GUSTARE L'ITALIA SPECIALE PASTA

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Speciale Pasta

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Speciale Pasta

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Enotria, terra del vino, così veniva chiamata anticamente l’Italia per gli innumerevoli vitigni au-

toctoni che la ricoprivano dalle Alpi a Santa Maria di Leuca; nei secoli seguenti altre denomina-

zioni vennero attribuite alla nostra patria: “la terra dove fioriscono i limoni”, così Goethe; la terra

degli ulivi, dei “fratelli ulivi - che fan di santità pallidi i clivi - e sorridenti”, così D’Annunzio; e altre

meno poetiche sulle quali sarà bene sorvolare.

Una di queste lo coniarono i nostri cugini d’oltralpe che ci chiamarono “macaronì”; quello che

voleva essere un insulto divenne però un complimento da quando la comunità scientifica decise

che la “mediterranian diet”, l’alimentazione mediterranea che ha come base la pasta, è la più sa-

lutare.

Alla pasta italiana, che adesso tutto il mondo ci invidia e cerca inutilmente di copiarci, per la qua-

le abbiamo inventato più di 1300 ricette per cucinarla nei modi più fantasiosi, vogliamo dedicare

questo nostro speciale di “Gustare l’Italia”.

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La pasta: dono degli dèi

di D

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amp

ello

Storia

dell

a pa

sta

Nei secoli scorsi i contadini italiani - anche

senza avere mai ascoltato il parere di un dieto-

logo - sapevano che nessun altro cibo come la

pasta fornisce un’alimentazione così completa

ed equilibrata. Un adulto necessita di circa

3000 chilocalorie al giorno, costituite da car-

boidrati (60%), grassi (20%), proteine (10%);

un buon piatto di pasta, condito con una sem-

plice salsa di pomodori e una discreta grattu-

giata di formaggio, apporta circa 600 chiloca-

lorie nella quasi identica percentuale di

carboidrati, grassi e proteine.

Nessun altro alimento risulta così ben bilancia-

to e i contadini lo sapevano. La loro dieta: un

piatto di pasta al sugo arricchita di quando in

quando (soprattutto nei giorni di festa) da car-

ne o pesce, era perfetta; la pasta era pratica-

mente un piatto unico, il formaggio, la frutta, il

pane e il vino completavano un pranzo sempli-

ce ma completo e sano. I guai alimentari co-

minciarono con l’avvento del cosiddetto be-

nessere, quando da piatto unico la pasta

divenne un “primo piatto” che richiedeva per-

ciò un antipasto, un secondo e contorno, il

formaggio, la frutta, il dolce, con relativi aperi-

tivi, vini, distillati, caffè e ammazzacaffè.

Incominciarono i problemi di malattie dovute

alla superalimentazione e all’obesità e, curio-

samente, la gran parte delle colpe vennero ri-

versate sulla povera e innocente pasta che di-

venne uno spauracchio per chiunque avesse

problemi di linea.

Le “donne crisi” degli anni venti avrebbero con

entusiasmo sottoscritto il Manifesto per una

cucina futurista, nel quale Filippo Tommaso

Marinetti propugnava l’abolizione della pasta-

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sciutta che, secondo lui, “non

serviva ad altro se non a tappa-

re i buchi dell’inguaribile tristez-

za” di quelli che spregiativa-

mente egli chiamava

“pastasciuttari”. Si andò avanti

così per anni; intere generazio-

ni, quando si sedevano a tavola

davanti ad un piatto di bucatini

o di pappardelle o di bigoli, ve-

nivano assaliti dai rimorsi e dai

sensi di colpa; diafane giovinet-

te votate all’anoressia consu-

mavano tristemente la loro gio-

vinezza mangiando un po’ di

bresaola e qualche foglia di in-

salata scondita…

Poi finalmente tornò la luce. Dai

dietologi di oltre Atlantico arrivò

la lieta novella: ci spiegarono

quello che i nostri avi sapevano

da centinaia di anni rivalutando

come perfetti per una sana ali-

mentazione gli elementi tradizionali degli italia-

ni: verdure, olio e - naturalmente - la pasta.

Da allora siamo tornati a gustare senza rimorsi

piatti di trenette al pesto o bucatini all’amatri-

ciana o di fusilli alla marateota e se qualcuno

ci obbietta qualcosa possiamo serenamente

rispondere che stiamo seguendo una dieta: “la

dieta mediterranea”.

D’altra parte come si potrebbe rinunciare a

questo cibo che deriva dal grano, il più impor-

tante dono che ci hanno dato gli dei come è

testimoniato in ogni religione: per gli antichi

egizi fu Iside a donare il grano all’Umanità, per

i greci Demetra, per i romani Cerere…

Non è un caso che Cerere e Demetra, oltre ad

essere le protettrici delle messi, fossero anche

simboli del progresso: la coltivazione dei cere-

ali incominciò quasi contemporaneamente in

varie parti del mondo 6 o 7 mila anni fa e cam-

biò le abitudini dell’uomo e contribuì al suo

sviluppo e al suo ingresso nella civiltà. Quando

si rese conto che la coltivazione e il raccolto

del grano e dei cereali in genere gli costava

meno fatica e comportava meno pericoli

dell’andare a caccia per procurarsi il necessa-

rio alla sopravvivenza, l’uomo cambiò le sue

abitudini di nomade e si convinse a scegliere

insediamenti stabili.

Fu una delle più importanti rivoluzioni della

storia, che portò a radicali cambiamenti nei

suoi costumi e addirittura nella sua struttura fi-

sica; nei costumi perché, non dovendo conti-

nuamente cambiare luogo, si trovò ad avere

più tempo per dedicarsi a sviluppare l’artigia-

nato e in seguito le arti e le scienze.

Una divertente leggenda attribuisce l’invenzio-

ne della pasta al dio Vulcano (Efesto per i gre-

ci) il quale, infuriato con Demetra - la dea delle

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dà alla pasta una resistenza alla cottura che

non si riscontra in paste nate altrove.

In realtà, molto semplicemente, si è trattato di

una scoperta che tutti i popoli del mondo fe-

cero ad un certo punto della loro storia, sco-

perta legata alla conoscenza e all’uso dei ce-

reali; come accadde per il pane, anche per la

pasta ad un certo punto qualcuno pensò di

trasformare i cereali in farina e poi di cuocerla

nell’acqua salata trasformandola in pasta.

L’importante, in ogni caso, è che la pasta oggi

sia una realtà, chiunque ne sia stato l’invento-

re, e che si possa cucinare in dieci, cento, mil-

le modi….

In quanti modi si può cucinare la pasta? Per

Vincenzo Buonassisi, uno dei massimi studio-

si della materia, un innamorato di questo ali-

mento potrebbe andare avanti quattro anni

cambiando ricetta ogni giorno; nel suo “Codi-

messi -, strappò tutti i chicchi di grano dalle

sue spighe, li pestò rabbiosamente con la sua

mazza di ferro facendone farina che gettò nel

Vesuvio; i vapori del vulcano trasformarono la

farina in un impasto che sul fuoco della lava

venne cotto a puntino.

Il dio, incuriosito dal buon profumo che ema-

nava, lo raccolse, vi sparse sopra un po’ d’olio

d’oliva e se lo mangiò; aveva inventato la pri-

ma pizza alla marinara della storia.

Dalla pizza alla pasta il passo fu breve e i na-

poletani - forti del fatto che la leggenda mito-

logica situa la cottura della prima pizza in

Campania - sostengono che sono stati loro a

inventare i maccheroni.

A Gragnano, sulle pendici del Vesuvio, non

hanno alcun dubbio, i maccheroni li hanno in-

ventati loro e portano a sostegno della loro te-

si il fatto che la loro acqua, molto ricca di zolfo,

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ce della pasta” ha infatti individuato e

con affetto catalogato ben 1347 ricet-

te elencandole in ordine alfabetico,

dagli “agnoli” (sorbir d’agnoli) alla

“zuppa di grano”.

Milletrecentoquarantasette ricette,

milletrecentoquarantasette piatti di

pasta, dai più classici ai più nuovi e

raffinati, milletrecentoquarantasette

momenti di gioia per il palato, di alle-

gria, di beatitudine appunto, perché -

come scrive Mariarosa Schiaffino nel

suo “Tempo di pasta” - … “la pasta è

un piatto ottimista, positivo, capace di

portare in tavola il sorriso e di ispirare

una visione più rosea della vita. Ha an-

che un che di consolatorio, di affettuo-

so, di tenero. E’ morbida e accogliente

come un seno materno. Gli italiani vi

tuffano metaforicamente la loro fatica

di vivere”.

Siamo al lirismo. Giustamente. Ma se

si arriva alla poesia per la pasta, dove

si dovrebbe arrivare pensando al po-

modoro? Meglio: alla pasta col pomo-

doro? Pensate al povero Efesto: ave-

va inventato la pasta - o per lo meno

la pizza - ma, per sua sfortuna, non

seppe mai quale sublime abbinamen-

to si sarebbe ottenuto unendola col

pomodoro.

Di Vulcano, infatti, e di tutti gli altri déi

dell’Olimpo, non restava ormai che il ricordo

quando Cristoforo Colombo nel 1492 scoper-

se per caso l’America e, con l’America, alcune

piante che dovevano arricchire la gastronomia

europea: la patata, la melanzana, la zucca, il

peperone e - soprattutto - il pomodoro. La co-

sa incredibile fu che molte di queste piante,

soprattutto quelle appartenenti alla famiglia

delle solanacee, per secoli vennero considera-

te soltanto come pianta da ornamento perché

si pensava che fossero velenose. La melanza-

na - per esempio - ha questo nome che signi-

fica “mela insana”, perché erano convinti che

fosse immangiabile. Soltanto alla fine del XVIII

secolo si decisero a mangiare i pomodori col

riso, con il pesce, nelle frittelle, in crocchette…

ma non ancora con la pasta. In uno dei primi

libri di cucina scritto dal napoletano Vincenzo

Corrado detto “Il cuoco galante”, nel 1773 non

se ne fa cenno.

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Chi sarà stato il primo che abbinò pasta e po-

modori creando uno dei cibi più straordinari

della storia della gastronomia: la pasta “c’a

pummarola ‘ncoppa”? Se se ne conoscesse il

nome sarebbe poca cosa dedicargli un monu-

mento nella piazza principale di ogni città

d’Italia, se i turisti andassero religiosamente a

visitarne la casa natale, se poeti e musicisti gli

dedicassero poemi e sinfonie.

Ad ogni modo qualcuno, un luminoso giorno

lo fece questo abbinamento, e - anche se il

suo nome è rimasto sconosciuto - si sarà cer-

to assicurato un posto in Paradiso tra i Santi

che più gioia hanno dato alla povera umanità.

Con l’aggiunta del pomodoro, la pasta - che

per secoli era stata cotta nel brodo di carne o

nel latte, condita con zucchero, formaggio,

burro e addirittura cannella e altre spezie -, si

illuminò, prese vita e colore, come la natura

quando da uno squarcio di nuvole è illuminata

dal sole.

Prima della scoperta dell’America, l’uomo non

lo sapeva, ma viveva in un Purgatorio culinario

(niente gnocchi di patate, niente gatò, niente

parmigiana di melanzane, niente spaghetti alla

norma, alla sangiuaniello, al ragù, alla caprese,

alla pizzaiola, alla bolognese…): ma era vita,

quella?

Oggi, grazie a Dio, quel cupo medioevo ga-

stronomico è finito e siamo in pieno Rinasci-

mento, anche se occorre fare molta attenzione

per difendere questo cibo arrivato a noi attra-

verso un’evoluzione durata settemila anni.

Un argomento molto importante quando si

parla di pasta riguarda il vino: quale vino bere

gustando un piatto di pasta? Lo scrittore Al-

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berto Denti di Pirajno scriveva: … “dopo aver

mangiato la pasta c’a pummarola ‘ncoppa non

dovete profanarla bevendo vino: sulla pasta al

pomodoro non si beve che acqua pura”.

Con tutto il rispetto, mi sembra demenziale.

Ma come: Dio ha dato all’umanità questi tre

grandi doni: pasta, pomodoro e vino che - co-

me abbiamo visto - hanno impiegato migliaia

di anni per giungere al felice appuntamento di

trovarsi insieme su una tavola apparecchiata e

tu vuoi che io mi privi di uno di questi? Quale

peccato vuol farci scontare il buon Alberto

Denti con questa rinuncia? Il vino è necessa-

rio, è importante, è indispensabile su ogni ci-

bo, si tratta soltanto di scegliere quello adatto

a ciascuno di essi.

Ritengo che l’”homo” sia finalmente diventato

“sapiens” solo dopo aver imparato ad abbina-

re cibo e vino. Quale vino dunque con la pa-

sta? C’è una regola molto semplice teorizzata

anni fa da Luigi Veronelli: “la scelta del vino è

condizionata dalla salsa; la pasta asciutta è im-

mangiabile con

la sola cottura;

per farla esplo-

dere occorre l’ac-

compagnamento di

una salsa, anche la più

semplice, un pomodoretto

pressato, aglio e olio…”.

Logico che siano le salse a guidare la

scelta dei vini. Se sono a base di verdure: vini

bianchi o rosati, lievi e passanti; se a base di

pesce: vini bianchi equilibrati e secchi; se a

base di carni: vino rossi asciutti e robusti. “At-

tenzione - continua Veronelli - i vini siano più

leggeri e più giovani o più freschi di quelli che

avreste scelto per gli stessi intingoli di verdure,

pesci, carni, cacciagione, se li avreste serviti

per sé soli e non come condimento. Le ragioni

sono chiare: l’intingolo diluito a consistenza di

salsa, ha minor pienezza; il sapore è ancora at-

tenuato da gusto neutro della pasta”. Si pote-

va dire meglio?

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COME SI CUOCE LA PASTA

E’ incredibile, ma c’è ancora gente che non sa cuocere la pasta. Non diciamo all’estero ma,

qualche volta, nemmeno in Italia. Date un’occhiata a questo box per ricordare le regole fonda-

mentali (e chiediamo scusa a coloro che riterranno eccessivi o scontati questi consigli):

• l’acqua deve essere abbondante: ogni cento grammi di pasta un litro d’acqua, in modo da

non correre il rischio di farla agglomerare e di

darle un sapore colloso;

• salare l’acqua al momento in cui viene messa

sul fuoco, in ragione di circa 10 grammi per litro

(un po’ meno se il sugo con il quale verrà con-

dita sarà particolarmente sapido);

• prima di “calare” la pasta, aspettare che l’ac-

qua sia ben bollente, così non si abbasserà

troppo la temperatura e non si interromperà di

troppo l’ebollizione. E’ bene anche avere una

piccola riserva di fuoco, così quando si butta la

pasta si alza la fiamma al massimo e l’acqua ricomincia a bollire;

• non calare la pasta in un sol colpo ma a poco a poco, assicurandosi che si sparpagli ben

bene affinché non si incolli. Se si tratta di spaghetti, vanno messi nella pentola a ventaglio, in

modo che ognuno sia investito dall’acqua bollente in ogni parte;

• quando l’ebollizione sarà tornata al punto giusto, abbassare la fiamma e continuare la cottu-

ra mescolando di tanto in tanto;

• la pasta va puntualmente cotta al dente. Ogni pasta ha il suo tempo di cottura e perciò ognu-

no dovrà basarsi sulla propria esperienza. Non fidarsi di quello che c’è scritto su certe confe-

zioni; a volte certe paste, per le quali si prevedono 15 minuti per la cottura, sono pronte dopo

10 minuti;

• non lasciare mai la pasta sola mentre cuoce ma sorvegliarla e rinnovarla con un cucchiaio

(possibilmente di legno) di tanto in tanto;

• quando la cottura sarà completata, togliere la pentola dal fuoco e scolare la pasta scuoten-

do il colapasta dal basso verso l’alto per far fuoriuscire tutta l’acqua di cottura (tranne nei ca-

si in cui è bene lasciarla un po’ acquosa, come per esempio nella pasta al pesto);

• appena scolata, la pasta va adagiata su un piatto di portata (possibilmente concavo e preri-

scaldato); se la ricetta prevede il formaggio, metterlo prima della salsa perché, quando si ag-

giungerà quest’ultima, ben calda, ne completerà l’amalgama;

• qualcuno consiglia di bagnare la pasta appena scolata con un po’ d’acqua fresca che serve

a fermare la cottura, ma non tutti sono d’accordo. Qualche altro consiglia, una volta sgoccio-

lata la pasta, salsata e mescolata, di versarla in un tegame e di farla saltare qualche attimo a

fuoco forte. Fatta eccezione per pochissime ricette tradizionali, i puristi non sono d’accordo

perché le paste non amano cotture a contatto diretto con i grassi.

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rab

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LA PASTA IN POESIA

Una tenera e divertente poesia dedicata alla pasta scritta da Aldo Fa-

brizi, attore romano scomparso nel 1990 all’età di 84 anni. Grande ap-

passionato di cucina, nonché lui stesso ottimo cuoco.

“Ieri dar friggidere,ch’o svotato pe’ daje na’ sbrinata, c’è sortito

un pezzo de guanciale rancichitona’ crosta de formaggio smozzicato,

na’ ciotola de strutto congelato,du’ fette de presciutto inseccolito,

un ciuffo de basilico appassito, e un pommidoro mezzo magagnato.

Voi buttavate tutto alla monezza,ma io ch’o combattuto cor bisogno

ciò fatto “er sugo della fanciullezza”.

Un sugo col sapore rancichetto che m’a portato indietro come un sogno

ar tempo bello ch’ero poveretto”.

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Benagiano:la pasta di Garibaldi

di S

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tiglio

ne

Sono un “pastasciuttaro”, autentico, irridu-

cibile, impenitente; di fronte al mio “quotidia-

no” piatto di pasta ringrazio il cielo che qual-

cuno l’abbia inventata e mi piacerebbe

conoscerne il nome per proporlo per la beati-

ficazione.

Ma chi ha inventato la pasta? Se ne attribui-

scono il merito innanzitutto i napoletani, anzi

gli abitanti di Gragnano (che per la verità si ac-

contentano - e non è merito da poco - di es-

sere considerati gli inventori della pasta al po-

modoro). Ma partecipano alla gara anche

greci, arabi, egiziani, perfino i turchi e ciascuno

con validi argomenti.

A complicare le cose ci si sono messi anche i

cinesi con l’autorevole testimonianza di Marco

Polo. Quest’ultima ipotesi è però francamente

inattendibile perché già qualche anno prima

che il viaggiatore veneziano tornasse dal Ca-

tai, l’uso dei maccheroni nella cucina italiana

era noto, e lo dimostra un documento del no-

taio Ugolino Scarpa che nel 1279, redigendo

l’inventario dei beni di un suo cliente genove-

se, ad un certo punto elenca “una barixella

plena de maccaronibus”.

Qualche decennio dopo il Boccaccio racconta

nel Decamerone del Paese di Bengodi dove

“si legano le viti con salsicce ed eravi una

montagna tutta di formaggio Parmigiano grat-

tugiato sopra la quale stavan genti che gniuna

altra cosa facevan che far maccheroni o raviu-

oli e cuocerli in brodo di capponi”.

In ogni modo questo è quello che importa: un

giorno fece il suo solenne ingresso nella storia

dell’Umanità il “maccherone” (un invenzione

pari - e forse superiore - a quella della ruota).

Anche sull’etimologia ci sono pareri contra-

stanti: chi fa derivare “maccherone” dal latino

“maccare” (schiacciare, quindi impastare); chi

dal greco “maghis” che significa “colui che im-

pasta”. Ma se è proprio obbligatorio sceglier-

ne una preferisco chi la fa derivare dal greco

“makarios”, che significa “beato”.

Quante volte, infatti, mi sono sentito beato do-

po un piatto di spaghetti al filetto di pomodo-

ro, alle vongole, alla caprese, o dopo una por-

zione di tagliolini ricoperti di tartufo bianco, o

di bucatini alla matriciana o di pasta con le

sarde…

Quando mi trovo a tu per tu con un piatto di

pasta come Alberto Sordi nel film “Un ameri-

cano a Roma”, chiedo soltanto che provenga

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da un’azienda che la produca ancora nel ri-

spetto della qualità: “trafile in soltanto che pro-

venga da un’azienda bronzo” ed una “lenta es-

sicazione”. Ne sono rimaste poche in Italia; le

leggi del mercato globale impongono altissimi

volumi di produzione a prezzi bassi e sono

perciò preferiti i procedimenti veloci, anche se

in questo modo si perdono i sapori e sostanze

preziose per la salute contenute nel grano.

Una delle aziende rimaste fedeli alla tradizione

è la Benagiano di Santeramo in Colle, a pochi

km da Bari, e sono proprio i suoi prodotti che

vogliamo sottoporre al giudizio dei Saggi De-

gustatori.

La dirigono i fratelli Giuseppe e Andrea che,

con molti sacrifici, continuano a produrre

quella che è un’eccellenza agroalimentare

pugliese con lo stesso amore, la stessa pas-

sione, la stessa cura del bisnonno “Mastro

Francesco”, che a metà Ottocento diede l’av-

vio alla stirpe dei “Benagiano Pastai”.

In molte locande d’Italia si ricorda il passaggio

di Garibaldi con una targa con su scritto: “Qui

dormì l’Eroe dei Due Mondi”; a Santeramo

hanno scritto: “Qui si fa la

pasta come quella che man-

giò e apprezzò Garibaldi” (e

gli piacque talmente tanto

che, quando fu eletto depu-

tato ad Andria ritornò spes-

so s Sant’Eramo per gustar-

la ancora).

I Benagiano sono, con i figli

Nicola e Vito, arrivati alla

quinta generazione di pa-

stai, ma i metodi di produ-

zione sono sempre gli stes-

si. Si incomincia dalla

accurata ricerca del grano e

del farro (oltre alle paste tra-

dizionali producono, infatti,

anche pasta di farro e inte-

grale). Il mulino che li trasforma in farina lo

hanno trovato ad Altamura in un’altra azienda

dove vige il più rigoroso rispetto della tradizio-

ne: i cilindri di macina si muovono molto lenta-

mente, ad una velocità che è la metà di quella

della produzione industriale per non bruciare

sostanze importantissime. In fabbrica, poi, an-

che l’impasto è lentissimo e avviene con

un’impastatrice a cielo aperto, con l’acqua

che cade dall’alto goccia a goccia, mentre - se

avvenisse alla velocità standard - dovrebbe

essere sigillata ermeticamente per evitare che

l’effetto centrifuga, dovuto alla velocità delle

pale, faccia schizzare fuori l’impasto.

Le trafile che danno forma ai vari tipi di pasta

devono essere esclusivamente di bronzo; il

bronzo, non levigabile oltre un certo limite, tra-

smette la sua ruvidità alla pasta e ciò svolge

un ruolo fondamentale durante l’essicazione

perché consente che avvengano alcuni feno-

meni chimici e biologici che caratterizzano il

sapore e gli altri fattori di qualità della pasta;

per favorire questo processo l’impasto, dopo

essere stato trafilato in bronzo, deve essere

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essic-

cato -

a n c h e

se non

più al sole

come avveni-

va una volta - in

tempi lunghissimi e

ad una temperatura che non

superi i 45-50°.

Ancora a fine Ottocento la pasta veniva porta-

ta in strada per farla asciugare all’aria aperta e

occorrevano intere giornate per completare il

processo; oggi la pasta della grande industria

viene essiccata in poche ore ad alte tempera-

ture che eliminano definitivamente le preziose

sostanze nutritive.

I prodotti dei Benagiano vengono messi in cel-

le con grandi ventole a ricambio naturale di

aria alla temperatura massima di 45°, per cui

occorrono 24 ore per essiccare la pasta corta

e quasi due giorni per quella lunga.

I tempi di lavorazione vengono così notevol-

mente allungati, ma il risultato - importante per

la nostra salute - è che la ricchezza delle so-

stanze contenute nel grano arriva intatta al no-

stro organismo per arricchirlo e proteggerlo.

Fra i molti riconoscimenti e attestazioni otte-

nuti dalla loro pasta, premiata dal “Tuttofood”

di Milano e dal Gambero Rosso come la “mi-

glior pasta di farro”, quello che preferiscono i

Benagiano è stato conferito dal Centro di Ri-

cerca De Bellis che, dopo test durati mesi e

mesi su 556 volontari scelti fra 1042 soggetti

affetti da sindrome metabolica, ha decretato

che la pasta di Garibaldi, oltre che essere buo-

na, fa anche bene alla salute.

L’azienda Benagiano produce 35 tipi di pasta,

oltre alla pasta al farro e a quella di semola in-

tegrale, ideale per i diabetici; chiedo al Cava-

lier Giuseppe qual’è il tipo che preferisce e il

modo migliore di cucinarla. Non ha esitazioni:

“spaghetti al pomodoro”, quello che i napole-

tani chiamano “c’a pummarola ‘ncoppa”. Ci

sono centinaia di modi per cucinare la pasta

(Vincenzo Buonassisi nel suo “Codice della

Pasta” ne ha individuato e catalogato ben

1347, elencandoli in ordine alfabetico dagli

“agnoli in sorbir” alla “zuppa di grano”). Ma il

Cav. Giuseppe la sua pasta la preferisce nella

maniera più tradizionale.

E quale vino abbinargli? Lo chiedo ancora al

Cavaliere, ricordandogli che qualcuno sostie-

ne che: … “dopo aver mangiato la pasta al po-

modoro si beve solo acqua pura; non si deve

profanarla bevendo vino”.

Il Cavalier Giuseppe non è assolutamente

d’accordo: “Perché questa rinuncia? Il vino è

importante, è indispensabile su ogni piatto di

pasta, si tratta soltanto di scegliere quello

adatto. Con la “mia” pasta al pomodoro io be-

vo un buon bicchiere di vino bianco delle Mur-

ge”. Ecco dunque tutti gli ingredienti per rea-

lizzare uno dei più grandi piatti della storia

della gastronomia: pasta, olio, pomodori, sale,

vino. Semplice, no?

Ma attenzione: l’olio deve essere quello sapi-

do e intenso che solo la Puglia sa dare; il sale

quello marino realizzato nelle saline lunari di

Margherita di Savoia; i pomodori quelli che i

contadini di Santeramo coltivano fra terra e

cielo, senza niente altro che aria e sole; il vino

quello ottenuto nelle Murge dalle uve di vigne

“ad alberello”, sempre più rare. E la pasta?

Naturalmente quella di Giuseppe Garibaldi.

se non

più al sole

come avveni-

va una volta - in

tempi lunghissimi e

ad una temperatura che non

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Le ricette con la pasta

Ricett

e

FOJADE GIALLE CON PI-SELLI E MENTAIngredienti per 4 persone:

500 gr di farina di semola; 400 gr di pi-

selli novelli freschi; 200 gr di Parmigia-

no; 4 rametti di menta; 80 gr di burro.

Preparazione:

preparare la sfoglia per le tagliatelle

amalgamando le uova con la farina.

Cuocere i piselli in abbondante acqua

salata per circa 6-7 minuti, scolarli e

passarli in padella col burro. Cuocere la

pasta, scolarla e condirla con i piselli, il

Parmigiano e le foglie di menta sbricio-

late.

MALTAGLIATI CON I FAGIOLIIngredienti per 4 persone:

400 gr di farina di semola; 400 gr di fagioli freschi; 4 uova; 4 litri di brodo di gallina; 300 gr di patate;

100 gr di Parmigiano; 2 pomodori; 1 grossa cipolla; 2 spicchi d’aglio; basilico e alloro; 50 gr di burro;

sale e pepe q.b.

Preparazione:

impastare la farina con le uova e ta-

gliare la sfoglia così ottenuta dopo

averla arrotolata in pezzetti (maltaglia-

ti). Lasciare appassire la cipolla all’in-

terno di una pentola capiente con il

burro. Aggiungere i fagioli, le patate, i

pomodori, l’aglio, l’alloro, il basilico.

Salare e pepare.

Coprire il tutto col brodo di gallina e

far cuocere per circa un’ora abbon-

dante. Cuocere i maltagliati per qual-

che minuto, unire il Parmigiano e ser-

vire col sugo di verdure ben caldo.

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TAGLIATELLE GIALLE CON SALSICCIA FRESCA E ACETO BALSAMICO DI MODENAIngredienti per 4 persone:

300 gr di farina di semola; 600 gr di salsic-

cia cruda; 2 uova; 20 gr di burro; aceto di

Modena; Parmigiano; sale q.b.

Preparazione:

disporre la farina a fontana, sgusciarvi al

centro le uova, impastare e preparare le

tagliatelle. Cuocere la pasta e nel frattem-

po sbriciolare le salsicce e farle rosolare in

una padella col burro. Condire le tagliatel-

le con la salsiccia, mezzo bicchiere d’acqua di bollitura, abbondante Parmigiano e qualche goccia di

aceto Balsamico.

TORTELLI DI ZUCCA IN CREMA DI ZUCCA E MANDORLE DI PESCAIngredienti per 4 persone:

500 gr di farina; 4 uova; 1 kg di polpa di zucca gialla; 100 gr di amaretti; 150 gr di mostarda di mele;

50 gr di mandorle di pesca; 300 gr di Parmigiano; 1 limone; 100 gr di burro; ½ bicchiere di vino cotto;

noce moscata; sale q.b.

Preparazione:

cuocere la zucca, scolarla e

passarla al setaccio. Tritare gli

amaretti, unire le mandorle e

la mostarda. Aggiungere la

zucca, il Parmigiano, la buccia

del limone grattugiata e amal-

gamare bene il tutto fino ad

ottenere un composto omo-

geneo.

Preparare la sfoglia per i tor-

telli con le uova e la farina. Ta-

gliarla in quadrati di circa 8

cm di lato e riporre al centro di

ognuno una noce di ripieno.

Richiuderli e cuocerli in ab-

bondante acqua salata per

circa 3-5 minuti. Condirli con burro fuso e una crema di zucca preparata con un po’ di pesto tenuto

da parte, ½ bicchiere di vino cotto e poca acqua di cottura.

© G

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i Ren

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Peccato di gola?

di C

ino

To

rto

rella

I “Peccati Capitali” quelli che senza un du-

ro e sofferto pentimento portano diritti all’In-

ferno erano inizialmente gli otto individuati

da Frate Cassiano nel 400 d.C.: Lussuria - Ira

- Invidia - Superbia - Avarizia - Accidia - Tri-

stezza e Gola. Qualche secolo dopo Tom-

maso d’Aquino ne introdusse ufficialmente

nel Catechismo soltanto sette, eliminando la

Tristezza.

Non tutti i suoi confratelli però furono d’ac-

cordo; niente da obiettare sulla Lussuria, che

spesso degenera nell’abiezione, nella violen-

za, nella prevaricazione sui più deboli; tutti

d’accordo sull’Ira, che provoca guerre e de-

litti, sull’Invidia, sulla Superbia, sull’Avarizia

che uccide la solidarietà e la generosità; ci fu

qualche perplessità sull’Accidia, che è gene-

rata dalla noia, dallo scoraggiamento, dalla

solitudine, ma è difficile che provochi danni

se non a se stessi. Ma perché – si chiesero

in molti - considerare mortale il peccato di

Gola?

Che male si fa - si domandarono - a gustare

con piacere i doni che la Natura elargisce

con generosità? Perché mettere sullo stesso

piano un delitto provocato dall’Invidia o dalla

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Superbia e il godimento di un cibo mangiato

in allegria con amici e magari seguito da can-

ti e danze e invenzioni poetiche? Tutto però

fu inutile: per l’autore della Summa Teologiae

i Peccati Capitali dovevano essere sette e

sette rimasero, compresa la Gola, che - pe-

raltro - era stata condannata all’Inferno già

da Dante nel VI canto della “Divina Comme-

dia”.

Nei secoli che seguirono molti preti si dimen-

ticarono di comminare recite di pateraveglo-

ria a chi confessava il peccato di aver man-

giato con avidità un cosciotto di agnello o un

piatto di agnolotti e molti Vescovi, Cardinali e

perfino Papi sono stati colti dal dubbio se la

Gola fosse da considerare un “peccato” e -

per giunta - “capitale”. Nessuno è però mai

intervenuto a correggere la decisione di Tom-

maso, forse anche per rispetto, dal momento

che era stato anche santificato.

Noi di “Gustare l’Italia” siamo giunti alla con-

clusione che 700 anni dopo la pubblicazione

della “Divina Commedia”, 600 anni dopo la

decisione di San Tommaso sia giunta l’ora di

fare qualcosa di concreto e di definitivo per

riparare a questa che - secondo noi - è un’in-

giustizia e pensiamo che, proprio come era

già accaduto per la Tristezza, sarebbe op-

portuno cancellare dai Peccati Capitali la

Gola, che nei secoli ha dato gioia, ha invitato

all’amore, alla poesia, alla bellezza.

Chiediamo a tutti coloro che condividono il

nostro pensiero a farci avere un commento

su questa nostra proposta (possono anche

comunicarcelo sul sito www.gustarelitalia.it).

P.S. Se qualcuno si è affezionato al numero

sette e ritiene che i “peccati capitali” debba-

no necessariamente essere sette, proponia-

mo di sostituire la Gola con il peccato

dell’Astinenza dal Vino e mandare all’Inferno

la triste genia degli Astemi, coloro che rifiu-

tano la divina bevanda che esalta la gioia di

vivere, dispone all’ottimismo, dà acutezza

all’ingegno, ali all’ispirazione e che certo ri-

troveremo in Paradiso, come ci assicura il

Vangelo secondo Giovanni: “… e preso il ca-

lice, reso grazie, diede loro; e ne bevvero tut-

ti. E disse loro: “questo è il sangue mio effu-

so per molti. In verità vi dico che non più

berrò del succo della vite fino a quel dì che

ne berrò di nuovo nel regno di Dio.

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