Helios Magazine 5-11

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Rivista di scienze sociali diretta da Pino Rotta

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Recensione

POTERE, Governare con la paura, di Pino Rotta (Città del Sole edizioni)

Di eresie non se ne hanno mai abbastanza, soprattutto quando il mondo sembra rassegnarsi all’omologazioneed alla rinuncia della ragione. Le eresie aiutano a guardare passato e futuro con occhi diversi. Molte cose con-tenute nel precedente saggio (Pino Rotta, E’ un mondo complesso) si sono realizzate nella realtà sociale e poli-tica dell’Occidente a cominciare dal clima di terrore, alla conseguente riduzione delle libertà personali, alloscontro tra civiltà, al dominio del mercato sull’individuo e sulle collettività ed alla conseguente implosionedello stato di diritto che aveva caratterizzato l’Europa fino al 2000. Non solo queste cose erano già presentinelle analisi del saggio del 2001 ma anche le azioni di denuncia, divulgazione su stampa e televisione, impe-gno politico e sociale, che mi hanno visto coinvolto assieme a milioni di personenel mondo. Azioni che non sono servite ad impedire che una guerra inutile scon-volgesse prima gli assetti politici degli Stati e poi le vite di ognuno di noi. E nonsono servite a fermare il ritorno di una politica mediocre e corrotta, di cui l’Italiadetiene il primato in Europa pur essendo in buona compagnia. Oggi viviamo inquelle condizioni di ricatto esistenziale e materiale che pure avevamo in tanti pre-visto e denunciato. C’è quindi una prima considerazione da fare nell’accingersi apubblicare un libro: a che serve? Forse a mettere a fuoco con maggiore chiarezzale lacune dello studio passato o anche per rivolgersi a chi aveva il compito di agireper il bene comune e non ha saputo o voluto farlo. Rivolgersi quindi alla politicae ad un’opinione pubblica sempre più confusa e smarrita. In un primo momentomi sembrava opportuno rivolgermi ad un pubblico che, per l’esperienza fatta nelcampo degli studi sociologici e dell’impegno sociale, avesse condiviso una certavisione dei fatti politici e sociali con il background ideale e culturale in cui io stesso mi sono formato. Sonoun uomo che ama definirsi “di Sinistra” ed in tale campo politico e sociale ho da sempre operato. Ma questosaggio con una tale impostazione, sarebbe stato solo un ulteriore contributo ad un dibattito che da tempo sentonon appartenermi più, quello cioè di quale sia in Italia il ruolo della Sinistra, se non addirittura arrivare a porsiin forma assolutamente seria la domanda: esiste ancora la Sinistra? Non era questa l’esigenza che sentivo edallora ho provato a continuare a fare quello che, più o meno bene, mi riesce di fare: studiare ed esporre feno-meni sociali, fare sociologia, in questo caso sociologia politica. E proprio facendo questa considerazione misono accorto che un discorso del genere si ricollegava perfettamente alla questione della Sinistra politica esociale. Mi è venuto in mente l’atteggiamento che, fino agli anni ‘80 del secolo scorso, la Sinistra ha tenutoproprio nei confronti della sociologia. Un atteggiamento perlomeno diffidente essendo questa disciplina con-siderata, dalla Sinistra, una scienza “borghese”. Questa etichetta è sempre statastridente con la mia formazione culturale e lo è divenuta sempre di più mano amano che avanzavo nei miei studi. Ho sempre considerato l’atteggiamento digran parte della Sinistra, nei confronti delle scienze sociali, non solo sbagliatoma addirittura miope e autolesionista. Uno dei motivi per cui oggi la Sinistrasi trova in una condizione di minoranza politica e sociale è senza dubbio ilritardo culturale che ha accumulato in questa branca di studi che, tra l’altro, gliha impedito di intercettare il punto di rottura tra il pensiero liberale ed il prag-matismo liberista. Povera di strumenti di analisi adeguati ai mutamenti impo-sti dal liberismo, la Sinistra si è limitata a denunciare ma non ha saputo affron-tare e governare, nei tempi e nelle forme opportune, le trasformazioni che sivedeva scorrere davanti. Ai sociologi spetta il compito di studiare e di tentaredi spiegare la realtà, ai filosofi di cercare risposte esistenziali ed alla politica ditrovare strade per cambiarla la realtà. Ecco che, affrontando l’analisi degliavvenimenti politici e sociali verificatesi negli ultimi dieci anni, non solo inItalia, ho provato a darne una lettura in termini sociologici, concentrandomi,soprattutto nella parte finale del testo, sulle dinamiche della comunicazionestrumento fondamentale non solo per capire la realtà ma anche per interveniresu di essa. Che il mio approccio metodologico si possa inquadrare in quel filone considerato un pò eretico èun fatto, ma non dimentichiamo che siamo in Italia, paese di democrazia populista e confessionale (impostadalla destra e ampiamente condivisa dalla Sinistra!) che non ha mai conosciuto una vera epoca liberale e socia-lista. Il mio approccio eretico, perchè laico e perchè pone problemi inerenti al progressivo svuotamento delsenso della democrazia, credo di poterlo rivendicare, ma gli strumenti di analisi adoperati sono quelli di una“scienza” che per me era e rimane semplicemente scienza sociale senza ulteriori aggettivi. In definitiva questosaggio si propone di offrire ancora strumenti di riflessione e di conoscenza con l’auspicio che la risposta siacertamente critica e dialettica ma contestualizzata su analisi ragionate e non su semplici reazioni emotive aglieventi che subiamo spesso con un senso di impotenza. (redazionale, tratto dal testo)

Il Natale è alle porte e Napoli si prepara ad accogliere la festività più bella dell’anno vestendo gli abiti piùbelli e aprendo il suo centro a “centinaia di mendicanti, riffaiuoli, rigattieri, acquaioli, lustrascarpe, tuttioccupati ad accaparrarsi i clienti altrui”. Sono gli anni Trenta e la settimana prima di Natale il centro dellacittà diventa un immenso mercato di profumi, odori e merci di ogni tipo.L’aria che sa di frittura, pizza, maccheroni e mandorle caramellate arrivaanche in Questura e colpisce lo schivo e misterioso commissario LuigiAlfredo Ricciardi e l’amico brigadiere Raffaele Maione. Il Natale, col roman-zo “Per mano mia” (Einaudi) inaugura la nuova serie delle feste dei romanzidi Maurizio de Giovanni dedicati al commissario Ricciardi. Dopo la quadri-logia legata alle stagioni pubblicata da Fandango, per lo scrittore napoleta-no, nuova casa editrice e nuova serie di romanzi. Tante novità ma una solacertezza: la bravura di de Giovanni che fonde nell’intreccio narrativo elemen-ti del noir tradizionale con una prosa poetica. De Giovanni rende Napoli pro-tagonista dei suoi romanzi. A volte vittima a volte carnefice, la città parteno-pea con la scrittura di de Giovanni rivela i suoi lati migliori e anche i suoidifetti e le sue carenze. Quanto cambia Napoli a seconda delle stagioni e quan-to sa emozionare quando è periodo di festa. Il Natale è un’emozione, “è forte come un battito di cuore, èlieve come un battito di ciglia”, in ogni casa c’è un Presepe in bella mostra che attende l’arrivo delBambinello. Anche in casa dei coniugi Garofalo il Presepe è pronto ma una “bella mattina, qualcuno entra,li ammazza riempiendo la casa di sangue, rompe il San Giuseppe del presepe e se ne va”. Un duplice omi-cidio, la statuetta di San Giuseppe rotta, tanto sangue, “le lenzuola erano diventate nere, il liquido era cola-to a terra sullo scendiletto, la testiera di legno chiaro imbrattata”: questa scena arriva agli occhi diRicciardi, abituato a vedere i morti anche quelli che gli altri non vedono. “Il Fatto”, la sua condanna avedere i morti nell’ultimo alito vitale e a sentirli “ripetere ossessivamente l’ultimo ottuso pensiero dellaloro vita spezzata”, condiziona l’esistenza di Ricciardi che preferisce sottrarsiai sentimenti pur di non procurare sofferenza a Enrica la dirimpettaia di cui èsegretamente innamorato. Mentre l’atmosfera dell’imminente festività pervadeNapoli “il risveglio con le urla dei venditori ambulanti, la confusione per stra-da, le canzoni. E i profumi, le mille pentole che bollivano, le mille padelle chefriggevano, le pasticcerie che facevano a gara per proporre i propri capolavo-ri”, il commissario Ricciardi, che si occupa del caso col brigadiere Maione,cammina per Napoli tra la gente e riflette e la folla che vede “è fatta di vivi edi morti, di indifferenza e di dolore, di urla e di silenzi”. La trama investigati-va si intreccia sapientemente con altre storie, quella di Maione ossessionatodalla ricerca del colpevole della morte del figlio maggiore Luca, anche lui poli-ziotto, assassinato tre anni e mezzo fa mentre era in servizio, quella dell’anzia-na tata Rosa che soffre per il peso degli anni, degli acciacchi che la fanno sen-tire inutile e quella complessa di Ricciardi, solitario e riservato, “dagli occhiverdi come l’acqua, così disperati” che vive con Rosa ed è attanagliato dall’af-fetto che prova per Enrica e dall’attrazione per Livia. Nel romanzo, compaio-no i personaggi storici della serie: don Pierino, Bambinella, il dottore Modo, ilvicequestore Angelo Garzo. De Giovanni li posiziona all’interno del plot nar-rativo come dei pastori, ognuno ha il suo ruolo, ognuno ha il suo posto e cosìla narrazione procede dando vita ad un presepe narrativo accurato e gradevolissimo. L’indagine sull’omi-cidio dei Garofalo scava nella vita privata della coppia che lascia una bambina e negli ambienti di lavo-ro di Emanuele, centurione della milizia portuale. Il vento che viene dal mare porta le voci e racconta sen-sazioni, emozioni, turbamenti di chi quel gesto criminale lo ha compiuto o avrebbe voluto compierlo permano sua. I sospettati sono persone umili, povere, che con dignità e orgoglio si apprestano a celebrare ilNatale al meglio delle loro possibilità. Ricciardi è tenace e man mano che il venticinque dicembre si avvi-cina vaga per la città in cerca dell’intuizione giusta che lo porterà alla soluzione del caso. Proprio mentrein tavola si stanno per servire i piatti più tradizionali e prelibati per il commissario di de Giovanni “ognitessera del mosaico andò al suo posto”.

Recensione

“Per mano mia” di Maurizio De Giovanni (Edizioni Einaudi)a cura di Cristina Marra

Pino RottaMaurizio De Giovanni

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HELIOS MAGAZINERivista bimestrale

di scienze, cultura e societàRegistrazione Tribunale di Reggio Cal. Nr. 3/96

Direttore ResponsabilePino Rotta

Direttore EditorialeGianni Ferrara

Comitato di redazione:Mimmo Codispoti, Cristina Marra, Katia Colica, Elisa Cutullè, Giorgio Neri,Salvatore RomeoCorrispondenti:Anita Seija Leijala, Tania Kostiuk, GiancarloCalciolari, Faiyz Barakat Almahasneh

Editore:Centro Studi Sociali Club AusoniaPresidente: Pino RottaVice Presidente: Roberto PirrelloSede legale: via Pio XI nr. 291 89132 Reggio Calabria (I)

Redazione:via Pio XI nr. 291 – 89132 Reggio Calabria (I)Tel. SMS 388 7927621partita IVA 01482330808Tipografia: Rosato (RC) tel. 0965.56046In copertina: BULL (WALL ST., NEW YORK)

In questo numero:

Editoriale - L’Europa s’è Destra! (di Pino Rotta) pag. 2Politica - Riccardo Nencini, Segretario PSI (a cura di Pino Rotta) pag. 3Società - Se la crisi economica fa bene all’ambiente (di Katia Colica) pag. 4Società - Dalla parte del Meridione senza voce (di Salvatore Ciccone) pag. 5Società - Il Ponte sullo Stretto non è una priorità europea (di Giorgio Neri) pag. 7Scienze - Il bello e il cervello (di Francesco Carlo Morabito) pag. 8

Scienze –Intelligenza artificiale versus creatività (di Salvatore Romeo) pag. 10Società - Mediazione: pratica sconosciuta nell’era dei litigi e degli indignati (di Valentina Arcidiaco) pag. 11Società - Mediazione familiare e processo. La necessità di un doppio binario (di Antonia Santoro) pag. 12Esteri - Studiare a Budapest (di Tania Kostiuk) pag. 13Società - Genitori e figli Black Block (di Antonella Giglietto) pag. 14Cultura - Marc Augé - Disneyland e Delfi (di Gianfranco Cordì) pag. 15Intervista - Francesca Bertuzzi, autrice di Il carnefice (di Elisa Cutullè) pag. 16

Fuori sommario:- Recensione – POTERE, Governare con la pauradi Pino Rotta - (Editoriale)

- Recensione - Maurizio de Giovanni autore di Per mano mia (di Cristina Marra)

Sul sito web: http://www.heliosmag.it troverete tutti i numeri precedenti e le ricerche del Centro Studi Socialie-mail: [email protected]

Helios Magazine è edita dall’associazione socio-cultu-rale Club Ausonia (no-profit)Per sostenerci pubblica le tue inserzioni pubblicitarieo versa un contributo volontario sul Conto corrente nr. 193 - Banca Nazionale del Lavoro - intestato al Club AusoniaIBAN: IT81O 00100516300000000000193I contributi in testo e in immagini sono prestati volontariamente e a titolo gratuito.

Tempi Moderni

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della Scuola Pubblica (salvo il limite imposto dal rinno-vo del Concordato con la Chiesa cattolica), che infattisotto il suo Governo videro accrescere i finanziamenti(altro che Berlusconi e i suoi pseudo-ex-socialistiBrunetta e Sacconi!). Ma l’euforia reaganiana si è prestodiffusa (sospinta proprio dalle banche e dagli interessistrategici americani) prima ai paesi dell’ex blocco sovie-tico e poi a tutta l’Unione Europea, tanto che nell’ele-zione del 2009 il nuovo Parlamento Europeo, diventatoa venticinque membri con l’ingresso dei nuovi paesidell’Est, consegnò una maggioranza schiacciante allaDestra (378 su 736seggi) compresi i 32seggi raggiunti daglieuroscettici. Comedire che l’Europa si èconsegnata democra-ticamente nelle manidei liberisti, dellafinanza e di coloroche non hanno inte-resse a farla soprav-vivere.Quindi quando sen-tiamo frasi del tipo “isacrifici ce li chiedel’Europa” non dimentichiamoci che questa è l’Europadella Destra e delle Banche. Con una parziale eccezionedi Francia e Germania (non è un caso che oggi si sonoposti a guida dell’eurozona!) è l’Europa che ha sorretto,in asse con la Gran Bretagna, la politica militarista diBush, la delocalizzazione delle attività produttive neipaesi a basso costo del lavoro e la speculazione finan-ziaria soprattutto in Asia. Tutto questo ha messo inginocchio le economie occidentali. Ora il costo ricadesui cittadini con il ricatto del fallimento, dei licenzia-menti di massa e in fin dei conti dell’implosionedell’Unione Europea come realtà politica.Ma a ben guardare, con una politica che negli ultimidieci anni ha cosparso di guerre e tumulti l’area che vadall’Atlantico al Caucaso, inibendo la costruzione diun’alleanza strategica tra Europa ed Africa, che pure erastata abbozzata con la Presidenza di Romano Prodi allaCommissione europea, come si può pensare che tuttoquesto sia successo per caso? Le leggi della globalizza-zione hanno tempi lunghi e risultati drammatici per i cit-tadini occidentali ed oggi forse ne siamo più consapevo-li. Ma intanto da Est si alzano pericolose spinte di dis-gregazione per l’Europa e addirittura una forte rinascitadei movimenti neonazisti. Effetti collaterali?.. n

Editoriale

L’Europa s’è Destra!

di Pino Rotta

“quando sentiamo dire che i sacrifici ce li chiedel’Europa, non dimentichiamo che oggi l’Europa ègovernata dalla Destra e dalle Banche”

Quando un cabarettista diventa ricco sfondato, conla speculazione edilizia e con le televisioni e laraccolta pubblicitaria, la scalata sociale sembre-

rebbe cosa fatta, non solo nazionale ma addirittura mon-diale. Tutto scontato. Invece non è esattamente così, ènecessario anche aderire ad una filosofia di vita e ad unavisione del mondo, possibilmente a quella di chi ilmondo lo comanda davvero.Questa è la storia di un signore chiamato Berlusconi che,una volta deciso di entrare in politica, si doveva pur ispi-rare a qualcuno. Questo qualcuno lo ha presto indivi-duato nell’attore diventato Presidente degli Stati Unitid’America: Ronald Reagan. Reagan aveva sposato leteorie iperliberiste della “Lady di ferro”, Miss. MargaretThatcher, e a Berlusconi non sembrò vero di avere duemodelli così perfetti da cui copiare addirittura una teoriadi politica economica.Reagan, “inventato” dalle lobby finanziarie, nel 1981fece approvare dal Congresso americano una riduzionedelle tasse del 25% in quattro anni, con la promessa diun rilancio dell’economia finalmente “libera dal pesofiscale”. Peccato che questa teoria, unita all’enormespesa militare, anziché fare da volano per l’economia glidette il colpo di grazia dopo appena due anni! Oltre allaspesa militare, Reagan sottrasse 25 miliardi di dollarialle politiche sociali, il risultato fu un raddoppio deldeficit statale già nel suo primo mandato presidenziale.Non soddisfatto di questo, non ammise mai il fallimen-to della sua politica fiscale ed invece incrementò lespese militari, consegnando nel 1989 alla Presidenza diBush la guida della Destra americana, senza più comu-nisti da combattere, ma già proiettata nelle guerre inMedioriente per il dominio delle riserve petrolifere.Insomma Berlusconi non si può dire che non avesse unabella lezione da cui imparare, per cui, concedendogli ildono dell’intelligenza, bisogna proprio ammettere che lalinea reaganiana l’ha scelta intenzionalmente e con con-vinzione. In questo, e sarebbe ora di fare un poco dichiarezza storica, divergendo completamente dal suopredecessore Bettino Craxi, che, non solo aveva unapolitica estera completamente contraria a quella diReagan (ricordiamo che schierò i Carabinieri attornoagli americani nella base di Sigonella!) ma era all’oppo-sto anche per quel che riguarda le politiche sociali, chesecondo il leader socialista dovevano vertere attorno allamodernizzazione della Pubblica Amministrazione e

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Parla dalle sponde dello Stretto di Messina, omeglio da quello che viene definito il “più bel chi-lometro d’Italia” il Lungomare Falcomatà di

Reggio Calabria. Forse non lo sa ma a pochi metri dalnostro incontro, nello spiazzo degradato poco distante,nel cuore della città, la sera si consumano gli amori mer-cenari. Ma questa è la contraddizione della terra che,Nencini, ha scelto per spiegare il suo pensiero per ilrilancio dell’azione politica con “un paio di proposte,che stanno nel cuore negli italiani”.Vediamo allora quali sono queste questioni e quali sonole proposte del Partito Socialista. Quali sono gli obietti-vi che si dovranno porre i socialisti in questa nuovafase? Su quali proposte politiche?Dice Nencini: La missione di Berlusconi non c’è più,oramai è finita. Questo porterà, nel giro di un anno, dueanni, alla fine di questa forma molto italiana di populi-smo e demagogia. Torneremo finalmente ad una storiache è una storia molto più europea, quella dei partiti,rinnovati e cambiati, ma quella dei partiti politici di untempo.R.: Noi abbiamo un programma organizzativo, cheabbiamo approntato in larga parte e con un risultatonelle elezioni amministrative del giugno scorso, a livel-lo nazionale, molto buono, intorno al 3% dei consensi.C’è un caso Calabria dove c’è da fare un’azione riorga-nizzativa, in alcune federazioni e Reggio è tra queste,quasi di sana pianta. Quindi avremo i mesi di settembree ottobre in cui ci sarà la fase del tesseramento e dei con-gressi.I temi sono quelli della sobrietà e del rigore. Non è pos-sibile che una classe politica chieda sacrifici ai cittadinise prima non li fa. Due anni fa al Consiglio regionaledella Calabria il nostro gruppo propose di unificare tuttele indennità dei consiglieri regionali. Basti pensare cheun consigliere in Calabria ha un’indennità doppia rispet-to a quello della Toscana. Altro tema è quello della lai-cità e del contributo che anche la Chiesa cattolica non sivede perché non debba dare in questo momento di crisi.Ad esempio il pagamento dell’ICI per le sue attività,pagamento da parte dello Stato degli insegnanti d reli-gione. Questo equivarrebbe a circa un terzo della manovra eco-nomica a carico degli Enti locali. Facciamo dei numeri.Nel 2012 venticinque miliardi di euro sono a carico diRegioni, Comuni e provincie, questi soldi sono mancatiintroiti da parte dello Stato. Se hai meno soldi, delle due l’una, o tagli alcuni servizio quei servizi i cittadini li pagano di più, per fare un

esempio: la mensa scolastica o tagli qualcosa o il geni-tore sarà costretto a pagare di più. La misura applicataalla Chiesa, mancato pagamento dell’ICI, insegnanti ireligione e 8 per mille sta tra gli otto e i dieci miliardi dieuro, un terzo della manovra economica, di questo par-liamo. La Chiesa deve fare il suo sforzo. Noi porremo alGoverno il problema, che anche, non solo ma anche, laChiesa Cattolica faccia la sua parte di sacrificio. Noi proporremo di sospendere le misure concordatarieper tre anni. Parliamo di circa 30 miliardi di euro.Corrisponde ad un’intera manovra finanziaria.D.: Quale posizione prendono i socialisti in seno alParlamento europeo per affrontare la crisi in corso intutta l’area del Mediterraneo?R.: Lo dico con grande rammarico, ma è verità! C’è ungrande assente in questa vicenda ed è l’InternazionaleSocialista. Bisognache l’iniziativa deisocialisti europei siamolto più forte.Nell’ultimo vertice,che si è tenuto adAtene nel marzoscorso, sono stateassunte alcune misu-re che riguardano ilpagamento della crisida parte delle grandirendite finanziarie e da parte delle grandi proprietàimmobiliari. L’idea di una grande patrimoniale è nata lì.Che non è la patrimoniale per la prima casa, stiamo par-lando del grande capitale e dei grandi immobiliaristi.Stiamo chiedendo a Rasmussen di assumere questa ini-ziativa. I socialisti europei pagano due problemi. Uno è quellodella Grecia, il dramma che sta affrontando il PASOK diPapandreu lo ha ereditato dal Governo di destra di Nea-D di Caramallis e che adesso sta affrontando con grandidifficoltà. Il secondo è che vanno ripensate le politiche economi-che e sociali degli Stati slegandole dalle politiche dibilancio nazionali, riguardo alle politiche giovanili e lepolitiche per gli anziani, due categorie non più protette.E in Italia questo problema si sente più che altrove. Mal’Europa deve anche avere una politica estera e di dife-sa che ad oggi non ha e senza la quale non può svolgerealcuna funzione nel Mediterraneo. Con una battuta: “Iocerco l’Europa ma non riesco a trovarla, perché non neconosco il numero di telefono”. n

Politica

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“L’Europa non ha un numero di telefono e laChiesa non paga la crisi!”

Incontro con Riccardo Nencini, Segretario del Partito Socialista Italiano

Sandro Pertini

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Società

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“Chi crede che una crescita esponenziale possa conti-nuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo. Oppureun economista” (Kenneth Boulding)

«La crisi consiste precisamente nel fatto che ilvecchio sta morendo e il nuovo non puòancora nascere» (Antonio Gramsci). Ma non

c’è più tempo per aspettare che arrivi il nuovo; a menoche non sia già arrivato... Si è detto che è stata ed è unacrisi che serve ai mercati, si è detto anche che le ammi-nistrazioni spendono somme più alte rispetto ai loroincassi. Forse non si è detto abbastanza che la produzio-ne (o meglio: la sovrapproduzione) delle merci e dei ser-vizi non tende a ridimensionarsi entro parametri piùsostenibili. Da qui la tendenza a riassorbire i prodottialdilà delle possibilità. Il debito pubblico, quindi, diven-ta parte sostanziale della crescita produttiva. Un apportosostanziale all’indebitamento pubblico, infatti, è statodato dall’incremento delle spese militari: per l’anno2010 la spesa mondiale è di 1.630 miliardi di dollari.Cohn-Bendit al Parlamento europeo, chiese alla Greciadi tagliare le spese della difesa militare equivalente, perl’anno prima, al 4% del PIL. Una spesa enorme, soprat-tutto se confrontata con quelle di Francia, 2,4% eGermania, 1,4%, che non avrebbe condotto misure diprotezione eclatanti per il Paese in crisi ma che avrebbefatto comodo alle gestioni programmatiche NATO. E seci spostiamo indietro nel tempo i rapporti tra crisi e mer-cato non sono diversi: le sovrapproduzioni statunitensidegli anni ’30, poi estese a gran parte dei Paesi indu-strializzati, si risolsero attraverso la seconda guerramondiale e le ricostruzioni ad essa annesse. Sempre gliUsa, dopo la caduta del muro, estesero la presenza mili-tare nel pianeta producendo costosissimo materiale lega-to al mondo bellico. Oggi Obama si impegna a puntaresul taglio delle spese sociali e delle infrastrutture per2.500 miliardi di dollari ma custodendo il livello dispesa militare (senza escludere un’eventuale espansionedella stessa). L’attenzione globale è puntata sulla cresci-ta, quindi, produttiva reale ed economica individuale. Lacrisi, dice Gramsci, si supera con l’avvento del nuovo.Quindi, per superare la crisi, si può mai scegliere di pun-tare sulle stesse misure di sviluppo produttivo che hannoaffossato i Paesi? “Chi crede che una crescita esponen-ziale possa continuare all’infinito in un mondo finito èun pazzo. Oppure un economista” A dirlo è stato, però,proprio è un economista, Kenneth Boulding, che negli

anni settanta continuava – inascoltato – a sostenerecome la gestione ottimale del PIL di ogni Paese dovessebasarsi sulla difesa ambientale e non sul consumo. Lacrisi economica, quindi, cammina di pari passo a quellaambientale. E non è un caso. “Le due crisi si alimenta-no a vicenda”, avverte il biologo Edward O. Wilson suun numero del New York Times di fine 2008, convintoche il problema non possa risolversi avendo piena fidu-cia nella gestione capitalistica. Le teorie della decresci-ta, basate su un consumo responsabile attraverso ladiminuzione della produzione di merci, l’incremento deibeni autoprodotti (sia alimentari che energetici) e conutilizzo responsabile delle risorse attraverso la sobrietà ela riduzione degli sprechi, è ancora considerata utopica.Senza pensare, però, che non si punta a un’alterazioneimmediata dell’offerta ma a una proposta di modificadella domanda. Un modo, personale e individuale tral’altro, per reagire a una crisi decisa da altri. Una sortadi tendenza keynesiana in rapporto con la riduzionedella predisposizioneal consumo. I tempid’intervento sono piùbrevi di quanto sipossa credere, quindi,e Gramsci, con la suaesemplificativa frase,aveva indicato unastrada essenziale:quella della ricerca,della curiosità.Sottolineava, insom-ma, che se il nuovo c’è– e oggi il nuovo è aportata di mano – sipuò pensare, ragione-volmente, di provare a instaurare un sistema diverso eche parta, stavolta, dal basso. “Il socialismo è utile”,dichiarava E. F. Schumacher, delineando la possibilitàche offre per lo scavalcamento del mito produttivo attra-verso le prese di coscienza individuali, soprattutto rife-rendosi al ceto medio alto. “Scritta in cinese – recita lafamosa frase di John Fitzgerald Kennedy – la parola crisiè composta di due caratteri. Uno rappresenta il pericoloe l’altro rappresenta l’opportunità”. E se questa crisi lofosse davvero? Una ghiotta possibilità che, al contempo,ci permetterebbe di stabilire rapporti più razionali sia conil potere economico che con l’ambiente. n

Se la crisi economica fa bene all’ambiente

di Katia Colica

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estremamente lunga;ciò è causato da ritardi ed errorinella programmazione da parte di Ministeri e regioni; daforti ritardi nelle progettazioni, appalti, realizzazionispecie da parte di Enti Locali e aziende pubbliche comeANAS e FS; dalle generali difficoltà del Paese nelle rea-lizzazioni in particolare di opere pubbliche. Ciò è testi-moniato da una velocità di spesa lenta delle risorse FASe dall’utilizzo dei cosiddetti; progetti coerenti(specie perle grandi infrastrutture di trasporto) per i fondi europei.Dal 2008 il Governo Berlusconi non ha attuato partico-lari interventi per sollecitare e coordinare regioni, entilocali, enti di spesa; per snellire procedure e adempi-menti; per rendere più fluido e rapido il processo deci-

sionale e attuativo. Essendostata la programmazione2007-2013 da parte delleregioni unitaria(fondi comu-nitari e FAS) questo provocail blocco totale di nuoviinterventi in alcuni ambiti. Iprogrammi nazionali finan-ziati con fondi FAS vengonobloccati dal nuovo Governoe progressivamente smantel-lati. Intanto ci prepariamoad affrontare l’autunno suuna salita che sapevamo dif-

ficile ma che durante l’estate è diventata più ripida. Perle imprese, certamente, ma anche per tutti i cittadini. Inpoche settimane abbiamo assistito ad un tracollo a tuttotondo. Ci siamo sentiti come la Grecia. Pensavamo diessere diversi, forti della nostra posizione tra i paesiindustrializzati – pur sempre i settimi in compagnia deipiù grandi e solo della Germania tra gli europei – e inve-ce abbiamo capito che da sola l’industria, l’imprendito-ria diffusa capace di creare ricchezza nonostante tutto,non basta. Abbiamo visto salire voci antieuropee, ma inmaniera e con argomenti quasi sempre strumentali; Abbiamo visto presentare e modificare più volte unprovvedimento raffazzonato e di emergenza che ha per-messo alla Banca Centrale Europea di intervenire asostegno dei nostri titoli pubblici ma che ha distrutto inun solo colpo i fondamenti di uno stato di diritto.Abbiamo sperato che finalmente si potesse procedere aduna razionalizzazione non solo dei costi della politica,ma della macchina pubblica in senso lato.Un disegno di riorganizzazione, snellimento ed efficien-

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Dalla parte del Meridione senza voce

di Salvatore Ciccone (*)

L’Italia è come noto caratterizzata da ampi divari direddito fra le sue regioni; a tali divari di redditocorrispondono divari molto ampi nelle dotazioni

di infrastrutture materiali e immateriali.Al fine di ridurre il divario gli interventi nazionali sonostati razionalizzati nel 2002 con la creazione del FondoAree Sottoutilizzate (oggi Fondo per la coesione e loSviluppo). Come in tutta Europa, gli interventi a valeresulle risorse europee sono programmati su base setten-nale, coerentemente con le Prospettive Finanziariedell’Unione, in Italia è attualmente vigente il Quadrostrategico Nazionale 2007-2013, che copre l’intero terri-torio nazionale.Questo insieme di interventinon è stato sinora in grado diridurre gli squilibri nelledotazioni di infrastrutturemateriali ed immateriali e nelreddito. E’ stato così previstoche la quota di spesa pubbli-ca in conto capitale ordinariafosse pari nel Mezzogiornoal 30%; che le risorse FASfossero destinate per l’85%al Sud. Data la allocazionedei fondi di coesione euro-pei(definita da regole comu-nitarie) tali prescrizioni avrebbero fatto sì che alMezzogiorno fosse destinato il 45% della spesa in contocapitale. Tali obiettivi non sono mai stati raggiunti; anzia partire dal 2002 ci si è progressivamente e significati-vamente allontanati da tali obiettivi. Con l’attualeLegislatura il governo ha abbandonato ogni obiettivoquantitativo. Per di più ha operato una fortissima ridu-zione delle risorse, già definite nel Quadro StrategicoNazionale. In particolare, 23,6 miliardi di euro del FASnazionale sono stati spostati da spesa in conto capitale aspesa corrente. Le disponibilità per spesa in conto capi-tale nel sud si sono complessivamente ridotte di 25,9miliardi. Ciò comporterà una ulteriore riduzione degliinterventi speciali nel Mezzogiorno nei prossimi annistimabile in almeno il 20%, che si somma ad una fortis-sima riduzione degli investimenti pubblici ordinari intutto il paese e in particolare nel Sud. Queste politichehanno sofferto anche di problemi qualitativi, riconduci-bili principalmente ad una tempistica degliinterventi(dalla programmazione alla realizzazione)

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tamento dell’amministrazione – tanto centrale quantodel territorio – coerente con il grande disegno federali-sta. E invece no, tutto rimandato, neppure l’emergenza èstata in grado di far reagire il Paese che vanta memora-bili scatti sul filo di lana. Non un provvedimento perspingere sullo sviluppo, solo cassa.Non un provvedimento che guardi al futuro, solo unasorta di repentino accattonaggio di risorse.Non un provvedimento per la crescita, i giovani, leimprese, la competitività, solo demagogia a buon mer-cato. Una sola certezza: niente politiche per la crescita;il che significa anche niente politiche per ilMezzogiorno, Zone Franche Urbane, Zone BurocraziaZero Fondi Aree Sottosviluppate ecc.. E in questo qua-dro desolante, il Governo approva il Piano nazionale peril Sud del valore complessivo di 100 miliardi di euro; IlPiano e la delibera Cipe contestualmente adottata(3 ago-sto 2011) intervengono su tre principali ambiti; le prio-rità strategiche, le dotazioni finanziarie, le modalità ope-rative.Le priorità strategiche sono 8, ma rappresentano limita-te novità, dato che corrispondono quasi perfettamentealle 10 priorità del QSN. La differenza di fondo è dimetodo:lo schema del QSN è stato frutto di un bienniodi intensa consultazione, condivisione e valutazione contutte le Regioni e le parti sociali, mentre il Piano per ilSud è frutto solitario della penna del Ministro. Dellepriorità del QSN non sono richiamate quelle relative allacompetività e attrattiva delle città e dei sistemi urbani;e all’apertura internazionale e attrazione di investimen-ti. Tali esclusioni sono sorprendenti Dato che il poten-ziamento delle aree urbane e il sostegno all’export eall’attrazione di investimenti paiono, specie in questafase economica, obiettivi indispensabili per il processodi sviluppo del Sud. Similmente mancano riferimenti aiservizi e all’inclusione sociale.Manca l’indicazione di specifici progetti su cui concen-trare gli interventi; laddove essi sono indicati(come nelcaso dell’alta capacità ferroviaria Napoli-Bari-Lecce-taranto, Salerno-Reggio Calabria, Catania-Palermo) è lecito nutrire dei dubbi, dato che il merocosto di questi interventi richiederebbe l’impiego diquasi tutte le risorse disponibili.Il Piano, da cento miliardi; secondo il comunicato delGoverno (ma nel documento non vi è una cifra totale)non destina un euro aggiuntivo a quanto già disponibile,né finanzia minimamente i fondi così ampiamentedecurtati nell’ultimo biennio. Anzi, la contemporanea delibera CIPE procede alla ridu-zione di ulteriori 5 miliardi si euro dal FAS regionale (3)e nazionale (2); inoltre nel piano non vi è nessuna indi-cazione circa l’arco temporale di attuazione, notizie bencoperte; dall’annuncio del Piano.Alla luce di quanto detto, il Piano per il sud si configu-ra come un documento di importanza modesta. Unaoperazione pubblicitaria per mostrare ad una opi-nione pubblica disinformata e poco attenta che ilGoverno sta facendo qualcosa per il Sud. In realtà

esso contiene un rilevante pericolo di forte ricentralizza-zione delle politiche; e, alla luce di quanto avvenuto nel-l’ultimo biennio, di nuove possibili distorsioni di risorseverso altre finalità.Del resto i precedenti abbondano. Lo sviluppo del nostroterritorio è rimasto sempre nelle carte. E’ uno sviluppoimmaginato, disegnato, fatto di documenti e progetti chenessuno ha avuto la capacità di tradurre nella realtà, eche purtroppo negli anni è costato decine di miliardi dieuro.Occorre un impegno eccezionale di supporto alMezzogiorno, proprio ed in virtù delle sue peculiaritàcome cerniera verso il mediterraneo; in quanto, il pro-blema non è più rinviabile, per cui o noi siamo in gradodi pensare ad un nuovo meridionalismo che sappia ela-borare analisi e proposte per il Sud a partire dalla pienaconsapevolezza della sua nuova dimensione geopoliticaeuro mediterranea; oppure la parte più avanzata delpaese, quella che sta nei mercati mondiali e si batte sulle

frontiere avanzate dell’innovazione non può più accetta-re il costo di un Mezzogiorno che rappresenta il 40% delterritorio e della popolazione ma che, a differenza di ciòche sta accadendo in tutta Europa continua ad arretrare ea consumare molto più di quello che produce.Fortunatamente, al sud ci sono tanti gruppi e associazio-ni, imprenditori,amministratori, politici che lavoranoogni giorno per l’interesse comune. Ma sono soli. Non riescono a fare rete, massa critica; sioccupano di fondamentali questioni di interesse locale,ma non hanno forza e capacità di occuparsi delle grandiquestioni d’insieme. E così lentamente il sud sta rubando il futuro ai suoragazzi !Occorre un mezzogiorno che reagisce, che ragiona sulsuo presente, che difende il suo sviluppo, che progetta isuo futuro. n

(*) Architetto – Consigliere comunale del Comune diVilla S. Giovanni

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Società

Il Ponte sullo Stretto non è una prioritàeuropea

di Giorgio Neri

Il buon senso della Commissione ha avuto finalmentela meglio rispetto alle velleitarie illusioni italiane,quelle di realizzare un’opera faraonica, dispendiosa

ed inutile per collegare il “nulla” con un altro “nulla”.Più giusto e coerente, infatti, realizzare i due più impor-tanti segmenti che riguardano il cosiddetto CorridoioBerlino-Palermo, che a Napoli si biforca verso Bari,nella prospettiva dei collegamenti con Malta, e versoPalermo. Così è stato deciso nell’ultima riunione dellaCommissione europea che ha definito le indicazionicontenuti nelle linee guida e nel progetto di regolamen-to per la realizzazione delle grandi reti infrastrutturalieuropee nel campo, appunto, dei trasporti, ma anche del-l’energia e delle telecomunicazioni. Un ponte che nonc’è, che probabilmente non ci sarà mai, ma che ha giàprodotto molti danni. Si è divorato una montagna disoldi, in studi di fattibilità, di impatto ambientale, inda-gini geognostiche, progetti di massima, plastici, speri-mentazione di materiali, ma soprattutto per mantenere invita il carrozzone della società concessionaria pubblica“Stretto di Messina Spa”. A questo però, nessuno ci hapensato finora, bisogna aggiungere i danni che hannocolpito l’intera area dello Stretto a causa di mancatiinvestimenti. Pochi esempi per dimostrarlo. Le ultimenavi del Gruppo FS entrate in servizio tra Villa SanGiovanni e Messina risalgono ai primi anni ’80. Le sta-zioni marittime di Villa San Giovanni e Messina sonosempre più in dismissione, e con tagli di personale cheviene incrementato alla bisogna solo d’estate con con-tratti stagionali. Tralasciamo la situazione di Reggio,dove il Porto e la stazione marittima sono tagliate fuoridal collegamento ferroviario con la stazione centrale. Eche dire, infine, del servizio “Metromare” assolutamen-te insufficiente rispetto alla domanda di trasporto chequotidianamente reclamano i residenti delle due città.Ecco perché parliamo di decisione coerente della Ue,che non poteva pensare di finanziare la realizzazione diun ponte, costosissimo, tecnologicamente ardito e vel-leitario per collegare il nulla con un altro nulla. Da unaparte una rete ferroviaria sulla quale occorrono quasiquattro ore per andare da Messina a Palermo e quasi ildoppio per raggiungere la stessa città da Catania. Mentresul “continente” l’autostrada A3, il cui riammoderna-mento completo viene rinviato di anno in anno, rappre-senta l’altra grande vergogna di questo Paese, semprepiù diviso in due, sempre più abbandonato a se stesso.Qualche settimana fa, a fare i conti davvero, almeno conriferimento alla progettazione e realizzazione del pontesullo Stretto ci hanno pensato due giornalisti di“Repubblica”: Attilio Bolzoni e Giuseppe Baldessarro.

Due pagine di inchiesta, rigorosa, precisa, dettagliata,che ci hanno rivelato l’ammontare di quell’autentico“Pozzo di San Patrizio” che si è rivelata la costruzionedel ponte sullo Stretto di Messina, “costato tra consu-lenze, progetti e personale - scrivono - quasi 400 milio-ni di euro”. Una storia che inizia nel 1969, 42 anni fa, eche in molti, nonostante il ripensamento europeo sono lìsempre a rilanciare perché se è vero che l’Europa non cimette i soldi, lo Stato italiano non ce la fa, ecco spunta-re l’ipotesi degli investimenti privati. Finora la favola hafunzionato. Degli 8,5 miliardi di euro necessari per rea-lizzare l’opera (salvo complicazioni), 5 dovevano pro-venire da finanziamenti privati. Mai visto un solo euro,ma appena avviata la costruzione - si diceva - l’intrinse-ca convenienza economica della stessa avrebbe attiratofinanziatori privati. Le prospettive reali non sono perniente incoraggianti. Il traffico stimato per il 2030 saràdi 20.000 veicoli al giorno. Un po’ pochi per una infra-struttura progettata per farne transitare 100.000, conevidenti ed ovvie ricadute sul costo dei pedaggi. Il trans-ito dei trenicosterà invecealla societàRFI circa 138mln di eurol’anno. Unpedaggio chefarà diventareil prezzo delbiglietto di cia-scun viaggiato-re sicuramentepiù gravoso di quello di qualsiasi collegamento aereo. Equesto - si dice - vale ancora più oggi dopo il disimpe-gno dell’Unione europea che comunque non era maistata impegnata nella costruzione del ponte. “Per noinon cambia nulla - si è affrettato a dichiarare il direttoregenerale della Società “Stretto di Messina” GiuseppeFiammenghi - Il quadro economico internazionale nonci favorisce, ma ci sono interessi da parte di gruppi diinvestitori internazionali”. Quanto basta per mantenerein vita il “carrozzone” dell’idea di realizzare il ponte,che non ha ancora certezze sul suo futuro nemmenodopo la presentazione del progetto definitivo, gravato dapesanti problemi tecnici ed ambientali, “e privo di unaverifica certa della sua costruibilità” ricordano i docen-ti Alberto Ziparo dell’Università di Firenze e GuidoSignorino dell’Università di Messina, componenti delcoordinamento degli studi sugli impatti del Ponte sulloStretto. n

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Scienze

L’arte è sostanzialmente una forma di comunica-zione codificata. Ogni opera d’arte, infatti,esprime la volontà dell’artista di creare e comu-

nicare un’idea attraverso una forma e un contenuto:chi fruirà dell’opera potrà interpretare questo connu-bio di forma e contenuto, in termini della propriaesperienza, educazione, familiarità e, talvolta, del pro-prio umore, recuperando l’idea trasmessa ovvero rein-terpretandone in modo personale il messaggio.L’opera d’arte ha bisogno di vivere e sopravvivere altempo attraverso altri individui. L’arte è dunque unprocesso crittografico di un’idea che implica unadecodifica da parte di un individuo diverso da chi hacodificato il messaggio. Questo concetto, che risale aPlatone ed è ripreso da Kant, si radica nella convin-zione che l’idea artistica non può essere comunicatadirettamente, ma necessita di una rappresentazionesimbolica capace di mediarne i contenuti. In altreparole, non c’è arte senza simboli, che vengono decrit-tati da una propria audience che elabora quello che èstato “creato” dall’artista attraverso la mente e nedetermina, in ogni caso, unaforma di consumo. Ogni simbo-lo, o insieme di simboli, è qual-cosa che può essere comunicatoalla mente attraverso appropria-te interfacce: l’apparato senso-riale. I simboli più elementarisono le linee, i colori, le formemultidimensionali, i rilievi cat-turati dal tatto, gli odori, lemelodie e gli ornamenti. Il pro-cesso percettivo di un’idea, rap-presentata in forma simbolica,prevede, dunque, la percezionedell’insieme di simboli, even-tualmente in modo sincretico. L’alfabeto di simbolidipende in modo evidente dal periodo storico, dallesuggestioni culturali dell’epoca, dalle tradizioni, dallostile artistico prescelto ma anche dalle funzioni delcervello, intese in senso sistemico, ma, inevitabilmen-te, in termini neurobiologici, fino al treno di spike dipotenziale elettrico emesso da ogni singolo neurone.L’idea espressa può essere un pensiero, più o menoelaborato, o anche un’emozione, provocata, ad esem-pio, dall’osservazione, più o meno conscia, di unintenso tramonto o dei riccioli di corrente dello Strettodi Messina. L’emozione istantanea si sedimenta inidea, che si trasforma e si valorizza ogni giorno, comel’amore di Dante per Beatrice: l’opera d’arte si con-

cretizza, infine, dopo un processo di passaggio attra-verso flash ripetuti, che determinano una modificabiologica persistente. Il quadro, o la poesia, è comun-que un campione, estratto in un intervallo di tempofinito, da un pozzo di idee ed emozioni che si forma-no e si deteriorano continuamente a livello biofisico.Nello sviluppo di un pensiero artistico anche un deli-berato progetto può diventare il soggetto di un’ideaartistica, fondersi insieme fino a diventare un unicumnon percepibile separatamente, un manifesto artistico,una sorta di protocollo di codifica prescritto. In que-sto modo, la creatività viene ingabbiata in una proce-dura. Riteniamo, piuttosto, che all’interno di questischemi, la creatività implichi un viaggio mentaleattraverso un percorso o una destinazione diverse.Alcuni autori hanno recentemente evidenziato unlegame profondo fra arte e neuroscienze, ricercandole basi neurobiologiche della creazione di opere d’ar-te. In effetti, se ci riferiamo alla produzione di imma-gini visive, come i quadri o le pitture rupestri, ci sipresentano subito chiari alcuni esempi. I disegni

incrostati nelle rocce di cavernerappresentano talvolta animalistilizzati, delineati con efficaciarappresentativa, in realtà sempli-ci combinazioni di simboli ele-mentari: d’altronde, per l’uomodelle caverne l’animale rappre-sentava bisogni immediati, lapaura di essere aggrediti o lanecessità di nutrirsi. Studi recentihanno evidenziato che l’amigda-la, una parte del cervello anticadal punto di vista evolutivo, èresponsabile del riconoscimentoimmediato di volti impauriti,

senza dover ricorrere all’analisi dei dettagli. Il rilievodi dettagli è affidato ad una parte più “recente” dellacorteccia visiva. Il cervello si occupa innanzitutto della sopravvivenza;la fruizione di opere d’arte è un bisogno più “recente”e sofisticato. Il sistema visivo è il modo più efficien-te di ottenere la conoscenza che ci interessa, come l’e-spressione di un volto o il colore di una superficie. Lavisione è un sistema modulare. L’area V1 della cor-teccia visiva trasmette alle aree che la circondano uninsieme di segnali specializzati: come un ufficiopostale, distribuisce differenti tipi di segnale a diffe-renti destinatari. L’analisi di una scena avviene in parallelo: una parte

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Il bello e il cervello

di Francesco Carlo Morabito (*)

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Scienze

si specializza nel riconoscimento di linee verticali,orizzontali o oblique; un’altra seleziona i colori (ilcentro V4); ancora, la V5 percepisce il moto. Certo,l’estetica dei colori non è dovuta soltanto a questeregioni, il procedimento di percezione e comprensio-ne è più generale, ma il corretto funzionamento diqueste aree è obbligatorio per percepire colori emovimento. Non dovrebbe quindi apparire troppo strano ritrovarenell’opera di pittori questi elementi rappresentativielevati a livello di simboli specifici. Si pensi a PietMondrian, alle sue linee orizzontali e verticali e aicolori dentro le griglie, finalizzate alla ricerca di veri-tà costanti riguardo alle forme. Un grigliato geome-trico che genera Perplessità.Lo stesso Mondrian, nell’Albero Grigio, riprendel’immagine di un albero già dipinto in rosso, facen-dolo diventare monocromo, grigio, per evidenziare laricerca ritmica della linea dei rami. La linea retta e le forme geometriche sono state uti-lizzate da molti altri artisti benprima della scoperta dell’area delcervello che le individua. Lo stesso può dirsi per l’area pre-posta alla rilevazione del movi-mento (area V5), in qualchemodo sollecitata dall’arte cineti-ca di Calder e Tinguely, checomponevano opere che enfatiz-zavano il movimento e de-enfa-tizzavano colori e forme.Movimento e colori, insieme alinee e forme vaghe, indefinite enon ripetitive, sono presenti nei quadri di Kandinsky,che si proponeva di mettere su tela drammaticità enaturalezza scenica del diluvio in un crescendo esca-tologico di movimenti fra centri collocati in diversipunti della tela. Per rendere l’azione, l’opera doveva essere grande ecoinvolgere “fisicamente” lo spettatore. Anche le visioni sfumate degli impressionisti si rivol-gono, senza alcuna cognizione specifica di neuro-scienze, ad aree specifiche del nostro cervello, che nericostruisce la continuità venendo, in definitiva, quasidisturbato dalla presenza di dettagli, forse irrilevanti,che appaiono nella loro centralità solo a un temporitardato rispetto all’originale impatto visivo. In unprecedente scritto pubblicato su Helios Magazine, hodiscusso, un pò provocatoriamente, della possibilitàdi estrarre misure quantitative di complessità da opered’arte attraverso algoritmi utilizzati in studi scientifi-ci. Tali misure, ripetibili e non contraddittorie, si rife-rivano esplicitamente alle neuroscienze e, quindi, allarappresentazione simbolica fatta dal cervello umano

nel processo di codifica e nella fruizione (decodificaindividuale). Secondo alcuni autori, la complessitàdell’opera non è direttamente proporzionale alla bel-lezza, ovvero alla sua qualità estetica: d’altra parte,l’assunto da cui mi muovevo era l’impossibilità diquantificare l’esperienza estetica, certamente variabi-le da soggetto a soggetto e influenzata da un vastonumero di variabili, persino nello stesso soggetto, aseconda dell’umore, l’età, le condizioni climatiche odi luminosità, o altro. Oggi, dopo numerosi esperimenti condotti su diverseimmagini digitali di quadri appartenenti ad autori estili diversi, è possibile confermare la definizione diun criterio di valutazione della complessità: un qua-dro con linee e aree di colore uniforme (comePerplessità di Mondrian) ha una bassa complessità,un dipinto di Pollock realizzato con la tecnica del“dripping” è complesso. La ragione è legata, presumibilmente, alla strutturaanatomo-funzionale del cervello: nel caso di Pollock

o di Kandinsky, in molte opere,il cervello non è capace di rico-noscere “features”, caratteristi-che precodificate, non focalizzal’oggetto. Il percetto viaggia tra i diversilivelli gerarchici della cortecciacerebrale, in modalità bottom-up, si confronta con l’ipotesiformata in modalità top-down,e non si convince, è preso ingiro dai sensi e non riesce adestrarre invarianti significativi.

In pratica, è come se l’incapacità di estrarre invarian-ti dalla scena osservata, di individuare oggetti e formenote, costringesse ad un andirivieni cerebrale, a unalocalizzazione ad un livello intermedio, in ciò mani-festando una complessità d’interpretazione che siamoriusciti a misurare. Ben diverso è il concetto di estetica e bellezza, cheadesso cominciamo ad affrontare per capire se è nataprima la bellezza o il cervello, sofisticati uovo e gal-lina dell’uomo contemporaneo.

(*) Professore Ordinario di Elettrotecnica e diCircuiti Non Lineari e Reti Complesse presso laFacoltà di Ingegneria dell’Università Mediterranea diReggio Calabria. n

(Foto 8 - Piet Mondrian – Perplessità) (Foto 9 - Piet Mondrian – Albero Grigio)

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Scienze

Sarebbe pura retorica affermare che l’Intelligenzaartificiale non giungerà mai a creare una macchinache sostituisca l’essere umano in tutta la sua dimen-

sione. Sarebbe pura retorica dire che i robot potrannosicuramente giocare una partita a scacchi, risolvere uncruciverba o un rompicapo complicatissimo, oppureprogrammare una funzionale strategia difensiva nelfoot-ball, ma che non potranno mai estasiarsi all’ascoltodi una poesia di Ungaretti o di una sinfonia diBeethoven, o provare l’ebbrezza data dal profumo diuna gardenia. Il punto non è questo. Noi ancora nonconosciamo il funzionamento del cervello umano. Equello che di esso conosciamo è in buona parte condi-zionato dai limiti stessi della scienza attuale, anche senegli ultimi trent’anni siamo riusciti ad approfondire glistudi con strumenti e metodi innovativi e molto sofisti-cati. Gli studi funzionali del Sistema nervoso centralehanno infatti consentito di individuare le diverse zonecerebrali che si attivano durante l’esecuzione di un com-pito (che può essere parlare, pensare, odorare, ricordare,muovere un arto, e così via), rappresentando in tal modouna mappa neurologica che ci chiarisce entro certi limi-ti come funziona il nostro cervello. Il segreto di questetecniche di neuroimaging consiste nel fatto che le stru-mentazioni sono in grado di valutare il differente afflus-so di sangue in una determinata area cerebrale, a suavolta determinato da un aumento del consumo di gluco-sio, dovuto all’attività: la zona del cervello che si attivadurante l’esecuzione di un compito, cioè, consuma piùzuccheri, per cui aumenta il suo fabbisogno che saràsoddisfatto mediante un incremento dell’apporto di san-gue. Fin qui le conoscenze attuali. Tuttavia esse nonsono sufficienti a spiegare come avvengono le più altefunzioni psichiche: il pensiero, le emozioni, la coscien-za, per dirne alcune tra le più “nobili”. Certo, sappiamoquali sono le aree del linguaggio, parlato e ascoltato,quali quelle della visione, quelle del movimento e dellesensazioni, le zone deputate al processo decisionale oquelle implicate nel panico e nella paura, ma esse da solenon rappresentano il meccanismo completo di una deter-minata funzione. Accanto ad esse vi sono delle areecosiddette accessorie, secondarie, senza il buon funzio-namento delle quali tutto il processo si bloccherebbe, operlomeno risulterebbe sostanzialmente alterato. Il cer-vello funziona nella sua globalità, attraverso meccani-smi di associazione, correlazione, integrazione, astrazio-ne, simbolizzazione e sintesi i cui centri sono sparsinella vastissima rete neuronale che costituisce la nostrasostanza cerebrale. Qui i neuroni sono organizzati inmaniera estremamente variabile, a seconda delle funzio-ni e delle specializzazioni a cui devono adempiere.Riusciremo a comprendere fino in fondo questo funzio-

namento? Probabilmente sì, ma occorre, a mio avviso,un salto di qualità nel modo di pensare, oltre che tempoe impegno, soprattutto perché lo studio della mente èqualcosa di particolare, dal momento che il soggetto el’oggetto dello studio in questo caso si identificano.L’Intelligenza è una funzione a se stante, ma riguardal’attitudine a utilizzare in maniera appropriata tutti glielementi del pensiero, improvvisando, formulando e svi-luppando risposte efficaci e plastiche, dinamiche, e forsequesto rende estremamente difficile il compito degliscienziati che si dedicano all’intelligenza artificiale.Finora tutte le forme assunte dalla cosiddettaIntelligenza artificiale agiscono secondo un principiopredefinito, per quanto ampio possa essere il campo diapplicazione e la programmazione con cui si predispon-gono le macchine: esse agiscono a tentativi, utilizzandoe adattando conoscenze definite: esse non possiedono,ancora, la capacità creativa, che è la qualità distintivadell’Intelligenza umana. Altro discorso vale per le appli-cazioni pratiche dellabioingegneria, cheoffre possibilità dia-gnostiche nuove nelcampo della medicina,ma anche opportunitàinnovative di inter-vento curativo e stra-tegie diverse e moltoutili nel campo della riabilitazione. Altro discorso anco-ra riveste l’applicazione scientifica di modelli matemati-ci “intelligenti” nello studio di aspetti estetici e artisticiche apparentemente non sembrano avere nessuna atti-nenza con la schematicità propria della scienza. L’artenon è scienza, certo, ma è possibile tentare di compren-dere cosa qualifica un’opera d’arte come bella o com-plessa, e cercare di teorizzare ipotesi oggettive per capi-re i canoni che attraggono l’interesse o che sono in gradodi evocare emozioni e sensazioni particolari quando siosserva un lavoro artistico (al di là dell’antica e sempreattuale “proporzione aurea”). Emozione, sentimenti,attenzione attiva (interesse) verso un particolare dellarealtà esterna, passaggio dalla pura percezione sensoria-le al riconoscimento connotativo di una sensazione, for-mazione di idee complesse, intuizione e creatività: sonoquesti gli elementi che distinguono l’Uomo dagli altriAnimali e dalle Macchine. n(*)psichiatra

(nella foto: i Proff. Carlo Morabito e Antonio Guarna consegnanoil Premio “Caianiello” per l’eccellenza nella ricerca scientifica, alProf. Edoardo Boncinelli, a margine del convegno scientifico:“Cervello, Intelligenza e tecnologia: un integrazione necessa-ria”Reggio Calabria, 22.10.2011)

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Intelligenza artificiale versus creatività

di Salvatore Romeo (*)

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Società

Per il secondo anno, il 20 ottobre, ricorre la “Giornatanazionale della mediazione familiare” organizzatadall’Associazione A.I.M.E.F.; tale data, quest’anno,

coincide anche con l’evento “Conflict Resolution Day”organizzato dal Forum Mondiale dei Mediatori. Questainiziativa ha scopi soprattutto informativi, finalizzati adimostrare che la mediazione familiare, in primis, e lanew entry mediazione civile e commerciale, sono allaportata dei cittadini che si trovano a dover affrontare dellecontroversie che, in alcuni casi, possono essere facil-mente risolte tramite degli esperti prima di essere costret-ti ad adire le vie legali e senza necessariamente ritrovarsiall’interno di un percorso giuridico.La mediazione, pertanto, rappresenta una modalità effica-ce e positiva per l’approccio dei conflitti, gestita tramiteun terzo imparziale che aiuta/collabora con i soggetticoinvolti per il raggiungimento di benevoli accordi tra-mite stipula o patto. Già Vittorio Cigoli, quando parlavadi mediazione familiare nel “Legame disperante”, si rife-riva ad un tipo di responsabilità condivisa di impegno perarrivare ad un percorso di mediazione che possa esserereale e duraturo nel tempo. Egli aveva evidenziato comeun legame diventa “disperante” quando una parte speraancora nel mantenimento del legame, mentre l’altra parteattua reiterati tentativi che possano annullare ilvincolo/rapporto fra i due. Accade così anche nei conflit-ti di tipo commerciale e civile quando due o più soggettihanno subito un atto lesivo su diritti disponibili. SigmundFreud nel 1940, in Psicologia delle masse e analisi del-l’io, scriveva, a proposito della rappresentazione dell’al-tro all’interno della nostra vita: “nella vita psichica delsingolo l’altro è regolarmente presente come modello,come oggetto, come soccorritore, come nemico.[..]”.Nella maggior parte dei conflitti, l’altro ha attraversatoqueste varie rappresentazioni, per poi incappare nellafigura del nemico che ha minato il benessere altrui, con-tribuendo a far sì che molte delle tensioni rimanganoinsolute proprio per la delusione delle aspettative che sierano venute a creare. Ciò però non capita solo a livellofamiliare, amicale e sociale, ma si sta manifestando anchea livello politico-sociale. Infatti, proprio in questi ultimitempi, moltissime sono le persone che non si riconosco-no nel patto e nel rapporto di fiducia che si era instauratocon gli esponenti politici tanto da diventare “indignati”.Ovviamente in poche righe non si può in maniera esau-stiva analizzare e descrivere compiutamente tutto il pro-cesso socio-psicologico che sta alla base dei vari movi-menti e delle varie manifestazioni che si stanno susse-guendo in Italia ma anche in altre parti del mondo. E,nonostante il nostro Paese cerchi di mediare i conflittiattraverso leggi che investono vari ambiti,questi provve-

dimenti non si stanno rivelando molto efficaci per supe-rare il senso di disagio e di insoddisfazione,se non diribellione,nei confronti di una società in crisi non solodal punto di vista politico, economico, sociale, ma anchee soprattutto sotto il profilo umano, psicologico, interper-sonale. La comunità, secondo quanto affermato nel“modello ecologico” di Bronfenbrenner, soggetta a conti-nui mutamenti, già attua, nei vari stadi di macro, meso emicrosistema, strategie di mediazione e di risoluzione deiconflitti ma, quando le aspettative e i bisogni non trova-no rispondenza nella realtà, essi si acuiscono e addirittu-ra possono degene-rare e sfociare in attiestremi di violenza.Il titolo di questoarticolo è nato daltentativo di condur-re una attenta disa-mina che evidenzi lanecessità, da parte ditutta la società edegli organi prepostial raggiungimentodel bene comune, dimediare i conflitti alfine di pervenire adun patto solidale,equo e duraturoanche se, di fatto, siritrovano, invece, a dover affrontare l’emergenza di unadiffusa protesta ovviamente causata dalla non condivi-sione di scelte, leggi, emendamenti e azioni reputati lesi-vi dei diritti soprattutto delle fasce più deboli della socie-tà. Il processo di mediazione può essere suddiviso in seispecifiche fasi: - definizione del problema, - individua-zione delle cause e degli ostacoli alla soluzione, - analisidelle posizioni e dei bisogni, - attuazione di strategie pos-sibili per la risoluzione, - individuazione delle caratteri-stiche specifiche per la stipula di un accordo e, infine, -verifica e valutazione dei risultati. (Bramanti, 2004). Ma,a nostro avviso, attualmente, la mediazione in tutte le sueforme, compresa la mediazione di comunità, non stariuscendo a sortire proficui effetti in quanto non sempreviene compreso e riconosciuto il plusvalore del soggetto- controparte; è ovvio, però, che, solo attraverso unamediazione più fattiva, si potranno raggiungere livelli diconsolidata accettazione dell’altro e di condivisione diproblemi che investono la società e tutti coloro che inessa vivono ed operano. n

(*) psicologa

Mediazione: pratica sconosciuta nell’era deilitigi e degli indignati

di Valentina Arcidiaco (*)

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La separazione e il divorzio rappresentano alcuni deimomenti critici che attraversano il ciclo vitale (1) diuna famiglia, segnando così la rottura dell’unità e la

fine del legame coniugale. Tuttavia i legami “ sono per lamente, in quanto parte costitutiva del Sé, eterni e nonbasta cercare di annullarli per liberarsene”(2). Ciò valeancor di più quando la frattura investe un nucleo familia-re con figli, i quali rimangono, per sempre, come segno,vivo e tangibile, dell’esistenza del legame. La coppia chesi separa è pertanto chiamata ad assolvere precisi compi-ti di sviluppo(3). Attraverso l’attuazione del c.d. “divor-zio psichico” e la “gestione cooperativa del conflitto”, ipartners devono giungere ad elaborare la fine dell’unionee, nel contempo, a mantenere viva la responsabilità geni-toriale. Gli ex coniugi, tuttavia, non sempre sono in gradodi rilanciarsi, da subito, in questo nuovo ruolo squisita-mente genitoriale. Ed infatti nel momento più acuto dellacrisi l’attenzione si focalizza sul legame. Sullo sfondorimangono invece i figli, i veri soggetti deboli del pro-cesso. I membri della coppia si rivolgono così a figureterze, quali il giudice e l’avvocato, cercando in ciascunauno strumento da cui ricevere, rispettivamente, giustizia eprotezione. Con questi presupposti il processo di separa-zione e divorzio si traduce, nella stragrande maggioranzadei casi, in una sorta di delega in bianco a soggetti estra-nei che blocca, il più delle volte, la coppia nel conflitto. Ipartners infatti, nel tentativo di mantenere intatto un lega-me e nella speranza di cambiamento dell’altro, trovanonel conflitto la condizione per rimanere connessi, seppu-re nel disagio. In tali casi i risultati di ordine pratico rag-giunti in sede giudiziale si rivelano spesso deludenti, semisurati sulla lunga durata(4). Anche la scelta, apparente-mente meno traumatica, qual è appunto la separazioneconsensuale, finisce con il rivelarsi, il più delle volte,come l’estremo tentativo per uscire dalla sofferenza il piùrapidamente possibile. Il consenso, solo fittiziamente rag-giunto, fonda le proprie basi su accordi non autentici pro-prio perché maturati in un contesto in cui i coniugi, seb-bene sottoscrittori e parti, non sono stati in realtà i realifautori dei contenuti. Segno tangibile di questo fenomenoè la continua violazione degli accordi presi oltre che laspasmodica richiesta di modifiche degli stessi in quanto ilconflitto, solo apparentemente sopito, riemerge pronta-mente sui fronti più improbabili e disparati. Da qui lanecessità di un “doppio binario”, parallelo al tradizionaleiter giudiziale e rappresentato dalla mediazione familiare.La mediazione offre alla coppia in crisi uno spazio ed untempo più fluido rispetto allo schema rigido del processo,all’interno del quale i coniugi possono circoscrivere leloro angosce e trovare la capacità di affrontare attiva-mente la situazione di disordine e di impasse in cui si tro-vano(5). Il percorso di mediazione consente a ciascuno diraggiungere, in prima persona, gli accordi di separazionee di essere artefice della riorganizzazione familiare che

andrà a regolare la vita futura, propria e dei figli. Lamediazione si basa su di un presupposto essenziale, chelo differenzia da ogni altro tipo di intervento volto a risol-vere le dispute: le persone, pur nel disordineemotivo/organizzativo che spesso accompagna una crisi,hanno la capacità di autodeterminarsi ed assumersi laresponsabilità di decidere ciò che è meglio per loro, senzadelega a terzi. Ciò, in sostanza, ricalca l’intuizione diRogers(6) secondo cui, se una persona è in difficoltà, ilmiglior modo per agevolarla non è quello di dirle cosafare, quanto di aiutarla a comprendere la sua situazione ea gestire il problema, assumendosi la responsabilità dellescelte. Il mediatore, vero e proprio traghettatore nellatransizione”(7) diventa una risorsa per la coppia cheviene così sostenuta nella gestione degli aspetti emotivinonchè dei risvolti più strettamente pratici e materiali.Egli, pur guidando la coppia, non indica i contenuti né dainterpretazioni. Piuttosto aiuta ad abbandonare posizionirigide e schemi precostituiti in cui ad un vincitore si con-trappone sempre uno sconfitto, spostando così l’attenzio-ne dagli interessi ai bisogni. Alla fine il passaggio in tri-bunale, edulcorato dalle tensioni e paure rielaborate nelsetting di mediazione, acquista una dimensione piùumana e vivibile, divenendo semplicemente l’ultima enecessaria tappa per la definizione dello status personaledi tutti i soggetti coinvolti. E’ pertanto auspicabile che larealtà del processo e quella della mediazione familiare siintreccino sia strutturalmente che cronologicamenteanche al fine di superare le sterili quanto inutili dicotomieche vedono spesso dipingere la mediazione come“buona” ed il processo in tribunale come “cattivo” poichéquesto giudizio di valore non rende giustizia a nessunodei due sistemi(8). n

(*) Avvocato e Mediatore Familiare

Note:1) CARTER E., MC GOLDRICK M., The family life cycle: a framework forfamily therapy, Allan and Bacon, Boston, 19892) CIGOLI V., Psicologia della separazione e del divorzio, Il Mulino1998, pag. 8.3) SCABINI E., Psicologia sociale della famiglia. Sviluppo dei legami etrasformazioni sociali, Bollati Boringhieri, Torino 1995. MARISAMALAGOLI TOGLIATTI - ANNA LUBRANO LAVADERA, Dinamiche relazio-nali e ciclo di vita della famiglia, Il Mulino, 20024) MASINI B., MONTANARI D., Fra separazione interna e separazioneesterna : incastro tra il mondo psicologico della famiglia e il contestogiuridico, Interazioni, 2,19955) In tal senso MARZOTTO, Esperienze e modelli organizzativi dimediazione familiare in ARDONE - MAZZONI, La mediazione familiareper una regolazione della conflittualità nella separazione e nel divor-zio pag. 149, Giuffrè ed., Milano 1994.6) Carl Rogers, Terapia centrata sul cliente, La Nuova Italia 1997(prima edizione americana 1951).7) CIGOLI V., op. cit. pag. 808) PARKINSON L., 2003, cit. in A. M. SANCHEZ DURAN , I ruoli del-l’avvocato nella mediazione familiare, Rivista di mediazione familia-re sistemica N. 3/4 - 2005/2006

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SocietàHELIOS magazine 2011 n. 5

Mediazione familiare e processo. La necessità di un doppio binario di Antonia Santoro (*)

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Esteri

Budapest è una città elegante, aristocratica, ricca di sto-ria e nello stesso tempo molto moderna. È un mix tal-mente forte tra l’Europa occidentale e l’Europa

dell’Est, che potrebbe sembrare per un italiano o un franceseuna città particolare insondabile. E’ solo l’eco del post-comu-nismo. Le vendite ambulanti nei sottopassaggi della metro-politana, infiniti negozi dell’usato, i pubs aperti dalle 10 dimattina, ed altre cose che non trovi a Roma o Parigi, ma sicu-ramente incontri a Kiev e Mosca. Ma per fortuna Budapestcresce, si rinnova, diventa più ordinata, con parchi e fontane.I cuori verdi di Budapest sono il parco Városliget con il lagoe lo zoo, i monti di Buda con la Cittadella e l’antico Castelloe l’isola Margherita nel Danubio, con le terme. Budapest pre-senta bellezze architettoniche come il Parlamento, gli ottoPonti, la Piazza degli Eroi con i suoi musei, la Basilica di S.Stefano in grado di ospitare 8500 persone e con la torre cheregala un panorama stupendo della città, la Piazza LisztFerenc con il palazzo dell’Accademia di Musica. A Budapest,ovunque vai, incontri sempre cose interessanti da vedere,come dice Kàroly Kopasz, coordinatore ERASMUSdell’Università Cattolica Péter Pázmány: “La vita culturaledella città diventa sempre più vivace. La città è piena di stra-nieri. Ci sono nazionalità che hanno una piccola comunità,che vivono permanente a Budapest mantenendo le loro tradi-zioni che condividono con noi ungheresi, tramite diversifestival e concerti. Ci sono tanti italiani che hanno una vitaculturale molto vivace”. Budapest, sia il quartiere ebraicopieno di locali di tendenza, negozi di lusso, gioiellerie, risto-ranti costosissimi, ma pure i quartieri della parte di Buda,dove si può mangiare per 700 Ft (2,50 euro), ma anche fini-re nei guai per la piccola criminalità. Budapest è il Danubio.Una volta era blu, ora è verde per l’inquinamento, ma lo stes-so resta una delle bellezze più importanti della capitale.Attraversato da otto ponti, stupisce con la sua grandezza eprende parte attiva nella vita economica e turistica della città.Obbligatorio da vedere il Danubio di sera, con le luci delCastello e il Ponte delle Catene. Budapest è i libri. La gentea Budapest legge ovunque: nei mezzi pubblici, sui prati deiparchi, sulle piazze, sulle fermate dei tram. Stupisce la quan-tità di librerie. Diffusa la vendita dei libri usati. A partire da100 fiorini (40 centesimi) si trovano i libri per tutti i gusti, enon solo in lingua ungherese! Inoltre l’Ungheria è proprio ilpaese con il più alto numero di libri stampati e venduti pro-capite. Budapest sono gli studenti. I giovani sono i più attiviresidenti della città con la loro ricca attività. Dice LillaLŒrik, studentessa universitaria: “Essere studente aBudapest è un’ottima opportunità. Perché la città ci offre tan-tissime possibilità. I giovani hanno una scelta migliore nelleUniversità ma anche del lavoro. Ed è conveniente, abbiamotantissimi sconti, per viaggiare, per i musei, i teatri, i concer-ti, in certe taverne. La vita notturna è molto attiva. I localimigliori per uscire sono Romkert, Instant, Holdudvar e DokkBeach club. I concerti di gruppi ungheresi sono proposti alGödör club, al A38 ship e al Dürer kert pub. Sono anchemolto popolari le cantine rock dove si balla e si ascolta musi-

ca alternativa. Purtroppo non mancano a Budapest posti peri-colosi. Non è consigliato camminare di sera da soli, perchéci sono molti vagabondi e piccoli gruppi criminali”. Perconoscere la vera gente ungherese si deve andare fuori dalcentro, occupato da turisti. Nei treni, nei tram, nei locali peri-ferici, soltanto così si può conoscere la vera città, con i suoicittadini, non ancora europei, ma non più comunisti. Le per-sone sorridenti, gentili e semplici, con le preoccupazioni diogni giorno. Le persone che ti consigliano sempre cosa ordi-nare di meglio nelle taverne. La gente che ti invita a prende-re una birra alle 11 di mattina e per il pranzo ti offre la palin-ca (tradizionale vodka ungherese alla frutta). Stando aBudapest è d’obbligo assaggiare i più gustosi piatti tradizio-nali: lo spezzatino di vitello, il gulash di manzo, la peperona-ta, lo strudel e il makos guba (pane con i semi di papavero).Budapest, la capitale che si apre in mezzo all’Europa e cheospita mezza Europa. Bratislava, Vienna, Belgrado, Berlino,Bucarest... È difficile non viaggiare e non venire a visitare lacittà. SecondoMichele Sita, docen-te dell’UniversitàCattolica PétérPázmány: “Sonoarrivato in Ungheriacon una borsa di stu-dio Erasmusdall’Università diMessina, nel 2001. Dopo che mi sono laureato in Italia hodeciso di ritornare in Ungheria con la borsa di studio post-laurea. Si può dire che sono in Ungheria da circa 10 anni. Ladecisione di vivere e lavorare qui in Ungheria in realtà nonl’ho mai presa, ho sempre pensato che ogni anno qui sarebbestato il mio ultimo. Il primo progetto a lungo termine è statoil dottorato di ricerca a Budapest, presso l’Università StataleELTE. Già avevo cominciato ad insegnare presso il diparti-mento di italianistica dell’Università Cattolica PétérPázmány, pian piano ho cominciato a collaborare anche conl’Istituto Italiano di Cultura di Budapest. Credo purtroppoche certe opportunità in Italia non le avrei mai avute. Non misono mai sentito uno straniero in Ungheria, all’inizio mi sen-tivo come uno studente fuori sede, al massimo come un turi-sta. Certo la lingua ungherese è un ostacolo da superare, mapassata questa barriera si apre un mondo nuovo, fatto di per-sone ospitali, socievoli, aperte a conoscere nuove culture.Anche i palazzi costruiti in blocco, alla periferia della città,stanno pian piano prendendo “colore” per uscire dal grigiu-me che li affliggeva. La crisi ha messo a dura prova anchel’Ungheria, ma per notarlo davvero bisogna uscire daBudapest, in città questa crisi non è molto evidente. Perl’Ungheria entrare nell’Unione Europea sicuramente è statoun importante, tuttavia non credo che siano cambiate moltis-sime cose. L’apertura delle frontiere ha dato la possibilità disnellire molta burocrazia, facilitando gli scambi economici,culturali e turistici, ma il fatto che non vi sia ancora l’euro èsignificativo”. n

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HELIOS magazine 2011 n. 5

Studiare a Budapest

di Tania Kostyuk

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Società

Il fiume dei dimostranti indignati scesi in piazza da tuttaItalia per protestare contro gli effetti della crisi economica siè drammaticamente snaturato in una violenza bieca e dis-

sennata, che ha travolto la città di Roma in pochissimo tempolasciandola ferita nel corpo e nell’anima. Roma “così percossa,attonita la terra al nunzio sta” davanti a centinaia di BlackBlock che hanno strisciato nel corteo pacifico e hanno fattopartire gli scontri contro forze dell’ordine che con molta diffi-coltà hanno tentato di fermare l’ondata di furia. Tra i manife-stanti pacifici, si sono staccati ragazzi e ragazze vestiti di nero,incappucciati e camuffati. I Black Block apparsi dal nullahanno incendiato automobili e cassonetti dei rifiuti, creato bar-ricate con le transenne, strappato i sanpietrini dalla strada perlanciarli. Mentre accadeva questo indegno inferno, altre perso-ne alzavano le mani guardando sbigottiti: i manifestanti pacifi-ci che, rimasti incastrati senza poter lasciare il luogo della vio-lenza, hanno tentato di distinguersi dai violenti che devastava-no la capitale. Davanti a fatti sconvolgenti come quelli accadu-ti a Roma sarebbero innumerevoli gli interrogativi da porsi manon di può fare a meno di chiedersi…chi sono questi giovani ele loro famiglie? (domanda pericolosamente ingenua, visto chela famiglia come agenzia di prima socializzazione è ormai eva-porata da lunga data). Una risposta giunge mentre si continua adiscutere degli scontri del 15 ottobre, la polizia comunica che èstato identificato uno dei responsabili degli scontri: detto ErPelliccia. Il ragazzo era stato immortalato mentre lanciava unestintore. Ha 23 anni. Da Repubblica: “Per i media era diven-tato una delle figure simbolo degli scontri, un’immagine che hafatto il giro del mondo. Era stato immortalato da numerosi foto-grafi mentre, durante gli scontri del 15 ottobre scorso, impu-gnando un estintore, prima lo vuotava agitando l’erogatore inaria, poi lo lanciava verso le forze dell’ordine. E’ stato propriograzie a quelle immagini che la polizia scientifica è riuscita aidentificare lo studente di 24 anni fermato dalla Digos a Romae soprannominato “Er pelliccia”. Per lui è scattato il fermo perresistenza pluriaggravata. Dopo la perquisizione nella sua abi-tazione, il giovane ha consegnato agli agenti alcuni dei vestitiutilizzati durante gli scontri. Alle prime domande degli agentidella Digos, si è giustificato dicendo di aver “usato l’estintoreper spegnere l’incendio”. “Er pelliccia” è di buona famiglia esogna di diventare psicologo, ma va in piazza a guerreggiarecome in un video games e tira gli estintori. Nella sua città parelo conoscano in tanti. E dopo gli scontri di sabato anche di più:è lui il ragazzo a torso nudo fotografato mentre a San Giovanniscaglia l’idrante rosso contro la polizia durante gli scontri coni Black Bloc. E sempre lui, a deridere gli agenti con un sog-ghigno e il dito medio alzato. Nella sua città alcuni ammettono“una testa calda: una volta, raccontano le amiche, tornando acasa in auto è finito contro le macchine parcheggiate. Ne hadistrutte cinque o sei. Qualcuno disse che aveva pippato”.Prima dell’estintore il giovane si era sempre sfogato su chat esocial network dove l’“angelo biondo”, altro suo soprannome,si esprimeva con massime e slogan: “Odio lo Stato”, “Sono inguerra con qualcuno ma non so chi in realtà”. E ancora frasi diHitler, citazioni di gruppi rap italiani (Noyz Narcos, FrankieHinrg). Per alcuni semplicemente un “Ribelle, fuori dagli sche-mi”, per il padre “Un ragazzo incapace di far male a una mosca:

mi ha detto che era pentito e che non è un Black Block” (tra-scinato dagli amichetti cattivi?!..). “Mio figlio non frequentacentri sociali - spiega il papà - non ha mai fatto politica. Siamotutti scioccati”. Sabato mio figlio è uscito di casa dicendo chesarebbe andato all’ università per sbrigare delle pratiche insegreteria. Racconta la mamma: “Mi ha chiamato, mi ha dettoche la città era bloccata, da quel momento in poi gli ho telefo-nato ogni mezz’ ora. E lui mi diceva sempre dove stava, che c’era fumo, tanta confusione. La sera è tornato a casa senza fia-tare”. La sorpresa è arrivata domenica mattina con la lettura deigiornali: il ragazzo con l’ estintore era proprio lui. “È sbianca-to, mi ha spiegato che stava solo disperdendo il fumo perché glidava fastidio un occhio - ricorda la madre -. Gli ho detto:“Dove vai? Tanto ti prendono”. Voleva consegnarsi ai carabi-nieri ma la Digos è arrivata prima. Non può essere un caproespiatorio, non è Bin Laden. Sono preoccupata, ho paura che incarcere non regga”. Ecco la famiglia del teppista: genitoriaddolorati, ma non per le vittime: fingono di non sapere nien-te. Fino al punto di difendere i loro ragazzi violenti. In quellapiazza c’erano molte realtà, c’era però abbondante, anche que-sta. Ecco qualcos’altro per cui indignarci ancora…Qualcosache gira intorno all’atrocità dei problemi per cui i pacificimanifestano, intorno ai criminali che sfumano, grazie alla loroinsulsa violenza, i messaggi di chi urla con correttezza il pro-prio sdegno. Più vergognoso del comportamento dei ragazziviolenti e devastatori c’è solo quello dei loro genitori. Fuoridalle stazioni di polizia aspettano con gli avvocati, speranzosi,indulgenti. Dispiaciuti. Ma non per le vittime della violenza,bensì per i loro figli. Fino al punto di piangere e difendere l’in-nocenza di quei mostri da loro stessi cresciuti. Non conosconola vita e le frequentazioni dei figli, o ne sono più o meno con-sapevoli. Non conoscono i loro figli. Oppure li conoscono enegano la realtà. Sarebbe troppo umiliante, troppo scomoda.Educare significa formare le persone, anche impartendo regolee divieti di condotta, secondo i principi condivisi in una socie-tà civile. Istruire non vuol dire solamente far rispettare l’obbli-go della frequentazione scolastica, ma anche trasmettere l’eticadei diritti e dei doveri, della responsabilità personale, delrispetto degli altri e di quei valori connessi alla convivenza, alprogresso, alla cultura. La trascuratezza, l’indifferenza, la dis-trazione, la superficialità, infatti, sono peccati mortali dei geni-tori; la loro inettitudine si riverbera sulla società, che se neaccolla disagi e costi, e danneggia inesorabilmente il figlio. Ecosì una buona parte della nuova generazione, cresce nel lassi-smo e nella noia, ricercando l’adrenalina negli ideali distorti,nel bullismo, nella violenza. È, quindi, mostruoso, e oltraggio-so per le vittime dei danneggiamenti provocati dai loro figli,che questi genitori trascorrano ore davanti alle telecameredichiarando l’estraneità di un figlio colto sul fatto, nella spe-ranza che il vandalo torni a essere il figlio di cui credere dipotere andare fieri. Ecco il motivo per cui dovrebbero arrossi-re non solo i genitori piangenti degli arrestati, ma anche i geni-tori e i parenti di tutti quei giovani, che sono andati a Romacamuffati e distruttori: oggi dovrebbero essere tutti in fila sullaporta della questura a denunciare i figli. Invece, dissimulano laloro stessa verità: perdendo l’opportunità, finalmente, di redi-mere la propria evidente e colpevole incapacità educativa. n

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Genitori e figli Black Block

di Antonella Giglietto

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I «nonluoghi». sono «il contrario del luogo, uno spazioin cui colui che lo attraversa non può leggere nulla nédella sua identità (del suo rapporto con se stesso), nédei suoi rapporti con gli altri o, più in generale, dei rap-porti tra gli uni e gli altri, né a fornitori della loro sto-ria comune».

Le agenzie che hanno suddiviso la Terra in per-corsi, in soggiorni, in club accuratamente pre-servati da ogni prossimità sociale indesiderata,

che hanno trasformato la natura in un “prodotto”,come altri vorrebbe fare della letteratura e dell’arte,sono le prime responsabili della trasformazione delmondo in finzione, della sua derealizzazione – in real-tà, della conversione degli uni in spettatori e degli atriin spettacolo. Così Marc Augé in Disneyland e altrinon luoghi (traduzione di Alfredo Salsano, BollatiBoringhieri, 2009) in relazione a quell’ «epoca chemette in scena la storia, che ne fa uno spettacolo»,ovvero a quell’arco di tempo in cui «il reale copia lafinzione», cioè «un’epoca in cui tutti i fatti sonomediatizzati e in cui diverse esperienze, dalle piùsemplici alle più complesse, tendono a persuadere gliindividui che essi esistono essenzialmente attraversole immagini che danno di se stessi o che si fanno diloro». Molteplici fattori, oltre al turismo, hanno natu-ralmente contribuito alla nascita di questo stato dicose: la demografia, la lotta tra le classi sociali, l’e-cologia e il ruolo sempre crescente delle immagini,tra gli altri. Oggi «il pubblico visita una idea, unaintenzione, un progetto di cui è in fin dei conti il solobeneficiario e quasi il solo oggetto». I turisti vivonoinsomma, in una insensata indifferenza. Primo perchéla loro visita è un soggiorno «al futuro anteriore, chetrova tutto il suo senso più tardi, quando si mostranoai parenti e agli amici, commentandole, le foto che ilpiccolo ha fatto del padre che lo stava filmando, poi ilfilm del padre, a riprova». E, secondariamente, per-ché le famiglie che si spostano «vi ritrovano quel checonoscevano già. Gustavano i piaceri della verifica, legioie del riconoscimento». In sostanza, insensata, dauna parte, è la totale mancanza di significato del viag-gio (che ha valore solo quando viene rivissuto nellariproduzione video o fotografica), dall’altra indiffe-rente è il fatto che, durante la permanenza nel luogoispezionato, «ci si offriva uno spettacolo in tutto e pertutto simile a quello che ci era stato annunciato». Larealtà, dunque, adesso una «copia della copia», fin-zione al quadrato, «il rovescio di una scena senzaforma e di un problema non risolto», «una esistenza

doppiamente simbolica». Perciò: essa è menzogna. Intale distesa interminabile di fiction si ergono, a questopunto - ed a giudizio di Marc Augé -, i «nonluoghi».Essi sono «il contrario del luogo, uno spazio in cuicolui che lo attraversanon può leggere nulla nédella sua identità (del suorapporto con se stesso),né dei suoi rapporti congli altri o, più in generale,dei rapporti tra gli uni egli altri, né a fornitoridella loro storia comu-ne». Questi «nonluoghi»,insomma, attestano lapresenza di una identitàsradicata e di uno spaziocompletamente decostruito. La nostra contempora-neità, perciò, mette in discussione i luoghi e lecoscienze. Si erge - ancora a giudizio di Augè - una società deldubbio, dell’incertezza, della scepsi. Ma anche, unasocietà del vago, dell’indeterminato, dell’approssima-tivo. Finisce la sicurezza ma comincia l’in linea dimassima.Il tempo in cui stiamo vivendo è come quello in cui«il signore, di cui l’oracolo si trova a Delfi, non dicené nasconde, ma allude» (Eraclito, Fr. 93). Siamonella civiltà dell’accennoe dell’indicazione. Ilnostro è un periodo ditempo che non dichiara (osmentisce esplicitamen-te): ma sottintende. Inquesto senso oggi si devefare forte riferimento allecapacità ermeneutiche edinterpretative degli abi-tanti del Pianeta.L’imperativo è, infatti,decodificare, decrittare,svelare. I nove saggi (chepercorrono altrettanti«nonluoghi»: Disneyland,La Baule, Center Parcs,Mont-Saint Michel,Waterloo, I castelli di Ludovico II, Aulnay, La città euna città di sogno) che compongono il volume diAugé corrispondono certamente a nove tentativi inquesta direzione. Tutti molto riusciti. n

Marc Augé - Disneyland e Delfi

di Gianfranco Cordì

Cultura

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Marc Augé

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che, prendendo vita e corpo, è andata a nutrirsi anche diquesto.La storia si sviluppa lungo la penisola italiana, passandocon tranquillità da una storia di paese, alle grandi cittàe poi all’idillio svizzero:quasi una road novel. Cosasignifica scrivere cambian-do così spesso ambientazio-ne?Aiuta a dare dinamicità aglieventi, in più, i viaggi che ipersonaggi affrontano, sonocarichi di attese, speranze epaure, e questo fa sì che lasuspance e l’empatia cresca-no anche durante i momenti di passaggio e non di puroaction.A quale dei tuoi personaggi sei particolarmente affezio-nata? Quale è stato il più difficile da creare?Danny è la mia protagonista. È la voce e il punto di vistaattraverso il quale racconto la storia. È in tutto e per tutto lamia eroina, e sicuramente la mia preferita. Poi, a mano amano che andavo avanti nella storia, nascevano i personag-gi dal contesto. Non mi hanno mai messa in difficoltà per-ché, almeno in questo caso, nel mio immaginario, le loropersonalità erano chiare come erano chiari i loro scopi.Non temi di utilizzare un linguaggio crudo e realistico,spiegando nei dettagli cosa stasuccedendo e, altre volte,lasciando il tutto nel vago. La scrittura di genere, per comela utilizzo, è ricca di una violen-za sublimata, che non raccontaun dolore vero e proprio, non vaa toccare nervi scoperti chefanno accapponare la pelle, mal’action assume le tinte forti deifumetti, che rendono la narra-zione divertente e non feroce. Avolte invece credo sia necessa-rio che il lettore crei un immagi-nario suo all’interno del raccon-to, per cui non tutto deve essereraccontato nel minimo dettaglio.Se dovessi trasporre il roman-zo nel mondo cinematografico, chi sceglieresti comeattori? Cambieresti qualcosa?Non so chi potrebbe interpretare questo o quel personaggio.Per Danny mi piacerebbe un carattere e una femminilitàsimili a quelli di Michelle Rodriguez. Nel riadattamento asceneggiatura, mi piacerebbe che la storia non perdesse isuoi punti cardine. n

Intervista a Francesca Bertuzzi, autrice di Il carnefice (Newton Compton, 2011)

di Elisa Cutullè

Libri

Classe 1981: Una ragazza o una donna degli anni80? Bé, direi una bambina degli anni ottanta e unagiovane donna oggi.

Ad appena 22 anni hai conseguito il Master in “Teoria etecnica della narrazione” alla Scuola Holden. Quandohai scoperto di avere la passione per la scrittura?La scrittura è un territorio in cui mi sono sempre sentita amio agio. Quando poi ho capito che scrivere poteva essereanche una professione, non ho avuto dubbi su cosa volessifare. Appena uscita dal liceo ho provato ad entrare allaHolden e ci sono riuscita. Da lì in avanti, ogni mia scelta èstata volta alla realizzazione del mio esordio, che poi è stato“Il Carnefice”.Il lavoro al backstage di Vallanzasca, il film di Placidocome si coniuga con la tua passione?Anche il cinema per me è una grande calamita, infatti hostudiato sceneggiatura, e in seguito montaggio video, e sonotutte esperienze che poi mi sono tornate utili anche nellascrittura narrativa. Il tuo primo romanzo “Il carnefice” ha avuto 6 edizioniin 6 settimane. Qual’è la formula segreta?Non credo che ci siano formule o segreti di sorta.Sicuramente però ci sono concomitanze di eventi che pos-sono portare un libro ad avere o meno una visibilità. In que-sto caso, per me, l’incontro con la Newton Compton, e conpersone come Alessandra Penna e Raffaello Avanzini, hafatto la differenza, perché credendo fortemente nel libro,l’hanno accompagnato all’uscita, dandogli un’onda di riso-nanza importante. Hanno puntato con coraggio su un esor-dio, che, per definizione, non può garantire un pubblico diaffezionati. La Newton è una squadra importante, e sonoorgogliosa e felice di farne parte.Una storia, definita, dell’oscura provincia italiana. Ineffetti le realtà descritte potrebbero collocarsi facilmen-te in qualsiasi regione italiana. Una scelta voluta e con-sapevole?Il gioco era quello di abbinare le ambientazioni americanedel genere, all’Italia, e per farlo avevo bisogno di determi-nate caratteristiche del territorio. Ho trovato che l’Abruzzofacesse proprio al caso mio. Se poi alcune dinamiche, tipi-che delle piccole realtà, ricordano la provincia in generale,va tutto a guadagno del libro, perché più ci si riconosce inuna lettura, più è forte il senso di immedesimazione.Almeno, da lettrice, io la vivo così. La trama è “apparentemente” semplice anche se coniu-ga diversi temi “scottanti” e poco comodi: droga, immi-grazione clandestina, violenza sessuale,omosessualità,corruzione politica, pedofilia. Uno spac-cato della società italiana attuale?Nel genere thriller/noir, che vive nei grandi chiaroscuri, ciòche interessa sono le caratterizzazioni forti, quindi si sfiora-no temi importanti. Il mio romanzo in particolare, non èstato ispirato da fatti di cronaca, è semplicemente una storia

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Recensione

POTERE, Governare con la paura, di Pino Rotta (Città del Sole edizioni)

Di eresie non se ne hanno mai abbastanza, soprattutto quando il mondo sembra rassegnarsi all’omologazioneed alla rinuncia della ragione. Le eresie aiutano a guardare passato e futuro con occhi diversi. Molte cose con-tenute nel precedente saggio (Pino Rotta, E’ un mondo complesso) si sono realizzate nella realtà sociale e poli-tica dell’Occidente a cominciare dal clima di terrore, alla conseguente riduzione delle libertà personali, alloscontro tra civiltà, al dominio del mercato sull’individuo e sulle collettività ed alla conseguente implosionedello stato di diritto che aveva caratterizzato l’Europa fino al 2000. Non solo queste cose erano già presentinelle analisi del saggio del 2001 ma anche le azioni di denuncia, divulgazione su stampa e televisione, impe-gno politico e sociale, che mi hanno visto coinvolto assieme a milioni di personenel mondo. Azioni che non sono servite ad impedire che una guerra inutile scon-volgesse prima gli assetti politici degli Stati e poi le vite di ognuno di noi. E nonsono servite a fermare il ritorno di una politica mediocre e corrotta, di cui l’Italiadetiene il primato in Europa pur essendo in buona compagnia. Oggi viviamo inquelle condizioni di ricatto esistenziale e materiale che pure avevamo in tanti pre-visto e denunciato. C’è quindi una prima considerazione da fare nell’accingersi apubblicare un libro: a che serve? Forse a mettere a fuoco con maggiore chiarezzale lacune dello studio passato o anche per rivolgersi a chi aveva il compito di agireper il bene comune e non ha saputo o voluto farlo. Rivolgersi quindi alla politicae ad un’opinione pubblica sempre più confusa e smarrita. In un primo momentomi sembrava opportuno rivolgermi ad un pubblico che, per l’esperienza fatta nelcampo degli studi sociologici e dell’impegno sociale, avesse condiviso una certavisione dei fatti politici e sociali con il background ideale e culturale in cui io stesso mi sono formato. Sonoun uomo che ama definirsi “di Sinistra” ed in tale campo politico e sociale ho da sempre operato. Ma questosaggio con una tale impostazione, sarebbe stato solo un ulteriore contributo ad un dibattito che da tempo sentonon appartenermi più, quello cioè di quale sia in Italia il ruolo della Sinistra, se non addirittura arrivare a porsiin forma assolutamente seria la domanda: esiste ancora la Sinistra? Non era questa l’esigenza che sentivo edallora ho provato a continuare a fare quello che, più o meno bene, mi riesce di fare: studiare ed esporre feno-meni sociali, fare sociologia, in questo caso sociologia politica. E proprio facendo questa considerazione misono accorto che un discorso del genere si ricollegava perfettamente alla questione della Sinistra politica esociale. Mi è venuto in mente l’atteggiamento che, fino agli anni ‘80 del secolo scorso, la Sinistra ha tenutoproprio nei confronti della sociologia. Un atteggiamento perlomeno diffidente essendo questa disciplina con-siderata, dalla Sinistra, una scienza “borghese”. Questa etichetta è sempre statastridente con la mia formazione culturale e lo è divenuta sempre di più mano amano che avanzavo nei miei studi. Ho sempre considerato l’atteggiamento digran parte della Sinistra, nei confronti delle scienze sociali, non solo sbagliatoma addirittura miope e autolesionista. Uno dei motivi per cui oggi la Sinistrasi trova in una condizione di minoranza politica e sociale è senza dubbio ilritardo culturale che ha accumulato in questa branca di studi che, tra l’altro, gliha impedito di intercettare il punto di rottura tra il pensiero liberale ed il prag-matismo liberista. Povera di strumenti di analisi adeguati ai mutamenti impo-sti dal liberismo, la Sinistra si è limitata a denunciare ma non ha saputo affron-tare e governare, nei tempi e nelle forme opportune, le trasformazioni che sivedeva scorrere davanti. Ai sociologi spetta il compito di studiare e di tentaredi spiegare la realtà, ai filosofi di cercare risposte esistenziali ed alla politica ditrovare strade per cambiarla la realtà. Ecco che, affrontando l’analisi degliavvenimenti politici e sociali verificatesi negli ultimi dieci anni, non solo inItalia, ho provato a darne una lettura in termini sociologici, concentrandomi,soprattutto nella parte finale del testo, sulle dinamiche della comunicazionestrumento fondamentale non solo per capire la realtà ma anche per interveniresu di essa. Che il mio approccio metodologico si possa inquadrare in quel filone considerato un pò eretico èun fatto, ma non dimentichiamo che siamo in Italia, paese di democrazia populista e confessionale (impostadalla destra e ampiamente condivisa dalla Sinistra!) che non ha mai conosciuto una vera epoca liberale e socia-lista. Il mio approccio eretico, perchè laico e perchè pone problemi inerenti al progressivo svuotamento delsenso della democrazia, credo di poterlo rivendicare, ma gli strumenti di analisi adoperati sono quelli di una“scienza” che per me era e rimane semplicemente scienza sociale senza ulteriori aggettivi. In definitiva questosaggio si propone di offrire ancora strumenti di riflessione e di conoscenza con l’auspicio che la risposta siacertamente critica e dialettica ma contestualizzata su analisi ragionate e non su semplici reazioni emotive aglieventi che subiamo spesso con un senso di impotenza. (redazionale, tratto dal testo)

Il Natale è alle porte e Napoli si prepara ad accogliere la festività più bella dell’anno vestendo gli abiti piùbelli e aprendo il suo centro a “centinaia di mendicanti, riffaiuoli, rigattieri, acquaioli, lustrascarpe, tuttioccupati ad accaparrarsi i clienti altrui”. Sono gli anni Trenta e la settimana prima di Natale il centro dellacittà diventa un immenso mercato di profumi, odori e merci di ogni tipo.L’aria che sa di frittura, pizza, maccheroni e mandorle caramellate arrivaanche in Questura e colpisce lo schivo e misterioso commissario LuigiAlfredo Ricciardi e l’amico brigadiere Raffaele Maione. Il Natale, col roman-zo “Per mano mia” (Einaudi) inaugura la nuova serie delle feste dei romanzidi Maurizio de Giovanni dedicati al commissario Ricciardi. Dopo la quadri-logia legata alle stagioni pubblicata da Fandango, per lo scrittore napoleta-no, nuova casa editrice e nuova serie di romanzi. Tante novità ma una solacertezza: la bravura di de Giovanni che fonde nell’intreccio narrativo elemen-ti del noir tradizionale con una prosa poetica. De Giovanni rende Napoli pro-tagonista dei suoi romanzi. A volte vittima a volte carnefice, la città parteno-pea con la scrittura di de Giovanni rivela i suoi lati migliori e anche i suoidifetti e le sue carenze. Quanto cambia Napoli a seconda delle stagioni e quan-to sa emozionare quando è periodo di festa. Il Natale è un’emozione, “è forte come un battito di cuore, èlieve come un battito di ciglia”, in ogni casa c’è un Presepe in bella mostra che attende l’arrivo delBambinello. Anche in casa dei coniugi Garofalo il Presepe è pronto ma una “bella mattina, qualcuno entra,li ammazza riempiendo la casa di sangue, rompe il San Giuseppe del presepe e se ne va”. Un duplice omi-cidio, la statuetta di San Giuseppe rotta, tanto sangue, “le lenzuola erano diventate nere, il liquido era cola-to a terra sullo scendiletto, la testiera di legno chiaro imbrattata”: questa scena arriva agli occhi diRicciardi, abituato a vedere i morti anche quelli che gli altri non vedono. “Il Fatto”, la sua condanna avedere i morti nell’ultimo alito vitale e a sentirli “ripetere ossessivamente l’ultimo ottuso pensiero dellaloro vita spezzata”, condiziona l’esistenza di Ricciardi che preferisce sottrarsiai sentimenti pur di non procurare sofferenza a Enrica la dirimpettaia di cui èsegretamente innamorato. Mentre l’atmosfera dell’imminente festività pervadeNapoli “il risveglio con le urla dei venditori ambulanti, la confusione per stra-da, le canzoni. E i profumi, le mille pentole che bollivano, le mille padelle chefriggevano, le pasticcerie che facevano a gara per proporre i propri capolavo-ri”, il commissario Ricciardi, che si occupa del caso col brigadiere Maione,cammina per Napoli tra la gente e riflette e la folla che vede “è fatta di vivi edi morti, di indifferenza e di dolore, di urla e di silenzi”. La trama investigati-va si intreccia sapientemente con altre storie, quella di Maione ossessionatodalla ricerca del colpevole della morte del figlio maggiore Luca, anche lui poli-ziotto, assassinato tre anni e mezzo fa mentre era in servizio, quella dell’anzia-na tata Rosa che soffre per il peso degli anni, degli acciacchi che la fanno sen-tire inutile e quella complessa di Ricciardi, solitario e riservato, “dagli occhiverdi come l’acqua, così disperati” che vive con Rosa ed è attanagliato dall’af-fetto che prova per Enrica e dall’attrazione per Livia. Nel romanzo, compaio-no i personaggi storici della serie: don Pierino, Bambinella, il dottore Modo, ilvicequestore Angelo Garzo. De Giovanni li posiziona all’interno del plot nar-rativo come dei pastori, ognuno ha il suo ruolo, ognuno ha il suo posto e cosìla narrazione procede dando vita ad un presepe narrativo accurato e gradevolissimo. L’indagine sull’omi-cidio dei Garofalo scava nella vita privata della coppia che lascia una bambina e negli ambienti di lavo-ro di Emanuele, centurione della milizia portuale. Il vento che viene dal mare porta le voci e racconta sen-sazioni, emozioni, turbamenti di chi quel gesto criminale lo ha compiuto o avrebbe voluto compierlo permano sua. I sospettati sono persone umili, povere, che con dignità e orgoglio si apprestano a celebrare ilNatale al meglio delle loro possibilità. Ricciardi è tenace e man mano che il venticinque dicembre si avvi-cina vaga per la città in cerca dell’intuizione giusta che lo porterà alla soluzione del caso. Proprio mentrein tavola si stanno per servire i piatti più tradizionali e prelibati per il commissario di de Giovanni “ognitessera del mosaico andò al suo posto”.

Recensione

“Per mano mia” di Maurizio De Giovanni (Edizioni Einaudi)a cura di Cristina Marra

Pino RottaMaurizio De Giovanni

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