira la testa, mi sento debole e spaventata. Temo di non farcela, ho passato la notte quasi in bianco e fatico persino a godere la straordinaria bellezza di queste montagne.

*

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Dopo aver fatto riposare una mezz’ora il ginocchio, ho affrontato la salita, senza decisione, solo per capire cosa sarei stata in grado di fare. Il primo tratto era di una durezza quasi iniziatica, tanto era aspro e ripido, poi si addolciva, sia pur continuando a salire. Finché ho potuto, ho seguito la strada asfaltata, ad un bivio ero tentata di prendere una deviazione che portava direttamente verso La Laguna senza passare da Faba ma sono stata bloccata dal solito Guardiano del Camino mascherato da passante di buona volontà, che ha inchiodato l’auto in pieno tornante solo per riportarmi nella giusta direzione. Sono così arrivata a Faba, dove la strada finiva - nessun bar, solo una bottega di paccottiglia pseudo celtica en plein air – da lì ho imboccato lo sterrato, sciabordando in un miscuglio di fango, letame e sassi. Se la gamba non mi avesse fatto tanto male, sarebbe stata un’escursione di media difficoltà. Ma forte del solito principio che chi la dura la vince, mi sono inerpicata a testa bassa per quei sentieri sassosi, tra i pascoli che via via si aprivano sempre più vasti fra le montagne, fino a Laguna, prima, e a O Cebreiro, poi. Sulla strada i pellegrini erano ormai numerosi. Laguna, ultimo paese della provincia di Leon mi è parso un’unica grande stalla, un incredibile villaggio-stalla. Le uniche costruzioni erano enormi rifugi per il bestiame; gli abitanti, uomini, donne e ragazzini dall’aria selvatica, andavano e venivano indaffarati fra le innumerevoli mucche, infangati e muniti di stivaloni di gomma e armati di secchi e bastoni, del tutto incuranti del flusso dei pellegrini che scorreva accanto a loro. L’aria era satura dell’odore di stalla, il suolo una stratificazione millenaria di sterco secco e sottile. Il “punto di ristoro” era un distributore automatico di merendine, imbrattato di fango e paglia e, ovviamente, guasto. Dopo Laguna la strada ha preso ad arrampicarsi più ripida, poi ha curvato ad anfiteatro attorno ad una distesa di pascoli e ancora non era possibile intravedere la meta. In un punto il Cammino era – per la prima volta – mal segnalato, ma ho ritrovato il fedele compagno della meseta, un monticello di pietre con fiori e bigliettini sulla sommità, che mi indicato la giusta direzione. Infine, la gioia di incontrare il cippo che sancisce l’ingresso in Galizia e, poco dopo, la prima pietra miliare che annuncia 152,5 km a Santiago. E’ stato un attimo ed ho raggiunto un muro, dopo un tratto che mi è sembrato interminabile ho scorto una feritoia, l’ho attraversata: ero a O Cebreiro. Mi sono trovata in uno spiazzo dominato da una croce di pietra come ne ho già viste, la natività da un lato, il Crocefisso dall’altro. Lì i tre tedeschi di stamattina si guardavano attorno affannati e increduli, si affacciavano alla balaustra che dava sullo sterminato panorama di cielo e colline, la Galizia si stendeva sotto di noi. Ho curiosato per il villaggio, poche case disposte nei dintorni della chiesa, un nucleo perfettamente conservato, sottilmente artificioso. Le pallozas, capanni di pietra dal tetto di paglia, caratteristici del luogo, sono prevedibilmente ben restaurate. Tutto è ordinato e pulito e costa più caro. Dalla chiesa romanica fuoriesce una musica sacra che contribuisce all’atmosfera. Anche la chiesa, seppur armoniosa e bella, più che curata sembra azzimata e la suggestione che ne risulta sa un po’ di maniera. Ho chiesto il sello ed il responsabile vi ha gentilmente aggiunto una caramella, dono prezioso per i tempi difficili.

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Mentre vagavo, un signore dall’aria eccentrica mi ha porto imperiosamente un foglietto che conteneva una “preghiera del pellegrino”. L’avevo già vista, appiccicata al vetro infangato di una catapecchia su a Laguna, nei pressi del punto di ristoro, e mi era parsa intrisa di quel sentimentalismo che – ad eccezione di Rabanal – sembra essere la sola chiave cristiana di interpretazione del pellegrinaggio che ho trovato proposta lungo la via. Non a caso ho sentito molta più affinità con Rabanal, il cui spirito è così simile a quello di Taizè. Sono entrata a far colazione in un bel bar, affacciato su di una veduta spettacolare, crinali e crinali di verdi montagne nebbiose. Mi sento sfinita, persino il cafè con leche è arrivato troppo tardi per darmi vera gioia. Il rifugio apre all’una ma non è certo lo zaino a crearmi problemi. Non so davvero cosa fare, devo decidere se scendere per tre km fino al rifugio successivo o restare qui ad oziare per un giorno intero e far riposare la gamba. E’ una giornata splendida e, se la tengo ferma, la gamba dopo un po’ smette di farmi male.

* Ho pagato il cafè con leche, poi sono andata ancora in giro fra i radi barettini e negozietti per cercare un posto dove dormire ma, al di fuori del bel rifugio affacciato sulla vallata, tutte le camere erano care. Non volevo replicare l’ozio snervante di Manjarin e poi non mi sentivo del tutto convinta di rimanere in questo posto troppo caratteristico, troppo carino. Alla fine ho deciso di andare: è presto, la gamba tiene ancora e la carretera fino ad Hospital da Contesa dovrebbe essere abbastanza pianeggiante.

*

Sono scesa per 5,5 km e verso le due sono arrivata ad Hospital da Contesa. Il paese sembrava deserto, mi sono fermata all’albergue immerso nel silenzio, una soluzione di compromesso fra andare e restare. La discesa è stata agevole, la strada era ampia, ariosa, rallegrata dalla vista mozzafiato di montagne, nuvole, ponti. A Linares, la delusione di scoprire che quello che le mie carte qualificavano come un ristorante era invece solo uno spaccio particolarmente miserando. Ho comprato un pezzo di pane dall’aria rafferma ed un chorizo piccante ed ho proseguito, rosicchiandoli tristemente. Ma ora, lavata e – nei limiti – ripulita, sdraiata sul sacco a pelo nella fresca penombra, penso di aver fatto la cosa migliore. Certo O Cebreiro era più bello, più alto e umido, qui la campagna è battuta dal sole, i campi superano i pascoli ed il rifugio è piuttosto anonimo e squallido, ma il sito è così lontano da tutto da essere affascinante. Cercherò di dormire.

*

Ho dormito fino alle cinque. Al risveglio il rifugio, da silenzioso ed accogliente, era diventato una bolgia brulicante. Ho ritrovato la signora spagnola di ieri, fermatasi per una dormita. Mi ha detto che sarebbe ripartita quando il sole fosse sceso, perché intendeva arrivare a Triacastela, distante 16 km. Parlando con lei mi sono resa conto che anch’io non volevo restare in quel posto affollato, confinata in un paese privo di negozi o bar, senz’altro cibo che un pezzo di pane stantio e le barrette di muesli.

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Così, visto che dopo tre ore di sonno le gambe sembravano fare giudizio e la giornata era radiosa, ho ripiegato il sacco a pelo, rifatto lo zaino, ceduto il letto ad una coppia di tedeschi conosciuta ieri al ristorante a Vega e me ne sono andata. Uscendo ho incontrato Imiri, che arrivava stravolta da Villafranca, in compagnia dello svizzero portoghese di Mansilla e dell’inglese di Villalcazar. Come in un gioco di carte, le persone si rimescolano, si perdono e si ritrovano. A O Cebreiro ho rivisto l’americana di Seattle conosciuta due giorni fa sulla strada per Cacabelos col messicano e la svizzera, ed incrociata ieri dopo Pereje in compagnia del portoghese. Ho ritrovato lì anche la svizzera, che a sua volta festeggiava il proprio incontro coi tre tedeschi di stamattina, e mi ha gentilmente aveva offerto di consultare la sua splendida guida in tedesco. Ciò mi ha confuso, perché il tremendo fastidio epidermico che provo nel sentirla parlare esattamente come mia cugina si scontra necessariamente con la sua cortesia e con la considerazione obbiettiva che lei non ha nulla a che fare con quella strega. Ho attraversato Hospital da Condesa, tanto letame, poche case e un paio di stalle, una signora anziana attaccata ad una bombola di ossigeno posata sul davanzale di una finestra, scrutava con indifferenza il viavai di pellegrini. Nel mezzo del paese, un gioiello: una chiesina vetusta, mura di sottili lastre sovrapposte in pietra grigia, invasa dall’erba, un piccolo portico riparato, la torre campanaria tozza e quadrata, una minuscola campana assicurata ad un telaio di legno e la spada-croce dei templari svettante a sovrastare la facciata. Imiri mi aveva avvertito che la strada fino ad Alto do Poio sarebbe stata faticosa. In realtà mi è piaciuto camminare sul bordo delle montagne come lungo un balcone affacciato sulla Galizia. La giornata si manteneva splendida e l’aria era sottile, all’Alto di San Roque il grande pellegrino bronzeo sembra lottare, sfinito ma indomito, contro la tempesta. Alla fine sono arrivata alla sommità dell’Alto do Poio, dove sorge questo hostal decrepito e solitario che mi ricorda tanto l’albergo di Vermiglio, lungo la strada che porta al passo del Tonale. E qui ho deciso di fermarmi per la notte.

* Sono seduta tra l’erba sul bordo di uno sterrato alle spalle dell’hostal. Dopo essermi sommariamente rinfrescata, sono uscita ed ho imboccato una salita, pensando di raggiungere una qualche altura da cui godere la vista di enormi panorami, invece ho trovato solo piccoli pini e cespugli e la via che prosegue in due direzioni: anche questo è un insegnamento. Sopra di me un grande cielo, anche questa sera la luna è sorta. Ho tolto i sandali, e assaporo l’asciutta freschezza dell’erba. Finalmente ho la possibilità di soffermarmi, scrivere e riflettere con calma. Con fatica e mille reticenze cerco di mettere a fuoco il senso di questo mio andare, forse un’occasione per imparare a mettermi a disposizione, anche se non so di che cosa ed anche se so che dovrei saperlo. E’ ancora troppo poco, me ne rendo conto. Vorrei riuscire a rivolgermi a Dio con slancio filiale, eppure ancora adesso la preghiera per me è frutto di costrizione e fonte di angoscia. Non sono una turista o una trekker, la mia mancata adesione alla linea politica dell’Apostolo Giacomo nella gestione della prima comunità di Gerusalemme non mi ha impedito di immettermi in questa millenaria corrente alla ricerca di qualcosa. Per uscire dall’ovvio occorre definire i termini. Cosa significa

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quindi cercare? E’ solo lasciare spazio a pensieri non direttamente connessi al mio quotidiano? Capisco il salmista che urla e geme nella notte ma non trova il Signore: persino io, che non mi sforzo neppure più di tanto, soffro di questa assenza, diretta conseguenza del mio stesso silenzio. In questi giorni ho colto innumerevoli segni di affetto, il dolore alla gamba che è sparito nei punti peggiori della salita a O Cebreiro, le fragoline selvatiche colte poco fa sul ciglio della strada dopo la delusione di Linares, le tante persone gentili che mi hanno indicato la giusta direzione, le telefonate giunte nei momenti di crisi, noia o fatica. Le nubi sulla meseta e il sole sulla Galizia, il volo delle cicogne all’alba, la churreria aperta alle otto del mattino nel giorno in cui più avevo bisogno di un sostegno, morale o materiale, per mettermi in cammino. Ma il mio cuore, seppur consapevole, resta serrato. Non sono ancora pronta e alla fine, il solo senso è quello indicato da Guccini, riconoscere che il mio essere qui quanto meno vuol dire “che bisognava volare”. Su questa pista polverosa è passato arrancando un ciclista. Poco dopo è ripassato e mi ha salutato tutto pimpante mentre schizzava per la discesa, oziosamente mi chiedo cosa ci sia alla fine di questa strada, ma non intendo fare un solo passo in più per scoprirlo. Ora rimetto i sandali e torno.

* La signora del bar-emporio di fronte al mio sgangherato ma non economico hostal mi ha tenuto a chiacchierare mentre bevevo il sidro. Appena entrata mi ha fatto sedere, “siedi, riposati”: La stessa premurosa sollecitudine di Tomas di Manjarin quando mi ha ceduto il suo letto per un sonnellino, la mia stessa sensazione di inadeguatezza. Mi ha raccontato qualcosa di sé, dei suoi figli, delle ragazze che la aiutano. Lei assiste i pellegrini da cinquant’anni, è una persona gentile e malinconica. Guardando suo marito, un vecchio decrepito dallo sguardo assente, ho provato una grande pena per lei, confinata su questo colle dove piove quasi sempre e d’inverno non passa nessuno. Mi ha detto orgogliosamente che un libro italiano aveva parlato di lei: “sai, dicono anche che mi chiamo Remedios”. Così le ho mostrato il passo della guida, lo stesso che mi aveva portato lì. Poi chiacchiere da Camino, sempre le stesse. Poco dopo sono rientrata all’hostal e mi sono bevuta un altro sidro, il primo sidro gallego finalmente assaporato in pura e perfetta solitudine. Dorato, frizzante, fresco e dolce, come quello bretone non picchia in testa, mentre quello che raramente bevo a Milano mi fa lo stesso effetto di un cattivo vino bianco. Ora sono a tavola, Non è stata una cena memorabile ma avevo una fame porca, come sempre. Mi si sono materializzati davanti la solita zuppa, il solito nodino, un inatteso uovo fritto dalla consistenza cartacea e un po’ di patate. Ho fatto fuori un cestino di pane e assaggio finalmente la torta di Santiago, una specie di biscottone alle mandorle e zucchero. Anche stasera la gamba mi duole ed ho molto sonno, non credo che ce la farò ad ammirare il tuffo del sole fra le montagne come avevo progettato.

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Sono a letto, in questo lettone, gonfio, accogliente e sintetico come una signora cicciona avvolta in una vestaglia dell’Upim. Ho spalmato la pomata sul ginocchio, fatto la doccia, sono rientrata nell’armonia del creato ed ora dormo, anche se sono solo le 21.30 e il sole è ancora alto. Sento che compiere un solo passo in più sarebbe un affronto ed una pericolosa provocazione verso la mia gamba e vanificherebbe la scelta di dormire all’hostal. Il pensiero torna così al rifugio di Hospital ed alla fuga di oggi pomeriggio, alla confusione e all’accumulo di gente, la situazione resa ancor più insopportabile dalla sporcizia dei bagni, privi oltretutto di sapone e carta igienica. Sembrava davvero un’ultima Thule da disperati. Ieri a Vega, il posto in sé era cadente, ma era accogliente, piacevole. Pensieri oziosi anche questi, dai tempi di Callisto, pregi e difetti dei rifugi sono l’argomento prediletto dei pellegrini. 9 luglio 2003 Alto do Poio – Sarria (km 30,5) Un’alba incantevole. Sotto di me, ad occidente, si stendono verdi-grigio i Montes de Oribio, appena lambiti dalla luce dell’alba. Scrivo mentre cammino, l’aria sa di pino, le ginestre sono ancora chiuse nel sonno, il cielo è d’un’opacità perlacea, gli uccellini cantano. Nei punti in cui il sole illumina le colline, la sfumatura grigia si fa di un giallo limone. Uscendo dall’hostal ho ammirato per un attimo l’affiorare del sole in una caligine rosa, sospesa sulle montagne a oriente, ma il desiderio di un caffè mi ha reso ottusa a tanta bellezza e una volta uscita dal bar era troppo tardi per fotografare. Sto scendendo per la carretera perché il Camino, che la sovrasta parallelo, è in terra battuta e finchè dura l’effetto dell’aulin preferisco non sottoporre il mio ginocchio a pietraie o saliscendi troppo bruschi. Sopra di me ride e scherza un gruppo di ragazzine spagnole che arriva da Hospital. Mi sono svegliata tardissimo, devo aver dormito almeno otto ore, grazie all’aulin, al sidro, alla stanchezza, al lettone ciccione…

* Ho oltrepassato Viduelo, dove il Camino abbandona definitivamente la carretera. Al bivio ho incontrato la ragazza di Seattle che, seppure con le gambe vistosamente fasciate, stava imboccando la discesa sassosa. Nel vedermi mi ha dato voce, credendo che non avessi visto la deviazione: ho percepito la sua muta riprovazione quando le ho spiegato che proseguivo per la nazionale. Le mie carte confermano che perderò uno dei tratti più belli del Camino e mi sento sottilmente in colpa, ma so anche che è una strada ripidissima e tutta sassi e semplicemente non ho osato affrontarla coi sandali. Così ho proseguito, sporgendomi di continuo verso il precipizio, nel tentativo di afferrare un brandello della bellezza cui avevo vilmente rinunciato. Le nubi fluttuano nel grembo delle colline, le cui cime verde scuro ora hanno assunto i riflessi dorati del mattino avanzato. La luce è marina, ingannevolmente mediterranea, ad ogni curva mi aspetto irrazionalmente l’apparizione del mare. Potrei essere in Costa Azzurra o sulla Costiera Amalfitana o in Sardegna, se non mancasse il profumo del mirto. Sotto di me da un tornante all’altro si moltiplicano invece le colline, solcate da accurati terrazzamenti simili a bassorilievi, i fianchi lambiti da queste nuvole, bianche e fumose come vapori di un mare australe.

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Lontano spicca giallastra la cava di Triacastela, da dove i pellegrini prelevavano le pietre che avrebbero deposto al cantiere della Cattedrale di Santiago. Mi hanno appena superato due imbecilli su quelle bici in cui si pedala sdraiati: altro elevato argomento di conversazione fra pellegrini infatti è il novero dei tipi strani che incontrati lungo il Camino.

* Sono arrivata a Triacastela in tre ore, ho percorso cioè 13 km ad una velocità fra i 4 e i 5 km all’ora. Il mare di nuvole ora è sopra di me e la luce è grigia, l’aria densa. La discesa è stata lunga e verso la fine piuttosto noiosa, ma tranquilla se eccettuo una piccola disavventura occorsami per mera stupidità. So benissimo, per triste esperienza personale, che in montagna certe sciocchezze non si devono fare mai e a mia discolpa posso solo dire che ero esasperata dall’incessante susseguirsi delle curve, fatto sta che ho ceduto alla tentazione di tagliare un tornante particolarmente lungo attraverso quello che sembrava un innocuo prato in lieve pendenza. Mi sono trovata invece a scendere, coi sandali e sbilanciata dallo zaino, lungo una parete ripidissima, coperta d’erba e piante spinose, che terminava in un profondo ed invalicabile fossato, invisibile dall’alto. Tuttavia, anche se ero fuori dal tracciato “ufficiale”, il Camino – meno preoccupato della filologia jacobea di quanto non siano i suoi adepti - ugualmente mi ha protetto, consentendomi di scorgere l’unico punto in cui una gobba del terreno creava una sorta di ponticello che scavalcava il fossato, da lì sono risalita sulla strada senza aver rimediato altro che qualche graffio e un po’ di paura. Man mano che mi avvicinavo al fondovalle, i campi coltivati e gli alberi succedevano ai pascoli e, ai rilievi del terreno, i recinti in filo spinato. Entrando in paese ho incontrato la signora spagnola di ieri (mi chiedo cosa ci facesse ancora Triacastela alle undici, se aveva dormito lì) e il tipo col turbante, il portoghese svizzero brasiliano amico di Josè, lasciato a Hospital ieri pomeriggio. Sono passata davanti ad un allettante bel posto coi tavolini all’aperto, ma ho preferito bere il cafè con leche in questo bar, popolare e forse più autentico ma del tutto privo di cibarie, se si eccettuano alcuni enormi polpi che fanno capolino da un freezer. L’austerità non sempre paga. A Triacastela il Camino si sdoppia, seguendo la nazionale si raggiunge il monastero di Samos, molto bello ma isolato, mentre, attraversando la valle di San Xil, priva di strade, si percorrono nove km in meno. Intendo prendere la via più breve ma prima di avviarmi devo fare provviste, perchè il prossimo paese, Calvor, è privo di negozi o bar e dista comunque 12 km.

* Sono in un bosco, sulla via per San Xil, inizialmente funestata da schiacciasassi e betoniere, con giovani operai accaldati che sovrintendevano di malavoglia a pentoloni maleodoranti di catrame bollente; poi il sentiero si è progressivamente inoltrato per luoghi magici e silenziosi, il rumore dei motori si è perso nella natura, fra le ombre verdi ed i riflessi del sole che appare e scompare. Mi sono fermata per

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riposare, ora odo solo il canto degli uccelli, il fruscio del vento fra gli alberi, lo scroscio lontano dell’acqua. La foresta di Broceliande. A Triacastela avevo comprato pane e formaggio in un supermercato, affrontando la folle spesa di € 8 per una piccola forma di quel queso del Cebreiro che Maria mi aveva raccomandato. Il formaggio non mi sembra gran che, rammenta una crescenza, più compatta e dal sapore un po’ acido, ma è bello stare seduta sul ciglio della strada, spalmarlo funambolicamente sul pane e mangiare appollaiata fra la polvere e le rocce. Mentre mi dedicavo allo spuntino, da un sentiero fra gli alberi è emerso un uomo. Mi ha salutato e ha detto qualcosa, aveva i pantaloni tenuti su con la corda ed era tutto impolverato, eppure aveva il piglio del padrone del bosco. Lo sguardo, o qualcosa che ha detto, mi hanno rammentato un vecchio soldato repubblicano, anche se forse era troppo giovane per aver visto la guerra civile. Ma forse era un’ombra. Poi mi ha salutato ancora e se ne è andato per un sentiero laterale. E’ ormai mezzogiorno, ho sei ore per arrivare a Sarria, che dista 17 km oppure a Calvor 12 km, spero solo di riuscire ad alzarmi. La frescura e la pace del luogo invitano a restare, ma sono sirene, indugiare non ha senso, berrò il mio latte alla fragola “La Asturiana” mentre cammino.

* Il sentiero procede per una valletta bellissima e boscosa, a pochi metri corre il torrente e ogni tanto si incontrano casine in pietra o piccole frazioni, una cascina, la stalla e la cappella. Mi sento dispersiva e frivola come la bambina della barzelletta che raccoglie i funghetti nel bosco, mi perdo dietro ad ogni scorcio, vago da una pietra ad una foglia, ad un muretto. Ciò contrasta con la consueta marzialità del mio andare, ma è il mio primo incontro con la Galizia e tutto mi appare insieme nuovo e familiare, così simile alla campagna delle fiabe ed a quella – in essa confusa – dei ricordi. Vorrei fotografare e raccontare ogni radura, ogni baluginio della luce sulle foglie, ogni corridoio di rami, però la strada sale e non posso perdere altro tempo.

* Dopo un’aspra salita sbuco sull’asfalto, e mi trovo davanti ad una vasca traboccante di acqua putrida e nerastra su cui ristagnano scorie verdognole, una grande e pacchiana conchiglia di cemento da cui scende un filo d’acqua, un anfiteatro di pietra polverosa a mo’ di sedile. Ho attinto con la tazza blu al magro zampillo ma dopo un breve sorso ho sputato tutto, l’acqua è amara. Memore degli ammonimenti di Callisto attendo da un momento all’altro di stramazzare al suolo. Nel mentre, meglio ripartire e allontanarsi da questo luogo squallido e inospitale.

* Giunta all’altezza dell’abitato di San Xil ho fatto una piccola deviazione per vedere la chiesa e sono stata ricompensata dall’incontro con una signora gentile i cui occhi verdi e i capelli rossi garantivano un sangue celtico al cento per cento. Mi ha raccontato che anche lei ha fatto il Camino da sola, tanti anni fa. Si è lasciata fotografare, dopo essersi frettolosamente rassettata ed aver raccolto il grembiule,

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in un gesto che mi ha ricordato tanto la nonna. Sul limitare del villaggio mi sono imbattuta in un branco di mucche che tornava dal pascolo, condotto da un pastore sciancato che si aggrappava alla coda dell’ultima mucca. Intanto una strana nebbia diffondeva una luce da fiaba nordica, in contrasto con l’aria ferma e afosa. La strada proseguiva, affacciata su dirupi incappucciati di una caligine che li faceva sembrare scogliere lontane. Ero all’Alto de Riocabo. Foschie elfiche, erica, boschi e rocce, il paesaggio rammenta, non l’Irlanda come è, ma l’Irlanda immaginata, quella dei film goduti al chiuso delle proprie abitazioni. Un’Irlanda impossibile dove non fa freddo e non c’è vento. Poco dopo, un qualche nervo del piede ha deciso di ribellarsi e mi sono dovuta sedere di nuovo, azzoppata, sul ciglio della pista di terra che correva fra pascoli e campi delimitati da siepi e muretti di pietra. Nonostante il cielo coperto, faceva sempre più caldo. Certo la Galizia è molto più bella della meseta, però nella meseta ogni due per tre c’erano panche per riposare e fonti di acqua fresca. Qui per riposare non rimane che accoccolarsi in qualche modo sul ciglio di queste strade polverose, che immagino trasformate in torrenti di fango alla prima pioggia. Ho rimesso sandali e calze e sono ripartita. Il sentiero ha attraversato un minuscolo villaggio deserto e si è inoltrato nel bosco, incassandosi gradatamente; ad un certo punto camminavo fra pietre coperte di muschio che lasciavano intravedere roccia bianca cristallina, gli alberi facevano ricadere i rami a formare una galleria verde. Sembrava possibile imbattersi in qualche entità silvana, della stessa sostanza di quella luce nebulosa. In una radura ho oltrepassato un ruscelletto sovrastato da una lastra di pietra a guisa di ponte. Tutto era piccolino e quasi fatato. Una volta ancora il bosco ha ceduto il passo ai campi e poco dopo un cartello annunciava che mancavano poche centinaia di metri alla “Casa do Franco”. Mi aspettavo la villa di qualche riccastro megalomane, invece sono approdata in un posto favoloso, una vecchia casa di pietra in mezzo alla campagna, adibita a bar e ristorante. Un miraggio divenuto realtà. Chissà se tutta la Galizia è così, elfica e costellata di simili case accoglienti. Mi sono seduta fuori, sotto un ombrellone, mentre il vento soffiava leggero. La perfetta beatitudine avrebbe dovuto essere santificata da una birra, ma mi sono ripromessa di astenermi dall’alcol finché cammino, così ho ripiegato su di una spremuta. La radio suonava, sembrava di essere al mare. Un cagnone dormiva nella sua cuccia di legno, dall’interno del locale si diffondeva un delizioso aroma di cipolle arrostite. Alla radio una voce cantava in spagnolo con accento italiano, sembrava Gianni Morandi. Erano le tre. In un angolo dell’orizzonte, file e file sovrapposte di alberi si perdevano nella foschia. Secondo i miei calcoli mancavano circa 3 km a Calvor. La beatitudine si stava trasformando in sonnolenza, quindi ho pagato e sono ripartita. Il rifugio di Calvor, identico a quello di Hospital, era deserto, ad eccezione della custode e di un elettricista, giunto a riparare non so quale guasto. Anche il sello era il medesimo di Hospital: sono i rifugi gestiti dalla Xunta de Galicia. Mi sono seduta scalza su di una panchina davanti all’ingresso, ascoltando oziosamente i discorsi di un gruppo di spagnoli arrivati pochi minuti dopo di me. La custode del rifugio ci ha spiegato che a Sarria non c’era più posto e che sarebbe

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stato meglio rimanere lì. A Calvor però, proprio come a Hospital, non c’era assolutamente nulla. Sia io che gli spagnoli abbiamo perciò preferito tentare la sorte e siamo ripartiti. Dopo qualche tempo li ho lasciati andare avanti e mi sono goduta il paesaggio ed il sentiero che proseguiva per 6 km in lieve declivio verso la città. L’andatura più lenta che ho ormai acquisito, interrotta da frequenti soste, mi sta consentendo di coprire distanze ragguardevoli senza danneggiare ulteriormente la gamba. Certo, sarebbe meglio, come sulla meseta, raggiungere la meta entro le due, ma non è più possibile, per percorrere 30 km mi sono state necessarie sette ore. Mi rendo conto però che non ho solo cambiato passo, ho anche invertito i valori: come mi aveva anticipato la cugina della Michela, il cammino si dilata ormai sino a riempire senza rimpianto l’intera giornata.

* Sono arrivata tranquillamente a Sarria verso le cinque. Qui si sfiorano i fatidici cento chilometri da Santiago, è il momento di verificare il più frusto luogo comune del Camino, quello dell’insostenibile affollamento dei rifugi in Galizia. Ho ritrovato gli spagnoli di Calvor seduti sconsolati in un prato alla periferia della città. Mi hanno detto che il rifugio era pieno e che avrebbero alloggiato nell’albergo lì di fronte, che pure chiedeva una somma spropositata. Ci siamo dati appuntamento a Portomarin per domani ed io ho proseguito alla ventura verso il centro. Sono salita verso la parte alta della cittadina. Accanto alla chiesa, un mio attimo di esitazione ha favorito l’incontro dickensiano con una vecchia sdentata e vestita di nero che mi ha abbordato con fare sinistramente lascivo, proponendomi di andare a casa sua e dormire con lei. Per un attimo tutta la letteratura da pellegrinaggio è sembrata prendere vita e sono scappata inorridita. Ritornata nel ventesimo secolo, lungo la via principale della città vecchia ho ottenuto la preziosa conferma che, oltre al rifugio comunale ormai saturo, in città c’era anche un rifugio privato, che si trovava a pochi metri. Ho seguito senza indugio l’indicazione ed ho trovato posto. Il rifugio è ospitato in un lungo un tunnel di pietra scavato nel cuore della città. Il fatto che sia privato significa che applica una tariffa € 6 in luogo del solito donativo – del resto a Rabè avevo pagato € 7 - e che è dotato di coperte, bagni e docce decenti, anche se il cortile posteriore, adibito a stenditoio, sembra recuperato di peso da un set sulla guerra di Bosnia. L’approccio dei gestori dei rifugi privati è singolare: si presentano con un fare a metà fra l’impacciato e l’insinuante, come mezzani di una casa da gioco clandestina che offrano piaceri sibaritici ad un prezzo che sanno esorbitante. E misura di quanto si è diventati pellegrini dentro è data dal fatto che dal canto nostro ci si vergogna di sentirsi gratificati dal privilegio e si rimpiange la spesa, senza più considerare che si sta parlando della differenza fra un donativo di € 3 ed una tariffa di € 6, fra una branda in camerata con la coperta ed una senza coperta, fra una doccia senza serratura ed una col gancio per appendere la borsa, cose tutte che attribuiscono alla sistemazione privata una patina di lusso quasi orientale. Comunque mi considero fortunata: a dar credito alle leggende, in Galizia mi aspettano giorni di accampamenti all’aria aperta o nelle stalle, bieche trappole e sfruttamento spietato.

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L’ampia camerata, scavata nella roccia e priva di finestre, è buia e silenziosa, i bagni erano puliti e deserti, i letti a castello sono vuoti e il mio sacco a pelo è il solito paradiso morbido e fresco, se solo non fosse così macchinoso e rumoroso il riavvolgerlo all’atto della partenza...

* Ho dimenticato la penna nel rifugio, i miei giri per Sarria sono stati quindi meccanici e privi di sapore. Sarria non è la graziosa cittadina sul limitare del bosco, un po’ francese e un po’ austriaca, che mi immaginavo, bensì è un paesone, cresciuto male e disordinatamente. La zona vecchia dove si trova il rifugio non ha neppure la facile bellezza della pietra antica, è solo vecchia, cioè polverosa, fatiscente, sgangherata. La parte bassa, moderna, assomiglia, in peggio, ai quartieri costruiti sull’Adriatico negli anni sessanta. Ho bevuto una birra in un locale sulla sommità della scalinata che porta al rifugio, l’ho ingollata malamente e di un fiato, disturbata dalle escandescenze di un tizio che inveiva contro la Chiesa, e sono uscita appena possibile. Non avevo voglia di cenare, i menu del dia con le loro costolette arrostite mi hanno stancato, così sono scesa verso i quartieri nuovi, alla ricerca di qualcosa di “buono”, di speziato, di esotico, con cui riscattare la bruttezza che mi circondava. Sono entrata in una pasticceria, allettata da un profumo soave di dolciumi e forno, ma non c’erano brioches e l’enorme bignè al cioccolato che ho comprato aveva lo sgradevole sapore del pandoro industriale del supermercato. A quel punto mi sono rifatta con un Magnum comprato in un bar pieno di uomini dallo sguardo obliquo e mentre lo sgranocchiavo ho raggiunto il minuscolo passeggio lungo il fiume, che ospita la sola parvenza di mondanità della cittadina. Poco più di centro metri con cinque o sei birrerie, tavolini all’aperto, panchine e un po’ di struscio. Ad un tavolo ridevano e chiacchieravano la svizzera in compagnia di un gruppo di altri pellegrini, tutti visi noti, ma non abbastanza perché mi chiedessero di aggregarmi. Ho invece trovato una cerveceria della Estrella Galicia e mi sono bevuta la seconda birra seduta al banco mentre leggevo il giornale mezzo in castellano e mezzo in gallego, piacevolmente immersa nell’affascinante vita balneare dell’estate galiziana. Non so cosa farò domani, tutto dipende dal ginocchio e da Godzilla, la vescica emersa ieri sotto il mio piede sinistro, fio inevitabile della camminata senza soste fino a Cacabelos. Ho ritirato il bucato dal cortile bosniaco battuto dal vento ed ora spero di svegliarmi presto e di andare via altrettanto presto. Sono le dieci e mezza, l’unica lampada diffonde ancora una luce color mattone, ma tutti dormono. Col senno di poi penso che avrei potuto restare a Calvor e finire il formaggio, oppure sostare in quell’hostal familiare sopra il bar tra gli alberi nell’estrema periferia di Sarria, un sobborgo rurale un tempo forse pittoresco, ora minacciato da una orrenda costruzione di sei piani che incombe sul Camino come una rovina. Del resto, è così. Esiste un Camino in negativo, quello delle occasioni perdute, quello “di tutti i posti in cui non si vivrà, di quello che non facciamo e non faremo” per dirla con Guccini. I luoghi tralasciati, gli albergue non visitati, San Nicolas invece di Castrojeriz, Rabanal o El Acebo invece di Manjarin, Molinaseca o Ponferrada invece di Cacabelos, Leon o Hospital de Orbigo invece di Villadangos, Pereje invece di Vega, O Cebreiro o Triacastela invece di Alto do Pojo.

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Ora mi stendo nel sacco a pelo e tento di dormire. 10 luglio 2003 Sarria – Gonzar (33 km) Ripiegare silenziosamente il mio frusciante sacco a pelo è stato più complicato del solito, ma poi sono uscita rapidamente. Il bar accanto all’albergue apre presto, così alle 6.20 ho potuto prendere il cafè con leche e scoprire il trionfo della nazionale colombiana al Tour. La mamma ne sarebbe stata felice. And so do I. La gamba mi preoccupa e non ho molta voglia di andare.

* Uscita da Sarria per una discesa che costeggiava il muro posteriore del cimitero, mi sono subito trovata in mezzo ad una bellissima campagna. Campi e boschetti, gli uni a racchiudere gli altri in un continuo alternarsi, e muretti di sassi coperti di rovi e felci e l’odore della rugiada e della menta nell’aria; alberi decrepiti avviluppati dall’edera, i primi gruppetti di pellegrini, un ponticello di pietre annerite all’ombra del grande ponte della ferrovia. Mi sono fermata un istante di fronte alle rotaie ad assaporare quest’alba. Sono le sette, il cielo bianco lambisce le cime degli alberi e sembra appannarle. Nel silenzio risuona il canto di innumerevoli uccelli, ad occhi chiusi sembra di essere in un paradiso orientale e non già in questa selva celtica. Tanta dolcezza quasi addomesticata non ha nulla della maestosità distante del tratto fra Vega ed Herrerias dove gli alberi scintillavano all’insinuarsi dell’alba ed io avanzavo come in una galleria oscura sotto la greve ombra delle montagne, la gamba martoriata e la paura dell’imminente incontro con O Cebreiro.

* Sono sbucata in un campo, grano pesante per l’umidità a sinistra, rigoglioso mais lucente alla mia destra. L’aria è fresca ma densa, mi sento chiusa sotto una cupola grigio perla. Il canto degli uccelli si è attenuato, a ondate sale quell’odore ormai familiare, dolciastro, quasi di frutta marcia, che promana dalle stalle; come l’odore, così anche il letame delle mucche è da giorni una presenza costante lungo la strada, evitarlo è un’inutile fatica. Lo sterco dei cavalli è invece un buon segno, in difetto di frecce gialle rassicura sulla direzione, poiché sinora i soli cavalli che ho incontrato erano montati da pellegrini.

* Barbadelo è un villaggio di case in pietra dalle forme irregolari e dagli angoli smussati, tetti di ardesia, galline, cani semiaddormentati, mucche; una chiesa scorta a malapena, di sbieco, confusa fra le cascine e la folla dei pellegrini. Sul limitare, il rifugio, uguale a tutti gli altri rifugi gestiti dalla Xunta di Galicia. Ho percorso 4 km in un’ora, scrivendo. Mi chiedo se le persone che ho incontrato per via siano già arrivate a Santiago o se siano rimaste indietro, mi chiedo se rivedrò qualcuno. Sono le otto ma la luce non è mutata, ancora il sole non si vede. E’ come muoversi in un autunno perenne; solo gli odori sono sbagliati, non c’è aroma di legna o di muschio o di funghi. Poco prima di Barbadelo ho incontrato due ragazzine, una stava rimettendo sul ciglio della strada mentre l’amica la sorreggeva; facevano parte di un gruppo in cui

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stamane mi ero già imbattuta più volte. Mi sono fermata, ma non avevo nessuna medicina utile nello zaino e comunque sapevo – ma non avrei saputo dirlo in spagnolo - che quando si sta male di stomaco l’unica cosa da fare è stare tranquilli e bere acqua. Mi sentivo inutile e impacciata, non ho potuto fare altro che offrirmi di portarle lo zaino. Lei nel frattempo si era ripresa ed ha declinato. Intanto erano arrivati gli altri membri del suo gruppo, ho salutato e me ne sono andata.

* A Rente il bar era gremito da uno di questi gruppi di ragazzini che dopo Astorga si incontrano con frequenza sempre maggiore. Non erano neppure le nove e mi sono fermata più per usare il bagno che per vera stanchezza. La padrona era giovane e imbronciata, non aveva nulla dell’abituale cordialità dei baristi. Penso al bar accanto all’albergue di stamane, che lavorerà solo coi pellegrini, ho preso solo un caffè, eppure il barista mi ha augurato calorosamente buon cammino,a dimostrazione che lo spirito di accoglienza non è incompatibile con lo sfruttamento commerciale del Camino. Guardavo oziosamente le merendine industriali della medesima marca presente in tutti i bar, la cioccolata solubile che bevono i ragazzini, sicuramente più goduriosa del caffè, questo però molto più pilgrim. Mi sono detta che devo mantenere una parvenza di austerità e che queste leccornie ipercaloriche e appiccicose mi fanno ben poca gola, in realtà ho maturato una certa contorta disciplina per cui mi permetto alcune cose ed altre no. Mentre uscivo dal bar arrivava la ragazzina che si era sentita male, accompagnata dalle amiche, mi ha rassicurato che stava meglio, era stata solo colpa della colazione che le si era “rivoltata nello stomaco”. Ancora il sole non era sorto quando, circa al km 104, mi sono fermata sul ciglio della strada per riposare un po’ coi piedi scalzi: a furia di camminare coi sandali sulle pietre, le caviglie sono più provate del solito. E’ passato l’inglese di Villalcazar, mi ha chiesto se andava tutto bene e poi è ripartito. La gente mi circonda, mi segue da presso o mi precede, è come essere su una scala mobile. Ricordo la strada verso Calzadilla, quando raggiungere le persone che scorgevo all’orizzonte mi richiedeva anche un’ora. I villaggi si avvicendano, cascine circondate da baracche, tutte in pietra, generalmente abitate, appezzamenti minuscoli, ossessivamente cintati, incontriamo contadini affaccendati e contadine coi grembiuli a fiori, che vanno e vengono. Chissà di cosa sono specchio questi luoghi, è ancora una civiltà o sono meri residui? Avevo appena rimesso scarpe e calze quando ad un signore che passava si è spezzata una cinghia dello zaino. Gli ho offerto le mie spille da balia e abbiamo sistemato precariamente lo zaino. Le sue amiche ci hanno raggiunto e lui si è messo a proclamare entusiasticamente la miracolosa coincidenza che ha portato la cinghia a spezzarsi proprio davanti a me, che possedevo le spille da balia. Così, troppo intento a ringraziare il fato, si è scordato di ringraziare me e di salutarmi quando sono ripartita. Ho raggiunto il cippo del km 100, altra meta simbolica. Il cippo, colorato e coperto di scritte, stava per sfuggirmi, defilato in una rientranza insignificante della strada. E’ sufficiente percorrere questi ultimi 100 km per ottenere la compostela. Pensando a chi è partito da St. Jean potrebbe sembrare una previsione ingiusta, ma in realtà, al di là delle chiacchiere da Camino, la questione non importa a nessuno. Da parte mia rimpiango ogni chilometro che non ho percorso fra St. Jean e Burgos.

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Il paesaggio si è ripetuto per ore, recinti in pietra, siepi, campi, corridoi alberati. Un continuo salire e scendere su strade sterrate o sassose che mi ha distrutto i piedi. Per un po’ ho camminato in una luce resa opaca dall’umidità, poi verso le undici è esploso il sole. Mi sentivo infastidita dalla forzata convivenza con la carovana di pellegrini che si muoveva in sincrono con me. Era un continuo incrociarsi, superarsi, salutarsi e risalutarsi, ancora e ancora, fino a che il saluto diveniva un cenno frettoloso, quasi imbarazzato. Dal bar di Rente ho ripetutamente incrociato una famiglia spagnola di quattro persone, in tutte le composizioni possibili. Lo spagnolo dello zaino ha rimediato alla trascuratezza del primo incontro, salutandomi con sempre rinnovato calore ognuna delle numerose volte che ci siamo in seguito ritrovati. In ogni caso, tolta la poesia delle prime ore, non è stata una bella tappa e la sua brevità in km ne ha accentuato l’interminabile durata. Molto faticosamente, sono scesa fino a Portomarin. Il nome mi aveva suggestionato e mi aspettavo qualcosa di lacustre, liquido, un’Avalon templare circondata dalle acque. Il fiume Mino è grande, ma non è un lago. Il paese è stato ricostruito senza soverchia cura sulla sommità di una collina ed ora lo si raggiunge per un lungo ponte stradale; poi occorre salire una ripida scalinata che ha messo alla prova il mio baricentro. In centro, una strada a portici popolata di graziosi negozi corre innaturalmente lungo un dosso a schiena d’asino. La chiesa-fortezza templare è un parallelepipedo merlato, con un rosone nella facciata, una vera chiesa militante. Sulla soglia una ragazza gentile mi ha messo il sello. L’interno è spoglio e nulla maschera gli spigoli acuti dove le pareti si incontrano come in una scatola di marmo, trasportata sulla cima della collina quando la diga ha sommerso il vecchio paese. Ho pranzato in un ristorante sotto il portico di fronte alla chiesa, ambiente da pensione anni cinquanta, caldo gallego e arrosto di vitello, poi ancora torta di Santiago come dolce. Però ero inquieta e insofferente, sono andata in un supermercato e mi sono comprata il sapone da bucato oltre ad un litro di yogurt dolce de “La Asturiana” che ho ingurgitato sdraiata nell’erba di questo bel parco che sovrasta il fiume, circondata da pellegrini che pranzavano o semplicemente oziavano sotto gli alberi. Avevo anche individuato un negozio di torte, ma si potevano acquistare solo torte intere e ci sono limiti imposti dalla decenza. E comunque nello zaino non avevo posto per un’intera torta. Mi piacerebbe proseguire fino al prossimo paese, ma il piede è davvero conciato, temo che Godzilla, ormai ingigantita a dismisura, mi abbia già fatto infezione. Sono già stata in farmacia a comprare cotone idrofilo e un ago, oltre a una confezione di cerotti speciali che, a detta della farmacista, avrebbero dovuto essere migliori di quelli che ho portato con me. Prima di prendere una decisione devo comunque raggiungere il rifugio per tentare di medicarmi e, all’esito, fare il punto della situazione. Le vesciche sono un grande spartiacque sociale sul Camino. Non contano gli strappi o le distorsioni, le persone si distinguono fra quelli che hanno le vesciche e quelli che non le hanno. Alla sommità di questa casta privilegiata stanno quelli che non le hanno mai avute. Io facevo orgogliosamente parte della categoria ma Godzilla mi ha ora giustamente ricondotta all’umile consapevolezza della mia fragilità.

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*

L’albergue di Portomarin, una vecchia scuola riadattata, è una vera bolgia, fa sembrare quello di Astorga un esclusivo resort polinesiano. Nel susseguirsi di stanzoni stipati di letti a castello, ho trovato una camera semideserta ed ho iniziato a medicare come potevo il povero piede. L’impresa era pressoché disperata perché dovevo prima disinfettare piede ed ago, poi giustiziare il mostro, disinfettare nuovamente, quindi lavare via il disinfettante per applicare il cerotto sul piede pulito. Il tutto fra un bagno lurido e privo di appigli al piano terreno ed una camerata polverosa e priva di acqua al primo piano, col piede sinistro a rischio infezione ed il ginocchio destro quasi inutilizzabile. Nel mentre, un tedesco stagionato dal sorriso tutto denti, assurdamente simile a Padre Livio, vagava per la stanza con addosso solo un paio di slip incredibilmente succinti, ostentando un’espressione di estasiato stupore per la propria stessa avvenenza. Io avevo assunto il più vitreo dei miei sguardi da marine e continuavo la mia disperata lotta contro la setticemia, lui mi sbirciava di soppiatto per verificare se condividessi il suo entusiasmo per la sua mise. Per fortuna poi l’imbarazzante situazione si è risolta con l’arrivo di alcuni spagnoli che conoscevo, abbiamo chiacchierato quindi, perché loro si fermavano, mi hanno salutato e fatto gli auguri per il piede, ed io, zoppicando, sono uscita.

* Sono a Gonzar, in un piccolo rifugio, ben diverso dal serraglio di Portomarin, per quanto anch’esso rientri nell’ormai consueto standard fetido e impersonale dei rifugi galiziani. Il contrasto di questi dormitori mal tenuti coi graziosi ed accoglienti albergue che ho trovato sulla meseta o nel Bierzo non potrebbe essere maggiore. La mia stanza – una delle due esistenti – è strettissima ed ospita a malapena tre letti a castello allineati in fila indiana. Mi ha accolto un gruppo di servizievoli ragazzi spagnoli che dormono in quella stessa stanza, il letto che occupo era l’ultimo disponibile. Sono arrivata con estrema fatica. Da Portomarin il primo tratto del Camino si addentrava piacevolmente lungo una pista sopraelevata fra i pini. Poi la strada si è affiancata alla statale ed ho percorso circa sette km di saliscendi sotto il sole battente, sull’asfalto molliccio che diffondeva calore come una stufa puzzolente. Grazie all’ora ed alla canicola però mi sono trovata finalmente da sola: tutti i miei involontari compagni di viaggio di stamattina devono essere rimasti a Portomarin. Ho scambiato quattro chiacchiere volanti con due ciclisti veneti i quali, mentre arrancavano lungo una salita, mi hanno rantolato che non avrebbero fatto cambio coi pellegrini a piedi per tutto l’oro del mondo. Mi sono fermata una prima volta, fra la polvere e l’asfalto, in un punto dove il bivio della strada con uno sterrato diretto ad una cava creava una sorta di ansa battuta dai camion, ed una seconda volta in un’area di sosta maleodorante ed infestata dalle mosche. Ho raggiunto Gonzar alle cinque passate e non credo che avrei potuto fare un passo in più, per la prima volta non ho neppure avuto la forza di visitare il paese. Al rifugio ho dovuto medicare di nuovo Godzilla, mostruosamente risorta dalle proprie ceneri più gigantesca che mai, cosa non facile in un bagno senza chiave, senza carta igienica, senza un qualsiasi punto pulito dove appoggiarsi. Però

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grazie al pezzo di sapone comprato a Portomarin mi è riuscito di lavare i pantaloni, la maglietta gialla e la bandana e questo è un grande conforto. Mi sono trascinata penosamente fino al bar accanto al rifugio, gestito da una stirpe di minus habentes troppo occupati a discutere col proprio commercialista per dare retta ai malcapitati pellegrini bisognosi di ristoro. Una volta ottenuta la loro attenzione, il sogno di bermi una birra in pace è comunque sfumato perchè sono stata avvicinata da un’inglese che stava raccogliendo impressioni per una serie di articoli, da pubblicare nella rivista della comunità britannica del paese del sud della Spagna dove vive. Lei era piuttosto simpatica e cercava di camuffare l’intervista sotto le spoglie di una conversazione amichevole “Che cosa ti ha colpito di più sul Camino?”, “Qual è stata l’esperienza più bella?”. Io però mi sentivo ridicola e non avevo peraltro intenzione di finire citata in un articolo ad uso di zitelle sassoni confinate in un contesto tardo coloniale stile James Ivory, così sono stata evasiva ed ho sciorinato i soliti luoghi comuni da Camino, di cui ormai possiedo un florilegio di tutto rispetto, affascinandola coi miei elenchi dei “tipi strani” del Camino, ottimo materiale per un pezzo di colore. Poi me la sono filata. Il non essere riuscita a tirare tranquillamente le fila della giornata davanti ad una birra mi ha messo di malumore. Oggi ciò che faccio mi viene fuori difettoso, come un dolce mal riuscito. Ho anche paura che il piede mi si infetti e sono tanto stanca. Da basso un ragazzo, molto giovane e molto compreso di sé, è rimasto tutto il pomeriggio seduto con le gambe incrociate a scrutare fuori da una finestra con aria mistica. Braccia rubate all’agricoltura. Chissà come mai cose che a Taizè mi sembravano normali ed ammirevoli, ora mi fanno prudere le mani. Il vento fa danzare le cortine, nell’altra stanza un gruppo di inglesi – anch’essi tutti molto giovani – chiacchiera instancabilmente. Resterò qui sdraiata per un po’, solo l’idea di alzarmi mi fa sentir male. 11 luglio 2003 Gonzar – Leboreiro (27km) Sono le otto, mi trovo in un bar sperduto a Ventas de Naron, un altro gruppo di case, di pietra o mattoni traforati, buttato così in mezzo al niente. Il sole non è ancora spuntato, ho camminato per un’ora e mezza nella nebbia lungo la carretera e ora posso finalmente concedermi un cafè con leche in questo bar fra le stalle nel mezzo del bosco. Alla tele trasmettono in diretta immagini della fiera di San Firmin, un altro mondo: qui tutto dorme immerso nella nebbia, a Pamplona splende il sole e la piazza è piena di gente che canta e scandisce inni. Nel bar una ragazzina sinoamericana si lascia andare ad urletti, imbarazzanti e del tutto inappropriati, eccitata come se stesse assistendo ad una partita di rollerball, e scrutata con sommo disprezzo dal barista. Ieri sera mi sono coricata alle nove, vestita, senza neppure la forza o la voglia di andare a mangiare qualcosa. Poi la morbidezza del sacco a pelo mi ha trascinato in un gorgo da cui non sono più riemersa. Mi sono alzata nel buio, sono scesa ed ho trovato il mio bucato appallottolato in un fagotto umidiccio ai piedi delle scale. Dio stramaledica gli inglesi, sono stati loro, lo

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so. Così, cammino coi pantaloncini corti e senza felpa, ho appeso tutto il resto allo zaino, sperando che mi si asciughi in questa nebbia appiccicosa. Non credevo che oggi sarei stata in grado di camminare, invece, prodigio o forse miracolo, dopo molti giorni di sandali sono persino riuscita a rimettere le scarpe. Non so tuttavia quanta strada riuscirò a percorrere, mi sento già sfinita. Prima, avanzando fra gli abeti, l’erica e certi pinetti pelosi, pensavo a quanto poco io abbia saputo cogliere dagli innumerevoli messaggi del Camino. Ho percepito solo cose già presenti nella mia mente o meramente legate al fisico. Metafora della vita anche in questo, quando il timore per la salute o i piccoli capricci quotidiani fanno perdere di vista la bellezza delle stagioni, i grandi pensieri o gli insegnamenti dell’esistenza. Belli i tori che corrono per le strade di Pamplona, la feria sembra un avvenimento pacifico e simpatico, i tori, vitelloni a spasso per caso; qui sto proprio bene e non ho voglia di riprendere la strada, in ogni caso non intendo proseguire oltre Palas del Rei, ammesso che riesca ad arrivarci.

* Cammino nella foschia, odore di pino e canti di uccelli. Non un concerto come ieri mattina, bensì un canto acuto e solitario; la rugiada gocciola sulle foglie, lungo la strada centinaia e centinaia di rovi in fiore: fra un mese il Camino sarà un succulento tripudio di more. Chissà come mai la sosta in quel bar mi ha tanto ritemprato, sono bastati un barista simpatico, l’esuberanza e i canti della gente di Pamplona, la pubblicità della Navarra, un buon caffè ed ecco rinnovata la capacità di proseguire. Prodigi del Camino. Mai come ieri ho temuto di non farcela, per il male, la stanchezza fisica e la spossatezza emotiva . Ho percorso quasi 400 km ne mancano solo 77, la beffa sarebbe atroce. Questa Galizia è bella solo nelle prime ore del mattino, quando la nebbia e il fresco della notte non si sono ancora trasformati nella cappa di umidità che poi affligge l’intera giornata. E’ strano quanto poco profumino questi boschi: in Italia un bosco all’alba è una ragnatela di aromi. Qui, non sento nulla. Un gallo canta in lontananza. La stradina, benché sinuosa e solitaria, è asfaltata e in dolce pendio, e ciò raddoppia la mia gioia.

* Mi prendo un attimo di pausa in equilibrio su un mattone fra l’erica; la pianura si è aperta a ventaglio in lieve discesa, rivelando a perdita d’occhio un alternarsi ondulato di campi e boschetti. Sono passati gli spagnoli incontrati ieri al rifugio di Portomarin e, vedendomi scrivere, mi hanno chiesto se stessi facendo i compiti. Mi chiedo perché mai continuo ad essere superata da gente che conosco. Poco fa, a Ligonde, 75 km da Santiago, una bancarella tenuta da una ragazza americana offriva caffè imbevibile ed opuscoli edificanti, omaggio di un’organizzazione cristiana americana che invia volontari sul Camino per assistere i pellegrini. Da uno di quegli opuscoli ho scoperto che Giacomo Minore, il reazionario responsabile della comunità di Gerusalemme, è persona diversa da Giacomo

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Maggiore, l’Apostolo. E questo, nel sciogliere le mie estreme riserve ideologiche, mi ha grandemente rallegrato. Ho preso anche un bellissimo cartoncino che reca 75 versetti tratti da altrettanti salmi, per ogni km è riportato il salmo il cui numero corrisponde al chilometro: ci ho messo un po’ per capirlo, ma è stata una bella scoperta. Una risposta alla mia richiesta di una spinta, di una motivazione esteriore, ma fino a che non riceverò lo Spirito, le parole serviranno a poco. Ed è davvero lo Spirito che mi manca in questo Cammino. Di conseguenza, le guarigioni prodigiose, gli incontri, le rassicurazioni, le oasi nel deserto valgono in quanto tali, ma perdono l’importanza ed il valore di segni dell’amore di Dio. Senza la Carità, sono meno di un cembalo che tintinna. Ora riprendo in quest’alba silenziosa, vediamo dove riesco ad arrivare, la sola prospettiva di poter tenere le scarpe conforta le piante martoriate dei miei poveri piedi. Ho incrociato ripetutamente un papà che percorre il Camino coi suoi due bambini, molto seri e compresi, con tanto di bastone e zaino. I paesini si susseguono dolcemente lungo un bel percorso serpeggiante. Secondo le mie guide, a Eirexe avrei dovuto imbattermi nella più bella e barocca delle croci del Camino. Invece, assurdamente, mi è sfuggita, sfumata via fra le siepi, i cespugli, gli alberi e i miei pensieri svagati.

* A Brea il Camino rifluisce nella nazionale e la costeggia in una striscia polverosa appena incassata fra siepi e campi. Poco dopo il bivio mi sono fermata in un barettino accogliente, una cascina riadattata, prendendo l’ennesimo caffè come pretesto per usare il bagno ma anche per spezzare il ritmo, peraltro non sconsiderato. Come sempre qui in Galizia, il sole non si era ancora fatto largo, ma era caldo e si procedeva in una luce irreale. Qualche tempo dopo ho risalito l’Alto del Rosario, ultima vetta del Camino ma poco più di uno spiazzo tirato a ghiaia, nei dintorni qualche costruzione di legno gestita dalle suore in stile campo scout: da lì è iniziata la discesa attraverso una zona residenziale alla periferia di Palas del Rei. Giunta in paese verso mezzogiorno, ho visitato la chiesa di San Tirso, che ha il bel portale menzionato dalle guide. Il prete, accampato nel giardinetto accanto alla chiesa, mette il sello a chi lo chiede e anche a chi non lo chiede; io titubavo, perché avevo quasi finito l’ultima pagina della credencial,lui mi ha apposto ben due timbri, ma fortunatamente di spazio ne è rimasto. Il cortile del rifugio era già affollato di persone in attesa dell’apertura; poco distante, sotto una grande tenda con tavolini e musica gallega a palla, ho incontrato Maria in compagnia di altre persone, tutti intendevano arrivare fino a Melide, distante oltre 12 km. Sono rimasta un po’ con loro a parlare, poi me ne sono andata alla ricerca di cibo. Ho scelto un ristorante alla buona, arredato con tovaglie bianche e stampe di pesci alle pareti. Lungo la strada avevo divorato un pacchetto di biscottini, quindi non mi sentivo particolarmente affamata ma, non sapendo se nel prossimo rifugio avrei trovato da mangiare, ho preferito premunirmi.

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Mi hanno portato un pane caldo, basso e morbido, crosta croccante e una mollica bucherellata che ancora tratteneva i vapori del forno, una delizia. Dopo essermene divorata due cestini ho aggredito il caldo gallego, qui una zuppa di erbette, fagiolini e patate, con un aroma datogli forse dal brodo, forse da qualche salume utilizzato nel soffritto. Il merluzzo è buonissimo, cucinato in umido con le patate, si disfa al solo guardarlo ed è condito col pimento che gli da un saporino speciale. Il dolce era un flan industriale, sfacciatamente servito dentro la confezione di plastica. Ora vado, mi sento un po’ meglio e meno sfinita, ma non so quanto ancora riuscirò a proseguire.

*

All’uscita di Palas del Rei mi sono imbattuta in un monumento al pellegrino, due statuine che si fronteggiano in uno stile da teatro dei burattini. Stavo girandogli attorno alla ricerca di un’inquadratura che lo rendesse meno dozzinale quando sono stata assalita da almeno cinque persone, convinte che stessi imboccando la strada sbagliata ed ansiose di riportarmi sulla retta via. Ho spiegato loro che volevo solo fare una foto e che sapevo da che parte andare – era difficile confondersi nel profluvio di frecce gialle – ma tutti quanti mi hanno sorvegliato fino a che non mi hanno visto avviata nella giusta direzione. Dopo Ponte del Rei, un pezzo di carretera, poi ho ripreso il Camino e sto finalmente percorrendo un tratto di bosco davvero piacevole, il primo dopo San Xil. Il sentiero è relativamente piano e corre, sterrato ma non sassoso, fra muretti bassi e alberi. A volte la strada si sopraeleva lungo un passaggio lastricato, sono i correidoiros, passerelle di pietra gettate sui punti in cui il sentiero tende ad allagarsi nei giorni di pioggia. E’ uscito il sole ed il vento fa luccicare le foglie, disegnandone cantando i contorni sul terreno. Non è lo stesso paesaggio di ieri mattina, lo trovo più sereno, meno opprimente: i campi sono più vasti, i muretti più bassi. Mancano ancora otto km a Leboreiro, ma se trovo un posto carino mi fermo prima. Se non ci fossero le frecce, in questo dedalo arboreo mi sarei smarrita mille volte. Le guide ammoniscono di fare molta attenzione ai segnali e comunque, se ci si perde, di procedere sempre verso occidente. I piedi e le gambe è come se vivessero di vita propria, un istante stanno bene, poi lanciano segnali sinistri. Ora come ora vorrei solo dormire, cullata da questo venticello.

* Sono approdata ad un paesino sul limitare del bosco, San Julian, menzionato a malapena dalle carte. Poche case di pietra gialla, un albergue in costruzione che sarà inaugurato l’anno prossimo, una chiesina romanica di cui ho potuto fotografare solo la bifora posteriore, con un arco scolpito di ammirevole semplicità. Silenzio, il sole, tanti piccoli cantieri per riordinare il poco che c’è. Uno di quei luoghi di niente che colpiscono il cuore. Ho risalito il letto di un torrente lungo una salita interminabile quasi priva di indicazioni, rischiando anche di farmi schiacciare da un fuoristrada carico di cacciatori, fino a che sono approdata al rifugio di Casanova, un bel posto in mezzo al bosco. Mi sono seduta ad un tavolo di pietra per una breve sosta, preferisco andare ancora un po’ avanti, poi, se trovassi un hostal o una camera potrei dormire

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e riposarmi, altrimenti cercherò posto all’albergue di Leboreiro, che, secondo le mie carte, da qui disterebbe circa 4 km. Nell’incongrua cabina telefonica alle mie spalle, un elettricista spagnolo chiacchiera concitato da quelle che mi sembrano ore, forse sta discutendo un guasto come a Calvor. Il vento fa ondeggiare gli alberi, da una stalla invisibile arriva un penetrante odore di animali. Nel cortile del rifugio un potente getto fuoriesce rumorosamente da una vasca di pietra, ma non ho voglia di entrare a bere. Stranamente in Galizia l’acqua è cattiva, nel bosco quasi tutte le fonti recano un cartello che avverte che l’acqua non è potabile. Mi rimetterò calze e scarpe. Prima pensavo a come ogni giorno plasmi ritmi differenti. Oggi ho mangiato con calma al ristorante e ripreso la via, altre volte ho fatto un’unica tirata fino a sera. A volte vado piano, mi distraggo facilmente, altre volte macino strada senza neppure guardarla: una delle poche certezze acquisite sul Camino è che il solo modo di consumare rapidamente la strada consiste nell’astrarsi da tutto quanto non sia necessario al porre un piede davanti all’altro senza inciampare.

* Ho ben festeggiato l’ingresso nella provincia de La Coruna – la provincia di Santiago – grazie ad un gruppo di simpatici stradini che, all’uscita del bosco, hanno ben pensato di non avvertire che era appena stato gettato bitume bollente sul sentiero. Come sulle sabbie mobili, per me ed un gruppo di ragazzi olandesi, una volta entrati è stato troppo tardi per tornare indietro. Pece e piume: ora le mie scarpe sono rivestite di una crosta alta un centimetro di ghiaia e catrame mentre io ho la sensazione di camminare come un astronauta.

* Sono arrivata a O Leboreiro, un piccolo villaggio con una chiesa romanica sul cui arco di ingresso in pietra grigia è scolpita un’austera Madonna in trono; mi sono subito accorta con costernazione che il rifugio indicato nelle carte non esisteva o meglio, che era un prefabbricato di legno incustodito con un solo stanzone vuoto in cui dormire per terra. La prospettiva di percorrere gli altri 5 km che mi separavano da Melide non mi attirava affatto, ma la sola alternativa visibile era un agriturismo dall’aspetto artefatto incontrato 2 km prima. Ho chiesto lumi e soccorso al titolare di un’officina accanto al finto albergue e lui mi ha consigliato un albergo sulla nazionale, che altrimenti non avrei visto, perché provenivo dal bosco. Così ora sono in un vero letto, ho una stanza bellissima a soli €18 (onore all’hostal “dos alemanos”), dopo aver fatto la doccia e – prodigio – essermi lavata i capelli. Non mi sembra vero non dover fare equilibrismi in doccia con gli asciugamani, lo zainetto e la biancheria, non dover cercare di procurarmi il sapone e disporre di vera carta igienica, poter appoggiare le mie cose dove capita e non doverle radunare tutte attorno a me come una chioccia coi pulcini, potermi lavare tranquillamente e poi ficcarmi a letto.

* Mi sono faticosamente svegliata, ho trafficato con Godzilla ed ora temo di aver provocato la temuta infezione, visto che il piede mi brucia terribilmente, nonostante

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i cerotti di Portomarin, davvero portentosi. E’ una giornata bella e luminosa, sto bevendo il sidro nel bar dell’albergo mentre leggo la Voz de Galicia. Mi piace leggere i giornali in estate, mi restituisce a quella dimensione un po’ ingenuamente edonistica delle vacanze popolari cui sempre mi sottraggo per scelta ma verso cui nutro poi un lieve, inconfessato rimpianto.

* Santiago si avvicina, almeno in termini di spazio fisico e mi rendo conto che in questi ultimi giorni alcune cose sono cambiate. La scelta fra albergue e hostal è ormai puramente economica, il desiderio di socializzazione è venuto meno, gli sforzi di ciascuno sono concentrati sulla strada, non c’è più spazio per nulla che non sia l’andare: amici, incontri, monumenti, nessun diversivo vale più la perdita di tempo che richiede. Rispetto al percorso compiuto, 56 km sono ormai talmente pochi. Non si parla d’altro che del tempo che si progetta di impiegare per arrivare a Santiago. E’ stata una bella giornata, un conforto dopo l’abisso in cui temevo di sprofondare ieri. Ma ogni giorno sta a sé, davvero ad ogni giorno basta la sua pena e davvero a volte sembra che tale pena sia esattamente la porzione di fatica o sofferenza che ciascuno è in grado di sopportare. Questo lascia perplessa, la logica sotterranea che intravedo in ciò che mi accade, anche le cose più piccole: poco fa mentre scorrevo le recensioni dei ristoranti ho letto del queso col membrillo ed ho intensamente desiderato mangiarne. Guarda caso, per la prima volta da che sono in Spagna, al ristorante di questo albergo servono queso con membrillo come dolce. Una logica, dicevo, e nessuna emozione unificatrice, nessuna agnizione. Forse il mio è un atteggiamento infantile: per dirla con la parabola del ricco Epulone, avrei anch’io Mosè e i profeti, ma evidentemente non ho voglia di leggerli. Ho mangiato bene qui in albergo, ero sola nella grande sala ristorante e la signora non sapeva più cosa fare per me, ho assaggiato finalmente un po’ di salumi spagnoli, poi l’immancabile nodino ed il queso di cui parlavo prima. La stanchezza mi sta sopraffacendo. Ho fatto bene a non arrivare fino a Melide, sul giornale ho letto che il rifugio già ieri traboccava, e certo i prezzi degli alberghi saranno stati sicuramente più elevati di quanto pago in questo bel posto, ma ora vado, ho freddo ed ho davvero bisogno di dormire.

* Sono le dieci e mezza, dopo l’ennesima operazione di chirurgia podologica, e dopo aver contato e ricontato senza soverchio costrutto i km da percorrere domani, è giunta l’ora di dormire. Non ho voglia di alzarmi presto, ma le previsioni del tempo sono funeste e rientrando ho visto una cappa di nuvole ostruire il cielo come un’ala nera. Nel placido intontimento che precede il sonno, i salmi in inglese mi trascinano prepotentemente a Taizè. Mi sento una pellegrina sperduta: invece che procedere sostenuta dalla fede, procedo alla cieca in cerca di un sostegno. Cosa avrà in serbo per me l’Apostolo? E ci sarà poi qualcosa in serbo per me? 12 luglio 2003 Leboreiro – Santa Irene (37 km)

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Sono quasi le nove, ma cammino da appena mezz’ora. Ho viziosamente dormito fino alle otto per ritemprarmi appieno in vista della tappa odierna. Ho preso un cafè con leche al bar dell’albergo, gentilmente offerto dal proprietario. Ed ora percorro lo sterrato parallelo alla nazionale verso Melide, sperando con ciò di consumare un po’ del catrame che da ieri mi riveste completamente le suole, ovidiano contrappasso per il mio peccato di predilezione verso l’asfalto. Piegata ma non vinta, oggi intendo comunque sottrarmi all’assurda tirannia di tutti quegli artificiosi sentieri nel bosco. Mi sembra di percorrere una sorta di “percorso naturalistico iacopeo” graziosamente disegnato secondo i capricci della solerte Xunta de Galicia. Non credo neppure per un istante che il “vero Camino” possa essersi sviluppato senza lasciare traccia per quel dedalo di saliscendi boschivi, il Camino medievale giace sepolto sotto l’asfalto ed il traffico della nazionale. Varcato un bel ponte romano, sono entrata a Furelos, dove un prete grande grosso e cordiale ferma i pellegrini a dieci per volta sulla soglia della chiesa, li fa accomodare e tiene loro una breve conferenza sulla chiesa e sullo stranissimo crocefisso di legno il cui braccio, staccato dalla croce, pende verso terra, forse divelto dal peso dei peccati dei troppi pellegrini o forse per alleviare loro quegli stessi peccati. Certo la statua è singolare e mi emoziona il pensiero della sua unicità.

* Melide sorge grande e sbracata sulla sommità di una collina, atmosfera da cittadina dell’Adriatico meridionale, le vie si dipartono larghe dalle rotonde come petali di un fiore sfatto. Benché sia mattina avanzata, la città pullula di gruppi di giovanissimi pellegrini che si attardano nei bar, ho incontrato anche la ragazzina che stava male a Barbadelo, coi suoi compagni. Ho attraversato la città e sono scesa rapidamente dall’altra parte, sperando di trovare un bar accogliente, in periferia o in un paesino dei dintorni, invece la nazionale si è subito inoltrata in un folto bosco, che non ho potuto gustare perché dovevo prestare la massima attenzione ai camion. Quando la foresta si è diradata, mi sono imbattuta in un’area di sosta, dove sono rimasta 45 minuti a scrostare oziosamente il catrame dalle suole con la punta del coltello navarro: in realtà assaporavo il fresco dell’erba e il vento che mi soffiava attorno. Non ho voglia che tutto finisca, non ho voglia di arrivare. Ma ora devo andare, è solo mezzogiorno e devo ancora fare tanta strada. Sto camminando meglio di quanto non mi capitava da giorni ma la testa non c’è proprio.

* Verso mezzogiorno sono arrivata a Boente, un paese a circa 8 km da Melide, dove ho visitato la chiesa di San Giacomo. Man mano che ci si avvicina a Santiago, in prossimità delle chiese stanziano persone che offrono una breve visita guidata e il sello. Così è stato a Portomarin ed a Furelos. Qui c’era una ragazza aiutata da un signore anziano che conosceva l’Italia e persino il Duomo di Milano, ma la chiesa era poco significativa, ho fotografato l’altare solo per ricambiare la loro gentilezza. Poi mi sono infilata in un bar, dove ho finalmente assaggiato la bevanda a base di latte e cacao che popolava da giorni le mie fantasie. Una parete del bar era

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ricoperta da incongrui cappellini da baseball. Sono uscita ed ho imboccato il Camino, con l’intenzione di riprendere la carretera prima possibile. Ho raggiunto Arzua, in parte arrampicandomi penosamente su sentieri sassosi, pensati forse da un addestratore dell’esercito, in parte arrancando lungo la carretera sferzata dal sole. Prima di uscire dal bosco, al rifugio di Ribadiso, ho incontrato la svizzera e l’ho aiutata a collocare un cartello sul sentiero con cui avvisava gli amici che lei si sarebbe fermata lì. Ero tentata di rimanere anch’io e riposarmi un pomeriggio in quel bel rifugio di pietra in riva al ruscello, fra i boschi, l’ombra e la frescura, ma ciò significava perdere un giorno, mentre io voglio fare il possibile per arrivare domenica. Così, sebbene accaldata e a malincuore, ho ripreso la strada; questa, dopo una grande curva, ha lasciato i boschi e si è riversata nel rovente e interminabile rettilineo verso Arzua, fino al brutto e sciatto ingresso in città. Case mal costruite a più piani, coi soliti mattoni traforati, tanta polvere, un accumulo incosciente ed inconsapevole. Proseguendo verso il centro ho percorso la via principale, rallegrata da negozi che espongono belle cose e quesos de Arzua, e sono arrivata a questa bella piazzetta alberata, circondata da casette basse e bianche. Mi sono seduta ad un tavolino all’ombra degli alberi, e mi sto godendo una coca cola. Faccio sempre più schifo, imbrattata d’asfalto come sono, le magliette appese allo zaino che non asciugano mai. Devo approfittare di questo breve riposo, se intendo davvero arrivare a Santa Irene, che dista ancora 15km e quindi almeno tre o quattro ore. Mi attira il nome da monastero greco, l’idea che sia una località in mezzo ai pini, l’ultima altura prima della discesa verso Santiago.

* Poco fuori Arzua ho incrociato i ragazzi inglesi del rifugio di Gonzar, che non riuscivano a trovare la strada, ho indicato loro la direzione ed ho imboccato la nazionale davanti ai loro occhi perplessi, sentendomi una vecchia volpe del Camino. La carretera attraversa la vallata in un un’ampia curva, scavalcando campi, boschetti, sentieri polverosi, torrenti e qualche capannone. La più fiorente industria di Arzua, dopo quella dei formaggi è quella dei finimenti per cavalli. La N 547 correva lunga, diritta e arroventata dal sole, accanto a me sfrecciavano irridenti i pullman color indaco dell’impresa Feire, con l’indicazione “Lugo – Santiago”. Ad un certo punto ho lasciato la nazionale e ripreso il Camino, stupidamente allettata da una stradina piana, fiancheggiata da alberelli di aspetto innocuo che lasciavano presagire gradevoli e sopraelevate scorciatoie, in un paesaggio toscaneggiante. Dopo pochi metri mi sono ritrovata in un inferno vegetale, interminabili corridoi polverosi tagliati entro fitte macchie di eucalipti, che si susseguivano intervallate da prati incolti racchiusi entro muretti incrostati di licheni. Ho camminato oltre un’ora con la sensazione come Alice di muovermi solo per stare ferma: anche i fatidici 500 metri fra un cippo e l’altro parevano innaturalmente dilatati. Così, appena il rumore delle auto mi ha suggerito la vicinanza della carretera, ho abbandonato il diabolico intrico e mi sono entusiasticamente gettata in direzione dell’asfalto.

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Sono sempre più convinta che queste gimcane abbiano ben poco a che fare col Camino. Persino il mio libro e i fogli di Mundicamino lasciano trasparire una certa perplessità. Non che costeggiare la nazionale sia una passeggiata, anzi. A questo punto della strada però, preferisco la calura, l’odore di catrame, il rumore dei camion, alla frustrazione che nasce dall’impressione di girare a vuoto. Dopo circa un’ora che procedevo sotto il sole, non avevo ancora incontrato né fonti né bar quando, finalmente, all’imboccatura di una strada secondaria ho scorto un’insegna che oscillava sotto un pergolato. Sono entrata nella piccola costruzione in pietra spingendo la porta accostata ed ho sbirciato nella penombra. Era un posto stranissimo, un emporio da romanzo di Faulkner, sul bancone arrugginito spiccava un antidiluviano sifone per il seltz, ogni spazio era stipato di scatoloni e oggetti vari. Dal retro è arrivato un signore decrepito che in un sussurro mi ha faticosamente spiegato che il bar era chiuso ma che ne avrei trovato uno poco più avanti. Mi è spiaciuto, ero ammaliata da quella semioscurità polverosa. Poche centinaia di metri dopo ho raggiunto un locale anonimo sul ciglio della strada, gremito di ragazzetti del paese che se la ridono alle mie spalle. Morivo di sete ed ho preso una birra enorme, violando le mie stesse regole. So che ora uscire sotto il sole non sarà il massimo, ma avevo bisogno di quella gratificazione che l’acqua o una bibita non possono dare, il potersi annullare nell’abbondanza del boccale colmo, bere e ribere a sazietà. Spero di trovare un posto dove dormire prima di Santa Irene, che dista circa una decina di chilometri. Non riesco a rendermi conto che domani forse sarò a Santiago. Non so bene come rapportarmi con questa cosa. Varie volte mi sono chiesta come ci si sentisse a mettersi in cammino, non già per il cammino in sé come facevo io, bensì col preciso intento di raggiungere la tomba dell’Apostolo. Ora, approdata quasi all’altro capo della strada, capisco che la differenza non è poi molta, è il pellegrinaggio a santificare il santuario e non altrimenti. Non credo che piangerò come Davide Gandini se mai arriverò sul Monte del Gozo e scorgerò le torri della cattedrale, certo non mi sento in grado di cogliere nulla di ciò che quelle torri hanno rappresentato per milioni di pellegrini più degni di me. Forse non mi sento pronta, forse vorrei che la strada proseguisse ancora. Sono quasi le cinque e sono ancora lontana, devo rimettere le calze e riprendere la strada. Chissà fino a quando reggerà il mio ginocchio. Mi sono comprata un Magnum per contrastare gli effetti dell’alcol.

* Nella lieve ebbrezza indotta dalla birra ho divorato il gelato senza quasi accorgermene. Poco dopo ho incontrato nuovamente Josè il portoghese, che mi ha impartito un’altra lezione: mi ha spiegato che il lato sinistro della strada è il lato del pellegrino. A dire il vero ho sempre tenuto la sinistra ma lo facevo semplicemente per sicurezza, nella convinzione che stando a sinistra le auto che sopraggiungono mi avrebbero visto in anticipo, mentre i malintenzionati non potrebbero comunque accostare contromano. L’enunciazione di Josè ha invece consacrato la mia empirica

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constatazione e la riveste di solennità. Abbiamo parlato un po’, poi lui – che pure è smaliziato circa la fantasia di “Jacobeo” nel tracciare i sentieri - si è inoltrato fra gli eucalipti, stupito che io mi mantenessi sulla strada. Staccarsi dal Camino è infatti una scelta estrema di solitudine, non tanto per l’esclusione dal contatto con gli altri pellegrini, quanto per la perdita della compagnia del sentiero, della consolazione delle frecce, del conforto dei cippi chilometrici. Mi sono fermata ancora ad un bar-emporio poco più avanti, per bere senza alcun piacere un succo di ananas e far respirare i piedi. Mancano almeno altri cinque km, il padrone del bar dice che ci vorrà anche più di un’ora. Uomini entrano ed escono, altri commentano il mondiale di motociclismo.

* Sono arrivata in un posto incantevole, un rifugio privato poco dopo l’Alto de Santa Irene, raggiunto con grande fatica alle sette e dieci di sera. Il rifugio è una vecchia casa di pietra in una radura a ridosso della strada, con le pareti bianche e le travi a vista, mente i bagni e le docce sono una poesia. Il mio letto ha coperte e lenzuola, è collocato in una nicchia in pietra grigia all’estremità della grande stanza comune, e riceve la luce da una mezza porta, aperta sul bosco. Sono scesa nel giardino, una radura erbosa chiusa fra altissimi pini neri, le cui cime sembrano sfilacciarsi nella foschia, mi sono seduta su una panca di pietra a scrivere. Sono felice di essere in un luogo tanto bello alla vigilia dell’arrivo a Santiago. Il rifugio comunale era a poche centinaia di metri di distanza e mi è bastata un’occhiata per decidere. Ho cenato nella sala comune, arredata come un cottage di montagna, insieme agli altri ospiti, una coppia spagnola di mezza età, un signore austriaco partito da Linz e una coppia di coniugi sardi con un’amica, anch’essa sarda, che percorrono il Camino in autobus. La cena non è stata eccelsa, il solito caldo ed il solito merluzzo oltre a frutta sciroppata, che io detesto; il cibo, il modo di fare delle ragazzine che gestiscono questo splendido posto, tutto suggeriva l’impressione che qui lo spirito imprenditoriale prevalesse sullo spirito di accoglienza, e questo mi ha un po’ guastato la serata. Pensavo che l’occasione conviviale potesse essere il miglior coronamento per l’ultima sera; mi figuravo di cogliere in zona Cesarini una di quelle splendide alchimie del Camino tanto magnificate da Davide Gandini e dai suoi epigoni. Invece i due inglesi, uomini di mezza età, hanno mangiato per conto proprio, l’austriaco pensava solo al proprio piatto ed i due spagnoli si sono messi ad elogiare il governo italiano, suscitando le ire dei tre sardi. Insomma, ritrovarmi la vigilia dell’arrivo a Santiago a parlare di Berlusconi – non importa in quali termini – è stato davvero l’epilogo più avvilente che potessi immaginare. Dopo cena sono uscita a passeggiare lungo il limitare del bosco, qui siamo in alto ed il cielo è un vertiginoso coperchio posato sulla sommità degli abeti. Ho camminato fino ad una vecchia fonte in marmo, una rovina semisommersa dalle foglie secche, odore di putredine, atmosfera inquietante, sono rapidamente risalita sul sentiero che costeggia il bosco e poco dopo sono rientrata.

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Ora sono sul mio letto, guardo la grande sala di pietra popolata di letti a castello, a malapena illuminata dall’ultimo chiarore del crepuscolo che entra dalla mezza porta. Sono cessati anche i sussurri ed il viavai dal bagno. Domani i sardi intendono svegliarsi alle cinque e mezza ed io spero di seguire il loro esempio. Oggi ho percorso 37 km, il che non è affatto male. Davanti a me i due inglesi, che hanno ignorato il resto della compagnia per tutta la serata, si spogliano senza alcun problema, rivelando orridi e finocchieschi slip neri. La luce sbiadisce. L’ultima notte sul Camino si conclude così, in mezzo a gente che non conosco, molto più vecchia di me, con cui non ho nulla in comune. Sono le dieci, la luce non è più che il riflesso della pagina bianca nel buio. Ora dormo, dalla strada arriva il rombo delle auto, sicuramente vanno molto lontano, forse arrivano persino a Santiago. 13 luglio 2003 Santa Irene – Santiago (23 km) Sono uscita da Santa Irene alle sei meno un quarto. Ho disceso l’Alto di Santa Irene nella notte fonda, mentre la massa nera dei pini si stringeva attorno alla nazionale, le cime chiudevano il cielo in un’ellissi. Rare macchine mi sfrecciavano accanto e accendevano di luce bianca i tornanti che poi ripiombavano nel buio. Poco prima di Arca la terra si è spianata, ai pini sono seguiti gli eucalipti. La strada si è allargata in un’ampia curva, costellata di installazioni deserte. La luce livida dei fari allo iodio suggeriva una desolazione da paesaggio americano. Ho raggiunto il grande rifugio di Arca mente i primi pellegrini si allontanavano alla spicciolata nel buio, in fretta ed in silenzio. Ero convinta di trovare un bar aperto nei dintorni del rifugio, invece la sola cosa illuminata era l’insegna del distributore di benzina; la mia colazione è così consistita nella bustina di zucchero che avevo conservato dal viaggio in aereo, ingoiata camminando mentre mi allontanavo. La strada ormai piana ha attraversato, noiosa ed interminabile, case, campi e frazioni addormentate. All’altezza di Amenal era abbastanza chiaro perché potessi entrare nel Camino senza rischiare di perdermi, mi sono quindi inoltrata nell’ennesima foresta di eucalipti. Dopo un’ora di continue salite e discese per sterrati sassosi e coperti di polvere, sono sbucata davanti alla pista dell’aeroporto di Labacolla, l’ho costeggiata fino a questa rotonda, dove il Camino si ricongiunge con la strada, e mi sono seduta ai piedi di un’altra grande e brutta statua al pellegrino. Stanotte ho dormito malissimo, mi sento già molto stanca, evidentemente lo zucchero non è bastato, mancano 12 km e mi sembrano mille, spero quindi che il Camino si mantenga dritto, all’aria aperta e, se possibile, asfaltato. Accanto a me sfilano visi divenuti familiari in questi ultimi giorni. Labacolla era il luogo dell’abluzione rituale prima dell’arrivo a Santiago, ma non ci sono fontane, qui. Sono le otto, la luce è biancastra, torbida, l’aria è umida e spessa. Dal cielo coperto piombano poche gocce tiepide, la mia prima pioggia, il dono del Camino per la mia abluzione.

*

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Dopo Labacolla, il Camino ha seguito una traccia incomprensibile, fra sentieri stretti in mezzo ad una specie di terra di nessuno di boschetti e cespugli, percorsi da un’unica fila indiana di pellegrini silenziosi ed incupiti. Poi sono iniziati i paesini dei dintorni di Santiago. Il bisogno di un caffè si era fatto morboso. Presso un pugno di costruzioni dall’aria residenziale ho trovato il primo bar aperto, gremito da gruppi di ragazzini e servito con placida indifferenza da una signora che ignorava la fretta. In un soprassalto di esasperazione me ne sono andata, sebbene fossi quasi sfinita e in pieno calo di zuccheri. Il paese successivo, El Poio, ostentava un certo numero di bar aperti. Così, ai piedi di una chiesa secentesca dove si stava già celebrando la Messa, ho finalmente trovato dove prendere un cafè con leche ed un kit kat molliccio. Questa del kit kat è stata l’ultima lezione di Maria, che a Palas del Rei me ne aveva magnificato le proprietà energetiche. Uscita da El Poio la strada si è immersa in una bella campagna ondulata di eucalipti ed alti alberi, che si alternavano a cascine e campi. Ad un certo punto i ceppi chilometrici sono spariti, prova evidente della malafede della Xunta de Galicia, sono convinta di aver percorso almeno tre km a vuoto, girovagando fra le colline. Ogni salita sembrava decisiva e invece preludeva ad un nuovo tuffo fra gli eucalipti. Davanti a me procedeva una compagnia di ragazzi spagnoli afflitti da uno sgradevole eccesso di vitalità, per cui ridevano, cantavano, ballavano il samba, suonando fischietti e percotendo un catino, fino a che loro stessi non sono stati sopraffatti dalla crudele ed evidente inanità di quel girovagare. Poi mi sono mescolata ad un gruppo di pensionati spagnoli privi di zaino, probabilmente appoggiati ad un pullman. Anche per loro il clima festoso da gita di classe si è rapidamente mutato in smarrita perplessità quando il Camino ha imboccato un interminabile stradone fra terreni incolti lungo cui ogni tanto si scorgevano squallidi edifici seminascosti nella boscaglia. Superati una discoteca in rovina, la sede della radio gallega ed un brutto campeggio, abbiamo valicato l’ultima collina e raggiunto finalmente San Marcos, un paesino risistemato meglio degli altri, anche se non quanto sarebbe lecito aspettarsi per l’ultima tappa prima di Santiago. Lasciato San Marcos si sale finalmente all’ultimo e più importante luogo simbolico del Camino, questo Monte do Gozo, un collinone con un gigantesco monumento sulla cima, un posto del tutto privo di bellezza. E’ anche vero che quando il dito punta il cielo, l’imbecille guarda il dito. Il significato del monte è solo quello di essere un dito puntato verso Santiago e forse è da imbecilli lamentarsi per la bruttezza del sito. L’assenza di suggestione era dovuta anche al fatto che non si vedeva quasi nulla. Oggi Santiago era solo la massa disordinata di cemento che si stendeva nella vallata poco più avanti, soffocata fra le nuvole basse. Ho messo l’ultimo sello alla ermita del Monte do Gozo, una chiesetta imbruttita dal restauro in corso, davanti alla quale qualche ambulante vendeva caffè e altri generi di conforto di bassa lega. I ragazzi che mi avevano preceduto chiacchieravano seduti su un muretto. Poco oltre si apriva l’ingresso al complesso che occupa tutto il fianco della collina rivolto verso Santiago. E’ una struttura anonima, pacchiana come la descrivono le guide. Una via di mezzo fra un centro sportivo sul genere del Monte Stella ed una fiera campionaria, con brutte botteghe assolutamente fuori luogo.

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Sono entrata in un bar del complesso solo per riposare un istante ed ho preso un caffè, costoso, alla faccia dei pellegrini. Finito il caffè me ne sono andata, seguendo disciplinatamente il tragitto indicato dalle frecce e realizzando quasi subito che stavo spostandomi troppo rispetto alla strada principale. Dall’alto della collina vedevo infatti chiaramente che, se avessi seguito le frecce, avrei costeggiato la città sino all’altra estremità, allungando il tragitto almeno di un paio d’ore. Piovigginava ed ero esasperata. Mentre rovesciavo un torrente di improperi contro la Xunta de Galicia, le nubi si sono diradate e, fra le maglie della recinzione del complesso, ho finalmente intravisto le torri della Cattedrale. Non sono Davide Gandini, non ho pianto, non ho intonato il te deum, Ero semplicemente sbalordita, colpita da questa visione, accidentale e violenta come un pugno. Ero arrivata.

* Nel discendere dal Monte do Gozo sono riuscita a sottrarmi all’ultima trappola della Xunta de Galicia, grazie ad un signore che mi ha dato le indicazioni necessarie per riportarmi sulla strada “giusta”, quella tracciata nella memoria e nei cuori. Sono scesa dal Monte ed ho ripreso la N547 proprio all’altezza del ponte su cui sorge il cartello stradale che segna l’ingresso in città. Il viaggio, almeno quello geografico, era terminato. Ho risalito lentamente la periferia di Santiago, non brutta ma insignificante nella desolazione della domenica mattina. Ora sono seduta su un muretto in una piazza ancora lontana dal centro, anche se non so quanto lontana. Il cielo è grigio, non c’è quasi nessuno in giro. I piedi mi fanno un male porco, sono quasi sei ore che cammino senza aver fatto altro che brevi ed inutili pause, senza mai aver levato le scarpe. Da quando sono entrata in città le frecce hanno ripreso ad accompagnarmi e forse è solo il loro filo invisibile che mi trascina e mi sorregge nel proposito di arrivare per mezzogiorno alla cattedrale.

* Sulle scale dell’Officina del Pellegrino la coda è interminabile, ma non mi importa. In questo momento non mi importa più di nulla. Una volta oltrepassato il quartiere di San Lazzaro sono stata finalmente in vista del centro; ho attraversato una strada all’altezza della Porta del Camino, da cui entravano ed entrano tuttora i pellegrini, ed ho imboccato una via stretta e lunga in lieve discesa, case vecchie costellate di negozi, poi ho dovuto sedermi su una panchina per riprendere fiato, ero al limite della resistenza fisica. Sono ripartita, nelle strade semivuote il mio passo risuonava sul selciato, le vecchie case avevano ceduto il passo a palazzi maestosi ma la vista della Cattedrale tardava. Sono sbucata in Praça de Cervantes, dove ho trovato una mappa che, nella mia confusione e stanchezza, non riuscivo a decifrare. Ho seguito una freccia e mi sono trovata nella Rua de Arzabacheria, la strada degli argentieri. Lì ho alzato gli occhi ed ho compreso di essere finalmente arrivata. Sono entrata nella Cattedrale dall’ingresso laterale, pochi istanti dopo l’inizio della Messa. Immediatamente sono stata colpita dalle navate, alte e maestose, in un

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susseguirsi di archi romanici ancora più impressionante per la prospettiva obliqua da cui li osservavo. Con mia grande delusione il botafumeiro, il grande turibolo che, secondo Imiri, viene fatto volteggiare ogni domenica per le navate, penzolava inerte in un angolo. La chiesa era gremita ed io stavo davvero male: appena varcata la soglia ho appoggiato lo zaino, tolto le scarpe e sono crollata su di un gradino, il dolore al ginocchio mi impediva persino di alzarmi quando la funzione lo richiedeva. Ma mi sentivo talmente fiera di essere lì ed orgogliosa al limite dell’arroganza. Ostentavo con superiorità il mio non reggermi in piedi a tutti i pii turisti che mi guardavano con disapprovazione assistere alla Messa semisdraiata sui gradini e scalza. La chiesa è bellissima, imponente, straripante di tesori. Ne ho vista solo una parte perché subito dopo è iniziata un’altra Messa. Così sono riuscita ad alzarmi, aggrappandomi al corrimano, ho ripreso lo zaino e sono uscita, camminando lentamente, ancora frastornata. Poco oltre la soglia ho incontrato i tre sardi di Santa Irene. Ci siamo salutati con grande effusione, sembravamo grandi amici e non casuali commensali di una sera. Ho detto loro che non intendevo andare all’albergue, anche Imiri me lo aveva sconsigliato, e mi hanno suggerito l’indirizzo di una pensione, l’hostal Santa Rita, che a loro volta avevano recuperato in un qualche rifugio lungo la strada. Come nella canzone Samarcanda, a nulla mi è valso fuggire in capo al mondo per sottrarmi a Santa Rita. Prima di tutto però sono venuta qui all’Officina del Pellegrino. Un palazzo antico a ridosso della Cattedrale, mura sgretolate, una coda che si snoda sulle scale, zaini abbandonati ovunque, sguardi ancora vitrei. Guardo e riguardo la mia credencial, chissà se andrà bene, chissà se mi daranno la Compostela. Ma alla fine non mi interessa, io la strada l’ho percorsa e questo è ciò che conta. Non è ancora tempo di fare resoconti, sono ancora, mi sento ancora, nel pieno del Camino, in mezzo a questa gente, come me sudata e zoppicante, che stringe la credencial tutta sgualcita. Ecco finito. Il ragazzo al banco mi ha fatto un paio di domande, ha controllato i timbri e mi ha rilasciato questo attestato in latino in base al quale “Dona Donatillam Capizzi” ha compiuto il Camino fino a Santiago pietatis causae. Sono troppo ubriaca di stanchezza per realizzare che è finito tutto, i sassi, la strada calpestata, l’erba che scorre sotto i miei occhi, la sola cosa più piccola e statica di me.

* L’hostal Santa Rita si trova in una zona appena fuori del centro, vivace e piena di negozi, e costa solo € 12 per notte. E’ al quinto piano di un palazzo e sembra un pensionato da film neorealista, nella stanza manca il bagno ma, assurdamente, c’è un piccolo televisore. Imiri aveva ragione, vale la pena di alloggiare in queste pensioni piuttosto che nell’albergue, che dicono decentrato, gremito e piuttosto malandato. Ora però devo riprendermi e uscire, per godermi Santiago ed andare a trovare l’Apostolo in convenienti condizioni d’animo.

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Mi sento triste, di quella tristezza infantile che coglie senza motivo quando si è molto stanchi e si regredisce ad un tempo in cui si piangeva allo stesso modo per la fame, per il sonno o per il dispiacere.

* Ho parlato con la Michela, che si è resa conto del mio stato di confusione mentale e mi ha ordinato di andare subito a mangiare qualcosa. Così sono entrata in un bar piuttosto bello vicino all’hostal ed ho ordinato un piatto di calamari fritti e una birra, mi sento istupidita per la stanchezza. Del resto non si può camminare per sette ore con solo un kit kat nello stomaco. I calamari sono buonissimi ma io continuo a sentirmi triste. Forse ho solo bisogno di rilassarmi, forse patisco la sensazione che non mi stia rimanendo nulla.

* Mi sono lentamente riavuta ed ho ripreso l’esplorazione del centro di Santiago; i portici mi ricordano Bressanone, se non fosse per la profusione di chiese barocche e monasteri. Le vie seguono un andamento ondulato, attorno alla cattedrale i piani si moltiplicano, salite, discese, passaggi, stento a ritrovarmi. Dopo giorni e giorni di strade e deserto, l’occhio è attratto immediatamente dai negozi traboccanti di cose, soprattutto gioielli e bigiotteria, ma anche paccottiglia, formaggi tetilla e torte di Santiago a centinaia. I locali si susseguono, dai bar più ordinari ai posticini dall’aspetto moderno e accattivante, i ristoranti espongono crostacei e polpi giganteschi dall’aspetto gessoso ed infelice. Però ho anche trovato due forni che vendono pane dall’aspetto genuino, brioches e pane alle noci, e nelle vie non immediatamente a ridosso della Cattedrale ci sono residui di vita non inquinati dall’industria turistica. Ho percorso la Rua San Roque fino al convento di Santa Clara, qui i negozi acquistano un aspetto più quotidiano ma le case sono ancora antiche, le vie serpeggiano e domina la pietra, ho trovato una panetteria pasticceria molto bella e in cui aleggiava un buon profumo. Ho comprato due paste, una ciambella ricoperta di glassa, che mi incuriosiva perché ne avevo viste esposte di identiche in molte pasticcerie, e una specie di mousse al formaggio che speravo più pannosa e invece si è rivelata troppo formaggiosa. Le ho mangiate subito, seduta su di un muretto di fronte al convento, mi sentivo molto vagabonda mentre armeggiavo col pacchetto della pasticceria e mi imbrattavo di panna montata davanti alle auto di passaggio. Poi sono rientrata nel centro, cercando un locale dove sedermi a bere qualcosa, ma non avevo ancora confidenza coi luoghi, mi sentivo a disagio all’idea di entrare in qualche ritrovo elegantino per turisti e non ero riuscita ad individuare un posto che si confacesse al mio stato d’animo particolarmente vulnerabile. Così mi sono seduta su di un marciapiede sopraelevato sotto i portici e sono rimasta ad osservare le persone che si avvicendavano nella via, chiacchierando o sbocconcellando dolciumi. Pochi visi conosciuti, ma riconoscevo facilmente i pellegrini, alcuni appena arrivati altri già ripuliti. Sono stata ancora nella cattedrale, affascinata dalla complessità delle forme, la varietà degli stili, la grandiosità, l’imponenza; guardando tutto questo ogni passo compiuto per raggiungere Santiago appare pienamente giustificato. Mi sono affacciata al Portico della Gloria, nome che, grazie a Davide Gandini, sin dalla partenza era stato il simbolo dell’arrivo a Santiago. Tuttavia, non so per quale

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motivo, me l’ero figurato come una specie di arco di accesso alla piazza. Sono rimasta sbalordita dalla bellezza della pietra scolpita, le figure sembrano davvero prendere vita sotto i miei occhi. Non ho mai visto niente di simile. Sono scesa nella cripta dove sono custodite le reliquie dell’Apostolo, quelle che, infine, costituivano la ragione del mio viaggio. Non ho saputo articolare non dico una preghiera, ma neppure un pensiero.

* Ho girato ancora, ho percorso più volte il centro da un’estremità all’altra. Sono sbucata in un parco affollato da gente che passeggiava e si godeva l’ozio del tardo pomeriggio, sono rimasta un poco a guardare pigramente il passeggio. I piedi mi facevano ancora tanto male, ma il cibo mi era entrato in circolo e non mi sentivo più prossima a mancare. Riflettevo sulla straordinaria esperienza che in questa città accomuna individui tanto diversi. Il solo fatto che tante delle persone abbiano affrontato fatiche improbe per arrivare, attribuisce alla stessa città un’aura di speciale intensità. Mi era stato detto che l’arrivo a Santiago sarebbe stato deludente, che nulla avrebbe potuto davvero compensare la carica trasmessa dal Camino. Io invece sto scoprendo proprio in questo essere qui una pienezza che purtroppo non so descrivere. I locali sono numerosi, ma è facile individuare quali siano trappole per turisti sprovveduti che spacciano pesce e polpo a prezzi vergognosi. La mia guida menzionava con accenti entusiasti un ristorante di cui non dava l’ubicazione, così mi sono testardamente inoltrata in ogni immaginabile anfratto del centro, fra questi imponenti palazzi in pietra, disseminati di negozi e negozietti quasi tutti uguali, fra i vicoli e le stradine in continuo saliscendi. Non ho trovato il locale indicato – secondo me è solo un espediente degli autori della guida per favorire le esplorazioni – ma ho adocchiato una tenda che sporgeva, nella minuscola traversa di una via che scendeva da Praça de Cervantes verso Rua San Roque, alla tenda corrispondeva un piccolo ristorante il cui menu proprio mi ispirava. Purtroppo non avevo considerato che è domenica e quando all’ora di cena sono ritornata, la saracinesca era infatti inesorabilmente chiusa. Allora ho ripiegato su di un locale nascosto in una parallela poco lontano, un posto informale in stile libertà per i compagni in carcere, ma dove uomini anziani bevono mescolati ai giovani e si ascolta musica gallega folk, molto celtica. Ho ordinato al bizzarro proprietario un piatto di peperoni arrostiti, simili ai nostri peperoncini verdi, ma più piccoli e più teneri. Lui ha smesso il broncio con cui mi aveva accolto, si è diretto nel retro e me li ha arrostiti sul momento, servendoli con una tonnellata di pane ed una buona birra Estrella Galicia. La birra ora si mescola al sonno e mi rende torpida, è meglio andare. Sono indecisa su cosa fare domani. Potrei andare al mare, rientrare in giornata e dedicare tutta la giornata di martedì a Santiago, però mi attira di più l’idea di dormire a Finisterra. Devo comunque tornare ancora nella Cattedrale, oggi ero troppo frastornata per vedere bene e capire le cose.

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Ora dormo, non ricordo nulla di ciò che è passato, solo lampi di immagini casuali. Astorga, la salita a O Cebreiro, gli immensi campi di grano della meseta, il filare di alberi verso Leon. Sono le undici, ma ciò non conta, non devo più alzarmi all’alba. 14 luglio 2003 Santiago - Finisterra Sono nella churreria adocchiata al mio ingresso a Santiago, ad un angolo di quella Rua San Pedro che ieri mi era sembrata interminabile. Stamane, uscita dall’hostal mi sono diretta rapidamente verso la lontana stazione delle corriere; sapevo di avere pochissimo tempo perché ieri mi ero procurata gli orari dei pullman all’ufficio del turismo. Sulla circonvallazione ho raggiunto una fermata d’autobus ed ho preso al volo il n. 10. Una volta a bordo, con tanto di biglietto timbrato, mi sono resa conto che era la prima volta che salivo su di un mezzo di trasporto dopo la partenza da Burgos. Un gesto tanto banale come prendere un autobus, in quel momento era dirompente come il primo banchetto dopo il Ramadan. Appena arrivata ho visto sfilare via il pullman, così devo trascorrere in qualche modo le due ore che mancano alla prossima partenza per Fisterra. Oggi Santiago è luminosa sotto il sole splendente; mi spiace andare via ma temo che un domani potrei rimpiangere l’accidia che mi avesse bloccato ad un passo dall’estremo confine della terra. E forse rimanere tre giorni a vagare per le strade del centro potrebbe rivelarsi un esercizio sterile. Dopo aver lasciato lo zaino al deposito bagagli, sono risalita per una stradina che si trasformava in un sentiero inerpicato sul dorso della collina, fra cespugli e terreno incolto, singolare brandello di campagna nel cuore della città alta. Infine sono sbucata in prossimità della Porta del Camino. Il churro era freddo e duro, ma l’ho amato lo stesso. So che mangiare churro qui al nord è come mangiare arancini di riso a Domodossola, ma ci sono passioni più forti del buon senso o della geografia. La barista e due avventori parlano degli amori di un’attrice sposata con un cubano, di cui già Imiri mi aveva raccontato lungo la strada per Ponferrada; sviscerato l’argomento, sono passati ai massimi sistemi: conta più il denaro o l’amore? La discussione è avvincente ma ora andrò.

* Sono stata di nuovo nella Cattedrale, ho vagato ancora per le strade di Santiago, semideserte per il lunedì; nella Praça do Obradoiro ho incontrato un sacco di gente appena arrivata, in quella fase in cui si stenta a rendersi conto di avercela fatta. Fra loro ho riconosciuto i ragazzi dell’albergue di Gonzar, la ragazza che stava male a Barbadelo, i signori di Calvor che non trovavano da dormire a Sarria. Ritornando verso la stazione dei pullman allo scadere delle due ore, mi sono fermata per un caffè in un barettino nella rua de Pastoriza, una lunga via popolare a ridosso del centro, piena di negozi di alimentari e di bar. Il caffè era solo un pretesto per assaporare l’atmosfera da provincia francese del bar “Perù”, che mi avevo intrigato all’andata: bancone di formica, tavolini quadrati, sedie, un frigo, una macchina del caffè a pompa come le vecchie napoletane.

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Mi muovo in pullman senza rimpianti, provo anzi un grande piacere nel risalire orgogliosamente le colline che ho disceso con così tanta fatica, per parafrasare a rovescio il generale Diaz. E poi proprio la diversità di prospettiva, nell’identità dei luoghi, mi consente di apprezzare ciò che ho vissuto, prima che sia appannato o cancellato dal ricordo. Appena mi sono allontanata da Santiago, il breve accenno di sole di stamane è scomparso ed il cielo è tornato dell’abituale tonalità grigio perla. Qual è la differenza fra il percorrere a piedi i campi ed i boschi e le siepi e gli orti che ora sfioro coi sandali di Ermes? Ora non vedo più il singolo filo d’erba, la colonna di formiche, la pietra, il ciuffo di sterpi, le bacche del rovo ancora verdi, le crepe nella linea bianca della strada, le sconnessure dell’asfalto. Ogni palo, albero, cartello non è bramato, guardato, contato e ricontato prima di essere finalmente raggiunto, ogni cosa si confonde con la successiva. Un’immensa valle boscosa si stende davanti ai miei occhi. I sottili e spellati tronchi degli eucalipti si slanciano verso il cielo, dove fanno esplodere il loro ombrello di foglie. Secondo le carte, questo oscuro paesino schiacciato sul bordo di un grande fiume piatto dovrebbe essere Santa Comba, campi di mais disegnano trapezi irregolari sui fianchi ondulati delle colline, è la Val do Doubra. Ho odiato gli eucalipti, che ho assunto a simbolo delle assurde giravolte nei boschi cui sono stata costretta negli ultimi due o tre giorni. Adesso, forse 0a causa di questi strani alberi, forse per il cielo così basso che sembra premere direttamente contro il suolo, provo violentemente la sensazione di trovarmi un una terra di frontiera, estranea e inospitale. Davvero sto andando verso la fine del mondo, là dove l’estremo occidente già non è più occidente. Mi sento angosciata o forse sono le troppe curve. Mi chiedo come sarà questo mare. Mi ero sbagliata, raggiungo solo ora Santa Comba, un paesone brutto come Arzua, Melide, o Sarria ma, come quegli altri, pieno di vita, ed anche qui tale vitalità sembra contrastare col predominio del colore grigio delle tozze case che si affacciano sulle vie. Dal pullman ho intravisto un mercato ed un baracchino di churro, nonché una panetteria con una bancarella all’esterno che esponeva pile di empanadas, ciò che consentirebbe a Santa Comba la promozione a pieni voti nella mia classifica personale delle città vivibili. In un istante si esce dall’abitato, ed è di nuovo campagna, strade sconnesse, curve, castagni, abeti ed eucalipti.

* Sono a Finisterra, piove. Una pioggerella sottile e quasi trascurabile ma che intride abiti, capelli, zainetto occhiali calze. La splendida mattinata a Santiago ha fatto sì che non mi curassi di premunirmi contro la pioggia, così sono arrivata in questa plaga solitaria in sandali, senza poncho e senza bandana, lasciata a Santa Irene. Scesa dal pullman ho seguito sotto la pioggia la strada che costeggiava la costa fino ad una curva dalla quale si vedeva la parte finale del promontorio ed un grande faro, che ho scrupolosamente fotografato. Poi, vinta da questa pioggia e questo vento, ho ripiegato verso il paese, ormai fradicia. Così ho visto, se non toccato, Capo Finisterre. Ingloriosa conclusione che sta al compimento del Cammino nella esatta proporzione del rapporto che sento fra me e gli altri pellegrini.

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Ho trovato una stanza in un piccolo hostal che avevo adocchiato dal pullman e che ho scoperto raccomandato dalla Guide de Routard, dove una stanza ha il prezzo incredibile di € 15. Mi sono asciugata e sono tornata in giro, per cercare un posto decente dove bermi una birretta prima del sonnellino. Cammina cammina, sono arrivata in posticino favoloso rannicchiato in fondo al porto. Un bancone in un ambiente stipato di cesti di bottiglie, ghiacciaie, scaffali, fusti della birra, dove entrano a malapena tre tavoli, con un piccolo bersò coperto di rampicanti e una griglia per cuocere il pesce che mi ricorda tanto la Grecia. Sono stata infilata in un tavolino striminzito, facendo sloggiare la figlia cicciona del proprietario, che ora guarda imbronciata una telenovela sudamericana particolarmente deprimente, trasmessa dal televisore qui di fronte; le ho offerto di sedersi al mio tavolo, ma non mi ha degnato di uno sguardo. Il pane è buonissimo, poi ho preso una sardina arrostita sulla brace semplicemente deliziosa, scandalizzando il cuoco, “una sola?” ha commentato con un ghigno, e una porzione di calamari altrettanto buoni. Mi commuove l’idea della brace in strada, riparata dalla pioggia con un ombrellone. Ho ritrovato Christian lo svedese, che è arrivato a piedi nel tempo che io ho impiegato ad arrivare in pullman e domani riparte per la Svezia. Ci siamo salutati al volo, lui era con alcuni amici del rifugio seduto ad un tavolino sotto il bersò, io non volevo incrinare la perfezione del momento con altre chiacchiere inutili. Ho divorato un cestino di pane, fuori non piove quasi più. La telenovela trasmessa in televisione sta assumendo toni trucidi, ma anche qui si sta svolgendo una tragedia familiare, il vero motivo del malumore della figlia cicciona è infatti che lei vorrebbe andare da qualche parte ma la madre implacabile ha rifiutato il permesso perché è troppo giovane. Lei allora dopo aver protestato a lungo si è chiusa in un mutismo sconsolato, mentre i familiari commentano la questione nell’andirivieni fra una portata e l’altra. Finalmente sazia, sono rientrata in albergo ed ho dormito sino alle otto, poi ho ripreso a girare sotto la pioggia, alla scoperta di Fisterra. Si sente poco il mare, forse perché oggi cova, insidiosamente tranquillo sotto la pesante cappa delle nubi. In un negozio di artigianato galiziano ho trovato qualche chiarimento circa la vicenda della Prestige, la petroliera che meno di un anno fa ha fatto naufragio riversando una marea nera che ha devastato le coste della Galizia. A questo si riferisce il grido “nunca mais”, “mai più” che ha unito l’intera regione in un sussulto di indignazione, adesso anche un poco commercializzato. Mai più il petrolio, mai più la rovina dei pescatori, la distruzione di un ambiente marino bellissimo e fragile, mai più l’abbandono di un paese e dei suoi abitanti in nome dell’interesse prima, della gestione centralizzata della catastrofe e dell’insabbiamento, poi. Chapapote è il miscuglio di petrolio e alghe che ricopre, impiastra, sommerge spiagge e fondali. Ci si rende conto immediatamente di quanto quella tragedia abbia segnato il modo di pensare delle persone. Qui come a Santiago non passano più di cinque minuti senza incontrare un riferimento alla nave maledetta, al petrolio, alle operazioni di pulizia, all’inquinamento. Mi sono comprata una maglietta nera con la scritta nunca mais, sentendomi stupida come una turista americana, ma incapace di resistere al desiderio di omologazione. Del resto col freddo che fa si è rivelata utile: rientrata, l’ho potuta usare come liseuse, perché la camicia da notte da sola era troppo leggera.

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Il paese è raccolto, in questo assomiglia alle cittadine liguri, vicoli stretti, feritoie. Le case sono però della solita pietra, grigia o gialla, e quelle più recenti in muratura. Ho faticato ad orientarmi nel dedalo di saliscendi attorno al porto, un po’ disassato rispetto al centro, che è invece orientato sulla spiaggia più a est. Sul porto si affacciano costruzioni di cemento, adibite a magazzino od occupate da persone che riparano reti, più avanti sorge un fabbricato che ospita la camera frigorifera e la capitaneria del porto, in paese ho trovato un garage stipato di gabbie per le aragoste. Dopo aver esaminato tutti i ristoranti del paese sono entrata in quello che mi ispirava di più, l’unico peraltro dove altre persone stavano cenando. Così ho finalmente mangiato il polpo, ottimo seppur leggermente inferiore a quello di Cacabelos, ed una specie di zuppa con coda di rospo e frutti di mare, buona anche se forse poco saporita, ciò che non faceva onore agli ingredienti, di grande freschezza e qualità. Il flan infine era effettivamente fatto in casa e non industriale, come dimostrato dai buchini che lo crivellavano delicatamente. Se oggi pomeriggio non mi fossi mangiata mezza pagnotta da mezzo chilo del pane all’uva più buono della mia vita, onore alla panetteria Velay di Fisterra, questo avrebbe potuto essere un pasto equilibrato. Ora sono in albergo, i piedi ed il ginocchio, col riposo di questi giorni, si stanno lentamente riprendendo, già riesco a salire le scale senza zoppicare troppo, mentre i miracolosi cerotti di Portomarin hanno ormai debellato Godzilla. 15 luglio 2003 Finisterra - Santiago Sono al bar Tearron, di fronte al porto. E’ una mattinata lugubre, fredda e ventosa, ideale solo per rimanere al caldo in un bar e bere caffè bollente. I pescatori devono essere usciti da tempo, attorno a me ci sono solo vecchi, nella rada solo barchette. La pioggia e la mia naturale lentezza hanno impedito che riflettessi su ciò che mi circondava. Solo ieri sera, osservando gli operai uscire dopo la fine del turno dalla camera frigorifera, colto qualcosa di questo paese di pesca e di emigranti. Anche se il mare resta calmo, il vento e il cielo ispirano un clima torbido, inquietante, da pecheurs d’Islande. Non per niente la chiamano Costa da Morte.

* Il pullman parte, il mare di Fisterra resterà sempre uno sconosciuto. Ero troppo condizionata dal freddo, dalla pioggia e dalle abitudini del Camino, per cui ho familiarizzato più con croci e chiese che non con questo mare metallico, silenzioso come una bestia in agguato. Costeggiamo una casa, che con questo tempo appare spaventosamente cupa. Nei dintorni della costa gli horreos poggiano su fungoni di pietra e non su muretti come nell’interno. Li ho odiati ferocemente, gli onnipresenti horreos, ripostigli sopraelevati per il mais decorati con croci e pigne o guglie di pietra. Li odiavo perché erano troppi e, nel loro moltiplicarsi all’infinito, impersonavano il mostruoso proliferare della interminabile campagna gallega. Abbiamo superato Cebillon, una cittadina di villeggiatura, una sorta di Stresa gallega, ed ora siamo nella prospiciente e brutta Cee, dove, specularmente, si lavora e non si villeggia.

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Il pullman si inoltra nell’infinita campagna senza sole, l’ambiente è appena allietato dalla radio gallega. Cercherò di dormire un po’. Iniziano gli eucalipti, le cui foglie cadenti e pendule rendono ancora più triste il paesaggio. Meglio guardare i cespugli di felce e ginestra, i pinetti e l’erica, così bretoni e capaci di evocare il sole e il vento. Ma ora mi perdo in questa campagna, le case di pietra nera, i paesi di poche costruzioni, stalle e finestre cieche, muretti rivestiti di muschio, la distesa di colline ondulate coperte di bosco che è facile certo simile a quello che incontrarono le truppe romane o i pellegrini tanto arditi da voler concludere il Camino a Finisterre. Il verde scuro del paesaggio è punteggiato qua e là di piccoli agglomerati grigi, il versante di ogni collina, una volta raggiunto, rivela solo una nuova distesa di pini ed eucalipti offuscati dalla nebbia.

* Sono arrivata a Santiago quasi a mezzogiorno. Ora alloggio in un piccolo hostal dietro l’università, che ho trovato per caso. Al Seminario Maior purtroppo non c’era posto, così mi sono avviata verso l’hostal Santa Rita, fetido ma economico e vicino al centro. Da Praça de Cervantes ho imboccato per errore una via lunga e stretta, piena di negozi di un genere più ordinario di quelli delle vie adiacenti, Rua da Caldereira. In una traversa ho notato un’insegna che mi attirava, “Hostal La Paz de Agra”, con l’indicazione di rivolgersi al bar-ristorante La Zingara. Così ho fatto ed ho scoperto che l’hostal era consigliato dalla Guide de Routard. Il padrone del bar mi ha accompagnato in questo palazzo antico, scale e corridoi da casa ottocentesca, camere piccoline ma accoglienti, € 23 col bagno in pieno centro di Santiago, cosa potrei desiderare di più? Certo, vorrei poter restare altri due o tre giorni invece che uno solo. Ora andrò in giro, visto che per il momento non piove, anche se il tempo è freddo e nuvoloso, ciò che mi ha indotto ad indossare la canottiera, il solo indumento non putrefatto che ancora possiedo.

* Nelle vie attorno alla Praça Rioja, vicino all’hostal Santa Rita, ho scoperto una zona moderna, così piena di bei negozi da sembrare parigina. Ho trovato un supermercato in cui fare la spesa domani, proprio in prossimità della fermata del pullman per l’aeroporto. Ho visitato anche alcune librerie ben fornite e ricche di libri sulla Galizia, fra cui ho visto un libro fotografico che raccoglieva tutto il materiale relativo alla vicenda del Prestige, con toccanti fotografie dei volontari, della loro lotta disperata contro la rivoltante crosta di petrolio, della devastazione della costa, delle manifestazioni e della vera e propria sollevazione popolare che è seguita al disastro. Non l’ho comprato, a malincuore, costava troppo, e mi sono limitata ad acquistare una guida illustrata al Camino, forse non l’ideale da portare con sé a piedi, ma bellissima per le foto e la descrizione dei monumenti. Con l’occasione mi sono letta a ufo qualche guida ai ristoranti, giusto per farmi finalmente un’idea, ed ho scoperto che il “Quatros Vientos”, quello individuato l’altro ieri dopo lunghi giri e che più mi ispirava, era annoverato fra i cinque o sei ristoranti di Santiago che vale la pena di provare. E’ consolante scoprire che il fiuto ancora non mi inganna.

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All’ora di pranzo mi ci sono quindi recata e, finalmente l’ho trovato aperto. E’ un posticino defilato, alla buona, ma genuino e non fasullo come quelli sulle vie principali. Il menu era scritto su di una lavagna appesa al muro ed in cucina si intravedeva affaccendata la madre del ragazzo che serviva ai tavoli. I pochi tavoli erano affollati da studenti e pensionati, un ambiente da film neorealista. Ho preso una fantastica fabada, zuppa non di fave bensì di fagioli, ed un cocido cioè il famoso piatto di carne lessa e verdure. Questo non era sontuoso come quello di Astorga ma era buono ed abbondante e scaldava in questa giornata umida e piovosa. Il pane è eccezionale, secondo solo a quello assaporato a Palais du Rei. Ho visitato il museo dei pellegrinaggi, in una casa antica ristrutturata. Non ho visitato altri monumenti, un po’ perché rifuggo dal pagare per visitare mostre o musei, un po’ perchè voglio godere fino in fondo questa liberà assoluta di movimento, non sopporto l’idea di rinchiudermi a guardare cose, consumando il tempo che è quasi agli sgoccioli. Così preferisco vagare per le strade a comprare libri, cibo e regali. Tra un po’ rientro in albergo e vado a dormire, domani sarà una giornata orrenda.

* Le otto e cinque, fuori piove a catinelle ed io mi trovo in quello che è senza dubbio il bar più fetente della Spagna intera. Il padrone non sembra normale, e l’unico avventore è un vecchietto che commenta ad alta voce “Gente”, il telegiornale strappalacrime e scandalistico del primo canale. In questo posto tutto è vecchio, annerito, persino il bicchiere in cui mi hanno servito la birra è lurido, non so da che parte bere. Le pietre sono annerite ed ingiallite dal grasso e dal fumo,una patina brunastra ricopre ogni cosa, la cassa decrepita, la macchina del caffè a pompa, il caminetto, la vetrina, i piatti appesi al muro, le lastre sconnesse del pavimento. Sono andata ancora nella Cattedrale, non è possibile restarne lontani. La Praça do Obradoiro è una conca di marmo di bellezza indescrivibile, ma l’interno della Cattedrale è una casa, si resterebbe tutto il giorno a contemplare gli archi romanici, le cappelle, l’altare dell’Apostolo, traboccante di oro e di luce, la cripta con le reliquie, cuore pulsante del Camino, con cui è così difficile venire a patti. E il Portico della Gloria, dove la gente fa la coda per infilare le mani nella colonna che rappresenta l’albero di Jesse e battere il capo contro la statua di Mastro Mateo. Alcuni ostentano un raccoglimento assurdo in rapporto al paganesimo dei rituali, ma la statua dell’Apostolo accoglie ciascuno con speciale benevolenza e le statue dei profeti conversano amabilmente, in un atteggiamento di tali naturalezza e serenità che non si sarebbe creduto possibile fermare nella pietra. Sull’architrave i patriarchi accordano oziosamente i propri strumenti ed intanto chiacchierano fra loro, preparandosi tranquillamente a quel concerto celeste di cui ci è data solo una fuggevole anticipazione. Sono finalmente salita alla grande statua duecentesca che sovrasta l’altare e che secondo il rituale i pellegrini devono abbracciare. Dopo pochi gradini mi sono trovata immersa in un tripudio d’oro e cherubini e la meraviglia immediata, infantile, la sensazione di essere in cielo, sommersa e quasi accecata dai riflessi dell’oro che traboccava e scintillava. E’ stato un attimo, i gradini sono terminati, ho raggiunto e sfiorato le spalle del Santo, poi sono scesa, di nuovo nell’ombra, sulla terra.

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Appena uscita dalla porta de la Azabacheria ho incontrato Veronica, ci siamo riconosciute con entusiasmo. Ho pensato che davvero Santiago è l’immagine della Città di Dio, in cui ci si ritrova tutti nella gioia. Davvero è un luogo prezioso e perfetto. E se mi aspettavo qualche speciale compenso per aver compiuto il Camino, ho ottenuto invece una risposta: Essere arrivata qui è in sé il dono più prezioso, il solo premio all’altezza dell’impresa. Siamo rimaste per oltre un’ora a chiacchierare, io, Veronica e le sue amiche, due ragazze di Iseo e una di Milano, incuranti del vento sempre più freddo, poi ci siamo date appuntamento dopo cena. Avevamo tantissime cose da dirci, i giorni di Mansilla e Shagun erano talmente lontani. Una volta salutate le ragazze, ho ripreso a girare per le strade, sotto la pioggia che si faceva via via più fitta; dovevo terminare gli acquisti, dopo aver passato due giorni a progettare e verificare tutti i negozi del centro: il tempo per dormire ormai era svanito. Sono rientrata in albergo solo per posare le cose e indossare il poncho, inaugurandolo finalmente proprio l’ultimo giorno a Santiago. Poi mi sono comprata una pasta, per mera golosità, nella pasticceria di Praça de Cervantes, che si è rivelata meno buona di quanto non credessi, ed ho vagato ancora oziosamente fino ad arrivare in questo posto fra la circonvallazione e l’università, troppo vecchio e troppo squallido perché potessi resistere dall’entrarvi, nell’ora in cui ormai i negozi si avviano alla chiusura. A furia di girare, sia pure solo nelle strade del centro, ho compreso che, come mi è servita Dublino per capire l’Irlanda, così ho colto qualcosa della Galizia solo attraverso Santiago. La mia sensibilità metropolitana non è in grado di afferrare una terra senza una mediazione culturale. I campi e le case che detestavo passando ora assumono un senso ed un’identità nello sguardo allontanato della città. Al di là di quello che rappresenta per i pellegrini, Santiago è infatti un luogo molto vivo, non solo per la quantità di bar, ristoranti, locali e negozi: la vitalità traluce dalle iniziative annunciate dalle scritte e dai manifesti sui muri o nelle vetrine, si sente che è una città universitaria. In questo momento il filo conduttore è naturalmente il motto nunca mais, esibito dalle persone e nei luoghi più disparati, con una trasversalità che in Italia è stata possibile solo per le nostre velleitarie bandiere arcobaleno.

* Ho lasciato il bar fetido, dopo aver ricevuto un sms dalla Veronica che mi indicava dove raggiungerle. Sono arrivata mentre finivano di mangiare in un posto in Praza del Cervantes, Manolo, un’icona del Camino, dove con € 5,80 erano servite porzioni pantagrueliche. Ciò mi ha fatto pentire amaramente di aver rinunciato alla cena per una birra ed una pasta dolciastra e appiccicosa. Siamo rimaste più di un’ora a raccontarcela, mentre piatti straripanti di cibo sfrecciavano sotto i miei occhi rammaricati. Anche loro si sono imbattute a più riprese nella troupe cinematografica, ed anzi hanno fatto da comparse in qualche scena; anche loro hanno conosciuto Josè, il pellegrino dalle cento credenciales. Anche loro hanno colto con perplessità la strana logica sottesa alle frecce, le inspiegabili deviazioni verso un paese, o un esercizio. Mentre stavamo uscendo dal locale sono stata avvicinata dal capo del gruppo della ragazzina che era stata male a Barbadelo, il quale mi ha detto che io e la ragazzina dovevamo fare una foto insieme, perché dopo quell’episodio per lei ero diventata

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una specie di angelo. Quel mattino mi aveva visto arrivare quando stava male le ero rimasta accanto fino a che non si era ripresa, per poi sparire nella nebbia. E al di là degli aspetti magici, ha continuato, avevo dato a quei ragazzini un grande esempio di come ci si deve comportare nel Camino. Relatività dei giudizi, io mi ero sentita così goffa e inutile in quell’occasione. Comunque abbiamo fatto una foto insieme, io e Pili, così si chiamava la ragazzina, ed ho dato loro il mio indirizzo, così se vengono a Milano eccetera. Pentendomi subito dopo per essere stata forse troppo invadente, sarebbe stato meglio mantenere lo status di angelo incorporeo. In ogni caso l’episodio mi ha colpito profondamente, non sono abituata a rappresentare niente per nessuno e di colpo mi trovo elevata al ruolo, sia pure involontario, di angelo custode. E poi la sensazione di essere stata uno strumento, un segno del Camino io stessa. Mi sentivo esaltata, cercavo di spiegarlo alle altre, ma non mi riusciva. Uscite di lì e congedateci dalle ragazze di Iseo che tornavano al rifugio, io Veronica e la ragazza di Milano siamo andate nel locale alternativo che avevo scoperto l’altro giorno, dove mi sono fatta una birra e un panino enorme al prosciutto, come quello che l’altro giorno avevo visto servire ad un ragazzo seduto accanto a me. Lì abbiamo ricominciato a chiacchierare del Camino, delle avventure e dei rifugi, fino alle undici, rivivendo e scambiando ognuna di noi le proprie vicende, rivedendo nella memoria tutti i luoghi e le persone. Così è terminata la mia ultima sera sul Camino, nell’amicizia, nella condivisione, nei ricordi e nella birra. Da quando sono partita non ero mai stata in giro fino a così tardi ed anzi era la prima volta che vedevo la notte dalla strada. La ragazza di Milano aveva avuto disavventure spaventose con le ginocchia, al punto da avere impiegato quasi dieci ore per superare O Cebreiro e da aver visitato più volte i centri pronto soccorso ed ora, con le gambe ancora tutte fasciate, poteva camminare solo molto lentamente. Ci siamo salutate, Veronica tornava al rifugio, la ragazza di Milano si dirigeva al suo hostal, io sono rientrata subito in albergo, percorrendo velocemente le strade buie e vuote di Santiago. Poi ho preparato lo zaino. 16 luglio 2003 Santiago - Milano Sono in un bar nei pressi dell’università, un posto piccolo e tranquillo con tanti giornali ed un dolcino ad accompagnare il caffè. Il tempo è gelido ma sta tornando il sereno. Sono uscita presto, poco dopo le sette ed ho scoperto il mercato di Santiago, proprio dietro l’università, pieno di pesce e verdure e carni e salumi, il tutto in una costruzione di pietra grigia fra il romanico ed il funzionale; ho scattato tante foto mentre i banchi via via si riempivano, il ghiaccio si ricopriva di pesci lucenti, filze di salamini e salsicce erano appese ai ganci, enormi pezzi di carne erano scaricati dai camion insieme a catini traboccanti di interiora sanguinolente, colorate ceste di frutta e di verdura circondavano donne dall’aria indurita che vendevano verdura fuori del mercato. Ho comprato tre salamini da un signore serio e un formaggio da una vecchietta, poi pendendomi per aver ceduto alla lusinga del pittoresco. Ma forse non siamo in Italia ed io sono abituata a pensare male e comunque tre euro per un formaggio possono anche starci, anche ove fosse roba del supermercato eccetera eccetera. Fotografavo ogni cosa, vergognandomi profondamente, ma incapace di resistere a tutti quei colori, ai visi lusingati delle signore anziane, a quei lineamenti celtici seminascosti dalle cataste di verdura.

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Sono tornata nella cattedrale, stentando a separarmi ma anche incapace di vivere fino in fondo l’obbiettivo del mio Camino. Ho salutato la grande statua dorata di San Giacomo, nella chiesa ancora silenziosa per l’ora mattutina, pochi fedeli si raccoglievano qua e là, il flusso dei turisti non era ancora iniziato. Sono stata al Portico della Gloria per ammirare ancora una volta la serenità e la noncuranza dei visi scolpiti e congedarmi dal Santo che accoglie benevolo i pellegrini. Poi sono uscita dalla mia porta, la stesa da cui ero entrata tre giorni fa, estenuata e zoppicante. Ho girato ancora per trovare un bar che fosse insieme aperto e decente e sono approdata a questo bar Transi, affacciato sulla cinta esterna, come del resto il bar Maximo di ieri sera. Sono quasi le dieci, è ora di andare, Per strada ho incontrato la svizzera, incrociata tante volte dal giorno di Ponferrada, ci siamo congedate, entrambe già tristi per altre separazioni. In tutti questi giorni non ho neppure pensato di andare all’albergue di Santiago per vedere chi c’era, per ritrovare altri volti conosciuti. Era talmente normale incontrare per strada i compagni del Camino che neppure mi è venuto in mente di farlo. Mi spiace di non avere più rivisto Imiri.

* E così alla fine l’impresa Feire mi ha avuto. Quei pullman color indaco che sulla N547 sfrecciavano beffardi, tentazione e vivente dimostrazione di come sarebbero potute essere le cose. Ora un pullman dell’impresa Feire mi porta verso l’aeroporto. Al supermercato ho comprato un queso de Arzua, un trancio di jamon serrano ed un pezzo di membrillo da mangiare col formaggio. Nella libreria gallega di fronte alla fermata non ho invece resistito e mi sono comprata il cd di nunca mai:, con ciò ho terminato le spese. E’ uscito il sole. Questa zona è carina, vivace e non turistica, dietro e lungo Rua Correo, ci sono “un sacco di bei negozi” e nessuno di loro vende giaietto, conchiglie o croci templari. Ripercorro a ritroso la strada lungo cui arrancavo domenica ed ecco, la cattedrale non si vede più persa fra le curve di queste colline urbanizzate. Sono alla stazione dei bus, per le strade affluiscono nuovi pellegrini, altri ripartono. Secondo El Correo Gallego, a giugno sono arrivati 8.800 pellegrini, ex quibus, una. Ed ora via, verso l’aeroporto di Labacolla, che ho costeggiato faticosamente domenica. Eppure vista dall’esterno Santiago appare un luogo ancora selvatico. Colline spelacchiate, a metà costruite ed a metà lasciate in balia della vegetazione. San Lazaro, come mi era sembrata lunga la strada, domenica. Ecco ancora la cattedrale, da lontano mentre il pullman sale verso il Monte do Gozo. Ed ecco davanti a me la Galizia, il mare verde che attraversavo sabato, e Labacolla, e il bar dove ho fatto colazione domenica, semisvenuta e dove ho comprato il kit kat. Ripercorrendo la strada mi rendo conto anche delle enormi distanze che ho percorso, a conferma della mia convinzione che a piedi ciò che cambia è solo il tempo, non lo spazio.

*

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Sono in aeroporto, ho finito gli acquisti, tonnellate di soldi gettate via. Ora mi godo una bella birra e un ultimo churro, questo estremo oggetto del desiderio, anche se freddo e sassoso. Ricapitolando i giocattoli che mi sono comprata posso annoverare, il libro sul Camino, la conchiglia nera di giaietto, la crocina nera coi bordi in oro, la maglietta nunca mais e la cassetta omonima, in fondo non è molto, se penso che forse sarà tutto quello che mi resterà di Santiago. Lo zaino è appesantito dal formaggio e prosciutto appena acquistati, non è difficile intuire che tutto questo comprare ha lo scopo di esorcizzare il distacco, da una parte, e la paura del rientro, dall’altra. Ieri sera con le ragazze ho rivissuto i giorni del Camino, così repentinamente offuscati dall’ozio in Santiago. Non so quando è terminato il mio viaggio, se nel momento in cui sono salita sull’autobus diretto alla stazione delle corriere, se ieri sera salutando Veronica, se domenica, nell’entrare nella cattedrale, se stamane, uscendo dal portale di Praça de Imaculata, se ora, in questo salone. Forse il Camino è terminato quando mi sono fermata ed ho smesso di ricordare la strada percorsa, ho iniziato a comperare cose superflue e sono tornata ad essere una turista; quando ho sentito nuovamente il morso dell’angoscia per ciò che mi attende.

*

Sto sorvolando la Spagna, ma il tetto di nuvole impedisce la visuale. Ho sentito tanta gente, ciascuno attende il mio ritorno, sovraccaricandomi di aspettative. Quella che per me è stata un’impresa, per gli altri è stata una vacanza e come tale avrà il suo prezzo. Ho la mente vuota, non desidero nulla. Ed ecco il mare, quello vero, il mediterraneo. L’aereo sembra allontanarsi dalla costa ma ora plana virando verso Barcellona sotto di me e lo splendido sole mi rammenta che è estate. Stiamo arrivando a Malpensa ed intanto ho rifatto il conto dei km, col libro e le cartine, ho scoperto di aver camminato 488 km con una media di 30,5 km al giorno. In questo modo mi sembra di aver ritrovato in parte quello che ho fatto, i ricordi si fanno ancora più fiochi. Il bellissimo viaggio è finito. Un viaggio greve, pesante, intensamente fisico, ma anche ricco di segni, fitti come una pioggia di stelle cadenti. Segni concreti, di una materialità medievale, ma che potevo sempre leggere come metafore di verità, ora assolute, ora banali. E l’ultima rivelazione, la più sconvolgente, quando mi sono resa conto che, a prescindere dalle mie aspettative e dalle mie scelte, ero stata fatta io stessa segno, traccia nella storia, tessera del Camino. Non nobis Domine. Di fronte agli altri, mi resterà l’impresa, il resto non si può raccontare. FINE CAMMINO FRANCES nel 2005

27 ottobre 2005: Milano / Ambasmestas / Vega de Valcarce km 2.5 Linate, per l’ultima volta, immagino. Stavolta arrivare è stato più macchinoso delle altre volte, ma divertente. Ho preso la 91 alle cinque e venti del mattino, dopo aver percorso qualche fermata a piedi per ingannare il tempo. Poi ho fatto colazione in viale Corsica e ho aspettato la prima 73. Sull’autobus mi sono scoperta a sciorinare la storia di Santiago ad

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una ragazza con cui avevo appena attaccato bottone, e sono stata colta dal panico, la cosa che proprio non voglio è diventare monomaniaca. Già il fatto di ritornare mi suscita una certa perplessità. Il Camino di questa estate interrotto alla soglia della Galizia, ha rappresentato un’esperienza compiuta in sé stessa, caratterizzata soprattutto dalla presenza di altre persone, dalla difficile rete di rapporti e conflitti che si è instaurata: che senso ha riprenderlo, in autunno, da sola? La Galizia l’ho già attraversata quando ho percorso il Camino da Burgos due anni fa: a Santiago sono già arrivata allora. Perché, quindi, ritornare? Non è che questa esigenza di compimento sia solo un pretesto per ritornare sul Camino una volta di più? E ammesso che sia così, che cosa significa? La necessità di reiterare un’esperienza intensa è sempre segno dell’incapacità di rinnovarsi, di metabolizzarne le ricchezze per aprirsi ad altre esperienze, ad altre vie. Immaturità, in fin dei conti. Non so. So solo che voglio tornare, voglio arrivare a Santiago, per dare un senso al cammino di questa estate, perché non si può vagare per tre settimane sotto il sole e la pioggia per oltre seicento chilometri, col pensiero fisso alla meta e all’improvviso salutare, girare le spalle e prendere l’autobus per tornare in Italia. Non è questo il Camino. Loose ends li chiamano gli inglesi. La strada tranciata questa estate pende nel mio cuore, bisognosa di essere riallacciata per portarmi fino in fondo.

* Coda per il check in, ogni volta ho la sensazione che lo stato di polizia – che ora viene chiamato sicurezza – si imponga con maggiore invadenza. Mi hanno perquisito, fatto levare le scarpe – i dannati fermagli metallici - sempre con estrema gentilezza, ma mi chiedo quanto fossero gentili nel 1973 i poliziotti cileni quando invitavano le persone a seguirli in commissariato. Del resto anche io sono gentile, rammaricata, quando al telefono spiego ai debitori che se non pagheranno sarò costretta a procedere all’esecuzione forzata. Io e la poliziotta che mi ha perquisito facciamo parte del medesimo inevitabile sistema. E poi i soliti riti insipidi, il caffè, il giro per il duty free, l’edicola, il guardarmi attorno, i visi divenuti familiari per aver condiviso una fila o una sosta al bagno. Fuori è ancora buio, lo zaino è pieno ma non pesa. Mi sono comprata l’ennesimo giallo, che utilizzerò quale salvagente. Avrei voluto sentire Lulu, gli ho rimandato il diario di questa estate, peccando così di vanità per la terza volta. Basta, fra un po’ imbarchiamo, ho voglia di andare in Spagna anche se come sempre la visione è così ravvicinata che non riesco a provare ciò che vorrei, ho rimpianto dei desideri. Ma devo affrontarla da sola, senza nemmeno il pensiero di un gesto gentile di Lulu a confortarmi.

* Madrid. Un volo noioso ma passato in fretta, ho anche dormito. L’aeroporto è identico a quello di Barcellona, manca mezz’ora all’imbarco per La Coruna, il cielo è chiaro, la luce è nordica. I tetti rossi di un campanile oltre la vetrata, mi suggeriscono – assurdamente - la Danimarca. E’ invece il sobborgo di Barajas, periferia anche un po’ degradata di Madrid, che circonda la bolla asettica in cui ci troviamo. Non vedo l’ora, anche se la gamba continua a darmi fastidio, ieri me la sono sderenata correndo dietro all’autobus. Intanto ozio, facilmente rapita da questa esistenza passiva, niente da fare se non attendere, circondata da lussi accessibili, come il bar o la temperatura gradevole.

* La Coruna, sul pullman dall’aeroporto. Il cielo è coperto, soffia un vento dal sapore di oceano, ma non fa freddo. Ritrovo familiari tonalità celtiche, quei verdi intrisi di un nero ferrigno, il grigio plumbeo.

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Una volta in centro ho fatto il biglietto per Ambasmestas, poi, dalla stazione dei bus – uno stanzone largo e lungo - mi sono affacciata sulla città. Avrei voluto raggiungere la città vecchia, la chiesa di Santiago. Vedere la torre romana, anche se era lontana. Ho attraversato un piazzale e costeggiato una specie di cavalcavia incarnito fra le case, avviandomi alla scoperta di una geometria che non riuscivo a decifrare: palazzi alti, moderni, si arrampicano sui fianchi di una specie di conca seguendo incomprensibili diagonali, i viali in basso sembrano disassati. L’aria era tiepida, bastava camminare un po’ per sudare. Quando ho finalmente abbandonato il cavalcavia sono entrata in una via di negozi e locali, bella roba, abiti soprattutto. Qualche ristorantino, qualche meson. Ho sbirciato qua e là, alla ricerca del posto “giusto”. Ma tutti mi sembravano, quale troppo leccato, quale troppo sordido o convenzionale. Sono sbucata su un grande viale che correva lungo un bel parco, all’altra estremità si intuiva il porto, una somiglianza fortissima con La Spezia. Com’è da turista questo atteggiamento, dieci minuti lungo una strada e sono già pronta a lasciare ai posteri supponenti paralleli tagliati con l’accetta che ignorano completamente la geografia, la storia o la climatologia. Sul viale, un negozio di gadget del Deportivo contestualizzava più degli anonimi locali che offrivano colazioni o bocadillos. Al di là del parco, larghe pozze rammentavano un temporale recente, uomini ciondolavano attorno alle aiuole a chiacchierare. Il palazzo bianco della capitaneria chiudeva l’orizzonte. Sono ritornata fra le stradine ed ho iniziato a percorrerle seguendo una traiettoria a spirale, fino a che ho trovato “il” posto. Una birreria, fantastica. Una sala quasi quadrata, resa asimmetrica da un vecchio bancone a elle, pavimenti di marmo un po’ imbarcati, patina giallastra, tavolini di marmo e botti, scaffali di legno con qualche bottiglia impolverata, manifesti della Galizia e un paio di uomini che oziavano davanti a boccali mezzi pieni, una birra splendida, atmosfera a mazzi. Un ragazzo giovane appoggiato al bancone spillava la birra e si guardava attorno con aria annoiata. La percezione di uno spazio più ampio di quello reale, l’interno, direttamente a livello della sede stradale, come un’officina o una bottega medievale. Purtroppo la tapa era minuscola, due fettine di prosciutto appoggiate su un crostino, ma quella era più una mescita, che non un bar moderno. Terminata la birra mi era passata la voglia di esplorare, volevo solo sdraiarmi e dormire. Sono uscita, decisa ormai a cercare solo un posto dove nutrirmi e lasciando perdere la ricerca della città vecchia.

* Altro posto, un locale moderno, ampio, su una piazzetta rettangolare, i piatti scritti su grandi lavagne, tavoli e sedie di metallo, cameriere esperte e veloci, tanta gente che viene a consumare la pausa pranzo. Ho ordinato ancora birra e un piattone di calamari fritti, prima di accorgermi che c’era anche il polpo, la mia passione. Dovrei andare, la birra mi rende oziosa. Sono una stupida: ho davanti a me due ore e mezza di pullman e mi riempio di liquidi. Ma è così riposante indugiare in questo ambiente spazioso e affollato, tante cose da guardare, gente da osservare, posso leggere, godere la birra. Non riesco a credere di essere in vacanza, ogni volta è più difficile uscire dai condizionamenti.

* In meno di venti minuti, sono ritornata alla stazione dei pullman. Col biglietto avevo il posto assegnato e mi sono sistemata senza attendere oltre. Uscito da La Coruna – e fuori dall’illusoria uniformità metropolitana – il pullman ha imboccato finalmente una Galizia riconoscibile, di saliscendi, case e cartelli stradali. Durante una sosta a Portomarin, – grande, molto più grande di quanto ricordassi – mi è squillato il cellulare, era Lulu. E come sempre mi ha portato sulla terra. Voleva solo sapere dov’ero, com’era lo zaino, fare il suo dovere insomma. Ma mi ha fatto piacere. Dopo

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Portomarin i nomi dei paesi non erano più familiari, il mare si allontanava e iniziavano le montagne, la Galizia arretrava, scivolando via. Non riuscivo a raccapezzarmi, come sembrava diverso questo paesaggio da quello colto lungo il Camino. Intravedevo valli che mi sembravano conosciute, ma poi le curve si inanellavano l’una all’altra e perdevo l’orientamento. Ho chiesto ad una ragazza accanto a me, ma non capiva e non sapeva. Preoccupata, mi sono alzata in piedi cercando di capire dove fossi, ma proprio in quel momento l’autista ha chiamato la fermata ed eccomi scesa. Il pullman è ripartito ed è sparito dietro una curva, lasciandomi sola. Mi sono guardata attorno, mi trovavo in una valle stretta fra montagne coperte di boschi, davanti ad un nastro di asfalto vagamente familiare. Era pomeriggio avanzato, piovigginava. Le prime frecce gialle mi dicevano che ero di nuovo dentro, nel Camino, per quanto stentassi a realizzarlo. Ho imboccato la strada, case di legno, un bar, orti, ho riconosciuto la fontana dove due anni fa luccicavano le ciliegie. Scritte inneggianti al Bierzo, non Castilla né Galizia. Camminavo volentieri, il sentiero attraversava la campagna e si stringeva verso Vega, le montagne verdi, gialle, dorate, mi si serravano addosso, la pioggia continuava a scendere sottile, mentre la luce sbiadiva rapidamente nel crepuscolo dell’autunno avanzato. Come i villaggi che lo precedono sulla via per il Cebreiro, Vega è appena una duplice fila di case stretta fra il rio Valcarce e la montagna. L’albergue, una costruzione di due piani al termine di una ripida salita, mi è sembrato più carino di due anni fa, o forse è la stufa che lo rende più attraente. La signora che mi ha accolto e assegnato a questa bella stanzetta al primo piano, mi ha detto che qualche giorno fa un tale ha rubato dieci coperte. Follia: ricordo bene quelle coperte brutte e puzzolenti di muffa. Qui comunque fa un bel caldino, mi sono sistemata in un letto accanto alla stufa. Fuori, sul ballatoio coperto da una tettoia, quattro francesi dall’aria un po’ zingaresca e arrogante confabulano per conto loro. Dopo aver srotolato il sacco a pelo mi sono avviata in paese; erano appena le sei e mezza, l’aria era fradicia, fresca e sapeva di fumo e foglie. Ho comprato un cappellino caldissimo in un negozietto stipato di indumenti invernali, servita da una signora gentile, grassa, anziana che mi ha anche fatto lo sconto, commossa dai miei pantaloni bagnati: non ho fatto in tempo a cucirgli l’orlo ed il bordo si è già intriso di acqua. Il crepuscolo invernale è un tutt’uno con l’odore di legna che trapela dalle case ed esce dai camini. La notte è scesa sul paese lungo e semideserto, piove forte. Mi chiudo bene la giacca a vento e mi calco in testa il cappellino nuovo.

* Sono tornata al ristorante di due anni fa, il solito televisore acceso, due uomini chiacchierano al bancone. Per strada si sente l’incombere della montagna. Oggi ho pasticciato e non ho fame, ma il cibo è buono. Mi hanno portato una bacinella, ma dovrei dire un catino, pieno di zuppa di pesce con la pastina, probabilmente arriva da qualche barattolo, ma è calda e ci voleva. Quindi è arrivato un trancio enorme di un pescione bianco, forse merluzzo, più saporito del nostro, cui sono stati aggiunti piselli e qualche gamberetto. Il locale è grazioso, pietra gialla a vista, travi sopra le finestre, soffitto a cassettoni, arredato coi soliti ammennicoli dello stile rustico. Nel tavolo accanto a me, una pellegrina solitaria, forse inglese, mangia cose simili alle mie. Col cibo sopravviene il rilassamento e la stanchezza, ora vorrei solo andare a dormire, anche perché qui fa un po’ freddo e domani devo alzarmi presto. Prima mi sono venuti in mente vividi come lampi due episodi di questa estate, che non so collocare, quando si costeggiava un’azienda vinicola probabilmente nella Rioja e una sosta ad una fontana in una paese con un cane lupo e lulu malato di malumore, uno dei primi

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giorni, forse il primo. Questo è un terzo camino, pensare ai miei compagni di questa estate mi fa stare male. Non ho potuto riprendere da Trabadelo, dove quella mattina di luglio ho girato a destra per tornare in Italia mentre i miei compagni andavano a sinistra, verso la Galizia e Santiago. I sei chilometri fra Trabadelo e Ambasmestas restano così la voragine che spezza la continuità del ricordo.

* La stanza è ancora calda, ma il materasso di gommapiuma mi fa sentire fino all’ultimo chiodo della rete. Nella branda accanto, un ragazzo dalle gambe rovinate – io parto bella fresca, ma gli altri hanno già addosso più di settecento km - di fronte un pellegrino slavo mi ha chiesto se c’è un posto dove comprare da mangiare. Anche io poco fa mi sono comprata qualcosa in uno dei minimarket del paese. Fuori, oltre la porta di vetro, uno dei francesi suona il flauto. Loro hanno mangiato qui, cucinandosi la zuppa su un fornello al riparo della tettoia. Arriva la tipa vista al ristorante e si sistema nella branda di fronte, è australiana, cammina piano e ha percorso la meseta in bus. Dice che fino ad ora ha trovato tempo splendido, caldo, ma che domani pioverà. Mi racconta delle ricerche che suo padre, un giudice in pensione, ha fatto per rintracciare i propri antenati, deportati in Australia nell’ottocento. Ora vorrei leggere un po’. Mi sono lavata nelle docce a pianterreno, le uniche con l’acqua calda, l’esperienza mi permette di recuperare gli automatismi dei gesti e delle abitudini, ma devo ancora entrare con la testa in questa cosa, assimilare una vera dimestichezza con questo modo di vivere. 28 ottobre 2005 Vega de Valcarce / Calvor 46 km Le cinque. Sono pronta, tutti gli altri dormono ancora. Fuori piove come Dio la manda, ci sarà da ridere. Ho indossato i pantaloni impermeabili, assicurato il coprizaino, chiuso il contenuto dello zaino nei sacchetti. Mah. La pioggia tamburella contro la plastica ondulata della tettoia, sulle scale forse un gatto ha rovesciato il bidone dell’immondizia, io tento di raccogliere a mani nude la spazzatura sparsa dappertutto, mi disgusta l’idea di lasciare le cose in questo stato. Forse un gatto o forse i francesi che stanotte hanno libato e suonato fino alle ore piccole… Infine, lasciata la protezione del rifugio, mi sono tuffata nella notte, sotto la pioggia, meno fitta di quanto non suggerisse il rumore sulla tettoia. La breve discesa fino alla strada principale, ed ecco il Camino.

* Con le ultime case di Vega mi sono lasciata alle spalle i fari allo iodio e i loro riflessi arancioni. Ora la strada era una striscia serpeggiante del color della cenere, schiacciata fra nere pareti, quasi visibile nel contrasto con l’oscurità circostante, in alto gli alberi come fili più scuri contro il riverbero delle montagne, la torcia non serviva. Ruitelan è arrivata presto, al di là di un enorme arco vegetale, forse un albero caduto. Il fiume era mercurio, luminoso e scrosciante nel silenzio assoluto. Stalle di legno rese arancione dai lampioni, una casa illuminata da un faro allo iodio nella pioggia. Ho costeggiato la parete dell’albergue Pequeno Potala, il rifugio tibetano, forse aperto, forse chiuso. E di nuovo il buio, lunghe gallerie di alberi attraversate mentre la pioggia si attenuava fin quasi a scomparire. Bello era quel buio, bello era sentire gli occhi dilatarsi nell’oscurità.

*

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Dopo meno di un’ora la strada si è inclinata risolutamente verso il basso ed ha curvato, ho varcato un ponticello di pietra seminascosto dai cespugli, l’impetuoso rio Valcarce ridotto ad un invisibile rivolo gorgogliante, e sono entrata a Las Herrerias, una fila di case di legno affacciate sul vasto prato, non più maleodorante e spettrale come mi era parso l’estate di due anni fa. Un bar che sarebbe stato accogliente se fosse stato aperto e un’incertezza all’uscita del paese, nessuna freccia, strani nomi mi chiamavano verso altre direzioni e il ricordo non mi soccorreva. Il sentiero ha iniziato a risalire lentamente lungo la costa. Il tempo passava ma la notte sembrava cristallizzata, ogni tanto riprendeva a piovigginare. Infine la gola si è aperta su una fuga di alte montagne, lo sterrato, bricioloso e biancastro, mandava un riflesso livido, gli alberi si sono ritratti da un lato, più lontani. Forse quell’aprirsi, forse le pessime letture cui mi sono dedicata per anni, dopo un po’ che salivo per i tornanti assaporando il buio e quella sensazione di possedere ogni cosa, è sopraggiunto – inatteso - uno stupido timore, un’impressione di vulnerabilità, mi sono resa conto di essere sola, su una montagna completamente deserta ed era notte fonda. E’ insolito avere paura sul Camino, ma la parete incombeva alta, scura e fitta di cespugli e mi è stato semplice evocare assassini sanguinari in agguato in quella perfetta ed assoluta solitudine. Fantasticherie idiote subito scacciate, in realtà la solitudine è la miglior garanzia di sicurezza. E poi, morire sul camino alla volta del Cebreiro, in quella splendida notte, cosa desiderare di meglio. Rimuginando su come far rimpatriare il mio cadavere ho raggiunto il bivio per la Faba, la salita molto più aspra nel ricordo che nella realtà, la strada ha fatto una grande curva lungo il bordo della gola, quindi è risalita sull’altro versante della collina e sono entrata in paese. Attraversata la Faba, un grumo di case, un muro bianco martellato dalla pioggia, l’asfalto ha ceduto ad una salita sassosa in una galleria fra i castagni, talmente buia che anche la torcia era pressoché inutile. Mentre la strada si inerpicava fra sassi troppo grandi e scivolosi, ha preso a piovere sul serio. Mi sono chiusa bene nella giacca a vento e ho proseguito. Man mano mi inoltravo in un bosco buio più che mai sotto la pioggia battente e non trovavo più frecce, ho temuto di aver sbagliato direzione. A dire il vero non vedevo quasi nulla, l’acqua torrenziale mi allagava gli occhiali e colava dappertutto, del resto era talmente buio che avrei potuto camminare con gli occhi chiusi. Decisa a non tornare indietro fino a che non avessi avuto la prova inoppugnabile di essermi smarrita, ho incrociato le dita, cercando di ricordare la strada di due anni fa, ed ho proseguito a testa bassa. Quando dalla galleria alberata sono finalmente sbucata in alto sulla montagna nuda, mi sono convinta della bontà della direzione, anche perchè il largo sentiero, piano, scavato come con un cucchiaio fra muretti di pietra, pareva pensato apposta per convogliare le torme estive dei pellegrini. Dopo pochi minuti ho scorto, lontane, le luci di Laguna e ogni timore è svanito. Per un po’ ho camminato tranquillamente in costa, ma l’ultimo tratto prima del paese si è rivelato una rampa fangosa e sassosa che tagliava gambe e fiato, non riuscivo quasi ad avanzare, pur vedendo le case a pochi metri di distanza. Approfittando di tregua dalla pioggia, a Laguna ho estratto un kitkat dallo zaino e l’ho mangiato appoggiata ad una fontana, intanto un cane mi girava attorno abbaiando furiosamente. Ho trovato Laguna meno sporca e puzzolente di quanto mi ricordassi, ma era ancora buio e le stalle erano chiuse, inoltre pioveva.

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All’uscita del paese ho imboccato per sbaglio la strada asfaltata, non so dove mi è sfuggito il bivio col sentiero che probabilmente correva al di sotto, così i due km fino al Cebreiro sono volati, mi è spiaciuto solo perdere il cippo che annunciava l’ingresso in Galizia. La notte si stava schiarendo, un pallore incerto permetteva già di distinguere la valle sottostante e le montagne attorno. Mi ha affiancato un camion della nettezza urbana e ne ho approfittato per chiedere se la direzione era giusta – in realtà cercavo solo un contatto umano dopo quella notte di tregenda - l’autista mi ha rassicurato sorridendo, la strada si è allargata ancora, costeggiata dai pali indicatori della neve, poco dopo, una spianata a schiena d’asino disseminata di radi alberelli ed eccomi all’ingresso del paese. Erano le 8.45, ero a milleduecentonovantaquattro metri, in tutto avevo impiegato tre ore e mi è sembrato molto più facile di due anni fa. Mi sono affacciata nuovamente sulla vallata, appena rischiarata dall’aurora, il cielo si è aperto, la pioggia di poco fa solo un ricordo. Ho mandato un sms a Lulu e mi sono addentrata fra le case.

* Il solo bar aperto è già affollato da pellegrini. Mi guardo attorno e capisco di essere la prima che è arrivata da sotto, gli altri sono ancora asciutti, hanno tutti dormito al rifugio del Cebreiro ed ora indugiano prima di avviarsi. Mi sbarazzo dello zaino e prendo un tazzone fumante di cafè con leche, la panacea del Camino. Una coppia, lui tenebroso capelli lunghi, cane lupo con bandana, lei bionda, longilinea, aria nordica, si scambia affettuosità gratuite, molto anni settanta, davanti ai rimasugli di un’abbondante colazione. Non so cosa invidiare loro, se la colazione o il contesto. Alcuni vecchi discutono davanti al primo bicchiere, un ragazzo chiede informazioni per arrivare a Sarria. Il padrone del bar conferma che è possibile, tempo permettendo. Un’idea tentatrice prende forma nella mia testa, ma la allontano, mi fermerò a Triacastela, come ho deciso. Ero appollaiata ad un tavolino rotondo, circondata dalla mia poca roba, mi ha chiamato lulu, voleva sapere come stavo, aveva visto il mio messaggio. Un minuto, niente più, ma mi ha fatto talmente piacere. Non sono riuscita a descrivergli cosa ho visto, spero che il ricordo perduri fino a quando avrò la forza di concentrarmi su quella camminata notturna senza torcia. Alle nove aprono la chiesa, vorrei fare qualche foto, gustare il Cebreiro con questo tempo nuvoloso. Devo andare, mi sto raffreddando e ho voglia di girare un po’ attorno nel villaggio, la discesa fino a Triacastela sarà lunga e rigida. Sul giornale c’è scritto che il ciclone Wilma è in arrivo sulla Galizia.

* Ho guardato oziosamente i souvenir del negozietto comunicante col bar, quindi sono entrata nella chiesa, che posso finalmente fotografare, la bella facciata massiccia di pietra grigia, il campanile poderoso, due anni fa tutto era nascosto dalle impalcature. Mi soffermo – stavolta – davanti al calice del miracolo, appongo il timbro sulla credencial l’inchiostro sbava sul cartone umidiccio, ed ecco, sono già uscita. Sul sagrato la luce era ancora opaca, il marciapiede luccicava della pioggia recente. Guardo il busto a lato della chiesa, è Don Elias Valina Sampedro, il parroco del Cebreiro che ha fatto rinascere il Camino e dagli anni cinquanta l’ha percorso ripetutamente col suo secchio di vernice gialla, inventando così le frecce. Le nuvole si erano diradate ed indugiavano come fumo sulle colline rossicce punteggiate di alberi. Un cane girava attorno, saliva e scendeva dai muretti, si aggirava fotogenico ma inutile fra le pallozas, le capanne dal tetto di paglia.

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Mi sono avviata verso l’interno del paese, guardando un pozzo, uno scorcio, foglie secche, angoli deserti – d’estate tanto affollati di pellegrini - incerta se prendere il camino o seguire l’asfalto, ma ho scoperto che per il momento le cose coincidono. All’uscita del villaggio l’acciottolato sbuca in discesa sulla provinciale. Da lì ci si affaccia sulla Galizia, verso Triacastela, ed ecco un susseguirsi di colline a perdita d’occhi, lo splendore dell’autunno è una colata d’oro e rame, appezzamenti multicolori, riquadri incisi dalle sottili serpentine delle strade asfaltate. Iniziano i cippi dei cinquecento metri, esasperanti compagni della Galizia, ne fotografo uno. Linares era un gruppetto di case attraversato in un istante, una vasca piena d’acqua dove galleggiavano manciate di foglie, macchine agricole lasciate ad arrugginire, polli bianconeri razzolavano in libertà, in spregio ai cittadini timori dell’imminente pandemia aviaria. Il sentiero si è srotolato stretto fra i rami fitti e sottili dei noccioli, bordeggiato da felci rossicce, aprendosi qua e là sulle colline circostanti, fino all’Alto di San Roque, quando si è ricongiunto con la strada. Sull’Alto il vento si accaniva contro la grande statua del pellegrino, qualche pozza raccolta fra le rughe del piedistallo bronzeo rammentava l’acquazzone della notte, le nubi si erano di nuovo accumulate fino a colmare le valli ed a riempire il cielo. E poi ancora via: in venti minuti di bosco ho raggiunto Hospital da Contesa, stradicciole fangose fra case malconce. Sulla destra ho intravisto la stradina in salita che portava al rifugio, ma non mi sono soffermata. Poco prima della chiesa l’insegna rotonda della birra san Miguel preannunciava l’inatteso bar O Tear, che due anni fa non c’era. Poco prima avevo intravisto un cartello ma, dando per scontato che nulla potesse cambiare rispetto al mio primo cammino, non l’avevo preso in considerazione.

* Invece il potenziale turistico del Camino è tale che anche in questo posto dimenticato qualcuno può pensare di aprire un bar ex novo. Ancora pietra a vista, ancora travi e soffitto a cassettoni, ma è pulito sobrio, senza arredi superflui, la banalità dello stile nobilitata dalla naturale bellezza della pietra antica. Il bar vero e proprio si trova dopo alcune sale, affacciato sulla vallata. Mi sono appollaiata sul bancone ed ho coscienziosamente tolto scarpe e calze. Anche se non fa caldo, i piedi iniziano a lamentarsi: sono le dodici e mezza, in fondo cammino da sette ore. La ragazza riordina le bottiglie, quando ha terminato di chiacchierare con un fornitore accetta i miei complimenti e mi dice che hanno aperto da pochi mesi, la televisione, enorme, nuovissima, trasmette un programma popolare di medicina. Come ogni volta mi rendo conto che, mentre si è dentro, descrivere la strada è difficile. Comunque sia, per bella che sia, la strada è un ambiente ostile, i luoghi chiusi sono più facili da descrivere. Ho seguito il camino stavolta, mi trovavo a disagio sull’asfalto, il sentiero è meno faticoso per i piedi e i boschi sono talmente belli, rossi, verdi, marroni, rame, oro, smeraldo e argento. Ma ora devo andare anche se qui mi trovo bene, ho paura che riprenda a piovere. Dal Cebreiro non ha più piovuto e quando cade il vento, fa quasi caldo.

* Raggiungo la chiesa templare di Hospital da Contesa: pietra grigia spigolosa, la torre campanaria sormontata da una croce antichissima, una scabra bellezza medievale tetragona a farsi richiudere nello spazio rettangolare dell’inquadratura. Lastre grezze, sporgenti, ineguali, nessun restauro ad ingentilirne gli spigoli, come invece nella chiesa del Cebreiro. Valico il cancelletto arrugginito ed entro nel minuscolo cortile, salgo qualche gradino coperto di muschio e raggiungo esitante il primo piano del campanile - ho paura di scivolare, sarebbe un modo cretino di finire il Camino - ma non serve a nulla, la foto non viene.

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Poco oltre la chiesa il paese finisce ed il sentiero vira a destra, supera un ponte e rientra nel bosco. Un tizio mi supera per l’ennesima volta, non ha lo zaino, tiene la roba in un sacchetto della spesa – un sacchetto francese - cammina spedito, non degna nemmeno di un’occhiata la chiesa che, secondo me, è una delle più suggestive del Camino.

* Sono arrivata all’Alto do Poio, milletrecentotrenta metri, l’ultima arrampicata dei monti della Galizia, ma che fatica. Non capisco come mai oggi ho così poca benza nelle gambe. L’ultimo pezzo ho sputato l’anima. Il sentiero si insinuava stretto e sassoso sotto la strada, salendo e scendendo in gomiti strani e inspiegabili, alla fine le gambe non volevano più saperne di salire. E’ un fenomeno strano, la volontà è intatta, non sento stanchezza, ma le gambe diventano rigide, sollevarle costa una fatica smodata. Ho superato senza fermarmi il bar della signora Remedios, non so perché, ma stavolta non mi attirava. Scottata dalla spropositata reazione allo sforzo dell’ultima mezz’ora, lascio però il sentiero e provo a seguire la carretera. Guardo le montagne a sinistra, cumulo asimmetrico di linee sinuose dove predomina il verde marezzato di giallo dei boschi, rade chiazze di prato verde pallido, tonde come macchie di olio. Dopo un po’ mi stufo dell’asfalto e mi infilo ancora nel sentiero, scopro uno sterrato largo e per nulla faticoso. Intanto mi imbatto in un altro tipo strano, brandisce un ombrello davanti a me, vorrei fotografarlo, ad ogni curva ci provo ma non riesco. Ci si è accodati, in tre, ci superiamo a vicenda, mentre brevi pioggerelline si alternano a schiarite, e seguiamo lungo un terrapieno alto sulla strada il digradare di queste colline coperte da ginestre e bassi cespugli di erica. Alle soglie di Fonfria ho raccolto da terra un foglietto con un elenco di albergues ed i relativi chilometri. Me ne sono accorta questa estate, ormai è possibile fare il Camino anche senza guide, tanti sono e tanto dettagliati, i materiali gratuiti a disposizione ad ogni albergue, ad ogni sosta. Fonfria non la ricordavo, l’altra volta non l’avevo attraversata, mi è apparsa al di là di una curva, preannunciata da una cascina, un gruppo di case da lontano più promettente di quello che si è rivelato. Una pausa veloce, in un bel posto un po’ appartato dalla strada con una terrazza affacciata sulla vallata, speravo di mangiare ma il proprietario barbuto mi ha spiegato che - non ho capito perché - a quest’ora – è passata da poco l’una - non fanno panini, così ho ripiegato su un caffè e comprerò un altro kit kat. Ho preso una castagna lessa dal piattino dove sono lasciate a disposizione degli avventori, come le olive d’estate. Mi sento troppo stanca, non è normale, e voglio arrivare sino a Calvor. Quindi devo approfittare del tempo gradevole e della luce. Il caffè mi nausea già e anche il cioccolato.

* Sono uscita ed ho ripreso la strada, tortuosa ed in discesa. A Viduelo oltrepasso una cappella di pietra, tetto di ardesia, muri di lastre sottili prodigiosamente tenute insieme da una malta grossolana e quasi invisibile. Poco dopo, una veduta di pura arcadia, un prato in declivio, circondato da betulle sottili e pini, tonalità di quel verde già virato verso un giallo pallido, un gruppo di galline – rossicce stavolta – razzola tranquillo. Il sentiero corre parallelo sotto la carretera poi la perde, continuando a scendere verso Triacastela, che già vedo in lontananza, il paesaggio si fa meno arcadico, i boschi cedono il posto a pascoli sempre più vasti, chiusi da staccionate di tronchi. Il cielo muta costantemente, io mi diverto a cercare gente da fotografare ed ad inseguirla. Una coppia stravolta di mezza età, la rincorro per un po’ ma non vengono bene in foto, scendendo riprendono i boschi ma sono forse frassini e castagni ora.

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Poco prima di Triacastela attraverso due paesini immersi in un castagneto, cammino sotto una galleria formata da alti castagni, foglie dorate e un tappeto di ricci, da un lato un muretto che dà su un pascolo, dall’altro il bosco, la vegetazione sottile, felci, cespugli; a terra mucchi di castagne lucide, grandi, mature, talmente tante da formare sul sentiero uno strato spesso diversi centimetri, ne ho raccolte un po’ fino a riempirmene le tasche e lo zainetto, poi all’ingordigia è subentrata l’indifferenza. Passa un trattore enorme, mi scosto. Sbuco su di una pista in cemento accanto ad un supermercato, due francesi parlano ed io riesco a riconoscere la direzione perchè le frecce indicano due direzioni opposte; a me non interessa l’albergue ma solo raggiungere il centro del paese. Mi danno le informazioni in uno spagnolo stentato, infastidita li ringrazio in francese e me ne vado. Scendo ancora, arrivando dal camino, Triascastela mi è parsa lunghissima, una strada larga in declivio tra due file di case. Erano ormai le due e mezza, i negozi erano tutti chiusi. Da un portone una signora mi ha chiesto se cercavo un albergue, sono fuggita. Il bar che due anni fa mi aveva tanto allettato coi suoi tavolini all’aperto, era chiuso, così – come due anni fa - ho ripiegato sul successivo, dal pavimento coperto di bucce di arachidi, ho bevuto un cattivo caffè, una sensazione di disagio, acuita dalla vicinanza di un barbone, giovane e lercio, lui si faceva i fatti suoi ma io ero di malumore e affamata e lì non c’era nulla da mangiare.

* Poco prima dell’incrocio con la provinciale ho girato a sinistra e scoperto una zona del paese che due anni fa non avevo neppure notato. Curiosavo in giro per essere sicura di imboccare la direzione giusta ed ho trovato un altro bar con un signore gentilissimo che mi ha preparato un panino enorme, quadrato, imbottito da una quantità industriale di chorizo. Sarei rimasta ancora più a lungo, era un bel posto con due vetrine, i tavolini di ferro e persone simpatiche attorno, la televisione trasmetteva cartoni giapponesi. Se non fosse stato troppo presto e soprattutto se non avessi ormai maturato l’idea folle di arrivare a Calvor, mi sarei fermata a dormire a Triacastela. Così, però di malavoglia e già stanchissima, sono ripartita. Appena fuori del paese – niente sterratori muscolosi quest’anno, ma una bella strada fra i campi – un ponticello sopra un fiumiciattolo dove ho sostituito i sandali alle scarpe pesanti, che mi pungevano i piedi e mi sono avviata, lentamente, mentre il sole scaldava finalmente l’erba, e me.

* La strada si inoltrava piacevolmente nel bosco e sbocconcellare il chorizo era una distrazione. Purtroppo non avevo acqua e la sete ha iniziato a tormentarmi. Così non mi sono goduta il paesaggio, persa dietro a pensieri di stanchezza e di sete, mangiando il chorizo per scacciare entrambe. Iniziava nuovamente a piovere quando il bosco si è aperto in una radura, quasi una valletta incassata fra le pieghe del terreno, nel mezzo della quale sorgeva un piccolo complesso dominato da una cascina – me la ricordavo da due anni fa – dentro cui, e questo non me l’aspettavo, si apriva una stanzetta con un distributore d’acqua e una panca. Mi sono seduta sulla panca, ho preso una bottiglia di acqua minerale e atteso che spiovesse. L’acqua cadeva pesante nell’erba e sugli alberi circostanti. Ogni tanto mi affacciavo, sperando che durasse ancora a lungo, tanto ero stanca. E’ tornato il sole, ma non ho voglia di ripartire. E’ una pazzia e non so cosa farò se non ce la faccio ad arrivare a Calvor. Ormai i piedi mi fanno molto male, segno che sono proprio arrivata. Sono la solita stupida. Tre mesi in città senza muovere un passo e oggi mi illudo di spaccare il mondo. Intanto il sole scende abbacinante su questo bosco bellissimo, accendendo riflessi dorati sulle foglie scintillanti di pioggia.

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*

Poi, con fatica, mi sono lasciata alle spalle la radura e la frazioncina, un pugno di costruzioni, alcune diroccate, altre invece ristrutturate, e sono andata avanti, passo a passo. Il sentiero ritornava serpeggiando nel bosco, per immettersi poi in uno sterrato militare largo e sassoso all’ombra di alberi alti e fitti. Ho costeggiato la brutta fonte con la conchiglia di due anni fa, ancora più desolata, sporca e puzzolente. Più avanti, un’altra fonte, una specie di vasca quadrata piena di simboli banali. Ero molto stanca e anche la leggera pendenza dello stradone mi sembrava massacrante. In mezz’ora ho raggiunto San Xil, il sole splendeva caldo e il bosco si era aperto sulle belle colline tonde e disabitate. Paesaggi che ad un primo sguardo sembrano familiari, colpiscono proprio per questa assenza di case, di tracce umane. Avrei voluto entrare in paese, cercare la chiesa e la signora della foto di due anni fa, ma ero troppo stanca, così ho proseguito, di nuovo tormentata dalla sete. Dopo San Xil il Camino si è mantenuto pianeggiante, a mezza costa, salvo una breve salita all’alto del Riocabo fino al bivio da cui si diramava il sentiero. Ho però preferito rimanere sull’asfalto, lungo la strada dei ciclisti che percorreva un grande arco sulla cresta fra gli alberi e scendeva con un’improvvisa pendenza, quasi un toboga, fino ad immettersi sulla strada che arrivava da Samos. Lì curvava fino ad una costruzione che da lontano sembrava un tempietto neoclassico mentre era solo il gioco di luce delle ginestre su un muricciolo, e superava in lieve discesa Montan e gli altri villaggi, poche case, nessun bar e le illusioni ispirate dalla vista delle case che svanivano rapidamente. Poi, sempre molto lentamente, ho proseguito, dentro un nuovo boschetto verde e incantato. Ho ritrovato il piccolo corredoiro dei miei ricordi, quella passerella in pietra che attraversava il praticello, ma il praticello era ingiallito ed il rivoletto che avrebbe dovuto scavalcare era asciutto, così che l’insieme mi è parso ben più prosaico rispetto al ricordo.

Mi sono fermata a bere una coca cola alla Casa do Franco, erano le sei e un quarto ed ero esattamente nella tabella di marcia, camminavo da oltre tredici ore, compiendo una minuscola deviazione a mezzaluna appena fuori del bosco, quando il sentiero sbucava sulla strada asfaltata: al banco serviva un ragazzo dagli occhi ridenti che non credeva arrivassi da Vega e prima ancora da Milano, la città del Milan e dell’Inter. Siamo finiti a parlare di calcio e lui mi ha raccontato di essere preferire il calciobalilla, futbalino lo chiamano, di cui è appassionato praticante. Alla televisione una orribile telenovela, ho mendicato una coca cola, non avrei potuto mangiare nulla, avevo lo stomaco ancora devastato. Il cielo si incupiva, la luce è saltata e ritornata, e lui mi raccontava dei temporali, frequenti e pericolosi, in quella costruzione così isolata.

* In mezz’ora ho raggiunto Calvor sul sentiero in pendio che costeggiava la carretera, nel frattempo il sole era stato scacciato da nuvolacce nere e si era alzato un vento cattivo. Ora piove e l’autunno mostra il suo volto più cupo e angosciante. Calvor è appena una rotonda su cui sorge il rifugio, anche avessi avuto le forze per scendere a Sarria, il temporale me l’avrebbe impedito. L’albergue è pulito e carino, oltre a me per il momento ci sono due spagnoli. Una volta arrivata sono salita al primo piano, l’aria è calda, il riscaldamento che corre sotto il piancito di legno rende l’atmosfera deliziosa. Uno degli spagnoli stava facendo la doccia, così ho dovuto aspettare il mio turno, nel frattempo ho tolto i pantaloni, fradici, brasati sotto il k-way.

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Ora voglio vedere se posso lavare da basso la mia roba umdiccia di sudore. Non ho fame e i piedi mi fanno molto male. Ho camminato 46 km, senza allenamento, non è male ma domani lo pagherò. Sono arrivata fino a qui anche perché se mi fossi fermata a Triacastela domani avrei dovuto attraversare il bosco di notte e non me la sentivo. Ora sono stanca davvero e senza nessuna voglia di riflettere sul cammino percorso. Durante il cammino pensi e ripensi solo alla strada che manca, conti e riconti e più sei stanco e più conti. Come se la mente dovesse tenere a bada il corpo. Poi arrivi ad un punto in cui non riesci nemmeno più a contare, specie nelle salite. Allora nella mente rimbalzano come biglie impazzite solo pezzi della medesima canzone, che per me oggi era Don Chisciotte di Guccini. Ricordo me che scendo faticosamente lungo la carrettera dall’alto del Riocabo, sotto, le case lontane di Montan, gli alberi attorno che gettano un po’ di ombra, e le strofe che mi martellavano ossessivamente in testa, infilandosi fra gli altri pensieri come acqua in una pietra porosa. E pensieri oziosi, e si conta e riconta.

* Sono scesa nella sala deserta, ho azionato la lavatrice a gettoni, come sembra tutto facile a volte. A dire il vero ci ho messo un po’ a capire come inserire la moneta e avviare il diabolico macchinario, poi sono rimasta a guardare, ipnotizzata dal roteare del cestello; tornerò più tardi per cimentarmi con l’asciugatrice. Sono le sette ed è ancora chiaro. La stanchezza mi rende insofferente e provo un odio istintivo verso questi due spagnoli che parlano a raffica, fra loro, al cellulare e ancora fra loro. Adesso leggerò un pochino, devo solo riposarmi. Com’è materiale vivere il camino da dentro, solo un pezzo del mosaico che va a formare il disegno. Se guardo indietro, la salita al Cebreiro rimane il momento più bello; dopo, da quando nel bar ho sentito i ragazzi parlare di Sarria mi è entrato dentro il tarlo dell’impresa e, anche se la discesa da Triascastela è stata piacevole e piena di colore, le forze erano talmente concentrate sull’allungo definitivo che non ho potuto goderne davvero.

* Sono distrutta, mi sa che domani non ce la faccio nemmeno ad arrivare a Portomarin. Beh, vedrò sono le otto, adesso cerco di dormire. E’ venuta l’ospitalera, ci siamo registrati, siamo solo noi tre, io e questi due spagnoli, ho preso un’aspirina, tutti dormono, sono troppo stanca per essere felice, è un posto tranquillo, ma io mi sento un po’ come se fossi nel pieno di una tormenta. La tipa ci ha detto che il riscaldamento funziona tutta notte, io mi copro con la sciarpa e ho messo il pile rosso sopra la camicia da notte, mi fanno male le caviglie e i polpacci. Sbircio dalla finestra, stando già sdraiata nel letto a castello, questo buio invernale mi angoscia profondamente, sarà la stanchezza, che strano leggere da qui il diario di questa estate, mi sembra tutto così sbagliato. Oggi è stato solo strada e strada e gambe pesanti e cibo schifoso, cioccolato e caffè, caffè e cioccolato. Solo ora inizio a non avere più male, ma non so come sarà il risveglio. Stamattina ha albeggiato alle nove, ricordo i boschi e le foglie e la bella valle di San Xil, meno magica di due anni fa, scomposta solo in una sequela di numeri e passi, e il panino sempre più indigesto e l’acqua che non bastava. Devo dormire, mi fa anche male la testa e sono già le nove. 29 ottobre 2005 Calvor / Gonzar 36 km

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Non ho il coraggio di uscire. Il vento ulula come non ho mai sentito e sembra che sul tetto dell’albergue si stiano rovesciando tonnellate di acqua. Sono le sette meno un quarto, gli altri dormono ancora ma a me sembrava strano – tardi - alzarmi alle sei. Questi rifugi deserti sono splendidi, ci si muove come a casa propria. Ho dormito male eppure credevo che sarei stata molto peggio. Non credo che ce la farò ad arrivare a Portomarin con questo tempo. Vedremo.

* Contro ogni aspettativa, arrivare a Sarria è stato semplice e gradevole. Mi sono affacciata titubante dalla porta del rifugio e sono stata sorpresa dalla pianura che mi si stendeva tutta attorno, punteggiata da piccole luci sotto il grande cielo stellato, coperto solo a tratti da brandelli di nuvole. Mi sono avviata. Erano le sette eppure sembrava notte fonda. Lontano, alla mia destra una fila di colline nere, sopra di me la volta appariva indicibilmente grande. I campi erano chiazze, il buio uno spazio marino, riuscivo a sentirne quasi fisicamente la profondità. L’oscurità dilatava ogni percezione, mi sentivo totalmente sola e microscopica, isolata in una vastità incommensurabile. Davanti a me la via si srotolava invitante, una striscia argentata alta a fianco della carretera, la torcia non serviva. Dopo un breve intervallo, è ripreso a piovere, ma nonostante il vento la temperatura era dolce. Rade macchine mi superavano, sfondando la notte coi fari. L’aria sapeva di ombra, di alberi e di erba bagnata. Camminare era bellissimo e facile ed ho raggiunto rapidamente la periferia di Sarria. Alle otto era ancora buio, mi sono infilata nel primo bar aperto, al bancone una ragazza gentile stava aprendo in quel momento e mi ha invitato ad entrare. Un giornale di ieri e cafè con leche, per asciugarmi almeno dentro, visto che fuori non sarebbe stato possibile. Pantaloni e coprizaino già fradici dopo meno di un’ora.

* Ho lo stomaco ancora sottosopra e mi sento già stanchissima, sto pagando il fio delle esagerazioni di ieri. Di fronte al bar una specie di forno, moderno, un bel bancone semicircolare occupava l’intero spazio del locale e già pane e dolci in vista, due signore chiacchieravano con la ragazza, io ho preso due croissant enormi, pesantissimi ed ho affrontato di malavoglia la salita verso il vecchio centro di Sarria, ma non potevo fermarmi. Ho fatto meno fatica di quanto non ricordassi. Percorrevo la lunga e antica calle Maior, incontrando i pellegrini che uscivano alla spicciolata dai rifugi, il bar di due anni fa era aperto, illuminato e allettante, ma non mi sono fermata. Una enorme freccia gialla tracciata sull’asfalto impediva di imboccare la direzione sbagliata; superato il carcere in rovina la strada si è aperta sulla vallata in una grande curva, confondendo i miei ricordi, perché quel tratto in quasi aperta campagna non mi era familiare. Sono scesa con cautela lungo la scoscesa rampa di cemento a lato del cimitero, timorosa di scivolare sul velo d’acqua formato dalla pioggia battente. In fondo, ormai fuori del paese, ho attraversato e imboccato a sinistra un sentiero che costeggiava piccoli appezzamenti quadrati intervallati da alberi, fino a che ho raggiunto la massicciata: la strada, sensibilmente diversa da due quella di anni fa, più ampia e meno tortuosa, ha scavalcato la ferrovia, superato un bacino stagnante accanto ad un ponte ferroviario coperto da filamenti di vecchia edera scura, che scendevano fino all’acqua, e si è inerpicata per un bosco di querce. Era ancora notte fonda e la pioggia rendeva quasi impossibile vedere, anche se gli alberi fornivano un riparo, ma era bello allora arrampicarsi a testa china fra pioggia, pietre e fango.

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Arrivata in cima al bosco sono sbucata in una grande spianata, e finalmente era giorno e finalmente ha spiovuto. Il sentiero si allargava seguendo il profilo quadrato dei campi nudi – due anni fa qui ondeggiavano alte le spighe - lontano vedevo un paese levarsi alto su una collina. Erano ormai le nove, e fuori del bosco il telefono finalmente prendeva, ma nessuno si è ricordato di me.

* Attraversato il piano, una deviazione ed un pochino di carretera, poi Barbadelo. Sono terminati i boschetti ed è iniziata la campagna, bella ma insapore e rare pendenze che mi hanno ucciso. Oltrepassato Barbadelo la strada si è allargata in una lieve salita. Camminavo alternandomi a due ragazzi con un cane, lungo campi ben tenuti, costeggiati da alberi sottili. Più avanti il sentiero si è confuso in un reticolo di stradine artificiali di ghiaietta e steccionate, come quelli dei parchi, e la sensazione era appunto essere in una specie di parco agricolo. Lungo una di queste stradine ho incontrato un’americana che cercava un bar nella direzione sbagliata, ho tentato di spiegarle ma non mi ha dato retta. Poco dopo sono sbucata sulla nazionale, l’ho attraversata e ho raggiunto il bar di due anni fa. Ora non c’era gente accampata fuori, nella veranda erano accatastate sedie arrugginite e gocciolanti, cartelli dei gelati, scheletri di ombrelloni, tutti gli ammennicoli dell’estate abbandonati in balia dell’autunno, ma dentro il bar era identico a come me lo ricordavo, anche la ragazza era la stessa, indifferente. La pausa mi era necessaria, non riuscivo a trovare le forze per andare avanti, mi distruggeva l’atto stesso del camminare. Ho preso un the nella speranza che mi rimettesse a posto perché i croissant della panetteria di fronte al bar di Sarria, per quanto buoni mi avevano nauseato. Si sono fermati anche i due ragazzi tedeschi col cane e una ragazza. Il cielo continua a mutare ma trovo la campagna decisamente brutta, e la prospettiva che manchino ancora un sacco di km mi da le vertigini. Non so cosa descrivere di queste stradine sterrate fra campicelli verdi e boschetti, se non che non finiscono mai. Mi devo riprendere, questo malessere in realtà è solo stanchezza, bisogno di dormire. Sapevo che sarebbe stato così e in fondo non sto neppure pagando un pegno eccessivo, rapportato a quello che ho fatto ieri.

*

Man mano che proseguivo il paesaggio si è fatto bellissimo, il camino correva tortuoso fra boschi folti e arruffati, alberi contorti dai tronchi poderosi si serravano di presso al sentiero ineguale bordeggiato di felci, muretti coperti di muschio, rovi, tappeti di ricci e ghiande, e sopra ogni cosa lo splendore multicolore dell’autunno. Correidoiros scavalcavano minuscoli corsi d’acqua nei quali si specchiavano gli alberi, cascine dai muri anneriti. Cinque cagnolini che oziavano su un’aia mi sono venuti incontro abbaiando, per poi scappare uno dopo l’altro. Volevo fotografare Brea e il cippo dei 100 km ma mi è sfuggito, lo ricordo pieno di scritte e seminascosto fra gli alberi dal camino di due anni fa. Nell’aria, mescolato all’odore di muschio si coglieva per la prima volta un aroma penetrante, erano iniziati gli eucalipti. Con l’andar del tempo è però subentrata la stanchezza, la campagna non aveva più nulla da dirmi o forse la bellezza via via si era appannata, diluita in un estenuante alternarsi di pioggia, vento e rari sprazzi di sole, salite, discese, e i muretti onnipresenti a segnare la via, e Portomarin che non arrivava mai. Avevo le gambe dolenti e irrigidite, stentavo a portarle avanti, una dietro l’altra. Né era possibile fermarsi. Il the mi aveva sistemato lo stomaco ma lo stesso ero a pezzi. Fra un rovescio e l’altro è spuntato un arcobaleno, l’ho visto dal basso, la strada era in pendenza e gli alberi formavano anche loro un piccolo arco. Fotografavo le poche persone che mi superavano, sempre le stesse, il sentiero si insinuava a cucchiaio fra i sassi, sembrava che da un momento all’altro dovessimo arrivare, invece

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oltre le colline c’erano solo campi ed altre colline. Villaggi malconci, ripetitivi ed ingannevoli, rade case fra stradicciole fangose, nei campi ingialliti, poco bestiame, ormai chiuso al riparo delle stalle, capannoni dal tetto annerito. Il sole si era fatto largo fra le nubi, ho iniziato a sudare, a maledire il bel tempo ed a desiderare nuovamente la pioggia. Ho parlato per un po’ con una ragazza inglese vestita poco più che di stracci, senza giacca a vento, solo un maglione sformato, un cappello di feltro, lo zaino stracciato e sacchetti che penzolavano dovunque, una vera albionica figlia dei fiori. Mi ha spiegato che avrebbe dovuto arrivare rapidamente a Santiago per tornare in Inghilterra per assistere al matrimonio di sua madre. Nel frattempo siamo sbucate in una stradina asfaltata in mezzo al niente che sembrava non portare da nessuna parte salvo morire in un altro sentiero sassoso. Dopo le poche case di Villachà, mentre scendevamo fra campi spelacchiati dall’ennesima collina abbiamo intravisto da lontano il profilo di Portomarin, al di là dell’invaso creato dal fiume. Sembrava fatta, ma la strada si è avvitata in una direzione imprevista ed il paese è sparito. Lei è andata avanti, io, troppo stanca per reggere la conversazione, l’ho lasciata allontanare. Finalmente, ventidue interminabili chilometri dopo Sarria, la strada ha imboccato una china costellata di sassi viscidi di fango, troppo ripida per le mie gambe affaticate, ed è sbucata sul fiume. Ho oltrepassando il ponte sul Rio Mino guardando sotto di me i ruderi delle case abbandonate con la costruzione della diga, ho scattato qualche foto, poi d’improvviso ha ripreso a piovere a dirotto. Al di là del ponte inizia subito la ripida scalinata che porta in paese, così sono salita, mi sono riparata qualche minuto presso il punto informativo per i pellegrini, quindi ho proseguito fino alla piazza principale – il bel parco verdeggiante dove due anni fa mi ero sdraiata a sorseggiare lo yogurt dolce “la Asturiana”, ora era deserto e sferzato dalla pioggia – la cubica chiesa templare era chiusa, ciò che mi ha risparmiato l’ipocrisia di entrare pur col pensiero volto unicamente a trovare un posto accogliente dove scaldarmi e pranzare. Erano quasi le due, avrei voluto andare nello stesso ristorante di due anni fa, ma curiosando sotto il portico ho trovato questa pulperia e ho ceduto. Mi sono presa una scodella di zuppa per scaldarmi ed ora ho davanti a me un bel piattone di polpo tagliato a fette e coperto di sale, mentre la Spagna fuoriesce dalla televisione accesa e dai discorsi degli uomini nel bar. Il polpo era molto buono e la torta di Santiago ha mantenuto le promesse della proprietaria, è davvero buona e fresca. Spero che lo stomaco regga, ma ero stufa di schifezze. Ora non so se ce la farò a coprire gli altri otto km che mi separano da Gonzar. Avrei solo voglia di dormire: adesso metto scalze e scarpe e decido cosa mi sento di fare.

* Sono entrata per un po’ in un internet cafè semivuoto, sotto il portico, avevo ancora bisogno di stare all’asciutto, ed ho scritto a Lulu, poi mi sono avviata, sempre sotto la pioggia.

* Uscita da Portomarin, ho varcato l’invaso su una passerella di ferro arrugginito che dondolava in modo inquietante e sono entrata in una bella pineta. Nonostante i saliscendi era riposante camminare fra i pini, calpestare gli aghi e il muschio. Dopo circa un’ora il camino è sbucato sulla carretera ed ho costeggiato l’asfalto, coperto da un velo d’acqua, lungo un rettilineo interminabile. Per fortuna le poche macchine di passaggio rallentavano per non infradiciarmi. All’altezza di Toxibo il cammino si è insinuato nell’abitato per una salitella, poi è tornato sulla carretera; ero stanca – sul serio - e Gonzar non arrivava mai, il paesaggio era vasto e piatto, campi

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brulli, insignificanti e qualche capannone si alternavano a macchie altrettanto insulse, la pioggia non accennava ad interrompersi. Pensavo a quando due anni fa avevo percorso questo stesso tratto sotto il sole a picco. Finalmente il cartello di Gonzar e quindi il paese, niente più che il rifugio affacciato sulla nazionale, il bar adiacente, quattro case alle spalle e una brutta chiesa circondata dal cimitero. Mi sono affacciata alla porta del rifugio deserto, indecisa, ho salito le scale. Il rifugio successivo distava 4km ed erano le cinque. Quando ho visto le brande, le docce, non ho più esitato, mi sono levata la roba fradicia e mi sono gettata a pesce. Mi sono sistemata nella stanza più grande, l’unica riscaldata, ed ho persino fatto il bucato.

*

Ora sono le sei, mi sento molto bene perché il rifugio è vuoto, ci siamo solo io e un ragazzo svizzero, che mi ha gentilmente offerto un sorso da un bottiglione di vinaccio rosso da poco prezzo. No grazie, come minimo a bere certa roba si rimane ciechi. Fare il bucato mi ha scaraventato violentemente nel camino di questa estate. Fuori continua a piovere, il cielo è ancora chiaro ma l’atmosfera è invernale: si parla a bassa voce, si mangia raccolti in qualche angolo. Di pellegrini eppure se ne incontrano, la maggior parte cammina da solo, poche coppie, ricordo i due tedeschi di stamattina col cane, gli spagnoli di ieri. Poco fa è sfilata davanti al rifugio la coppia del Cebreiro, lo spagnolo con la bionda e il cane lupo, hanno salutato da lontano e sono passati via.

* Mi sta venendo sonno e sono solo le sette e mezza, e il cammino sfugge come l’oro delle foglie, nel pensiero ossessivo, quanto manca, quanto manca. Non mi diverto molto, la fatica è tanta. Persino nell’andare cerco di interrogarmi su cosa stia facendo, ma non c’è niente, solo il mettere un piede davanti all’altro. Ci ho provato ma più che le sconnessure del terreno, il giallo intenso della terra come tuorlo d’uovo, la sfumatura dell’odore di letame che impregna l’aria, più dolciastro o più acido o carico di fermentazione così che si percepisce la frutta o il formaggio o semplicemente l’alcool della verdura marcia. Mi crogiolo nel pensiero di Lulu, ma non è un pensiero vero, è solo una fuga dalla fatica. Ho preso un panino al formaggio – non c’era altro - nel bar qui accanto. Al buio e in piedi perché l’ospitalero non aveva voglia di accendere luce e riscaldamento. Allo svizzero si è aggiunto un tedesco ed ora i due crucchi chiacchierano fra loro, stesi sulle brande all’altra estremità della stanza; io ho ritirato la roba dall’asciugatrice, ho appeso dovunque la mia biancheria e tutte le cose sporche e impregnate. Oggi ho alternato momenti di malessere ad altri in cui stavo davvero bene. In sé camminare sotto la pioggia è gradevole, solo la stanchezza o la debolezza lo rendono spiacevole. Paradossalmente trovo più piacevole questo cammino autunnale, i rifugi sono caldi e vuoti, l’aria non è fredda, la gente guarda con maggior gentilezza perché non si fa parte di un’orda come in estate. Farò un po’ di ordine fra la roba che ho sbattuto in giro, non vorrei fare troppo rumore nell’alzarmi domani mattina. Questo albergue è sporco come lo ricordavo, niente a che vedere con quello di Calvor. Del resto basta guardare l’ospitalero, vecchio pelandrone che nemmeno si scomoda ad accendere la luce al bar. Fuori soffia il vento, io mi sento malinconica, il pensiero rivolto unicamente alla roba che non asciuga, forse non sono davvero all’altezza del camino. Perché non mi vincono il tempo o la sfida fisica e mi schiaccia invece questa malinconia? In questi due giorni ho camminato e basta, non ho bevuto, ho mangiato quasi per caso, non ho fraternizzato con nessuno. Ho sfrondato il Camino da tutto ciò che non era essenziale. E scopro che questo essenziale si riduce nel guardare i sassi e ricalcolare

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mentalmente i km percorsi. Cerco di svagarmi con la lettura del giallo. Non riesco a rilassarmi, tutto qui. Questa estate l’abbandono mi veniva così semplice, bastava togliere le scarpe, stendermi, per assaporare con tutta me stessa la semplice gioia del riposo, la sensazione che non rimanesse più nulla al mondo se non sdraiarsi e dormire. Ora resto sempre come se dovessi fare qualcosa. Perché non mi riesce di descrivere le strade? Come un mandala bellissimo esse esistono nella memoria, appena un istante poi svaniscono. Anche il pensiero di Lulu mi immalinconisce, il suo silenzio guasta il piacere già esiguo di questi giorni. Sento passare i camion, odo il rumore della striscia d’acqua che sollevano. La luce della lampada è gialla, sa d’inverno. Il vento sibila, come ha sibilato tutto il giorno quando mi scaraventava addosso raffiche d’acqua. 30 ottobre 2005 Gonzar / Melide km 34,5 Mi sono alzata col buio, prima dei tedeschi. Fuori del rifugio il vento fischiava, l’alba è poi sorta rapidamente mentre percorrevo uno sterrato raso in mezzo ad una pineta, ho toccato rapidamente Castromaior, sono ritornata sulla carretera e poco dopo ho superato Hospital de la Cruz, dove mi sono resa conto che sarei potuta arrivare già ieri sera, ma è sempre così in fondo, è raro arrivare davvero in fondo a tutte le proprie energie. Dopo Hospital de la Cruz la strada si è arrotolata, prima in una direzione poi nell’altra, sembrava una riproduzione in miniatura del raccordo anulare di Roma, una strada-fiocco che scavalcava la nazionale sbucando su un asfalto sgradevole e ripido, un passaggio tagliafuoco, suggeriva il cartello, presto sostituito – fortunatamente - da un sentiero nel bosco fra i castagni. E’ tutto molto bello ma piove, piove, piove. Dopo un paio d’ore dalla partenza finalmente un caffè, un po’ prima di Ventas de Naron, nello stesso locale in mezzo al bosco dell’altra volta, meno selvaggio di come lo ricordavo. Il proprietario, gentile ma meno figo di come lo ricordavo, mi ha detto che, se non ci fosse stato questo tempaccio, il camino sarebbe stato affollato come d’estate, per il ponte di ognissanti. Quando sono uscita dal bar mi ha fatto gli auguri, e ne avevo bisogno, ero già fradicia e il caffè con leche o il kit kat non potevano fare molto per aiutarmi. Ho oltrepassato le gocciolanti vestigia delle attrezzature estive e mi sono lasciata il bosco alle spalle, alla volta del paese. Poco oltre Ventas de Naron, la salita si allungava in lieve ascesa, larga e diritta, poi nei pressi dell’Alto de Ligonde anche i castagni si sono diradati, sostituiti dall’erica e qualche sporadica macchia di pini. Quindi la discesa verso campi coltivati e pascoli. A Lamos fra le pozzanghere ho potuto fotografare il crocefisso che due anni fa mi era sfuggito, misericordiosamente la pioggia si è interrotta giusto quei pochi minuti; a Ligonde una curva ingannevole costeggiava un laghetto di anatre, poi il cammino si è immesso in una stradina asfaltata e deserta, sempre diritto, sempre più a occidente. Eirexe era più grande e attraversarlo ha richiesto qualche minuto in più. I paesaggi sono netti nella memoria, ma è difficile descriverli, il camino serpeggia attraverso una campagna mutata, villaggi e campi fiancheggiati da corone di alberi, il panorama che si allarga e si allunga e respira sotto i piedi in onde lievi ed ampie, a perdita d’occhio.

* Pochi pellegrini sotto la pioggia, mantelli, coprizaini, saluti affrettati. Tento di fotografarli per fermare il senso di questo cammino autunnale, ho superato una coppia di francesi che camminavano a distanza di qualche passo l’uno dall’altra; poco dopo Eirexe due ragazzi avanti a me si sono fermati per levare i ponchos ed io ho chiesto loro se potevo fotografarli, abbiamo iniziato a conversare ed ho scoperto che erano i due spagnoli di

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Calvor, una chiacchiera tira l’altra, ci troviamo a camminare assieme lungo la lunga strada bordata di erica e cespugli che scende dolcemente verso Palas del Rei, mi dicono che vengono da un paese nei dintorni di Valencia, fanno gli operai, non sono spinti da motivazioni religiose, ma ho la sensazione che per gli spagnoli il camino sia un’esperienza in qualche modo semplice, e anche necessaria. Il camino c’è – c’è sempre stato, non è una scoperta dell’ultim’ora come per noi - basta farlo. Non vogliono fare troppi chilometri, si fermeranno a Casanova.

* Chiacchierando è tutto più semplice, io ricordo bene questo tratto da due anni fa, quindi non ho bisogno di concentrarmi sulla strada per gustarla, posso lasciarmi andare al piacere della compagnia. Su un asfalto luccicante e deserto attraversiamo paesini dove la pietra ora si alterna all’intonaco, poche case, stalle, ancora muretti. Un altro mondo anche per loro. Fra loro parlano catalano, fra di noi usiamo una specie di italo spagnolo, parliamo della guerra – la guerra di Spagna, naturalmente – del re, del tentativo di colpo di stato di Tejero, sono coinvolti col sindacato, gente in gamba, motivati, mi piace ascoltarli, cercare di capire finalmente qualcosa della Spagna, questo paese di cui conosco tanto bene i sassi e tanto poco le persone. Mi hanno parlato di Fraga Iribarne, il presidente-padrone della Galizia, l’ultimo ex ministro franchista ancora al potere. Costeggiamo un cimitero aperto, le lapidi esposte direttamente sull’asfalto, ciò che suscita la reazione indignata dei miei amici. Valencia è come Milano, questo è medioevo, mi dicono. Simbolo di questa arretratezza per loro sono gli horreos, le costruzioni rettangolari su palafitte, presenti in ogni cortile di pietra e cemento o mattoni forati, dove viene o veniva fatto seccare il mais. Io nemmeno ricordo quando ho visto il primo horreo, tanto familiari sono diventate le loro sagome, e le infinite variazioni sul tema, i diversi stati di manutenzione. Intanto la strada sale sull’alto del Rosario e scivola giù quasi inavvertitamente per immettersi sulla carretera verso Palas del Rei: parlando di calcio percorriamo un corridoio protetto della nazionale da un lungo filare di cespugli. Brea è già un sobborgo di Palas del Rei, ai campi si sostituiscono gradualmente edifici, ristoranti, capannoni. Arriviamo presto, o così mi sembra, scendendo su Palas del Rei per una via stretta e ripida che ci conduce in centro. Troviamo un ristorante aperto, ci leviamo di dosso strati su strati di roba bagnata che il padrone ci permette di lasciare ad asciugare. Beviamo vino, i miei amici non transigono su questo, e mangiamo abbondantemente, io prendo un piatto di lenticchie insaporite da carne, salsiccia, pancetta... Il padrone è un gallego arrabbiato col mondo, coi turisti e coi catalani in particolare, loro fingono di dargli corda assentendo con aria compresa. Hanno fra loro un rapporto strano, Joaquim, il più giovane ed estroverso dei due protegge come un fratello maggiore l’altro, Victor, che considera un intellettuale riflessivo e ipersensibile, e si preoccupa per lui perchè cammina a capo scoperto nonostante la pioggia. Offrono loro, naturalmente, il mio ipocrita abbozzo suscita una reazione indignata. Paga el valenciano! dice Joaquim in un sussulto di orgoglio iberico assolutamente delizioso. Usciamo dal ristorante, non piove più, ci avviamo ed usciamo da Palas del Rei per una periferia tranquilla, un breve tratto sullo stradone e poi rientriamo nel bosco. Funghi, ricci, ghiande, tappeti di foglie. Non piove ed è finalmente piacevole camminare fra i castagni, anche se in certi punti le pietre scivolose ed il fango a mezza gamba trasformano salite e discese in percorsi di guerra. Non mi sono quasi accorta di aver raggiunto e superato San Julian, il minuscolo villaggio che, appena intravisto due anni fa, nei ricordi aveva rappresentato una di quelle scintille di grazia e bellezza che si incontrano sul Camino. Al rifugio di Casanova ci siamo separati. Il rifugio, isolato in mezzo al bosco, era deserto, io ero tentata di rimanere coi miei nuovi amici, ma non volevo dare loro troppa confidenza, e poi era davvero troppo presto per me e – poi - covavo l’inconfessata intenzione di fermarmi a Leboreiro per viziarmi all’hotel di due anni fa.

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Così ho proseguito e sono presto uscita dal bosco, sbucando come attraverso un portone in una piana di campi e cascine, mentre il sole appena spuntato donava ai prati rasati un’incredibile tonalità di smeraldo. Ero così incantata a contemplare quel verde lucente e i raggi che giocavano fra le frange bluastre delle nuvole, e le stradine bianche, le casette ben tenute, quella campagna dall’aspetto quasi inglese, a curiosare fra gli strani accessori in pietra o in legno, vasche, fonti, gerle, che – per la prima volta – mi sono persa, e non me ne ero neppure accorta, fino a che due signore sedute fuori di una casa mi hanno avvertito che non ero più sul cammino. Sono tornata indietro ma mi stavo intortando ulteriormente, e ho ritrovato la direzione solo grazie alle indicazioni di un contadino gentile.

* Il mio arrivo a Melide è stato del tutto accidentale e non voluto. Una volta a Leboreiro, ho ritrovato la chiesetta col bel bassorilievo della Madonna in un’insolita pietra grigia, ho fotografato una cesta dal coperchio di paglia di fronte alla chiesa, ripercorrendo insomma il percorso di due anni fa. Nell’uscire da Leboreiro per il tracciato medievale devo però aver sbagliato qualcosa, e l’albergo semplicemente non era dove pensavo che fosse. Ancora non so dire dove ho sbagliato, ricordavo il paese come un mucchio di case a malapena addossate ad un sentiero che si dipartiva digradando in mezzo al nulla, invece oggi il percorso era più complesso, c’era una specie di giardino pubblico, un torrente, e mi sono trovata su di uno stradello deserto fra campi spelacchiati che, come l’altra volta, terminava sulla carretera per Melide, in un punto però dove dell’albergo non c’era traccia. Sono andata avanti e indietro per un tratto, ma nulla, e nel frattempo ha iniziato a piovere. Fatto sta che – avendo ormai perso il camino e non riuscendo a trovare l’albergo - l’unico riferimento sicuro era la nazionale per Melide. Quindi, anche se pioveva ed erano passate le quattro, non avendo scelta, ho dovuto proseguire alla volta di Melide e - senza neppure troppa fatica, forse perché ero rassegnata - mi sono avviata lungo la carretera. Dopo aver costeggiato per una mezz’ora fra magazzini all’ingrosso e capannoni, mi sono imbattuta in un bar per camionisti, che esponeva senza troppa convinzione alcuni formaggi di Arzua dall’aria sofferente e affollato da una banda di ragazzini che sembravano non nutrire la minima simpatia nei miei confronti. Mi sono un po’ scaldata con un cafè con leche davanti alla televisione accesa.

* Ero stanca ed esasperata, così ho forzato l’andatura, immemore delle lezioni apprese in passato. Passata una rotonda ho ritrovato il camino, niente più di una traccia sul marciapiede di travertino accanto allo stradone che portava in città, abbellito si fa per dire, da un moderno monumento ai pellegrini. Quanto sanno di stantio questi monumenti, queste celebrazioni miranti a lusingare la coscienza di coloro che pellegrini non sono, perché salgono e scendono dai bus, ed a farli sentire parte di qualcosa evidenziandone i simboli fino al ridicolo. Quanto più ti scava dentro un’ora fra le pietre o la fatica di una salita, di tutti i monumenti le conchiglie e i bastoni del mondo. All’improvviso il camino devia verso l’interno ed ecco una manciata di case di pietra che spuntano inattese ed in singolare contrasto con lo squallore della precedente zona industriale, è Furelos, un paesino antico raccolto attorno all’ansa del fiume all’ombra del ponte, questo più grande da solo dell’intero villaggio.

* Alle porte di Melide è terminato il rettilineo, il camino ha abbandonato la nazionale fiancheggiata da palazzi alti e brutti, e si è addentrato per una via laterale che attraversava

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un giardinetto, insinuandosi fra le case. Finalmente aveva smesso di piovere ed un po’ di azzurro aveva fatto capolino, erano quasi le sette di sera. Il rifugio, forse una scuola dismessa in fondo ad una vietta nella zona più vecchia, è davvero minuscolo e tenuto male. E’ già pieno, benché sia novembre e con la pioggia. I bagni sono simili a quelli delle palestre e le docce non garantiscono alcuna intimità. Roba fradicia pende da ogni gancio, scarpe imbottite di giornale fanno capolino da sotto i caloriferi. Sono uscita per farmi una birra, visto che ho conosciuto tre signori di Biella, simpatici ma con cui non volevo fraternizzare troppo. Appena in strada mi sono imbattuta nei miei amici spagnoli, in fuga dal rifugio di Casanova, infestato dalle pulci. Ci siamo dati appuntamento per la cena, perché ora dovranno cercare di sistemarsi. A me ha fatto piacere ritrovarli, ma insieme mi sento soffocare.

* Ho girato un po’ per Melide, mi sono diretta allo slargo da cui si dipartono tutte le strade, ne ho imboccata una per guardare qualche negozio e ad un certo punto mi sono trovata abbacinata da un sole bassissimo, enorme, sembrava che si coricasse all’estremità della via, la linea dell’orizzonte perfettamente perpendicolare alla strada, una colata accecante di lava che si rovesciava sui muri e sull’asfalto senza incontrare alcun ostacolo. Era un fenomeno di tale bellezza e unicità che ho immaginato che la gente dovesse venire da lontano per osservarlo. Invece i passanti si limitavano a schermarsi gli occhi e continuavano le loro faccende. Ho bevuto una birra in un locale stretto e lungo, affollato di uomini che guardavano il Deportivo, poi mi sono trovata coi ragazzi: si sono sistemati su due materassi di fortuna in una stanza aperta apposta per loro. Ci siamo immediatamente bevuti un aperitivo in un localino nei pressi del rifugio, dove loro hanno fraternizzato con la barista che ci ha invitati alla festa di stanotte per ognissanti, quindi abbiamo cercato un posto dove cenare, ma tutti i ristoranti cui ci siamo rivolti non avevano ancora aperto la cucina e a Victor e Joaquim il polpo non piaceva. Così ho dovuto rinunciare al progetto di cenare da Ezequiel, la pulperia che costituisce una delle leggende del camino – invero, come tutte le altre leggende che ho sperimentato in questi anni – un po’ stantia. Mi chiedo se ci sia stato un tempo in cui questi “luoghi mitici” erano davvero attuali, significativi, e non usurati, deludenti. Penso alla casa di Felicia, alla zuppa d’aglio di San Juan de Ortega, a Manjarin, alla Cruz de Hierro. Ecco, forse, paradossalmente, il rifugio hippy di San Bol è “attuale”, nel senso che ha un’atmosfera autentica – per quanto possa non piacere – e non è la stanca ripetizione di sé stesso. Ma d’autunno comunque il camino è diverso, sfrondato da tutta la sovrabbondanza commerciale e pittoresca che lo ammorba d’estate, è più essenziale, più simile a sé stesso. E’ meno facile perdersi, perdere di vista il senso, in autunno. In autunno i pellegrini sono solo gente che cammina verso occidente e passa via, lasciando la cornice medievaleggiante e la mistica fasulla dell’estate ad arrugginire sotto la pioggia. Questo Ezequiel l’avevo individuato arrivando, ancora chiuso, niente più di un localone attrezzato per ricevere le comitive e ingozzarle di polpo a prezzi non troppo popolari. Però questa estate i miei amici ci erano venuti e cenare lì sarebbe stato per me un modo di tirare un filo attraverso il tempo fra me e loro. Siamo invece approdati in un posto fetido che serviva piattoni grassi proposti con le foto sul menu, ma almeno ci siamo sfamati. Abbiamo bevuto abbondantemente e i ragazzi mi hanno persino fatto fumare. Mi sono prestata, faceva parte del loro gioco da machos iberici alle prese con l’ospite straniera, mi sembrava sgarbato rovinarglielo.

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Dopo cena ci siamo intortati nel localino di prima, decorato con festoni di zucche, dove stavano preparando la queimada, una specie di punch gallego della notte di ognissanti, con chicchi di caffè e frutta, fatto cuocere con la fiamma sopra mentre si invocano gli spiriti. Abbiamo letto l’invocazione agli spiriti, bevuto ancora qualcosa, aspettato l’interminabile preparazione della queimada, che veniva mescolata e rimescolata in un pentolone. Nel frattempo sono arrivate un gruppo di ragazze che festeggiavano girando per i bar vestite da mucche. Passato un altro po’ abbiamo fatto un salto al rifugio perché temevamo che chiudesse presto, ma i ragazzi, dopo aver controllato di poter rientrare ed avermi salutato sono tornati a finire la queimada. Io avevo bevuto troppo vino e volevo alzarmi presto, così sono rimasta a dormire, e poi pativo la mia costante diffidenza nei confronti delle persone che mi impedisce di dare fiducia fino in fondo e fa sì che – sempre e comunque – io ad un certo punto provi l’impulso di staccarmi.

* Oggi finalmente ho iniziato a prendere gusto al camminare, a questo riconoscere i visi della gente, siamo talmente pochi che le persone sono sempre le stesse. E il paesaggio è sempre bellissimo, molto più di quanto non ricordassi, in questi boschi rossi e gialli, bellissimi, pieni di foglie e ricci e ghiande di cui già il ricordo sbiadisce. Aveva ragione Raffaele che, al ritorno dal camino di questa estate, mi aveva decantato la bellezza, il fascino e i profumi della Galizia, in contrasto con la verdastra monotonia inodore e polverosa che rammentavo dal mio viaggio di due anni fa. Ma allora stavo male, col ginocchio distrutto da troppi giorni di continue ed eccessive sollecitazioni, tenendomi in piedi col solo aiuto dell’aulin e della pomata, e mi ero buttata sulla carretera nella fretta di arrivare prima possibile, senza capire che proprio l’asfalto mi avrebbe devastato ulteriormente.

* Mentre attraversavo Ligonde e Eirexe e gli altri paesini immersi nel verde, pensavo a come tutto si perda, a che il piacere del camino è qualcosa di subliminale, coperto dalle chiacchiere se si è in compagnia o dai pensieri ossessivi se si è da soli, qualcosa che affiora dopo, nel ripensare, nel tentare di riavvicinare le terre, lampi, le foglie, i tappeti di aghi rosso arancio, le felci arancione, il sole che incendia le case a Melide, la calzada romana a Leboreiro, le casine di sassi e le due donne sdentate, il contadino che mi avvisa della strada sbagliata a Casanova e quel prato di quel verde incredibile, la stessa pioggia, incessante, ininterrotta, che quasi non si percepisce più. Ora devo dormire, ho fatto 33 km e mezzo, non male, in fondo. 31 ottobre 2005 Melide / Arca 33 km Stamattina mi sono alzata alle 5.30. Il rifugio è proprio un cesso, sporco, affollato, rumoroso. Qualcuno ha iniziato a far rumore alle 4, poi gente che russava, rumori, forse ero io maldisposta, chissà. Comunque alle sei e venti ero per strada, un po’ claudicante per il ginocchio che ieri ho sforzato troppo sull’asfalto. Fuori del rifugio dormiva un cane peloso che è saltato su appena mi ha visto ed ha deciso di accompagnarmi. Sono scesa dall’altura di Melide per un sentiero stretto, le poche luci alle mie spalle sono scomparse non appena mi sono addentrata nel bosco di eucalipti. Camminavo lentamente, abituando gli occhi al buio e perlustrando con la torcia solo quando temevo di perdere le frecce. Lo sterrato era ampio e morbido sotto i piedi, i sentieri si incrociavano e serpeggiavano fino a perdersi nel nulla, ma era facile seguire la traccia. C’eravamo solo io e il cane, sentivo l’eco dei miei passi ed era bello, assaporavo la notte, quella bella sensazione di solitudine e tranquillità, gustando l’amichevole presenza del cane che si divertiva correndo avanti e indietro senza mai smarrirsi; lo sguardo scivolava fra i tronchi

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fitti e sottili degli eucalipti, in alto l’oscurità assumeva riflessi rossicci, in basso le felci creavano un tappeto d’ombra contro cui risaltava il chiarore sabbioso dello sterrato. Ho avuto paura solo quando ho dovuto attraversare uno stagno su grandi pietre gibbose che, alla luce della torcia sembravano instabili e viscide, o forse era il buio tutto attorno a rendere me instabile. Le acque nere si confondevano col buio circostante e l’ombra giocava con la superficie scabra delle pietre rendendola ingannevolmente liscia. Procedevo con cautela, nel timore di mettere un piede in fallo e invidiosa dell’agilità con cui il cane le aveva superate d’un balzo. Poi anche quel posto lugubre è rimasto alle mie spalle, come ogni altra cosa sul Camino, ed ho ripreso la via, sentendomi molto medievale.

* Sono uscita dal bosco all’altezza di Boente, bar chiusi anche se era ormai giorno fatto. Ho attraversato la carretera con la paura che il cane finisse sotto una macchina, continuavo a chiamarlo perché mi restasse vicino. Dopo Boente il camino è rientrato immediatamente fra gli alberi, ha curvato maestosamente scivolando sotto un ponte e poi è risalito per gallerie di alberi altissimi. Percorrevo la cresta all’ombra di castagni fiammeggianti contemplando la vallata sottostante, colma di foglie, rami e tronchi. Era un lento rollio in un mare di colori, la strada si avvolgeva su di me come le spire di un serpente variopinto mentre ridiscendevo nel grembo della vallata Due anni fa ero rimasta sulla carretera, senza immaginare che cosa avrei perso. In realtà allora stavo talmente male che non mi sarebbe davvero importato.

* Da Castaneda – tutto chiuso, un’inutile deviazione sullo sterrato fino ad un bar che da lontano sembrava aperto e non lo era – a Ribadiso, quattro lunghissimi chilometri in cui la bellezza aveva nel frattempo ceduto ad un inutile susseguirsi di faticosi saliscendi fra colline coltivate, boschi e campi. Ero proprio nel mezzo di un rettilineo, incurvato fra due colline come un’interminabile trave troppo elastica, quando ho visto la chiamata di Lulu. Un minuto, le solite cose, dove sono, dove andrò. Con questo tempo, di arrivare oggi a Santiago non se ne parla nemmeno. Sono scesa sempre più in basso, fino al fondovalle dove scorre il rio Iso. In quel momento il rifugio sul fiume non sembrava così accattivante, ho oltrepassato il suo bel prato fluviale, deserto e ingiallito, intanto iniziava nuovamente a piovere, e il sentiero risaliva per l’ennesima volta, passando sotto la carretera. Finalmente la deviazione per entrare in Arzua, ma la rampa di asfalto non mi portava in paese come speravo, avvitandosi inane attorno alla collina come la buccia di una mela, e la pioggia aumentava di intensità. Alle dieci ero ancora in piena campagna, sullo stradone ed il temporale si era trasformato in un acquazzone torrenziale che mi infracicava fino alle ossa: pioveva talmente forte che persino il cane si è riparato sotto la tettoia di una cascina, ululando per farmi restare, ma non aveva senso fermarsi lì, così ho ignorato i suoi richiami e sono andata avanti. Pochi minuti dopo, accanto ad un distributore, ho finalmente trovato un bar aperto. Mi sono spogliata, ormai è un’abitudine, il poncho, i pantaloni, la giacca a vento, il cappellino, le scarpe, non ho nulla di asciutto. Spero solo di farcela ad arrivare a Santa Irene. Ho preso una bella fetta di torta fatta in casa dal padrone del bar, enorme e davvero buona. Forse il cibo è più facile da descrivere perché è materiale, presente, laddove la strada svanisce mentre la si percorre. Come spiegare il pezzo fra Boente e Castaneda, quelle discese e salite fra tappeti di foglie ed alberi di mille colori? L’argilla della terra, quel fango color ocra che sembra di velluto, o le superfici ineguali dei sassi sotto i piedi, o la notte, fra le ombre disegnate dalle cortecce pendule degli eucalipti e le cime sottili che si perdevano nel buio? O queste valli dalle casette intonacate e diverse da quelle più arcaiche, di pietra

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nera, dei giorni passati? Le impressioni sempre differenti suggerite da un particolare bosco o da un paese o da una casa?

* Per distrarmi dal freddo e dalla perenne sensazione di bagnato, guardo la televisione. Un giovane uomo con la faccia seria sta dicendo qualcosa in tono solenne, capisco che parla di una figlia, penso che stia facendo un appello, penso – chissà perché – ad un rapimento. Cambia l’immagine, appare l’annunciatrice e finalmente capisco. E’ nata Eleanor, la figlia del principe delle Asturie, l’erede al trono di Spagna, ed io ho appena avuto la fortuna di vedere in televisione il principe commosso ed emozionato dare l’annuncio. Mi si stringe il cuore, sono entrata anche io nella storia della Spagna. Qui ed ora, è nata la regina di Spagna, ed io ero presente. Sulla porta si affaccia una papera gialla che vorrebbe entrare ma il padrone del bar glielo impedisce. Devo andare, mettere le mie cose fracide e uscire nella tormenta.

* Mentre attraversavo Arzua, guardavo oziosamente un negozio di formaggi dedicato ai turisti, mi ha raggiunto correndo il cane: sono stata assurdamente felice, gli ho fatto un mucchio di feste, ho tentato di asciugarlo e da allora non ci siamo più lasciati. Poco dopo ho anche fatto amicizia con una ragazza francese, Muriel che si stava riparando sotto la mia stessa tettoia. Lei viene dall’Alvernia, fa la fisioterapista ma, per varie ragioni, ha abbandonato il lavoro e prima di riprendere, ha voluto fare il camino. Quanta gente ho incontrato, che ha intrapreso il camino in un momento di passaggio della propria esistenza. Fa un po’ parte dell’immagine esteriore del Camino, quello di proporsi come una sorta di percorso iniziatico, di rinnovamento. Io trovo tutto così banale, così ridimensionato dalla materialità della strada. Io penso che semplicemente il Camino è il Camino: lo si fa perché c’è. Tutto il resto sono sovrapposizioni posticce.

* Fra Arzua e Salceda il percorso è stato davvero gradevole, undici chilometri di villaggi e boschi, molto più piacevole della volta scorsa, un po’ perché si parlava, un po’ perché non era per niente faticoso. Ricordo poco, le immagini assorbite dalle parole, il resoconto delle nostre vite che si sovrappone a immagini di salite, di sentieri stretti sulla costa, alti sopra un pascolo o ampi acciottolati che risalivano per poi aprirsi fra il bosco e le radure, la difficoltà di parlare nella pioggia intermittente, il liberarsi del cappuccio al primo spiovere e riprendere a raccontarsi. Fuori di un paesino, su un terrapieno di cemento, una grande scritta rossa, “Good bye Fraga!” Ancora una volta mi sento sfiorare dalla storia della Spagna. Il paesaggio mutava sensibilmente, ci stavamo avvicinando all’alto di Santa Irene, non pioveva più e l’aria sapeva di montagna. Parlavamo francese, cercavamo di raccontarci il cammino, cosa significa per noi, il senso del camminare, in che cosa consisteva quell’araba fenice della specialità del Camino. Lei era la prima volta che lo percorreva, io – per quanto mi sentissi una veterana – per la prima volta mi confrontavo su questi argomenti durante la via. A Salceda siamo sbucate sulla nazionale – ormai sudate – e ci siamo fermate ad uno dei numerosi bar per bere un the alla menta, il cane è crollato sfinito nel bar ed è rimasto lì. Mi sarei fermata forse di più, a mangiare qualcosa, ma va bene così, purtroppo in compagnia ci si deve costantemente misurare con le esigenze altrui, anche quelle implicite.

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Siamo rientrate nel bosco, sempre salendo dolcemente, toccando qualche piccolo paese. All’altezza del rifugio di Santa Irene, lungo una strada che correva infossata sotto la carretera all’ombra dei pini giganteschi, mi sono congedata da Muriel, a lei dispiaceva ed io mi sono sentita in colpa, ma ero stanca di parlare, volevo godermi l’ultimo tratto, volevo fermarmi nel rifugio di due anni fa. Ci siamo salutate senza nemmeno scambiarci gli indirizzi, intanto il cielo ritornava a chiudersi e il bosco era già sul punto di trasformarsi in una palude di fango. Ho imboccato il tenebroso sottopassaggio che porta alla radura dove sorge il rifugio privato, ma questo era chiuso. Forse è meglio così, sono solo le tre e mezza. Come per Leboreiro, sarebbe stato solo un capriccio. Ho proseguito e sono entrata nel rifugio comunale poco distante. E’ deserto, però c’è un distributore di actimel, di cui mi sono servita per farmi passare il mal di gola. Non resterò qui, riposerò un pochino e scenderò fino ad Arca. Mi sono seduta alla scrivania dell’ospitalero per scrivere, dopo avere posato lo zaino. Fa un certo effetto trovarsi in un posto così grande e totalmente disabitato, il pavimento sporco di terra, lasciata dagli ultimi pellegrini partiti stamattina, i rumori che echeggiano, l’odore di freddo e di vuoto delle case abbandonate. Fuori ha ripreso a piovere. Prima di ripartire berrò un altro actimel, i piedi mi dolgono e il ginocchio anche, spero che smetta di piovere. Sono davvero umida e intirizzita ormai, dopo un giorno sotto la pioggia, mentre i radi spazzi di sole facevano solo sudare. Mancano 20 km a Santiago e solo a pensarci mi vengono le lacrime agli occhi. Troppe cose, troppi desideri, troppi significati. Pensare che domani potrò essere di nuovo là, la cattedrale, le strade, l’apostolo. E il compimento del cammino, ed il pensiero di Lulu, anche se lui non è così importante, però a modo suo fa parte di questa cosa. Oh se riuscissi a raccontare le strade, ogni metro, ogni foglia, ogni curva, gomito, ansa del camino. Le casette, la pietra, questo insinuarsi fra gli edifici o tagliare netto il bosco o costeggiarlo.

* Eccomi nel rifugio di Arca, fetido e affollato come quello di Melide ma, non so, più accogliente, meno sudicio. Le docce sono fredde, il boiler è vuoto, dicono. La discesa da Santa Irene è stata bellissima, un lungo tappeto di aghi, una discesa dolcemente tortuosa attraverso una foresta secolare di pini altissimi ed eucalipti. Ho oltrepassato una segheria, uomini indaffarati, cumuli di tronchi giganteschi, l’odore di resina mescolato all’aroma degli eucalipti, sembrava di essere in Canada. Dopo due chilometri sono sbucata su una bella collina verde, alta sulla carretera, il villaggio di Rua, dove ho intravisto un albergo bianco circondato da un praticello bagnato dal sole, in quel momento la vista era così accattivante che stavo per cedere, ma ho resistito. Sono andava avanti, sempre attraverso una campagna di bei prati, ancora giù, fino ad Arca, dove mi sono fermata, anche se il sole era alto ed io stavo bene. Non aveva senso ridurmi a trascinarmi fino a Santiago per ficcarmi dove capitava e perdere l’ultima notte in un vero rifugio. I caloriferi sono coperti di roba lasciata ad asciugare. Io ho lavato qualcosa e ho steso, i piedi mi fanno male ma non tantissimo. Del resto oggi, chiacchierando con Muriel la distanza non l’ho nemmeno colta. Mi chiedo se arriveranno i ragazzi spagnoli o i tre tipi di Biella, ma un po’ vorrei stare da sola, fare i miei giri. Ripensare a tutto questo ora, che sono proprio in fondo di tutto, del camino di due anni fa che ho riscattato, di quello di questa estate, che ora mi pare quasi un tutt’uno, benché sia qui da sola. Persino i dolori alle gambe in questo momento mi sono cari. Ogni volta non scopro niente, non capisco cosa mi porti sul Camino, non capisco cosa trovo, se non strada e strada, e brande come questa e bagni e promiscuità. E alberi e foglie e strade ancora. Farlo d’autunno è mille volte più bello, meno faticoso, meno stressante e un po’ d’acqua non è niente perché i rifugi sono comunque caldi. E l’atmosfera è diversa, più raccolta. Ed ogni volta che si apre la porta attendo di intravedere un viso familiare. E ripenso ai giorni indietro, sono tre mesi fa ma potrebbe essere ancora

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l’inizio di questo camino. Ora andrò a fare un giro col mio zaino umidiccio ma almeno mi sono cambiata la canottiera e lavata e non puzzo più di umido e sudore. Chissà cosa diranno i miei piedi. Attorno c’è un silenzio una strana mestizia, ognuno sa che è l’ultima sera. Una voce si alza per poi tacere di nuovo.

* Dopo che, grazie all’arrivo dell’acqua calda nei boiler ho potuto fare una doccia decente, mi sono avviata in paese. Arca – Pedrouzo – è un paesotto a cavallo della carretera che si percorre in dieci minuti da un capo all’altro. La vicinanza con Santiago si coglie subito: negozi, bar e bianche costruzioni appena terminate. Ma la foresta è a un passo e basta affacciarsi per vedere le colline, rivestite dal manto ramato dell’autunno e assaporare l’odore di legna che sale dai camini. Sono approdata in un bar moderno davanti ad un boccale enorme di Estrella Galicia, birra dall’intenso sapore di malto. Il cartello vieta di levare le scarpe, che sciocchezza. Il giornale dice che le piogge di questi giorni sono state eccezionali, al punto che la protezione civile è intervenuta un sacco di volte, che a flagellare la Galizia è stata la coda di un uragano sul tipo di Katrina, quello che ha distrutto New Orleans, per capirci. In effetti da quando ha iniziato a piovere, oggi è stato quasi spaventoso e anche dopo, quando ho incontrato Muriel ad Arzua, la pioggia non ha cessato per ore. Quante immagini colte a malapena, e già svanite, occhiate a quante cascine, uomini coi baschi, bestie, cagnolini. Ho visto paesaggi meravigliosi, colori splendidi. Sono le sei e dieci, il sole tramonta tardi qui a occidente, ma l’ora solare è quella che è. Nemmeno il tempo di godermi questo essere tornata ad essere pellegrina, ed è già finita. Santiago a 18 km eppure lontana come se fossi ancora a Pamplona. Se penso a tutta la strada che ho percorso, non mi sembra neanche vero. Vorrei, vorrei troppe cose, vorrei capire, sentire, comprendere tutto. Dare un senso, un ordine a queste cose. Ma come dare ordine a mille e quattrocento anni di emozioni? Come essere all’altezza dei sentimenti di tutti coloro che mi hanno preceduto in questa veglia profana? Come essere all’altezza dell’arrivo a Santiago? Qui ci sono ragazzi del posto, è un locale moderno e accogliente, non possono capire o forse si sono stancati di questa gente dagli abiti variopinti e i sandali, che zoppica vistosamente, strana genia di turisti e per i loro padri prima di loro. Le gambe si sono fatte di legno, così mi resta questo desiderio vago di concentrare ogni cosa, il caldo della Rioja, la meseta, il vento del Cebreiro e la pioggia della Galizia, e Lulu ed io da sola ogni cosa in una parola che non verrà. Se non la stretta al cuore al pensiero di Santiago e le montagne da cui ho cominciato giovedì e la Castiglia e Najera. Peregrino, quen te llama?

* Ed ora eccomi al ristorante lungo lo stradone, un posto dall’arredamento vagamente coloniale, davanti ad un fumante piatto di lenticchie, non all’altezza di quelle di ieri a Palas del Rei, piene di ogni ben di Dio, ma ugualmente molto buone. Del resto oggi ho mangiato solo un kit kat e una barretta, mi sento raffreddata e intirizzita. Al rifugio ho ritrovato Muriel e le ho proposto una cena, a sua volta lei mi ha proposto di dividere un piatto di pasta cucinato bricolage, mi sono sentita ancora inutilmente cattiva ma ho rifiutato l’invito, è l’ultima sera sul Camino, voglio mangiare in un posto bello, cibo gallego. Non è ingordigia la mia, per me è un momento importante, nel cibo, nelle soste, riesco a dare vita a quella sorta di osmosi che mi consente di percepire il luogo in cui mi trovo. Il cameriere mi ha portato una cosa che si chiama zorza, piccoli pezzi di carne piccanti cotti in una specie di salsa anch’essa piccante, buoni. Intanto ho anche finito di divorare un cesto di pane. Nel tavolo dietro di me una canadese, chiacchieriamo un po’ e lei mi conferma che quest’anno, sul camino ci sono un sacco di canadesi. Che strano.

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* Sui divanetti all’ingresso del ristorante c’era la coppia conosciuta al Cebreiro, lui l’avevo incontrato in farmacia, con loro c’era il “mio” cane, che appena mi ha vista è saltato su e mi ha accompagnato. E’ tutto ciompo, temo sia finito sotto una macchina, l’ho portato con me al rifugio. Dopo ho saputo che qualcuno l’aveva abbandonato prima di Melide, che per un po’ è stato con una famiglia olandese, poi ha iniziato a seguire i pellegrini che incontrava. Ho preso un’aspirina, mi sento davvero male, l’ultimo giorno beccare il raffreddore, accidenti. Provo a dormire vestita e col pile. Qui ho anche la coperta, spero di sentirmi meglio domani. E’ stato nel bar di Salceda, alla una quando – sudate - abbiamo rimesso la roba fradicia ed eravamo a stomaco vuoto. Qualcuno parla in inglese, tutti pensano solo a domani, c’è una sorta di rassegnazione, non di gioia. Anche se sono solo le otto e mezza, quasi tutti dormono. Io leggerò un po’, poi spengo la luce. E niente è compiuto, niente ha un senso, niente ha spessore. 1 novembre 2005 Arca / Santiago 20km Ed ecco, mi ero addormentata, non trovavo il telefono, caduto dietro e quando l’ho recuperato, ho scoperto che erano le sei. Per fortuna la giapponese nel letto accanto a me ha acceso la luce così ho potuto fare tutto in fretta recuperare ogni cosa, ho preso anche un latte con la frutta alla macchinetta, fra il trambusto della gente che si sta armando di mantelli e bastoni, ed ora, tardissimo, mi avvio.

* Sono in un ristorante più o meno alla Porta del Camino. Da dove iniziare? E’ andato tutto splendidamente, la strada di oggi è stata piacevolissima e mi ha riconciliato definitivamente col Camino, non ho fatto alcuna fatica. Appena uscita ho scoperto che il bar di ieri era aperto così, per la prima volta quest’anno, ho potuto permettermi il lusso di un the caldo e zuccherato ancor prima di iniziare. Mi sono infilata fra le strade laterali di Arca, sproporzionate per le dimensioni del paese, ma a misura delle folle estive, poi il paese è finito contro una parete di eucalipti e sono entrata nel bosco come in un altro mondo. Camminavo con la torcia, la strada è scesa dolcemente e la notte sbiadiva piano. Dopo un po’ mi ha raggiunto correndo il cane. Ero preoccupata perché non sapevo come avrei potuto gestire la situazione con lui una volta a Santiago, non facevo che progettare soluzioni impossibili, cercavo di pensare a come portarlo a Milano, a chi avrei potuto affidarlo. Poi il bosco è scivolato alle nostre spalle, e col bosco la notte, e mi sono trovata in piana verdeggiante solcata da una stradina a mezzaluna che portava ad un paese, il cane correva avanti e indietro, di lontano scorgevo il profilo della carretera. Ogni tanto incontravo lo svizzero di Gonzar, mi ha raccontato di voler arrivare a Finisterre e vedere il mare, che non ha mai visto. Ma già ora stento a ricordare quando sono finiti i boschi. So di aver attraversato un villaggio e di essere rientrata fra gli alberi. Sono salita faticosamente per una collina coperta da una fitta foresta di esili eucalipti seminudi. Quando sono sbucata di fronte alle reti che circondavano la pista di atterraggio dell’aeroporto sono rimasta sbalordita, era troppo presto. Ho costeggiato la pista, passando accanto alle enormi strutture bianche e rosse Intanto pioveva e sono uscita all’altezza dell’ingresso dell’aeroporto, ho fotografato il cane davanti al monumento al pellegrino, poi abbiamo girato attorno alla nazionale in un sentiero fangoso fra i rovi, fino a che siamo stati incanalati – il cane e io - in un largo sterrato, un

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altro “collettore per folle di pellegrini”, che due anni fa non esisteva, dove ho ritrovato lo svizzero. Al paese di Labacolla io e lo svizzero siamo scesi nel piazzale e ci siamo fermati ad un bar che stava aprendo in quel momento. Il cane ha cercato di entrare, mentre noi come san Pietro negavamo di conoscerlo. Lo svizzero si è preso un bicchiere di vino, io un caffè con leche. Erano ormai le 9.30. Con mio grande sollievo, il cane si è stancato di aspettarci e si è accodato ad un altro pellegrino che stava salendo per la carretera. Noi siamo rientrati nel sentiero, ancora fra alberi e boschi. Non credevo ai miei occhi quando abbiamo raggiunto la sede della tivù gallega, troppo breve e troppo gradevole era stata la salita. Anche se pioveva incessantemente.

* Mi hanno portato il polpo alla griglia, tagliato per il lungo con le patate e la paprica, favoloso. Così oggi ho recuperato il piacere di camminare lentamente perché non avevo nessuna voglia di correre, volevo solo godermi la strada, senza l’ossessione di arrivare a tutti i costi. Il villaggio di San Marcos era deserto, i negozietti di paccottiglia e i bar per turisti tutti chiusi e questo ne accentuava l’aspetto squallido e commerciale. Siamo saliti rapidamente al Monte do Gozo, frustato da un vento feroce, di scorgere la cattedrale non se ne parlava nemmeno, la vallata era nascosta da una cappa di nubi nerastre. Pioveva forte, faceva freddo, non c’era un’anima in giro. Il prato attorno al monumento del Papa era una palude. Ho lasciato andare avanti lo svizzero e sono scesa lentamente, anche perché le ginocchia si sono ribellate all’improvviso. Sempre sotto la pioggia, ho attraversato il ponte e la periferia di Santiago e intanto mi messaggiavo con Lucia, Nick, la Michela e Maria Carla. Lulu non ha risposto, ma era prevedibile, era l’ora di pranzo di un giorno di festa. Mi ha telefonato Raffaele, proprio mentre ero sotto al grande monumento con le effigi di personaggi di cui ignoravo l’esistenza. Così alla fine ero arrivata, idealmente insieme a tutti loro. All’improvviso mi si è spaccata la stringa di una scarpa. L’ho aggiustata in qualche modo, quelle stringhe avevano visto tutti e tre i miei camini e l’Umbria, erano state allacciate e slacciate e strette e allentate per centinaia di volte, avevano assorbito tutto il fango e la polvere del camino. Nell’alzarmi da terra mi sono accorta che non pioveva più. Ho attraversato rapidamente le strade deserte del centro, era l’una, mi era difficile orientarmi, le strade del ricordo non si sovrapponevano perfettamente a ciò che vedevo. Sono entrata in chiesa, ma mi è sembrata più piccola, non so. C’era la Messa, mi sono fermata, ma io pensavo all’albergo, a sistemarmi. Era come se la spinta dell’andare non mi avesse ancora abbandonata. Sono uscita rapidamente appena terminata la funzione, con la fretta di chi non ha il coraggio di alzare gli occhi alla mano del suo Signore, per dirla col salmista, e si finge indaffarato per fuggire. Ho girato e rigirato nel tentativo di capire, di orizzontarmi ed ho trovato infine l’hostal la Paz de Agra. Il padrone del bar mi ha portato alla stanza e quando sono entrata, ho visto il piumone, il caldo, non mi sembrava vero. Però mi sono cambiata e sono uscita alla ricerca di cibo, dirigendomi in questa pulperia che ricordavo due anni fa ma che non avevo ancora provato. Ma ora sono stanchissima e raffreddata, bagnata. Piove a dirotto. Devo andare a dormire, non riesco a pensare ad altro. In chiesa guardavo la gente e mi sentivo ugualmente importante e forte, ma ero stanca e distrutta ed ora sono ancora più stanca.

* Al risveglio ho indossato le poche cose asciutte che ancora avevo e sono andata all’Officina del Pellegrino, niente coda naturalmente, in questa stagione. Ho ritirato meccanicamente la

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Compostela, non per questi pochi giorni ma per questa estate. Mi sembrava così assurdo che i due passi da Vega a qui meritassero altrettanto. Nella stanza c’era un manifesto di Estella, inondata di sole e mi sono venute le lacrime agli occhi pensando a Estella, e alla Rioja e a quei giorni così lontani. A Lulu e agli altri. Sono passata in chiesa a cercare di dare una forma, un senso al mio essere qui, e pensavo poi di andare al rifugio del Seminario Menor a cercare Muriel e gli altri compagni di camino. Invece, mentre stavo uscendo dalla chiesa, ho ritrovato Muriel: miracoli del Camino: perché lei non dormiva al rifugio e non l’avrei mai ritrovata. Anche lei mi stava cercando ma non sapeva dove fossi, e ci siamo date appuntamento per la sera. Ho vagato per le strade, fra i portici, cercando tutti i luoghi familiari, perdendomi fra la gente di Santiago che affrontava l’acquazzone dietro alle proprie faccende quotidiane; sbirciando i negozi, guardando “la roba”. Cercando di respirare Santiago, nell’aria autunnale, nella pioggia, nella gente. Poi mi ha scritto e chiamato Victor, erano arrivati anche loro oggi e stavano in un rifugio privato, perché effettivamente se lo si può evitare, al Seminario Menor non ci va nessuno. Così mi sono incontrata con Victor e Joaquim in Praca de la Prateria, sotto i portici, ci siamo fatti un aperitivo in piedi in un localino adiacente, dove strani personaggi in costume stavano festeggiando la fine di una rappresentazione. Poi abbiamo trovato gli amici di Muriel e si è andati tutti assieme a bere qualcosa. Ma il bar era troppo piccolo, così Muriel è rimasta coi suoi amici ed io coi ragazzi, a chiacchierare, bere birra e mangiare tapas, Victor mi raccontava di suo nonno, portoghese, Joaquim mi enumerava tutti i piatti della meravigliosa cucina valenciana, e mi raccontavano di quando fanno la paella nella loro casa di campagna, finchè non è iniziata Rosenborg Real Madrid, allora loro si sono messi a guardare la partita ed io pure. Muriel è venuta a salutarmi ed alla fine del primo tempo ce ne siamo andati anche noi, come sempre hanno offerto i ragazzi. Li ho accompagnati sotto il diluvio al loro rifugio, conoscevo la strada perché salendo stamattina avevo notato l’insegna, e li ho condotti nel labirinto delle strade buie, lucide di pioggia, come se ci abitassi da sempre. Questa Santiago è più cupa e medievale che mai e loro così mediterranei, ancora più estranei di me. Mi sono sentita lusingata quando Joaquim mi ha fatto i complimenti per la mia abilità a ritrovare la direzione, ma ci siamo salutati rapidamente, eravamo tutti stanchi e pioveva troppo. Ritornando all’hostal, mi sono fermata in una pulperia fetida intravista lungo la strada nel venire. Volevo gustare fino in fondo questo mio unico giorno di vacanza. Un posto splendido. Uomini guardano la partita in piedi davanti a una fila di tavolacci. Un salone senza nessuna pretesa, muri giallastri e la cucina protetta da una parete di piastrelle bianche, tavoli di legno, bottiglie accatastate casualmente, il televisore nuovo e la macchina del video poker, gente abituata a lavorare, insomma. Il polpo, una porzione abbondante, molto buono, ancora madido dell’acqua della cottura che contrastava coi grani di sale ed il sapore piccante.. Sono le dieci e mezzo. Questo posto si chiama Bodegon os Concheiros, mi ricorda Porto san Giorgio, cioè un tempo in cui le cose erano diverse, meno standardizzate forse, o forse solo diverse. Mi ricorda anche il posto dietro il mercato di Dublino che ora non c’è più. Luoghi in cui il passato si percepisce ancora con tanta intensità, luoghi in cui ho avuto la fortuna e il privilegio di cogliere gli ultimi fuochi di mondi destinati a svanire. Fuori continua a piovere, ed io dovrò pagare e uscire, anche perché la strada è lunga nonostante cinque birre. Ma è il camino, anche se ora non sembra più il camino, non so. Il mio camino è stato l’altro quello di due anni fa, ora mi sento come se fossi qui un po’ per caso. Penso al cane, chissà dove sarà, con questa pioggia, e con chi sarà.

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Ho speso otto euro e 40 ma li valeva, il polpo era favoloso e l’ambiente meritava il prezzo. Ora dovrei andare, forse se fossi più sobria non starei a pensare a Victor, un compagno ma con gli occhiali, che mi ha dato email e telefono. Come al solito, non ricordo nulla dei giorni passati, tranne il rimpianto per il cane ed una vaga sensazione di foglie; ricordo forse Muriel e Victor e Joaquim e i visi degli altri. L’inter ha battuto il porto 2-1, bene ora, ginocchio permettendo, posso anche andare.

* Sono risalita attraverso le strade buie, sotto la pioggia sentivo solo il suono del mio passo che echeggiava fra le pietre nere, mi sento così a mio agio in questo estremo occidente, dove il mondo celtico si è lasciato contaminare da quello latino, ma ha mantenuto quella cupezza che è proprio la lontananza ad ispirare. Mi lascio cullare dallo scroscio incessante dell’acqua contro il selciato, le gambe non mi fanno più male. Ed ora dormo.