ha segnato, nel 1985, il -...

836

Transcript of ha segnato, nel 1985, il -...

"Cima delle nobildonne"ha segnato, nel 1985, ilritornoalromanzodiStefanoD'Arrigodopoiltourdeforcedi Horcynus Orca. È uncambiamento totale discenari e atmosfere: non piùil mito omerico, lo sfrenatosperimentalismo linguistico,ma un itinerario diconoscenza nei templi dellamedicinaeunalinguaseccaetagliente, limpida ma

percorsa da profondecorrenti simboliche. Ilromanzo si svolge tralaboratori di ricerca eospedali d'avanguardia, doveassistiamo alla vertiginosaoperazione chirurgica pertrasformare in vera donna ilbellissimo ermafroditoadolescente amatodall'emirodi Kuneor. Tra gliinterrogativi della scienza ele più sfrenate invenzioni

fantastiche, un romanzo perparlaredeipiùuniversalideitemi:lavitaelamorte.

OcreconversioneacuradiNatjus

LadridiBiblioteche

StefanoD’Arrigo

CIMADELLENOBILDONNE

Dellostessoautore

NellacollezioneScrittoriitalianiestranieriHorcynusOrca

NellacollezioneLo

SpecchioCodicesiciliano

NellacollezioneGli

Oscar

HorcynusOrca

©1985ArnoldoMondadoriEditoreSpA.,

MilanoIedizionesettembre1985

Cimadellenobildonne

aJutta

“Cima dellenobildonne” (metaforadi Hatshepsut, lett.“Colei che va davantialle nobili”) perAmadeus Planika,placentologo,èsinonimo

enfatizzato dellaplacenta.

Hatshepsut, dellaXVIII Dinastia, unicadonna Faraone, regnòsull’Alto e Basso Egittodal1511al1480a.C. inanni di pace e displendoredellearti.

«Inquestomomento...»Dall’anfiteatro sopra la

salaoperatoriaMattia avvertìcomeun’esitazionenellavocediBelardo,unavocechesinoa quel momento era statad’una freschezza di timbrosorprendente,unavocechesi

sarebbe detta ancora quellache era all'inizio, come nonfossecioè lavocediunocheormai da due ore portavaavanti un intervento a dirpoco impegnativo comequello.

Belardo stava perdichiarare che quella appenafatta era la mossa record,tanto da esaltare quelmomento come avessequalcosa di storico per lui.E

l’aveva, considerato chequello per la neovagina ètutt’altro che un interventoabitualeesiaffidaachirurghidiconsolidatoprestigio.

Era per questo chel’operatore, Belardo appunto,anche se si trattavadiun“Piheic Di”, cioè di un liberodocente straniero,tesaurizzava l’interventosviluppandolo, viavia che nedettava le mosse al pubblico

distudentienonstudentichelo seguivano dall’anfiteatro,come una vera e proprialezione in sala operatoria,diffondendosi talmente tanto,specie su certe mosse e framossa e mossa, da farsospettaredellevolteaMattiachequellalezioneluil’avesseprecedentementeincisa,enonnecessariamente in salaoperatoria, incisa su di unnastro, ed era da questo ora,

perplay-back,chelasuavoce(quellasuavoce,perlappunto,che si sarebbe detta uguale aquella che era all’inizio)parlava al pubblicodell’anfiteatro.

Un momento storico,dunque.Difatti:

« In questo momento »ripetèconunacertaantipaticaenfasi « passo alle miestrumentiste alle mie spalleprimauna,poil’altrapinzadi

Four che fra le puntestringono quelle che nelverbale di questo primotempo dell’interventodescriverò come le gonadi,parti terminali di coloritobiancastro di due formazionipeduncolate, due cor-picciolidi consistenza duro elastica,simili a due mandorlesgusciate. In parole piùsemplici, questi duecorpiccioli sono i testicoletti

rudimentali della giovanepazientechenoi,comeprimoatto, concludendo la parteaddominale dell’intervento,abbiamoasportatoperchéessipotrebbero andare incontro adegenerazione e che noimolto rapidamente ciapprestiamo a sottoporre aesame istologico preliminareestemporaneo studiandone lastruttura,secioècisiagiàunindiziodidegenerazione,ela

funzionalità, e cioè la lorocapacitàdiprodurreormoni.»(“Nella sindrome diRokitanski” aveva dettoBelardo due ore prima, nellapresentazione agli studentidell’intervento che stava periniziare “la paziente ha leovaie normali per quantoriguarda la loro funzionalitàormonale, il soggetto-donnacioè riceve il beneficio dellaproduzione degli ormoni da

parte delle ovaie. Nellasindrome di Morris, quellache interessa a noi, dellopseudo ermafroditismomaschile,si tratteràdivederese il soggetto, mancante diutero tube ovaie e vagina, èun soggetto-donna o unsoggetto-uomo, oppure se èportatore di un mosaicocromosomico aberrante,quello dei due cromosomisessualidelladonna,XX,più

la X o la Y dei duecromosomi sessualidell’uomo.”)

Alle spalle di Belardo, atempoconlasuavoce,leduestrumentiste, ognuna con lasua pinza che stringeva unodei due testicoletti, dopoaverle tenute per qualchetempo alte sopra unabacinella posata su untavolino in mezzo a loro,piena di rifiuti, tamponi

d’ovatta, frammentidi filodicatgut, batuffoli, bustine perstellette di filo e zaffi digarza, simosserocautamentefuori dall’alone dellascialitica, verso l’antisaladella sala operatoria dove sitrovava l’anatomo patologocon il refrigeratore, equandotornarono alle spalle diBelardo le punte delle duepinze non stringevano piùniente.

Lo stupore diquell’evento, l’eventodell’uomo che mette manodove solo il Creatore, anchesedistrattamente, l’hamessa,trascorreva con improvvisibrividinelsilenziod’acquariodell’anfiteatro.

Tutt’intorno alla vetrata,assieme a quella diecina distudenti stranottati dall’orad’inizio di quell’interventomonstre anche quanto alla

durata (perché, fra i duetempi chirurgo-ginecologicoe chirurgo-plastico,cominciando alle sette,finisce ben oltremezzogiorno), Mattia dallasua posizione d’angolovedeva muoversi inquell’istante l’esoticogruppetto di spettatoriformato dalle tre signore incachemire, dall’aria di tremannequins, e dal giovane

emiro Saad Ibn as-Salahdell’Emirato di Kuneor sulGolfo del Petrolio, col suokefieh d’un candoreluccicante nelle mezze lucidell’anfiteatro e che era tuttoquello che del disdah,dell’abbigliamentotradizionale,resistevanelsuofinissimo completooccidentale.

Erano stati prima comepresi di contropiede

dall’annuncio che per boccadi Belardo era venuto dallasala operatoria, e dopoavevano aguzzato gli occhiper vedere, ma a quelladistanza forse solointravvedere, i due pezzianatomici simili a mandorlesgusciate che le duestrumentiste stringevano frale punte delle pinze sinchénon andarono e tornaronodall’antisala.

Mattiapotevavedereora,oracheeranouscitedall’alli-neamento alla vetrata, doveprimailprofilocolkefiehdelPrincipegliele copriva, le trecosiddette Mogli Anzianedell’Emiro, moltoprobabilmente principesse dirango anch’esse come laMoglieGiovanechestavasullettinooperatorio, tre ragazzechedimostravanoun’etàfraiventi e i venticinque anni.

Mattia, che la mattina allapresentazione col loroPrincipe le aveva appenaguardate, levedevaoracomeperlaprimavolta.Tutteetreassai simili fisicamente,moltoalte,lapelleolivastra,icapellinericorvini, l’identicamise le rendeva piùsomiglianti ancora, e in uncerto senso qualcosa difamiliarec’eraeffettivamentefra di loro. Erano difatti tre

del numero imprecisato diMogli Anziane del Principeche esse accompagnavano inquelviaggiopersvolgerviuncompito che a Mattiaappariva semplicementedecorativo, di contorno,sinché la loro presenza, laloro presenza di giovani,seducentidonnenonrivelòdiavere uno scopo più checalcolatoinquelviaggio.

II Principe si era ritratto

diqualchepassodallavetratae con lo sguardo sembravacercarel’attenzionediMattia.

Dopodueoreeralaprimavolta che levava gli occhi dagiù, dalla sala operatoria, dallettino dove giaceva senzacoscienza quell’adolescenteprincipessa che si chiamavaAmina, che era, secondol’esatta espressione diBelardo, “una splendidaparvenzadidonnacomesono

quasi tutte queste pseudoermafroditemaschili”.

Inquelmomento,checonl’estrazione delle gonadiBelardo concludeva la partepreliminare, destruens,dell’intervento (dopo sarebbeiniziata la vera e propriacostruzione della vagina), algiovane Principe insorgevaforsequalchedubbio,qualchescrupolo:avevafattobeneadaccettareilsacrificiodellasua

Amina?Nelle due ore di fissità

d’occhieimmobilitàdicorpopassate là alla vetrata senzamaiunsegnodicedimentoosolo di rilassamento (Mattianon l’aveva visto muoversinemmeno per cambiare,ancheunasolavolta,piedediappoggio), mostrando nonsolo di disporre di unacapacità di resistenza fisicache era anche e soprattutto

dell’a-nimo,ma di possedereinoltre la tempra dimaratoneta che l’interventoperlaneovaginarichiedeaglispettatori non meno cheall’operatore, doveva essersitormentato a lungo intorno aquell’interrogativo : ho fattobene? ho fatto male? comeintorno a un’ombra dirimorso.

Tuttavia non chiedeva néapprovazione né

disapprovazione con losguardo che rivolgevaall’amico che era anchemedico, al medico che eraanche amico, a lui, aMattia.Amicod’unacuriosaamiciziacheera iniziataederaandataavanti per telefono, lunghetelefonate che il Principe glifacevadalGolfoaStoccolmasinché quella mattina non sierano finalmente conosciuti,presentati daBelardo davanti

allapresalaoperatoria.Belardo l’ultimo inverno

aveva soggiornato a lungoalla reggia di Kuneor perchéil Principe fra i tanti progettidi modernizzazione del suoPaese, alcuni da temporealizzati, altri in via, avevaanchequellodiun IstitutodiSanità della Donna. Belardoeraandatoarendersicontodevisudelprocederedeilavoriedelladotazioneassolutamente

d’avanguardia dell’istituto dicui lui sarebbe stato il primodirettore.

Era quindi per affidare alfuturo primario di Chirurgiaginecologica del suo IstitutodiSanitàdellaDonnacomealsuo operatore di fiducia, lasua giovanissima, platonicamoglie, soggetto pseudoermafrodita maschile, chel'Εmiro aveva fatto quelviaggioinScandinavia,senza

tenercontocheaLubianaeaZurigo c’erano Scuole chenella pratica diquell’intervento avevanoapportato nella parte plastica(quellanondi competenzadiBelardo) alcune nontrascurabili novità, quellasoprattutto di foderare ilcosiddetto “intruso” o falloartificiale con pezzettini diintestinoenonpiùconlembidi cute asportati dalle cosce

dellapaziente.Ciononostante,

nell’annunciargli il viaggiodel Principe, Belardo gliaveva accennato solo dipassaggio alla neovaginadella piccola Amina e gliavevaparlatodiquelviaggiocome fatto esclusivamenteper conoscere lui, MattiaMeli, e conosciutolo, tentareancora una volta diconvincerlo ad accettare la

direzione della sua ormaifamosa, anche se ancorainesistentePlacentateca.

Mattia non aveva saputospiegarsi quelle parole diBelardo. Si fosse trattato diunaltro, avrebbedettochesicercava di sfotterlo, maBelardo tanto era grandechirurgo, quanto povero dispirito. Bisognava pensareallora che Belardo avevaproprio deciso di fare

qualcosa per liberare l’Emirodi quella sua fissazione(doppia fissazione,unaera laPlacentateca, l’altra avereMattia a dirigerla). Ma nonera più credibile dire chel’Emiroconquelsoloviaggiofaceva o sperava di fare dueservizi, neovagina alla suaAminaecontrattodidirettorealdottorMeli?

Questo, Mattia nonavrebbe fatto un grande

sforzoacrederlo,speciedopoquanto, cosa davveroimpensabile, il Principe gliaveva detto quella mattinaallapresentazione.

«SeMaomettononvaallaMontagna, allora è laMontagna che va daMaometto»,questogliavevadettol’Emirostringendoglilamano.

Belardo doveva essersiaccorto dall’espressione

perplessa del suo volto chequelleparole lomettevano inun certo senso in crisi. Sì,perché no? era andatodicendosi poi. Se mi parlacosì, semi parla come se luifosse la Montagna e ioMaometto, perché noncrederglichevenneancheperme,ancheperconvinceremea dirigergli quella suaPlacentateca che sembravaun’idea campata per aria

sinché non mi telefonò perdirmi che una nave carica dimarmi di Carrara, destinatialla Placentateca, navigavadall’Italia verso il Golfo?Poteva dire che lo avevaconvinto più l’Emiro conquellasuainattesasortitacheBelardo con tutti i suoidiscorsi. Belardo, chissàperché,sembravacrederecheper persuaderlo d’una cosa(l’Emiro era venuto a

Stoccolmaperincontrarsiconlui) dovesse a ogni costospersuaderlo di un’altra(l’Emiro non era venuto aStoccolma per far fare laneovagina alla sua platonicamoglie).

Belardo, senza girare ilcapo, aveva alzato la manodestra all’altezza della spallatenendola un pocoall’indietro, e una dellestrumentiste, quella più esile

e minuta che stava da quellato, sveltamente gli avevamesso nel palmo della manoprima una, poi un’altra cosache dall’anfiteatro non sidistingueva. Belardo ripreseallora a dichiarare le suemosse, parlando attraverso lamascherina di garza, nelmicrofonino appeso al collo,se non era davvero da unnastroincisocheparlava:

«Adesso» dichiarava,

dichiarandolemosseeseguiteun attimo prima dallastrumentista situata alla suadestra e quelle che avrebbeeseguitoluiunattimodopo«lamia prima strumentistamiporge un tampone montatocol quale io provvedo a farela toilette del cavoperitoneale.Mi porge poi gliantibiotici che io metto incavità. A questo punto nonresta che fare quello che in

verbale descriverò come“appendicectomiaenpassant,chiusuraastratidellapareteepuntiinsetasullacute”.»

Mattia girò gli occhi alprofilo dell'Emiro, fermosotto l’alone rifilato di nerodel bianchissimo kefieh,curioso di vedere se avevaqualchereazioneaqueltagliotrasverso, cavo o cavità, chedoveva riuscirgli nuovonaturalmenteanchealui.

Perché prima,stranamente (ma non tantostranamente forse,considerato il tipo didistrazione, un evento!, cheavevano avuto), tutti quantierano in anfiteatro (io perprimo, riconobbe Mattia) sieranopersicogliocchidietroquei due minuscoli così,tenuti alti, in vista, tra lepunte delle pinze delle duestrumentiste, sicché nessuno

di loro aveva posto non soloocchi ma nemmeno mente aquellavastaincisione,cheerapoil’incisionediPfanne-stiel,sull’addome della pazienteattraverso la quale Belardoper due volte era andato inprofondità colle pinze diFour,sinoaiduetesticoletti.

Mattia però, ci avrebbegiurato, nessuno, nemmenoora, faceva caso al tagliotrasverso.Gliocchidi tutti (i

miei per primi, riconoscevaancora), anche se non livedevaunoperunoinfaccia,erano come calamitati daquell’inimmaginabile lavorodi rammendo di pelle cheBelardo dichiarava e giàeseguiva, rivelandodi sé unaspeciediimpensabilerisvoltoalfemminilechelasciòtuttiabocca aperta in anfiteatro(compreso Mattia che ungiorno, chissà, avrebbe

rivelato anche luiquell’impensabilerisvolto).

LavocediBelardo,sicurae come recitante sino a unattimo prima, sembravaessersi fatta bassa, prudente,comecontrattadall’attenzioneche quel lavoro delicato glirichiedevaaluieallesueduestrumentiste. Lui, Belardo,era collocato di fianco allapaziente, a metà del lettino.Delleduestrumentiste,quella

che gli faceva sempre daporgiferri,gli stavadi fronte,anche lei di fianco allapaziente, mentre l’altra, cheora gli faceva da porgi-agugliate,glistavaallespalle,messa davanti al tavolinettosistemato fra sé e il pubedepilato della bambina-nondonna-non moglie che stavasullettino,tavolinettocheerapieno zeppo di aghi conl’agugliatadicatgutprontida

prendereeusare.Le tre figure, con le

braccia e le mani inmovimento attorno al lettino,armonizzarono di primoacchitotalmenteall’unisonoiloro gesti, sempre ugualiprecisi puntuali, che vistedall’anfiteatro sembravano avolte di tre figure una sola,sempre la stessa, collocata inposizioni differenti mareciproche, con sei braccia e

seimani.«CollepinzediPeanche

la mia strumentista mi halevatoprimadallemanieorami ridà, afferro quindi eaccosto i lembi della ferita »proseguiva Belardo, dandol’impressione, ora, di parlareriflessivo e assorto, come seora parlasse non per dettarleal pubblico di studenti e nonstudenti dell’anfiteatro, lemosse che faceva, ma a se

stesso,peraiutarsiconlesuestesse parole a farle comeandavano fatte, e cosìrisollevandoancoraunavoltain Mattia quell’ombra disospetto che faceva vaevienenella sua mente, il sospettochelalezionetenutadalvivo,si ascoltava però in play-back. «Con punti staccati incatgut cucio quindi i pienisottocutanei.»

Mattia, non sapeva

dell’Emiro, delle MogliAnziane, degli studenti, maper quanto lo riguardava,rischiavaormaidi farsicomeipnotizzare dalle mani diBelardointentesveltesvelteaquel lavoro donnesco, a quei“puntiinsetasullacute”.Eraancora però abbastanza in séper rendersi conto che quelrischio il Principe non locorreva né poteva correrloperchélui,forseperchéluivi

era coinvolto come ci fosselui al posto della suaAmina,continuava a seguire cogliocchi,quasiglis’improntassetutto dentro al piccolissimoneo nero delle pupille, illavorodirammendodiquelletre figure in cuffia emascherina, guanti e camiceverdino,unlavoroaseimani,tutte assieme, sempre inmovimento, che procedevaripetendosi e ripetendosi,

come se quei punti di suturanon dovessero mai finire onon dovesse mai finire lalunghezzadeltagliotrasversoda suturare, per cui, dopo unpo’ che uno ci teneva gliocchi sopra, la scenaattraverso il vetro prendevaun’apparenza comed’abbaglio, di cosa irreale,che forse non era maicominciata ma che sembravaognivoltaricominciare,senza

fine.A questo punto, in quel

luogo, in quel momento,quell’idea della Placentateca(chedovevaessereormaipiùdi un’idea se l’Emiro gliaveva fatto sapere nella suaultima telefonata di queimarmi di Carrara destinati alrivestimentoesterno)aMattiaappariva come se per unversononavessealcunissimosensoeperunaltroinvecene

avesseunogrande, smisuratoaddirittura. Perchéquest’uomo, ragionava senzasapere bene in quale dei duesensi si muovesse il suoragionamento, quest’uomo lasua Placentateca la stacostruendo lo stesso,inserendola nel paesaggio indivenire del suo Emirato.“Sorgerà” gli aveva detto inuna di quelle sue telefonatefatte, secondo lui, al

nicchiante candidato alladirezione di quella specie diMuseo della Placenta “alconfine col campo di golf,lato mare, tra il Palazzettodello Sport e il Palazzo delGhiaccio,invistadellostadiodicalcio.”

La stava costruendo lostesso anche se essa sarebbeservita a conservare leplacente dei figli di tutti ipadri dell'Emirato ma non

quella del figlio che quella“splendida parvenza didonna”, priva di ciò che fafemmina una femmina, uterotubeovaieevagina,nonpotràmai dargli. (“La neovagina?Per quanto ancora bambina,la Principessa è innamoratadel suo Emiro e questo larende un’eroina. Con laneovagina perciò si faràscavare dentro unalloggiamentoperriceverviil

membro di lui”: parole diBelardo, dove empie, dovepie.)

Questo perché un giorno,divenuto adulto ed emiro,trovandosela a portata dimano, col suo nome e la suadatadinascita,inunacellettadivetroflexdellaPlacentateca(come appena espulsa esubito fissata, ibernata, colviolettocolblu, ricompostaechiusa nell’insieme del suo

amnios, di quel “vasocontenente il sangue dellavittima”), quel figlio potesseanchelui,ancheluitornando,senondall’averesconfittounqualche fantascientifico“popolo degli arpioni”, dalvittoriosoraidcontroquestaoquellapopolazionecheavevafatto incursione alla frontieradel suo Emirato, potesseportarla anche lui come ilFaraone Narmer in un suo

corteotrionfale, levataaltaincima a un’asta come Insegnadella suaDinastia, assieme aquella che sarebbe oggi laprima,vera InsegnadellasuaDinastia, il braccio della gruchegiornoenottepompaallasuperficie, da sotto la sabbiadel deserto del Kuneor, ilgreggiodeisuoigiacimenti.Econ questo, ostentandola agliocchi di tutti come per dire:questa è la placenta col mio

imprinting,colricordodimiopadre nella mia memoriafetale di figlio, viene da quil’uomo al quale statetributando gli onori deltrionfo, anch’io come ilFaraone Narmer nel suocorteo di vittoria aHierakonopolis, di ritornodall’avere sconfitto ilmisterioso “popolo degliarpioni”.

Questoperché,alprincipe

Saad Ibn as-Salah, l’ideadella Placentateca venivadalla Paletta di Narmer dellaqualeavevasaputodaMattia,messo a contatto con luitramite telefono da Belardo,che gli aveva fatto il primo,confusocennodellaPaletta:

«Ti telefonerà il principeSaadIbnas-Salah,unpotenteemiro del petrolio» gli avevadetto Belardo, anche lui pertelefono, tornando dal suo

soggiorno proprio da lì, dalKuneor. « L’amico emirodesidererebbe sapere quantopiù possibile di quel taleFaraone, Narmer se benricordo, di cui mi accennastitu una volta» avevaproseguito Belardo chedall’alto del suo consolidatoprestigio di “Pi heic Di” glichiedeva quel favore comenon fosse lui a chiederlo maluiaconcederlo.«L’homesso

io incuriositàdicendogli chequelFaraonesigloriavatantodella sua riuscita nella vitache nei suoi cortei trionfaliesponevaall’ammirazionedelpopolo la sua placenta levatainaltocomeunostendardo.»

Inquellaprima telefonatal’Emiro se n’era stato zittoper tutto il tempoeMattiaselo era immaginato sempreintento, corrugato nellosforzo di non perdersi nulla

del suo inglese che non eracosì perfetto come quello dilui,oxfordianopuro.Soloallafine, inaspettatamente eammirevolmente, se n’erauscitoachiedere:

«Sisanientedelpadre?»« Del padre di chi? »

aveva chiesto allora Mattia,preso di contropiede, comegli fosse sfuggito di mentecheilpersonaggioprimarioinquella non leggendaria storia

della placenta portata intrionfo, è chi ebbe l’idea diconservarla,ilpadre.

Delgiornoincui,unanno

prima, aveva conosciuto ilprofessore Amadeus Planikae da lui, con lui avevaconosciuto la Paletta diNarmer, Mattia ricordavatutto come fosse ieri. Perquesto, se non ricordava che

qualcuno di loro, iscritti alcorso di Placentologia cheiniziava quel giorno, avessechiesto al Professore di quelpadre, era perché nessuno diloro lo aveva chiesto. Comeloro scusante però, c’era dadire che a quel padre,anonimo braccio del Divino,aveva fatto più volteriferimento,eameraviglia, ilProfessore.

Devo aver sbagliato

indirizzoeIstituto,s’eradettoquel giorno, il primo chemetteva piede nell’istituto,perché in quell’aula non glisembrava che quelprofessore, che era poiproprio il professoreAmadeus Planika, sipreparasse a tenere laprolusione a un corso diPlacentologia.

All’apparire difatti dellaprima diapositiva sullo

schermo,nonavevaavutopiùdubbi:contantiIstitutidiunacosaediun’altrachec’eranoincittà, il tassistaavevafattoconfusione e lo avevascaricatodavantiaunIstitutodiEgittologia.La diapositivaproiettata sullo schermomostravadifattiunaTavolettadi Cosmesi funeraria, diquelle che venivano messenellatombadeiFaraoniperilloromaquillagenell’aldilà.

Però, anche per il fattoche non riusciva aconvincersi di avere davverosbagliato Istituto, prese ladecisione di restare e vederechesuccedeva.

Là, nell’aula dell’istitutodov’eracapitato,c’eraun’ariada cinematografo moltoeccitante, e non solo per ilfattocheallapareteerastesouno schermo grande quasicome quello di un cinema.

Una ventina di neodottori inOstetricia e Ginecologia,iscritti al corso diPlacentologia, all’impiedi frale sedie, tutti sorridenti,facevanounconfusovocìoinlinguediverse.

Il Professore, non ci sipoteva sbagliare, era quellaspecie di fenicotteroattivissimo, che sembravaspandere lui, dalla suapersona, l’eccitazione che si

avvertiva nell’aula, andandoavanti indietro dallo schermoalproiettore,dandoistruzionial suo inserviente (unlapponcinoconlafrangettadinomeKenio)odisponendosudi un tavolo lì accantomucchiettididiapositive.

Mattia era entratonell’aula che il Professore,fermandosiunmomentosottolo schermo, chiedeva aineodottori:

«A voi, signori dottori,piacciono le strips, i fumetti?»

«Certo che ci piacciono»gli avevano risposto in uncoro babelico, come sifosseroaccordatiprima.

«E i gialli, gli enigmi, imisteri,vipiacciono?»

«Eachinonpiacciono igialli,glienigmi, imisteri?»gliavevarispostodinuovoilpiccolocorobabelico.

Potrei unirmi anch’io alcoro, s’era detto Mattia. Glichiede se gli piacciono lecose che piacciono anche ame.Enondevorestarmeneasentire la lezione che sta periniziare, tutta a base didiapositive?Che lezione saràse c’entrano i fumetti e imisteri?

Dopo una pausa ilProfessore chiese ancora,senza aver l’aria però di

volerestupire:«Evipiaceanchel’antico

Egitto?»Chissà perché, anche per

l’antico Egitto chiedeva sepiaceva e non invece seinteressava,seattirava.Maselarispostafuancoraunavoltapronta, come sull’onda delleprime due, a coro, un po’goliardicamente, lo fu forsesoprattutto per quel verbo,piacere, riferito all’antico

Egitto, perché l’antico Egittonon può piacere certo comepiaccionoifumettieimisteri:

«Naturalmente, a chi nonpiace l’antico Egitto?»Sorridendone e come pergentilezza il Professore preseper buono anche quest’altrocorodisì:

« In tal caso » disse conunchediallusivonellavoce,non si capiva a cosa « nellediapositive che vi mostrerò,

troverete tutte insiemequestecose che vi piacciono. » (Ilprofessore Amadeus Planika,ricordava Mattia, portandocicomepermanosiaccingevaafarci scoprire da soli ungrandioso evento umano, unmiracolo di intuizione daparte dell’uomo, evento emiracolo che a metà e metàavevano a che vedere conl’egittologia e laplacentologia, o perlomeno

con la più lontana preistoriadi questa specializzazione,ritenuta ancor oggi da“cacciatori di farfalle”, ossiadaperditempo.)

Prima di far buionell’aula, ancora col sorrisosulle labbra, il Professoreaggiunse:

« Fate bene attenzioneperché alla fine ci sarà darisolvere qualcosa che non sisa bene nemmeno che cosa

sia, se giallo, se enigma omistero.»

Poi fece cennoall’inserviente in fondoall’aula, proprio di fronte alui, di proiettare la primadiapositiva e lui, mettendosidi lato allo schermo con unalunga pertica in mano, cessòdicolpodisorridere.

Fu subito chiaro che nonli avrebbe annoiati. Era dovevoleva arrivare che non era

chiaro, ma anche questoserviva a non farli annoiare.Senzaconsiderarepoiilsensodi aspettativa che avevacreato con quel giallo oenigma omistero, che avevadetto.

La prima diapositiva eraformata di due immagini. Siudì la voce del Professore,che se non tutti, Mattiaperlomeno, non sapevaancora di che cosa fosse

professore e solo in quelmomento credeva diapprendere che insegnavaegittologiaeinveceno:

«Queste due Tavolette diCosmesi funeraria noi lefacciamo vedere solo perchésudiessesimodellerà,quasiin tuttoeper tutto, lafamosaTavola di Vittoria delFaraoneNarmer,meglionotacome Paletta di Narmer. LeTavolette di Cosmesi, come

potete vedere, erano inardesia, simili a minuscoletavolozze per dipingere. Alcentro avevano un incavo,appunto come una tavolozza,incavo che conteneva unapolverecolorverdinacheeramalachitemacinata,dicuierafatto il truccodellemummie.Una Tavoletta di Cosmesipossiamo figurarcela quindicome una specie di beauty-case che veniva messa nella

tomba del Faraone perchépotesse rinfrescare il suomaquillage durantel’interminabile viaggio versoleregionideldioSole.»

Sulloschermoeraapparsala diapositiva dellaprotagonista, la Paletta diNarmer.

« L’essenziale novitàdella Paletta di Narmer chequi vedete » proseguì«consistette nel fatto che lo

spazio attorno all’incavo conlapolveredimalachitenonhapiù, come le Tavolette diCosmesi,motivi ornamentali,dipalmiziodianimali, leonileopardi iene bufali giraffestambecchi e persino cani dacaccia col collarino. Qui inquestospaziosonograffitelestrips che girando dall'unaall’altrafacciaraccontanoperimmagini il corteo trionfaleche3500anniprimadiCristo

si svolse nella città diHierakonopolis nel BassoEgitto in onore del FaraoneNarmer che tornava dallamemorabile vittoria ottenutasul “popolo degli arpioni”,misterioso popolo marinaro,forse scandinavo, vichingo,scapolato forse nelMediterraneo navigandolontanodallapatrianon si sadiprecisoperché.»

Nell’aulaeracominciatoa

farsisilenziopieno,senzapiùnessunissimobisbiglio.

« Le strips sono tre,questa la prima, questa laseconda, questa la terza »andò indicando il Professorecon la pertica. «Quella delgraffitodelcorteoèlaprima,la seconda e la terza lapreparano. Per due voltedifatti, in particolari attinentialla sua vittoria sul “popolodegli arpioni”, ecco, qui e

qui, vi ricorre la figura delFaraone che avrà il piùgrande spicco nella strip delcorteo, la prima comecollocazione, la terza comesviluppo del racconto: sottoforma di toro, Io potetevedere,abbattelemuradiunacittà fortificata, calpestandocontempocolpiedeilbracciodiunnemico;einsembianzeumane, vedete? in atto dicolpire un nemico che tiene

pericapelli.»A questo punto

dell’esposizione,l’inserviente, istruito dalProfessore, proiettò tutta unaserie di diapositive diparticolarichedetteroatuttiipresentilavivissimaillusionecome di esserci di persona aHierakonopolis.

Nellasecondaeterzastripsi vedevano i particolari odettagli di uomini o animali

esotici in scene da circo e innumeri d’attrazione delgrandebaracconespettacolaremontato nella città perl’occasione.Inundettagliosivedeva, come se ne potessesentireilpuzzo,lalottadidueanimali, dalle caratteristichedi puma o pantere, se nonfosse stato per il collo cheavevano smisuratamentelungo e che nella lotta siattorcigliavano l’un l’altro in

modo tale che alla fine delcollo le teste si ritrovavanomuso contro muso,bellicosamente. Due uominicol pizzetto, forse domatori,stavano come in equilibriosulle code ricurve in dentrodei due animali e con dellepertiche si sforzavano disgrovigliareiduecolli.

Ma il particolare piùsensazionale perché piùdrammatico, che poteva

appariremanoneraancorailcloudelgrandeCircomobileche sfilava per le vieaffollatissime diHierakonopolis, era quello incui si vedeva il boiasovrastante i prigionieri del“popolodegliarpioni”.Sopraungigantescocarroattrezzatocome un palco per leesecuzioni, i prigionieri chestavano in catene, a terra, ailati del carro, si succedevano

uno dopo l’altro, propriocome in fotogrammi(quest’illusione dava ildettaglio), per esseredecapitati. Nel particolare sivedevano i loro corpi senzapiù la testa (sistemata fra iloro piedi) ammucchiati inbell’ordineinfiledicinque.

Alla luce del proiettoreMattia vedeva i visi intenti,immobili dei suoi colleghiche a quel punto, un punto

altamente drammatico, sierano forsemessi alla cacciadell’enigma,allasoluzionediquel giallo o mistero chefosse.

Venneropoilediapositivedella figura del Faraone chespiccava soprattutto per laquasi esagerata statura e poiper l’eccentricoabbigliamento, innanzituttoperlacoro-na.Inunodeiduedettagli a lui dedicati, la

corona era quella del BassoEgitto, a mo’ di fez o diberretta da notte, nell’altroeraquelladell’AltoEgitto,uncopricapo sormontato da unaspirale a rientrare, aconchiglia. L’eccentricitàdell’abbigliamentoeradigranvista poi in una specie digonnellino con qualcosacome una coda che glipenzolava sul didietro. E poiancora per la mazza che

tenevanellamanodestrae loscudiscio che teneva nellasinistra.

Nei dettagli del Faraonerientravano anche, unodavanti, uno di dietro, dueomettichearrivavanoappenaai ginocchi del Faraone, conla testa sproporzionatarispettoalcorpominuscolo.Idue ometti portavano fra lemani e sui gomiti come cosepreziose, uno un paio di

sandali, l’altro un rotolo dipapiri e uno stilo. Erano,comesepperodalProfessore,il portasandali e ilportaoccorrente per scrivere,due alti dignitari dellaCorte,malgradolastaturadipigmei.

Qui il Professore,appoggiata la pertica allaparete,raggiunsel’inservienteche stava al proiettore e là,rimanendo al buio l’aula,tanto silenziosa che davvero

si poteva sentire volare unamosca, passò qualche temposenza che apparissero altrediapositive. Fu come untempodisuspenseincuitutti,almanaccandosi di certo lamente sull’enigma (qual era?dov’era?), sembravanotrattenereilfiatoinattesachele proiezioni riprendessero.Che ripresero dopo che lavoce del Professore,nemmeno tanto alta, anzi

bassa semmai, come per nonturbare la suspense che s’eracreata,disse:

« Qui, signori dottori,prestatemi, vi prego, ilmassimodell’attenzione.»

Apparve allora sulloschermo una diapositivagrande anche questa quantolo schermo, che detteanch’essa l’illusione come diesserciaHierakonopolis.

«Inquestadiapositiva»,il

Professore la stavaillustrando, «alla testa delcorteo, poco più innanzi delFaraone, preceduti nellasfilata solo dal carro delleesecuzioni, avanzano iportatori delle Insegne dellaDinastia del Faraone. Iportatori sono altri quattro diquei pigmei. Le lunghe asteche tengono sollevate, hannoin cima degli appoggi:collocati su tre di tali

appoggi,stannounfalco,unafalchessa e una volpeimbalsamati, le prime treInsegnedellaDinastiadelneoFaraone. (Dinastia, va dettoperché non è stato ancoradetto,chenasceconluieconlui morirà. Narmer difattifigura in un Elenco di Redell’Antico Impero: SecaChaju Jesh ScorpioneNarmer, che non furonoaccolti nei successivi

Elenchi.) Quelle tre sonodunque le uniche Insegneesistenti e riconoscibili dalpopolosinoalcorteotrionfaledi Hierakonopolis. Èl’insegna che stasull’appoggio della quartaasta, per il fatto innanzituttodi essere una quarta Insegnamai esistita della Dinastia,cheappareinveceinassolutocomeunmistero.»

Nell’aula si riaccese la

luce sulle parole delProfessore che aggiunseancora:

«Ed ecco il giallo,l’enigma, il mistero. Voleterisolverlo?» con una voceperòcomecisperassepoco.

Mattia,cheavevaappresoallora allora di non averesbagliato Istituto néprofessore, vedeva i suoicolleghi gettarsi inquell’impresaconentusiasmo

ma anche con moltasuperficialità e faciloneria, epensavachemenomalechelasoluzione il Professore laconoscevagià.

Dai dottori difatti vennesolo una sfilza di nomi dianimali perché il falco lafalchessa e la volpe gliispiravano solo nomi di altrianimali. Lo schermo eratornato bianco e loropregarono il Professore di

proiettarvidinuovosopraedilasciarcela, ladiapositivaconle Insegne. Si spense ancorala luce nella sala e riapparveladiapositiva.

Si udirono ancora perònomi di animali, anche dianimali assurdi, grotteschi,ridicoli a immaginarseli incima a quell'asta, come ilcammello, l’elefante,nominati evidentemente alsolo scopo di farsi qualche

risata,chenemmenocifu.IlProfessoreaquelpunto

fece riaccendere la luce,lasciando però la diapositivasullo schermo, anche se laluce la smangiava ecancellavaingranparte.

Passòqualcheattimoefuvisto sfogliare un volumerilegato in verdino, presodalla libreria che stava a unadelle pareti lunghe della saladov’erano riuniti. Trovata la

pagina, consegnò il volumeall’inserviente e glielo fecepassare fra i dottori, apertodoveluil’avevaaperto.

« Quello che sto facendogirare fradivoi» spiegò«èuntrattatodiegittologiaeditoin Italia, L’Egitto, opera didueegittologi tedeschi, i loronomi li vedete, non occorreche ve li nomini. Voi che vistateprovandosenzasuccessoadecifrarel’enigmadiquella

quarta Insegna, dateun’occhiata ora alladidascalia della Paletta diNarmer. Vi renderete contoche il mistero è tale chequell’insegna persino agliocchi esercitati degliegittologi, non solo di questidue tedeschima di tanti altridiloro,senonditutti,risultaaddiritturainvisibile.»

Mattia,quandoebbeluiilvolume fra le mani, tradusse

iningleseperquellicheglisifecero intorno, il suo stuporeelasuaincredulitàperquelladidascalia:

«Direcheidueegittologi» disse riferendone ilcontenuto ai suoi ascoltatori«non rivelano la natura dellamisteriosaInsegna,èniente,ècomedireuneufemismo.Essinon la nominano nemmenonévifannoilbenchéminimoaccenno. Per essi la quarta

Insegna, con tutta l’asta etutto il pigmeo portatoredell’asta, non c’è, èinesistente.»

Un effetto però lo sortìquel vedere la Palettariprodottalànelvolume,sottogli occhi, anche se assai piùinpiccolochesulloschermo.

Unodeidottoriamericanise ne ispirò per nominareancora un animale, lamarmotta, che stranamente

nessunosinoaquelmomentoaveva nominato pur essendostatanominatatuttaoquasilafaunadelmondo.

All’Insegna misteriosapendeva difatti qualcosa chepoteva far pensare a unacodona rigonfia dimarmotta.Furicordatoallora,aconfortodel nominato roditore, ilcopricapo delle Marmotte, ilcorpo dei giovaniEsploratoridel quale fanno parte anche

QuiQuoQua.Insalasisentìridere,senzaallegriaperò.

Tante voci, alla fine,fingendosi avvilite (ma loerano davvero, abbastanza,senza bisogno di fingere)imploraronoilProfessore:

«Celosvelileiilmistero,professore, please. » Quandolevocitacquero,ilProfessoreriprese la pertica come perrendersi disinvolto, maapparve lo stesso impacciato

e suo malgrado un po’solenne quando disse: «Quella quarta Insegna dellaDinastia faraonica è unaplacenta,unaplacentaumanacol suo cordone ombelicaleche pende dall’asta. È laplacenta dello stessoFaraone» disse toccando con lapertica prima la placenta incimaall’asta,poilacoronaintestaaNarmer.«Èperquestoche due placentologi,

Seligman e Murray,chiamarono quella quartaInsegna “la testimonianzasegretadelFaraone”.»

Tutti avevano sentitobene: placenta, ma sentirebene placenta una sola voltanon bastava per credere aquello stupore di cosa cheavevanosentito.Sicché:

« Placenta? Placenta? »chiesero ancora da un puntoall’altro della sala come

avessero sentito male,facendo a lungo, ancora unavolta,babele.

«È la placenta» andòcontinuando il Professore«che suo padre gliimbalsamò, anch’essa forsecon aloemirra e zafferano, eche il Faraone, elevandola aInsegnadella suaDinastia, siporta nel suo trionfo. » Edicendo la stessa cosa conparolediverse:«Èlaplacenta

che il padre di Narmer, chenon era Faraone, ma unnessuno, imbalsamò allanascitadiquel figlio, cheeraunnessuno figliodinessuno,macheadulto,perlesuevirtùdi condottiero, divenneFaraone. Cosa che il padrenon poteva certo prevedere,eppure, come per divinadivinazione, sembrerebbe disì».Eancora,ancoraconaltreparole, di tipo definitivo,

memorabile:«Èunaplacentae lontana da noi ognitentazione rettorica, unmonumento dell’intuizioneumana».

C’è sempre qualcuno inquesticasichefaladomandache gli altri hanno boccabocca:

«Monumento a chi, acosa,professore?»

« All’imprinting,naturalmente.Unmonumento

a qualcosa che sarebbe statoscoperto millenni e millennidopo il corteo trionfale diHierakonopolis.L’imprinting,appunto.»

Mattia, come tutti i

dottori, riteneva a quel puntoconclusa, e conclusa inbellezza, quella prolusioneche aveva riguardato quellasortadicosacheeralaPalettadi Narmer. Ma c’era ancoraun’appendice, due appendici

piùprecisamente, legate tuttee due, anche se in modidiversi, a Kenio, illapponcino pettinato apaggetto che faceva dainserviente sopra e sotto.(Nell’appartamento delProfessore e nell’istituto,dove la sua mansione piùdelicata era la cura deilaboratori che andavanosbarazzati la sera delleplacente “da lavoro” già

sfruttate e riforniti lamattinadiquellenuove.)

Laprimaappendice,sottoforma di un grande volumerilegato in rosso fiamma, sitrovava in braccio al piccololappone che si era appisolatoaccanto al proiettore dopo ildaffare che si era dato aproiettarelediapositive.

Il Professore, fra l’uno el’altro dei dottori chel’attorniavanoalsuotavoloin

un crocchio fìtto fìtto, avevadovuto vederlo che dormivacolcapocadutosuldorsodellibro.Avevaaspettato,sinchéalla fine, attraversando lasala, gli si era avvicinatosfilandogli a poco a poco ilgrosso volume dalle bracciasenza nemmeno svegliarlo.Tornando, col librosottobraccio come un trofeo,l’aveva tenuto alzato qualchemomento per far leggere a

tutti il titolo, The humanplacenta, e i nomi dei dueautori,BoydeHamilton.

« Quello che di egizio »dissepoiaidottorinicheluieloro e loro fra di loro, sivedevano da vicino per laprima volta « un testo diegittologia tace, ce lo svelaun testo di placentologia,questo,questocheèilGrandeLibro della placenta. Subitoqui, alla prima pagina, come

potete vedere, riproduce,quasi formato francobollo,talmente si ritiene nota, laPaletta di Narmer e svela lanatura per noi tuttorainsondabile, tuttoraimperscrutabile dellaplacenta. La svela, la fasvelare a mezzo dei duesinonimi cui Frazer dettepubblicità nel 1923: “Bundleof Life” e “External Soul”.»(Mattia tradusse, il primo

“Bandolo della Vita”, lagrande matassa la Vita, e ilsecondo “Involucrodell’Anima”.)

Invece di osservare sulvolto dei dottorini che glistavanointornol’effettocheidue sinonimi gli facevano aloro, il Professore chiuse gliocchi come per vederel’effettocheglifacevanoaluiperl’ennesimavolta.

«Non si potrebbediredi

più di Bundle of Life e diExternal Soul per alludere aun qualcos’altro che è nelmisterodellaplacenta»disseancora come soliloquiasseriaprendo gli occhi e tuttunorialzandolisulloschermoallaparete dove la placentamummificatadiNarmerstavaincimaallaquartaasta.«Dipiù si potrebbe dire solodicendo del ChorionFrondoso,l’AlberodellaVita

che cresce lussureggiantesulla Faccia Materna, ed èabbozzo precursore ecapostipitedellaplacenta.»

Che era la prima volta,una data storica nella lorovita,notavacommossoMattiaa quel ricordo, che sentivanoparlaredelChorionFrondoso,con parole che pronunciatedalla bocca del Professore,sembravano ispirate dallamentestessadelCreatore.

L’altra appendice fu percosì dire appendice dellaprima appendice. Perchéanchequest’appendiceebbeache fare con Kenio, se noncon le sue braccia, colle suemani.

Svegliatosidisoprassalto,ancoracon lamenteconfusa,non ricordando più nulla diun attimo prima, la vista delproiettoredovetteriportarloallevare e mettere diapositive

cheavevafattocollesuemanicome un automa, sicchés’intrafficòtuttodinuovoconquelle che stavano lì accantosuun tavolino,proiettando laprima che gli vennesottomano. Sfortunatamenteera una diapositiva delmucchietto di quelle che ilProfessore gli avevaraccomandatodinon toccare.Luispenselaluceinsalaelaproiettò.

I dottori attorno al tavolodelProfessore, stupiti, videroimprovvisamente proiettatasullo schermo sopra la lorotestaunascultura,ilritrattodiquella che sembrava unabambinasedutaintronocollemani sui ginocchi. Quellafigura esile, sottile, di altastatura, i tratti del piccoloviso delicatissimi, i seniappena accennati, sembravanient’altrocheunabambinao

poco più, un’adolescente invia di sviluppo. Era lacopertina di un libro, cioèl’idea grafica di unacopertina. Autore, AmadeusPlanika. Il titolo stava soprala figura di bambina seduta:Hatshepsut e sotto, in unaparentesi: (Splendore emiseria della placenta).Mancava l’editore, ma sec’era l’idea grafica dellacopertina, il libro doveva

essere ormai in corso distampa. Ma Hatshepsut chiera? La bambina dellascultura riprodotta? O quellabambina non c’entrava perniente col titolo? Questacomunqueèunacuriositàchepuòveniredopo,sidovetterodireMattia e i suoi colleghi.Intanto, stando a quello cheera esplicito nella parentesi,quella doveva essere unamonografiasullaplacenta.

Col solitocorobabelico idottori s’affrettarono acomplimentarsi colProfessore, a fargli festa,stringergli lamano.«Mano,mano.»IlProfessoretentavadi dire qualcosa, di spiegare,ma oltre a quel “ma no, mano”nonlofacevanoandare,onon ce la faceva lui adandare.

Gli chiedevanose il librosi trovavagià in libreria e se

quello, Hatshepsut, era iltitolo che dovevanorichiedere.«Mano,mano...»Il Professore aveva propriol’ariaangosciata.

«E Hatshepsut,professore? Cos’èHatshepsut? Un sinonimodellaplacenta?»

Il solito, quello-che-fa-le-domande, aveva fatto anchequesta e il Professore dicevafinalmente qualcosa di più

chemano,mano:«Hatshepsut»disse,atono

come se si vedesse alla fìnemessocollespallealmuro«èegizio e la sua traduzioneletterale è “Colei che vadavanti alle nobili”.Enfatizzando però si puòanche dire “Cima dellenobildonne” ed è così che iohosempredetto.»

Stando al titolo scrittosulla copertina del suo

mancato libro, Mattia e glialtri che ne erano aconoscenza, presero quelnome sinonimo per unsinonimo della placenta e cifu naturalmente chi si chieseperché quella Hatshepsut erauna Cima delle nobildonne.Dandoqueltitoloalsuolibro,fu quello che molti non sitrattennero di dire, ilProfessore aveva pensato diportare anche lui nel suo

trionfo (come dire nel suolibro)laquarta

Insegna della suaDinastia. Ma Hatshepsut eragià in egizio nome sinonimodellaplacenta?

Ma no, ma no, avevaripresoafarepiùcheadireilProfessore. E poiché quellochefacevaledomandeavevadovuto andarsene, ilProfessore continuò con quelmano,mano,cheauncerto

punto non sembrò il suomodo debole-forte, indeciso-deciso di rifiutarsi a ognispiegazione con loro, ma ilsuo modo di protestare conKenio per la suasbadataggine.

Ma come succede franuovi amici che quandol’amicizia è cresciuta, sonoportati a farla crescere anchecon le confidenze reciprochedi quando nel passato

l’amicizia non era ancoranata,ilpomeriggiodiunfinesettimana che erano ormaiduemesichefrequentavanoilcorso di Placentologia estavano a prendere il caffè-lappone, ilcaffèpreparatodaKenio,dovetteesserecomeseil Professore si dicesse:perchémano,mano?masì,ma sì invece. E intanto chefumava assortamente la pipaeforserivedevailsuopassato

nelle volute di fumo, attaccòa parlare di quel suoinnamoramento giovanile,attaccòpropriodalì,comeciavesse pensato tanto dicontinuoaquelgiorno,aquelmomento, che nella suanozione del tempo era comenon se ne fosse maiallontanato.

« Hatshepsut, Cima dellenobildonne perlappunto, fudunque l’unica donna che

regnòcomeFaraonedal1511al 1480 avanti Cristosull’Alto e Basso Egitto.Hatshepsut, che solo unavolta, in una stele arenaria,compare in costume regalemaschileconilkheperescsulcapo, fu grande Faraone nonmeno dei grandi Faraonimaschi. Il suo fu il regnodellapacetrionfante, ilregnodella più meravigliosafioritura delle arti, dalla

pittura alla poesia,all’architettura.

« La mia vicendapersonale con Hatshepsut sifa presto a dirla, anche severràdettamaleperchénonèunavicendadadireaparole.

« Lessi la prima voltaHatshepsut,nomesinonimo,ela sua traduzione letterale,“Colei che va davanti allenobili", non mi fece ungrande effetto. Lessi poi la

sua traduzione enfatizzata,“Cima delle nobildonne”appunto, e questa, devo dire,leggerla e trasferirla allaplacenta per me fu tuttuno.Restai sbalorditopercomesiattagliava a lei, per comeesprimeva aimiei occhi tuttala nobiltà che io pensavo dilei. Sembrava addirittura unsinonimo concepito per lei.Dopo, basterà dire, al suoparagone Bundle of Life e

External Soul che davveroerano stati concepiti per lei,mi risonarono all’orecchioaddiritturaartefatti.

« Al consolidamento diPlacentaHatshepsutcontribuìpoiquello cheperme,moltogiovanealloraefantasioso,fuun avvenimento eccezionale,conobbi Hatshepsut. Così lamia Cima delle nobildonneebbe le sue fattezze e colsinonimo anche il nome,

PlacentaHatshepsut.« Feci un lungo viaggio

da una costa all’altra degliStati Uniti per andarla aconoscere al MetropolitanMuseumdiNewYork.

«Vidi con stupore chequella che aveva regnato perpiù di trent’anni da Faraonesaggio e illuminato, aveval’aspetto e l’età, poco più,poco meno, diun’adolescente,

un’adolescente però dallosguardo di dominatrice distorici eventi, lo sguardo dichiprecocementematurata,siera da sé, da sé femmina,destinataal tronodeiFaraoniquando su quel trono ci furischio che salisse il suofigliastro, Thutmosi,maniacaleguerrafondaio.

«Dopo aver conosciutoHatshepsut, il suo sinonimomi piacque ancora di più.

Perché la mia Cima dellenobildonne potevo ormaifigurarmela in quel donnino-FaraonevistaalMetropolitanMuseum su di un trono dicalce emalta che per il fattoche ci stava seduta lei, amesembròdialabastro.

«HatshepsuteHatshepsutPlacenta, non occorrerebbenemmeno rilevarlo, altro cheme non avevano in comune,me che adoratore della

placenta, avevo trovato didichiararenelnomesinonimodell’unica donna Faraone,Cimadellenobildonne,qualenobile donna,incomparabilmente superioreatuttelepiùnobilidonne,siaquella che è ritenuta ed ètrattatacomelapiùvile,comela più vilipesa creatura dellaterra.

« Oltre a me però,Hatshepsut e Hatshepsut

Placenta avrebbero avutoqualcos’altroincomunefradiloro e fu la sorte che ebbeHatshepsutdopolamorte.

« Alla morte diHatshepsut difatti, Thutmosi,divenuto Faraone e subitorivelatosi per quello che era,tentò furiosamente didistruggere ogni ricordo dilei, di cancellare ogni tracciadel suo regno, spingendosiaddirittura sino al punto di

fare raschiare i graffiti doveHatshepsut era raffigurata.Solo una parte però di queigraffitifuronoraschiati.Oltrealle statue che larappresentano, fra cui quellache io vidi al MetropolitanMuseum, restarono salvi igraffiti della Sala dellaNascita nel suo tempiofunerarioaTebeequellidelleCappellediAnobiediHathordove si vede Hatshepsut

succhiare alla mammelladelladivinamucca.

«Questofattoreseaimieiocchi più intimol’accoppiamentoHatshepsutePlacenta Hatshepsut per ilfatto che quello che successead Hatshepsut morta, allaplacenta succede sempreappena espulsa. Perché, unavolta espulsa, una volta chenon serve più, diventiamotutti dei Thutmosi con lei.

Tentiamo di cancellare ognitraccia, persino ogni ricordodel suo passaggio, ognitraccia, ogni ricordo dellaparte da lei svolta, parte dipremadre, nel creare unacreatura. Tentiamo insommadi farla scomparire,gettandola nella spazzatura oa mare o sotterrandola,oppuremangiandola, che è ilmodo più sicuro di farlascomparire, mangiandola

come gli Esquimesi che lamangianocruda,ancoracaldafumante, o come certe tribùafricane, seccata e macinata,cottacomepane.

«Hatshepsut(Splendoreemiseria della placenta) e incopertina la riproduzionedell'indomabile fanciullaseduta sul trono dei Faraoni.Untempopensavocheprimao poi l’avrei scritta, quellamonografia sulla placenta,

con quel titolo e sottotitolo,ma sono passati più ditrent'anni e il libro non l’hoancora scritto né ormai loscriverò. Ma non importa.Restailfattocheintantianninon ho mai smesso dichiamarla PlacentaHatshepsut. È stato sempremoltobellopermedirleCimadellenobildonne.Èstatoognivolta come rivolgermi a unadivinità, alla dea di tutte le

nobiltà.»

Inaspettatamente invece

quei punti di sutura ebberotermine.

«Dopo aver accostato ipieni sottocutanei a puntistaccati, faccio una suturaintradermica acompletamento dell’atto

chirurgico»: Belardo finivacosìdieseguirequantoavevadichiarato.

Fatto il nodo a fiocchettoe tagliato l’avanzo di catgut,le sue due strumentiste glitoglievano dalle mani unal’ago, l’altra poi le pinze.Belardosembròrestarealloracome incantato, con lamanosinistra nel gesto di ricevereancora lepinzediPeandallasuaprimastrumentista.Fuun

attimo e poi si scostò dallettino operatorio, girandosiper uscire da sotto il potentegetto di luce della scialiticaed entrare nell’ombracircostante. Mentre andavaritirandosi nell’angolo piùbuio della sala operatoria,dove c’era uno sgabelloaccanto ai contenitori dicamici, teli e pannoliniverdini, dette un’occhiataall’indietro, verso il lettino

operatorio. Là, sotto lascialitica, solo uno deglianestesisti continuava atenere intubata la paziente.Subito dopo però, tutto ilgrosso dell’équipe, assistentiinfermiere e inservienti,dall’ombra dov’erano statisino allora, vennero sotto lascialiticaattorniandoillettinooperatorio. Belardo allora,quasi invisibile, dall’ombradichiaravalamossachestava

per eseguire uno dei suoiassistenti che era andato amettersi di fianco allapaziente:

«In questo momento ilmio primo assistente staspennellando di tinturadisinfettanteipuntidisutura.»

Laggiù, all’angolo vicinoaicontenitoridovel’ombrasifaceva buio e dove i gestis’indovinavano più che

vedersi,una inservientestavaaiutando Belardo a liberarsidella cuffia e dellamascherina di garza, deiguantidigommamacchiatidisangue e del camice,macchiato anch’esso disangue. Belardo restava inmaglietta (nel buio se nedistingueva il bianco sullasiluette), scuoteva il capo,sembrava sbuffare per ilsudorecheglicolavadatutta

la faccia. L’inserviente glistava davanti, tenendo forsefra le mani un altro camiceverdino,presodalcontenitoresterile lì accanto, ma luiaveva bisogno d’un primo ed’un secondo pannolino perasciugarsialungolafaccia.Epoi continuava a stare inmaglietta lasciandol’inserviente col camice inmano. Si alzò, premette sulpedale del contenitore, prese

dal contenitore un terzopannolino e anche quello sipassò e ripassò sulla faccia.Da lì, da quell’angolo buiodella sala operatoria, sedutosullo sgabello con quel terzopannolino sui ginocchi, parlòancora inaspettatamente nelmicrofoninoappesoalcollo.

«Questo appena conclusoè il primo dei tre tempidell’intervento, un tempotutto addominale: incisione

trasversa, esplorazione dellacavità peritoneale, conestrazione delle gonadi. Untempopreliminarealsecondotempo che è il tempo dellacostruzione vera e propriadella neovagina.Fra il primoeilsecondotempocisaràunintervallo di non meno diquindici minuti durante iquali la mia équipe micambierà di posizione lapaziente e la stessa équipe si

cambierà camici e guantisterili.»

Questo dunque, ricordòMattia, sarebbe illunghissimo intervallo fra ilprimo e il secondo tempo oatto,standoaquantomidisseBelardo, del curiosoandamento teatrale diquest’intervento che diteatrale aveva, perlap-punto,anche il suo bell’intervallodurante il quale gli (“mi”

aveva detto Belardo, con unvanaglorioso dativo divantaggio, da primattore)cambiavano di posizione lascenaunicacheerapertuttietre gli atti il corpo dellapiccola Amina stesa sullettinooperatorio.Etantoperintonarsialteatralecheancheper gli spettatori c’era inquell’intervento, i pochistudenti e non, si erano giàallontanati in fretta

dall’anfiteatro,direttialbaroalfoyer,naturalmente.

“Di solito” gli avevaanche detto Belardo “io neapprofitto per riprendere leforze, mettendomi da pane,tutto solo, senza un pensierointesta.”

Anch’io, proseguì lui sulverbo di Belardo, ne potreiapprofittare per andarmeneprimachecominciilsecondotempo, senza disturbare

nessuno. Difatti, che ci sto afareancoraqua?Nonsononéuno studente né uno dellafamiglia del fidanzato omarito della ragazza, nonsono neanche un vero oproprio amico, nientegiustifica la mia presenza inquest’anfiteatro.

Il fatto era che, comespesso gli succedeva, nonaveva avuto la presenza dispirito per girare le spalle e

andarsene subito dopo cheBelardo lo aveva presentatoall’Emiro, stando lui,Belardo, con un piede giàdentrolapresalaoperatoria,eloro, lui Mattia l’Emiro e letre cosiddetteMogliAnzianedell’Emiro, ai piedi dellarampetta di scale cheportavanosuall’anfiteatro.Inquel momento s’era sentitocome trattenutodall’andarsene da quelle

parole sull’apologo diMaometto e della Montagnache l'Emiro gli aveva rivoltostringendogli la mano. Unaqualsiasi cosa, altrettantogentile, non posso non dirla,era andato pensando in quelmomento, anche se sarà soloper dire che Maomettoringrazia la Montagna per ildisturbo che s’è presovenendo lei da lui ma lui lostesso non se la sente di

seguirla. Era stato allora, perquesto,chenonavevasaputocogliere l’attimo giusto persalutare e infilarsinell’ascensore che era lì alpiano. Con l’Emiro che glicedeva addirittura il passo elui che lo cedeva a sua voltaalletresignore,s’eraritrovatoinvece chiuso nel mezzo delpiccolo gruppo che salivaanche lui nell’anfiteatro, chesaliva e intanto pensava: una

volta che sarònell’anfiteatro,non posso non assistereall’intervento, perlomeno alprimotempo.

Belardo che prima dientrare nella presalaoperatoriaavevaassistitoallascena,dovevaaddiritturaaveresultato di vederlo salirenell’anfiteatro con l’Emiro.Questo perché innanzituttoMattia l’avrebbe visto anchelui all’opera nella parte del

chirurgo sostituto delCreatore in quell’interventoche definiva senza nessunacarità “un trionfo delloPseudo”. (“Un dramma”aveva detto anche questoBelardo quella mattinapresentandogli l’intervento“dove noi recitiamo la partedi pseudi creatori illusi dicreare quello che il Creatorenon creò. Sicché, pseudol’ermafroditismo della

paziente,pseudinoi,lostessodramma si risolve fatalmenteinuntrionfodelloPseudoconla P maiuscola.”) E questoancora perché avrà pensato:seMattiasièdecisoaseguirel’Emironell’anfiteatro,sisaràpure un poco deciso aseguirlonelsuoEmirato.

Dicevadi approfittaredellungo intervallo perandarsene,perònonsubito,sidiceva ora, ormai poteva

restare ancora qualcheminuto. Inquelmomentopoinon se ne sarebbe sentitol'animo. Con la codadell’occhiodifattiavevavistosbalordito che il trio dellecosiddette Mogli Anzianedell'Emiro non erano più alfianco del loro principe. Perquanto strano, tutte e treinsieme, pensò» sarannoandate alla toilette. Oppure,ma credeva meno a questo,

saranno scese anch’esse albar. Era sorprendentecomunque che si fosseroallontanatetutteetreinsieme,lasciando solo il loro signoree marito. O fecero conto,pensòancoraMattia,checonme in anfiteatro non restavasolo?

«Siamo ancora aipreliminari del cambiamentodi posizione » prendevatutt’all’improvviso in quel

momento a dichiarareBelardo nel suo microfoninodall’angolobuiodove sedevasullo sgabello. « La nostrapaziente che l’anestesistatiene sempre in profondanarcosi, intubata, facendolarespirare nel “pallone”, dallaposizione addominale delprimo tempo verrà messa inquella propriamente vaginaledel secondo tempo. Primaperò, la libereranno dei teli

sporchi di sangue che lacoprono.»

La numerosa équipe disala (i due assistenti, le duestrumentiste, le dueinfermiere inservienti) eraandata intanto raccogliendosisotto la scialitica ai lati dellettino operatorio. Le dueinfermiere tiravano via i teliverdini, scoprendo il corpodella ragazza, la sua piccolanudità abbagliata dalla luce

comedaunpotenteriflettore,un corpo come fosse appenafuori del suo sviluppo diadolescente e al quale ladepilazione del pube e dellecosce dava una crudaapparenza di immaturità,un’impressionecheagliocchidi chi la guardava, sembravacrudelmente sottolinearel’assoluta impossibilità diessermaidonnadiquellacheera(unpo’più,unpo’meno)

una bambina, priva di uterotubeovaieevagina.

« A questo punto »riprendeva a dichiarareBelardodalsuoangolobuio«i miei due assistentiprovvedonoallosvuotamentodella vescica della paziente,introducendovi del blu dimetilene diluito, perchéquestoliquidofaràdaspianelcaso in cui durantel’interventolavescicavenisse

adesserecruentata.»Passava un certo tempo,

parecchi di quei quindiciminuti, e quando i dueassistentifinivanodieseguirela delicatissima mossariguardante lo svuotamentodella vescica, Belardodichiaravaancora:

«Le due infermieresollevanoadessoallapazientele gambe e il bacino e ledisinfettano i genitali esterni

el’ano.»Le due infermiere

eseguivano e Belardocontinuava:«Aquestopuntoil lettino operatorio vieneinclinato e viene abbassato ilsupporto che prolunga illettino. La paziente è statasinora in posizioneclinostatica, coprendo con lapienezza del suo corpo tuttala larghezza del lettinooperatorio. In lunghezza poi

supera di tanto il lettino chele gambe, dal ginocchio ingiù, le penzolano fuori delsupporto.Oltreall’anestesistache provvede a sostenere ilcolloeilcapodellapaziente,contempochecontinuaafarlarespirare nel pallone, ci simettono in quattro, i dueassistenti e le duestrumentiste, per cambiare diposizione la paziente,operazionemoltopiùdifficile

ecomplessadiquelchepossasembrare.Idueassistentieledue strumentiste, con unaserie di piccoli, delicatispostamenti, quanto piùlentamente possibile, perquindici interi minuti, dallaposizione clinostatica lapassano in quella che vieneimmaginosamente dettaposizione litotomica,posizione cioè della “pietrada tagliare”. Le due

strumentiste, da dietro, lasollevano per le spalle,mentreidueassistenti,standolateralmente al lettino, lesollevano bacino e cosce. Lecosce vengono contrattesull’addomeelegambeflessesulle cosce. Il bacino cosìviene a sporgere di circa 3/4centimetri aldifuori dellettino,percuiaquestopuntoil supporto del lettino cheprima serviva ad appoggiarvi

sino ai ginocchi le gambedellapaziente,vienetolto.Lapazienterestacosìcoigenitaliesterni e con l’ano alloscoperto, come rattrappita esospesanelvuoto. Infermieree inservienti la ricoprononuovamente di teli verdini,tuttoilcorposinoallecosceealle gambe, lasciandoscoperto solo un piccolovarco a losanga,comprendente i genitali

esterni e l’ano, ossia tutta lazonaperineale.»

Belardo, in due minuti,aveva finito di dichiararequella mossa che i suoi dueassistenti e le sue duestrumentiste ci avrebberomesso non meno di quindiciminuti a eseguire. Anzi,l’operazione di cambiamentodi posizione, da come eracominciata, c’era da pensarechesarebbeandatabenoltrei

quindiciminuti.Perché,perilfatto forse che visti dall’altoqueglispostamenti,giàdipersé imponderabili, risultavanoirrilevanti agli occhi comenon avvenissero nemmeno,l’operazioneeracominciataecontinuava come una scenada film slow-motion o unascena che per il fatto disvolgersi dietro un vetro sisvolgesseinunacquario,conmovimenti delle braccia

lunghi e frenati, come seimpotentemente evoluiti, conquelle otto mani, quattro daunlato,quattrodall’altrolatodel lettino, che più chetoccare il corpo nudo eindifeso, come morto, dellapaziente (che col suorespiratore sulla faccia daval’impressioneleiperprimadistare sott’acqua) sembravanosolo sfiorarlo con la puntadelle dita, come se

trattenendo il fiato,accennassero solo asmuoverlo senza di fattosmuoverlo.

Erano ancora soli

nell’anfiteatro, Mattia el’Emiro, soli con gli studentiviavia rientrati, quandoBelardo finì di dichiararequellamossa.

L’Emiro era stato asentirlo a occhi chiusi. Era

indietreggiato e si riavvicinòallavetrata:avevada fareunsolopassoe lo fececomenesoppesasse le conseguenze.Unavolta lì, siappoggiò,macome la sfiorasse appena,colle mani alla vetrata comevolesse entrarci dentro esporgersi per vedere almeglio, con la commozionedelforte,quellochefraalcuniminuti sarebbe successo,quando la sua Amina veniva

cambiata dalla posizionelunga distesa in quella, coigenitali esterni e l’ano sullastessa linea, detta della“pietradatagliare”.

Mattia sperava che le treMogli Anziane tornasseroprimacheidueassistentieledue infermiere arrivassero aquellaposizione.Figuriamociquanto sono anziane quelletre signore, borbottava.Scompaiono tutte e tre senza

che se ne veda il motivo.Signorinelle, teste fresche,altrochéMogliAnziane.

Intantoc’eranodapassarein silenzio tutti quei minuti,ora che Belardo avevadichiarato tutta in una voltaquellalungamossa.

Anche lui, Mattia, perquanto non si protendessecontro la vetrata, guardavaanche lui in avanti, nonsempreinbasso,dovenonera

chiarosequelleottomani,colloro toccare e non toccare ilcorpodellapaziente,cosachedava un’impressione dienorme concentrazionepsichica, avrebbero ottenutonel tempo che avevano adisposizione (che forse nonera affatto tutto quel grantempo che poteva sembrare),quell’apparentementeminimorisultato del cambiamento diposizione col massimo

sforzo, addirittura colmassimosforzodimente.

Mattia però, aguzzandogli occhi di lassù, versol’angolo buio della salaoperatoria, un po’ vedeva eun po’ indovinava Belardo,ancorainmagliettaecalzoni,che si alzava a un certomomento dallo sgabello,lasciando che l’inserviente,sempreinattesadavantialui,gli infilasse il camice pulito,

abbottonandoglielopoidietro.Un’altra l’aiutò ad applicarsila mascherina di garza agliorecchi, gli sistemò la cuffiaalcapo,aggiustandogliinfineil microfonino appeso alcollo.

Belardo,aquantopare,sidisse Mattia, si stapreparandoatornareinscenaper il secondo atto deldramma.Piùemeglioditutti,lui, Belardo, anche senza

guardare l’orologio, statenendo mentalmente contodel tempo che passa,regolandosi forse suiprogressi che i due assistentie le due strumentiste fannonel portare la paziente versola posizione della “pietra datagliare”.

Al punto in cui era, lapaziente sembrava atteggiataaunafiguradacontorsionistasull’appoggio dei reni,

sporgente con ano e genitaliesterni a perfilo col lettinooperatorio, e con gambe ecosce che assistenti estrumentisteavevanol’ariadivolerretrarrepiùcolpensieroche colle mani, le une sullealtrealpube.

Belardo, cui mancavasolo di infilarsi altri guantisterili per essere di nuovo ditutto punto in mise dioperatore, s’era andato

avvicinando al lettinooperatorio e ora se ne stavaimmobileal limitedellaluce,aspettandochesiconcludessequell’apparentementeagevole, lieve, ma di fattodisagevole, massacrantecambiamentodiposizione.

Giusto in quel momento,comesequellodiBelardochesi era portato a un passo dallettino operatorio, fosse statoil segnale, la televisione a

circuito chiuso che non s’eravista nel primo tempodell'intervento, come seguasta si fosseimprovvisamenteriattivatadasola,preseatrasmetteredallasala operatoria. Nemmenoavesse un occhio anche didietro, l’Emiro se ne accorseperprimo.

Sullo schermo sisuccedettero i primipiani ditante mani inguantate,

lentamente, goffamente alleprese, sembrava,quali con lespalle, quali con le cosce,quali con le gambe dellapaziente,colsuocorponudo,pesante, inanimato comemorto, per rimuoverlo,spingerloinavantiecontrarloal bacino, nel tentativo diridurre la paziente come peruna tortura in quella oscena(quest’impressione dioscenitàsembravadareaquel

punto)posizionedella“pietrada tagliare”,quasisi trattassedi una contorsionista riottosaeostileaquell’esercizioeperquesto privata della volontàmedianteipnosi.

L’Emiro, a bocca aperta,stava come rapito da ciò chevedeva sullo schermo. Però,si chiedeva Mattia, rapitocome? Rapito felice? Rapitoinfelice?Forse,rapitofeliceecontempo rapito infelice,

concluse Mattia che eracolpito dall’eccezionale buoninflusso che sul Principe,comunque, andava semprepiùesercitandolatelevisione.

L’Emiro difatti non cimisemoltoecomefosserolestesse gambe a richiamarloatavicamente in giù, sedettealla beduina sul pavimentodell’anfiteatro nemmenofossesullasabbiadeldeserto.Sedette senza muoversi di

dove stava, e senza nullaperderenédellasuaeleganzadi figura né dell’impressionediregalità,daemiroappunto,che ispiravano i trattidelsuoviso,isuoiocchi,lafermezzadellosguardo.

Con la televisionericomparveroletrecosiddetteMogli Anziane, un pocoaffannate. Il loro rifiatarenell’anfiteatro seppe ancoraperunpo’dellesigaretteche

avevano fumato. Tutte e tre,ma non solo per rinfrescarsil’alito, continuarono conevidente goduria a farsisciogliere in bocca caramellesucaramelle.

Le tre signore poi,un’occhiata al televisore,unaall’Emiroesiadeguaronoallanovitàchetrovavano.Perché,senza pensarci su tanto,sedettero anch’esse allabeduina alle spalle

dell’Emiro, come se quellafosse una platea o fossequello che in realtà era, unanfiteatro, e contempo scena,proscenio,palcoscenico.

L’Emiro sembrava nonessersi nemmeno accorto cheerano tornate e che glistavano sedute alle spalle.Daval’impressionedavantialtelevisore di poter fare ameno delle sue tre MogliAnzianeedesse,diparteloro,

davano l’impressione disaperloquestoediprenderneatto, per cui apparivanorilassate, in ozio di mente, eseguivano le immagini sulloschermo come fossero quellediunfilm.

Mattia si chiedeva se sipoteva dire lo stesso perl’Emiro: anche lui seguiva leimmaginisulloschermocomefossero quelle di un film?Certamente no, anche se

appariva sorprendentementetrasformato da quando nonguardava più in salaoperatoria dalla vetrata madal televisore. Qualcosa, iltelevisoreappunto,eravenutoa frapporsi come undiaframma fra lui e ciò cheavveniva attorno al lettinooperatorio. Adesso potevavedere,quasifosselìpresenteanche lui di persona, la suaAmina esposta nella

posizione della “pietra datagliare”conlesueintimitàapieno video: le cosceravvicinate al pube e legambe contro le cosce,contratta come una grossarana. La vedeva così, comefosse anche lui attorno allettinooperatorio,einvecedisoffrirne più di quandoseguiva l’intervento separatodalle vetrate, anche lui siconteneva davvero da par

suo, regalmente, dandol’impressione di soffrirne dimeno. O forse ne soffriva lostesso, solo che con queldiaframma di mezzo, iltelevisore, ne soffriva alriparo da eventuali choc.Perché, televisivamente,quelle immagini dovevanoarrivargli alquantosdrammatizzate, come seinvecediavveniresottoisuoiocchi, avvenissero, fossero

anziavvenuteunpocoprima,portandogliundolorenonpiùvivo, lancinante, ma comeriflesso,mediato,medicatoinparte.

L’Emiro, lesuetreMoglisul pavimento con lui, glistudenti, quelli di prima, cheerano risaliti anch’essi, piùqualchealtro,all’impiedi,allespalle degli ospiti arabi, tuttiormai guardavano in salaoperatoria attraverso la

televisione. Solo Mattia,mezzo girato, dando dallavetrata ora un’occhiata altelevisore, ora un’occhiata insalaoperatoria,potevavedereo intravvedere anche queiparticolari che sfuggivanoallecameretelevisive.

Sullo schermo sivedevanoidueassistentie ledue strumentiste ai lati dellettino operatorio, chearretrando lentissimamente

stavano ormai per uscire dasotto la lampada scialitica,intanto che, il fiato sospeso,gli occhi spalancati,sembravano come trattenerefra i denti la ormaileggendaria posizione della“pietradatagliare”,unostatodall’apparenza estremamenteprecario, di massimainstabilità d’equilibrio, cheavevano finalmente fattoraggiungere alla paziente,

rattrappitaecomesospesanelvuoto, l’esatta figura dacontorsionista che avevadichiaratoBelardo.

Quelli non erano ancorausciti da sotto la luce, chesubentrarono le dueinservienticoiteliverdinigiàspiegati nelle mani.Ricoprirono lapaziente, tuttoilcorposinoallecosceeallegambe, lasciando scopertosoltanto, secondo quanto

aveva dichiarato Belardo, unpiccolo varco a losanga,comprendente genitali esternie ano, ossia tutta la zonaperineale, la zonad’intervento, quella dacruentare.

Abbassando gli occhi insala operatoria, in un puntoche stava come almezzo fral’angolo buio coi contenitorie la frangia luminosa,Mattiacredette di vedere le due

inservienti, una checautamente andava versandodel Bio-Sorb-cream sullemani protese di Belardo,l’altrachel’aiutavaainfilarsiprimauno,poil’altroguanto,quelli che ancoramancavanopercompletarelasuamisedioperatore.

InguantatoBelardo, i dueassistenti rientravano sotto laluce,affaccendandosiaipiedidel lettino operatorio dove la

paziente, rimasta sola,esposta, contratte lecosce, legambe sulle cosce, istantedopo istante pareva rischiarela più rovinosa delle caduteda quella sua aleatoriaposizione e insieme rischiaredidurarciperl’eternità.

Là, davanti a lei, allapaziente,davantiaquelvarcoa losanga che isolava igenitaliesterniel’ano,ledueinservienti sistemarono un

sediolino, poi fra il sediolinoe il bordo del lettinoinfilarono un tavolinettoportaferri che col sediolinofaceva come da deschetto dicalzolaio.

Belardo rientrò allorasotto la scialitica. Teneva lemaniinguantateapalmeinsucome dicesse: non sono cheun uomo, non ho poteridivini, ho solo le mie mani,vedete?estopermettermi in

competizione col Creatore,creando quello che luidimenticòdicreare.

Se ne stava immobile,assorto, come se con losguardo aldisopra dellamascherina di garza spiassenon visto, angosciato, lapazienterattrappitaedespostadaquelvarcoinattesadi lui.La “pietra da tagliare”. Dadove, da dove comincerò atagliare questa pietra

preziosa, questo diamante,sembrava dire Belardo, dadove, da dove per nonfrantumarla, per nonspegnerne lo splendore, lavita?

Belardoperò,nonappenavide o sentì strette alle suespalle le due strumentiste, siriscosseefusubitocolsederepoggiatoalsediolino,davantial deschetto di calzolaio(sopra ilqualeeranoallineati

i ferri di più frequenteimpiego, bisturi pinze forbicismusse valve tamponimontati) messo fra lui e igenitali esterni e l’ano dellapaziente, esposti da dentroquella losanga, esangue, unpocorosata,fraiteliverdini.

Dall’anfiteatro si ebbel’impressione che primad’incominciaresipiegasseunpococolcapoasinistracomeper dare un’occhiata alla

paziente (che era, lui loscordava, ricordava,scordavaancora di continuo, l’Aminadell’Emiro), sempre inprofonda narcosi, sempretenuta intubata, che respiravanel pallone, da uno dei dueanestesisti.

Daquelgestoalpubblicoinanfiteatroarrivòasorpresala suavoce chedichiarava lamossa d’apertura dellacostruzionedellaneovagina:

«Do quindi inizio comeuna talpa allo scavo di untunnel.»

Fucomesealsuonodellavoce diBelardo il televisore,come improvvisamente s’erariacceso da solo, altrettantoimprovvisamenteedasolosispense, lasciandosi dietro unpandemonionebbioso,sinchéuno degli studenti nonallungò un braccio e lorichiuse.

Tutt’in contempo sispense lo schermo senzaspettatoridellasalaoperatoriae per Mattia che lo sfioravaconunocchiooltrelavetrata,fucomeunsegnodiausteritàaquelpuntodell’intervento.

Prima di farsi talpaBelardo dichiarò ancoraqueste sue mosse piuttostoelaborate:

«In corrispondenza dellamembrana imenale, alle due

estremità dell’imene, e cioè,considerando l’imene comeun quadrante d’orologio, alle3 e alle 9 di tale quadranteapplicoduepinzediAllis, ledistendo. Col bisturi facciopoi un’incisione trasversa eper via smussa, con la puntadelleforbicimifacciostrada,mettendo le forbici chiuse suquesta linea trasversa incisacolbisturi.»

Belardopoi si fecemuto,

si fece talpa e se sieccettuavano le mani (cheripiegava senza fiatare oral’una ora l’altra all’indietro,all’altezza delle spalle, perricevere dalle duestrumentiste questo o quelferro che non stavano fraquelli sul suo tavolino)comefosserolasolacosadiluicherimanesse sempre in vista,sembrò scomparire tutto neltunnelcheandavascavando.

Sarà, non è difficileimmaginarlo, si disseMattia,impresa abbastanza lunga loscavodiquel tunnel, impresalunga per la talpa e perchénondirlo?noiosapernoichedaquiviassistiamo.

Noi potremmo persinoandarcene e ritornare quando(fra un’ora? due? di più?)Belardo si tirerà fuori daltunnel. Un tunnel di tantadelicatezza che non potrebbe

mai usare unmezzo come lascavatrice per scavarlo ma,comehadetto,soloidentuzzidi una talpa, lenti ma noncatastrofici. Proprio così, noipotremmo andarcenedall’anfiteatro perché, tanto,l’intervento non subirebbeintoppi. A Belardoimporterebbe solo cherestasse la sua équipe enemmeno tutti, basterebbe lasola strumentista porgiferri e

uno dei due anestesisti pertenered’occhiolapazienteinnarcosi. Sì, noi potremmoandarcene, oppure restarefisicamente e andarcene coinostri pensieri e pensare,meditare, ricordare, specie seposiamo gli occhi su unapersona che conosciamo eche è qui presente con noi.Allora, assieme agli occhiponiamomente,laricordiamoe ci ricordiamo di noi

ricordandola, quando dove ecomefucheilnostrocomunericordo ebbe inizio.Questo èquanto sta succedendo a meche gli occhi che mi sichiudonodal sonno, li tengo,io Mattia Maometto, sopraquest’emiroMontagna qui almiofianco.Ecom’èstranalavita,mi dico, com’è davveroil gioco dalle millepossibilità, ma anche dallemilleimpossibilità.

Sentì di nuovo lavocediBelardo che continuava,ancora all’inizio dellaneovagina, a dettare le suemosse, ricevendoneun’impressione all’orecchiocomesefrailprimaeildopodi quel lungo-breve flash-back non ci fosse statasoluzionedicontinuità.

«Aprendo poi lentamentetale linea» diceva Belardo eMattiaricordò,comel’avesse

sentito attimi o anni prima,che si trattava d’una lineatrasversaleincisacolbisturi«procedendo si va avanti acostruirequellocheèunveroe proprio tunnel, né più némeno come fa una talpascavando un tunnel per lametropolitana.»

Passarono poi dei minutisenza che Belardo si facessesentire. Tutti nell’anfiteatrosembravano trattenere il fiato

come se tutti immaginasseroappieno la grande, rischiosadelicatezzadilavorodiquellatalpa che scavava nellapreziosa “pietra da tagliare”,un diamante, con quellaterribile macchia di natura,però.

L’Emiro, attorniato dallesue tre cosiddette MogliAnziane che occhieggiavanogiù dalle sue spalle, simostrava sempre all’altezza

della situazione, anche seeracominciato il peggio dasopportare per lui, questogiudicava Mattia stando aquanto aveva dichiaratoBelardo,semprechédopononcifossedelpeggioancorapiùpeggio. Saprà già, spero, sidisse Mattia come se nericordasse solo in quelmomento, saprà ormai chetutto, istologicamenteparlando, funziona con

riferimento a quei duecorpiccioli di forma ebiancore come di mandorleappenasgusciate?

L’Emiro comunque, piùdellaforzad’animoche,c’erada immaginarsi, si facevaall’interiore senza che nullatrasparisse all’esteriore dellosforzo che gli costava, nonpoteva.

Poi, la voce di Belardorivennefuoridall’altoparlante

unpocodiversa,strana,comesforzata, imbrogliata, quasichetrovandosiormaicolcapodentro il tunnel che andavascavando, per dettare le suemosse fosse costretto aparlare con la bocca premutasulmicrofonino:

«Siavanza,cisifaspazioscollando dalle paretidell’imene il tessutoconnettivo,lasso,soffice,chesilasciamoltobendivaricare,

aiutandosi in continuazionecon le forbici smusse, conl’elettrobisturi e conl’elettrocauterio per chiuderetutti ivasellini chemanmanoche si procede, che si va inprofondità, si aprono, sirompono e ne viene fuorisangue. Poi, scavato un belpo’ di tunnel, si prendono ausare le valve, strumentipreziosiinquest’intervento.»Continuava Belardo con la

voce sempre più soffocata,lontana, come se invece distare seduto ancora là, aldeschetto, affacciato allabocca del cunicolo, si fosseormai inoltratoprofondamente nel tunnel ditessutoconnettivocheandavascavando. « Le valve sonodegli strumenti che seguardati in sezione sagittalemostrano una forma a 7 e seguardati invece di piatto,

mostrano una forma come dicucchiaicolmanicoripiegato.Quando si prendono a usarele valve, se ne usano duecontemporaneamente: ilmanico di tutte e due vienetenutodaunassistente, ecco,come in questo momento, ementre il cucchiaio di una siappoggiaallaparete inferioredel tunnel, il cucchiaiodell’altra si appoggia allaparete superiore. Ecco, così.

Questoconsentedidivaricareancora lateralmente eanteriormente, creando altrospazio per il tunnel. Quandoil tunnel ha raggiunto lagiusta profondità, ci si fermadiscavare.»

Per un attimo, contempoalloscavare,Belardosifermòanche di parlare. Tuttinell’anfiteatrosichiederanno,si disseMattia, ioperprimo,riconobbe ancora una volta

lealmente, se la giustaprofondità Belardo l’haconcertata con l’Emiro comela lunghezza reale del suofallo, perché fosse alloggiatonella neovagina della suaAmina.

«Con le valve chetengono divaricate le paretidel tunnel » riprese adichiarare Belardo,stancamenteperò,comefosseinpuntodiconcludere,anche

se non accennava a staccaregli occhi dalla miseranda“pietra” « e consentono divedere esattamente tutti ipunti che sanguinano, questipunti possono essere oallacciati con filo di catgut opiù sveltamente cauterizzaticon l’elettrocauterio. Fattoquesto,siprendeun tamponemontato e si stipaprofondamente dentro iltunneldellavaginaneocreata.

»Belardo allora, aiutato

ancoraunavoltadallesuedueinservienti,sisfilòfuoridallastrettoia fra sediolino,deschettoelettinooperatorio.Si vedeva benissimo quelloche stava facendo, ma lodichiarò come fosse anchequellaunamossa:

«Aquestopuntomialzoe con tutta la mia équipe diginecologia lascio libero il

posto ai chirurghi plasticiattornoalIettinooperatorio.»

Mattia, sinché potè, Ioseguì che ancora da solo simuovevaperappartarsiversoquel solito angolo quasi albuio fra pile di teli e camiciverdini, fermandosi evoltandosipiùvolte.

Giù, in sala operatoria,

due infermiere della nuovaéquipe, muovendosilentamente attorno al lettinooperatorio, ripassavano cogliocchi la paziente, sempre inprofonda narcosi e fattarespirare nel pallone da uno

dei due anestesisti che eranoancora quelli di Belardo. Ledue infermiere ritoccavanoqui e là la paziente,modificando, ma solo persfumaturedanulla,quellasuaposizione quasi dacontorsionista, detta della"pietradatagliare”,conanoegenitali sulla stessa linea,gambe retratte contro lecosce,posizionenellaqualesitrovavaormai,cosìpareva,da

un’eternità.In questo frattempo fra i

due plastici e Belardoavvenivanodeiconciliaboli.

Prima era Belardo, cheaveva ancora addosso la suamisedioperatore, cheuscivadall’ombra e s’avvicinava, allimite della luce, ai dueplastici che seguivano assortii ritocchi quasi invisibili cheledueinfermiereapportavanoalla posizione della paziente

dalla quale spiccava col suoabbagliante biancore iltampone montato che lefuoriusciva dalla neovaginaappenacruentata.

Poi, erano i due plasticiche arretrando dal lettinooperatorio,andavanoincontroaBelardo fuori della zona dilucedellalampadascialitica.

Belardo, dopo, nonricomparve più sotto la lucecome se finalmente si fosse

messo a sedere su quel suosgabelloall’angolobuiodellasala.

Eidueplastici,quandoledue infermiere finirono difare quella loro ricognizionedella paziente, s’andarono amettereunodiqua,unodi làai due lati del lettinooperatorio. Ancora però nonavevano l’aria di dare inizioallorolavoro:chinisulcorpodella paziente, andavano

cogliocchisuegiù,giùesuper pube e cosce, come sichiedessero se quelle partieranostaterealmentedepilateo essendo la paziente-bambina ancora impubere,non c’era stato niente dadepilare.

MattiacercavacogliocchiBelardoinsalaoperatoriamaBelardo non era più in salaoperatoria, né lui né alcunodella suaéquipe.Comeepiù

di Mattia doveva cercarlol’Emiro.

Dopo un tempo chesembrò lunghissimo, Belardosorprese Mattia e l’Emirocomparendo in anfiteatro allelorospalle.

Belardonaturalmentenonera più in mise di operatoremaincamice.

Loseguivaasuainsaputa,come si capì, un giovaneassistente dei plastici, un

biondino che stringevasottobraccio come un tesorouna custodia che in tedesco,in francese e in ingleseportava la scritta “Scuola diSessuologiadiZurigo”.

Mattia rivide il contenutodi quella valigetta cheBelardo gli aveva mostratomomenti primadell’intervento, presenti iplastici,quandoilsuoillustreconnazionale, come per

invogliarlo ad assistervi, gliaveva anticipato alcuni degliaspetti più imprevedibili esconcertantidellaneovagina.

Nella rapida occhiata cheBelardo gli aveva fatto dare,gli era parso sulle prime chela valigetta contenesse deigrossi sigari, stranissimi, dicolorebianco.Poichéadagiatinon offrivano interamentealla vista la caratteristicatesta,ciavevamessoqualche

momentoavederechenonsitrattava di sigari ma di falli,diunamezzadozzinadi falliinlatex,dispostisecondounascala di misure, da — 12 a+24,scientificamentestudiatadallaScuola diZurigo, comediceva la didascalia sotto laconfezione.

Quelle dunque erano seimisure bell'e prontedell’“intruso”, il falloartificiale cheprimadel fallo

del“fidanzato”ecomeinsuavece, viene alloggiato nellaneovaginaappenacruentata.

Anche di quello,dell'intruso,comeunodeipiùfortimotividiattrazionedellaneovagina per il profano, gliaveva fatto cenno Belardoquellamattina,dicendoglichecome la creazione dellavagina è il pezzo di bravuradel chirurgo ginecologo, cosìlaconfezionedell’intrusoloè

perilchirurgoplastico.Il biondino plastico fra

quella seriedi falli dimisurein scala non doveva cercarel’intruso per la neovagina diAmina ma fra quelle trovarelamisuradelfallodelI’Emirosulla quale i plastici, già inattesa, avrebberoconfezionato l’intruso,misurato giusto perl’alloggiamento che Belardoaveva allora allora scavato

dentroAmina.Ma se i plastici stavano

già ad aspettare in salaoperatoriadiavere inmano imateriali per mettersi allacostruzione dell’intruso,perché il biondino con laconfezione di falli dellaScuola di Zurigo era venutosu, dietro Belardo come disoppiatto?Perchéilbiondino,ingenuamente,pensavache ilprofessor Belardo, per

guadagnartempo,gliavrebbelasciato fare lì in anfiteatro,corampopulo,lamisurazionedel fallo dell’Emiro(misurazione in via del tuttoeccezionale, per un riguardousato al regale personaggio,mai usato prima a nessunaltro), e immediatamentedopo, la ricerca fra lemisuredi falli in latex zurighesi, laricercad’unamisuraugualeaquelladelfalloprincipesco.

Belardo però non avevaancora fatto nessunissimocaso al biondino assistenteplasticopienodizelo.

Mattiasiresesubitocontoche Belardo, apparso inanfiteatro agitato e comeallarmato, anche se sisforzava di non darlo avedere, s’era risolto a saliredopoavereinutilmenteatteso,giù, forse nella presalaoperatoria, il regale

personaggio che doveva farelamisurazione-fallo.

Ora però si era comebloccato alla presenzadell’Emiro, il quale non sicapiva se non lo vedevaanche guardandolo o sevedendolos’aspettavachegliandasse vicino. Perchél’Emiro, mentre apparivatutto soprapensiero, comesbrigasse quell’unico, magrandemente unico, suo

pensiero di mente,personificatonellapersoncinastesa sul lettino operatorio,appariva peraltro distratto,assente,lontanodalproblemaurgente di Belardo, che erapoiilsuo.

Al Principe dovevaessergli completamentecaduto di mente che fra ilsecondo e il terzo tempodell'intervento gli toccavasottostareaquell’incombenza

delicata, molto intima.Perché, alla finfine, sirisolvevacosì,inundisturbo,il trattamento di favore,unico,inusuale,cheiplastici,per Belardo, gli avevanoriserbato per la sua regaledotazione mascolina, anchese lui aveva l’aria diignorarlo.

IlpeggioeracheBelardonon faceva un passo perandargli sotto gli occhi né

trovava una parola darivolgergli per richiamarnel’attenzione.

Quando finalmente, dopoun pezzo che quello sitraccheggiavaperfarsivederedalui,ilbiondinodeiplasticigli si sagomò all’occhio conla sua “ventiquattrore” difalli, non gli parve vero dipotersisfogareconqualcuno:

« Cosa fa lei qui? » glisgridò fra i denti, facendosi

peròsentiredatutti,inprimisdall’Emiro.«Eh,cosafaqui?NonsisaràmessointestacheilprincipeSaadsiespongaalcolto e all’inclita intanto chelei tira fuori dalla valigetta isuoi falli e li confronta colsuo?» E senza fargli aprirebocca, gli intimò: «Prego,prego torni giù, dove SuaAltezza la raggiungerà subito».

Il biondino corse giù con

la sua valigetta sottobraccio,impressionato da quel “SuaAltezza” che doveva essergligiuntonuovo,comedel restoaMattia.

L'Emiro, ora, s’erariscosso dai suoi pensieri, euna mano alla fronte comeper tirarsi su il kefieh chesentiva stretto alle tempie,conl’altrasfioròBelardoaunbraccio e si diresse allascaletta.Belardoallorasigirò

piùvolte adareocchiate alletre cosiddetteMogliAnzianecome fosse incerto sul dafare.

Lo sarei anch’io, si disseMattia. Perché Belardo sichiederà, come mi chiedoanch’io in questo momentosenza stare a girare tantointorno all’argomento:l’Emiro per sottoporsi allamisurazione-fallo,hapocodafare,deveraggiungerelafase

d’erezione, e comeraggiungerà la fased’erezione, giù, nella presalaoperatoria, solo, senza unadonna? con la suaimmaginazione incendiariaforse? ma non ha quisottomanoqueste trebellezzeabbronzate dal sole deldeserto,AnzianecomeMoglima giovanissime comeamanti? Se le portò davverocome ornamento in questo

viaggio o per metterleall’opera inquestomomento,preliminarealmomentodellamisurazione-fallo?

Doveva essere questal’intesa e le tre ragazze incachemire se ne ricordavanoevidentemente bene perchéseguivano cogli occhi,stupite, il loro principe emarito che era in punto diandarsene, andarsene asvolgerequell’incombenzada

solo, senza portarle con sé,per svolgerla assiemequell’incombenza perchésennò da solo come potevasvolgerla?

Belardo però non potevacontare sull’immaginazionedelPrincipe.Nessuno sapevacome sapeva lui chedovevano spicciarsi conquell’intruso che andavaintrodotto nella neovaginaappenacruentatadellapiccola

Amina dell’Emiro, perchésolo allora la piccola Aminanon avrebbe corso più ilrischio (allora e sempre delrestoimminente,incombente)che le pareti della suaneovagina, di tessutoestremamente lasso,cedessero, riempiendo lacavità.

Quasi all’usciredall’anfiteatro perciò, sia chel’Emiro contasse sulla sua

immaginazione, sia checontasse sul fatto che le suetre giovanissime MogliAnziane l’avrebbero seguitomute mute secondo l’intesa,Belardo prese l'iniziativa eprima fece segno alle treragazze di scendere giùanch’esseedopoglieleindicòall’Emiro.

L’Emiro allora,sorridendo, accennò di sì colcapoesimosseperandargiù,

ma come si ricordasse diqualcosa, girò gli occhi sullesue tre Mogli con l’aria dicercarne fra di esse una inparticolare, e quando laravvisò,sifeceseguiregiùdaquellasola.

Sono uguali in tutto, sidisse Mattia. Saranno ugualianche lì, anche in quello,penso. La presceltadell’Emiro però, dovevaconosceremegliodellealtreil

segreto di come mettere inconfidenzaunuccellorapace,tantoda tenerlo fra lemanietubarci come fosse unpiccione, allisciandogli lepiumeedandoglibacettisullatesta,arrivandoaunpuntoincui, a quella specie di regaleuccello delle vette, daval’illusione di volare, senzaaprire le ali, il suo volo piùaltoepiùebbro.

L’operatore plastico, un

omone cogli occhialetti agiorno, oltre al biondinoaveva un altro assistente equesto qui portava lui ilmicrofonino al collo perché,come se l’operatore fossemuto,glifacevadaspeakere

dettava lui le mosse, usandostranamente il pluralemajestatis, per cui si aveval’impressionechelemosseledettasse anche all’omone cheoperava.

«Cominciamo a lavoraresubitocoldermotomo»dissedi primo acchito perlappuntol’assistentespeaker.«Adessoamezzodiquestostrumento,simile a un rasoio col taglioprotetto da una superficie

molto facilmente regolabile,dalla faccia interna dellecosce della pazienteasportiamoilembidipellediunospessoresemprecostante,controllato, senzamai andarein profondo, per non correreil rischio di arrivare al bulbopilifero.»

Belardo tornava alloraallora su con Emiro ecosiddetta Moglie Anziana ecolpito da quella crudezza di

linguaggio che eranaturalmente crudezza dimosseche l’operatore intantoeseguiva, dovette prendereall’istante la sua decisione didistrarrel’Emiro.

Cosìglidettediscorsoeaquesto fine bruciò senzapensarciduevoltequellochesembrava il pezzo forte diconversazione delI’Emiro, laPlacentateca, chiamandoMattia, la Montagna di quel

Maometto, per aiutarlo.L’Emiro però, prontamente,intuì che Belardo lo tiravaverso un falso scopo efacendolotacereconungestotanto garbato quantoimperioso, continuò aprestare orecchio alla vocedellospeakerdisotto:

«Questi lembi sottilissimidi epidermide, quasiabrasioni, asportati daldermotomo dalle cosce della

paziente, distesi qua, suquesto ripiano, siaccartocciano come foglieverdivicinoalfuoco.»

Belardoperònonsiarreseancora. Lasciò perdere laPlacentateca e s’infervorò aparlare, per chissà qualemisteriosoinflussofreudiano,di quella che era, ancorasegreta, un’idearivoluzionaria del futurodirettoredell’istitutodiSanità

della Donna che stavasorgendo nel Kuneor,l’abolizione nientemenodell’anfiteatro dalle saleoperatorie. Mattia ne fusbalordito. Un’idea comequella venuta a un operatorequal era Belardo, operatore-attore, operattore di razza,nonpotevanonsbalordire:luistesso, quel grandeoperattore, proponeval’abolizione della sua platea,

anche se l’anfiteatro era lostesso destinato a scomparirecon l’adozione dei circuitichiusi.

Belardo comunque nonsbalordì l’Emiro, I’Emiroanzi non dovette nemmenosentirlo. Perché l’Emiro, nonc’eraalcundubbio,s’erafattocome un punto d’onore disapere, vedere e sentire tuttociòchelasuaAminaavrebbeaffrontato per lui, solo per

dargli a lui l’illusione diquell’alloggiamento scavatodentrodilei.

Il silenzio dell’assistentespeaker in sala operatoriapotevavolerdiresoltantochel’intervento era arrivato allasvolta di quel terzo tempo,alla svolta maschiadell’intruso, maschia rispettoalla svolta femmina dellaneovagina.

Sforzandosi gli occhi,

Mattiaerariuscitoamettereafuoco quelle, come le avevachiamate lo speaker, “foglieaccartocciate” che secondocome si erano accartocciate,stese curvate o rigonfie,riflettevano con strani giochilagranlucedellascialitica.Ilripiano sul quale erano stateriposte, era quello di untavolino vicino al quale sivedevano in quel momentol’assistente speaker e il

plastico operatore come incontemplazione. Alle lorospalle invece le dueinfermiere stavano come inattesa e giravano di continuoil capo dalla paziente ai dueplasticiedaidueplasticiallapaziente.

L’assistente speaker sifece finalmente risentire peresporrelasituazione:

«Illavorocoldermotomoè finito qui, su questo

tavolino, comincia adesso ilnostro vero lavoro per laconfezione dell’intruso. Allenostre spalle la pazientecontinua a stare in narcosi,sempre in mano aglianestesisti. In questomomentolafamosaposizionedella “pietra da tagliare” incuidaoresta,vieneallentataun po’ dalle due infermiere.Sostanzialmente però restasempreripiegataaquelmodo,

come rannicchiata, con legambe flesse contro le coscecruentatedaldermotomo, colgrosso zaffo di garza stipatodentro il tunnel della vaginacheleèstataappenacreata.»

Belardodi fattodesistettesoloaquestopuntodaquellasuamissione.Perché l’Emiroaveva più di tutti il diritto, ildiritto-dovere, di saperecom’era fatto quell’intrusoche sarebbe stato il suo

antagonista muto nel suorapporto con Amina dentroquell’alloggiamento, rapportochesarebbestatofatalmenteaescitucheentroio.

Tornò la vocedell’assistentespeakerconunuso del plurale ora menomaiestatico e più proprioperchésivedevaancheluioraindaffararsi intorno altavolinocolripianoingombrodi quelle “foglie

accartocciate”:« In questo preciso

momentoprendiamoinmanol’intruso, più esattamente ilrustico, il prototipo, loscheletrato dell’intruso,eccolo.Sitrattadiuncilindrochehapiùomenolaformaele dimensioni di un pene inerezione. Per questo, a unasua estremità termina in unapiccola cupola. Avvolgiamoattorno al rustico i lembi di

cute con la faccia esternadirettamente a contatto delrustico, e con la facciainterna, quella cioè cruentatadal dermotomo, rivoltaalPesterno, rivolta cioè alleparetidellaneovaginaancorainpienacruentazione.»

Dall’anfiteatro intantosfuggirebbecompletamente illavorodifinochegiù,attornoal tavolino, stanno facendosulrustico(masfuggirebbelo

stesso forse anche se ci sitrovasse alle spalle dei dueplastici) se la voce dellospeaker non lo descrivesseper filo e per segno. Era ilcaso di dirlo, per filo e persegno, trattandosi ancora unavolta, in quell’intervento diverso estremamentefemminile, di un lavoro dicucito, fatto con ago e confilodicatgut.

Mattia riebbe negli occhi

lo stupore di quel gestodonnesco del cucire da partedel plastico operatore cheprendeva ago con agugliatadaunaltrotavolinoaccantoaluicheneerapienozeppo,enegli orecchi la vocedell’assistentespeaker:

«Suunabasedilavorodacertosini, di illimitatapazienza, lavoriamo di filo eago a dare dei puntiniatraumatici, di filo di catgut,

piccoli piccoli, sottili sottili.Lavoriamo così a cucireinsieme i lembi di cute perfarne un rivestimento, uninvolucro, una guaina chericopra perfettamente loscheletrato dell’intruso. È uncontinuo prova e riprovaperché solo a furia diagugliate di catgut noipotremo ottenere unrivestimento assolutamenteuniforme del tessuto. » Per

alcuni momenti la voces’interruppe e nelmicrofonino entraronoborbottìi e mugugni. Poi lavoce riprese: « A questopunto,ormaifoderatodibranidi cute, noi passiamo eripassiamo l’intruso ancorasulcruentatoconuna infinitàdi altri puntini piccolissimi evicinissimi,dal cui insiemeècomevenisserifattoiltessutodellacute.Fattoquesto»,ma

l’operatore non l’ha ancorafatto quello: a capo chino,continua a dare agugliateall’intruso che tiene nelpalmo della mano sinistra,molto ravvicinato agli occhi,sicché dall’anfiteatro si vedesolo la suamanoandaresuegiù, su e giù, « la nostraoperazione d’inguainamentodelrusticodell’intrusodentrobranidicuteèfinita».

Sembrandogli tutto finito

(ma poteva mai essere tuttofinito? l’intruso, appenaconfezionato, si trovava giàforse nel sito dov’eradestinato per la sua parte?)Mattia ritenne che quellofosse il momento di

scambiare qualche parola dauomo a uomo, dopo lapresentazionefrettolosa,sudiun piede, di quella mattinadavanti alla presalaoperatoria, con quell’uomoammirevolesotto tutti ipuntidi vista che era il principeSaadIbnas-Salah.Ancheperfargli capire, si diceva,quanto ho apprezzato quellasua citazione dellaMontagnae di Maometto. Non posso

trattenermi ancora molto quima mi pare che dobbiamoassolutamenteparlare,cinqueminuti almeno, una voltatantochepossiamoparlaredipersona.

Non sapeva dire quantetelefonate aveva ricevutodall’Emiro. L’Emiro per laverità, forse perché avevaprogettato quel viaggio, nongliavevapiù telefonatonegliultimi tempi. Le telefonate

però che aveva già fattoerano,qualepiù,qualemeno,tuttericordevoli.

Era tornato ancora sulpadre di Narmer e non perchiedere “Si sa niente delpadre?” ma per confessare aMattia che era lui a saperequalcosa,enonpoco,diquelgeniodipreviggenzapaterna:

«DevodirlechesonoioasaperequalcosadelpadredelFaraoneNarmer.»

«Davvero? » aveva fattoMattia, quasi senza nessunacuriosità.«Ecosa?»

«Lei crede allareincarnazione?» gli avevachiesto allora l’Emiro,lasciandolostupefatto.

« Non ne so molto, maperquelcheneso,potreidireche ci credo abbastanza»avevarispostoMattia.

«Se ci crede abbastanza»era venuto a dirgli allora

l’Emiro senza traccheggiarsi«perché non confessarle chequelpadreconquasiassolutacertezza si è reincarnato inme?»

Sembravaoltremodoseriodalla voce, quello chesembrava sempre del resto,chesembravaedera.

«Strano però» gli avevaobiettato non sapendo chealtrodire«cheilpadrediunFaraone si va a reincarnare

fuoridell’Egittoinunemiro.»« Scherzi della

reincarnazione » avevacommentatol'Εmiro.

« Va be’, s’è reincarnatoin lei. Lei perciò sa come sichiamavaquelpadre,chiera,diqualecondizione,eccetera,eccetera? Lei insomma puòportareunaqualcheprovadelfattostraordinario?»

Però,di là l’Emiro, comestilava quasi sempre, aveva

dettoqualcheparoladisalutonella sua lingua e avevabuttatogiù.

Alla nuova telefonatal’EmirogliavevafattosaperedellasuagrandiosaideadellaPlacentateca.Econquesto,siera dettoMattia, mi portò laprovache ilpadrediNarmersi reincarnò per davvero inlui.Delresto,perchéno?

Ma l’Emiro non avevafinitoancoradistrabiliarlo.

Perché, mentre Mattia sisforzavadidirgliqualcosadilusinghiero per quella suaidea da fantascienza,ma nonpoi tanto, lui se ne usciva adirgli quello che Mattiaavrebbedovutoaspettarsi:

«Lei accetterebbe didirigerlaunaPlacentateca?»

E aveva fatto seguirel’offerta di un contratto acondizioni davveroimponenti.

«Se accetterei di dirigereuna Placentateca?» avevaripetuto senza che la suamenteafferrassebenel’idea.

Aveva provato insiemestuporee incredulità,nonperquelcontrattoincaratterecoldavvero favoloso offerente,ma per il fatto chequell’emiro lo ritenesseidoneo a dirigere quella cosamai esistita e quindisconosciutaatutticheerauna

Placentateca.Si chiedeva innanzitutto,

e gli pareva di potersirisponderesenz’altrodisì, seper l’Emiro una Placentatecadovesse servire soltanto aconservare le placenteibernate, conservarle perconservarleetuttofinivalì,inunacuriositàperqualcosachenon si riusciva a immaginarealtrimenti che come una viadimezzofra ilcaveaudiuna

banca e le cellette di unCrematoriocontenentileurnecolleceneri.

Una Placentateca, sichiedeva poi, e gli parevaanche ora di potersirispondere senz’altro di sì,nondovrebbepoggiare suunprogetto culturale piùesigente, assai, assai piùesigente di un Museo?Conservare le placente, maper studiarle, per studiare

ancheinprospettivaquantolamorfologia e le funzioniplacentari rispecchiano, lecapacità dei futuri individui,il successoo l’insuccessocuiperverranno nella vita, sesono geni o sono normali osonosubnormali.

Per questo, prima didargli una risposta, sì, no oanche ci penserò, avrebbedesideratosaperlosel’Emiro,la sua Placentateca l’aveva

concepita come un puro esemplicedepositodiplacenteoppurecomeunCentroStudie Raccolta di datimemorizzati in situ,concernenti il profilo dellapsiche e il potenzialed’intelligenza d’ogni singolocittadinodelKuneor.

Mentre Mattia andavaseguendo queste sueimmaginazioni, era statocome se all’altro capo del

telefono, laggiù sul Golfo,l’Emirogliele leggesseunaauna in mente. Difatti, nonaveva insistito per avere ilsuo sì, ma non avevanemmenoaspettatodisentirsidire di no. Aveva fatto inmodo insomma che la cosanon cadesse definitivamentema restasse in sospeso. Gliaveva parlato subito d’altro,d’altro però semprerelativamente alla

Placentateca: della suaprogettazione,adesempio,seera d’accordo di affidarne ilprogetto a un suoconnazionale, a un architettoitaliano. Mattia gli avevarisposto che non sapeva cosarispondergli,ederavero.Nonsapeva granché di architetti,italiani o stranieri, ma anchesapendo, come si fa a dire aquale architetto affidare laprogettazione di una

Placentateca?Continuò così a tenerlo

sempre come intrigatoall’idea della Placentateca,perché le sue telefonatefurono tutte le volte riguardoalla progettazione dellaPlacentateca prima e alla suacostruzione dopo. Una volta:“L’architetto sarà senz’altroY.Lasceltaèquasid’obbligoperché lo stile di Y haimprontato gran parte delle

città degli Emirati”. Eun’altravolta:“IoperòlamiaPlacentateca non vedo chedebba sorgerenecessariamente vicina oaccanto alla Moschea comevorrebbe Y. Perché, dico io,darle a ogni costo solennitàedificandola accanto allaMoschea? La mia vecchiaidea, lei lo sa, è di edificarladove sono il Palazzetto delloSportcolcampodibasket, la

pista di pattinaggio sulghiaccio o anche nei pressidello stadio di calcio,prossima insomma a questiimpianti che in un vaevienicontinuo saranno un giornofrequentatissimi dai titolaridelle placente conservatenella Placentateca”. E poi,un’altravoltaancora,arrivatoormai a dettagli diraffinatezza o quasi: “Sipotrebbero preparare delle

video-cassettesullaPalettadiNarmer, se lei approva.Un’équipe del mio Emiratogirerà alMuseodelCairoundocumentario sulla Paletta,dall'inizio della prima stripalla fine della terza, coningrandimenti fortissimi deiminimi particolari. Ilvisitatore della Placentatecapotràcosìritirareall’uscitalavideo-cassetta col filmino.Non crede anche lei che dal

filmino si avrà una visionecome dal vivo del corteotrionfaledelFaraonechesfilaa Hierakonopolis? Anzi,megliochedalvivo,pensoio.Nel filmino, ripresa in primopiano, quella quarta InsegnadellaDinastiadelFaraone, sidovrebbe vedere ericonoscere di primo acchitoche è una placenta, noncrede?”. E una delle ultimevolte,senonpropriol’ultima,

prima della sua venuta aStoccolma: “Una nave caricadimarmidiCarraranavigainquesto momento dall’Italiaverso il nostro Emirato. Coimarmi siamo ormai alrivestimento esterno,all'ingresso dellaPlacentateca”.

SicomportavaconMattiacomeseormaisifosseintesocon lui che appena finito dicostruirla, si sarebbe

trasferito nelKuneor. Intantolo teneva in caldo. Quandoper inaugurarla sarebbe statonecessario solo il direttore,gliel’avrebbe chiesto dinuovo: allora, verrà adirigerla lei? E per questoforse, per chiederglielo dipersona, la Montagna eravenuta a Stoccolma daMaometto.Forse.

Ora, qui, però, sarebbevenuto il momento di

dirglielo: onorato, Altezza,lietissimo di accettare.Oppure, mi è proprioimpossibile di accettare,Altezza,emenedispiace.

«Aquestopunto...»Eralavocedell’assistente

speaker. Mattia non sel’aspettava, non ci pensavapiù che erano a un puntomoltovicinoallaconclusioneche non era però ancora laconclusione.

«...mentreunodinoiduetoglie lo zaffo di garza daltunnel, l’altro introducel’intruso profondamente ecompletamente dentro laneovagina.Restaperòancoraqualcos’altro di certosino dafare per noi, raccogliere ilembi di cute sfuggiti allaprimacuciturachestannoorasotto l’intruso. Vanno cucitiuno per uno e affrontatianch’essiallepareticruentate

del tunnel, cosa moltoimportante perché l’intruso,riconoscendosi ealimentandosi nellaneovagina, non vada innecrosi.»

Tutti, tutti, eccettuati glistudenti, ancora alla vetrata,videro allora l’operatore,quell’omone a cui le lenti agiorno conferivano un che diadolescenzialenelvolto,farsiindietro dalla eroica “pietra

datagliare”esfilarsiiguanti,perché l’intervento a quelpunto doveva considerarsifinito.

La paziente Aminarestava sola, solama avendosempre alla sua testal’anestesista che l’occhio daunpezzonondistinguevapiù,così tanto ormai faceva partedella figura di lei, messa inquella sua posizione,all’apparenza di tutto riposo

per lei ma che affaticavatremendamente chi laguardava.

Stava sempre in quellaposizione, come ci dovesserestare in eterno, quando leinfermiere le cambiarononuovamente i teli e leinservienti, manovrando collettino, la portarono fuoridallasalaoperatoria,sei,setteoredopochev’eraentrata.

L’anfiteatro si sfollò

innanzituttodeglistudentichesi muovevano tutti come inpunta di piedi, tantorapidamente quantosilenziosamente,epersinoglisguardi che andandosenerivolgevano al regalemarito-fidanzato, anche quellisembravano muoversi comeinpuntadipiedi.

L’Emiro, lui, non sistaccavadallavetrata,cirestòsinché Belardo non gli si

avvicinò sussurrandogliqualcosa nel mentre che colbraccio gli indicava giù insala operatoria. Giù, assiemealle due inservientiindaffarate a rimettere inordine la sala operatoria,fermo, come in attesa, chelevava lo sguardoall’anfiteatro, si tratteneva ilgiovane assistente plasticoche aveva fatto da speaker.Nonpotevacheessereluiche

BelardoindicavaalTE-miro.S’avviarono per scendere

e Mattia rifletté: l’Emirovorrà dare un’occhiata davicino alla sua Amina, maprima,aquantosoeaquantovedo, dovrà pure lui,nonostante sia un emiro,sentire dai plastici, nellapersona del giovaneassistente, mi pare di capire,quelle che con espressioneinfelice vengono chiamate

“istruzioniperl’uso”.E a quanto ancoraMattia

vide,leistruzioniperl’usoleavrebbesentitedasoloasolo,senza nemmeno Belardopresente. Costui, difatti, infondo alla scaletta, sitrattenne solo un attimo perpregarel'Emirodiascoltareilpiccolo plastico che làattendeva e anche luis’allontanò.

II giovane assistente,

come parlasse ancora nelmicro-fonino, con la cruda,crudele verità del parlarescientifico, trasmise secondoroutine all'Emiro, senza maiapostrofarlo direttamente, leistruzioniperl’uso.

«Ancorasottonarcosidacurarico»avevapresoadire«la paziente non ha potutoaverne coscienza e non haquindi subito alcun traumaper quel corpo estraneo,

perlappuntol’intruso,cheleèstato introdotto nellaneovagina appena cruentata.E neanche dopo, venendofuori dalla narcosi, avvertiràdi avere quel corpo estraneodentro. Sarà traumatizzanteper lei fraottogiorniquandonoi glielo tireremo fuori percontrollare se le pareti deltunnel, fatto di quel tessutoestremamente lasso, sireggono o franano non

appena l’intruso le vienetolto. Da quel momento, espessopersempre,lapazientecomincia la sua vita incomune con l’intruso. Lei dasola, quel corpo estraneo, lometterà e terrà nella vaginaper rinsaldare le pareti deltunnel, eccettuati i brevimomenti del coito, coito chesarà bene tenerlo presente, ledarà dapprima un orgasmosolo clitorideo e poi anche

vaginale,quando losostituiràcol fallo del suo partner. Diquei momenti solo lei potràdiresequellochesentedipiùè il trasportoper il falloveroe proprio, il fallo del suopartner, o la nostalgia per ilfallo artificiale, perquell’intrusocolqualeormai,più che con quello, avràdimestichezza a stare incompagnia e a convivere.Malgrado questo però, la

forza del sentimento e lapotenza dell’amore operanoquasi sempre il miracolo. Laneovagina e il suo partnerintraprendonoduevoltesutreuna vita matrimoniale moltonormale e felice, senzanessunterzoincomodo,senzacorrere insomma il rischio difareménage à trois, lei lui el’intruso, come si potrebbetemere.»

Visto da poco distante

l’Emiro, incombentedall’altodella sua statura, ascoltavacon un’espressione chenemmeno se le parole delpiccolo plastico fossero statigranellidisabbiacheilventodeldesertosollevavacontroisuoi occhi socchiusifacendoglielilacrimare.

L’ormai centenario Index

Medicusnonèunfascicolettotipo Current Contents, delformato di un quaderno, chesi può comodamente leggerea letto e poi mettere sulcomodino.

L’Index è un volumone

sempre sullemillecinquecento pagine,poco maneggevole,impossibiledaleggerealettoe troppo ingombrante perpoterlo tenere sul comodinodove peraltro ogni numero,per la sua quasi inesauribilericchezza,sarebbedestinatoastare come livre de chevetsinoperlomenoallacomparsadelnumerosuccessivo.

Questoperdirecheerada

escludere che il Professorepensassediportaresunelsuoappartamento, come forsefaceva spessocoi fascicolidiCurrentContents,quell’indexMedicus appena arrivato, perdarvi un’occhiata, prima allepagine sotto la P, e poi allealtrequielà.

Erapocoprobabilequindiche il Professore venisse aconoscenza della cosa quellostesso giorno, era più

probabile invece che primasarebbero passati dei mesi, imesi estivi di sicuro, quelliche sarebbero trascorsiprimadell’aperturadelnuovocorsodiPlacentologia.

Eppoi, quello stessogiorno senz’altro no, perchéquel giorno di giugnosembrava che i dottorini sifossero passata parola pervenire tutti quel giorno allaspicciolata a salutare il

Professore, restandoci poicomeabivaccarefra tazzeditè, tazzine di caffè epasticcini.

Il Professore aveva finitocol prendere anche lui l’ariaeccitata dei dottorini che eral’aria di chi si muove ormaisul piede di partenza. Conquell’aria c’entrava anche ilfatto che Kenio, intanto cheloro si scambiavano saluti eindirizzi, smobilitava

l’istituto, sgomberava a rottadi collo pensando alle AlteTerre della sua Lapponiadoveprestosarebbetornato,etanto per cominciare, facevapile di sedie l’una sull’altra,anche levandogliele a loro disottoilculo.

Nell’affollamento chec’era,Mattia non vide e nonseppe chi furono queicolleghi nelle cui mani ilpostinooKeniostessomisero

l’index Medicus ancoraimpaccato.

Sul primo momento, chisfogliava il volumonedell’index, tanto per farequalcosa, aquanto sembrava,un’ultima cosa coi colleghi,aveva dato una piega allegraalla riunione.Perchéaquellolì, un inglese, gli occhi glierano andati a una citazioneinrusso,inAuthorSection,elui non aveva rinunciato a

leggerla provocando col suoaccentoinfalsetto,nasale,unpo’ alla Oliver Hardy,un’ilaritàincontenibile.

Mattia avrebbedifficilmente dimenticato leprime parole di quellacitazione, che furono quellesulle quali il falso russo sitenne più a lungo, staccandole sillabe per un fintoscrupolodichiaradizione,maprendendosi in questo

qualche licenza dove glipareva che legare sillabe oparole con impacci ebalbettamenti riuscisseesilarante: “A-ta-ral' ge-zi-i-a” andò leggendo “di-pi-do-dodo-dolorum i ise-isedu-duk-sen-ompri...".

Con un’altra citazione inrusso nella stessa pagina,presentata da un team diquattro o cinque nomi,l’inglese improvvisò

addirittura uno sketch dilettore raffinato e sofisticato,favoritodalparticolaretipodivocaboli non eccessivamentefrantumati e disarticolati:“Primenenìe” ricordavaMattia, pronunciatodall’inglese come “primenenie”initaliano,“timalinaubol’nogo simmunodeftsitnym...”.

L’effetto fu davveroesilarante e le risate finirono

col richiamare tutti nelpiccoloambientedellasalettaavetri.

Erano in due a tenergliaperto sotto gli occhiall’inglesecomeunmessaleilgrossissimoIndexequeidue,alla vista del Professore, nonseppero che fare, ancheperché il loro fare dipendevadaquellodell’inglese.

Qualcuno (Mattia non lovide in faccia e per questo

forse non seppe di chenazionalità fosse) portò vial’index ai due aiutanti perdarlo al Professore, ma inquelbrevepassaggiodimanose lo lasciò aprire sullebraccia e fu tantoinfelicemente guidato dalDestino che nel maremagnodi quelle millecinquecentopaginedicitazionil’indexglisi aprisse alla paginasbagliata, alla pagina cioè

dove ricorreva per ben trevolte, su tre righi diversi, lacomunicazione di tre biologiplacentologi relativaalla loro(loro, di ognuno di loro)apocalittica scoperta:“Seminomi, celluleanarchicheplacentariinfeto”.Apocalittica perché dallasinteticissima comunicazionesi deduceva che la placentaespulsa, contrariamente aquanto da che mondo è

mondosierasemprecreduto,nonvienetagliataviadalfetocon lo stesso taglio delcordone ombelicale, maproprio lì nel feto si lasciadietro tot numero di suoiagenti anarchici, killersSeminomi che prendono nelmirinoilnuovoindividuopercolpirlo dopo lunga latenzaunavoltadivenutoadulto.

‘'Seminomi, celluleanarchicheplacentariinfeto”:

la comunicazione dunquedella scoperta, non una solama trina, di tre biologi cheperò stranamente nonformavano un team perchésennò su Index i loro nomisarebbero stati insieme, nonsu tre diversi righi. E poichésu Index entra solol’essenziale, sfrondato dellecuriosità di dentro e di fuoridei laboratori, le trecomunicazioninondicevanoi

“si dice” nati viavia comeintorno a una leggenda,intorno alla scoperta e agliscopritori: alla scopertaraggiunta, si dice, in tredici,dodici e tredici annirispettivamente, e agliscopritori, si dice, che nonsolononcostituivanounteammavivevanoinPaesidiversi,non si conoscevano e noncomunicavano fra di loro,come fossero ognuno solitari

ricercatori,solialmondo.E come se questo non

bastasse alla creazione di unmito intorno ai tre scopritori,s’aggiungevalaquestionedeiloro nomi sui quali,stranamente, i loro titolari,tutti e tre, anche nonconoscendosi e noncomunicando fra di loro,come di comune intesaavevano mantenutol’incognito (perlomeno coi

lettori) partecipando la loroscoperta. I loro nomi diconseguenza, più che apseudonimi erano ridotti asigle,ainizialialfabetiche,A,B, C, seguite da puntini disospensione. Così la loroidentificazione finivacoll’apparireparteessastessadelloromito,laparteanzipiùmitica del loro mito(perlomenoperilettori).

“Seminomi, cellule

anarchicheplacentariinfeto.”In quel momento, alla

presenzadelProfessore,veropatito, vero adoratore dellaplacenta come nessunoignorava nell’istituto,chiunque avrebbe capito cheera decisamentesconsigliabile leggere inquella pagina sbagliata diIndexMedicus, chiunquemanon quello lì che difatti siprecipitòaleggereallacieca.

Gli occhi di tutti,eccettuati quelli di chileggeva senza mettere perniente mente a ciò cheleggeva, furono sulProfessore, annichilito, losguardovuoto,senzapiùlucedivita.Ilpatitodellaplacentasembrava smarrito alla vista,dentro di lui, di quellaHatshepsutcheper lui sinoaun attimo prima era Cimadelle nobildonne, dea d’ogni

nobiltà, e un attimo dopo, alsuonodiquellepocheparole,“Seminomi, celluleanarchicheplacentariinfeto”,lette tre volte daquell’avventatolettore,glieracadutadagliocchiedalcuorefacendosiapezzi.

A Mattia il Professoreappariva ora irriconoscibileda quello che era un attimoprima, reso addiritturainguardabile, come

trasformatodalladelusioneinqualcosa che lui, Mattia,sapeva di sapere ma che inquell’attimo non riuscivaancoraafigurarsidavantiagliocchi, forse perché la paurache gli incuteva era piùgrande della pietà che glifaceva.

Mattia fece allora lui unpatetico tentativo didiversione per sbloccare lasituazione senza sbocco, col

Professore dentro, che s’eracreata nella stanzetta a vetri.Gli prese di mano all’ignarolettore l’index Medicus, cheeradivenutoormaiunoggettopericoloso da maneggiare, etenendolo anche lui fra lebraccia, anche lui se lo fecesfogliare sottogliocchinellesue millecinquecento pagine,in cerca forse d’un pretesto,d’un diversivo appunto allasituazione.Lotrovòoalmeno

locredettelui.Se quello, l’inglese, si

sarà detto, li ha fatti rideretutti facendo lacaricaturadelfalso russo, gliela strapperòanch’io qualche risata sefaccio la caricaturadell’inglese che leggel’italiano. Se non altro glidaròunaviad’uscitaaquestopoverino di Professore chepare paralizzato dalladelusionecheglidette la sua

PlacentaHatshepsut.Su Index aveva

intravvisto una citazioneitaliana di appena due righe.Lesse i nomi del team di trebiologi veterinari: VolellaG.Carvella F. Budetta G. e poilesse la citazione: “Sullacircolazionesanguignaesulleviebiliaridelfegatodianatradomestica”.

Ma l’italiano non è ilrusso e lui non era l’inglese

che s’era esibito prima, lesseinsomma che faceva pena.Però,senessunorise, tutti,sivide bene, gli furonograti dipoter levare gli occhi dalProfessore e guardare lui. Eanche il Professore,inaspettatamente, smise diguardarsi dentro e guardò luioperlomenoquestosembrò.

Mattiaapprofittòdelbuonmomentoedelfattochenellastessa pagina aveva

adocchiato un’altra citazioneitaliana. Lesse il nomedell'unico biologo di quellacitazione,SollatinaC., e poi:“Latubometriadimensionale.Considerazioni derivantidall’analisi dei parametrifisio-patologicidellafunzionedella tuba di Eustachio atimpanointegro”.

Lesse senza provarsinemmeno stavolta a fareridere, ma non aveva ancora

finito e vide che seppuremuti, in una generale ariafunerea, i suoi colleghi l’unodietro l’altro si presentavanoal Professore e glistringevano la mano. IlProfessore, con quella suaimpronta di faccia dainebetito, non mostrava direndersi conto che quelli losalutavano, da quella suaimpronta si sarebbe dettoinvece che per lui quelli gli

facevano le condoglianzeperchéavevailmortoincasa.

Mattia, con l’index inbraccio, s’attardò un pocoprimadiseguireglialtri.NonvedevapiùKenioingiro,perquelchepotevafareKenioinuna circostanza come quella,enonselasentivadilasciaresoloilProfessoreancorasottochoc.

« Professore? » gli sirivolse alla fine per

smuoverlo di là e dai suoipensieri. «Dove lascioquesto? Mi indica lei? » eprendendolo sottobraccio, loguidò lui nella sala delleriunioni.

Là, quando gli mise inbraccio il volumonedell’index Medicus, ilProfessore alzò gli occhi allagigantografia della Paletta diNarmercheeraunanovitàdiquell’anno. Senza levare gli

occhidallaparete,sedetteconl’indexsullegambe.

A quel puntoMattia capìche doveva lasciarlo solo,anche se stava ancora sottochoc. Perché ora Mattia sileggeva in mente quello cheprima solo confusamentesapeva di sapere, quelqualcosa di pietoso, d’assai,assaissimo pietoso, in cui ilProfessore era statotrasformato dalla delusione

dellasuaPlacentaHatshepsut

La delusionetrasforma la personalitàin torso (= operamutilata).

Exc.Med.Psych.

“La delusione trasforma

la personalità in torso (=operamutilata).”

Orachelasuaveritàselasentivacometagliataaddossoin un moncone, quellacitazione di Psychiatria, chedoveva venirgli anch’essa da

qualche Index Medicus, glirisaliva a galla dalle buieprofonditàdellamente.

Ma anche da torso,caparbiamente, si provava acapacitarsidaqualisospettisierano mossi quei suoi trecolleghi placentologi per laloro scoperta diKSeminominelfeto.

Quando, da qualecitazione, da chissà qualenumero di Index, avevano

appresodelquasi incredibile,sempre crescente numero edella sconcertante diversitàdei misteriosi, addiritturamitici Seminomi? “Fra iricercatori si converrebbe,viaviacheseneincontranodinuovi,diregistrarliinCodicecon l’iniziale K di killers,come ad esempio K26, K37,K48,comefosseroconcertidiMozart.”

A capo chino, come

leggesse nell’index cheteneva chiuso sulle gambe lecitazionidella scopertaunaetrina dei colleghi “cacciatoridi farfalle”, si lasciò andare,vagolando con la mente, suquesta via come per unacacciaaritrosodicitazioni,diparti smembrate, diframmenti di citazioni (daIndex Medicus? da CurrentContents? da ExcerptaMedica?) de Seminomibus,

citazioni e frammenti dicitazioni che messeconfusamente, mutilatamenteinsiemedallasuamemoriaditorso, prendevano significatida fantascienza, allarmanti eangosciosi.

Come i seguentiframmenti, esposti in terminidi guerriglia, quasi fosserospezzonidiSOS,qualcosadisimile a invocazioni di aiutoprovenienti da superstiti

formazioni assediate, chissàdove, chissà da quantoimpegnate alla morte incombattimentidiretroguardiacon nemici venuti raramenteallo scoperto e quindi ancorainidentifìcati e forse maiidentificabiliperSeminomi.

Un primo frammentodiceva: “... Si invoca lacomparsa di anticorpibloccantiiKkillers”.

Eunsecondoframmento:

“...Siinvocalaformazionedianticorpi anti-anticorpo acatenapercuiognidifesanonvengabloccata”.

E un terzo: "... In auge,alla stregua di Capi Storicidei K invasori, gli Antigenifetali: Alfafetoproteina,Teratomi, Antigene carcinoembrionario”.

A quel punto si ritrovavachiara in mente quell’ultimamegacitazionechenonpoteva

aver letto su IndexMedicus,smisurata com’era, maneanche naturalmente suCurrent Contents o suExcerpta Medica, e chetuttavia resisteva in quelrimasugliodimemoriacheglilasciava il suonuovostatoditorso.

Essa citazione, come acompimento della piramidegerarchica dei grandi K, erainteramente riserbata alCapo

Carismatico delle molte ediverse frazioni dei K diquella guerriglia, al ChorionEpitelioma, patriarcadi Bethesda nel Maryland,sededegliIstitutidellaSanitàdegliStatiUniti:

“Il favoloso ChorionEpitelioma” questa lamegacitazione“unSeminomadel quale nulla si sa, oggicome trentanni fa, se nonforsecheanchelasuacellula

sarebbeuscitadallacostoladiHenrietta Lacks, per il fattoche anche la sua cellula èconsiderata immortale nonmeno di quella della miticaHenrietta che da trent'anni,senza mai esaurirsi, vienesottoposta a spianti, impiantiedata inprestito a laboratorid’ogni parte del mondo,dall'Urss alla Cina, i quali aloro volta la passano inprestito agli stessi laboratori

che gliel’avevano imprestata.Ciò che di veramente sicurosisadelChorionEpiteliomaèchedatrent'annistirpiestirpidi ratti muoiono permantenere in vita lui, la suacellula immortale. Ci sichiede a questo punto sel’avere scoperto che anche ilfavoloso patriarca diBethesda è un Seminoma, diorigine placentare, significaavere scoperto come

debellare i Seminomi. Ci sichiede in altre parole sequella scoperta porterà a deimutamenti effettivi nellaguerra sempre in perditacombattuta contro queileggendarikillers.”

L’estensore dell’ultimoframmento o di tutta lacitazione chiudeva con unaltro stupefacenteinterrogativo: “D’accordo sulSeminoma patriarca di

Bethesda, ma se è lecitochiederlo, quando cesserà losterminio delle superstitistirpi di ratti che avevano illoro habitat nell’immensoterritorio fra il New Jersey ela Nuova Patagonia e sonoormai in via di estinzione,essendo stati quasiinteramente sacrificati per lasopravvivenza della suacellulaimmortale?”

“Eora?Eora?”

L’interrogativo gli stavasullelabbracomeaquellicheperdono con l’intelletto l’usodella parola, eccetto quelledue, tre sillabe alle quali lalingua, traumatizzata, sembrarisentirsi senza necessità néragione: due, tre sillabe chediventanoviaviacomeil leit-motivdellapersonacheparlaancora da viva quando tuttodella persona è espressionesolo di morte o peggio è un

monconedivita.“E ora? E ora? Ora cioè

che so” si chiedeva ilProfessore “grazie allascoperta di quei tre colleghichelaplacentaèunafabbricadi Seminomi, come potrò,tanto per cominciare,chiamarla ancora HatshepsutPlacenta, Cima dellenobildonne? Eppoi, laProlusionedelprossimoannocome potrò fondarla ancora

sulla Paletta di Narmer, delFaraone chetremilacinquecento anniprimadiCristofecedellasuaplacenta che il padre gliaveva conservato, nessunosaprà mai per qualeispirazione divina, la quartaInsegna della sua Dinastia?Comepotrò,comepotreiora?Lo stesso Faraone Narmerpotrebbe essere morto d’unsuo Seminoma placentare.

Non mi resta che trovarequalcos’altro per laProlusione del prossimoanno, anche se trovarequalcos’altro non mitoglierebbe di sapere quelloche ormai so. Dovreiinventarmi un apologo,risorsa estrema, questodovrei,unapologocheavessecome sottintesa premessaperlappunto la scoperta deitre placentologi che sta qua

dentrosuIndex.“L’idea dell’apologo

potrei dire di averla già, mal’apologonuovosarebbebeneforse farlo precedere dalvecchioapologodella‘topinain estro’ sui rischidell’eccessodellenascite,chesarebbe questo. La topina inestro, cioè in periodo fertile,rinchiusa in gabbia col topo,manda il suo richiamo e iltopocorredaleiafareilsuo

dovereepiaceredimaschio.Idue vanno avanti così un belpezzo, con la topina in estrochemanda il suo richiamo ecol topo che corre da lei,sinché la gabbia non èintasataditopiniesirischiailsoffocamento. La topina inestro allora continua amandareilsuorichiamomailtopo, dominato ormai da ununico istinto, quello dellasopravvivenza, non risponde

piùaquelrichiamo.“Il vecchio apologo della

topina in estro introdurrebbenella mia Prolusionel’apologonuovo,inventatodame sui rischi del contrariodell’eccesso delle nascite.Ammettiamocheungiornolaplacenta non generi piùquesto solo tipo di celluleanarchiche che prima dicolpirefannounapiùomenolunga latenza, aspettandoche

l’individuo diventi adulto, ene generi anche di altre checolpiscono l’individuo anchein tenera età. Con una taleaccelerazione dei tempi diaggressione, quella fabbricadi Seminomi diventerebbeun’Atalanta invincibile nellacorsaelasuacorsaunastragedegli innocenti perchéIppomene, ossia la donna-simbolo, la donna gravida,falcidiata nell’utero, avrebbe

viavia sempre meno di queipomid’orochesonoifiglidagettarle fra i piedi perfrenarne la corsa e non farsiraggiungere, sempre meno,sempre meno... Eccol’apologo. Sentendolo peròmichiedo:conquest’apologolamiaProlusionenonsarebbemonca? non avrei il fiancoscoperto? non avrei lo stessodavantiagliocchi,allaparete,la Paletta di Narmer con la

placenta trionfante in cimaall’asta?”

Hatshepsut tornavad’attualitàperfarleancoradamodello a PlacentaHatshepsut, anche se sulnegativo, post mortem.Perché il trattamento chePlacenta Hatshepsut riceved’abitudine una volta espulsa(gettata nella spazzatura,sotterrata, mangiata) non èforse uguale al raschiare

furioso che Thutmosi avevafatto dei graffiti di Hatshep-sut per cancellarne ognitraccia, ogni ricordo? Lastessa cosa doveva fare luicon quella che era stataPlacenta Hatshepsut,raschiarla via dalla parete,dalla vista, dalla memoria,raschiandola via dal graffitofaraonico,dalcorteotrionfalediHierakonopolis.

La gigantografìa della

Paletta di Narmer, cheall’inizio dell’anno avevarichiestoalMuseodelCairoein poco tempo ricevuto, eraattaccatacondellepuntine inun angolo della stessa paretesulla quale erano state

proiettate le diapositive dellestrips che raccontavano ilgrande Circo mobile diHierakonopolis.

La gigantografìa l’avevaattaccataKenio salendo sullascalettaa forbiceeanche lui,nonostante fosse alto ildoppiodiKenio,nonarrivavacolle mani alle puntine disopra, sicché dovettescenderealbuioingiardinoeprenderequellastessascaletta

da una specie di ripostigliofrequentatosolodaKenio.

Salitoaiprimipiolistaccòla gigantografia e l’arrotolòsenza guardarla, standosenepoi a sentirsi dentro a occhichiusi che effetto gli facevaavere per così dire raschiato(anche lui come Thutmosi,anche se l’accostamentonemmenooralolusingava)ilgià tanto amato, celebratograffito dove trionfava

Hatshepsut Placenta. El’effetto era che quelraschiare simbolico non glibastava. Devo imbrattaredove raschiai, si disse. Soloallorasaràverosfregio.

Dovette improvvisamentericordarsidiqualcosaedebbel’aria di compiacersenemolto: ma certo, ma certo,ecco come l’imbratterò, siripetè con un sorriso, intantoche saliva la scala a due

gradinipervolta.Nella suacamerada letto

aprì l’ultimo dei tre cassettidel cassettone, traboccantedicarte d’ogni colore,grandezza e provenienza: ilcassetto che uno apre giustoquel tanto per ficcarci dentroundépliantpubblicitario,unaguida turistica, una cartolina,una pagina di giornale, ilprogramma di un Concerto,un catalogo e infine, i

souvenirs di un posto dalqualeèappenatornato,sinchéil cassetto pare gonfiarsi diquello che contiene e vieneun momento che richiede uncerto sforzo aprirlo anche sedipoco.

Quando trovò quello checercava, una carta arrotolata,si trattenne dall’aprirla etornò di sotto. Intanto chespiegava la carta, con unapuntina ne fissava ogni

angolo alla parete, dove allafine occupò una piccolissimaporzione in basso (dove luiera arrivato collemani senzabisogno della scaletta) diquanto copriva prima lagigantografia della Paletta.Soloallora,battendogliocchicome ne ricevesse unasorpresa, mostrò di godersiquellavista.

Era anche quella unariproduzione, qualcosa come

unposter,madi assai ridottedimensioni, di un repertoegizio,diunaspecieperòpiùdissimile che simile a quelladellaPaletta:erailcosiddettoFregiodeldioKnumedeldioToth, altrimenti detto FregiodellaVitaedellaMorte.

Collocandosi davanti,quasiallasuastessaaltezza,ilProfessorelovedevatuttonelsuo semplice e simbolicoinsieme.Potè pure leggere la

didascalia che ormai nonricordava più dopo anni daquellasuavisitaalBritish

Museum a Londra:“Knum,dalla testadipecora,speciediMercurioegizio,eradio d’ogni rinnovamento, dalmatrimonio al cambiamentodi casa, ma soprattutto delrinnovamento per eccellenza,la procreazione, il parto.Toth,dallatestadiavvoltoio,eraildiodellaMorte”.

Nel Fregio difatti, duestrani esseri in formeumane,l’uno, Knum, dio della Vita,conla testadipecora, l’altro,Toth,diodellaMorte, con latesta di avvoltoio, sonoraffigurati tutti e due diprofilo: la pecora col suostupido muso e l’ottusoocchio assonnato, l’avvoltoiocolsuolungobeccoaduncoeil maligno occhietto acapocchiadispillo.

Testa-di-pecora, sedutadavantiaunminuscolotorniodi vasaio, che azionapremendo sul pedale con lapunta del piede destro,modella incretaequellochemodella, cioè che crea, cheanzi procrea, a gettocontinuo,èsempreunostessovasoinformadibambino,unbambino appena nato e giàall’impiedi.

Testa-di-avvoltoio, alle

spalle di Testa-di-pecora,chino sopra di lei come perghermirla, con la manosinistra regge un fustino dibambù, poggiato in altoaddosso a Testa-di-pecora.Fra l’indice e il pollice dellamano destra poi, come fosseuno stilo o un bulino, tieneunaspeciedipiccolaroncola,unodiqueicoltellidallalamaricurva che servono per fareinnesti o potature, e con

quello, facendosi luce conuna lumierina, fa per ognibambinosvasatodaltorniodiTesta-di-pecora un’altraintacca sul fustino che ne ègià pieno, la data di morted’ogni individuostabilitaallasuanascita.

Vedere il dio Knum chepremeva sul pedale del suoprolifico tornio, il profilo dipecora, assente più cheapatica, che mentre buttava

fuori dal suo stampo in serieun bambino dopo l’altro,comesbrigassealtrefaccendedi mente nel ruminaruminasonnolento della routine, fuper lui come vedere infunzione il portentosocongegno d’una metafora, lametafora della donna-pecorache invasa, svasa al perniodelsuoinesaustoutero-tornioforme puere su forme puere,bimbetti già bell’e svezzati,

ritti all’impiedi, che corronosulle loro gambette verso lapuerperadestinata.

In contemplazione dellietoeventochesi formavaesiriformavaaltorniomagico,il Professore credette diassistere coi suoi occhifavolosi d’un tempo allatrasformazione comed’incanto di quell’arnesedivino: sfumando e comelievitando, il tornio del dio

Knum si sollevava per aria,prendendodapprimalaformaindistinta di un uccello chepoi subito si molleggiavasulle lunghe ali di unacicogna. IlProfessorevedevaallora,conqueisuoiocchi,lacicogna posarsi sopra uncamino, adagiandovi il cestoche stringeva fra le zampe enel quale stava una creaturainfasce.

Nell’antico Egitto, si

chiedeva allora, tornando aguardareilFregiocogliocchidel presente, gli adulti comespiegavano ai bambini ilmisterioso arrivo di un altrofratellino o di un’altrasorellina?Glidicevanoforse:lomodellòildioKnumalsuotornio? Ma allora,s’interrogava rettoricamente(intuendo con questo di fareancora, suo malgrado,l’esaltazione del graffito che

aveva allora allora raschiatovia, cioè staccato dallaparete), di quanti secoli, senondimillenni,questoFregioè anteriore alla Paletta diNarmer, una volta che laPalettaèdiunperiodo incuigli Egizi sapevano così benecome nascevano i bambiniche a un padre (un uomoqualsiasi, forse, perché no?un portatore di pietre dellePiramidi) poteva venire in

mente di mummificare econservare la placenta delfiglio, che di parte sua,divenuto Faraone, avrebbeportatoquellaplacenta,nuovaInsegna della sua Dinastia,nelsuocorteotrionfale?

Chedoveva concluderne?Concluderne necessariamenteche ilFregiodeldioKnumedel dio Toth, il Fregio cioèdella Vita e della Morte, dalui attaccato alla parete a

sfregio della trionfanteplacenta, finiva per ritorcersia sfregio di se stesso e adesaltazione ancora di quellalì,dellasemprepiùtrionfanteplacenta.

E ora? E ora? E oraniente, si rispondeva. NienteProlusione dell’annoprossimo e niente nemmenoanno prossimo. Niente diniente più. Mentre lei,Hatshepsut Placenta o non

Hatshepsut Placenta, stasemprediscena,dominatrice,io m’allontano dalla suascena come chi sa che hafattoormaiilsuotempoenonsi raccapezza più di quelloche succede. Questo torso otorsolo di personalità che milasciò la delusione, alcicerone non basterebbe più,perché non si tratterebbe piùdi illustrare le suevirtù.Ora,io, Amadeus Planika, sono

arrivato. Anche se un pocoprima del previsto, sonoarrivato. Sono arrivato aPraga.DaWolfgang.

Prima di risalire nel suo

appartamento, il Professores’aggirò un po’ per la saladelleriunioni, inquell’ariadisgombero, colle pile di sedietorno torno, che lui vedevaormai in unmodo accorante,definitivo.

Passando gli occhi suilibri, rivide The humanplacentaecomeperunsensodi rivolta a tutto ciò cheaveva pensato e fatto sino aquelmomento,sinoalFregiodeldioKnumedeldioToth,per distruggere ai suoi stessiocchi il mito di PlacentaHatshepsut, prese il GranLibroeloportòdisopra.

Sedutosi in poltrona, aprìil volume trovando subito,

alle prime pagine, nonmoltepagine dopo la Paletta diNarmer, quello che cercava,che era il ritratto di unsignore con pizzetto eocchialetti tondi che figuravafra ipiù illustripionieridellaplacentologia: O. Grosser,1873-1951, professore diAnatomia alI’Università diPraga, diceva la didascaliachestavasottoilritratto.

Guardando soprapensiero

il ritratto, il Professore sirendeva conto di fare solo inquelmomento,dopodueannidalsuoarrivoaStoccolma,ilprimo passo diavvicinamento, o forsedoveva dire diriavvicinamento, a Praga,città dov'era nato nel 1913 eda dove era andato via coisuoi, fuggiti negli StatiUnitiper sottrarsi alla continuaminaccia dei pogroms

antiebraici.Era stato in vista di un

suo ritorno,o rientroo ritiro,aPragacheavevaaccettatodivenire a Stoccolma per fareda direttore e insieme dacorpo insegnante diquell’istituto, finanziato daunavittima,perennerisentita,della placenta previa, unamiliardaria americana,vedovaenonancoravecchia.

AStoccolma,dadueanni

sieratrasformatoinqualcosacomeilciceronediunpianetasconosciutoperdeigiovanottiappenalaureaticheinseguitodifficilmenteavrebberoavutomodo di bazzicare laplacenta.Duesutresarebberodiventatibiologiochirurghienon certo per fare solo taglicesarei,piùomeno insommadeiBelardo.

Da cicerone illustrava adei giovanotti ancora in aria

di vacanze per laurea, il nonillustrabile mistero dellacreatura (se così poteva dire)chemuorecolvenireallavitadell’esserecheignoreràquasisempre che trovò lei il“bandolo” della sua matassaumana nel tempomiracolosamente breve di seimesi. (“Perché, signoridottori” ecco il cicerone allavoro, all’inizioprecisamente del suo lavoro

“la placenta si forma solo alterzo mese di gravidanza.Primadellaplacentachifadanutrice all’embrione èl’endometrio. Per il tramitedell’endometrio, o decidua,attraverso il trofoblastol’embrioneattingelesostanzenutritizieeigasnecessariallasua crescita e alla suasopravvivenza. Un migliaiodivilliricopronolasuperficiedell’uovo dandogli l’aspetto,

come è stato elegantementedetto,diunpiuminodacipria.Di quei villi, in un secondotempo, si moltiplicano soloquelli che,mentre gli altri siatrofizzano nel cosiddettoChorion Laeve, penetranonella membrana interna,dando luogo al ChorionFrondoso, abbozzo,precursore e capostipite dellaplacenta.”)

Ora che aveva

riattraversato l’Oceano, daStoccolma poteva davverodired’essereormaiaunpassoda Praga. A un passo,intendeva, dal suo fratellinogemello monocoriale,Wolfgang, che dasessant’anni lo aspettava, lochiamava da un certo postoappartatoesilenziosodoveloscorreredellaMoldavaarrivaconun’ecolontana.

Lasciando aperto The

human placenta alla paginacol ritratto del professore O.Grosser, si alzò e andò acercare nella sua camera dalettodentroilcassettonedoveprimaavevacercatoetrovatoil Fregio della Vita e dellaMorte. Anche stavolta, inqueldisordine,ordinatodallasua memoria, trovò quelloche cercava. Era un vecchiodépliantturisticodiPragachegli era stato regalato da un

suo ex allievo reduce dellaguerraantinazista.

Tornòa sedere spiegandoil dépliant a una veduta delvecchio Cimitero ebraico diPraga. Il cimitero era comeun seminato di basse stelimuschiate dal tempo. Stipatefìtte fitte, come se col temposi fosse rivelato poco lospaziootroppiimorti,ancheprima che la mostruosa dittacon la svastica per marchio,

specializzata in deportazioni,lavorasse a pieno ritmo inposti come Terezin BelzerOsvetin Maydanek SobiborBergen-Belsen IzbicaFlossenburg Gross-RosenOranienburg Treblinka LodzLublin. Per questo si aveval’impressione che fra le stelifosse quasi impossibilemuoversi come se i mortifosseroseppellitiacontattodigomiti, anche lì, fra stele e

stele.Unadelle steli, fra quelle

in primo piano nellafotografìa, era contornata daun segno a matita: una stelepiù minuscola delle altrevicine,speciediquellachelestava dietro, che nelconfronto la rimpicciolivaancora di più, una stele nontanto vistosa quanto solenne,conqualcosacomeunarcoditrionfo scolpito per facciata

della tomba, il cui titolare sicitava con devozione nelladidascalia della fotografia:“Tomba di Jehuda Liva benBezalel, il celebre RabbiLöw,mortonel1609”.

Un nome, Wolfgang, eunadata, una sola, di nascitae insieme di morte, 15-10-1913,eranoscrittiapennasulmargine bianco dellafotografia, molto ravvicinatoalla piccolissima tomba di

neonato.Amadeus, non sapeva da

quando,sentivadinonfarcelapiùaresisterealrichiamodelsuogemellomonocoriale,cheancora a sessant’anni lotratteneva a uno stadio difetalitàcheera tuttunostadiodi fatalità. Perché, fra i duegemelli, l’uno, Wolfgang,primo nato, anche se natomorto, anzi proprio perquesto forse, tirava a sé da

tuttiquegliannil’altro,ilnatovivo,Amadeus, e questo, colsuo rimorso di sopravvissutoche mai gli dava tregua, sioffriva docilmente,inertemente, come cosa sua,del fratellino, a farsi tirareverso il suo stato di morto,accanto a sé, in quellaminuscola tomba delCimiteroebraicodiPraga.

Una vampata di rossore.

La prima volta che a paginadiciassette di The humanplacenta (sedici pagine dopolapaginaunodov’èlaPalettadi Narmer) aveva incontratoil ritratto del professore O.Grosser nella galleria dei

grandi ricercatori dellaplacenta, s’era sentitoavvamparedirossore.Questoperché il professore O.Grosser sembrava aspettarloda tempo, da dietro gliocchialetti tondi, dal fondodel suo sguardo aguzzo, perrimproverarlodiignoraresinoa quel momento un illustrericercatore,natoaPragaeconcattedra di Anatomiaall’UniversitàdiPraga,quale

lui era. Inquisito da quellosguardo, arrivò a pensareaddirittura che il professoreO.Grossersapessechelui,là,fra quei sommi ricercatoribiologi, si sarebbe desideratodi trovare qualche altroricercatore placentologo diPraga, qualche altro di suaconoscenza, qualche altrosotto il cui ritratto (ma nonsapeva immaginare qualevolto potesse avere,

eccettuate le pupille, che illavorare una vita a scrutarenel microscopio dovevaavergli dilatato come quelledi un gatto) si sarebbe letto:“Professore Karl Lazarik,scopritore del ChorionFrondoso”. Ma le cosestavanocomestavanoeselà,inThe human placenta c’erail ritratto del professorGrosser, c’era perché ilprofessor Grosser si era

acquistatograndereputazionee fama quando nel 1908 e1909aveva fattoconoscereatutto il mondo scientifico,come diceva il testo di Thehuman placenta, “unaclassificazione istologicabasata in parte su unapresunta attività biologicadellaplacenta”.Selà,inquelpantheon, non c’era invece ilritratto del dottore (e nonprofessore) Karl Lazarik, era

perché del suo Albero dellaVita,cresciutofraglistentiinun laboratorio di fortuna,situato fraun argentiere eunorologiaio, in una stradinaumida del ghetto, tutta dicasette pianoterra e abbainocon finestrella a inferriate,nessuno, eccetto lui,Amadeus, aveva mai saputoniente.

Rivivendo il suo ricordo,aveva fra le palpebre

socchiuse come la visione dilui bambino che la madremandava per qualchecommissione,eluiognivolta,sbrigando di corsa lacommissione, con una brevediversione faceva inmododipassare per quella stradina,davanti a una di quelle portechiuse.

Dietro quella porta, datanti anni, da prima cheAmadeus nascesse, il dottor

Lazarik “tentava”, come ilvecchioostetricodottorEliahsi espresse una volta colpadre di Amadeus, “di farnascere un alberomeraviglioso da una radicepiù sottile di un capello”. FucosìcheAmadeussentìperlaprima volta, per bocca delvecchio dottore, nominare ilvilloeilChorionFrondoso.

Per anni, correndo strettoallacasa,conl’orecchioquasi

accostato alla porta, pensavacheprimaopoi,unadiquellevoltecheilventosoffiavaperlastradina,avrebbefinitocolsentireunostormiredifrondeproveniredadentrolacasa.

Ma che cosa veramente,oltre alla speranza di sentirein un giorno di vento lostormire del ChorionFrondoso, loattiravaaquellaporta dietro la quale non gliriusciva di gettare mai

nemmeno uno sguardofuggevole? L’attirava,Amadeus lo sapevabenissimo, il suo gemelloWolfgang. Perché il dottorEliah,dopoaverassistito suamadre, aveva chiesto laplacenta del tragico partogemellare monocoriale. “Laporterò”avevadettoalpadredi Amadeus “a quel poverogiardiniere, il dottor Lazarik,perilsuoAlberodellaVita.”

Julian Planika, anche seera un sognatore (suonò ilflauto nelle orchestrine deicaffè, sinché glielopermisero), non dimenticòmai quelle parole che ripetètaliequalialfiglioannidopoperché sapesse che laplacentasuaedelsuoinfelicefratello non poteva fare finemigliorediquella.

FuggitiiPlanikadaPragae rifugiatisi poi negli Stati

Uniti, Amadeus continuò nelricordo a passare davanti allaboratoriodeldottorLazarik.E crescendo e andandopoi aMedicina, nel suo ricordo lericerche che il dottorLazarikportava avanti dietro quellaporta si arricchivanoprogredendo felicemente conlostessosuoprogredireneglistudi a Ostetricia eGinecologia.

Un bel giorno, così

fantasticando, finiva colpersuadersi di ricordarequello che mai era avvenutonel laboratorio situato fral’argentiere e l’orologiaio:arrivavailgrandemomento,edopo anni e anni di ricerchesulla Faccia Materna diplacente racimolate qui e là(comequelladeiduegemelliPlanika) e sfruttate sinoall’osso, con un esperimentoche poteva apparire più da

stregone che da scienziato,consistente in unamicroscopica, quasiinvisibile, colata caldabollente di pasta di caucciùdentro una sezione di villo,Karl Lazarik, per primo almondo, aveva provato lastruttura a stampo d’alberoperlappunto del villo. KarlLazarik scopriva così, nelfantasioso ricordare diAmadeus, il Chorion

FrondosooAlberodellaVita,perlappunto.

In quel grande momentoAmadeus veniva preso da untremito di commossapartecipazione all’eventomaivissuto dal dottor Lazarik(deportatodainazi anche lui,c’era da pensare, e finito inunadiquellenumerose fossecomuni ceche): tremito cheera già forse l’oscuropresentimentodelsuodestino

di ricercatore senzaispirazione né quindisuccessi, destinocheavrebbeaccettato con animo puro,lontanodallosconforto,comese ispirazione e successi chearridevano agli altri,arridesseroanchealui.

Muovendo molli molli le

ali cinerine, i gabbianiremigavano sopra villini epalazzine come fosserobastimenti alla fonda fra uncanaleel’altro.

Seguiva il volo deigabbiani con tutti i suoi

occhi, aguzzando quelli dellamente più di quelli dellavista, per non pensare (odoveva dire già per nonguardare, anche se si trattavadegliocchidellamente?).

Tentava inutilmente didistrarsi perché dalmomentoche aveva detto: ChorionFrondoso, pensava già aiquattroRabbidellaLeggendaCassidica, sapendo peresperienza che pensandoli,

questione di attimi e glisarebberoapparsidavantiagliocchi,comeevocatidaquelledueparole.

Era un fenomeno che glisuccedeva di fatalità senzamai fallire, come un riflessocondizionato: nominato ilChorion Frondoso, i Rabbi,tre dei quattro cheeffettivamente erano nellaLeggenda(ilquartoeracomefosse lui), gli insorgevano in

mente, gliela affollavano,sinché non aveva comel’impressione di vederselicomparire davanti, uscitiglidagliocchi.

Anche stavolta, comesempre gli succedeva, sottol’assillo della loro presenza,la sua mente entrò in unafebbrile attività visionaria:sulla vetrata della veranda,resa da rami e foglie dibetullecupacomeilfondodi

uno specchio, fu allora comese a occhi aperti li vedessespecchiati là dalle sue spalle.Trefigureconlozucchettointesta che restando immobili,facevano la mossa diavanzare,o era l’impressionesua, come avanzano secoloper secolo, prima uno, poil’altro, poi l’altro nellaLeggenda Cassidica. (Inquella cioè che è come lasacra metafora sul

progressivo smarrimentodella fede e della via delTempio in mezzo al popoloebraico, metafora che eratuttoquellochediebraicounebreo sradicato ed errantequale lui in fondo era, siportava appresso come perfarsene un rimprovero per ilrestodeisuoigiorni.)

Il Rabbi Bàal-shem, ilprimo a comparire nellaLeggenda, sapeva come

andare in un certo posto nelbosco, accendere il fuoco edirepreghiere,ottenendocosìi favori del Dio per il suopopolo.

Alla generazionesuccessiva, il secondoRabbi,il Muggid di Meseritz, nonsapevapiùaccendereilfuoco,ma sapeva ancora comeandareinquelcertopostonelbosco e dire le preghiere,ottenendo così anche lui i

favori del Dio per il suopopolo.

Alla terza generazione,RabbiMoshèLeibdiSassownon sapeva più accendere ilfuoco né sapeva più dire lepreghiere, ma sapeva ancoracome andare in quel certoposto nel bosco dove i suoipredecessori accendevano ilfuocoedicevanolepreghiere,e questo solo bastava perottenereancheluiifavoridel

Dioperilsuopopolo.Alla quarta generazione

infine, Rabbi Ysrael diRischin non sapeva piùaccendere il fuoco né dire lepreghiere, né sapeva piùandareinquelcertopostonelbosco. Seduto su una sediad’oro, nel suo castello, eglisapeva solo raccontare lastoria dei suoi più fortunatipredecessori. Ma anche così,da Rabbi decaduto a custode

di un museo di ricordi,ottenevaancheluiifavoridelDioperilsuopopolo.

EradatempoormaicheilProfessore s’identificava colquarto diseredato Rabbi.L’illusioneerataleognivoltachecredevadiavereancheluiunozucchettointesta.

Stavolta però non avevanessun bisogno diidentificarsi, si riconoscevapersonalmente nel quarto

Rabbi, quale diseredatoplacentologo decaduto acicerone.Perquesto,stavolta,c’era qualcosa dicommemorativo e di funereoin quella evocazione deiRabbi della LeggendaCassidica.

All’origine di quelriflesso condizionato,Chorion Frondoso=Rabbi,c’era la pericolosaavventatezza fatta molti anni

primaquandocomegiocandocol fuoco, aveva profanato ilsacro tessuto della Leggendainterpolandovi appunto,scioccamente, il suoChorionFrondoso.

Ripetendosi una seracome tutte le sere a mo’ dipreghiera quella Leggenda esuccedendogli ancora unavolta di immalinconirsi percome gli sonavasquallidamente indefinito e

anonimoquel“certopostonelbosco”, a quel punto eraandato seguitando eseguitando(solocogliannisirendeva conto quantobambinescamente), vi avevafatto come un inserto,“piantato a ChorionFrondoso”.

Con ciò, senza avernecoscienza, aveva messo adimora,comesidiceappuntodi un albero, quel ricordo

oscuro e premonitore dellasua infanzia legato al dottorLazarik e alle sue ricercheintorno a un albero dallaradice più sottile, assai, assaipiùsottilediuncapello.

Ma con ciò anchecominciava a portarsi dietrocome una punizione quelcondizionamento nella suamente,percuiognivoltadireChorionFrondososignificavafatalmente per lui evocare ai

suoi occhi i Rabbi, giudicisempre temuti ma che poi,oltre alla comparsa, nonandavano.

SeperiRabbieral’assillodipensarliafarentrarelasuamente in una febbrile attivitàvisionaria, figurarsi coi trescopritori che da ore (daquando quel dottorino s’erabuttato a precipizio, con lasua voce del Destino, aleggerequelletrecitazionisu

Index Medicus) col loropensierononrappresentavanosolounassillomaaddiritturauno sconvolgimento per lasuamente.

Nelfarsivisionarialasuamente perciò non si limitòcon essi come coi Rabbi auna semplice evocazionedove non faceva chemetterein testa a degli automi unozucchetto, senza nessunospirito di intrattenerli e

dialogarci. Con essi, conquelle tre figure dai volti enomi anonimi, dal momentoche si specchiarono sullevetrate al posto dei Rabbi,non gli bastò mettergliaddossodeicamicibianchidalaboratorio: per fare di trericercatori qualsiasi treplacentologi, come segno diriconoscimento dovettemettergli in mano a ognunoun retino per la caccia alle

farfalle.Tre“cacciatoridifarfalle”

dunque, come per i lorodenigratori, che per luisignificarono i tre ormaicelebri scopritori deiSeminomi placentari, i treCavalieri dell’Apocalisseannientatori di HatshepsutPlacenta, quella Cima dellenobildonne da lui tantocelebrata.

Si commosse, sentì

finalmentedidoverpiangere.Come se ne vergognasse,quasi che quei tre fosserorealmentelìaguardarlo,andòa prendere un fazzoletto.Tornando, quei tre li ritrovòdove li aveva lasciati senzanemmeno bisogno dirimetterli a fuoco. Vedendoche s’asciugava gli occhi colfazzoletto, sembraronochinare il capo, assumendostranamente l’apparenza di

persone in visita dicondoglianza.Significavacheavevano interpretato male ilsuo pianto. Lui piangeva dicommozione per il fatto divederli, di conoscerli, tregeni,eloro,chissà,dovevanoaver pensato che piangevasulla sua sorte, piangeva perle conseguenze che la loroscoperta aveva già nella suavita. Perciò doveva smetteresubitodipiangere.

Non si conoscevano néavevano mai comunicato fradi loro, ciononostante simiserotuttietreaparlottareeparlottando vide cheaccennavano a luiindicandoselo coi retini, poi,asorpresa,facendogliognunoun mezz’inchino, li videstupefatto trasformarsi sotto isuoiocchi, da seri emutriosiscienziati in un trio benaffiatato di comici fantasisti,

un trio che gli ricordava ifratelliMarx.

Da dove stavanospecchiati alla vetrata inaleatorio equilibrio, sistaccarono come volasseroimprovvisamentedisotto,sulviale deserto ma ancoraluminoso di luce naturale aquell’ora che non era piùgiornoenoneraancorasera.

Uscì allora sulla verandada dove aveva la vista di

buonapartediStoccolma,colPalazzo Reale distinguibileneiparticolarieilviavaidellagente.

I tre, prima di portarsialtrove, si esibirono a lungoproprio là davanti, sul viale,avendolo come unicospettatore. Lo spettacolocominciavadalorostessi,dalloro comportamento di follifolletti folleggiami fraacrobazieefunambolismi.

Vide che per prima cosa,senzachesi capissedadove,tiravanofuoriuncilindroeselo passavano l’un l’altro cosìrapidamente che ognunocontemporaneamentesembrava avere un suocilindrointesta.

Il cilindro preludeva alfrac.Ognuno, sotto il camiceda laboratorio, ne portavaaddosso una parte: unoportavaintestaperlappuntoil

cilindro e in più lo sparatoinamidato,unaltrolamarsinaa coda di rondine, il terzo ipantaloniconlacosturaailatielescarpedicoppale.

Era dunque per questochesitrovavanoaStoccolma,era, a quanto sembrava, perricevere il Nobel. Quellastranezza di un solo fracdiviso per tre dovevasignificare che il Nobel gliveniva assegnato a tutti e tre

insieme come fossero unteam, come se cioè perarrivare alla loro apocalitticascoperta, avessero lavoratouniti e non invece, com’erastato in realtà, ognuno perconto suo, senza nemmenosapere l’uno dell’esistenzadell’altro.

Non ricordava né ilmesené il giorno della cerimoniadei Nobel, avrebbe potutoessereanchequelgiorno.Ma

intantovedevaitrescopritoridei Seminomi ancora lì acomportarsi clownescamente,ognunocol suopezzodi fracsotto il camice, ognuno cheimpugnavailsuoretinoperlacaccia alle farfalle, portatoper sfida a quelli che sino aieri avevano beffeggiatoanche lorocomefannullonieperditempo.

Ma come fossero i suoiocchi stanchi e straluciati

dalla falsa luce delmomentoa creargli quell’illusioneottica e non loro che comedotati d’invisibili ali sialzavano a un tratto per aria,li vedeva a un certo puntoandarsenediquaedilàsoprala città per il cielo diStoccolma come figure diChagall.

Non s’aspettava di essereancora sorpreso e invece losorpresero ancora e ora con

ben altro che quelle matterìedafratelliMarxconquellorounico frac.Ora lo sorpreserocome mostrassero che avevaun fine tutto quel loropasseggiareperariasullacittàe il fine era quello che stavavedendo,prima sconcertato epoisubitoindignato.

Livedevaquie là,chesicalavano come falchi, falchipiuttosto grotteschi inquell’abbigliamento ibrido di

camiciepezzidifrac,quandoavvistavano delle solitariegiovani donne che apasseggio in questo o quelparco,atteggiateinvisoaunastruggente malinconia,spingevano ognuna unacarrozzina per neonato senzaneonato dentro: rare vittimedi rari aborti, ragazze che datutto l’insieme a prima vistapartecipavano l’immediata,drammatica sensazione della

loro mancata maternità,maternità nella qualecontinuavanoasperare,anchesepotevanorimanerevittime,ancora e ancora, di altriaborti.

Seguendole con occhiotrepido, commosso, mentreognuna, in vestaglia,muovendosilenta,trasognata,spingeva la sua carrozzinapateticamente vuota, venivada pensare che per esse, così

intensamente in aria prema-man, era come non fossesopravvenuta nessunainterruzionedellagravidanza,e questo anche se dalleaperture delle vestaglie sivedeva come avessero sottol'ombellico delle borse damarsupio dalle qualisporgevano,similiapupattolidi cera, i fetini, appenaappena formati, dei loroaborti.

Al cospetto delle ragazzei tre scopritori sicomportavanocomeseailoroocchi,vistisolodaloro,dalleborse di marsupio dellemancate madri i fetini sistaccassero come invisibilicrisalididalbozzolo,crisalidiche sbattendo le aiucce,accennassero a sollevarsi peraria. Qui allora, saltandodietro quello che vedevanosoltanto i loro occhi, i tre

biologi scopritori deiSeminomi placentari,prossimi Premi Nobel,intervenivano coi loro retini(facendo davvero una voltatanto e piuttostoselvaggiamente i “cacciatoridi farfalle”) e catturando lecrisalidi visibili solo a loro,interrompevanoquell’abbozzo di volo dellelarvalicreaturine.

Aquelpuntodovevadirsi

che era come se quei tre glifossero sfuggiti di manoperchénongliapparivanopiùquali lui li immaginava maquali essi stessis’immaginavano. Sicché nonriusciva più a leggerci, nonriusciva più a vederci unsenso in quel lorocomportamento.

Erano a Stoccolma nelle

oreprecedentilacerimoniadipremiazione, per ricevere ilNobel quali scopritori deiSeminomi etutt’all'improvviso se neuscivano in quellasceneggiata da cacciatori difarfallecomeperrivalersisuiloro denigratori, quelli che liavevano sempre sfottutiperché convinti che là, nellaplacenta, non c’era nulla daricercare mentre loro (loro

tre, trechevivevano inPaesidiversi, che non siconoscevano nécomunicavano fradi loro) là,nella placenta, avevanoricercato e trovato quellaterribilitàdicosa,perlappuntoi Seminomi per la cuiscoperta avevano avuto ilNobel.

Ci domandiamo,sembravano dire a queisignori con la loro grottesca

pantomima intorno a quelleinfelici ragazze, se voi civedete sempre col retino inmano a caccia di farfalle,anche ora, anche qui aStoccolma dove stiamo perricevereunNobeldallemanidelRediSveziaperlenostrericerche nel campo dellaplacentologia, ricercheculminate nella scoperta dicerte cellule anarchiche chequalche volta la placenta

espulsa si lascia dietro nelfeto.

Ma qui, come fossequesto il primo segno chefinalmente usciva da quellapiù che febbrile attivitàvisionaria,siresecontocheidenigratori a cui sirivolgevano i tre scopritori,non c’entravano per nientenelle sue immaginazioni.Luinon era là per denigrare i trescopritori,tutt’altro.

Equidifatti,chiamandosiin prima persona a giudicareil suo stesso, complicatoatteggiamento,l'atteggiamentodell'hatshepsuttiano,dell’adoratore cioè diHatshepsut Placenta,contrastante, ostileaddirittura, conl’atteggiamento delplacentologo, si scoprì che sisentiva lusingato di avere

immaginato come cosa reale,data per fatta, che un Nobelveniva assegnato ai trescopritori, che si ritrovavanotutti e tre a Stoccolma dove,sconosciuti, si riconoscevanodai pezzi di quell’unico fraccheportavanoaddosso.

E infine, a proposito diquesto fantomatico Nobel,assegnato nella suaimmaginazione al mitico triodiscopritori,nondimenticava

la signora Dawson, nondimenticavacioècheavrebbedovutodarglienenotizia.

Lui, la signora Dawson,anche se gliene sfuggiva lamentalità(oforseproprioperquesto?) l’aveva in grandeconsiderazione e questo nonperchéeralafinanziatrice,maprima che finanziatrice,creatricedell’istituto.

Avendo rinunciato allamaternitàdopoavercorsoper

laplacentagravissimorischiodi morire, la signora avevastabilitoconessa,per lavita,un morboso rapporto d’unanatura,secosìsipotevadire,materfiliale che stava allabasediquellocheera,népiùnémeno,unasuainvenzione,quell’istitutodiPlacentologiafatto sorgere nella patria delsuo defunto marito, unosvedesediGöteborgemigratonegliUsa.

L’avrebbegiàavvertitasesi fosse trattato realmente diun Nobel, di un Nobelrealmente assegnato ai trericercatori A, B, C (Cosìcome, di prima impressionesembrava, nel suo altoprestigio Index Medicus gliaveva concesso ospitalità,dato forse l’enorme sensod’eversione della scoperta ela singolarità degli scopritoriche ignoti l’uno all’altro

avevano lavorato come in unsolo laboratorio, nemmenoformassero un teameccezionalmenteunito).

La signora se lo era fattopromettere più volte diinformarla se veniva dato unNobel a un ricercatoreplacentologo, eventocomunque piuttostoimprobabile trattandosi diricerche ancora in fasepionieristica. Informarla:

chiunque e di qualsiasinazionalità fosse, qualunquecosa l’ipoteticoNobel avessescoperto che ancheminimamente scalfissel’enigma della placenta. Leiallora si sarebbe precipitatadaCincinnatiaStoccolmaperesserepresenteallacerimoniadipremiazione.

Per questo non avrebbemancatodiavvertirlanelcasodaluiimmaginato,ilcasodel

Nobel dato ai tre scopritoridei Seminomi placentari,sebbenequella,arifletterciunpoco, era una scoperta chepiùchescalfirel’enigmadellaplacenta,lofortificava.

Ora, ormai però, casomaisi fosse verificatoquell’evento, improbabilemanon impossibile, ad avvertirelasignoraDawsonciavrebbepensato un altro, non lui, ciavrebbepensatochivenivaal

suo posto alla direzionedell’istituto perché lui siconsiderava già, da subito,come non l’occupasse piùquelposto.

A questo punto,mettendoci dentro anche lasignora Dawson, era statacome un’impresa, impresa didecoro soprattutto, quasidisperatadaportareatermineper lui, per lui che nondisponeva più di tutta intera

la sua personalità masolamentedeltorsodiquella.

S’era dovuto dare un belpo’,unbelpo’molto,ditonoe stringere i denti emordersile labbra per non mettersi apiangereerinunciare.

Ma qui, non appenaabbassò la guardia, il piantoche sino allora si era mossodentro di lui con ondate avaevieni, gli dilagò negliocchi come lo accecasse. Fu

come se contenuto ma fattogonfiodal continuovaevieni,quello fosse lo stesso piantodi prima, di quando lapresenzadei trescopritorigliera apparsa come quella dipersone in visita dicondoglianze.

Ora quel pianto lopiangeva senza vergogna,talmente senza vergogna chesi potè persino figurare che itre scopritori fossero ancora

là a guardarlo, ancora conquell’ariadipersone invisitadi condoglianze. Stavoltaperò piangeva il suo piantoaccordato alla loro contritaespres-sione di circostanza.Lui piangeva per il suo luttoche era, inutile girarciintorno, perché la sua Cimadelle nobildonne era crollatasottoiSeminomichequeitreavevano scoperto e adessovedevano con quali

conseguenzeperlui,anchesenon dovevano spiegarsi benela cosa. Chi, quale AmadeusPlanika piange? moltoprobabilmente si chiedevano.Il placentologo no, ilplacentologo è da escludereche pianga per una scopertacome questa dei Seminomi,geniale anche se marcatad’apocalissismo. Allora chi,quale Amadeus Planikapiange?L’uomoforse?

La cancerofobia sirivelaall’elettroencefalogrammacon aumento delle ondeteta (frustrazione)e irregolarità delle alfa(le onde deputate allatranquillameditazione).

Electroenceph.

din.Neurophys.Due fatti inducono a

proteggere e arisparmiare la vita: ilprimo riguarda lamoscadomestica chetrattenuta, clausurata,impedita anche adeccessivi trasporti

amorosi, raddoppia lasuavita.

Il secondo fattoriguarda i grandi atleti,quellifamosi,chehannosperperato energie, chevivono due anni menodella popolazionecomune.

Geriatrix,

27,’53

I Nobel delle varie

discipline, personaggicommisurati nelle loroprestazioni,programmati,alieni da sperperi,vivono cinque anni dipiù dellapopolazionecomune.

Alfred

Nobel.Lasuavitaeisuoi

premi,Sanremo

1931

Così andando avanti le

sue cose, al Professoredoveva capitare prima o poianchedi fareun sognocomequello, un sogno checominciava con lui checredeva di avereun Seminoma, un Seminoma

che lo teneva nel mirinoda sessant’anni,coetaneamente, età-limite,pensava lui, perché entrol’anno l’anarchico placentarevenisse molto probabilmenteallo scoperto. (Scambiandocosì per un’idea di morte ilsuo istinto di autopunirsi. Lasua imperdonabile colpa eral’adorazione in cui avevasempre tenuto HatshepsutPlacenta,maperciò stesso il

suo istinto di autopunirsiriusciva anche punizione perlei, per quella Cima dellenobildonne.)

Sognarsi di avere unSeminomaesognarsididirsi:chi mi dirà comecomportarmi in quel“momento cruciale”? eratuttuno.

Nelsuosognosognavaditrovarsi su una striscia diterrenoche stavaesattamente

al mezzo di duecampi sportivi contigui, unodi baseball, dalla forma “adiamante”, segnato dallecase-basi,el’altro,dalleportecogli alti pali simili a quelledirugby,riconoscibileperuncampodifootballamericano.

Il campo di baseball erasormontato da unamontagnache aveva la cima avvolta dinubi bianche e azzurreche come in un festone

formavano le lettere di unnome,Olimpo.

Suuna tribunettaaibordidel campo riconoscevaGiove. Con Giove c’eraMercurio che riconoscevaperlealetteaipiedi.

Giove era tutto intento aosservare un giocatore dibaseball, certo un battitore,che stando lì davantiallatribunetta,siapprestavaadargli un saggio delle

sue capacità. A occhio ecroce si sarebbe detto cheGiove, dalla eccellenzapiùomeno divina dei suoicolpi,avrebbedecisoperquelbattitore l’unica cosa chelui, dio degli Dei, decideva,l’assunzioneall’Olimpo.

Il battitore, invece dellamazza stringeva fra le maniqualcosa come un tubo diplastica che fra un attimosi riconoscerà per il cordone

ombelicale di unaplacenta artificiale (unaplacenta da laboratorio, unatata), si riconoscerà quandoMercurio, tenuto per ariadalle alette ai piedi, invecedellapallaeraproprioquella,una placenta artificiale didimensionimoltoridotte,chegli lanciava.Ciononostante ilbattitore batteva viacongrandeforzaedeleganza,senza nemmeno seguirla

cogli occhi, da verocampione, quella cosa che lostesso Giove, non si capivacome, stando nellatribunetta, riceveva nelguantone alzandofulmineamente la mano. Poi,altra cosa che non si capivacome avvenisse, la palla-placenta passava da Giove aMercurio che faceva lui dalanciatore mentre Giovefaceva solo da ricevitore.

Mercuriolalanciavadinuovoal battitore che si ripeteva inquel suo numero eccelso diforza ed eleganza, battendovia con la mazza-cordoneombelicale. Giove ricevevaancora nel guantone consomma facilità, senzadistoglieregliocchiammiratidalbattitore.

Mentre quello che sisvolgeva sul campo dibaseball sembrava una

visione fuori del mondo,all’ombra dell’Olimpo,sull’attiguocampodifootballun gran numero di spettatorivocianti erano in attesadell’ingressodeigiocatori.

Allorché, stando sempresuquellastrisciamedianafrai due campi da gioco, sichiedeva di nuovo: chi midirà come comportarmi inquel momento cruciale? isuoi occhi erano come

calamitati dal battitore dibaseball che stavaoffrendoaGiove in persona, che glifaceva addirittura daricevitore,unsaggiodellasuaclasse divina con quelloscombinato pallone-placentapergiunta.

Quasi non si trattenevadal correre dietro al suosguardo verso là, ma nonappena aveval’impressionecheilgiocatore

di baseball accennasse agirareilcapo,invitante,comein risposta alla suadomanda,luiscappavaterrorizzatodallaparte opposta, sul campo difootball.

Correva da quello checredevaunodeigiocatorigiàentrati in campo, nella divisada gioco delfootball americano moltosimile a un’armatura. Davicino scopriva però che si

trattava della sola divisa-armatura vuota che non sicapiva come né perché stavalà in mezzo allo stadio,all’impiedi. S’accostava e siritrovava dentro alla divisa-armaturaconl’impressionedinon poterne uscire mai più.Invecesilevavaunatempestadi vento che lo prendeva inmezzoconunrombodimillecavalli al galoppo e losollevavaperaria.

La tempesta cadeva dicolpo come era sorta e lui,come se niente fossesuccesso, si vedeva ancorasuquellastrisciaditerrenoalmezzo dei due stadi, dadove seguiva le evoluzioniper ariadelladivisa-armaturachiedendosi chi ci stavadentro.

Quando ancora una voltasi ripeteva: chimi dirà comecomportarmi nel mio

momento cruciale? e tornavaa guardare la scenamitologicachesisvolgevasulcampo di baseball, quellascena era ormai finita.Scorgeva Giove che dallacima dell’Olimpo facevasegno a Mercurio di volareverso il battitore che dovevaaver riconosciuto degno disalire all’Olimpo. EMercurio,collealetteaipiedivolava in su col giocatore di

baseball, tenendoper un’estremità la mazza-cordone: l’altra estremità lateneva il battitore con lamano destra mentre colbracciosinistrosistringevaalfiancolapalla-placenta.

« Fermati, fermati, tiprego » gli gridava quandoormai il battitore non potevapiù sentirlo, eppoi nondipendevapiùdaluifermarsi.« Fermati, fermati, sennò chi

midiràcomecomportarmiinquelmomentocruciale?»

Lo faceva uscire dalsogno la sua stessainvocazione.

Quella copia di Life

Magazine, tutto fotografico,l’aveva forse lasciata giù,partendo, uno dei giovanottiamericani o qualcun altro, elui, come tutti i solitari,metodico raccoglitore diimmagini, l’aveva presa e

portata su, sicché ora se laritrovavasulletto.

Quel Life Magazine eravenutogiusto,tempestivo,perfare la sua parte in quelsogno.Perché,primasognavadi avere unSeminoma e poi,avendo guardato e lettoda cima a fondo uno deiservizi della rivista, avevaricevutolostimoloasognarsidel suo momento cruciale, econ il suo e prima del suo,

anchedeimomenticrucialidiquei due “eroi”, nonostanteche non se li potesseproporre comemodelli per ilsuo.

“Eroi sino all’ultimo: illoromomentocruciale”,erailtitolodiquelservizio.

Gli eroi di cui si dicevanel titolo, che stavano indueistantanee a piena pagina,l’una di fronte all’altra inun paginone, erano due

celeberrimi campioniamericani: uno, quello chefigurava di spalle nella suaistantanea, era Babe Ruth,leggendario astro delbaseball, l’altro, quello chenellasuaistantaneasivedevagettatocoiginocchinelfangodelcampodigioco,eraY.A.Tittle, grandissimo campionedelfootballamericano.

Rivedendola, si sentivanuovamente calamitare gli

occhi dall’istantanea di BabeRuth, una scena fissata persempre nel suo presente, unascenadadove tutti, spettatorigiocatori fotoreporters,stavano immobili, comese tutti, eccettuato forse lui,Babe,trattenesseroilfiato.

Nell’istantanea, sullosfondo del Yankee StadiumdiNewYork, segnato con lecase-basi, col “monte dilancio” al centro della forma

a diamante, si vedevanole tribune stipatissime dispettatori, tutti all’impiedi.Adestra di chi guardava, eraschierata la vecchia squadradi Babe, coi giocatori rittil’uno accanto all’altro inuna lunga fila, mentredefilati, chini sui talloni pernoningombrarelavisualedelpersonaggio d’onore, fra lasquadra e Babe, stavano unacinquantina e più di

fotoreporters.Dispalleinfine,con la maglia numero 3, acapo scoperto, il berrettinocon la lunga visiera nellamanodestra, il guantone e lamazza di pitcher e catcher,stretti dalla mano sinistracontro la coscia, alto,dinoccolato,unpococurvoinavanti come accennasse a uninchinoallasuafollaoalsuodestino, stava Babe Ruth,“Our Bambino”, come lo

cantava una canzone chenegli anni Quaranta stavasulla bocca di tutti gliamericani, ed era arrivataall’orecchio persino delgiovaneAmadeus.

“Un semidio prendecommiato.” L’anonimoredattore di Life titolettavacosì la didascalia sottol’istantanea di Babe, dandosubitamente inflessioneomerica alla luttuosa

circostanza. E poi: “L’eroenelsuomomentocruciale.Unnumero incalcolabiledi tifosiaffolla loYankee StadiumdiNew York per dare il loroaddio a BabeRuth, condannato da uncancro al culmine di unacarriera senza eguali nellastoria del baseball. Senzaegualiperchéilsuoèstatountrionfo duratoininterrottamente

per ventidue anni, annidurante i quali cronistisportivi e non sportivi hannonarratolesuegestainterminiepici,prossimiadivinizzarlo,e le folle che dentro e fuoridegli stadi Io coprironod’infinita tenerezza materna,sospirando sul suo nome Ohmio bambino’, piangenti digioia, ne hanno fatto perquasi un quarto di secolo illoro idolo, secondo solo a

Franklin Delano Roosevelt eprima persino di ShirleyTemple.

“Pari al suo mito, Babeabbandona così la scena delmondoedelsuogioco.Vintosoltanto dalla fatalità, per laprima volta è out, muore alpiattoedescedalcampodovenonrientreràmaipiù.

“In occasione del suoaddio allo Yankee Stadium,quello cioè che dev’essere

stato il suo terribilemomento cruciale, forse piùdoloroso della stessaimminente morte per lui, ilsuo comportamento è parsoquello di un antico eroe. Diun eroe invincibile anche difronte allamorte.Di un eroeper certi versi addiritturaimmortale. Nello scenariodelloYankeeStadium, teatrodei suoi trionfi, la tristissimacerimonia d’addio ai suoi

fans dell’idolo morituro, finìcoll’apparire più apoteosidella metà semidivina di unuomo che momento crucialedella metà umana di unsemidio.”

Dopo un tempo che nonsapeva dire quanto lungo, fucomesesi ribellasseaquellaspecie di soggezione chelotenevaconlosguardofissosull’istantanea di BabeRuth,quasifossediventatoun

miraggioperlui,unmiraggioincuiperdeimomentiavevala visione di Babe chegiocava all’infinito il suoultimo inning con quella suaavversaria, la Morte, checorrevaperoccupare lacasa-basedella suavita senzamaiarrivarci.

Gettava allora unosguardo all’altra istantaneadelpaginone.Eral’istantaneadi Y.A. Tittle, campione

leggendariopurelui,anchesenon come Babe Ruth, inquella specie di rugbyselvaggio che è il footballamericano, uno sportpraticato alla morte, unacorrida, una ferocecacciaall’uomofrasquadraesquadra.

Quella fu subitol’istantanea del più possibilemodello per il suo momentocruciale. Perché, così

vincibile, così vinto anzi, alparagone di Babe Ruth, gliparvecheY.A.Tittlecolsuomodo di precipitare tutto eprofondamentenell’umanodadentro il suo momentocruciale, facesse al caso suo,al suomomentocruciale.Maforse precipitava troppoprofondamente, troppoinumanamente nell’umano,perfarglidamodelloaluichesi sapeva giusto umano,

umanamenteumano.“Y.A. Tittle, 1963.” Per

prima cosa la didascaliadatava l’istantanea. “Losguardostupitodelgladiatorecheimprovvisamentesirendeconto che i suoi giorni dilotta sono ormai finiti, ilveterano della squadra difootball dei New YorkGiants, Y.A. Tittle, negliultimi minuti della partitagiocata contro i Pittsburg

Steelers, irriducibili rivali disempre, di quella cioè chedoveva essere la partita delsuo trionfale addio allo sportche per trent'anni l’avevavisto dominare incontrastatoper tutti gli stadi degli StatiUniti, crolla sui ginocchicome stroncato da unaparalisiallegambe.

“Era la conseguenza diuna lunga, implacabile seriedi placcaggi omicidi.

Impossibile tenerne il contoin tre ore di partita, macertamente un record inassoluto per i ventiduePittsburg Steelers, undicidifensori e undici attaccantiche si dettero il cambio allafine di ognuno dei quattrotempi sino al perpetramentodelmassacro.

“Proiettandosi in avantinellostesso istanteche il suoquarter-back calciava il

pallone, e da quell'immensorun-ner-back che era,correndo così veloce datrovarsi ogni volta nellostesso punto dove cadeva ilpallone, guadagnò quattrovolte il diritto ad andare inmeta.

“Nei tentativi però diandareinmetaconazionedacatch-down (l'azione dakamikaze di cui aveva fattoin vent’anni di gioco il suo

capolavoro) lanciandosinella corsa per superare leapparentemente smisuratedieci yards di campo che loseparavano dai pali dellaportadegliSteelers,controdiluiognivoltasicatapultaronoa placcarlo quelli che a uncerto momento alla suavista offuscata non dovevanoapparire più esseri umani,giocatori come lui, matremendemacchinedaguerra,

mostruose figure dalla testad’ariete, calate dentroarmature imbottitedi caucciùdalle spalle agli stinchi, e intestagabbiettecomeelmiconvisiere dietro le quali loguatavano occhi ostilissimi,carichidi odioper il vecchiocampione e determinati alladistruzione del suo mitoproprio in quella che dovevaessere la partita del suotrionfaleaddio.

“Tutte le volte che tentòdi andare in meta, quellamassa a cuneo, terremotante,loinvestì,schiacciòeconfusenelfangodelcampo,etuttelevolte lui si divincolò dadentro il fango, da sotto gliingranaggidiquellemacchinedaguerraecorsenuovamenteincontro al pallone lanciatodal suo quarter-back,nonostante gli sembrassed’avere ormai polsi rotti e

cavigliefratturate.“Quando a un ultimo

placcaggio, i ventiduePittsburg Steelers riuscivanoa sommergerlo sotto i lorocorpi,facendolosparirecomefosse per sempre alla vista,il vecchio campione avevagià incredibilmentesuperatoquellemicidialidieciyards e si trovava ormaidavanti ai pali della portaavversaria, sul punto di

andareinmeta,diconcluderevittoriosamente la sua lunga,allucinanteazioneallamano.

“A quel punto però, sividel’arbitro(checertamenteaveva già usato il fischiettoma il fischio s’era perso frale urla e gli schiamazziassordanti del pubblico)sventolare il ‘fazzolettogiallo’ che segnava la fined’una partita che gli Steelersdi Pittsburg avevano vinto

controiGiantsdiNewYork,giocandola però unicamentecontro la persona di Y.A.Tittle.

“E così, quella che erastata annunciata come lapartitadelsuotrionfaleaddio,si era ormai capovolta perY.A. Tittle nel più tremendoscacco, in una tragediaaddirittura.Perché,quando lavalanga fangosa degliSteelers si ritirò da lui e lui

tornò visibile, dalla tribunavidero di lui quello che nerestava, quello che a primavistasembravaunpupazzodifango senza braccia négambe, videro con orrorequell’idolo che ancora aquarantaquattro anni, dopomilleplaccaggieconseguentifratture e lussazioni per tuttoil corpo, conservava il fisicodi un Apollo, ridotto aqualcosa come un tronco

umano, un relitto: videro chestava accosciato sulle gambecome le avesse paralizzate,col fangoche locoprivasinoalleanche,lebracciacoipolsirotti cadute ai fianchi,invisibili anch’esse sotto ilfango emorte anch’esse nonmenodellegambe.

“Nella luce del solecalante, inunultimosguardoche i tifosi davano sfollandoal loro idolo distrutto, lo

vedevano arrancare da fermonel fango verso la portadegli Steelers, arrancaresbattendo su se stesso inavanti e all’indietro, comeuno di quei pupazziBarbapapà senza braccia négambe, che oscillano dicontinuo, fissati alla base,senza mai cadere: lovedevano arrancare nelfango senza mai veramentemuoversi, senza mai

veramente avanzarenemmeno di un pollice diyard, zavorrato alla vita dalpesomorto che da alcuniminuti lo trascinava giù, giù,lontanodallavitachefu.

“Tutto questo è successoprima.Y.A.Tittle è qui, ora,quale si vede nell’istantaneadel suo momentocruciale scattata nello stadioormai deserto, senza più gliocchi di nessuno addosso,

eccettuati quelli delfotoreporter, come fossepassato molto tempo dallafine della partita e lui nellasua solitudine fosse divenutoormai irraggiungibile perquelli che dai bordi delcampo ormai da unpezzo avrebbero dovutocorrere e portargli soccorso.Quelli però, sono andatiavanti a discutere senzadecidere quale tipo di

soccorso(perilcorpo?perlospirito?) fosse più urgenteportargli, così senzaportarglienenessuno.

“Il corpo del vecchioApollo dei Giants, abbattutopiù che dai placcaggi degliSteelers, dal cocente smaccosubito a chiusura dellagloriosa carriera, la facciarovesciata al cielo comerivolgesseaDiounosguardoduro e dolente di rampogna,

sta sprofondando sino aiginocchinel fangodavanti aidue altissimi pali della portaavversaria come davanti allecolonne di un tempio cheormai per sempre gli èimpedito di varcare, reso piùche arreso al suo momentocruciale.”

Mattia si preparava apartire per quello stessogiorno sinché comeun’ossessionenoncominciòa

pensare:senonlorivedo,meloricorderòsempresedutolà,con quel numero di IndexMedicus sulle ginocchia,come un paralitico (unfenicottero paralitico) cheguarda a bocca aperta allaparete dove sta quellagigantografìa della PalettadiNarmer.

Aveva provato atelefonargli per dirgli chepassava a salutarlo prima di

partire,madopomoltisquilliaveva riattaccato chiamandountassì.

All’Istituto nons’aspettava di vedere Kenio,come sempre a pesca dalsabatomattina alla domenicapomeriggio, ma per quantochiamasse, non vedevaapparire nemmeno ilProfessore.

Aveva cominciato achiamarlo dalla scaletta

esterna, appena entrato nelgiardino. Una volta dentro,dalla saletta a vetri si eraspintonelpiùgrandesilenziosino alla sala delle riunionidove il giorno prima l’avevalasciato in quello statopietoso. Sospirò nonvedendolo, perchéaveva temuto di ritrovarloancora là che dormiva colcapo sul petto e l’IndexMedicus sui ginocchi. Bene,

aveva pensato, se non è piùqui, reagì, uscì dallo choc, siriprese.

Dalla scala che portavaall’appartamento, avevaripreso a chiamarlo «Professore?Professore?»manon ricevendo ancorarisposta, era tornato aimmaginarselo che stava,come aveva temuto ditrovarlo nella saladelleriunioni,gettatoasedere

che dormiva col capocadutosulpetto(enoneradaescludere, con IndexMedicus, portatore di nefastenotizie per lui, ancora suiginocchi). Insistendo aimmaginarselo col capocaduto sul petto, un altroparticolaredisomiglianzacolfenicottero oltre alle gambe,finivacoll’apparirglicolnasogirato un poco all'ingiù, unaspecie del becco arcuato

dell’uccello.Scosse la testa per

scacciarequellavista.Ilcapoin giù, il capo in giù, chedorme col capo in giù, sirimbrottò, perché continuo aimmaginarmelo che dormecol capo sul petto anche seandò via dalla sala delleriunioni e ora si trova qui disopra?

«Professore?Professore?» riprese allora a chiamare,

ma siccome era ancora ilsilenzio che gli rispondeva,nonchiamòpiùe s’affrettòasalire.

All’affacciarsi però sulsaloncinositrovòchestavainpuntadipiediepoisubitochesi bloccavaaddirittura vedendo ilProfessore. Oh Dio, esclamòpiù volte, sgomento divederlo, proprio come avevatemuto, col capo caduto sul

petto.Seppe che non dormiva,

che era invece morto primad’andargli vicino, difatti nonmossenemmenopiùlelabbraper chiamare professore,professore. Loguardava come fosse a suavolta guardato dal Professoreattraverso le palpebrerovesciate. Il Professore eraseduto sul divano e lui glistavadavantiesistringevale

tempie senza nemmenosapere quello che faceva néquellochenonfaceva.

Oh Dio, si sentì direancora soffocatamente,accorgendosi delle macchielivide dell’infarto che ilProfessore aveva alle narici.“Oh Dio” si ripeteva. “Fucome se si suicidò” feceseguire finalmente a oh Dio,esprimendosi da medico. “Ofucomelosuicidòquelloche

lesse su Index quel collegaincosciente. Come se cioè losuicidòHatshepsutPlacentaecioè cioè la sua Cima dellenobil-donne.” Stette un po’come a risentire dentro l’ecodiquestochefraséeséavevadetto e poi: “Questo sì,così forse, con suicidatoinvece che ucciso, sarebbe ilsuoattodimorte”.

Si scoprì che si tenevaancora le mani alle tempie

come una femminuccia. Maforse non tanto dafemminuccia, si corresse, sequello era un gesto che tantevolte aveva visto fareall’Americanaeben trevoltepropriodifronteatremorti,aun prozio, fratello suo,dell’Americana,aunaprozia,sorella del nonno, e a unbambino, cugino suo enipotino della nonna, natocon una

malformazionemitralica.Suanonnaconquelgesto

sembrava farsi una cinturacontro le grida e ordinare leidee, il da fare, i piùurgenti daffari luttuosi, unmedico inprimisperché soloil medico può dire ai parentiilmorto èpropriomorto, oraè tutto vostro e diDio e nonpiùmio.

Maquiilmedicoc’ègiàesono io, si disse Mattia

tornando alla fine in sé e alpresente, ma io mitengo ancora le mani alletempie come non sapessidovemetterleemenestoquaocchi negli occhi col poveroProfessore come un baccalà,senza abbassargli nemmenolepalpebrenéappurarmiseèmorto davvero come paresenzabisognodiauscultarlo.

Tentò di chiudergli gliocchie facendoper rialzargli

il capoeappoggiarglieloallaspalliera del divano,s’era subito reso conto delsuo irrigidimento di tanteore: tirandolo indietro per lespalle, era come lo tirassedi dappertutto, coi ginocchiche si sollevavano in suall’unisono colle lunghissimegambecomedilegno.

S’erasedutoaccantoaluisuldivanoetenendolostrettofra braccio e petto e

chinandoglisi col visodavanti al viso, aveva potutovederebenequellocheprimaaveva solo intravvisto: alkiller di quella sua morteaveva potuto leggergli quellacheeracomelasuafirmanelblu livido che gli macchiavalenarici, il terribilecianoticoche gli aveva lasciatol’infarto.

Sempre tenendolomezz’abbracciato come un

ragazzino che tentasse discappargli (un ragazzino, cheera quello che sembrava ilProfessore col maglionechiuso e in salopette), siricordò a quel puntodell’Americana che prozio,prozia e cuginetto per primacosa, facendosi aiutare, lispogliò e rivestì, poi li portòsullettoelàlicomposecollemaniintrecciatealpetto.

Ecomefaccioiodasoloa

spogliarlo, rivestirlo, portarlosul letto, comporlo? OhDio,oh Dio, si lamentò più voltedi seguito, per questosentendosi finalmenteinvocare Dio che per unmedico era cosa da noncredere. Da medico sì, siobiettò, ma io adesso chepenso a come fare aspogliarlo, vestirlo, portarlosul letto e comporlo, che hodi medico? Come medico io

giàdissiaDioilProfessoreèmorto e in quanto tale è tuo,se sei il suo Dio. Comeallievo, come amico, comenon so cosa, io invoco Dio,invocochiunquedidarmiunamano d’aiuto. Questo nonperché penso che devopartire, partirò quando potrò.InvocoDioechiunqueperchéda solo al povero Professorepiùchefarglicompagnianonposso.

Si accinse comunqueall’impresa, tentavaperlomeno, di sollevare ilProfessore dal divanoportandolo a letto, senzasognarsi, se riusciva inquell’impresa, di provarsiin quell’altra, quella dilevargli il maglione esalopette vestendolo damorto.

Ma non gli riuscìnemmenoquelladisollevarlo

eportarloaletto.Si mise su un ginocchio

davantialdivanocercandodiprenderlo fra le braccia ecaricarselo sulle spalle, maoltrealfattocheeradivenutocome di piombo, ilProfessore s’era talmenteirrigidito che ogni sua partescappavacomepercontosuo.

Doveva aspettare Kenio,dasolononce l’avrebbemaifatta.

Intanto poteva vedere secoltelefono,perquantofossedomenica, riuscivaamettersiincontattoconqualcuno,conchi non aveva idea. AStoccolma il Professoreaveva un amico sul qualecontare in un caso comequello, della più grandeemergenza, il caso dellapropria morte? Una rispostaalladomanda l’avrebbeavutadalla rubrica, provando

subito, anche se era ancoraweek-end.

Non fu cosa facilenemmenolasciareilcadavereaffidandolo in equilibrio a sestesso, così come l’avevatrovato.

Quando ci riuscì ecautamente stava per alzarsidal divano, ebbe quellasorpresa.

Sopra una lavagnetta-memorandum a righine,

appoggiataaunmucchiettodilibri,videinaltoilsuonomeecognometuttoinmaiuscole,e sotto, nella grafiatutta calligrafia delProfessore, lesse questopromemoria per lui: “Suoamico professore Belardodomattinaoperadi interventoradicale signora IrinaSimiodice,mia connazionale,in atto ricoverata Chirurgiaginecologica”.

La delicata mossa dialzarsi dal divano gli impedìdi sbalordirsene quantodoveva. Rimandò losbalordimento per quelladonna che compariva nellavitadelProfessore(odovevadirenellamorte?)adopounaseconda lettura delpromemoria.Perònonpotevaimpedirsichelasuamenteciriflettesse già. Chi era quellaIrinaSimiodice?Com’ècheil

Professore aveva aspettato dimorire per tirarla fuori? Mache sciocchezze diceva. Chene sapeva il Professore chesarebbe morto. Comunquesia, questo promemoria sitrasformò per me in unaspeciediultimodesideriodelProfessore e se voglioesaudirglielo, e certo che lovoglio, devo sbrigarmi, devoparlareoggistessoaBelardo.Perché se la signora Irina

Simiodice entra insala operatoria domattina,devo parlare a Belardoassolutamente entro oggi.Domattina non potrei.Domattinasemmaipotreifareun salto all'Ospedale persapere com’è andatol’intervento.Ma oggi troveròBelardo all’Ospedale e a cheora? Il guaio è che oggi èdomenica.

Finì che si distrasse e

alzandosi dal divano senzacautela, il corpo delProfessore si rovesciò inavanti e lui fece appena intempo, gettandosi su unginocchio, a riceverlo nellebraccia.

Così, quello che non gliera riuscito studiando ilproblema d’ogni lato, gliriuscìperunpurocaso.

Sempreinginocchioseloadagiò più comodamente in

grembo e passandogli unbraccio sotto i ginocchi,gli sollevò le gambe. A quelpunto doveva fare lo sforzodirialzarsicolsuocarico.

Facciamo quasiDeposizione, pensòimbarazzato, e si ricordò disua nonna (l’altranaturalmente, nonl’Americana) che diceva checose come quella, fareDeposizione, fare Croce,

erano peccato. Però, si disse,come rispondendo a quellasua nonna, che Deposizionepuòmaiesserequesta?IochesareilaMadre,sonounuomoe ilProfessore che sarebbe ilFiglio, è un ebreo. Cristoperò non era forse un ebreo?E quanto a me, un uomononpuòforsesentirsiincerticasi la maternità allostessomododellapaternità?

Sollevando il corpo gli si

strinse il cuore di tenerezza.Potrebbe essere mio padre emi pare mio figlio,pensò, cogli occhi cheinaspettatamente gli siinumidivano. Shalom, pace,gli sussurrò. Ma poi, senzaminimamente presentirel’ispirazione che dovevastupirlo: “Vergine padre,figlio di tua figlia...” recitò,subito però interrompendosi.Madaquale rotelladimente

fuori posto mi viene distorpiare la preghiera di SanBernardo alla Vergine? Dadovemi può venire di fare igiochi di parole con Dante?Ma questa è forse una diquelle volte, si disse ancoracome ci ripensasse, che leparole,combinandosiscombinandosi,finiscono col rivelare veritàsegrete, difficili altrimenti daconoscere.

Schiacciato dal peso dipiombo del corpo, raggiunseil letto che si sentiva il collorotto, le spalle rotte,tuttorotto.

Fu allora che arrivòKenio, annunciato dal rombodella sua sgangherataDavidsonconsidecar.

Ma tu guarda, si disse, ache ora torna st’esquimesecon la sua passione dellapesca. Per la verità c’era

ancoraunagranluce,naturalein un pomeriggio pieno digiugno. Torna a cose fatte,aggiunse nel suo sfogo.Però, quali erano le cosefatte?IlProfessoretrasportatosul letto e composto a manigiunte, tutte lì le cosefatte, nemmeno spogliato erivestito da morto, insalopette era, in salopette erarimasto. Eppoi, c’erano lecose da fare fuori, il

certificato di morte delmedicosvedese, l’Agenziadionoranze funebri per gliaccordi da prendereriguardoallabara,alfunerale,quelleeranocosechenonglilevavanessunoaKenio.

Kenio arrivò sino a sucercando il Professore.Fischiettava e Mattia,fingendo di leggere ancorauna volta il promemoria delProfessoresullalavagnetta,se

lo lasciò passare davantisenza informarlo di quelloche avrebbe trovato nellacamera da letto delProfessore.Eracosìincazzatocol lapponcino che tornavafischiettando dal suo week-end, che voleva goderselatutta quella vista, ma poisubitosenepentì.

Kenio dalla soglia dellacamera in penombra ledovette pensare tutte, che

riposava innanzitutto,vedendo il Professore stesosul letto in salopette,manoncheeramorto.

Quando gli venne ilsospetto che qualcosa nonfunzionava, s’accostò allaspondadellettoedilàpreseadare alla salma dellespintarelle ai fianchi, deglistrattoni alle bretelle e anchedelle tiratine, con qualchepizzico pure, alle dita delle

mani intrecciate, tutto comesaggiasse la possibilità disvegliarlo. Fra l’uno e l’altrotentativo si giravaverso Mattia che seduto suldivanofacevafintadinulla.

Kenio aveva l’aria dicredere a uno scherzo,preparatogli daMattia con lacomplicitàdelProfessoreches’era prestato a dargli quellospavento. Questo sinché afuriadisbattere lasalmaedi

sbattersi lui stesso dentro, fucome sbattesse la stessaacquaesaledellesuelacrimeche infine montarono in unflusso amaro e accecante aisuoi occhi. Il suo piantoinfantile e disperato crebbefacendosisubito incontrollato,selvaggio,crebbecolcresceredegli strattoni che dava allasalma, strattoni tali darischiare di rovesciarla dal

letto.Mattia corse allora nella

stanza e abbracciandolo allespalle, mezzo per tenergli lebraccia, mezzo perstringerseloa sé, lo tiròdallasponda del letto con ognidolcezza,restandoneldubbiose separava lui dal corpo delProfessore o il corpo delProfessoredalui.

Un poco sottobraccio, unpocotenendogliunbraccioai

fianchi, lo accompagnò giù.Intanto che scendevano, conparoleecongesti lo informòd’ogni cosa. Kenio piangevae pianse sempre di piùsentendo delProfessoremortodasolo.

Vedendo il secchio deipesci che aveva pescato, perdistrarloMattia: « Che pescisono? » gli chiese. « Comeli peschi? con l’amo? con lafiocina? » Kenio gli parlò

dei pesci e della pesca, peròcontinuando a piangere. «Vuoi tornare di sopra dalProfessore? » gli fece allafine Mattia. «Va bene,andiamo.»

Salendo si fermarono piùvolteparlandodellecosecheandavano fatte per ilProfessore, per ultimoparlarono della cassa, dellasceltadellegno:

«Tu hai qualche idea?»

gli chiese Mattia. «Abete?Mogano? Acero? Tucertamente li conosci megliodimequestilegni.»

Erano già in cima allascala da dove s’intravvedevailProfessoresullettoeKenioa quel punto,spalancando occhi e bocca,sembròricordarsidiqualcosa.Senza dir nulla si girò perscendere,aspettandoperòcheMattia lo seguisse. Mattia,

dopo un’occhiata alProfessore, lo seguì perché anessun costo avrebbe volutofarlopiangereancora.

Mattia non aveva idea diquello che gli passava permenteallapponcino.Pensavaforse d’andare subito,insieme, a un’Impresa diOnoranze Funebri persbrigareognicosariguardoaifunerali? Per questo o peraltro (ma che altro?) quella

sua uscita, anzi quella lorouscita, doveva in ogni modoriguardareilProfessoreederacosì importante da non darsipensiero se lasciavano ilmortosoloincasa.

Giù, all'ingresso delgiardino, il motore dellaDavidson con sidecar che aKenio serviva per i suoiweek-enddipesca,nonavevaancora finito di sbollire maKenio lo fece montare lo

stesso nell’abitacolo delpasseggero,partendodicorsaversounadestinazioneignotaaMattia.

Ormai chemi scervello afare? si diceva Mattia,scontento di avere seguitoKenio senza chiedergli nulla.Questo lappone, c’è poco dasbagliarsi,mi sta portando incerca (ma dove? nella CittàVecchia o nella CittàNuova?) d’un’Impresa di

Pompe Funebri aperta didomenica.ManoneraquellalametadiKenio.

Il canale dove i vaporettituristici, andando e venendodall’arcipelago di isolette,s’incrociavano coifuoribordo che sfrecciavanofraleschiume,sembròquellaa Mattia la meta di Kenioquando vi arrivarono e ilpiccolo lappone, alzandosidal sellino, cominciò a dare

occhiatesuegiù.Quello che cercava era

una chiatta che doveva avervistoprima,mentrerisalivailcanale tornando dal mare,e che a un certo puntofinalmenterivide.

La pesante imbarcazione,cherisalivaancoralentalentadalle chiuse, sembravaportare un carico di legno,legno bianco che potevaessere acero, disposto a

piramide, tagliato tuttouguale, come lavorato infalegnameria, in forme dicassettidicomò.

Quando la chiatta fu perpassargli davanti,sbracciandosi verso quelli abordo,Keniopreseagridargliqualcosa nella sua lingua,come chiedesse cos’era quellegno tutto squadrato cheportavano, senza disperarechequelliatantadistanza,lui

sulla banchina, loro almezzo del canale, potesserosentirloesentendoloafferrareil senso delle parole chegridava, come fosserolapponianch’essi.

Dalla chiatta, comefossero davvero anch’essilapponi, dei quattro uominiche stavano a bordo uno glirispose agitando un braccioma solo per salutarlo, aquantosembrava.

Sul natante però qualcunaltro doveva aver intuito, senon proprio sentito, cos’erache gridava dallabanchina quell’ometto con lafrangetta. Si vide difatti unodegli uomini che dopo avertrafficatounpo’conlecordecheimbragavanoqueglistranicassetti d’acero o altrolegnobianco,nesfilavaunoelo sollevava in alto soprala testa. Da quello Mattia

seppe che la chiatta portavaun carico di piccole bare, intutto quel numero, comesedove leportavanoci fossestataunamorìadibambini.

Kenio però continuava agridarecomeseluilosapessegià cos’era il carico e chifaceva da capitano a bordodella chiatta decise allora, senon di accostare,diavvicinarsiallabanchina.

Quando quelli della

chiatta si resero abbordabilidalla voce di Kenio, questiripetè ancora quella chegridata nella sua lingua aMattia riusciva impossibilesentirecomeunadomanda.

Dalla chiatta, come inrisposta, tutti e quattro gliuomini, uno a prua, uno apoppa, gli altri duealle fiancate, si chinarono eprendendo ognuno unadi quelle piccole bare dal

carico non “in vista”,quando riapparvero, letenneroinalto,mostrandoleaKenio abbastanza tempoperché vedesse che il caricocheportavanoerasoloquello,tutte bare per bambini enessunaperadulti.

Il lapponcino sa già chetipo di bara scegliere per ilProfessore, si disse Mattia,tanto commosso oraquanto contrariato prima.Un

tipo di bara bianca, la sceltadi un bambino per unbambino.

Dopo due giorni tornava

all’Ospedale a un’ora che senon era antelucana, poco cimancava.Perché,quandoallafine della domenica, a seratardi,erariuscitopertelefonoad arrivare sino a Belardo,tutto quello che l’insigne “Pi

heic Di” gli aveva detto erachelasignorachel’indomanimattina faceva l’interventoradicale sarebbe entrata insala operatoria per prima,secondo l’ordine prestabilitodallasuaéquipe.AqualeorasignificasseentrareperprimaBelardonongliel’avevadettoe lui non aveva osatochiederglielo, intimidito dalfatto che Belardo non gliaveva chiesto nemmeno

perché s’interessava a quellasignora. Non pensavacomunque che potesse esserela stessa, stessissima orad’inizio dell’intervento perlaneovaginaconlasuaduratarecord e non soloperché levare, abbattere,demolire richiede in ognicaso assai meno tempo cheaggiungere,costruire,creare.

Come avantieri, anche seoggi nessuno, nemmeno

Belardo l’aspettava, eradiretto in Chirurgiaginecologica, alla presalaoperatoria. Là, entrando, seancoranoneraentratoinsalaoperatoria oppure uscendoneseeragià entrato, inuncasoo nell’altro, avrebbe vistoBelardo. Ed era intenzionatoad arrivare in Chirurgiaginecologicaancheseoggilaportineria non era stataavvertitadaBelardoperchélo

facesseropassare.Non vide nessuno e

nessunoglichiesenulla.Unavoltadentroperò,procedendodritto filato verso gliascensori, nel timore che daun momento all’altro unavoce lo ripigliasse per l’ala,s’infilò nel primo ascensoreche si trovò spalancatodavanti.

Appena dentro lui, comesi stabilisse una repentina

complicità fra di loro,l’ascensore, chiamato daqualcuno,particomesidicearazzo. Però, fatta una breve,fulminea corsa al primopiano, là l’ascensore sibloccò.

Spalancatasi la porta,un’infermiera spinse dentroun lettino sulle rotellemanovrandolo con manoesperta dalla parte dov’era ilrigonfio del capo della

paziente che vi era stesasopra. Solo allora Mattia sirese finalmente contod’essersi infilato in unascensore portacarichi.Incuneato in un angolo, conquel lettino fra luie laporta,sisentìcomeintrappolato.

Tuttostavaavederedovevenivaportataquellapazienteche stava col lenzuolo tiratosugliocchiforseperripararsidalla luce violenta

dell’ascensore, per cui,eccetto la linea della fronte,orlata di capelli tiratiall’indietro, d’un castano chesbiancava, di lei non sivedeva altro ed era comefosse morta. Una paziente,una delle tante dei varireparti, che a quell’oravenivano portate nellesale operatorie dei varireparti.

Intanto bisognava

aspettare che quellaspilungona di infermierafinisse di confabulare, unpiede dentro e uno fuoridell’ascensore, con una suacollega, unabiondina adenoidea, chepassava in quel momentospingendo per i lunghicorridoiuncarrellostracolmodimaterialeperflebo.

Mattia non riusciva aspiegarsi il perché di

quell’improvvisa vacanza sullavoro delle due infermiere.Quando,nongli fu chiarodaquale parte del corridoio,arrivaronoaprecipizioiprimiconfusi rumori di passi incorsa, Mattia si rese alloraconto che qualcosad’assolutamente imprevistostavasuccedendoperidiversipianidell’ospedale.

Ledueinfermierepreseroadagitarsi,girandosidall’una

e dall’altra parte delcorridoio, disorientate perchénon capivano da dovevenivano quei passi dipersonechecorrevano.

La spilungone nonaspettò, gettò un saluto allacollegaconleflebo(laquale,stravolta, si dette a spingereingranfrettailsuocarrello)estava allungando la manoper premere, quando quelliche correvano, quattro o

cinque infermieri, affannati erossi in viso, si presentaronodavanti all’ascensore intempo per fermare la manodella spilungona. Mentre glialtri proseguivano nellacorsa, uno di loro,concitatamente, dettò allacollega delle istruzioni.Anche se dalle parole capìpoco o niente, Mattiane afferrò il senso dall’agireimmediato della

spilungona. Mandò su allasvelta l’ascensore, ma unavoltasu,nonmenoallasveltalo rimandò giù e Mattia nededusse che le istruzioniricevuteeranodicontinuareaquel modo, su e giù e su egiù, sino a nuovo ordine,affinché quello o quella(qualcuno che era uscito disenno?) che gli infermieriinseguivano, non si potesseficcaredentrol’ascensore.

Con l’ascensore chefaceva saliscendi el’infermieracolvisoincollatoal vetro della porta, Mattiafinalmente abbassò gli occhisul lettino incontrando losguardodiquelladonna.

Doveva osservarlo da unpezzodallasuasolitudine.Loguardava corrugata come seavesse un suopensiero disegnato in mezzoalla fronte, quasi si sforzasse

diravvisarequalcunoinluiesperasse e insiemedisperasse di poterlo maimetterea fuoco inquelle suepupille che mantenevano unlorosplendoredigioventù.

Levògli occhi da lei,mapoiché dovunque guardasseormai, al pavimento o alsoffitto dell’ascensore,gli pareva d’incontrare il suosguardo, la spiava alloracon la coda dell’occhio,

mezzo girato di spalle. Cosìriusciva a vederle il tagliolungo degli occhi, il taglioche prendono gli occhi cheormai guardano il mondocome da una fessura,allontanatoeinmezzaluce.Ecoltagliodegliocchiriuscivaa vederle il pallore del visoche da come stava, fra ilbianco del guanciale e losfavillio fortissimo dellalampada dell’ascensore,

aveva l’apparenza smaltatacomed’un truccocompattoeinsiemediafano.

Poi la vide muovere piùvolte le labbra come leinumidisse, sinché, tra lostridore che faceval’ascensore nel suoininterrotto saliscendi, glirivolselaparolaconunavocecherisonòtremula,esitante:

«Signore, perdonate» glifece equandoMattia simise

davanti a lei pronto adascoltarla, gli chiese: «Comesichiamailvostrocane?».

Glipassòpermente:e sefosse Irina Simiodice? comeun’intuizionebasata sunulla.Subitodifattisenedimenticò.

«Maiononhouncane»le rispose con un sorriso dafurboefesso.

«Ah capisco. Non vivetedasolo.»

«Vivodasoloinvece.»

Restò a bocca aperta,come presa di contropiede.Sillabò:

«Vivete da solo e nonaveteuncane?»

Mattia smise quel suoantipatico sorriso, sentendonella sua voce rotta lostupore, lo scandalo pietosoche le faceva. Devoinventarmiuncaneeunnomedi cane, si disse, sennò ladeludo troppo, questa

poveretta:«Qui no, però in Italia di

dovesonoio,uncanecel’ho.»Eglitrovòancheunnome,anche questo senza tantosforzarsi,aquelcanechenonaveva:«Melampo».

E se, si chiese appenadetto Melampo, ne sapesseabbastanza anche lei di coseitaliane, come molti di quidi Stoccolma, ma anche dialtrove, di Uppsala, di

Goteborg? Saprà allora cheMelampo non è il mio caneoperlomenochenonèsoloilmio ma pure di milionidi italiani che hanno lettoPinocchio. Conoscendolo,Melampo, cane stupido,gabbatoefattolorocomplicedalle ladre faine, la faràsorridere forse, sorridere diquello gnocco di Melampomaanchedimechehodatoilsuo nome come fosse ilmio.

Ma non lo conosceva eMelampo era un nome dicanecomeunaltroperlei:

« Mellampo? » ripetèraddoppiandogli la “l” madandogli un suono come dicaneesistente,vivente,aquelcaneletterario.

Mattiaperò,aquelpunto,vedendocheeratroppofacileingannarla come ingannareuna bambina, le confessò ilsuopiccoloimbroglioafindi

bene:«Scherzavo,perdonatemi

»ledisse.«Melampononèilmiocane,èilcanediuncertoPinocchio.»

Lei ora, pensò, si faràgiustamente di me l'opinionecome d’un Pulcinella ma ionon mi sentirò piùarrossire sinché sto inquest’ascensoreconlei.

La signora lo riguardavadinuovocomeprima,quando

non gli aveva rivolto ancoralaparola,dinuovoconquellaruga di pensiero che letagliavainduelafronte.Notòchesieratirataunpo’sucolcollo scoprendo tutto ilpiccolo viso, fatto perlaceodalpallore.

«Come avrete capito,signora, io purtroppo non houncane.»

Si sorprese di quel“purtroppo” dovuto a

gentilezza più che ad altro,più che a vero rammaricocioèdinonavereuncane.

Comunque,fuapartiredaquel “purtroppo” che glisembrò d’essersimesso collesue mani in unasituazione alla qualemancavanosolo lesbarreperrivelarsi una prigione. Maquelle ormai ci avrebbepensato la signora adalzarglieleintorno.

A quel “purtroppo” lasignoraavevaprimaallargatogliocchi,comefossedilàchesentisse, e poi sospirando liavevarichiusicompletamentecome vinta da unasuasonnolenzadimalata.

Mattia tornò ai suoipensieri, almotivo per cui sitrovava in quell’ascensoreche andava su e giù,all’ultimo desiderio delprofessor Planika che

riguardava una suaconnazionale e amica, IrinaSimiodice,chequellamattinafaceva con Belardol’interventoradicale.

Fu distratto dalla signorasullettinochesempreaocchichiusi muoveva le labbramormorando qualcosa con sestessa, a quanto sembrava.Ma se si rivolge a me, sichieseMattia,chilasentecolsuofiatareafiordilabbranel

continuo sibilo diquest’ascensore?S’accostòdipiùalloraallatestadellettino,chinandosisullasignora:

« Quella stupidona » lasentì mormorare a occhichiusi come in sogno, con lalingua impastata di sonno. «Quella stupidona...Chissà daquantigiorninonmangia...»

Non glielo domandò sec’era qualcuno a casa perdarle damangiare, non c’era

nessuno evidentemente. Esedavverononc’eranessuno,come faceva a mangiarequellastupidona?

«Màndag, tisdag, onsdag,torsdag... Quattro giorni cheiosonoqui.»Comeinsognocontava forse i giorni chequella stupidona non dovevaaver mangiato. E continuò acontare: «È anche fredag,lördag, sòndag. E poi dinuovo da màndag a sòndag,

dasòndagasòndag.Oratuttii giorni che verranno io saròqui. Poi non sarò nemmenoqui forse, non sarò più innessun luogo. Allora lei chefarà? Non mangeràpiù?».Mattia non seppe maise le disse o pensò solo didirle: “Qualcuno ci penserà,vedrete.”

Fortunatamente lei nonsentì o comunque non dettesegno di sentire, restando

cogli occhi chiusi. Forseper questo Mattia, sulla sciarovinosadellaprima,incappòin un’altra di quelle terribilifrasidicircostanza:

“Non avete nessunoche...”fudifattiperchiederlema si trattenne. Se avevaqualcuno per cosa? Per dareda mangiare alla cagna? Perportarla a spasso? Forseaveva lei sola in casa, lacagna, e avrebbe dovuto

venire lei lì, in ospedale, perdarlenotiziedisestessa.

Lasignorariaprìgliocchie li rigirò di nuovo su di luiancorapiegatosullettino,elofissò con quella grossa venadi pensiero che le pulsavaattraverso la fronte.Ementrelo fissava, gli occhi negliocchi, tirò fuori da sotto illenzuolo la mano destra chestringeva qualcosa e Mattia,senzasapereperché,avvicinò

a lei anche lui la sua manodestra e la tenne alla spondadel lettino. Allungando dipoco il braccio lei raggiunselasuamanoeglifecesentiresulle dita un oggetto freddo,metallico, cheMattia riconobbe dalla formaper una chiave, una grossachiave di modello antiquato.Fraleditasentìcheall'anellodella chiave era attaccato uncartellino, pensò che

doveva esservi scrittol’indirizzo al quale avrebbetrovato la cagna, chi ciandava. Ma a questo punto,aggiunse come commento alsuo pensiero, lo so, sono iocheciandrò,ancheseancoranon vedo come né quando.Contemporovesciòlamanoeprese la chiave che lei vimise,sfiorandolesuedita.

« Ora l’avete un cane »gli fece lei a quel punto

stancamentemaconun’ironiadatempoforsenonesercitata.E ancora: «Se voleteconoscere la vostra cagna,andate all’isola e aspettatelain casa. Prima o poi tornerà,se non è già tornata. Quellastupidona, la sento ancorache abbaia correndo dietroall’autoambulanza che miportavia».

Intanto che lei parlava,rischiando d’esser visto dalla

spilungone, Mattia osservavaalla luce la grossachiave dando occhiate allasignora: ma dove pensava diportarsela se non la dava ame?sichiedevaechiedevaaleicogliocchi.

Ma lei, anche se l’attimoprima aveva ancora quellastupidona sulla bocca,sembrava già con la mentededitaatutt’altro.

Tenevagliocchialzatisu

diluidaquando,aquelmodofurtivo, sottomano, gli avevapassato la chiave: con quellapiega nello sguardo che eraancora come si sforzasse diravvisare in lui qualcuno chedoveva aver conosciuto untempo,qualcunoilcuiricordoavevacercatoforsediricrearein sé anche con quel nonsapeva che di confidenzialecheavevamessoappuntonelmododipassarglilachiave.

Mattia, alle spalledell’infermiera, coprendo lachiave dentro il palmo dellamano, riuscì ad avvicinareagli occhi il cartellino eleggerviquelchev’erascrittocon una grafia sottile edelegante: “Cagna segugiabassottoide di razza Drever.Pregasi riportarla: IrinaSimiodice,presso Frederikson, isola diLangholmen. Mancia

adeguata”.Dunque è lei, Irina

Simiodice, la paziente sullettino,sidissesenzaneanchestupirsenemolto. Certe cose,ci diciamo qualche volta,possono succedere solo neiromanzi. Qualche volta peròquelle cose succedonoanche nella vita e la vitaallora ci fa pensare a unromanzo dove possonosuccedere cose che non

succedono nella vita. Comequesta,cheiovengodiprimamattina all’Ospedale per unacerta Irina Simiodice, vengopiù precisamente per dire aBelardo, ma non ce nesarebbe bisogno, che quellaIrina Simiodice a cui farà ilradicale, è connazionale eamica del professor Planika,cheappostaperquestomihalasciatounpromemoriaprimadi morire, m’infilo per

sbaglio in un ascensore diservizio, resto bloccatocon una paziente stesa sullettino e quando ormai conquesta paziente mi sonooffertod’andareavederechefine ha fatto la sua cagna,scopro che la paziente èproprio quella tale IrinaSimiodice che deve fare ilradicale conBelardoeper laquale sono venutoall’Ospedale.

E ora che so che lei èIrina Simiodice, si chiese,devodirglielochi sono io?Esoprattuttodevodirglielo cheiomitrovoquaperlei,perilsuo intervento chepreoccupava tanto il suoconnazionale e amicoprofessor Planika? Dellamorte del Professore nonmelo chiedo nemmeno se devoparlargliene. Gliene parleròcertamente ma non ora che

sta per entrare in salaoperatoria persottoporsi all’interventoradicale. Potrei parlarglienepure ora, lo so, perché IrinaSimiodice, a occhio e croceha l’aria di chi nella suavitas’è fatta buone spalle aicontraccolpi di quel tipo dinotizie.

Anche il fatto di vivereall’isola di Langholmen ladiceva una buonespalle. Non

che ci fossero ancoraergastolani all’“isola delpenitenziario”, quanto aquesto non c’era piùnemmeno il penitenziario. Ilocali dell’ex penitenziarioerano stati trasformati inateliers di pittori e pittrici, euna nutrita colonia di nudistifrequentaval’isola.

Ma Irina Simiodice,bastava vederla, non dovevaessere né pittrice né nudista.

A che titolo allora viveva aLangholmen? Nativa diPraga, non era certo figliadi qualcuno degli exfunzionari del penitenziario.Era forse vedova, vedova diquel Frederikson dove avevail recapito e che dovevaessere, lui sì, figlio diqualcuno di quei funzionari?Intalcaso,amaggiorragionedoveva essere unabuonespalle.

Quella che guardava daalcuni momenti non era piùuna qualsiasi paziente sullettino della qualeignorava tutto ma IrinaSimiodice della quale nonsapevamoltomaunpocosì.

Lei, Irina Simiodice, colsuo sguardo sembravaleggergli nei gesti, neipensieri. Quel suo sguardoperò si faceva sempre piùvago, sfocato, come

sprofondasse a occhi apertinell’incoscienza.Buonespalle, mormorò alloraammiratoMattia.Ora che leimi ci fa pensare,stamattinadevonoaverledatoil cocktaildipreanestetici. Ione ricordo alcuni:benzodiazepine, prometazina,cardioste-nolo, atropina, chenon sonopochimanon sonotutti. Irina Simiodice avevaresistito sinoraai suoieffetti.

Perquellachiaveeperquellacagnachenonsapevaancoraa chi affidare, si eramantenuta lucida, in sensi,opponendosi a quell’insiemedi preanestetici. Messe peròin buone mani chiave ecagna, si era arresa alcocktail. Buone-spalle, anchequi, in questo, si ripeteva edicevaMattia.

Però,primadinonpoterlapiù raggiungere, piegandosi

ancora un poco su di lei, lebisbigliò all’orecchio, anchelui a quel modo furtivo,sottomano, con cui lei gliavevapassatolachiave:

«Oggistesso,ora,mentrevoi sarete in sala operatoria,ioandròall’isolaperlavostracagna. Poi vi farò sapere.»PiùcheIrinaSimiodiceconquel tono tutto basso e perquesto forse più alto delnormale, dovette

sentirlo quella spilungoned’infermiera. Perché, anchesesisforzavagliocchicontroil vetro come fosse in attesadivedereunsegnaledialt alsaliscendi dell’ascensoreda qualcuno di quei taliinfermieri, si girò verso diloro (proprio così, verso diloro, con un’occhiata unicapertuttiedue)conunsorrisoche le riempiva la bocca eche a Mattia non potè che

appariredicomplicità.Appena dopo quel

momento però, il brevemomento di distrazione dallettino che aveva avuto acausa della spilungona,faceva la scoperta che IrinaSimiodice, prendendosiancora una libertà coipreanestetici, stava tentando,più che di parlare, di attirarecogli occhi la sua attenzioneperché l’ascoltasse. Mattia si

accostò con l’orecchio allasua bocca e poi,repentinamente:

«Ferma! Ferma!» gridòall’infermiera. «Risaliamo,risaliamo. Qualcunogesticola.»

La spilungona obbedì piùper paura che perconvinzione. Fece un bruscoarresto e risalì al piano doveunodeicinqueinfermiericheprima correvano dietro a

qualcuno, gesticolava ancoracome al passaggiodell’ascensore:

«Tutto bene?» fecequell’uomomettendo la testadentrol’ascensore.

Mattia,ancoraesaltatodalquasiportentosointerventodiIrina Simiodice, l’avvolse inuno sguardo tintinnante deicampanellini della suaammirazione. Lei peròaveva richiuso nuovamente

gli occhi, sottraendosi al suopiccolotrionfo.

Poiché ogni minaccia eracessata, la spilungonefinalmente portò l’ascensoreall’ultimo piano, quello dellasalaoperatoria.

Da dentro l’ascensoreMattia riconobbe in attesasulla soglia della presalaoperatoria, più di uno e unadell’équipe di Belardo, manon pensò nemmeno per un

istantedifarsivedere,datoilritardo che avevano cogliinterventi.

Mentre l’infermieramanovrava per tirare fuori illettino, nelle ultime occhiateche dette a Irina Simiodice,Mattia si rese conto che eracaduta ormai in uno statodi torpore. Fra qualcheminuto penthotal e curaricoavrebbero completato l’operadeipreanestetici.

Mentalmente la salutavaquando si ricordò del fattoche sul cartellino legato allachiave c’era tutto manonc’erailnomedellacagna.Adesso era un peccatoriportarlainsensi,svegliarla:

« Signora? Signora? » lachiamò, e poi: « Irina? IrinaSimiodice?».

L’infermiera, a boccaaperta, anche se non capiva,s’eratrattenutadallospingere

il lettino, però nonpoteva concedergli moltotempo.

« Signora? Signora?Come si chiama la vostracagna?»quasiurlò.

Irina Simiodice riuscìancoraadapriregliocchichesubitoperòrichiuseefututto.

Mapoi, sul lettino che laportava alla sala operatoria,senza che lui potesse direcome né quando, gli

apparve col lenzuolo tiratosugli occhi, come siconsiderasse già morta almondo delle creature viventiche per lei, sino all’ultimoistante, erano state tutte,umane e animali, quellastupidonadicagna.

Si concentrò subito la

mentesullagrossachiavecheaveva in tasca. Stringendolain mano, gli sembravacome se la chiave mandassedei sospiri e dentro queisospiri risentiva la voce diIrina Simiodice: “Quella

stupidona” faceva, tentandoinvano di mascherare conl’ironia quello che dovevaessere vero patema. “Chissàda quanti giorni nonmangia...”

Continuava a stringere lachiave nella mano come unoggetto fatato, sprovandolaancora a parlare con lavocediIrinaSimiodicecheinquel momento era giàsottopostaforsealradicale.

All’aperto, quando stavaancora dentro il rondelloantistante all’Ospedale, presedalla tasca lagrossachiaveela guardò e riguardòsorridendo come ditenerezza perché era propriouna chiave di dimensioni efoggia antiquate, una verachiavonad’altritempi.

Tutt’in contempo,arcuandosi, storcendosi eallungando il collo fra le

gambe delle persone, unacagnasisforzavad’arrivareaMattia cogli occhi, ma nellesue intenzioni probabilmenteanche col muso chestranamente aveva comescappato fuori dallamuseruola, forse sfibbiatasi(ma il veramente strano erache col muso fuori dellamuseruola, sola per giunta,circolavaancora).

Dire che si sforzava

d’arrivare a lui era per direchesisforzavad’arrivareallachiave che aveva intravvistoin mano sua, perché quellachiave, nel vaeviene dellagente,dovevaavereattiratolasua attenzione come soloavrebbepotuto il cigolio, perlei familiare, che facevamuovendosi sui cardini unacerta porta quando quellachiave veniva girata nellatoppa.

“Cagna segugiabassottoide di razzaDrever.”Quasi tutta nera, col biancoperò che le saliva davanti efiniva in un girocollo, che lemacchiava la punta dellezampe, della coda e ilmuso.Erainsommaunacagnabuffamanonridicola,tutt’altrocheridicolaanzi.Ilfattodiessereunsegugiodavaaisuoiocchiuna luce ferma eagguerrita che improntava

tutto il suo aspetto sicchéquesto,perquantosgraziatoescombinato di misure (ilcorpo lungo lungo e basso,colventrechespolveravacoicapezzoliperterra),vivevainun’impressione di forza, discatto e di coraggio. Unasagoma di bastarda, unabassottoide, si poteva dirlosenza toglierle nulla, ilrisultato dell’incrocio fra unabassotta in fregola e un

Hamiltonstörane(unosvedesedielegantissimalinea, lui, Mattia, ne avevavisto e ammirato più d’unoper la strada) cheintrappolato dalla fregola dilei,l’avevacopertadifuria,aocchichiusi.Allabassottoide,dell’Hamiltonstörane non erapassato altro che il musoaffilato, quanto era bastatoperimbastardirla.Ilmeglio,iltemperamento, le veniva

naturalmente dalla madrebassotta.

Avesse avuto un’autooppure le due monetinenecessarieperprendereprimail48epoiil54,idueautobusche l’avrebbero portatoall’isola di Langholmen, lacagna non avrebbe potutoabbordarlo, avendolo vistoche si gingillava con quellachiave,lachiavedicasadellasuapadronaeanchecasasua.

Quando s’accorse chequella cagna faceva il suostesso cammino? Quandos’accorsecioèchelacagnaloseguiva, però standoglidavantienondietro?

Quanto al quando, fuall’attraversamento di unponte sulla ferrovia, sotto ilquale si vedeva una rada dirive alberate con barche avela e motoscafi tirati insecco. E quanto al modo, fu

lei stessa che gli feceaccorgerecheloseguiva.

Sulleprimefuqualcosadivivo,dicaldoediumidochesi strusciava alla sua coscia,poi capì che era un cane cheper richiamare la suaattenzione, gli passava ilmuso sulla gamba, glielospingeva sulla tasca dovetenevalachiave.

Voltandosidiscatto,sullaprima impressione, le aveva

scostato il muso con unamano e lei, senza guaire,niente, era arretrata diqualche metro fermandosi ascrutarlo di là cogli occhi diuna persona che chissàquando,perragionisue,s’eratrasformata in cane per nonfarsi riconoscere, ma orasoffrivadellatrasformazione.

Il fatto era che Mattia,non collegando cagna echiave, non riconosceva

ancora in quella cagna lacagna che andava a trovare.In quell’avviso di ricercadella cagna smarrita, IrinaSimiodice non aveva messoné il nome né il colore dellabassottoide. C’era “cagnasegugia”, che non serviva aniente per il riconoscimentodella cagna, e c’era“bassottoide”, ma quella eratalmente unabassotta bastarda, con quella

testa eretta, dal profilo diun’altra razza, non laDreverma la nobile razzaHamiltonstöra-ne, appunto, ele zampe non del tutto danana, che Mattia ancora nonsospettava nemmeno chequella potesse essere unabassottoide. Fra l’altro,comportandosi come sicomportava, la cagna dovevaaverlospiazzato.Inmentesualacagnacheandavaavedere

che fine aveva fatto, o eradentro casa, ormai allostremo, o era in giro per lacittà, chissà dove, dovunque,manonlìconlui,dovestavada quando gli aveva vistoprima inmanoepoimettersiin tasca la chiave di casa,segno di grande amicizia diquell’uomo con la suapadrona.

Ruppe lei i suoi indugi edabuonsegugiosiriavvicinò

come a stanarlo dai suoidubbi: simise di sghembo, aun passo da lui, voltata colcorpo verso l’uscita delponte, che lo guardavabattendogli la coda,aspettandolo.

Mattia, che in quelmomento la pensò per laprima volta per quella cheera, prese a studiarla, se equanto potesse essereveramente una bassottoide,

ma incontrò i suoi occhi enon vide che quelli,trattenendo addirittura ilrespiro per quello che civedeva. Un occhio, ildestro, come fosse la solapupilla, il foro nero di unmirinoinmezzoalbiancodelsopracciglio edellapalpebra,lo mirava inflessibile masenz’odio,el’altro,ilsinistro,aveva la pupilla contornatadal bianco stesso dell’occhio

e aveva lo sguardo vago estruggente,chefacevasentirein colpa, d’una cagna con lostrabismo di Venere. Maera tutto il muso diclownesse, bianco del biancodelmantomacolnasoneroecon gocce di nerosgocciolanti come lacrimesottogliocchi,chefacevadelsuo sguardo una lettura dicose imperdonabili perl’uomo.

Mattia si ritrovò chesfregava la grossa chiave intascadicendolementemente:suggeriscimi tu che fare. Latirò fuori dalla tasca e lachiave, esaudendogli ildesiderio col suo agire dalampadadiAladino,glicaddedi mano quasi sotto il musodella cagna, come glisuggerisse quello, farglielavedere. La cagna guaìlamentosamente.Noncrederà

chelasuapadronasiamorta?si chiese Mattia. Ma nonavevafinitodipensarlochelacagna prese ad abbaiarglicontro. Non ha la museruolaalmuso, si disseMattia, nonhaguinzaglionépadronechelatieneaguinzaglioeabbaia.Qua,senon trovo ilmododifarmela venire vicino o diandarle io vicinosistemandole la museruola almuso, arriva l’accalappiacani

e me la porta via. Intantos’era rimesso in cammino eleinonabbaiavapiù.

Andarono per un’altragrande via e una grandepiazza, Fridhemsgatan eFridhemsplan, e ancora perun ponte che passava sopraunparco,sempreaquelmodoridicolo della cagna chepretendeva e non se lonascondeva, di portarel’uomo e l’uomo che, vero o

finto,silasciavaportaredallacagnaeselonascondeva.

Durante il cammino,specie ai semafori, Mattiavedeva la segugia girarsi incontinuazione come perassicurarsi di averlo sempredietro, correndo per questoqualche rischio nel viavai diauto.

Seguendola e avendodavanti agli occhi il suoquarto-didietro e non quella

sua, anzi non sua, testahamilton-störaneana checonfondeva le idee,Mattia sitrovònelgiustopuntodivistaper poter vedere della suastruttura di bassotta bastarda(quellapanciamollatagiùcolsuo dimenìo di mammelline,quelle zampette nervosescattanti, da segugio, masempre zampette sulle qualisimuoveva con lo zampettìodi un millepiedi) quanto

bastava per non avere piùalcun dubbio che si trattassedi una bassottoide, di quellabassottoide. Eppoi,prossimi ormai aLangholmen,eraunfattochelacagnacheandavaatrovareall’“isola del penitenziario”l’avevaportatoleistessalà.

Langholmendifattieralà,sotto i loro occhi, sotto ilpontediWästerbroninmezzoai piccoli arcipelaghi di altre

isoleediisolotti.Langholmen stava fra le

isoleasinistra,siriconoscevadall’ex penitenziario ancoracol filospinato intorno eil viottolo che portava aicancelli d’ingresso delcarcere, dai villini situati quielàallimitedelsottobosco,efrontalmente, dall’edificiodov’erano un certo numerod’appartamenti abitati,insieme ai villini, degli ex

funzionaridelpenitenziario.Quelle costruzioni erano

più che sufficienti perriconoscere Langholmen masi poteva aggiungere quellache, a cominciare dallebarche, era l’attrezzaturaestivadell’isola.

Alcune barche eranoall’aperto, come inriparazione, fuori di ungrande capanno dove forsevenivano viavia ritirate alla

fine dell’estate. Un chioscoper bibite e gelati era ancorachiuso. E così quello chedurante la stagione dovevafunzionare da ridottissimoparco di divertimenti, conun’altalena e uno scivolo. Epoiombrellonimessiafascioper terra, gommoni e pile diciambelle, immagini balneariastagionenemmenoiniziata.

Ma se neanche questobastava per riconoscere

Langholmen, non restavaallora che guardare in quelmomento la cagna.Perché inquelmomento lacagna stavain cima alle scale che dalponte di Wästerbronscendono all’isola: la testagirata verso di lui,scodinzolavad’impazienza.EnonappenaMattiaaccennòafare qualche passo verso dilei, si precipitò giù per lescalecomevisirotolasse.

Ora capirò il perché, sidisse Mattia. Capirò perchémi segui qua. Io dico chevuole vedere che uso facciodiquestachiave,vedereselasua padrona me l’ha data leila chiave, da amica, o semela sono fatta dare io danemico.Questopotràvederlosoloquandomivedràentratoincasa.

MaquiMattia,battendosila fronte, come faccio a

entrare in casa, si disse, senon so qual è la casa?Sull’avviso di ricerca nonc’eraneanchequello,neancheil numero della casa,appartamento o villino chefosse.Col nome e col coloredellacagna,quellaeralaterzadimenticanza o trascuratezzadiIrinaSimiodice.

Ma c’era la cagna e nonavevabisognodelnumeroperritrovare la casa. Doveva

correrle dietro, dirle diportarloallacasa.

Prima aspettò che lacagna si dissetasse a un filod’acqua che veniva fuori daun tubo di gomma appesoaunchiodoaccantoallaportadelcapannodellebarche.

Vide che la cagna sidirigeva poi senza esitazioneal mare, lungo un filare diabeti piantati in leggerodeclivio. Ma dova va? si

chiese. Non posso nemmenochiamarla.Comelachiamosenon so come si chiama?Cagna? Segugio?Bassottoide?

Quasi alla sponda,seguendo con gli occhi lei,dietro il tronco dell’ultimoabetescorseilcavallettodiunpittore e seduto su unosgabello il pittore, un uomod’età ma ancora robusto, atorso nudo, che dipingeva,

c’eradapensare, leondechefacevano schiuma all’altariva.

Lacagnasifermòaccantoal pittore come osservasse ilquadro sul cavalletto,scuotendo la coda erifiatando.

Quandos’accorsedi lei ilpittore le disse qualcosa,guardando l’orologio alpolso, forse la rimbrottava.A quanto sembrava, doveva

essersi stabilita unatacita intesa, come unappuntamento, fra i due e lacagnaquelgiornoeraforseinritardo, o forse in anticipo,losapevanoloroduequesto.

Il pittore comunque ledette ridendo una bellascarruffata sul dorso, poi simise il pennello fra i denti echinandosidilatopreseunaeancora una, ancora una diquelle scatolette di cibi per

cani, comefacilmente immaginò Mattiasenza vedere le scatolette davicino ma vedendo il pittoreche andava mostrandole unadopo l’altra alla cagna comele dicesse scegli. Quella chelei scelse, lui l’aprì con unostrappo versandone ilcontenuto incosaMattianonriusciva a vedere, forseunaciotola.

Il pittore, dopo averla

carezzataancorasullaschienacol manico del pennello,aveva ripreso a dipingere ilsuo paesaggio senza più unosguardo per la cagna. Eanchelei,sbrigatalacosaperla quale quell’uomol’aspettava, ogni giornogiocandoci un poco, s’erarigirataallespalledelpittore,tornandoperdoveeravenuta.

Tutto si spiega, si disseallora Mattia, anche il fatto

che la padrona di questacagna si chiede com’è chela sua stupidona non mangiada cinque giorni. Ora lacosa si spiega, almeno perme. Irina Simiodice puòmai immaginarsi quello cheio ho visto? È moltoprobabile che la sua cagna,prima o dopo che andava amettersi di posta al rondelloantistante all’Ospedale, sipresentassecomeoggial suo

nuovo amico pittore che nonsa ancora di aver nutrito inquestigiorniunacagnachesenon la nutriva lui, non sinutriva? Coma faceva IrinaSimiodice a immaginarsi unpittore, cioè un uomo cosìbravo che si comportava inmodo tale che era comefacesse rientrare anche lei, lacagna, nel paesaggio che daalcuni giorni dipingevanell’isoladiLangholmen?

Mattia, rimasto fermocome ad aspettarla al limitedell’ex penitenziario, se lavide venire incontrozampettando con la suapanciona sempre più pesantee con la museruola semprepiù scombinata che legocciolavaancora.

Aveva tirato fuori dallatasca la grossa chiave e lateneva fra le mani come inmostra per lei. Se mi

deveportareallacasa,questoèilmomento,sidisse.

Lacagnadifattiglivennedavantiegliabbaiòcomeglidicesse:smettiladigingillarticonquellachiaveeandiamo,entriamoincasa.

Mattiaallorasispinsepiùin làemettendosi sui talloni,ecco, le fece, allungandole lachiave, portala tu lachiave,vaiche ti seguo.E incosì dire per prima cosa la

liberò finalmente di quellairritante museruola e poi letolse il collare. La chiave,senza più il cartellino, glielainfilò lì, la cagna presel’apparenza allora di unsanbernardo con la fiaschettaalcolloesimiseaguaire.

Mattia, con la museruolain mano, restò ancora suitalloni a guardarla chezampettava diretta a uno diquei villini all’inizio del

sottobosco. Zampettò piùvolte, col peso della grossachiave che le pendeva dalcollo,davantialcancellettodiquel villino, poi s’impuntòsulle zampe e gli abbaiò,forse perché lui se ne stavaancoralà,fermosuitalloni.

Davanti al cancelletto lacagna sembrò afflosciarsi,con tutta la pancia per terra.Poi, da lì alzò il muso elatròlugubremente.

Non appena però le sfilòlachiavedalcollare,lacagnaspinsecolmusoilcancellettoed entrò nel giardino grandecome un fazzoletto. Là,girando su se stessa, si miseasoffiaresull’erbettacomeseinapparenzacercassequalcheinsettochesapevaditrovarvi,inrealtàmascherandoforseaquelmodoilsuoimbarazzo.

Mattialasciòchesfogassela sua emozione e prese

tempo a farsi avanti con lachiave. Osservava il villinoa due piani, qualcosa dirusticoepretenziosoinsieme,conunaverandinacivettuola,in quello che anche alPolo Nord si definisce “stilecoloniale”,chestavaalfondodi una macchia di abeti ebetulle a ferro di cavallo.Isolato da altri villini ches’intravvedevano lì intorno,appariva più minuscolo di

quanto in realtà non fosse.Ma si trattava di un ingannoottico, di un’impressionedovuta interamente al suoesteriore. Coi castellettidisneyani della fiabescaSigtuna avviene il contrario,ilsensodiabitazioniamisuradi nani nasce all’interno, perla presenza della persona dinormalestatura inambientieaccanto a oggetti, letto sediatavolo, che al confronto

sembrano ambienti e oggettilillipuziani.Entrandocidifatti,quell’impressione restavatuttafuoridellaporta.

Quando infilò la chiavenella toppa,messasi fra lui ela porta, la cagna guainuovamente, come unsingulto stavolta,quasi che ilguaire le venisse di rigettoormai. E quando spinse colmuso, come il cancelletto,anche la porta, e da dentro,

come fosse collegato conl’aperturadellaporta,siavviòla musica di un carilloncaricato col motivo di uncelebre minuetto diBoccherini, tararar-à-rarà-rarà, la casa risonòd’immediatavita.

Dopo attimi in cui restòdisorientato a ricordare, nelmotivo di Boccherini Mattiariconobbe,senzaneancheunasmorfiadisorriso,l’esilarante

leit-motiv della “SignoraOmicidi”.

La cagna a quel suono sitese tutta, lunga lunga, dalmuso alla coda, e non simosse più dalla soglia, comesequelmotivo,scaturitodallaporta che si apriva, lapietrificasse.

Pure lui,Mattia,ancheselui aveva pensato subito,senza spiegarselo, a qualchecongegnoelementare(unfilo,

una cordicella che la porta,girando sui cardini, tiravaazionando il carillon), rimaseancheluiirrigiditosinchénonebbemessopiededentro.

Ciò che dentro videstupefatto per prima cosa fuciò che (non certo da unuomo, da quel Frederikson oda altri, ma da una donna,dalla padrona di casa, daIrina Simiodice) era statopensatoperchéfossevistoper

prima cosa. Fu il biancore diuna tavola apparecchiata perdue al centro di un’unica,grande stanza che avevasubito, entrando, la scala perandar su, mentre di là sulretroavevalacucina.

Tarararà-rarà-rarà.La scatola del carillon

doveva stare sulla tavola,giudicò Mattia appenaorientatosi, mascherata forseda una composizione, se

vedeva bene, di spighe digrano e da steli di quei cardiche sua nonna, nonl’Americana, l’altra,chiamava“cardideilanaioli”,coi loro capolini di fiori diporpora che si combinavanocosì bene con l’oro dellespighedigrano.

Tarararà-rarà-rarà.Il minuetto di Boccherini

tornavasulmotivo,fermandosullasoglialacagnachepure

eradicasalà,oforseproprioperquesto,perchéeradicasalà, che seguiva tutta occhiMattia, ora che Mattia eraentrato come in punta dipiedi, andando verso latavola, all’inversodelladirezionedelsuono.

Mattia intanto, curiosocome mai in vita sua mad’una curiosità che non eratanto per la casa quanto perla donna che abitandola vi

aveva impresso la suaimpronta, andava cercandodov’era, qual era lascaturigine del minuetto,guardando intorno per lastanza, senza sorvolare sunulla. E mentre cercava,ammirava qua uno stipo,làunsettimanino,epoiancheun tavolo da toilette chenonapparivafuoripostoinunangolo interno dellagrandestanza,colpiedecome

un fiore capovolto, e uncassettino e un’asta chereggevaincimaunospecchioovale.Nell’altroangolo,sullastessa linea del tavolo datoilette,unapendolaferma.

Tarararà-rarà-rarà.La vista e la mente di

Mattia erano tutte però perquello stupore di tavola,stupore col quale ilpiccolo mistero del carillonaveva poco o niente a che

vedere. Il carillon, fra l’altro,esauriva la carica proprio inquelmomentoecolmotivodiBoccherini si portava vianelsilenzioquell’impressioneche prima, avviandosi,avevacreato,comeselacasarisonasse di vita per lapresenzadiqualcuno.

La scatola del carillonMattia la trovò che stavaproprio lì, al centro dellatavola, nascosta sotto le

spighe di grano e i cardi deilanaioli. Non aggiungevanulla al gusto gentile, dasignora bene educata, forsedecaduta, con cui eraapparecchiata quella tavola.Se stava làperò, enon inunaltro posto qualsiasi dovesarebbe rimastainvisibile (nello spogliatoioadesempio,subitoentrandoasinistra, o dietro la scala dilegno) doveva essere perché

Irina Simiodice avevamontatoattornoadessalasuacomposizionedifiori.

Ora che ci stava cogliocchi sopra Mattia vedevacheilprimosbalordimentodiquella tavola non nascevadal fatto che essa eraapparecchiata per due, anchesequello,quellodell’invitatocheaquantosembravanonsierapresentatoalpranzo,erailmistero che stava

sottinteso nellosbalordimento. Se rivedevaIrina Simiodice comelofissavadal lettino,quasisisforzasse di mettere a fuocoin lui qualcuno che avevaconosciuto un tempo, sichiedevaselapersonacheluile ricordava, non fosseproprio il signore che non siera seduto alla tavola cheIrina Simiodice lasciavaancora apparecchiata come

implacabilememento per lei.Così come l’annunciofestoso, feliceche all’ingresso di quelsignore avrebbe dovutodiffondersi per casa colmotivo di Boccherini, lei losentiva ancora come perennemementofunereo.

Ilprimosbalordimentodiquella tavola nasceva invecedal fatto, o meglio dallaconstatazione di fatto, che

essa sembrava apparecchiatanon da qualche giorno enemmeno da qualchesettimana o mese, ma damolto più tempo prima, datanto tempo prima che IrinaSimiodice fosse ricoverata inospedale, perché quello dellabellissima tovaglia ricamata,condei pompons agli angoli,e quello dei due tovaglioli,che dalla porta gli eraparso biancore, guardato da

vicino mostrava quel certoingiallimento che il passaredel tempo provoca sullestoffeesposteallaluce.

Eppoi la polvere,formandounostratospessoesoffice come cipria, s’eraposata sui bicchieri a calice,dentro i piatti “a fagiolo”,sulleposatedaimanicid’ossocoloravorio,passatianch’essial color giallino. (Sullalama curva di quei coltelli

dalla punta rotonda, solosfregando via la polvere conun dito Mattia potè leggere“J. Martin Johansson.Göteborg”.) E s’era posataanche sullo scaldavivande incristallo, tanto da lasciarintravvedere a malapena ildischettodicandelaallabase,esullalampadadiopalinechescendeva dall’alto al centrodella tavola, ingrigendola,rendendola come unta di

grasso.C’era un tale silenzio

nella casa che gli tornò ilpensierodellacagnaches’erabloccata sulla soglia. Nons’era accorto che era entratain casa appena cessato ilmotivo di Boccherini e cheerasalitadisopra.

Lavidedalbassoincimaalla scala dietro la porta diquella che doveva essere lacamera da letto di Irina

Simio-dice. Guaiva in modoquasi inudibile e quandononguaiva,strusciavacolmusoecolle zampe sulla portacomebussasse.

Mattia stette un po’ aseguirla dal bassochiedendosi che potesseesserci in quella camera chela faceva guaire perché nonpotevaentrarci.Potrei aprirleiolaportaecosìsmetterebbedi guaire. Se Irina Simiodice

miha dato la chiave di casa,metaforicamente mi ha datole chiavi di tutte le cameredellacasa,ossiamihadatolafacoltàdientrarci.Primaperòvediamo se la cagna non fusolo per abitudine che sidiresseaquellacamera:

« Vieni » la chiamò. «Scendi, vediamo quello chec’è da mangiare per te incucina.»

Così, poiché non era

sicuro d’aver visto bene,avrebbe appurato se quelbrav’uomo del pittore leaveva dato davvero qualcosadamangiare.

La cagna girò la testa epoi lo ignorò. Guaiva espingeva la porta colmuso ecolle zampe, non tanto,sembrava, perché sperasse diaprire lei la porta, quantoperché sapeva che qualcunodi dentro prima o poi le

avrebbeaperto.Mattia andò a dare

un’occhiata in cucina, sicuroalsuoritornodiritrovarlaallostessopunto.

Dalla cucina scoprìl’ingresso o meglio l’uscitasul retro.Affacciandosi dallaporticina, che era soloaccostata, si trovò sulla testail fogliame di un altissimoabete.

In frigorifero non c’era

nulla (e sembrò a Mattia,d’assai più dei quattro giornid’assenza di IrinaSimiodice)degno di essere portato sullanobile tavola apparecchiata.C’era scatolame, per lapadronamasoprattuttoperlacagna. Di cibo per cani nonc’erachedascegliere.Mattiaaprì a caso una scatoletta,versandone il contenuto dipezzettini di carne in unpiatto.

«Vieni, mangia. Fammivedere se hai ancora fame»l’invitò dal basso, ma lei,ormai sazia forse,sembrava completamenteisolata nel suo guaire estrusciare con muso e conzampeaquellaporta.

Mattia, un gradino dopol’altro,salìquasiametàdellascala allungando il bracciocol piatto bene in vistanel palmo della mano. Finì

che arrivò su, dietro di lei ele accostò il piatto tanto dametterle il muso dentro.La cagna mangiò ancora,senza alluparsi ma anchesenza fare la schizzinosa.Mangiando continuava atenere gli occhi alla porta equando Mattia mise unamano alla maniglia, leis’affrettò a mangiare gliultimi pezzettini di carne.Mattiaallora si fecedi latoe

la lasciò passare. Volevavedereperchésmaniavatantoperentrare.

La camera, col bagnosubito a destra, stava tutta inun’occhiata:un lettocondueguanciali al mezzo,un tavolino-comodino asinistra del letto, uncassettone con specchio inalto.

Nemmeno ora che cistava,Mattiavedevachecosa

in quella stanza potesseattirare la cagna sino a farlaguaire a quel modo dietro laporta,ammenochéadattirarlanon fosse la persona per lastanza, la sua padrona, lei,Irina

Simiodice, che in quelmomento però non era nellastanza, né addormentata nésveglia.

La cagna, sin dal primoistante che fu nella stanza si

comportòdaquellasegugiadirazza che era, sicomportò cioè come fosse inpunto di stanare la lepre:strofinòilmusodue,trevoltesullamoquette, poi s’appiattìsulla pancia e venne avantistrisciando e guaiendo,guaiendo e strisciando.Intornoalletto,lasuafututtauna dolorosa marciad’avvicinamentoaquelbassotavolino, collocato alla

sinistra del letto, che facevada comodino aIrinaSimiodice.

A quel punto la cagna,come se in apparenza fossestato quello, arrivarci, il piùdifficile per lei, si rimisesulle zampe e scodinzolandos’affacciò col muso sulcomodino. Là,improvvisamente, come invicinanza della morte, latrò,un lungo latrato che diede i

brividi a Mattia che non sel’aspettava.

Dallasogliaallora,perchéormai non poteva piùtrattenersi di sapere che lesuccedeva, Mattia passò daquella parte del letto dove lacagna, dopo il lungo latrato,si era accovacciata sullamoquette e là lei coi guaitisembrò avere un piccoloconto sempre in perdita fraquellicheriuscivaasoffocare

e quelli che le sfuggivano,soffrendo per questo tantevolte di più il soffrire che lafacevaguaire.

Restò lì a guaire anchequando Mattia le vennevicino e si sporse sulcomodino, e anche quandoMattia dovette accendere lalampada accanto al letto colgambo piegato all’ingiùperchénellasemioscurità,sulcomodino,sesieccettuavaun

vaso di vetro, forse unportafiori, non vedeva nullache spiegasse il tormentosoguairedellacagna,diprimaedidopodellatrato.

Quando però il fascio diluce della lampada caddedentroilvaso,illuminòquellachesembrava l'orrida testadiunserpenteboaavvoltolatolàdentro. Ma bastò che Mattiaspostasse di poco il fascioluminosodalvaso,pervedere

che quella era la sdilavataFacciaFetalediunaplacenta.

Quella specie di medusaaccartocciata, con un che divivoancoraedi selvaggio inquello spazio asfittico,era una placenta umana, colsuo spezzone di cordoneombelicale penzolante disotto,sciacquanteorloorloinunasoluzionediformalina.

Irina Simiodice dovevaaverla infilata da chissà

quando in quel portafiori (oquello che era, con quelcoperchiodivetro,ermetico),perché la placenta nellaformalina passava ormai dimetamorfosi in metamorfosi,dimostruositàinmostruosità.Come la testa del serpenteboaches’eraformatanelsuovuoto fetale. E come, di là,nel pieno materno, la facciadi vecchia tutta tagliuzzatadi rughe, che apparve a

Mattia soprassaltandolol'attimo che sollevò appenaappenafralemaniilvasodalcomodinoperguardarel’altraFaccia: il volto di vecchiabaluginava comeun’apparizione oniricasottomarina nei barlumi cheemanava il tratto di cordoneombelicalequasidiafano,conqualcosadifosforescente.

Non provò niente, sedoveva dire, solo che in

quell’attimo pensò che lacagna guaiva anche per lui.Non provò niente come peruna sorpresa che non losorprendeva, come per unascoperta che gli sembrava dipotersi aspettare da IrinaSimiodice,comeseinsomma,anche una scoperta di quelgenere rientrassenell’opinione che s’era fattadileiinqueipochiminutichel’aveva

conosciutanell’ascensore.Quello che a giudizio di

Mattiaeradecisamentedaleiera il fatto di avereconservato la placenta, unavolta persa la creatura. Permemento, naturalmente. Perilprimoepiùimplacabiledeimementi che aveva messoa custodire sotto la polveredeltempo.

Ma Irina Simiodice,venne da chiedersi a Mattia,

le dava ancora qualcheocchiata andando a letto?Cioè, se ne ricordava sempredi quel memento? Perché,mentre la tavolaapparecchiata stava dovestavacomeinmostra,inquelpunto della casa che sipresentava come unpassaggio obbligato e perquesto era un mementocontinuamente ravvivatodagli occhi alla memoria, la

placentasulcomodinopotevaessere diventata per Irina unmementomorto,morto comel’angolo morto dove stava ilcomodino, fra il letto e laparete.

Lacagnaperò,cipensavaleiatenerevivoperIrinaquelmemento. E con qualepensiero ci pensava, conun pensiero che la facevaguaire come avessedolorosissime fitte, Mattia

l’avevasentitaevista.Ederain conseguenza del fatto chel’avevasentitaevista,cheoranonsapevapiùcometrattarla,quellacagna.Comeprima,inconfidenza, no, gli eraimpossibile. Come, allora?Dandoledel lei, chiamandolasignora cagna? Nonscherzava, non diceva perdire, quella cagna ora lointimidiva, lo intimidivaquello che di inafferrabile

avevailsuostrazianteguai-reperunaplacentaumana.

Esitò un poco prima dispegnere la luce sulcomodino, ma non potevanorestare sempre là inadorazione.

Arrivato alla porta,s’accorsechelacagnanonloseguiva e tornò indietro. Lacagna, per quanto guaissesenza mai smettere unmomento, come fosse più

forte di lei, sembrava starebenedovestava,lìaccantoalcomodino.

Lefeceunacarezzacomeperrichiamarlaallarealtà,maleinonsimosse.

Uscì dalla stanza edistrattamente girò lamaniglia, si richiuse la portaalle spalle. Subito di là,proprio dietro la porta, lacagnaabbaiòpiùvoltesinchénon riaprì la porta. Lei non

uscì, smise d’abbaiare e guaidinuovoguardandolo.£hno,cara,pensòdidirlemanonledisse Mattia. Tu sei unacreatura superiore nel tuogenere, ma io non possostarmenesemprequaatenertila fronte, perdonami se te lodico. Se non puoi farne ameno di stare qua, stacci dasola.

Accennòascendereperlascala e lei allora uscì dalla

stanza.Bene, ledisseMattia.Chiudiamoalloraquestaportacome l’ha lasciata la tuapadrona.

La cagna si traccheggiòancoraunpo’aguairedietrolaportaepoiloseguìgiùperlascala.

Una cagna come quella,unacreaturasuperiorenelsuogenere, andava poi a farequella fine, fine che feceo perché stava con la testa

nelle nuvole o perchél’aveva decisa da sé, persuicidarsi, né più né menocome si suicida una persona.(Perchéunacagnasisuicida?Per rispondere a questoperché bisognava leggerenella complicata psiche diunacreaturasuperiorenelsuogenerecomequella,appunto.)

Stavolta la cagna glizampettava di fianco. Dopoaverle applicato al muso,

finalmente bene, lamuseruola, era bastato che ledicesse,alloraandiamo?eleigli si eramessadi lato comeluidesiderava.

Nellacagnaquell’ideadelpensionato non avevaincontrato lo stesso suoentusiasmo. A lui era parsaaddirittura un’ideanapoleonica, napoleonicaancheperilmodofulmineodirealizzarla. Alla seconda

telefonata a uno dei tantipensionati che a iniziativa diprivati si improvvisano, percanieperanziani,nelperiododelle vacanze, aveva chiestoprezzo e indirizzo tutt’incontempo,comeadirsicheilprezzo, per quanto alto, nonloavrebbedissuasodall’idea.Eilprezzo,perunapensionedi quindici giorni (entro iquindici giorni IrinaSimiodice avrebbe potuto

andare a ritirarsela dipersona) era alto perlui,ancheperchésitrattavadiun cane non suo, mase intendeva lasciareStoccolma, partire, dovevauscire da quella situazione edoveva uscirne da GrandeSignora, come diceva suanonna l’Americanaalludendoa se stessa, perché laGrandeSignora si vede soprattuttoall’usci-re da una situazione,

nontantoall’entrare.Mattia faceva dei

passettini perché lei lireggesse col suo zampettìo.Guardandola dall’alto, dacome stava, a muso sotto,come nascosto dentro legrandi orecchie, a Mattiadette l’immediataimpressione, se non eratroppodirlo,chepensasse.Siaveva l’impressione chepensasse un suo pensiero

nero,nerocomelamorte,chenon passò molto tempo,minuti, e inmente a lei quelpensiero dovette farsi lastessaMorte che lei pensava(suicidio?) o che la pensava(disgrazia?).

Minuti difatti, perchéquellochesuccesse,successeappena furono sul ponte diWästerbron.

Mattianonsisarebbemaiperdonato la distrazione che

lo prese alzando gli occhiverso quella buffa Balena,una specie di grandegiocattolo in marmo,collocato di fronte aLangholmen sul pendio diuna breve altura, al mezzodi un inverosimile Giardinoall’inglese in pendenza.PerchélìenoninunGiardinod’infanzia? si stavachiedendo quando era statosoprassaltato da un sibilare

fortissimo di gommesull’asfalto, lì accanto a lui,perlalungafrenatadiun’autodi piccola cilindrata. L’auto,mentre frenava, avevasterzato, poi aveva frenatoancora e ancora sterzato,finendo di traversopericolosamente sulla corsia.Subito, dietro quella, altrevetture cominciarono afrenare come per un violentostop, con frastuono

assordantediclacson.Mattia non si vide più la

cagnaalfianco,enonlavidenemmeno davanti né didietro. Intuì allora che lacagna, con una deviazioneimprovvisaadangoloretto,sen’era andata col suozampettìo ad attraversare lacorsia tagliando la strada aquella utilitaria che l’avevapresa in pieno uccidendolasulcolpo.

Mattia che distrattosi conla Balena non aveva vistol’investimento, vide quelloche seguì. Vide cioè chedalla macchina investitriceera scesa una altissimaragazza bionda che portavaun vestito e un soprabitinosenza maniche dello stessocolore, e vide che la ragazzas’era precipitata verso lacagna che stava alcuni metridistantesull’asfaltospruzzato

delsuosangue,flosciaflosciacome se l’urto l’avesse tuttarotta dentro. La ragazza,sconvolta, s’era chinata sullacagnadandoleunaguardataeprendendole il muso, ancoradietro la museruola, fra lemani,poicollemani rossedisangue s’era messa a faregrandi gesti per fermare leauto che sopravvenivano.Quandoallesuespalleleautofacevano ormai una lunga

coda, la ragazza era tornataalla cagna e toltasi senzapensarci su il soprabitino,l’aveva steso per terraraccogliendovi dentro lacagna tutta sangue efracassata.

Stringendonelleduemaniil soprabitino rigonfio, nelsilenzio delle prime autobloccate,dallequalichistavaal volante poteva vederla, laragazza era uscita dalla

corsia, passando rasente aMattia,pedonespettatore.

Per la prima volta aMattia insorse inmente IrinaSimiodice.Comeglielodirò?sichiese.Come?Come?

La ragazza tornò apassargli vicino. Mattia nons’era nemmeno girato pervedere dove lasciava il suofagottone.

Questo lo fece sentire unpo’ vile, anche se nemmeno

lui sapeva precisamenteperché. Come glielo dirò?si chiese ancora, cosa cheavrebbefattoancoraeancorada quel momento in poi.Come glielo dirò? E glipareva di vedere IrinaSimiodice, pallido fantasma,sollevarsi in mezzo al lettocome un paurosospauracchio.

Quando le chiederòcomesi sente dopo il radicale, da

quellocheIrinaSimiodicemirisponderà, così così,bene, abbastanza bene, dovràscalare la morte della cagnaperché a quella notizia nonpotrà che sentirsi peggio.Tutto sta a vedere come ledaròlanotizia,alleparolecheuserò.

Era tale l’assillo ditrovare quelle parole chequella notte stessa, anche senon era certo l’indomani che

poteva parlare a IrinaSimiodice, operata fresca, inun continuo dormivegliaalternato a vere e proprieallucinazioni, non fece cheprovare e riprovarecombinazioni sucombinazioni di parole e difrasi per trovare quella che aIrina Simiodice potesse darela notizia, non diceva inmodo indolore ma in modoquanto meno possibile

traumatico.Scartava subito la frase

che essendo la più semplice,era anche la più brutale,quella che poteva riuscirlepiù sconvolgente: signora lavostra cagna è stata uccisada un’auto. La notizia, datacosì, anche una che avevabuone spalle come IrinaSimiodice rischiava di nonreggerla.

Mascartavaanchelefrasi

chenondicevanosubitotutto:signoralavostracagnaèstatainvestita o messa sotto, daun’auto. Perché, dopo, nondovevadirlolostessocheerastata uccisa? Tanto valevadirlosubito:signoralavostracagna è stata uccisa daun’auto.

Tutte le frasi, eccettoquella, giravano su se stesse,prendevano tempo all’inutile.Frasi del tipo signora

alla vostra cagna è successoun incidente, o del tiposignora alla vostra cagna ècapitata una disgrazia, laprimaeraridicola,lasecondatragica, però senza direquella, perché era ridicola, equesta perché tragica.Bisognava aggiungeresempre:perchéè statauccisadaun’auto.

Tutta la notte avevascartato, incartato e poi

scartato ancora, per tornareinfine alla prima, semplice esconvolgente: signora lavostra cagna è stata uccisadaun’auto.

Tutta la notte, ogni voltache scartava una frase, eracome ricevesse unapunizione. Perché s’eraimposto di non dormiresinché non trovava la frase-notiziachepotessefaremenomale a IrinaSimiodice.Ogni

voltaperòchegliocchiglisichiudevano, si svegliava disoprassalto sottol’impressione che lainvestitrice della cagna,passandogli vicino, glisbattevasulpettoilfagottonedella bassottoide, ancoracaldadentroilsoprabito.

A Irina Simiodice potè

parlare solo il terzo giornodopo il radicale» ma in queitregiorni leparolecheavevatrovato, signora la vostracagna è stata uccisa daun’auto, non smise mai didirsele mente mente perché

nonglivenissemenol’animodi ripeterle a lei. E questoanche quando in quei tregiorni la sua mente avrebbedovuto essere presa da altripensieri e da altre parole aespressione di quei pensieri.Il più grosso dei quali,ciononostante, di parole nonne ebbe nessuna o quasi, equesto fu il suo pensiero checon Kenio non poteva dirsisicuro al cento per cento di

essere avvertito in tempo peraccompagnareilProfessorealcimitero.

Prese per questo ladecisione di non allontanarsidall'Istitutosenonperandareadormireefecebeneperché,rimanendo nell'Istituto,telefonicamente s’incontròcon tre signore, tutte e tre invario modo degne, senondegnissimed’ascolto.

Laprimadelletresignore

fu sua nonna, l’Americananemmeno a dirlo, chetelefonava da Palermo nonvedendolo arrivare. Le dissedella morte improvvisa delProfessore: «Resta allora»furono le sue parole. «Restasintantocheluihabisognodisentirtivicino.»

Nonna, fu per dirle, ilProfessore è morto, chebisogno può più avere disentirmi vicino? Lei però lo

precedette con le antennestrabilianti che aveva e aquello che lui non disse,rispose:«Perché ilmortohasempre bisogno di sentirsivicinoilvivo».

Da come ne parlavasembrava averne fattaesperienzapersonale.

Lasecondasignoraconlaquale s’incontrò per telefonofulasignoraDawson.

Era stato Kenio, col

Professore ancora steso sulletto in salopette, apresentarglisi con la rubricatelefonicaapertaeaindicargliil numero di telefono dellasignora a Cincinnati. Giusto,si disse Mattia, tocca a meavvertirla.

Con la signora Dawsonfinì col ricevere e rifiutareun’altra offerta a un posto didirettore, anche se stavolta sitrattava di farlo solo

protempore. Perché lasignora Dawson rimuovevacome una contrarietà ildirettore morto nello spaziodi due battute e alla terzafacevagiàapprocciperilsuosuccessore.

Con la terza signoras’incontròsenontramite,pervia del telefono. PerchéKenio gli si presentò ancoracon la rubrica aperta fra lemani.Stavoltaperò,primadi

indicargli il nome dellapersonaallaquale telefonare,si sforzò di fargli capire chequella persona gli sarebbestata grata se l’avesserochiamata per accompagnareanche lei il Professore allasuaultimadimora.

Mattiaglichiesechieralapersona e Kenio, invece difargli vedere il nome sullarubrica, da un piccoloripostiglioaccantoallacucina

prese un paio di stivaletticoi pattini e glieli mostròfacendolamossadipattinare.

Mi sta dicendo, si disseMattia, che si tratta di unapersona che pattinava colProfessore.

«Unadonna?»glichieseeKeniorise.«Unadonnachepattinava col Professore? »finì di chiedergli eKenio gliaccennòcolcapopiùvoltedisì.

Dunque, se ho intesobene, ne concluse Mattia,Kenio vorrebbe avvertire lafamosa quanto sconosciutacompagna di pattinaggio delProfessore, che il suopartnerè morto e che oggi stesso cisarà il funerale. Non erainnessunsensol’occasione,aMattia comunque nondispiaceva svelarsi il misterodi quella pattinatrice amicadelProfessore.

La storia era cominciataquando l’acqua dei canali sieraghiacciata.

Il Professore e la suacompagna non sinascondevano ma non neavevano nemmeno bisogno,considerato che si davanoappuntamento alla banchinaoppostadelcanale,allespalledell’Istituto, all’imbarcaderosempre stipatissimo d’estatedi bagnanti in partenza coi

vaporetti e d’inverno dipattinatorid’ognietàesesso.

Per caso li videro alcunidottorini dalla banchina, mamentre riconobbero nelpartnermaschioilProfessore,la dama, a causa delladistanza,sconosciutaglieraesconosciuta gli rimase senzailsoccorsod’unbinocolo.

Là la sconosciuta,mentrelei aveva già gli stivaletti aipiedi, poiché arrivava

pattinando all’imbarcadero,aiutavailProfessoreacalzarei suoi. Poi, gli dava unamano perché si mettesseall’impiedi e affiancandoglisigli faceva impugnare il capodi un bastone o di unsemplice ramo, del quale leiimpugnava già l’altro caponella mano sinistra. A quelpunto lei cingeva col suobracciodestroilProfessoreaifianchi e lui lei col suo

braccio sinistro. All’unisonoallora quella figura a quattrogambe scivolavaarmoniosamentesulghiaccio,accelerando la suacorsa verso la chiusa erimpicciolendosi viavia ches’avvicinava al mare comedovesse scomparire sotto lalineadell’orizzonte.

TornandoaKeniocheoracol dito puntato dentro gliteneva aperta davanti la

rubrica, Mattia vi lesse lostesso nome che leggeva daun pezzo nella sua mente.Signora, ripetè allora cogliocchivelatidilacrimefìssisuquel nome, la vostra cagna èstatauccisadaun’auto.

Durante lanotteperò,neidiffìcili approcci col sonno,dietroquelvelodi lacrime sianimò una scena di sognoaocchiaperticheeraforselastupefacente scoperta del

suo amore per IrinaSimiodice, amore checuriosamente doveva essergligermogliato dentro a suainsaputa, per lui anzi sino aquel momento addirittura inmentedei.

Confusi in mezzo allafolla diHierakonopolis, lui eIrinaassistevanoal trionfodiNarmer dopo la suavittoria sul “popolo degliarpioni”.Erano lui il padre e

Irina la madre del Faraone.Tenendosi per mano,vedevano ancora distanteavanzare il corteo del qualegiàdistinguevanoincimaalleaste portate dai pigmei leInsegne della Dinastia conquella quarta Insegna maivista dal popolo osannantema che essi riconoscevanoper la placenta del figlio, laplacentadentro laquale Irinalo avevaportato ingremboe

che lui, il padre, Mattia, gliavevaconservato mummificandola.Quando il corteo sfilavadavanti a loro, essi sistringevano forte forte lamano, trepidanti, commossialla vista dell’imponentefigura del figlio Faraone insalopette e con la faccia delprofessorPlanika.

Lacitofonistacheistruiva

sull’uso del citofono eracome un’aiutante dellacentralinista che stava incabina.

Fu lei che bisbigliandospiegò a Mattia che i duevisitatori, duemariti seduti a

capo chino, venivano da duegiorni e sarebbero dovutitornare anchel’indomani, essendo le loromogli ancora sotto l’effettodegli anestetici. Ci sonodonne però che dopo duegiorni ne sono già uscite,avevaconclusolacitofonista,facendo sperare aMattia cheIrina Simiodice fosse fraqueste.

Chi sino a quelmomento

aveva occupato una dellepostazioni citofoniche, unasignora che parlavacomesputasselischedipesce,buttava giù allora allorainfuriatalacornetta.

«Quella baldracca» avevaimprecato con odio lasignora, passando allo strillodaunparlarebasso,soffocatoanche se stizzoso, contempochesiguardavaintornocomesapesse di fare sacrilegio a

strillare, ma lei, dovevanocapirlo, era al massimo disopportazione.

La citofonistaaccompagnò la signora fuoridella centralina e là lesussurròcomearimprovero:

«Ma come, dirlebaldracca a quellapoveretta?»

«Perchéno?»avevafattola signora, incorrendo ancorain piccoli strilli. « Mi ha

provocato, mi ha provocatoancoraunavolta.»

«Ma cosa ha detto perprovocarvi?»

«Nulla.Ancoraunavoltanon mi ha detto nulla. Ioparloe leizitta,semprezitta.È così che mi provoca,colsuomaledettosilenzio.»

La citofonista invitòMattiaallapostazionelasciatadalla signora, chissà perchécon altre libere che ce

n’erano, e sempre a bisbiglil’istruì su quello che èmetà telefono,metàcitofono,perché i due capi delcitofono sono invertiti dacome sono di solito. Nellacentralina sta ilmicrofono diun telefono e nella stanzadelle pazienti, alla parete sullettino, sta il diffusore dietrounagriglia.Ildiffusorericevee diffonde nella stanza lavocecheparlanelmicrofono

e porta e trasmette allacentralina la voce dellapaziente che parla dal lettocomesproloquiassedasola.

La centralinista gli recitòinfine, la bocca moltoravvicinataalsuoorecchio,leultimeraccomandazioni:

«Oparlareoascoltare.Sedilàlapazienteparlaoanchesolo rifiata o sospira dal suolettino,eilsuofiatoosospiroarrivaallaretinasullaparetee

quindi a voi qua, voi noninterferite, lasciatela parlare,rifiatare osospirare. Interferire sarebbesoloperditaditempo.»

Poi premette il dito sulbottone. Era seduta e si alzòper far sedere lui,allontanandosi di qualchepasso.

Mattia sentì allora unosquillo smorzato,lontanissimo, che gli fece

trattenere il fiato, temendoche già col fiato potesseinterferire. Sentì lo squillorisuonarepiùvoltenelchiusodella stanza, col suono cheogni volta pareva affievolirsidi più e smettere. Chissàperché,forseperchéunsuonoimmetteva anche qui in unluogo chiuso, pensò alcarillon, al minuetto diBoccherini nella casasull’isola. Aspettava di

sentire di là un segno dirisposta, desiderandosi però,stranamente, di squillo insquillo, che la suoneria siesaurisse senza essereinterrotta. Questo perché,ancora una volta, mentre lachiamava, si chiedeva severamente non cera un’altrafrase, con altre parole, menobrutali e sconvolgenti diquelle: signora la vostracagna è stata uccisa da

un’auto. Si sentivaancora qualche scrupolo,qualche dubbio, doveva o nopremettere a tale frase:signora devo darvi unadolorosa notizia? Serviva,conunacomeIrinaSimiodiceche le dolorose notizie o leassenze di notizie (e dipersone) sembrava averleprese come veleni nella suavita e se ne era comemitridatizzata?

Quando di là finalmenteIrina Simiodice sillabò «Sì?»e poi nient’altro, fu come siriposasseperlosforzofattoapronunciarequellasillaba.

« Signora? » chiamòallora lui precipitandosi,sperando senza saper direperché, che l’accento dellasua voce fosse quello cheaveva in mente. Chiamò piùvolte: «Signora? Signora?»sentendo però ogni volta

che l’accento della sua vocenon era quello che avevain mente e che per la veritànemmeno lui avrebbesaputo dire qual era.L’accento forse che avrebbedovuto persuadere IrinaSimiodice a parlare. Ma leiche deve parlare a fare? sichiese. Sono io solo,purtroppo per me, che devoparlare per dire signora lavostra cagna eccetera

eccetera. Lei deve soloascoltare,purtroppoperlei.

Nella centralina, alle suespalle, il silenzio era lostesso,masembravadipiùdiprima. Forse perché eranoarrivatealtrepersone,cheperquanto si muovesserodiscrete, come in punta dipiedi,Mattialeavevasentite,e queste persone ora parevache nonrespirasseronemmeno.

Quella che Mattia ebbe,guardando all’indietro con lacodadell’occhio, fu enon fuuna sorpresa. Belardoe l'Emiro (sempre incompagnia delle sue tregiovanissime MogliAnziane), sapeva che eranoanch’essi nell’ospedale, invisita alla piccola Regina.Sarebbe andato a cercarli luisenon fosserovenuti lorodalui.Accennòappenaunsaluto

alPrincipecheglisorrise,eaBelardochegli fecedi sìcolcapo e con l’indice gli fecesegno verso su, verso dove,pensò Mattia, stava la suaoperatadelradicale.

«Signora? Signora?»tornòachiamareepoidecised’aspettare ancora qualcheminuto. Se Irina Simiodice,si disse, si dimostra in gradodi ascoltare, le parlo, le dola barbara notizia, anche se

qua venne a sentirmi unpubblico di conoscenti. Esennò torno domani, quandoebbe tempo di smaltirepenthotalecurarico.Primadipartire io devo farle sapereche fine fece la suadisgraziata cagna.A costo dirimandareancoralapartenza.

Intantoperò,cominciòadarrivarglinelmicrofonocomeun rifiato flebile, lontano,come di corda

tremula, stridula, cheaccennava a modularequalcosa senza riuscire adarsi né sostegno né forza,sinché annaspandoannaspando, la gaiezzastraziata di quel motivo nonvenneaferirgligliorecchi:

Tarararà-rarà-rarà.Arrossendo, facendosi

goffamentedisinvolto,perchégli sembrava che tutti nellacentralina, specie Belardo

e l’Emiro a un passo da lui,l’avessero sentitacanticchiare per lui ilmotivodiBoccherini,sigiròamezzoguardandosi intorno.Ma tuttinella saletta si cancellaronodallasuamente,nonsolodaisuoi occhi, quando tornò aIrina Simiodice cheaccennava ancora come colsuoultimofiatoalmotivodelcarillon nascosto fra i cardidei lanaioli e le spighe di

grano al centro di quellapateticatavolaapparecchiata.

«Pronto?Pronto,signora?Allora mi riconosce?» lechiese senza badare a tenerebassa la voce, temendoche stremata dallo sforzofatto per canticchiare, non cel’avrebbe fatta a dire altro: «La chiave, la cagna, lavostra bassottoide,ricordate?» le chiesestupidamente.

E pensò: se risponde,bene, ma anche se nonrisponde, dato che sentirepuò, le darò lo stesso lanotizia che tante volte misono ripetuto per questomomento: signora la vostracagna... La sentirà e soffrirà,ma di dolore lei ne ha giàavuto tanto che forse nientepuòpiùdolerle.

«Ricordo,ricordo»disselei dopo attimi, senza

mortificarlo per quella suasciocca domanda, con unavoce che era un filo ma unfilo che non sembrava inpunto di spezzarsi. «Nonfaccio che ricordare qui»continuò e sembrò voleraggiungere dell’altro, comese quel filo si rafforzassedella sua stessa filiformeinconsistenza. Per questoMattianon fiatò.«Sapete?»fece lei difatti a quel punto

sforzandosidinonmetterlaaltragico. «L’anestesista, unattimo prima di farmi ilpenthotal, signora, mi hadetto,pensiaqualcunochelepiacerebbe rivedereeaddormentandosilorivedrà.Io non sono in grado didire se ho pensato o non hopensato a qualcuno di cuivolevo ancoraincorreggibilmenterivedereilvolto. Posso dire però che al

postodiquelvoltoho rivistoil brutto muso della miabassottoide anche se ioaddormentandomi le avevofatto il tortodinonpensarealei.»

E ora, s’angosciòMattia,come potrò dirglielo: signoralavostracagnaè statauccisada un’auto? Come potrò?Comepotrei?

Qui lei per un verso glivenne in soccorso, per un

altroperòfinìdiperderlo:«Ma non mi dite niente

dellamiaMargot?»«Margot?Sichiamavacosì?» lechiese,terrorizzato perquell’imperfetto.

«Oh che sventata, chesventata» si lamentò lei.«Come potrete perdonarmi?Ho dimenticato di dirvi ciòche avrei dovuto dirvi perprimo, il nome il nomeil nome... E pensare che

rivolgendomi a voi, ve nericordate? vi chiesi come sichiamava il vostro cane.» Stette in silenzio e Mattianonosòinterferire.Sperò,dalsuo silenzio prolungato, chesi fosse davvero stancata orae che non gli chiedesse più,come le fosse caduto dimente, di parlarle della suaMargot. Con un’infinità ditenerezza, con un poco diquella tenerezza per la cagna

ancheperluiforse,glichiese:« E senza sapere il suo

nome avete potutoavvicinarla,intendervi?»Nonaspettò la sua risposta, comese quella domanda le fosseall’istante caduta di menteo come se quello che ora glichiedeva fosse tantopiù importante per lei e loera:«Èlìconvoi?».

Mattia ne fu comeannichilito, come non

dovessesopravvivereaquelladomanda. Poteva dirle: no,nonèquiconmeperchénonpuò essere qui con me. Malei questo doveva saperlo. Onelle condizioni in cuiera,pereffettodelpenthotaledel curarico, quelparticolare che i cani nonpossonoentrarenell’ospedaleera tanto smarrito dalla suamente?Sentì la suavocechele rispondeva,

sbalordendosene lui perprimo, come fosse lavocediunaltroecomesequellenonfosseroparolesue:

«Sì,èquiconme.»Il cuore gli tremò a

sentirsidiresì,èquiconme.Per giunta, disperò che tuttofinisse lì. Non passò difattiunsoloattimochetrepidante,adagiata su quella felicità,leidisseancora:

«Avetedetto che è lì con

voi?Houditobene?»«Sì»leconfermòluicon

un’intrepidezza da capogiro.«Equiconme.»

E qui, senza vederli,Mattia si girò a dareun’occhiata ai presenti comepresagisse il resto. Sapevaormai all’in-circa di sapereciòcheleifraunaltroattimogli avrebbe chiesto mastranamente non si sentivapiù tremare il cuore, non si

sentivapiùannichilito.Lei invece, prima, come

per assaporare di più quelloche si lasciava di chiederglidopo,glichiese:

«È me la riportereteancora?»

«Certo.Anchedomani »le rispose, sicuro, senzanessun bisogno di rifletterci.Enonmentiva.

Lei stette un po’ e poi,con la sua voce più trepida

macomelacosapiùnaturalediquestomondo,glifece:

«Potreste passarmela unmomento?»

« Certo » le rispose conuna calma che ormai non losorprendeva,nonvedendopiùriparo alla successione deglieventi ma non sognandosinemmeno,quand’ancheavessepotuto,diimpedirli. «Ve la passosubito.» E aspettando il

tempo che più o meno cisarebbevolutoadaccostareemantenereilmicrofonoaunadelle orecchie delia cagna,«Ecco» le disse. «La vostraMargotviascolta.Parlate.»

«Bau-bau» fece lei alloraalsuoorecchio,epoilasentì,come la vedesse sporta dallettino, che s’aspettava cheora Margot facesse bau-bauanchelei.

Mattiavideallesuespalle

Belardo che venivaaccostandosi di più a lui macome se contempo se neallontanasse. Gli era accantol’Emiro, tutto teso in viso,cheavevaaccantoasuavoltale sue tre Mogli Anziane.Tutti e quattro straniti, abocca aperta, si portavanocome per la scena finale inprima fila. Belardo però nonpoteva non immaginarequello che Mattia stava per

fare, vedendogli tirare giù ilcolletto della camicia eallungare il collo per darelibertà alla gola e aggiustarsiil microfono a una distanzadalla bocca, buona perabbaiare dolce, senza chel’abbaiarerintronassecontroitimpani di Irina Simiodice.SicchéMattialovidemettersiadare, esterrefatto, all’Emiroe alle tre mogli dell’Emiro,piccolema precipitose spinte

versol’uscitadellacentralina,per allontanarli da lì, da lui,dalla vergogna che stava perfare.

Mattialovide,livide,manon più che quali ombreconfuse e agitate, e tornò aquello che in quelmomentoera il solopensierodella sua vita, il pensiero(questononselonascondeva)di quella donna chiamataIrina Simio-dice che più che

illudere se stessa, desideravailludereluicheleisiilludeva.

Tornòalmicrofonoconlamente intenta,intentissimamente intenta,soloaquello,amimareconlesue corde vocali d’uomol’abbaiare d’una cagna,festevole, forse impacciato,dentrounmicrofono:

« Bau-bau » fece infine,contuttal’anima,abbassandoe rialzando il capo, e

pregando nello stessomomentoDiodi trasformarloin una cagna, anche sedovevarestarciperilrestodeisuoigiorni.