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Guido De RuggieroFilosofi del novecento

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Filosofi del novecentoAUTORE: De Ruggiero, GuidoTRADUTTORE: CURATORE: NOTE: CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: 10: Filosofi del Novecento / Guido DeRuggiero - 7. ed. - Roma ; Bari : Laterza, 1966. -VII, 352 p. ; 21 cm.Fa parte di: Storia della filosofia / Guido De Rug-giero | De Ruggiero, Guido.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 26 agosto 2020

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DIRITTI D'AUTORE: no

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TRATTO DA: 10: Filosofi del Novecento / Guido DeRuggiero - 7. ed. - Roma ; Bari : Laterza, 1966. -VII, 352 p. ; 21 cm.Fa parte di: Storia della filosofia / Guido De Rug-giero | De Ruggiero, Guido.

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INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:PHI016000 FILOSOFIA / Storia e Studi / Moderni

DIGITALIZZAZIONE:Roberto Rogai

REVISIONE:Mario Sciubba Caniglia

IMPAGINAZIONE:Roberto Rogai

PUBBLICAZIONE:Catia Righi

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Liber Liber

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Prefazione alla prima edizione...................................8IAlexander e il realismo inglese.................................11IIWithehead e la dottrina delle scienze naturali..........29IIIGli epigoni del realismo...........................................47IVGiorgio Santayana....................................................62VJohn Dewey..............................................................80VIIdealisti Inglesi (Baillie, Collingwood)..................108VIIHamelin..................................................................125VIIIEmilio Meyerson....................................................144IXL'ultimo Bergson....................................................159XLa teoria della relatività e i suoi sviluppi filosofici 188XIIl nuovo atomismo..................................................215XII

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Prefazione alla prima edizione...................................8IAlexander e il realismo inglese.................................11IIWithehead e la dottrina delle scienze naturali..........29IIIGli epigoni del realismo...........................................47IVGiorgio Santayana....................................................62VJohn Dewey..............................................................80VIIdealisti Inglesi (Baillie, Collingwood)..................108VIIHamelin..................................................................125VIIIEmilio Meyerson....................................................144IXL'ultimo Bergson....................................................159XLa teoria della relatività e i suoi sviluppi filosofici 188XIIl nuovo atomismo..................................................215XII

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Il Darwinismo e i suoi critici..................................234XIIIGuglielmo Dilthey..................................................258XIVStoricismo e pseudo-storicismonella filosofia tedesca contemporanea....................274XVHusserl e la «Fenomenologia»...............................297XVILa filosofia dell'Esistenza.......................................310APPENDICEIFREUD E LA PSICANALISI................................366IIFREUDIANA.........................................................382INDICE DEI NOMI...............................................390

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Il Darwinismo e i suoi critici..................................234XIIIGuglielmo Dilthey..................................................258XIVStoricismo e pseudo-storicismonella filosofia tedesca contemporanea....................274XVHusserl e la «Fenomenologia»...............................297XVILa filosofia dell'Esistenza.......................................310APPENDICEIFREUD E LA PSICANALISI................................366IIFREUDIANA.........................................................382INDICE DEI NOMI...............................................390

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GUIDO DE RUGGIERO

FILOSOFI DEL NOVECENTO

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FILOSOFI DEL NOVECENTO

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PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

In questo volume ho raccolto le Note sulla più recen-te filosofa europea e americana che ho pubblicato ne LaCritica nel corso degli ultimi sei anni. Con esse ho volu-to completare la rassegna delle principali manifestazionidel pensiero filosofico degli ultimi settant'anni che ècontenuta nella mia Filosofa contemporanea.Nell'avvertenza premessa alla 2a edizione di quest'ulti-mo libro, nel 1920, io mi scusavo di averlo potuto ag-giornare solo per la parte concernente l'Italia, perché ledifficoltà opposte dalla guerra a una informazione esau-riente delle più recenti pubblicazioni straniere non eranoancora completamente rimosse. Il presente volume è de-stinato a colmare quella lacuna. Trattandosi di una con-tinuazione di uno scritto precedente, esso prende lemosse dal punto in cui la narrazione era stata interrotta,cioè dal 1912; solo per riparare a qualche omissione oper indagare la genesi più remota di dottrine apparsedopo quella data, esso risale ad alcuni scritti del primodecennio del '900. Del pensiero italiano, naturalmente,non vi si parla, perché già nella 2a e nella 3a edizionedella Filosofia contemporanea era stata dedicata a que-

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PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

In questo volume ho raccolto le Note sulla più recen-te filosofa europea e americana che ho pubblicato ne LaCritica nel corso degli ultimi sei anni. Con esse ho volu-to completare la rassegna delle principali manifestazionidel pensiero filosofico degli ultimi settant'anni che ècontenuta nella mia Filosofa contemporanea.Nell'avvertenza premessa alla 2a edizione di quest'ulti-mo libro, nel 1920, io mi scusavo di averlo potuto ag-giornare solo per la parte concernente l'Italia, perché ledifficoltà opposte dalla guerra a una informazione esau-riente delle più recenti pubblicazioni straniere non eranoancora completamente rimosse. Il presente volume è de-stinato a colmare quella lacuna. Trattandosi di una con-tinuazione di uno scritto precedente, esso prende lemosse dal punto in cui la narrazione era stata interrotta,cioè dal 1912; solo per riparare a qualche omissione oper indagare la genesi più remota di dottrine apparsedopo quella data, esso risale ad alcuni scritti del primodecennio del '900. Del pensiero italiano, naturalmente,non vi si parla, perché già nella 2a e nella 3a edizionedella Filosofia contemporanea era stata dedicata a que-

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sto tema un'apposita appendice.Il lettore potrà facilmente notare che tra il libro del

1912 e la continuazione del 1933 esistono differenze no-tevoli. Il primo era congegnato in una forma più siste-matica ed aveva un accentuato tono polemico; il secon-do invece consta di saggi in qualche modo indipendentil'uno dall'altro e di carattere largamente espositivo. Ladifferenza si spiega non soltanto con la maturità deglianni, ma anche con la diversità del clima storico in cui idue libri sono nati. L'uno appartiene alla prima fase delrisorgimento idealistico, ed esprime non solo il fervore el'esuberanza, ma anche non poche delle ingenuità di sif-fatti periodi di risveglio. L'altro invece è nato in un'etàdi revisione critica dell'idealismo, ed ha il tono più mi-surato, e insieme più vigile e attento alle voci del mon-do, che meglio si appropria a un tale lavoro. Questa re-visione si vien compiendo lungo tre linee distinte, maconvergenti, che formano il piano ideale del presente li-bro: la critica realistica della dottrina della conoscenza,le nuove concezioni della scienza della natura, l'appro-fondimento dei problemi della storia. Esse corrispondo-no approssimativamente ai capitoli 1-6, 8-12, 13-15 dellibro stesso.

Qualche lettore disattento o superficiale ha potuto in-terpretare la mia partecipazione a questo lavoro di revi-sione idealistica come una sconfessione del mio passato,quasi che il compito di un idealista o di un fautore diqualunque orientamento di pensiero dovesse essere

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sto tema un'apposita appendice.Il lettore potrà facilmente notare che tra il libro del

1912 e la continuazione del 1933 esistono differenze no-tevoli. Il primo era congegnato in una forma più siste-matica ed aveva un accentuato tono polemico; il secon-do invece consta di saggi in qualche modo indipendentil'uno dall'altro e di carattere largamente espositivo. Ladifferenza si spiega non soltanto con la maturità deglianni, ma anche con la diversità del clima storico in cui idue libri sono nati. L'uno appartiene alla prima fase delrisorgimento idealistico, ed esprime non solo il fervore el'esuberanza, ma anche non poche delle ingenuità di sif-fatti periodi di risveglio. L'altro invece è nato in un'etàdi revisione critica dell'idealismo, ed ha il tono più mi-surato, e insieme più vigile e attento alle voci del mon-do, che meglio si appropria a un tale lavoro. Questa re-visione si vien compiendo lungo tre linee distinte, maconvergenti, che formano il piano ideale del presente li-bro: la critica realistica della dottrina della conoscenza,le nuove concezioni della scienza della natura, l'appro-fondimento dei problemi della storia. Esse corrispondo-no approssimativamente ai capitoli 1-6, 8-12, 13-15 dellibro stesso.

Qualche lettore disattento o superficiale ha potuto in-terpretare la mia partecipazione a questo lavoro di revi-sione idealistica come una sconfessione del mio passato,quasi che il compito di un idealista o di un fautore diqualunque orientamento di pensiero dovesse essere

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quello di cristallizzarsi nelle posizioni già conseguite enon piuttosto di temprare il proprio pensiero al fuoco diesperienze sempre nuove di vita e di dottrina. Ma al let-tore di mente aperta e ben disposta può sembrare quasisuperfluo che io riaffermi qui ancora una volta non solola mia fede idealistica, ma anche l'intimo convincimentoche la permanenza di questa fede nel mio animo è pro-prio quella che mi suggerisce le critiche verso taluni at-teggiamenti di pensiero che, pur rientrando nella nozio-ne scolastica dell'idealismo, contraddicono a una conce-zione veracemente, e non formalmente, idealistica dellavita.

Ho posto in appendice i due articoli sul Freud che sonfuori del contesto della mia narrazione e del discorso fi-losofico in genere. Parafrasando il titolo di uno scrittofamoso del giurista Jhering, avrei potuto intitolarli:Scherz und Ernst in der Philosophie.Settembre 1933.

G. d. R.

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quello di cristallizzarsi nelle posizioni già conseguite enon piuttosto di temprare il proprio pensiero al fuoco diesperienze sempre nuove di vita e di dottrina. Ma al let-tore di mente aperta e ben disposta può sembrare quasisuperfluo che io riaffermi qui ancora una volta non solola mia fede idealistica, ma anche l'intimo convincimentoche la permanenza di questa fede nel mio animo è pro-prio quella che mi suggerisce le critiche verso taluni at-teggiamenti di pensiero che, pur rientrando nella nozio-ne scolastica dell'idealismo, contraddicono a una conce-zione veracemente, e non formalmente, idealistica dellavita.

Ho posto in appendice i due articoli sul Freud che sonfuori del contesto della mia narrazione e del discorso fi-losofico in genere. Parafrasando il titolo di uno scrittofamoso del giurista Jhering, avrei potuto intitolarli:Scherz und Ernst in der Philosophie.Settembre 1933.

G. d. R.

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I

ALEXANDER E IL REALISMO INGLESE

Più di trent'anni fa, in un libro su la La filosofia con-temporanea1, io cercai di tracciare un quadro delle prin-cipali correnti filosofiche che si eran venute delineandonel pensiero europeo durante la seconda metà del secoloscorso e il primo decennio del nostro. Poiché in questofrattempo la carta topografica dell'Europa intellettuale siè sensibilmente mutata, io mi propongo ora di aggiorna-re il mio quadro con una rassegna della produzione filo-sofica più recente. Ma, a differenza dal precedente lavo-ro, cercherò questa volta di trascurare quelle manifesta-zioni mentali che rientrano soltanto nei quadri profes-sionali e accademici della filosofia, volendomi curare,piuttosto che della compiutezza del disegno, dell'effetti-vo interesse di qualche particolare.

La filosofia inglese è quella che, dal 1912 ad oggi,presenta un più radicale mutamento di fisonomia. Allo-ra, l'indirizzo dominante era l'idealismo che, da Colerid-

1 Edito dal Laterza (1912), ristampato nel 1920 con un'appendice sulla piùrecente filosofia italiana, e poi, più volte, immutato.

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ALEXANDER E IL REALISMO INGLESE

Più di trent'anni fa, in un libro su la La filosofia con-temporanea1, io cercai di tracciare un quadro delle prin-cipali correnti filosofiche che si eran venute delineandonel pensiero europeo durante la seconda metà del secoloscorso e il primo decennio del nostro. Poiché in questofrattempo la carta topografica dell'Europa intellettuale siè sensibilmente mutata, io mi propongo ora di aggiorna-re il mio quadro con una rassegna della produzione filo-sofica più recente. Ma, a differenza dal precedente lavo-ro, cercherò questa volta di trascurare quelle manifesta-zioni mentali che rientrano soltanto nei quadri profes-sionali e accademici della filosofia, volendomi curare,piuttosto che della compiutezza del disegno, dell'effetti-vo interesse di qualche particolare.

La filosofia inglese è quella che, dal 1912 ad oggi,presenta un più radicale mutamento di fisonomia. Allo-ra, l'indirizzo dominante era l'idealismo che, da Colerid-

1 Edito dal Laterza (1912), ristampato nel 1920 con un'appendice sulla piùrecente filosofia italiana, e poi, più volte, immutato.

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ge a Carlyle, a Stirling, a Green, a McTaggart, a Caird, aBradley, aveva formato, attraverso tutto il secolo XIX,una solida e ininterrotta tradizione. Pur avendo le sueorigini nel romanticismo tedesco, esso era riuscito adacclimatarsi in Inghilterra ed a trarre dal proprio fondoaccenti propri ed originali. E, come tutto ciò che ha unasua ragione essenziale di vita, esso aveva esercitato in-flussi durevoli anche sulle altre manifestazioni dell'atti-vità spirituale: aveva permeato l'arte, la religione, la sto-ria, e s'era anche imposto alla considerazione degl'indi-rizzi mentali antagonistici: basti qui ricordare chel'empirista John Stuart Mill, in un momento decisivo delsuo sviluppo mentale, aveva sentito il bisogno di rinfre-scare, a quella fonte, l'arido benthamismo istillatoglidall'educazione paterna.

Che cosa resta oggi di quell'idealismo? I suoi piùgrandi corifei sono morti e non si osservano quasi piùtracce del loro insegnamento. L'ultimo di essi, il Brad-ley, che aveva portato fin quasi all'esasperazione scetticai più sottili motivi dell'idealismo, è ancora ricordato ecitato, ma non come un contemporaneo, bensì come unclassico, di cui si studiano le dottrine quasi per dovered'informazione professionale. Son passati i tempi in cuiil James, studiando filosofia inglese, si tormentava percreare al suo empirismo una via di uscita dalle criticheidealistiche. «Anni fa – com'egli stesso ricordava piùtardi – quando le idee di Green avevano grande influen-za, io fui molto turbato dalla sua critica del sensismo in-

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ge a Carlyle, a Stirling, a Green, a McTaggart, a Caird, aBradley, aveva formato, attraverso tutto il secolo XIX,una solida e ininterrotta tradizione. Pur avendo le sueorigini nel romanticismo tedesco, esso era riuscito adacclimatarsi in Inghilterra ed a trarre dal proprio fondoaccenti propri ed originali. E, come tutto ciò che ha unasua ragione essenziale di vita, esso aveva esercitato in-flussi durevoli anche sulle altre manifestazioni dell'atti-vità spirituale: aveva permeato l'arte, la religione, la sto-ria, e s'era anche imposto alla considerazione degl'indi-rizzi mentali antagonistici: basti qui ricordare chel'empirista John Stuart Mill, in un momento decisivo delsuo sviluppo mentale, aveva sentito il bisogno di rinfre-scare, a quella fonte, l'arido benthamismo istillatoglidall'educazione paterna.

Che cosa resta oggi di quell'idealismo? I suoi piùgrandi corifei sono morti e non si osservano quasi piùtracce del loro insegnamento. L'ultimo di essi, il Brad-ley, che aveva portato fin quasi all'esasperazione scetticai più sottili motivi dell'idealismo, è ancora ricordato ecitato, ma non come un contemporaneo, bensì come unclassico, di cui si studiano le dottrine quasi per dovered'informazione professionale. Son passati i tempi in cuiil James, studiando filosofia inglese, si tormentava percreare al suo empirismo una via di uscita dalle criticheidealistiche. «Anni fa – com'egli stesso ricordava piùtardi – quando le idee di Green avevano grande influen-za, io fui molto turbato dalla sua critica del sensismo in-

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glese. Uno dei suoi discepoli in particolare mi ripetevasempre: sì, i termini del rapporto conoscitivo possonoessere sensibili in origine; ma le relazioni che altro maisono se non atti puri dell'intelletto, che sopravvengonoalle sensazioni dall'alto? Io ben ricordo l'improvvisosenso di sollievo che provai un giorno a percepire che lerelazioni spaziali sono omogenee coi termini che essemediano»2. Di questa (presunta) via di uscita hanno poiprofittato i più recenti empiristi, senza più compiere losforzo del loro predecessore, ignari cioè quasi tutti(tranne forse l'Alexander) delle quistioni stesse postedall'idealismo.

Della vivace schiera neo-hegeliana, in cui m'incontrainel mio studio del 1912, non trovo oggi più nessuno chesia tuttora «alive»: uno scrittore, allora ancor giovane, incui mi parve di vedere il possibile continuatore della tra-dizione idealistica inglese – il Baillie – [torna a p. 108]lo ritrovo oggi, alquanto decaduto, a professare chel'idealismo è stato incapace di sostenere la prova dellaguerra mondiale (?) e a vagheggiare una neutra psicolo-gia del lavoro mentale, adattabile indifferentemente atutti i sistemi filosofici3. Nondimeno, io non saprei direche l'idealismo sia tramontato in Inghilterra: se una tra-dizione si spegne, altre se ne vanno delineando, che nonhanno dato ancora tutti i loro frutti. Basta, per convin-cersene, ricordare i grandi successi che riportano oggi in

2 Cit. dall'ALEXANDER, in Space, Time, Deity, 1920, vol. I, p. 165.3 J. B. BAILLIE, Studies in human nature, 1921.

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glese. Uno dei suoi discepoli in particolare mi ripetevasempre: sì, i termini del rapporto conoscitivo possonoessere sensibili in origine; ma le relazioni che altro maisono se non atti puri dell'intelletto, che sopravvengonoalle sensazioni dall'alto? Io ben ricordo l'improvvisosenso di sollievo che provai un giorno a percepire che lerelazioni spaziali sono omogenee coi termini che essemediano»2. Di questa (presunta) via di uscita hanno poiprofittato i più recenti empiristi, senza più compiere losforzo del loro predecessore, ignari cioè quasi tutti(tranne forse l'Alexander) delle quistioni stesse postedall'idealismo.

Della vivace schiera neo-hegeliana, in cui m'incontrainel mio studio del 1912, non trovo oggi più nessuno chesia tuttora «alive»: uno scrittore, allora ancor giovane, incui mi parve di vedere il possibile continuatore della tra-dizione idealistica inglese – il Baillie – [torna a p. 108]lo ritrovo oggi, alquanto decaduto, a professare chel'idealismo è stato incapace di sostenere la prova dellaguerra mondiale (?) e a vagheggiare una neutra psicolo-gia del lavoro mentale, adattabile indifferentemente atutti i sistemi filosofici3. Nondimeno, io non saprei direche l'idealismo sia tramontato in Inghilterra: se una tra-dizione si spegne, altre se ne vanno delineando, che nonhanno dato ancora tutti i loro frutti. Basta, per convin-cersene, ricordare i grandi successi che riportano oggi in

2 Cit. dall'ALEXANDER, in Space, Time, Deity, 1920, vol. I, p. 165.3 J. B. BAILLIE, Studies in human nature, 1921.

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Inghilterra le dottrine del Bergson e del Croce. Ed ancheora, come già al tempo in cui fu trapiantato l'idealismoclassico in Inghilterra, si comincia ad osservare un gra-duale processo di acclimatamento, da cui vengon fuoriorganismi nuovi, con una fisonomia propria ed origina-le. Così nel Collingwood, la cui personalità mentale si èandata formando sotto l'influsso dell'idealismo italiano,ci è dato già di riconoscere una tempra di pensatore in-glese, che ha rivissuto con esperienze proprie e nellapropria tradizione intellettuale i motivi attinti fuori diesse4.

Di questo scrittore parleremo in seguito. Ora, se vo-gliamo a prima vista cogliere i tratti dominanti del pen-siero inglese contemporaneo, dobbiamo volgere losguardo ad un altro gruppo di pensatori, che formano lascuola del così detto realismo. Forse il nome di scuola,nel senso stretto della parola, è inadatto a caratterizzare irapporti tra gli scrittori ai quali mi riferisco, tutti appar-tenenti a una stessa generazione, il cui consenso intornoa un certo nucleo di dottrine s'è venuto determinandoper effetto di reciproche interdipendenze, piuttosto chedi dipendenze da scolaro a maestro; pure, se la parolascuola viene usata in senso più ampio, guardando al fat-to dell'accordo invece che alla genesi di esso, il realismoinglese offre l'esempio più specchiato e raro di unascuola filosofica, dove i vari membri collaborano frater-

4 R. G. COLLINGWOOD, Religion and philosophy, 1916; Speculum mentis orthe map of knowledge, 1924; Outlines of a philosophy of art, 1925.

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Inghilterra le dottrine del Bergson e del Croce. Ed ancheora, come già al tempo in cui fu trapiantato l'idealismoclassico in Inghilterra, si comincia ad osservare un gra-duale processo di acclimatamento, da cui vengon fuoriorganismi nuovi, con una fisonomia propria ed origina-le. Così nel Collingwood, la cui personalità mentale si èandata formando sotto l'influsso dell'idealismo italiano,ci è dato già di riconoscere una tempra di pensatore in-glese, che ha rivissuto con esperienze proprie e nellapropria tradizione intellettuale i motivi attinti fuori diesse4.

Di questo scrittore parleremo in seguito. Ora, se vo-gliamo a prima vista cogliere i tratti dominanti del pen-siero inglese contemporaneo, dobbiamo volgere losguardo ad un altro gruppo di pensatori, che formano lascuola del così detto realismo. Forse il nome di scuola,nel senso stretto della parola, è inadatto a caratterizzare irapporti tra gli scrittori ai quali mi riferisco, tutti appar-tenenti a una stessa generazione, il cui consenso intornoa un certo nucleo di dottrine s'è venuto determinandoper effetto di reciproche interdipendenze, piuttosto chedi dipendenze da scolaro a maestro; pure, se la parolascuola viene usata in senso più ampio, guardando al fat-to dell'accordo invece che alla genesi di esso, il realismoinglese offre l'esempio più specchiato e raro di unascuola filosofica, dove i vari membri collaborano frater-

4 R. G. COLLINGWOOD, Religion and philosophy, 1916; Speculum mentis orthe map of knowledge, 1924; Outlines of a philosophy of art, 1925.

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namente l'uno con l'altro e non solo hanno tutti la stessaaria di famiglia, ma si può dir quasi che, a conoscerneuno, si conoscon tutti gli altri. Certamente, anche inquesta famiglia vi sono naturali gerarchie. Nel gruppodei realisti contemporanei, emergono due figure moltopiù riccamente dotate delle altre: l'Alexander e il White-head. Il primo è un ingegno lucido e organico, che hasaputo fondere insieme, in un ben contesto sistema, ivari motivi realistici già largamente diffusi nell'ambien-te intellettuale inglese: la sua opera5 arieggia nella pro-pria struttura, e anche più nelle ambizioni, la Criticakantiana. Il Whitehead6 è un matematico dotato distraordinario ingegno filosofico, che va svolgendo gra-dualmente una dottrina della scienza e della natura, ric-ca di geniali intuizioni. A notevole distanza da questidue pensatori, v'è poi una costellazione di figure minori:lo Stout, il cui manuale di psicologia ha introdotto ilrealismo in tutte le scuole7; il Moore8 e il Broad9 che conle loro casistiche rinnovano i fasti dello scotismo; ilKemp Smith10, che tenta un compromesso tra idealismo5 G. ALEXANDER, Space, Time, and Deity (The Gifford lectures at Glasgow,

1916-1918), 2 volls., Macmillan, 1920.6 A. N. WHITEHEAD, An enquiry concerning the principles of natural

knowledge, 1919 (19252); The concept of nature, 1920 (19262); Theprinciple of relativity with applications to physical science, 1923; Scienceand the modern world, 1926 (19272); Process and reality, 1929.

7 STOUT, Manual of Psychology, 19133.8 G. E. MOORE, Philosophical studies, 1922.9 C. D. BROAD, Scientific thought, 1923; The mind and its place in nature,

1925.10 NORMAN KEMP SMITH, Prolegomena to an idealistic theory of knowledge,

1924.

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namente l'uno con l'altro e non solo hanno tutti la stessaaria di famiglia, ma si può dir quasi che, a conoscerneuno, si conoscon tutti gli altri. Certamente, anche inquesta famiglia vi sono naturali gerarchie. Nel gruppodei realisti contemporanei, emergono due figure moltopiù riccamente dotate delle altre: l'Alexander e il White-head. Il primo è un ingegno lucido e organico, che hasaputo fondere insieme, in un ben contesto sistema, ivari motivi realistici già largamente diffusi nell'ambien-te intellettuale inglese: la sua opera5 arieggia nella pro-pria struttura, e anche più nelle ambizioni, la Criticakantiana. Il Whitehead6 è un matematico dotato distraordinario ingegno filosofico, che va svolgendo gra-dualmente una dottrina della scienza e della natura, ric-ca di geniali intuizioni. A notevole distanza da questidue pensatori, v'è poi una costellazione di figure minori:lo Stout, il cui manuale di psicologia ha introdotto ilrealismo in tutte le scuole7; il Moore8 e il Broad9 che conle loro casistiche rinnovano i fasti dello scotismo; ilKemp Smith10, che tenta un compromesso tra idealismo5 G. ALEXANDER, Space, Time, and Deity (The Gifford lectures at Glasgow,

1916-1918), 2 volls., Macmillan, 1920.6 A. N. WHITEHEAD, An enquiry concerning the principles of natural

knowledge, 1919 (19252); The concept of nature, 1920 (19262); Theprinciple of relativity with applications to physical science, 1923; Scienceand the modern world, 1926 (19272); Process and reality, 1929.

7 STOUT, Manual of Psychology, 19133.8 G. E. MOORE, Philosophical studies, 1922.9 C. D. BROAD, Scientific thought, 1923; The mind and its place in nature,

1925.10 NORMAN KEMP SMITH, Prolegomena to an idealistic theory of knowledge,

1924.

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e realismo; il Russell11, ingegno brillante ma dilettante-sco, che, sempre a caccia di novità, si fa importatoredelle dottrine del neo-realismo americano12 e del beha-viurismo13.

Prima di venire a uno studio particolareggiato dellesingole concezioni, sarà opportuno caratterizzare lamentalità «realistica» nel complesso. Col tradizionaleempirismo inglese, come s'è svolto dal Locke e dalloHume fino allo Stuart Mill, il realismo ha in comune ilprocedimento metodologico, tendente a risolvere le for-mazioni più complesse della realtà nei loro dati elemen-tari ed a negare – in contrasto con l'idealismo – ogni ca-pacità creativa ed ogni autonomia al pensiero. Ma, men-tre l'empirismo si arrestava nelle sue analisi a un datosoggettivo, la sensazione, accordando così una certapreminenza ai fatti spirituali su quelli naturali e preclu-dendosi la via ad una metafisica della natura, il reali-smo, invece, pretende dare una visione totale e oggettivadella realtà, come suggerisce l'accentuazione della «res»nella sua stessa denominazione. Perciò esso è portato, inantitesi con l'empirismo, a ridurre l'importanza del fattoconoscitivo a profitto del contenuto della conoscenza; e,per attuare il suo compito, esso spinge la sua analisi finoad incontrare alcuni dati primordiali in cui si risolvonoegualmente i fatti fisici e i fatti psicologici. Ma un tale

11 B. RUSSELL, The analysis of Mind (L'Analyse de l'esprit, 1926).12 Rappr. da R. B. Perry, E. B. Holt, dall'Harward ecc.13 Per il behaviurismo v. J. B. WATSON, Behavior: an introduction to compa-

rative psychology, New York, 1914.

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e realismo; il Russell11, ingegno brillante ma dilettante-sco, che, sempre a caccia di novità, si fa importatoredelle dottrine del neo-realismo americano12 e del beha-viurismo13.

Prima di venire a uno studio particolareggiato dellesingole concezioni, sarà opportuno caratterizzare lamentalità «realistica» nel complesso. Col tradizionaleempirismo inglese, come s'è svolto dal Locke e dalloHume fino allo Stuart Mill, il realismo ha in comune ilprocedimento metodologico, tendente a risolvere le for-mazioni più complesse della realtà nei loro dati elemen-tari ed a negare – in contrasto con l'idealismo – ogni ca-pacità creativa ed ogni autonomia al pensiero. Ma, men-tre l'empirismo si arrestava nelle sue analisi a un datosoggettivo, la sensazione, accordando così una certapreminenza ai fatti spirituali su quelli naturali e preclu-dendosi la via ad una metafisica della natura, il reali-smo, invece, pretende dare una visione totale e oggettivadella realtà, come suggerisce l'accentuazione della «res»nella sua stessa denominazione. Perciò esso è portato, inantitesi con l'empirismo, a ridurre l'importanza del fattoconoscitivo a profitto del contenuto della conoscenza; e,per attuare il suo compito, esso spinge la sua analisi finoad incontrare alcuni dati primordiali in cui si risolvonoegualmente i fatti fisici e i fatti psicologici. Ma un tale

11 B. RUSSELL, The analysis of Mind (L'Analyse de l'esprit, 1926).12 Rappr. da R. B. Perry, E. B. Holt, dall'Harward ecc.13 Per il behaviurismo v. J. B. WATSON, Behavior: an introduction to compa-

rative psychology, New York, 1914.

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assunto non conduce difilato al materialismo? Noi infat-ti sappiamo che ogni qualvolta l'empirismo non si è con-tentato di starsene alla superficie dei fenomeni, ma havoluto dar fondo alla realtà, ha rivelato sempre un sot-tinteso materialistico. Tuttavia gli odierni realisti rifug-gono energicamente dal materialismo; questo è, a loroavviso, una dottrina statica, che annulla ogni movimentonella natura ed è perciò incapace di dar conto delle for-mazioni qualitativamente più alte che offre la realtà;esso inoltre rivela, nella sua genesi interiore, una com-plessità di struttura, che non può competere a ciò ch'èveramente elementare e primordiale. Nella confutazionedel materialismo i realisti si fanno forti del loro accordocon la scienza naturale dei nostri giorni, anch'essa, aloro giudizio, tendente a smaterializzare gli elementi delmondo fisico; ed anzi alla più recente concezione natu-ralistica, alla così detta teoria della relatività, attingonol'intuizione fondamentale della propria dottrina, quelladello spazio-tempo. Mentre il materialismo dissocia glielementi spaziali delle cose da quelli temporali e si fog-gia un mondo puramente esteso, fuori del tempo, dovecioè le stesse successioni si annullano risolvendosi nellecoesistenze, il realismo invece vuole che il fattore tem-po formi parte integrante del sistema cosmico, cioè cheogni elemento spaziale e lo spazio stesso nella sua tota-lità siano considerati nel loro divenire temporale, per cuisi determina l'ordine irriversibile del loro concatena-mento. Quindi per esso l'elemento primordiale dellecose non è più l'atomo, punto dello spazio sospeso in

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assunto non conduce difilato al materialismo? Noi infat-ti sappiamo che ogni qualvolta l'empirismo non si è con-tentato di starsene alla superficie dei fenomeni, ma havoluto dar fondo alla realtà, ha rivelato sempre un sot-tinteso materialistico. Tuttavia gli odierni realisti rifug-gono energicamente dal materialismo; questo è, a loroavviso, una dottrina statica, che annulla ogni movimentonella natura ed è perciò incapace di dar conto delle for-mazioni qualitativamente più alte che offre la realtà;esso inoltre rivela, nella sua genesi interiore, una com-plessità di struttura, che non può competere a ciò ch'èveramente elementare e primordiale. Nella confutazionedel materialismo i realisti si fanno forti del loro accordocon la scienza naturale dei nostri giorni, anch'essa, aloro giudizio, tendente a smaterializzare gli elementi delmondo fisico; ed anzi alla più recente concezione natu-ralistica, alla così detta teoria della relatività, attingonol'intuizione fondamentale della propria dottrina, quelladello spazio-tempo. Mentre il materialismo dissocia glielementi spaziali delle cose da quelli temporali e si fog-gia un mondo puramente esteso, fuori del tempo, dovecioè le stesse successioni si annullano risolvendosi nellecoesistenze, il realismo invece vuole che il fattore tem-po formi parte integrante del sistema cosmico, cioè cheogni elemento spaziale e lo spazio stesso nella sua tota-lità siano considerati nel loro divenire temporale, per cuisi determina l'ordine irriversibile del loro concatena-mento. Quindi per esso l'elemento primordiale dellecose non è più l'atomo, punto dello spazio sospeso in

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una vuota eternità, ma l'evento, cioè il punto spazialepreso nell'istante di tempo; e le formazioni naturali nonrisultano di meri aggregati atomici, ma di eventi che sifanno nel tempo, dove il tempo non è un ricettacolo in-differente, ma ha la forza di un vero legame. Il mondodel materialismo è un mondo istantaneo, senza ieri esenza domani; nel mondo dei realisti, il passato esisterealmente, come energia propulsiva, che spinge il pre-sente cosmico verso l'avvenire. Al principio di conser-vazione, proprio del materialismo, subentra quello dellosviluppo, dell'«advance in nature». Qui sono facilmentericonoscibili anche gl'influssi del bergsonismo: ed alBergson infatti i realisti attribuiscono il grande merito diaver «preso sul serio» il tempo, contro l'ancora domi-nante cartesianismo della scienza.

Il tempo-spazio forma così l'elemento primario dellecose, una specie di materia più sottile, a cui il movimen-to non è avventizio, come alla materia atomica, ma in-trinseco: esso è l'autò-kinoûn, fonte e matrice del dive-nire. Pure, con questo elemento soltanto sarebbe impos-sibile dar conto dell'effettivo cammino che prende l'evo-luzione; occorrono le dighe che incanalino il gran fiu-me, o, in termini più astratti, dei piani ideali di organiz-zazione cosmica. Questi piani sono chiamati, con remi-niscenza kantiana, categorie: ma a differenza delle cate-gorie kantiane, esse non sono forme di organizzazionementale, bensì forme costitutive della realtà stessa deglioggetti: più opportunamente, dunque, si sarebbe potuto

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una vuota eternità, ma l'evento, cioè il punto spazialepreso nell'istante di tempo; e le formazioni naturali nonrisultano di meri aggregati atomici, ma di eventi che sifanno nel tempo, dove il tempo non è un ricettacolo in-differente, ma ha la forza di un vero legame. Il mondodel materialismo è un mondo istantaneo, senza ieri esenza domani; nel mondo dei realisti, il passato esisterealmente, come energia propulsiva, che spinge il pre-sente cosmico verso l'avvenire. Al principio di conser-vazione, proprio del materialismo, subentra quello dellosviluppo, dell'«advance in nature». Qui sono facilmentericonoscibili anche gl'influssi del bergsonismo: ed alBergson infatti i realisti attribuiscono il grande merito diaver «preso sul serio» il tempo, contro l'ancora domi-nante cartesianismo della scienza.

Il tempo-spazio forma così l'elemento primario dellecose, una specie di materia più sottile, a cui il movimen-to non è avventizio, come alla materia atomica, ma in-trinseco: esso è l'autò-kinoûn, fonte e matrice del dive-nire. Pure, con questo elemento soltanto sarebbe impos-sibile dar conto dell'effettivo cammino che prende l'evo-luzione; occorrono le dighe che incanalino il gran fiu-me, o, in termini più astratti, dei piani ideali di organiz-zazione cosmica. Questi piani sono chiamati, con remi-niscenza kantiana, categorie: ma a differenza delle cate-gorie kantiane, esse non sono forme di organizzazionementale, bensì forme costitutive della realtà stessa deglioggetti: più opportunamente, dunque, si sarebbe potuto

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chiamarle idee platoniche. Per mezzo delle categorie, ildivenire spazio-temporale si concretizza e si specifica ingradi di realtà, di ordine via via più elevato e complesso,e siffattamente collegati insieme, che il più alto emergedal più basso con caratteri propri e irriducibili. È questala così detta dottrina dell'emergent evolution14, che ricor-da, sia pure in tono minore, l'évolution créatrice delBergson.

Lo stadio empiricamente più elevato del divenire co-smico è costituito dall'organizzazione dello spirito uma-no. E la caratteristica peculiare del realismo ci si rivelaqui nella preoccupazione costante di voler fare del «sog-getto» un caso particolare, per quanto importante, diun'oggettività naturale che lo sorpassa da tutti i lati. Diqui il problema della conoscenza, che nell'idealismo for-ma il cardine di tutta la filosofia, diviene soltanto un ca-pitolo di una metafisica oggettivistica, rivolta a stabilirele fondamenta dell'essere, in modo del tutto indipenden-te, dall'«esser conosciuto». Questa degradazione delsoggetto conoscente a un percipient event, cioè a un mo-mento del divenire naturale, dotato, per effetto di unaemergente evoluzione, di una qualità cosciente e menta-le che non appartiene agli stadi più bassi del processocosmico, è, come si può facilmente presentire, la partepiù debole dell'intero sistema, che indebolisce anche tut-te le altre. Si ha un bel fare del soggetto un caso partico-

14 Per questa nuova forma di evoluzionismo, si veda: LLOYD MORGAN, Emer-gent Evolution, 1927.

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chiamarle idee platoniche. Per mezzo delle categorie, ildivenire spazio-temporale si concretizza e si specifica ingradi di realtà, di ordine via via più elevato e complesso,e siffattamente collegati insieme, che il più alto emergedal più basso con caratteri propri e irriducibili. È questala così detta dottrina dell'emergent evolution14, che ricor-da, sia pure in tono minore, l'évolution créatrice delBergson.

Lo stadio empiricamente più elevato del divenire co-smico è costituito dall'organizzazione dello spirito uma-no. E la caratteristica peculiare del realismo ci si rivelaqui nella preoccupazione costante di voler fare del «sog-getto» un caso particolare, per quanto importante, diun'oggettività naturale che lo sorpassa da tutti i lati. Diqui il problema della conoscenza, che nell'idealismo for-ma il cardine di tutta la filosofia, diviene soltanto un ca-pitolo di una metafisica oggettivistica, rivolta a stabilirele fondamenta dell'essere, in modo del tutto indipenden-te, dall'«esser conosciuto». Questa degradazione delsoggetto conoscente a un percipient event, cioè a un mo-mento del divenire naturale, dotato, per effetto di unaemergente evoluzione, di una qualità cosciente e menta-le che non appartiene agli stadi più bassi del processocosmico, è, come si può facilmente presentire, la partepiù debole dell'intero sistema, che indebolisce anche tut-te le altre. Si ha un bel fare del soggetto un caso partico-

14 Per questa nuova forma di evoluzionismo, si veda: LLOYD MORGAN, Emer-gent Evolution, 1927.

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lare dell'oggettività; quest'ultima, mentre parrebbe in-nalzata, finisce col restare campata in aria, perché essastessa non s'intende se non come correlativa di un sog-getto. In fondo, il realismo non è che un materialismopiù raffinato, che però non si sottrae alle difficoltà fon-damentali di ogni materialismo: esso può spiegar tutto,tranne la conoscenza, che non è un caso particolare dellanatura, ma è adeguazione del soggetto a tutta la natura.Così, senza volerlo e quasi senza accorgersene, il reali-smo e il materialismo si trovano a un certo punto innan-zi a uno sdoppiamento del mondo, posto una volta neitermini dell'essere, una seconda nei termini del conosce-re; e sono per questa via costretti, contro il proprio as-sunto, a fare del soggetto un'entità coestensiva del mon-do degli oggetti. La modernissima dottrina del realismofinisce col riallacciarsi a un punto molto arretrato e sor-passato della nostra tradizione filosofica.

Ma sarebbe fallace voler giudicare l'interesse di unafilosofia soltanto dalle sue conclusioni. Benché il reali-smo ci appaia alle volte contemporaneo di Geulinx e diMalebranche, altre volte invece esso agita problemivivi, che pongono a noi 1'esigenza di un riesame dellenostre posizioni filosofiche. La sua dottrina dello spa-zio-tempo è, sì, viziata da un oggettivismo prekantiano,ma contiene tuttavia l'esigenza di una sintesi tra le dueforme dell'Estetica trascendentale, che può esser fecon-da per una dottrina idealistica della scienza. Inoltre,malgrado l'accentuazione oggettivistica di questa filoso-

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lare dell'oggettività; quest'ultima, mentre parrebbe in-nalzata, finisce col restare campata in aria, perché essastessa non s'intende se non come correlativa di un sog-getto. In fondo, il realismo non è che un materialismopiù raffinato, che però non si sottrae alle difficoltà fon-damentali di ogni materialismo: esso può spiegar tutto,tranne la conoscenza, che non è un caso particolare dellanatura, ma è adeguazione del soggetto a tutta la natura.Così, senza volerlo e quasi senza accorgersene, il reali-smo e il materialismo si trovano a un certo punto innan-zi a uno sdoppiamento del mondo, posto una volta neitermini dell'essere, una seconda nei termini del conosce-re; e sono per questa via costretti, contro il proprio as-sunto, a fare del soggetto un'entità coestensiva del mon-do degli oggetti. La modernissima dottrina del realismofinisce col riallacciarsi a un punto molto arretrato e sor-passato della nostra tradizione filosofica.

Ma sarebbe fallace voler giudicare l'interesse di unafilosofia soltanto dalle sue conclusioni. Benché il reali-smo ci appaia alle volte contemporaneo di Geulinx e diMalebranche, altre volte invece esso agita problemivivi, che pongono a noi 1'esigenza di un riesame dellenostre posizioni filosofiche. La sua dottrina dello spa-zio-tempo è, sì, viziata da un oggettivismo prekantiano,ma contiene tuttavia l'esigenza di una sintesi tra le dueforme dell'Estetica trascendentale, che può esser fecon-da per una dottrina idealistica della scienza. Inoltre,malgrado l'accentuazione oggettivistica di questa filoso-

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fia, la ricostruzione che essa ci dà del mondo degli og-getti si effettua – e non potrebbe essere altrimenti – intermini di esperienza mentale e spirituale: quindi la pre-senza e l'azione della soggettività nel mondo, che daKant in poi forma il centro del più profondo interessespeculativo, vi trova delle conferme tanto più luminosee nuove quanto più impensate e non volute. Perciò lostudio del realismo può riuscire, anche per un idealista,molto istruttivo e vivificante.

La breve esposizione precedente contiene già iniscorcio le linee essenziali della concezione svolta dalloAlexander nella sua ponderosa opera che ha per titolo:Spazio, Tempo, Divinità. Qui noi troviamo una metodicaed elaborata distribuzione gerarchica delle forme e deimomenti del divenire cosmico. Alla base della realtà,come materia di tutto ciò che diviene, v'è il tempo-spa-zio: un continuum quadridimensionale, secondo la ter-minologia messa in voga dai relativisti. Ma, a differenzada costoro che, procedendo per semplificazioni naturali-stiche e non per intellezioni filosofiche, tendono a ridur-re il tempo allo spazio, e così ad annullare il divenire,l'Alexander interpreta con reminiscenza bergsoniana lafunzione del tempo come di un principio interno di or-ganizzazione e di sviluppo della trama spaziale. Lo spa-zio, egli dice, si fa nel tempo; e con un'espressione an-che più energica afferma altrove che il tempo è la menteo l'anima dello spazio15, e lo spazio è il corpo del tempo:

15 ALEXANDER, Space, Time, ecc., II, 39.

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fia, la ricostruzione che essa ci dà del mondo degli og-getti si effettua – e non potrebbe essere altrimenti – intermini di esperienza mentale e spirituale: quindi la pre-senza e l'azione della soggettività nel mondo, che daKant in poi forma il centro del più profondo interessespeculativo, vi trova delle conferme tanto più luminosee nuove quanto più impensate e non volute. Perciò lostudio del realismo può riuscire, anche per un idealista,molto istruttivo e vivificante.

La breve esposizione precedente contiene già iniscorcio le linee essenziali della concezione svolta dalloAlexander nella sua ponderosa opera che ha per titolo:Spazio, Tempo, Divinità. Qui noi troviamo una metodicaed elaborata distribuzione gerarchica delle forme e deimomenti del divenire cosmico. Alla base della realtà,come materia di tutto ciò che diviene, v'è il tempo-spa-zio: un continuum quadridimensionale, secondo la ter-minologia messa in voga dai relativisti. Ma, a differenzada costoro che, procedendo per semplificazioni naturali-stiche e non per intellezioni filosofiche, tendono a ridur-re il tempo allo spazio, e così ad annullare il divenire,l'Alexander interpreta con reminiscenza bergsoniana lafunzione del tempo come di un principio interno di or-ganizzazione e di sviluppo della trama spaziale. Lo spa-zio, egli dice, si fa nel tempo; e con un'espressione an-che più energica afferma altrove che il tempo è la menteo l'anima dello spazio15, e lo spazio è il corpo del tempo:

15 ALEXANDER, Space, Time, ecc., II, 39.

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con che egli non intende tuttavia farsi fautore di unagrossolana concezione animistica, ma soltanto asserireche il tempo adempie in rapporto allo spazio, e nel pro-prio grado di esistenza, una funzione analoga a quellache, nel grado più elevato dell'evoluzione, la menteadempie in rapporto al corpo umano.

Posto lo spazio-tempo come un complesso evolutivo,le fasi dello sviluppo sono determinate dalle categorie,forme specificatrici di quella materia elementare. E, nelformulare il significato e la funzione di esse, l'autore av-verte che basta «togliere dalla concezione kantiana lacoscienza intellettuale con tutto ciò che ne dipende; quelche resta del suo insegnamento è generalmente sano»16.Con questa sottrazione, le categorie diventano forme co-stitutive e oggettive della realtà, indipendenti dal nostropensiero, e tuttavia a priori, nel senso che l'evoluzioneempirica degli oggetti ne presuppone l'attiva presenza.

Noi non ci addentreremo nella minuta revisione dellatabella kantiana delle categorie fatta dall'Alexander: cibasti soltanto notare che egli divide le categorie in tregruppi: il primo, più elementare e fondamentale, checomprende l'esistenza, l'universalità, la relazione el'ordine; il secondo, la sostanza, la quantità, il numero; ilterzo, il movimento. E se si domanda che cosa si sotten-de a questo complesso spazio-tempo-categoriale, checosa insomma forma la materia del movimento, l'autorerisponde col Bergson: che vi sono movimenti, ma non16 Op. cit., I, 192.

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con che egli non intende tuttavia farsi fautore di unagrossolana concezione animistica, ma soltanto asserireche il tempo adempie in rapporto allo spazio, e nel pro-prio grado di esistenza, una funzione analoga a quellache, nel grado più elevato dell'evoluzione, la menteadempie in rapporto al corpo umano.

Posto lo spazio-tempo come un complesso evolutivo,le fasi dello sviluppo sono determinate dalle categorie,forme specificatrici di quella materia elementare. E, nelformulare il significato e la funzione di esse, l'autore av-verte che basta «togliere dalla concezione kantiana lacoscienza intellettuale con tutto ciò che ne dipende; quelche resta del suo insegnamento è generalmente sano»16.Con questa sottrazione, le categorie diventano forme co-stitutive e oggettive della realtà, indipendenti dal nostropensiero, e tuttavia a priori, nel senso che l'evoluzioneempirica degli oggetti ne presuppone l'attiva presenza.

Noi non ci addentreremo nella minuta revisione dellatabella kantiana delle categorie fatta dall'Alexander: cibasti soltanto notare che egli divide le categorie in tregruppi: il primo, più elementare e fondamentale, checomprende l'esistenza, l'universalità, la relazione el'ordine; il secondo, la sostanza, la quantità, il numero; ilterzo, il movimento. E se si domanda che cosa si sotten-de a questo complesso spazio-tempo-categoriale, checosa insomma forma la materia del movimento, l'autorerisponde col Bergson: che vi sono movimenti, ma non16 Op. cit., I, 192.

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necessariamente cose che si muovono. Il movimento èanteriore alle cose, che sono null'altro che movimenti; lacosì detta materia non è anteriore allo spazio-tempo, maidealmente posteriore, nel senso che risulta da una pro-gressiva specificazione di quella originaria matrice dellarealtà.

Dal numero delle categorie, l'Alexander esclude laqualità. Questa non è categoriale ma empirica, cioè nonappartiene al piano costitutivo delle cose, ma è un risul-tato che emerge di grado in grado nel corso dell'evolu-zione cosmica. Quindi vi son vari ordini di qualità: fisi-che, chimiche, fisiologiche, mentali. Ognuno di essi nonsi può ricondurre al precedente, perché è un'emergenzanuova nel tempo, e l'irriversibilità della serie temporalerende impossibile l'involuzione di quel che emerge inquello da cui emerge. La vita dirompe dai processi fisio-chimici; la mente, dall'organizzazione fisiologica; mavita e mente costituiscono stadi autonomi, retti da pro-prie leggi e non dalle leggi degli stadi inferiori.

A chi è nuovo alla metafisica realistica può sembrarestrana questa concezione della mente come di una quali-tà empirica. Noi diciamo che un colore è una qualità;ma il vedere un colore, che è appunto l'atto della mente,è un atto qualificante, cioè qualcosa di ben diverso dauna mera qualità. E generalmente tutto ciò ch'è mentalepuò essere, sì, considerato come qualitativo, come og-getto di contemplazione, di apprezzamento, ecc., sempreperò da una mente che si fa soggetto di quell'oggetto, e

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necessariamente cose che si muovono. Il movimento èanteriore alle cose, che sono null'altro che movimenti; lacosì detta materia non è anteriore allo spazio-tempo, maidealmente posteriore, nel senso che risulta da una pro-gressiva specificazione di quella originaria matrice dellarealtà.

Dal numero delle categorie, l'Alexander esclude laqualità. Questa non è categoriale ma empirica, cioè nonappartiene al piano costitutivo delle cose, ma è un risul-tato che emerge di grado in grado nel corso dell'evolu-zione cosmica. Quindi vi son vari ordini di qualità: fisi-che, chimiche, fisiologiche, mentali. Ognuno di essi nonsi può ricondurre al precedente, perché è un'emergenzanuova nel tempo, e l'irriversibilità della serie temporalerende impossibile l'involuzione di quel che emerge inquello da cui emerge. La vita dirompe dai processi fisio-chimici; la mente, dall'organizzazione fisiologica; mavita e mente costituiscono stadi autonomi, retti da pro-prie leggi e non dalle leggi degli stadi inferiori.

A chi è nuovo alla metafisica realistica può sembrarestrana questa concezione della mente come di una quali-tà empirica. Noi diciamo che un colore è una qualità;ma il vedere un colore, che è appunto l'atto della mente,è un atto qualificante, cioè qualcosa di ben diverso dauna mera qualità. E generalmente tutto ciò ch'è mentalepuò essere, sì, considerato come qualitativo, come og-getto di contemplazione, di apprezzamento, ecc., sempreperò da una mente che si fa soggetto di quell'oggetto, e

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il cui giudizio pertanto non può esser posto alla stessastregua della cosa giudicata. Come mai da un mondopuramente oggettivo possa sorgere a un certo momentoun soggetto – la cui presenza dovrebb'essere implicitafin dall'inizio, affinché quell'oggettività potesse avere unqualunque senso – è ciò che il realismo non saprà maispiegarci. Esso si arrovella, tuttavia, su questo insolubileproblema e riesce, se non a una soluzione, almeno a unascappatoia ingegnosa. Ciò che noi chiamiamo relazionedi soggetto a oggetto, con la pretesa di ravvisarvi unaprerogativa della sola mente, non è invece, a dirdell'Alexander, che una delle molte relazioni che ci offrela realtà: è la più alta che ci sia nota, ma analoga alle ri-manenti. «Le menti sono soltanto i più dotati membri diuna democrazia di cose; e come in una democrazia,dove il talento ha campo aperto innanzi a sé, i membripiù dotati salgono in influenza ed autorità.» Ma i piùbassi non sono qualitativamente diversi. Ora, che cosa èla conoscenza col suo rapporto di soggetto e oggetto?Essa è la compresenza di una mente con un oggetto fini-to di ordine qualitativamente più basso, in modo che lamente, per virtù della sua qualità cosciente, divien con-scia di tale oggetto. Ciò vuol dire, innanzi tutto, chel'atto conoscitivo non crea il suo oggetto, ma lo presup-pone e lo contempla; e se qualcosa di nuovo c'è in que-sta visione, non è che una fruizione17 mentale, che intro-duce un modo d'essere diverso dalla semplice oggettivi-17 Traduco con questa espressione il termine inglese enjoyment, che non ha

un esatto corrispondente nella terminologia filosofica italiana.

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il cui giudizio pertanto non può esser posto alla stessastregua della cosa giudicata. Come mai da un mondopuramente oggettivo possa sorgere a un certo momentoun soggetto – la cui presenza dovrebb'essere implicitafin dall'inizio, affinché quell'oggettività potesse avere unqualunque senso – è ciò che il realismo non saprà maispiegarci. Esso si arrovella, tuttavia, su questo insolubileproblema e riesce, se non a una soluzione, almeno a unascappatoia ingegnosa. Ciò che noi chiamiamo relazionedi soggetto a oggetto, con la pretesa di ravvisarvi unaprerogativa della sola mente, non è invece, a dirdell'Alexander, che una delle molte relazioni che ci offrela realtà: è la più alta che ci sia nota, ma analoga alle ri-manenti. «Le menti sono soltanto i più dotati membri diuna democrazia di cose; e come in una democrazia,dove il talento ha campo aperto innanzi a sé, i membripiù dotati salgono in influenza ed autorità.» Ma i piùbassi non sono qualitativamente diversi. Ora, che cosa èla conoscenza col suo rapporto di soggetto e oggetto?Essa è la compresenza di una mente con un oggetto fini-to di ordine qualitativamente più basso, in modo che lamente, per virtù della sua qualità cosciente, divien con-scia di tale oggetto. Ciò vuol dire, innanzi tutto, chel'atto conoscitivo non crea il suo oggetto, ma lo presup-pone e lo contempla; e se qualcosa di nuovo c'è in que-sta visione, non è che una fruizione17 mentale, che intro-duce un modo d'essere diverso dalla semplice oggettivi-17 Traduco con questa espressione il termine inglese enjoyment, che non ha

un esatto corrispondente nella terminologia filosofica italiana.

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tà non ancora conosciuta. Da questo punto di vista, sog-getto è soltanto ciò che fruisce, oggetto, ciò che viencontemplato: l'unica realtà esistente si sdoppia, pur re-stando nel fondo identica, in un soggetto e in un ogget-to. Ma allora, così intesa la conoscenza, essa non è unarelazione sui generis, bensì un esempio di tutte le rela-zioni empiriche: ogni esistenza finita, che emerge da unordine di esistenza più basso, fruisce se stessa e contem-pla l'oggetto da cui emerge; e analogamente un angelo oDio contemplerebbe la coscienza umana come questacontempla le qualità di ordine inferiore. E anche nelcaso particolare della conoscenza reciproca delle menti,che si risolve in una mutua fruizione e contemplazione,ci si presenta la stessa analogia comune a tutti gli ordinidi esistenze: ogni finito è in relazione verso gli altri fini-ti dello stesso livello, come le menti sono in rapportol'una con l'altra18.

Questa soluzione, come ho già accennato, non è cheuna scappatoia, consistente nel sostituire all'unica e irri-producibile relazione tra soggetto e oggetto, la quale fa-rebbe della mente un'entità coestesa a tutto il reale, unamolteplicità di rapporti, determinati dalla mera compre-senza di oggetti di ordine diverso o dello stesso ordine.La semplice posizione di un oggetto in una serie ogget-tiva darebbe luogo all'origine della soggettività. Ora, seinvece di relazione conoscitiva si trattasse di una rela-zione, alla maniera aristotelica, tra materia e forma, noi

18 Ibid., II, 82, 104, 105.

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tà non ancora conosciuta. Da questo punto di vista, sog-getto è soltanto ciò che fruisce, oggetto, ciò che viencontemplato: l'unica realtà esistente si sdoppia, pur re-stando nel fondo identica, in un soggetto e in un ogget-to. Ma allora, così intesa la conoscenza, essa non è unarelazione sui generis, bensì un esempio di tutte le rela-zioni empiriche: ogni esistenza finita, che emerge da unordine di esistenza più basso, fruisce se stessa e contem-pla l'oggetto da cui emerge; e analogamente un angelo oDio contemplerebbe la coscienza umana come questacontempla le qualità di ordine inferiore. E anche nelcaso particolare della conoscenza reciproca delle menti,che si risolve in una mutua fruizione e contemplazione,ci si presenta la stessa analogia comune a tutti gli ordinidi esistenze: ogni finito è in relazione verso gli altri fini-ti dello stesso livello, come le menti sono in rapportol'una con l'altra18.

Questa soluzione, come ho già accennato, non è cheuna scappatoia, consistente nel sostituire all'unica e irri-producibile relazione tra soggetto e oggetto, la quale fa-rebbe della mente un'entità coestesa a tutto il reale, unamolteplicità di rapporti, determinati dalla mera compre-senza di oggetti di ordine diverso o dello stesso ordine.La semplice posizione di un oggetto in una serie ogget-tiva darebbe luogo all'origine della soggettività. Ora, seinvece di relazione conoscitiva si trattasse di una rela-zione, alla maniera aristotelica, tra materia e forma, noi

18 Ibid., II, 82, 104, 105.

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potremmo facilmente spiegarci come, nella gerarchiadegli ordini della realtà, ciò ch'è forma di un ordine piùbasso, divien materia del più alto. Ma, anche in questocaso, non si tratterebbe mai di una generazione dellaforma dalla materia, bensì di una diade originaria, che siarticola e s'intreccia lungo la serie ascendente degli es-seri. A parte questa considerazione, che pure è di granpeso, la diade soggetto-oggetto è di tutt'altra natura dalladiade materia-forma: essa esprime una relazione che sidà soltanto nella mente e non in qualunque ordine di fi-niti. Quale significato ragionevole potrebbe avere peresempio l'affermazione che, nell'ordine dei fenomeni vi-tali, il fegato conosca la milza o viceversa? E, in due or-dini diversi, quale scintilla di conoscenza scoccherà maidal contatto tra un composto chimico e un fatto mecca-nico? Nessuna analogia potrà giustificare questi assurdi;il principio di analogia giova soltanto nel caso in cui,posto il carattere essenzialmente mentale del rapportoconoscitivo, esso viene esteso, per quanto è possibile,anche agli esseri inferiori all'uomo. Ma questo significacapovolgere la posizione del realismo: fare cioè dellamente non più un prodotto secondario dell'evoluzione diun mondo puramente oggettivo, bensì il principio stessodell'evoluzione degli oggetti; il che vuol dire caderenell'idealismo. E l'Alexander spesso vi cade senza quasiaccorgersene: quando egli considera il tempo come lamente dello spazio, o quando traccia il quadro di unaemergent evolution, ragiona da idealista; è realista inve-ce quando fa della mente una mera qualità e confonde il

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potremmo facilmente spiegarci come, nella gerarchiadegli ordini della realtà, ciò ch'è forma di un ordine piùbasso, divien materia del più alto. Ma, anche in questocaso, non si tratterebbe mai di una generazione dellaforma dalla materia, bensì di una diade originaria, che siarticola e s'intreccia lungo la serie ascendente degli es-seri. A parte questa considerazione, che pure è di granpeso, la diade soggetto-oggetto è di tutt'altra natura dalladiade materia-forma: essa esprime una relazione che sidà soltanto nella mente e non in qualunque ordine di fi-niti. Quale significato ragionevole potrebbe avere peresempio l'affermazione che, nell'ordine dei fenomeni vi-tali, il fegato conosca la milza o viceversa? E, in due or-dini diversi, quale scintilla di conoscenza scoccherà maidal contatto tra un composto chimico e un fatto mecca-nico? Nessuna analogia potrà giustificare questi assurdi;il principio di analogia giova soltanto nel caso in cui,posto il carattere essenzialmente mentale del rapportoconoscitivo, esso viene esteso, per quanto è possibile,anche agli esseri inferiori all'uomo. Ma questo significacapovolgere la posizione del realismo: fare cioè dellamente non più un prodotto secondario dell'evoluzione diun mondo puramente oggettivo, bensì il principio stessodell'evoluzione degli oggetti; il che vuol dire caderenell'idealismo. E l'Alexander spesso vi cade senza quasiaccorgersene: quando egli considera il tempo come lamente dello spazio, o quando traccia il quadro di unaemergent evolution, ragiona da idealista; è realista inve-ce quando fa della mente una mera qualità e confonde il

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rapporto conoscitivo tra la mente e gli oggetti col rap-porto causale che lega gli oggetti fisici tra loro.

Il suo realismo, infine, culmina nella teodicea: Dio è,al di sopra della mente, soltanto una qualità più alta (thenext higher empirical quality)19. Egli è la totalità delmondo come possedente la qualifica della deità: il mon-do è il corpo, la deità è la mente. E poiché il corpo diDio è la totalità dello spazio-tempo, Dio è onnipresente,infinito ed eterno: mentre noi, soggiunge l'Alexandercon una curiosa reminiscenza bruniana, siamo finita-mente infiniti, la deità è infinitamente infinita. E se gli sichiede: esiste una tale qualità divina? l'autore rispondeche il mondo, nella sua infinità, tende verso la deità infi-nita ed è pregnante di essa; ma questa infinita deità nonesiste attualmente: se esistesse, allora Dio – l'attualemondo possedente l'infinita deità – cesserebbe d'essereil Dio infinito e si moltiplicherebbe in una pluralità di fi-niti dei, che sarebbero soltanto un nuovo ordine di crea-ture più alte di noi, con un nuovo ed unico Dio al di làdi esso20.

La visione totale del mondo che il sistema dell'Ale-xander ci offre può essere in breve riassunta così: nelcorso del tempo, che è il principio del movimento, lamatrice dello spazio-tempo dirompe (breaks up) in esse-ri finiti di sempre crescente complessità. Gli argini im-mobili, in cui s'incanala questo movimento, sono le ca-

19 Ibid., II, 345.20 Ibid., II, 365.

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rapporto conoscitivo tra la mente e gli oggetti col rap-porto causale che lega gli oggetti fisici tra loro.

Il suo realismo, infine, culmina nella teodicea: Dio è,al di sopra della mente, soltanto una qualità più alta (thenext higher empirical quality)19. Egli è la totalità delmondo come possedente la qualifica della deità: il mon-do è il corpo, la deità è la mente. E poiché il corpo diDio è la totalità dello spazio-tempo, Dio è onnipresente,infinito ed eterno: mentre noi, soggiunge l'Alexandercon una curiosa reminiscenza bruniana, siamo finita-mente infiniti, la deità è infinitamente infinita. E se gli sichiede: esiste una tale qualità divina? l'autore rispondeche il mondo, nella sua infinità, tende verso la deità infi-nita ed è pregnante di essa; ma questa infinita deità nonesiste attualmente: se esistesse, allora Dio – l'attualemondo possedente l'infinita deità – cesserebbe d'essereil Dio infinito e si moltiplicherebbe in una pluralità di fi-niti dei, che sarebbero soltanto un nuovo ordine di crea-ture più alte di noi, con un nuovo ed unico Dio al di làdi esso20.

La visione totale del mondo che il sistema dell'Ale-xander ci offre può essere in breve riassunta così: nelcorso del tempo, che è il principio del movimento, lamatrice dello spazio-tempo dirompe (breaks up) in esse-ri finiti di sempre crescente complessità. Gli argini im-mobili, in cui s'incanala questo movimento, sono le ca-

19 Ibid., II, 345.20 Ibid., II, 365.

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tegorie. In determinati punti della storia delle cose fini-te, il mondo assume nuovi gruppi di qualità empiriche,ciascuno dei quali forma il tratto distintivo di un certolivello di esistenza. Le qualità primarie formano la ma-teria con le sue varie specificazioni (fisiche, chimiche,biologiche, ecc.); il gruppo delle qualità secondarie ècostituito da tutto ciò ch'è mentale; e si può aggiungereun gruppo di qualità terziarie rappresentato dai così dettivalori (estetici, morali, ecc.). La qualità distintiva di cia-scun ordine è la mente di quell'ordine; la più alta di esseè la mente o coscienza propriamente detta. Ma le esi-stenze finite dei gradi più bassi non sono menti che inun senso esteso o metaforico. Non vi sono gradi di co-scienze inferiori alla coscienza umana, come pensavaLeibniz, bensì differenti ordini di realtà, ognuno deiquali con un elemento che non è mente vera e propria,ma che adempie nel suo grado a una funzione analoga aquella che la mente adempie verso il corpo umano. Que-sto universo, essenzialmente mobile e progressivo, ten-de verso una qualità più alta, divina, che gli si prospettadinanzi come un ideale sempre in via di conseguimentoe mai raggiunto, perché raggiungerlo significherebbemorire.

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tegorie. In determinati punti della storia delle cose fini-te, il mondo assume nuovi gruppi di qualità empiriche,ciascuno dei quali forma il tratto distintivo di un certolivello di esistenza. Le qualità primarie formano la ma-teria con le sue varie specificazioni (fisiche, chimiche,biologiche, ecc.); il gruppo delle qualità secondarie ècostituito da tutto ciò ch'è mentale; e si può aggiungereun gruppo di qualità terziarie rappresentato dai così dettivalori (estetici, morali, ecc.). La qualità distintiva di cia-scun ordine è la mente di quell'ordine; la più alta di esseè la mente o coscienza propriamente detta. Ma le esi-stenze finite dei gradi più bassi non sono menti che inun senso esteso o metaforico. Non vi sono gradi di co-scienze inferiori alla coscienza umana, come pensavaLeibniz, bensì differenti ordini di realtà, ognuno deiquali con un elemento che non è mente vera e propria,ma che adempie nel suo grado a una funzione analoga aquella che la mente adempie verso il corpo umano. Que-sto universo, essenzialmente mobile e progressivo, ten-de verso una qualità più alta, divina, che gli si prospettadinanzi come un ideale sempre in via di conseguimentoe mai raggiunto, perché raggiungerlo significherebbemorire.

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II

W IT H E H E A D E L A D O T T R IN A D E L L E S C IE N Z E

N AT U R A L I

Alfredo North Whitehead è stato, prima che filosofo,cultore di matematiche e di scienze naturali. Insieme colRussell, egli ha scritto un'opera molto apprezzata daicompetenti sui princìpi della matematica; coll'Eddingtone il Weil, ma indipendentemente da essi e con maggioreautonomia critica di fronte all'Einstein, egli è tra i piùautorevoli interpreti e continuatori della dottrina dellarelatività. Nella sua stessa filosofia, egli attribuisce allematematiche un posto preminente (ciò che rende abba-stanza difficile la lettura di alcune delle sue opere ad unprofano): sarebbe forse eccessivo, egli dice, dare ad essela parte di Amleto nella tragedia che porta questo nome;ma si deve dar loro almeno quella di Ofelia che è unpersonaggio essenziale, very charming and a littlemad21. E, data la sua educazione matematica, è naturalech'egli apprezzi Platone molto più di Aristotele:

21 A. N. WHITEHEAD, Science and the modern world, 19272, p. 27.

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II

W IT H E H E A D E L A D O T T R IN A D E L L E S C IE N Z E

N AT U R A L I

Alfredo North Whitehead è stato, prima che filosofo,cultore di matematiche e di scienze naturali. Insieme colRussell, egli ha scritto un'opera molto apprezzata daicompetenti sui princìpi della matematica; coll'Eddingtone il Weil, ma indipendentemente da essi e con maggioreautonomia critica di fronte all'Einstein, egli è tra i piùautorevoli interpreti e continuatori della dottrina dellarelatività. Nella sua stessa filosofia, egli attribuisce allematematiche un posto preminente (ciò che rende abba-stanza difficile la lettura di alcune delle sue opere ad unprofano): sarebbe forse eccessivo, egli dice, dare ad essela parte di Amleto nella tragedia che porta questo nome;ma si deve dar loro almeno quella di Ofelia che è unpersonaggio essenziale, very charming and a littlemad21. E, data la sua educazione matematica, è naturalech'egli apprezzi Platone molto più di Aristotele:

21 A. N. WHITEHEAD, Science and the modern world, 19272, p. 27.

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nell'uno, osserva acutamente, le forme del pensiero sonomolto più fluide che nell'altro, e perciò di maggior valo-re. L'ipotesi platonica che la struttura di tutte le cose di-penda dalla forma degli atomi (cubica quella della terra,piramidale quella del fuoco, ecc.) è piena di suggestioniper la fisica moderna, che, nelle sue indagini sulla strut-tura degli atomi, accorda non poca importanza alla for-ma di essi. E in geniere, nelle loro linee principali, leidee platoniche sono paragonabili a quelle della scienzadi oggi22. Questo apprezzamento di Platone è importanteper la genesi della dottrina del Whitehead: esso ci spie-ga come, nelle riflessioni sulle scienze della natura, ilsuo pensiero abbia preso un indirizzo decisamente anti-materialistico.

A differenza dalla filosofia di molti naturalisti, quelladel Whitehead rivela a primo sguardo una grande am-piezza di comprensione ed una penetrazione singolarenel cogliere i problemi posti dalla speculazione propria-mente filosofica nel corso della sua storia. Essa è beneagguerrita contro i pericoli dello specialismo scientifico,che fa camminare il pensiero dentro un solco (producesminds in a groove). «Ogni professione, dice l'A.23, faprogressi, ma nel suo solco. Così nel mondo moderno ilcelibato degli studiosi medievali è stato sostituito da uncelibato dell'intelletto, fattosi alieno dalla contemplazio-ne dei fatti concreti.» Invece la vera sapienza è frutto di

22 A. N. WHITEHEAD, The concept of nature, 19262, p. 17.23 Ibid., p. 245.

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nell'uno, osserva acutamente, le forme del pensiero sonomolto più fluide che nell'altro, e perciò di maggior valo-re. L'ipotesi platonica che la struttura di tutte le cose di-penda dalla forma degli atomi (cubica quella della terra,piramidale quella del fuoco, ecc.) è piena di suggestioniper la fisica moderna, che, nelle sue indagini sulla strut-tura degli atomi, accorda non poca importanza alla for-ma di essi. E in geniere, nelle loro linee principali, leidee platoniche sono paragonabili a quelle della scienzadi oggi22. Questo apprezzamento di Platone è importanteper la genesi della dottrina del Whitehead: esso ci spie-ga come, nelle riflessioni sulle scienze della natura, ilsuo pensiero abbia preso un indirizzo decisamente anti-materialistico.

A differenza dalla filosofia di molti naturalisti, quelladel Whitehead rivela a primo sguardo una grande am-piezza di comprensione ed una penetrazione singolarenel cogliere i problemi posti dalla speculazione propria-mente filosofica nel corso della sua storia. Essa è beneagguerrita contro i pericoli dello specialismo scientifico,che fa camminare il pensiero dentro un solco (producesminds in a groove). «Ogni professione, dice l'A.23, faprogressi, ma nel suo solco. Così nel mondo moderno ilcelibato degli studiosi medievali è stato sostituito da uncelibato dell'intelletto, fattosi alieno dalla contemplazio-ne dei fatti concreti.» Invece la vera sapienza è frutto di

22 A. N. WHITEHEAD, The concept of nature, 19262, p. 17.23 Ibid., p. 245.

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Page 31: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

un balanced development, di uno sviluppo armonico,del quale l'Autore stesso ci ha dato un esempio cospi-cuo, passando da una certa ristrettezza mentale del suoprimo saggio (l'Enquiry concerning the principles ofnatural knowledge) all'ampia ed organica contesturadell'opera seguente (The Concept of Nature), che è statagiudicata dal Bergson come una delle espressioni piùimportanti del pensiero contemporaneo.

La critica del materialismo scientifico corrente, com'èformulata dal Whitehead, ci dà un primo saggio di que-sta capacità d'intendere il più complesso gioco di varifattori mentali nella genesi dei princìpi scientifici. Lastoria della dottrina della materia, egli dice, non è stataancora scritta. Essa sarebbe la storia dell'influenza dellafilosofia greca sulla scienza della natura. Questa in-fluenza si compendia in un lungo fraintendimento dellostatus metafisico degli enti naturali. L'entità (materia) èstata separata dal fattore che è il termine della coscienzasensibile e n'è diventata il sostrato, mentre il fattore èstato degradato ad attributo di essa. Per questa via, ilcorso della natura è stato concepito come il mero rac-conto delle fortune della materia nella sua avventura at-traverso lo spazio24. Le scoperte scientifiche del secoloXVII, specialmente le teorie emissionistiche della luce edel suono, hanno rinsaldato la primitiva costruzione lo-gica della materia: ciò che entra negli occhi è costituitoda onde luminose, ma ciò che vediamo sono colori; di

24 Ibid., pp. 16, 20.

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un balanced development, di uno sviluppo armonico,del quale l'Autore stesso ci ha dato un esempio cospi-cuo, passando da una certa ristrettezza mentale del suoprimo saggio (l'Enquiry concerning the principles ofnatural knowledge) all'ampia ed organica contesturadell'opera seguente (The Concept of Nature), che è statagiudicata dal Bergson come una delle espressioni piùimportanti del pensiero contemporaneo.

La critica del materialismo scientifico corrente, com'èformulata dal Whitehead, ci dà un primo saggio di que-sta capacità d'intendere il più complesso gioco di varifattori mentali nella genesi dei princìpi scientifici. Lastoria della dottrina della materia, egli dice, non è stataancora scritta. Essa sarebbe la storia dell'influenza dellafilosofia greca sulla scienza della natura. Questa in-fluenza si compendia in un lungo fraintendimento dellostatus metafisico degli enti naturali. L'entità (materia) èstata separata dal fattore che è il termine della coscienzasensibile e n'è diventata il sostrato, mentre il fattore èstato degradato ad attributo di essa. Per questa via, ilcorso della natura è stato concepito come il mero rac-conto delle fortune della materia nella sua avventura at-traverso lo spazio24. Le scoperte scientifiche del secoloXVII, specialmente le teorie emissionistiche della luce edel suono, hanno rinsaldato la primitiva costruzione lo-gica della materia: ciò che entra negli occhi è costituitoda onde luminose, ma ciò che vediamo sono colori; di

24 Ibid., pp. 16, 20.

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qui il fondamento della distinzione lockiana delle quali-tà primarie e secondarie. Il risultato è stato disastrosoper la scienza e per la filosofia, specialmente perquest'ultima, avendo trasformato la grande questione delrapporto tra la mente e la natura nella petty formdell'interazione tra il corpo umano e la mente. Posta in-fatti quella distinzione, da una parte si dispongono le ad-dizioni psichiche fornite dalla mente che percepisce (lequalità secondarie), dall'altra gli elementi primari deglioggetti naturali, cioè le molecole e l'energia radiante cheinfluenzano la mente nel suo percepire25. «Io protesto,soggiunge con una certa enfasi l'A., contro questa bifor-cazione della natura in due sistemi di entità, che sareb-bero reali in due sensi differenti. Una realtà sarebbequella delle entità, come gli elettroni studiati dalla fisi-ca: è la realtà che sta immobile innanzi alla conoscenzae che non è a sua volta mai conosciuta. Infatti, ciò ch'èconosciuto è un'altra specie di realtà, che risulta dal con-corso della mente. Così vi sarebbero due nature: l'una èla conjecture, l'altra il dream»26. Un'altra conseguenzarisulta ancora da questa biforcazione: la natura presup-posta e non apparente sarebbe causa della natura appa-rente della percezione, con un impiego illegittimo delprincipio di causalità. Così il bruciore del fuoco e il pas-saggio del caldo attraverso l'aria son causa che il corpo,il cervello e i nervi funzionino in certi modi: ma questanon è un'azione della natura sulla mente, bensì un'intera-25 Ibid., pp. 26, 27, 29.26 Ibid., p. 30.

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qui il fondamento della distinzione lockiana delle quali-tà primarie e secondarie. Il risultato è stato disastrosoper la scienza e per la filosofia, specialmente perquest'ultima, avendo trasformato la grande questione delrapporto tra la mente e la natura nella petty formdell'interazione tra il corpo umano e la mente. Posta in-fatti quella distinzione, da una parte si dispongono le ad-dizioni psichiche fornite dalla mente che percepisce (lequalità secondarie), dall'altra gli elementi primari deglioggetti naturali, cioè le molecole e l'energia radiante cheinfluenzano la mente nel suo percepire25. «Io protesto,soggiunge con una certa enfasi l'A., contro questa bifor-cazione della natura in due sistemi di entità, che sareb-bero reali in due sensi differenti. Una realtà sarebbequella delle entità, come gli elettroni studiati dalla fisi-ca: è la realtà che sta immobile innanzi alla conoscenzae che non è a sua volta mai conosciuta. Infatti, ciò ch'èconosciuto è un'altra specie di realtà, che risulta dal con-corso della mente. Così vi sarebbero due nature: l'una èla conjecture, l'altra il dream»26. Un'altra conseguenzarisulta ancora da questa biforcazione: la natura presup-posta e non apparente sarebbe causa della natura appa-rente della percezione, con un impiego illegittimo delprincipio di causalità. Così il bruciore del fuoco e il pas-saggio del caldo attraverso l'aria son causa che il corpo,il cervello e i nervi funzionino in certi modi: ma questanon è un'azione della natura sulla mente, bensì un'intera-25 Ibid., pp. 26, 27, 29.26 Ibid., p. 30.

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Page 33: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

zione nell'interno della natura27. In altri termini,l'influxus physicus è un'estensione arbitraria del princi-pio di causalità, il quale vale soltanto nella sfera di ungruppo omogeneo di oggetti.

È merito non piccolo del Whitehead, aver qui evitatouno scoglio contro cui vanno a urtare molti realisti in-glesi contemporanei. Anche lui, del resto, vi si era scon-trato nel suo primo saggio filosofico, dove, dopo averdistinto vari ordini di oggetti, cioè i dati della percezio-ne sensibile, le cose del senso comune, e gli oggettiscientifici, aveva finito con l'attribuire a questi ultimi lacapacità di produrre gli altri. Così egli veniva a creareun'antitesi alla sua stessa dottrina della genesi dei con-cetti scientifici, come ultimi prodotti di un'astrazioneestensiva; e non poteva, in ultima istanza, conciliarel'empirismo di questa tesi col dommatismo di quell'anti-tesi, se non per mezzo della vecchia distinzione aristote-lica tra la ratio essendi e la ratio cognoscendi: i concet-ti, cioè, pur essendo gli ultimi nell'ordine della cono-scenza, sono i primi nell'ordine della realtà28. Ma la con-ciliazione era per lui solo apparente, perché, dato il suopunto di vista empiristico, i concetti, non essendo che ilfrutto di un'astrazione semplificatrice, erano condannatiad essere ultimi in tutti gli ordini.

Nel Concept of nature questo punto di vista è supera-to. Non v'è, come si è visto, influxus physicus tra la

27 Ibid., p. 31.28 An enquiry, ecc., pp. 184, 186, 188.

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zione nell'interno della natura27. In altri termini,l'influxus physicus è un'estensione arbitraria del princi-pio di causalità, il quale vale soltanto nella sfera di ungruppo omogeneo di oggetti.

È merito non piccolo del Whitehead, aver qui evitatouno scoglio contro cui vanno a urtare molti realisti in-glesi contemporanei. Anche lui, del resto, vi si era scon-trato nel suo primo saggio filosofico, dove, dopo averdistinto vari ordini di oggetti, cioè i dati della percezio-ne sensibile, le cose del senso comune, e gli oggettiscientifici, aveva finito con l'attribuire a questi ultimi lacapacità di produrre gli altri. Così egli veniva a creareun'antitesi alla sua stessa dottrina della genesi dei con-cetti scientifici, come ultimi prodotti di un'astrazioneestensiva; e non poteva, in ultima istanza, conciliarel'empirismo di questa tesi col dommatismo di quell'anti-tesi, se non per mezzo della vecchia distinzione aristote-lica tra la ratio essendi e la ratio cognoscendi: i concet-ti, cioè, pur essendo gli ultimi nell'ordine della cono-scenza, sono i primi nell'ordine della realtà28. Ma la con-ciliazione era per lui solo apparente, perché, dato il suopunto di vista empiristico, i concetti, non essendo che ilfrutto di un'astrazione semplificatrice, erano condannatiad essere ultimi in tutti gli ordini.

Nel Concept of nature questo punto di vista è supera-to. Non v'è, come si è visto, influxus physicus tra la

27 Ibid., p. 31.28 An enquiry, ecc., pp. 184, 186, 188.

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mente e la natura; la conoscenza è un fatto ultimo(ultimate) di cui non possiamo dare un perché. Noi dob-biamo limitarci a descrivere che cosa essa sia, cioè adanalizzarne il concetto e le interne relazioni. Qualunquericerca, scientifica o filosofica, ha per suo inizio assolu-to e insuperabile the deliverance of sense-awareness (idati della percezione sensibile). Ora vi son due modi dirappresentarsi questi dati: in rapporto col nostro atto co-noscitivo o per se stessi, nelle loro relazioni mutue, pre-scindendo dal soggetto conoscente. Il secondo di questimodi è il più semplice ed elementare: da esso prende ilsuo punto di partenza la scienza; su di esso deve eserci-tarsi l'intelligenza filosofica, la quale s'è troppo indugia-ta finora a girare e rigirare il rapporto tra soggetto e og-getto, senza intendere che nessun dubbio concernentel'oggetto della conoscenza può essere risolto col dire chec'è una mente che lo conosce.

Ora, se chiamiamo apprensione la conoscenza di unoggetto, possiamo distinguere da essa la prensione, in-tendendo con questo termine l'unità che si realizzanell'oggetto stesso della conoscenza. L'unità di unaprensione si definisce come un «qui» ed «ora» con rife-rimento intrinseco ad altri luoghi e tempi. Usando untermine più familiare, la si può chiamare anche un even-to. Gli eventi sono anteriori alle cose, che risultano dallaloro selezione ed organizzazione. Il castello, la nuvola,il pianeta, come cose permanenti, sono precedute da uncomplesso di eventi, ciascuno dei quali è una determina-

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mente e la natura; la conoscenza è un fatto ultimo(ultimate) di cui non possiamo dare un perché. Noi dob-biamo limitarci a descrivere che cosa essa sia, cioè adanalizzarne il concetto e le interne relazioni. Qualunquericerca, scientifica o filosofica, ha per suo inizio assolu-to e insuperabile the deliverance of sense-awareness (idati della percezione sensibile). Ora vi son due modi dirappresentarsi questi dati: in rapporto col nostro atto co-noscitivo o per se stessi, nelle loro relazioni mutue, pre-scindendo dal soggetto conoscente. Il secondo di questimodi è il più semplice ed elementare: da esso prende ilsuo punto di partenza la scienza; su di esso deve eserci-tarsi l'intelligenza filosofica, la quale s'è troppo indugia-ta finora a girare e rigirare il rapporto tra soggetto e og-getto, senza intendere che nessun dubbio concernentel'oggetto della conoscenza può essere risolto col dire chec'è una mente che lo conosce.

Ora, se chiamiamo apprensione la conoscenza di unoggetto, possiamo distinguere da essa la prensione, in-tendendo con questo termine l'unità che si realizzanell'oggetto stesso della conoscenza. L'unità di unaprensione si definisce come un «qui» ed «ora» con rife-rimento intrinseco ad altri luoghi e tempi. Usando untermine più familiare, la si può chiamare anche un even-to. Gli eventi sono anteriori alle cose, che risultano dallaloro selezione ed organizzazione. Il castello, la nuvola,il pianeta, come cose permanenti, sono precedute da uncomplesso di eventi, ciascuno dei quali è una determina-

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ta unità prensiva nel tempo e nello spazio, cioè una pro-spettiva del castello, della nuvola, del pianeta. Si può daquesto punto di vista reinterpretare e correggere il ber-keleyano: esse est percipi, col dire che la realizzazione(non più la realtà pura e semplice, l'esse) è l'unione dellecose nell'unità di una prensione29.

Dire evento è dire qualcosa che si estende nel tempo enello spazio; anzi il fatto dell'estendersi è più elementaree primitivo, mentre lo spazio e il tempo sono relazionisecondarie fondate su di esso e in qualche modo astrattedalla concretezza del divenire. Come risultante di even-ti, la natura è essenzialmente ciò che passa, che si muo-ve, e movendosi si svolge. Il principio del creativeadvance of nature deve sostituire lo statico materiali-smo: l'atomo materiale è l'identità indifferente ad ognimutamento: l'evento invece ha un presente, un passato,un futuro, e pertanto è in relazione organica con tutti glialtri. Nel loro estendersi e nel loro mutuo includersi, glieventi possono raffigurarsi alle scatole del noto giocat-tolo cinese, con la differenza però che non si tratta dicose materiali l'una nell'altra, ma di momenti di un pro-cesso: e l'evento totale che include tutti gli altri è la na-tura stessa nella sua becomingness.

In questo compatto divenire noi isoliamo per mezzodell'astrazione i rapporti spaziali e i rapporti temporali:il germe dello spazio è nelle mutue relazioni degli even-ti dentro il fatto generale che è tutta la natura ora osser-29 Science and the modern world, pp. 86 sgg.

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ta unità prensiva nel tempo e nello spazio, cioè una pro-spettiva del castello, della nuvola, del pianeta. Si può daquesto punto di vista reinterpretare e correggere il ber-keleyano: esse est percipi, col dire che la realizzazione(non più la realtà pura e semplice, l'esse) è l'unione dellecose nell'unità di una prensione29.

Dire evento è dire qualcosa che si estende nel tempo enello spazio; anzi il fatto dell'estendersi è più elementaree primitivo, mentre lo spazio e il tempo sono relazionisecondarie fondate su di esso e in qualche modo astrattedalla concretezza del divenire. Come risultante di even-ti, la natura è essenzialmente ciò che passa, che si muo-ve, e movendosi si svolge. Il principio del creativeadvance of nature deve sostituire lo statico materiali-smo: l'atomo materiale è l'identità indifferente ad ognimutamento: l'evento invece ha un presente, un passato,un futuro, e pertanto è in relazione organica con tutti glialtri. Nel loro estendersi e nel loro mutuo includersi, glieventi possono raffigurarsi alle scatole del noto giocat-tolo cinese, con la differenza però che non si tratta dicose materiali l'una nell'altra, ma di momenti di un pro-cesso: e l'evento totale che include tutti gli altri è la na-tura stessa nella sua becomingness.

In questo compatto divenire noi isoliamo per mezzodell'astrazione i rapporti spaziali e i rapporti temporali:il germe dello spazio è nelle mutue relazioni degli even-ti dentro il fatto generale che è tutta la natura ora osser-29 Science and the modern world, pp. 86 sgg.

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vabile, cioè dentro l'unico evento che è la totalità dellapresente natura; il germe del tempo, nel passaggio stes-so della natura da uno stato all'altro30. Il carattere dellospazio e del tempo è così puramente relazionale: non v'èuno spazio assoluto, al di fuori dell'ordinamento deglieventi e posto come un recipiente comune di essi; e nonc'è un tempo assoluto entro cui la natura diviene. Tempoe spazio sarebbero allora degli enigmi metafisici. Chesorta d'entità sarebbero gli istanti e i periodi di tempoall'infuori del passaggio degli eventi? Questo sarebbe undar corpo alle ombre: il tempo c'è, perché c'è divenire;fuori del divenire non c'è nulla; quindi il tempo è nellanatura (come un'astrazione dalle relazioni naturali con-crete), non la natura nel tempo31.

Reciprocamente, non bisogna isolare il tempo dallospazio. Uno degli errori del materialismo è di aver fattodello spazio istantaneo l'unico campo per l'attività crea-tiva della natura: il passato non è più, il futuro non è an-cora; tutto si riduce a un presente momentaneo, cioè aduna non-entità. Invece, nella realtà, le cose non soltantosi estendono spazialmente, ma durano anche: e durare èun conservarsi del passato nel presente e un prepararsidell'avvenire. Il Whitehead è qui sostanzialmented'accordo col Bergson; il fattore fondamentale è il pas-saggio della natura e il tempo è un'astrazione seconda-ria; quindi allo stesso divenire naturale e non al tempo

30 Concept of nature, p. 53.31 Ibid., p. 65.

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vabile, cioè dentro l'unico evento che è la totalità dellapresente natura; il germe del tempo, nel passaggio stes-so della natura da uno stato all'altro30. Il carattere dellospazio e del tempo è così puramente relazionale: non v'èuno spazio assoluto, al di fuori dell'ordinamento deglieventi e posto come un recipiente comune di essi; e nonc'è un tempo assoluto entro cui la natura diviene. Tempoe spazio sarebbero allora degli enigmi metafisici. Chesorta d'entità sarebbero gli istanti e i periodi di tempoall'infuori del passaggio degli eventi? Questo sarebbe undar corpo alle ombre: il tempo c'è, perché c'è divenire;fuori del divenire non c'è nulla; quindi il tempo è nellanatura (come un'astrazione dalle relazioni naturali con-crete), non la natura nel tempo31.

Reciprocamente, non bisogna isolare il tempo dallospazio. Uno degli errori del materialismo è di aver fattodello spazio istantaneo l'unico campo per l'attività crea-tiva della natura: il passato non è più, il futuro non è an-cora; tutto si riduce a un presente momentaneo, cioè aduna non-entità. Invece, nella realtà, le cose non soltantosi estendono spazialmente, ma durano anche: e durare èun conservarsi del passato nel presente e un prepararsidell'avvenire. Il Whitehead è qui sostanzialmented'accordo col Bergson; il fattore fondamentale è il pas-saggio della natura e il tempo è un'astrazione seconda-ria; quindi allo stesso divenire naturale e non al tempo

30 Concept of nature, p. 53.31 Ibid., p. 65.

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egli attribuisce quei caratteri che per il Bergson appar-tengono alla pura durata. E questa subordinazione deltempo gli consente di dare anche un più adeguato ap-prezzamento dello spazio: spazializzare non è necessa-riamente falsificare; falso è solo lo spazio del materiali-smo, che è posto fuori del tempo, non quello della natu-ra concreta che si fa nel tempo. Un'altra quistione relati-va al tempo è quella ch'è stata posta, con grande scanda-lo, dal relativismo: esiste una sola serie o una pluralitàdi serie temporali? L'A. è per questa seconda alternativa,che discende logicamente dalla negazione del tempo as-soluto: ogni gruppo (set) di eventi ha il suo ordinamentotemporale: il disconoscimento di questo fatto dipende ingran parte dal confondere la variabile t della fisica colconcreto divenire della natura32.

Posti gli eventi nelle loro relazioni spazio-temporali,se si chiede: qual è il fondamento, la sostanza stessa de-gli eventi?, l'A. risponde che questa sostanza non c'è, ameno di voler ricadere negli errori del materialismo. Se-condo siffatta concezione, lo spazio e il tempo dovreb-bero essere gli attributi di una materia; ma tali evidente-mente essi non sono, perché è impossibile esprimerequalsiasi verità spazio-temporale, ricorrendo a terminimateriali di riferimento. In realtà, ciò che esiste non è la32 «La difficoltà di discordanti sistemi temporali è in parte risolta distinguen-

do tra ciò che io chiamo the creative advance in nature, che non è serialeaffatto, e una serie temporale. Noi abitualmente confondiamo insieme que-sto movimento creativo che sperimentiamo e conosciamo come continuatransizione della natura nella novità, con le singole serie temporali che na-turalmente impieghiamo per scopi di misura» (Concept of nature, p. 178).

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egli attribuisce quei caratteri che per il Bergson appar-tengono alla pura durata. E questa subordinazione deltempo gli consente di dare anche un più adeguato ap-prezzamento dello spazio: spazializzare non è necessa-riamente falsificare; falso è solo lo spazio del materiali-smo, che è posto fuori del tempo, non quello della natu-ra concreta che si fa nel tempo. Un'altra quistione relati-va al tempo è quella ch'è stata posta, con grande scanda-lo, dal relativismo: esiste una sola serie o una pluralitàdi serie temporali? L'A. è per questa seconda alternativa,che discende logicamente dalla negazione del tempo as-soluto: ogni gruppo (set) di eventi ha il suo ordinamentotemporale: il disconoscimento di questo fatto dipende ingran parte dal confondere la variabile t della fisica colconcreto divenire della natura32.

Posti gli eventi nelle loro relazioni spazio-temporali,se si chiede: qual è il fondamento, la sostanza stessa de-gli eventi?, l'A. risponde che questa sostanza non c'è, ameno di voler ricadere negli errori del materialismo. Se-condo siffatta concezione, lo spazio e il tempo dovreb-bero essere gli attributi di una materia; ma tali evidente-mente essi non sono, perché è impossibile esprimerequalsiasi verità spazio-temporale, ricorrendo a terminimateriali di riferimento. In realtà, ciò che esiste non è la32 «La difficoltà di discordanti sistemi temporali è in parte risolta distinguen-

do tra ciò che io chiamo the creative advance in nature, che non è serialeaffatto, e una serie temporale. Noi abitualmente confondiamo insieme que-sto movimento creativo che sperimentiamo e conosciamo come continuatransizione della natura nella novità, con le singole serie temporali che na-turalmente impieghiamo per scopi di misura» (Concept of nature, p. 178).

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sostanza, ma sono gli attributi. «Quel che noi troviamonello spazio è il rosso della rosa e l'odore del gelsomino;noi diciamo al dentista dov'è il dolor di denti: così lospazio non è una relazione tra sostanze, ma tra attribu-ti»33. Meglio avrebbe detto, con termine spinoziano: tramodi; ma il nocciolo dell'argomentazione è egualmentechiaro.

Da queste premesse si delinea, in contrasto col mate-rialismo corrente, una concezione organicistica dellarealtà. Mentre i princìpi del materialismo si applicanosoltanto alle unità astrattissime, prodotti del discerni-mento logico, le entità concrete che durano sono organi-smi, dove il piano della totalità influenza i singoli carat-teri degli organismi subordinati che son compresi inesso. È un non senso chiedere se il colore rosso sia o noreale. Il colore rosso è un ingrediente nel processo direalizzazione cosmica, che ha il suo posto nel piano uni-tario delle cose; anzi bisogna dire che c'è rosso e rosso,ciascuno subordinato, nel suo carattere, al piano che siattua per mezzo di esso. Nel caso poi dell'essere anima-to, gli stati mentali entrano anch'essi nel piano dell'orga-nismo totale e così modificano i piani degli organismisuccessivi (dai più complessi ai più semplici, fino aglielettroni) che costituiscono l'intero individuo. Così unelettrone entro un corpo vivente è diverso da un elettro-ne fuori di esso. Certo, l'elettrone si muove ciecamente,tanto se è fuori quanto se è dentro del corpo; tuttavia

33 Ibid., p. 21.

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sostanza, ma sono gli attributi. «Quel che noi troviamonello spazio è il rosso della rosa e l'odore del gelsomino;noi diciamo al dentista dov'è il dolor di denti: così lospazio non è una relazione tra sostanze, ma tra attribu-ti»33. Meglio avrebbe detto, con termine spinoziano: tramodi; ma il nocciolo dell'argomentazione è egualmentechiaro.

Da queste premesse si delinea, in contrasto col mate-rialismo corrente, una concezione organicistica dellarealtà. Mentre i princìpi del materialismo si applicanosoltanto alle unità astrattissime, prodotti del discerni-mento logico, le entità concrete che durano sono organi-smi, dove il piano della totalità influenza i singoli carat-teri degli organismi subordinati che son compresi inesso. È un non senso chiedere se il colore rosso sia o noreale. Il colore rosso è un ingrediente nel processo direalizzazione cosmica, che ha il suo posto nel piano uni-tario delle cose; anzi bisogna dire che c'è rosso e rosso,ciascuno subordinato, nel suo carattere, al piano che siattua per mezzo di esso. Nel caso poi dell'essere anima-to, gli stati mentali entrano anch'essi nel piano dell'orga-nismo totale e così modificano i piani degli organismisuccessivi (dai più complessi ai più semplici, fino aglielettroni) che costituiscono l'intero individuo. Così unelettrone entro un corpo vivente è diverso da un elettro-ne fuori di esso. Certo, l'elettrone si muove ciecamente,tanto se è fuori quanto se è dentro del corpo; tuttavia

33 Ibid., p. 21.

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esso si muove dentro il corpo in accordo col carattereche ha nel corpo, cioè in accordo col piano generaledell'organismo34.

Ora, da un punto di vista così spiccatamente eracliteo,come si spiega la possibilità della scienza? Infatti unascienza non può fare a meno di oggetti permanenti, sot-tratti in qualche modo all'inafferrabile fluire delle cose.La dottrina degli oggetti scientifici è per il Whiteheadsulla stessa linea delle comuni oggettivazioni della co-mune esperienza. La genesi degli oggetti è nella compa-razione degli eventi. Un oggetto sensibile risulta dallacomposizione di un certo numero di prospettive (cioè dieventi); un oggetto fisico – una cosa materiale – non èche il concorso abituale di un certo gruppo di oggettisensibili in una situazione. E l'origine della conoscenzascientifica è a sua volta nello sforzo di esprimere in ter-mini di oggetti fisici i rôles degli eventi, come condizio-ni attive dell'ingresso degli oggetti sensibili nella natura.Nel progresso di questa investigazione emergono gli og-getti scientifici. Essi incorporano quei caratteri delle si-tuazioni degli oggetti fisici che sono più permanenti eche possono essere espressi senza riferimento a una re-lazione multipla includente un soggetto percipiente. Ilvalore di essi è nella loro semplicità ed uniformità35.

La legge che presiede alle semplificazioni scientificheè chiamata dal Whitehead l'a s tr a z io n e e s te n s iv a .

34 Science and the modern world, p. 98.35 Op. cit., pp. 158, 169.

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esso si muove dentro il corpo in accordo col carattereche ha nel corpo, cioè in accordo col piano generaledell'organismo34.

Ora, da un punto di vista così spiccatamente eracliteo,come si spiega la possibilità della scienza? Infatti unascienza non può fare a meno di oggetti permanenti, sot-tratti in qualche modo all'inafferrabile fluire delle cose.La dottrina degli oggetti scientifici è per il Whiteheadsulla stessa linea delle comuni oggettivazioni della co-mune esperienza. La genesi degli oggetti è nella compa-razione degli eventi. Un oggetto sensibile risulta dallacomposizione di un certo numero di prospettive (cioè dieventi); un oggetto fisico – una cosa materiale – non èche il concorso abituale di un certo gruppo di oggettisensibili in una situazione. E l'origine della conoscenzascientifica è a sua volta nello sforzo di esprimere in ter-mini di oggetti fisici i rôles degli eventi, come condizio-ni attive dell'ingresso degli oggetti sensibili nella natura.Nel progresso di questa investigazione emergono gli og-getti scientifici. Essi incorporano quei caratteri delle si-tuazioni degli oggetti fisici che sono più permanenti eche possono essere espressi senza riferimento a una re-lazione multipla includente un soggetto percipiente. Ilvalore di essi è nella loro semplicità ed uniformità35.

La legge che presiede alle semplificazioni scientificheè chiamata dal Whitehead l'a s tr a z io n e e s te n s iv a .

34 Science and the modern world, p. 98.35 Op. cit., pp. 158, 169.

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Page 40: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

Poiché la connessione mutua degli eventi può essere raf-figurata a quella delle scatole del giocattolo cinese, noipossiamo raggiungere, per via di successive astrazioni,l'ideale di un evento così ristretto nella sua ampiezza, daessere senza estensione nello spazio e nel tempo. Questolimite è un event particle. Certo, noi non dobbiamo pen-sare che il mondo sia formato di eventi-particelle – ciòsignificherebbe porre il carro innanzi ai buoi –; essisono soltanto gli elementi ultimi del quadridimensionalemolteplice, che la teoria della relatività presuppone36. Sudi essi, meglio che sugli atomi del materialismo, si puòcostruire – e l'A. ne dà dei saggi concreti – una dottrinafisica.

Il metodo dell'astrazione estensiva, appena adombratonel precedente riassunto, compie così, nella sua sfera, lostesso compito che il calcolo infinitesimale compie inquella del calcolo numerico, cioè converte un processodi approssimazione empirica in uno strumento di pen-siero esatto. Esso è semplicemente la sistemazione delprocedimento intuitivo dell'esperienza comune, che ri-cerca semplicità di relazioni tra eventi abbastanza ri-stretti nel tempo e nello spazio; la sua maggiore preci-sione consiste in ciò, che esso formula la legge secondocui l'approssimazione si compie e può essere indefinita-mente continuata37.

Fin qui la posizione del Whitehead è abbastanza chia-

36 Ibid., p. 172.37 An enquiry, ecc., p. 16.

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Poiché la connessione mutua degli eventi può essere raf-figurata a quella delle scatole del giocattolo cinese, noipossiamo raggiungere, per via di successive astrazioni,l'ideale di un evento così ristretto nella sua ampiezza, daessere senza estensione nello spazio e nel tempo. Questolimite è un event particle. Certo, noi non dobbiamo pen-sare che il mondo sia formato di eventi-particelle – ciòsignificherebbe porre il carro innanzi ai buoi –; essisono soltanto gli elementi ultimi del quadridimensionalemolteplice, che la teoria della relatività presuppone36. Sudi essi, meglio che sugli atomi del materialismo, si puòcostruire – e l'A. ne dà dei saggi concreti – una dottrinafisica.

Il metodo dell'astrazione estensiva, appena adombratonel precedente riassunto, compie così, nella sua sfera, lostesso compito che il calcolo infinitesimale compie inquella del calcolo numerico, cioè converte un processodi approssimazione empirica in uno strumento di pen-siero esatto. Esso è semplicemente la sistemazione delprocedimento intuitivo dell'esperienza comune, che ri-cerca semplicità di relazioni tra eventi abbastanza ri-stretti nel tempo e nello spazio; la sua maggiore preci-sione consiste in ciò, che esso formula la legge secondocui l'approssimazione si compie e può essere indefinita-mente continuata37.

Fin qui la posizione del Whitehead è abbastanza chia-

36 Ibid., p. 172.37 An enquiry, ecc., p. 16.

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Page 41: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

ra: essa non è che un empirismo più rigoroso di quellotradizionale, con esclusione di tutto ciò che di solitos'introduce di straforo nei sistemi empiristici. E se l'atte-stato della coscienza sensibile, che qui forma l'unico cri-terio della realtà, si limitasse a questi dati, non vi sareb-be nessun serio ostacolo innanzi al realismo del White-head. Ma la difficoltà nasce da ciò che, insieme con quelch'è percepito, v'è il soggetto che percepisce: se ne puòprescindere, è vero, per comodo di semplificazionescientifica; ma, in sede di filosofia, quando si vuol dareuna visione completa della realtà, bisogna sempre finirecol fare i conti con esso.

Anche il Whitehead, non molto diversamentedall'Alexander, crede di sbrigarsi di questo problema colfare del soggetto un evento percipiente (a percipientevent), posto sulla stessa linea, benché in un punto piùelevato, di tutti gli altri: «La formula tecnica soggetto-oggetto, egli soggiunge, esprime malamente la situazio-ne fondamentale che si rivela nell'esperienza. Essa ricor-da l'aristotelico soggetto-predicato, cioè presuppone ladottrina metafisica di diversi soggetti qualificati dai loropredicati ʻprivatiʼ, aventi, in altri termini, dei mondiʻprivatiʼ di esperienza. Se la si accetta, non v'è via diuscita dal solipsismo... La situazione primaria rivelatadall'esperienza conoscitiva invece è l'io-oggetto tra glioggetti. Con ciò io intendo che il fatto primario è unmondo imparziale che trascende il ʻqui oraʼ che caratte-rizza l'io e trascende 1'ʻoraʼ che è il mondo spaziale del-

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ra: essa non è che un empirismo più rigoroso di quellotradizionale, con esclusione di tutto ciò che di solitos'introduce di straforo nei sistemi empiristici. E se l'atte-stato della coscienza sensibile, che qui forma l'unico cri-terio della realtà, si limitasse a questi dati, non vi sareb-be nessun serio ostacolo innanzi al realismo del White-head. Ma la difficoltà nasce da ciò che, insieme con quelch'è percepito, v'è il soggetto che percepisce: se ne puòprescindere, è vero, per comodo di semplificazionescientifica; ma, in sede di filosofia, quando si vuol dareuna visione completa della realtà, bisogna sempre finirecol fare i conti con esso.

Anche il Whitehead, non molto diversamentedall'Alexander, crede di sbrigarsi di questo problema colfare del soggetto un evento percipiente (a percipientevent), posto sulla stessa linea, benché in un punto piùelevato, di tutti gli altri: «La formula tecnica soggetto-oggetto, egli soggiunge, esprime malamente la situazio-ne fondamentale che si rivela nell'esperienza. Essa ricor-da l'aristotelico soggetto-predicato, cioè presuppone ladottrina metafisica di diversi soggetti qualificati dai loropredicati ʻprivatiʼ, aventi, in altri termini, dei mondiʻprivatiʼ di esperienza. Se la si accetta, non v'è via diuscita dal solipsismo... La situazione primaria rivelatadall'esperienza conoscitiva invece è l'io-oggetto tra glioggetti. Con ciò io intendo che il fatto primario è unmondo imparziale che trascende il ʻqui oraʼ che caratte-rizza l'io e trascende 1'ʻoraʼ che è il mondo spaziale del-

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la simultanea realizzazione (la materia). È un mondo,dunque, che include l'attualità del passato, e la limitatapotenzialità del futuro»38.

Ora un mondo imparziale tra la mente e le cose è unavana immaginazione, tanto più quando s'è inteso che lecose non sono che oggetti della coscienza. L'attivitàconsapevole, cioè la mente, non può esser posta allostesso livello dei suoi momenti. Presentimenti di questaverità sono largamente disseminati negli scritti del Whi-tehead, i quali dimostrano la sua capacità di riesaminarele precedenti conclusioni realistiche. Egli non si nascon-de che, in contradizione con la propria tesi, la situazionedella mente nel mondo presenta gradi di diversità daquella dei meri oggetti. La mente non è nello spazio enel tempo come le cose; non ha senso dire (eppure è sta-to detto da altri realisti) che noi pensiamo nello spazio,per esempio in una stanza, o nel tempo, per esempio inun'ora; o almeno, i rapporti che così vengono significatisono talmente estrinseci che non caratterizzano affattol'attività del pensare. Inoltre, mentre nella natura tuttodiviene e passa, la mente ha una capacità di sottrarsi daquesto flusso, per mezzo della memoria. Ed anche dovesi può constatare un «passaggio» della mente, esso si di-stingue dal «passaggio» della natura, pur avendo delleconnessioni con quest'ultimo. «Noi possiamo pensare,se ci piace, che siffatta alleanza del passaggio dellamente col passaggio della natura venga da ciò che am-

38 Science and the modern world, p. 118.

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la simultanea realizzazione (la materia). È un mondo,dunque, che include l'attualità del passato, e la limitatapotenzialità del futuro»38.

Ora un mondo imparziale tra la mente e le cose è unavana immaginazione, tanto più quando s'è inteso che lecose non sono che oggetti della coscienza. L'attivitàconsapevole, cioè la mente, non può esser posta allostesso livello dei suoi momenti. Presentimenti di questaverità sono largamente disseminati negli scritti del Whi-tehead, i quali dimostrano la sua capacità di riesaminarele precedenti conclusioni realistiche. Egli non si nascon-de che, in contradizione con la propria tesi, la situazionedella mente nel mondo presenta gradi di diversità daquella dei meri oggetti. La mente non è nello spazio enel tempo come le cose; non ha senso dire (eppure è sta-to detto da altri realisti) che noi pensiamo nello spazio,per esempio in una stanza, o nel tempo, per esempio inun'ora; o almeno, i rapporti che così vengono significatisono talmente estrinseci che non caratterizzano affattol'attività del pensare. Inoltre, mentre nella natura tuttodiviene e passa, la mente ha una capacità di sottrarsi daquesto flusso, per mezzo della memoria. Ed anche dovesi può constatare un «passaggio» della mente, esso si di-stingue dal «passaggio» della natura, pur avendo delleconnessioni con quest'ultimo. «Noi possiamo pensare,se ci piace, che siffatta alleanza del passaggio dellamente col passaggio della natura venga da ciò che am-

38 Science and the modern world, p. 118.

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bedue partecipano del carattere del ʻpassareʼ che dominaogni essere. Ma siffatta considerazione non ci tocca davicino. L'immediata deduzione che ci interessa è che lamente non è nel tempo allo stesso titolo degli eventi na-turali, ma è solo mediatamente in esso, a causa dellaparticolare alleanza del suo passaggio col passaggio del-la natura. La fondamentale distinzione da ricordare èche l'immediatezza per la coscienza sensibile non è lastessa cosa dell'istantaneità per la natura»39.

Un progresso nel senso indicato si può argomentaredalla più recente e matura opera del Whitehead, che haper titolo: Process and reality.

In questo libro la sua posizione si chiarisce più defini-tamente come un realismo idealistico: due termini chepossono sembrare a prima vista contrastanti, ma che purs'accordano insieme, nel senso che l'autore consideracome primaria, secondo i dettami del realismo, la strut-tura oggettiva della realtà e secondario il sentimento(feeling) soggettivo di essa, ma non materializza quellastruttura, e invece ne fa un processo dinamico e in qual-che modo spirituale. Egli ha coscienza che la sua filoso-fia rappresenta una inversione del punto di vista kantia-no. «La Critica della ragion pura, egli dice, descrive ilprocesso per cui i dati soggettivi creano l'apparenza diun mondo oggettivo. La filosofia dell'organismo cercainvece di descrivere come i dati oggettivi si traduconoin un godimento soggettivo. Per Kant, il mondo emerge39 Concept of nature, pp. 68-69.

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bedue partecipano del carattere del ʻpassareʼ che dominaogni essere. Ma siffatta considerazione non ci tocca davicino. L'immediata deduzione che ci interessa è che lamente non è nel tempo allo stesso titolo degli eventi na-turali, ma è solo mediatamente in esso, a causa dellaparticolare alleanza del suo passaggio col passaggio del-la natura. La fondamentale distinzione da ricordare èche l'immediatezza per la coscienza sensibile non è lastessa cosa dell'istantaneità per la natura»39.

Un progresso nel senso indicato si può argomentaredalla più recente e matura opera del Whitehead, che haper titolo: Process and reality.

In questo libro la sua posizione si chiarisce più defini-tamente come un realismo idealistico: due termini chepossono sembrare a prima vista contrastanti, ma che purs'accordano insieme, nel senso che l'autore consideracome primaria, secondo i dettami del realismo, la strut-tura oggettiva della realtà e secondario il sentimento(feeling) soggettivo di essa, ma non materializza quellastruttura, e invece ne fa un processo dinamico e in qual-che modo spirituale. Egli ha coscienza che la sua filoso-fia rappresenta una inversione del punto di vista kantia-no. «La Critica della ragion pura, egli dice, descrive ilprocesso per cui i dati soggettivi creano l'apparenza diun mondo oggettivo. La filosofia dell'organismo cercainvece di descrivere come i dati oggettivi si traduconoin un godimento soggettivo. Per Kant, il mondo emerge39 Concept of nature, pp. 68-69.

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dal soggetto, per la filosofia dell'organismo il soggettoemerge dal mondo, ed è un super-ject, piuttosto che unsub-ject»40.

Questa posizione è stata sempre il Capo dei naufragidi tutte le filosofie materialistiche; ma il Whitehead puòsorpassarlo incolume, poiché egli include già nel mondooggettivo, almeno potenzialmente, quei caratteri da cuiemergerà poi la soggettività cosciente. Innanzi tutto, eglipone come principio direttivo della sua cosmologial'idea che «il come un'attuale entità diviene costituisceciò che essa è. Il suo essere, dunque, è costituito dal suodivenire. Questo è il principio del processo» (p. 31).Inoltre, ogni processo è bipolare: da una parte, esso èqualificato dalla determinatezza del mondo attuale, omeglio dall'attualità dei singoli eventi puntuali;dall'altra, dagli «eterni oggetti», e, più particolarmente,dal riferimento degli eventi ad essi. Per «eterni oggetti»il Whitehead intende le categorie dell'essere, o, conun'espressione fisica più appropriata, «i puri potenzialiper la determinazione di fatto»41. Se togliamo di mezzoquesta nomenclatura artificiosa e complicata, che rendela lettura del libro un vero tormento, in sostanza il Whi-tehead vuol dire che per individuare il processo dellarealtà fisica non basta la considerazione dei puri ele-menti puntuali e irrelati, poiché ognuno di essi divienese stesso solo in rapporto con altri e con la sezione della40 WHITEHEAD, Process and reality. An essay in cosmology (Gifford Lectures,

1927-28), Cambridge, Univ. Press, 1929, p. 123.41 Op. cit., p. 29.

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dal soggetto, per la filosofia dell'organismo il soggettoemerge dal mondo, ed è un super-ject, piuttosto che unsub-ject»40.

Questa posizione è stata sempre il Capo dei naufragidi tutte le filosofie materialistiche; ma il Whitehead puòsorpassarlo incolume, poiché egli include già nel mondooggettivo, almeno potenzialmente, quei caratteri da cuiemergerà poi la soggettività cosciente. Innanzi tutto, eglipone come principio direttivo della sua cosmologial'idea che «il come un'attuale entità diviene costituisceciò che essa è. Il suo essere, dunque, è costituito dal suodivenire. Questo è il principio del processo» (p. 31).Inoltre, ogni processo è bipolare: da una parte, esso èqualificato dalla determinatezza del mondo attuale, omeglio dall'attualità dei singoli eventi puntuali;dall'altra, dagli «eterni oggetti», e, più particolarmente,dal riferimento degli eventi ad essi. Per «eterni oggetti»il Whitehead intende le categorie dell'essere, o, conun'espressione fisica più appropriata, «i puri potenzialiper la determinazione di fatto»41. Se togliamo di mezzoquesta nomenclatura artificiosa e complicata, che rendela lettura del libro un vero tormento, in sostanza il Whi-tehead vuol dire che per individuare il processo dellarealtà fisica non basta la considerazione dei puri ele-menti puntuali e irrelati, poiché ognuno di essi divienese stesso solo in rapporto con altri e con la sezione della40 WHITEHEAD, Process and reality. An essay in cosmology (Gifford Lectures,

1927-28), Cambridge, Univ. Press, 1929, p. 123.41 Op. cit., p. 29.

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realtà in cui è chiamato ad operare. Così, lo stesso ato-mo fisico non è identico, tanto nella materia così dettabruta, quanto nella materia organica, ma si conformanella sua azione (che è anche il suo essere) alla leggedel campo in cui è compreso. L'organicità diviene quin-di il principio costitutivo del mondo fisico. Ciò vuol direche le reazioni della materia sono sempre in qualchemodo nuove e originali. E la misura della loro vitalità èdata dal grado della loro inesplicabilità mediante una«mera tradizione fisica». Spiegare per «tradizione» si-gnifica spiegare per cause efficienti e meccaniche. Siesige dunque una spiegazione per cause finali (nel sensokantiano, di un tutto che determina le sue parti)42.

Col porre che ogni entità è in relazione ad altro, ilWhitehead non fa che postulare che essa è nel tempostesso fisica e mentale, intendendo per mentalità, alme-no in un senso embrionale, il fatto o l'atto della relazio-ne (relatedness). Questa embrionale mentalità si manife-sta per mezzo di ciò che il Whitehead chiama «prensio-ne» (che è lo stadio più elementare e fisico dell'appren-sione e dell'appercezione). Questo concetto ci si rendepiù familiare, ponendolo in rapporto con quello dellepetites perceptions del Leibniz. Se ogni evento è in rela-zione ad altro (evento od eterno oggetto), vuol dire cheesso prende qualcosa dall'altro, e questo prendere è giàun elementare sentire. E poiché i rapporti sono recipro-ci, ogni cosa è «prendente» e «presa», è soggetto ed og-

42 Ibid., p. 145.

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realtà in cui è chiamato ad operare. Così, lo stesso ato-mo fisico non è identico, tanto nella materia così dettabruta, quanto nella materia organica, ma si conformanella sua azione (che è anche il suo essere) alla leggedel campo in cui è compreso. L'organicità diviene quin-di il principio costitutivo del mondo fisico. Ciò vuol direche le reazioni della materia sono sempre in qualchemodo nuove e originali. E la misura della loro vitalità èdata dal grado della loro inesplicabilità mediante una«mera tradizione fisica». Spiegare per «tradizione» si-gnifica spiegare per cause efficienti e meccaniche. Siesige dunque una spiegazione per cause finali (nel sensokantiano, di un tutto che determina le sue parti)42.

Col porre che ogni entità è in relazione ad altro, ilWhitehead non fa che postulare che essa è nel tempostesso fisica e mentale, intendendo per mentalità, alme-no in un senso embrionale, il fatto o l'atto della relazio-ne (relatedness). Questa embrionale mentalità si manife-sta per mezzo di ciò che il Whitehead chiama «prensio-ne» (che è lo stadio più elementare e fisico dell'appren-sione e dell'appercezione). Questo concetto ci si rendepiù familiare, ponendolo in rapporto con quello dellepetites perceptions del Leibniz. Se ogni evento è in rela-zione ad altro (evento od eterno oggetto), vuol dire cheesso prende qualcosa dall'altro, e questo prendere è giàun elementare sentire. E poiché i rapporti sono recipro-ci, ogni cosa è «prendente» e «presa», è soggetto ed og-

42 Ibid., p. 145.

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getto43. Ciò conferma quanto precedentemente diceva-mo, che per il Whitehead la soggettività non è un'appari-zione inesplicabile in un mondo materiale, ma ha già inquesto le sue radici profonde, e se ne dispiega ed «emer-ge» con un processo graduale che culmina nella co-scienza umana44.

43 Ibid., p. 78.44 Abbiamo tralasciato l'esame della concezione religiosa del W. (esposta

principalmente in Religion in the making, 1927), che si sforza di comporreinsieme, nella stessa natura divina, il dinamismo degli eventi naturali conla staticità degli oggetti eterni. Su di essa, come su tutta la teoria del W., siveda l'ampio e particolareggiato studio del WAHL, La philosophiespéculative de Whitehead (nel vol. Vers le concret, 1932, pp. 127-221).

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getto43. Ciò conferma quanto precedentemente diceva-mo, che per il Whitehead la soggettività non è un'appari-zione inesplicabile in un mondo materiale, ma ha già inquesto le sue radici profonde, e se ne dispiega ed «emer-ge» con un processo graduale che culmina nella co-scienza umana44.

43 Ibid., p. 78.44 Abbiamo tralasciato l'esame della concezione religiosa del W. (esposta

principalmente in Religion in the making, 1927), che si sforza di comporreinsieme, nella stessa natura divina, il dinamismo degli eventi naturali conla staticità degli oggetti eterni. Su di essa, come su tutta la teoria del W., siveda l'ampio e particolareggiato studio del WAHL, La philosophiespéculative de Whitehead (nel vol. Vers le concret, 1932, pp. 127-221).

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III

GLI EPIGONI DEL REALISMO

Chi voglia formarsi un'idea, anche soltanto generale,delle controversie dottrinarie che oggi più appassionanoil pubblico filosofico inglese, non può limitarsi alla co-noscenza degli scritti dell'Alexander, nei quali lo spiritodi sistema dà un'apparenza di compattezza e di soliditàall'intuizione realistica, né a quelli del Whitehead, chesono frutti di una riflessione molto personale, al di sopradi ogni scuola; bisogna che percorra anche le opere deiminori, degli epigoni del realismo, dove quell'intuizionesi frantuma in una miriade di vedute particolari e diver-genti che riproducono tutte le gradazioni possibili delrealismo, dal realismo ingenuo, al realismo fisico, alrealismo psicologico, al realismo platonico della scola-stica. Gl'inglesi, con la coscienziosità che ad essi è pro-pria, non hanno lasciato nessuna via intentata, nessunadifficoltà non discussa fino all'esasperazione, nessunacredenza non intaccata dalla critica. Nei loro riguardi sipotrebbe pertanto ripetere l'arguto giudizio della duches-sa di Munro, la quale diceva di compiacersi che la mi-

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GLI EPIGONI DEL REALISMO

Chi voglia formarsi un'idea, anche soltanto generale,delle controversie dottrinarie che oggi più appassionanoil pubblico filosofico inglese, non può limitarsi alla co-noscenza degli scritti dell'Alexander, nei quali lo spiritodi sistema dà un'apparenza di compattezza e di soliditàall'intuizione realistica, né a quelli del Whitehead, chesono frutti di una riflessione molto personale, al di sopradi ogni scuola; bisogna che percorra anche le opere deiminori, degli epigoni del realismo, dove quell'intuizionesi frantuma in una miriade di vedute particolari e diver-genti che riproducono tutte le gradazioni possibili delrealismo, dal realismo ingenuo, al realismo fisico, alrealismo psicologico, al realismo platonico della scola-stica. Gl'inglesi, con la coscienziosità che ad essi è pro-pria, non hanno lasciato nessuna via intentata, nessunadifficoltà non discussa fino all'esasperazione, nessunacredenza non intaccata dalla critica. Nei loro riguardi sipotrebbe pertanto ripetere l'arguto giudizio della duches-sa di Munro, la quale diceva di compiacersi che la mi-

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scredenza fosse finalmente divenuta impossibile, dacchéi teologi liberali non avevano lasciato più in piedi nullasu cui esercitarla (nothing to disbelieve in)45.

Noi non c'ingolferemo troppo in questo labirinto, maci terremo vicini all'uscita, non senza provvederci di unfilo conduttore. La preoccupazione più assillante delrealismo è di assicurare la realtà e la consistenza ogget-tiva del mondo esterno, contro le minacce dell'ideali-smo; s'intende, specialmente, dell'idealismo berkeleya-no, oltre del quale è molto raro che un pensatore inglesene sospetti un altro. Ora, la dottrina della sensibilità,così come s'è venuta svolgendo nel corso della filosofiamoderna, tende a fare, delle cose sentite, semplici modi-ficazioni del soggetto senziente, riducendo il mondo aun possesso «privato» del soggetto, in luogo di farneun'esistenza di «ragion pubblica». E, poiché tutto quelloche noi sappiamo delle cose si fonda, almeno quantoalla materia, sulla sensazione, un tale soggettivismo cor-rode ogni forma di oggettività. Secondo i realisti, biso-gna capovolgere questa posizione tradizionale, e mo-strare che il movimento della conoscenza non va da noialle cose, ma dalle cose a noi; così, per esempio, gli oc-chi non debbono essere considerati come delle «uscite»(exits), ma come delle «entrate» (entrances); essi nonsono le finestre, attraverso le quali la mente può guardarfuori, ma canali attraverso i quali le correnti nervose,

45 Riferito da BROAD, in Scientific Thought, London, 1923, p. 242.

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scredenza fosse finalmente divenuta impossibile, dacchéi teologi liberali non avevano lasciato più in piedi nullasu cui esercitarla (nothing to disbelieve in)45.

Noi non c'ingolferemo troppo in questo labirinto, maci terremo vicini all'uscita, non senza provvederci di unfilo conduttore. La preoccupazione più assillante delrealismo è di assicurare la realtà e la consistenza ogget-tiva del mondo esterno, contro le minacce dell'ideali-smo; s'intende, specialmente, dell'idealismo berkeleya-no, oltre del quale è molto raro che un pensatore inglesene sospetti un altro. Ora, la dottrina della sensibilità,così come s'è venuta svolgendo nel corso della filosofiamoderna, tende a fare, delle cose sentite, semplici modi-ficazioni del soggetto senziente, riducendo il mondo aun possesso «privato» del soggetto, in luogo di farneun'esistenza di «ragion pubblica». E, poiché tutto quelloche noi sappiamo delle cose si fonda, almeno quantoalla materia, sulla sensazione, un tale soggettivismo cor-rode ogni forma di oggettività. Secondo i realisti, biso-gna capovolgere questa posizione tradizionale, e mo-strare che il movimento della conoscenza non va da noialle cose, ma dalle cose a noi; così, per esempio, gli oc-chi non debbono essere considerati come delle «uscite»(exits), ma come delle «entrate» (entrances); essi nonsono le finestre, attraverso le quali la mente può guardarfuori, ma canali attraverso i quali le correnti nervose,

45 Riferito da BROAD, in Scientific Thought, London, 1923, p. 242.

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suscitate dalle azioni esterne, passano nel cervello46.Il mezzo più radicale per battere in breccia il soggetti-

vismo è, indubbiamente, quello che vien proposto dalRussell, che negli ultimi anni ha riunito le sue preceden-ti rapsodie filosofiche in una trilogia sistematica47. E sif-fatto mezzo consiste nel sopprimere senz'altro il sogget-to: questo non è che una finzione logica, come i puntidella matematica, e viene introdotto, non perché sia ri-velato dall'osservazione, ma per ragioni di convenienzalinguistica e grammaticale. Si potrebbe obiettare che, ol-tre il soggetto grammaticale, c'è il soggetto cosciente econoscente. Ma il Russell, una volta sulla via delle ne-gazioni, non esita a negare anche la coscienza. Non pro-priamente il fatto della coscienza, che sarebbe troppo;ma il significato che di solito gli si attribuisce. Dire, eglispiega, che un fenomeno è cosciente di un altro, signifi-ca stabilire tra i due un rapporto esteriore e piuttostolontano, simile a quello che esiste tra zio e nipote: unuomo diviene zio senza alcuno sforzo, per effetto di unavvenimento che si è compiuto in qualche parte al difuori e indipendentemente da lui. Io non dubito che ilRussell si renda cosciente delle cose con tanta facilità;forse un Kant vi poneva maggiore sforzo ed impegno;ma neppure si può negare che la coscienza di Kant an-dasse un po' più a fondo delle cose.

46 NORMAN KEMP SMITH, Prolegomena to an idealistic theory of knowledge,London, 1924, p. 17.

47 BERTRAND RUSSELL, Analysis of Mind; Analysis of Matter; An outline ofPhilosophy.

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suscitate dalle azioni esterne, passano nel cervello46.Il mezzo più radicale per battere in breccia il soggetti-

vismo è, indubbiamente, quello che vien proposto dalRussell, che negli ultimi anni ha riunito le sue preceden-ti rapsodie filosofiche in una trilogia sistematica47. E sif-fatto mezzo consiste nel sopprimere senz'altro il sogget-to: questo non è che una finzione logica, come i puntidella matematica, e viene introdotto, non perché sia ri-velato dall'osservazione, ma per ragioni di convenienzalinguistica e grammaticale. Si potrebbe obiettare che, ol-tre il soggetto grammaticale, c'è il soggetto cosciente econoscente. Ma il Russell, una volta sulla via delle ne-gazioni, non esita a negare anche la coscienza. Non pro-priamente il fatto della coscienza, che sarebbe troppo;ma il significato che di solito gli si attribuisce. Dire, eglispiega, che un fenomeno è cosciente di un altro, signifi-ca stabilire tra i due un rapporto esteriore e piuttostolontano, simile a quello che esiste tra zio e nipote: unuomo diviene zio senza alcuno sforzo, per effetto di unavvenimento che si è compiuto in qualche parte al difuori e indipendentemente da lui. Io non dubito che ilRussell si renda cosciente delle cose con tanta facilità;forse un Kant vi poneva maggiore sforzo ed impegno;ma neppure si può negare che la coscienza di Kant an-dasse un po' più a fondo delle cose.

46 NORMAN KEMP SMITH, Prolegomena to an idealistic theory of knowledge,London, 1924, p. 17.

47 BERTRAND RUSSELL, Analysis of Mind; Analysis of Matter; An outline ofPhilosophy.

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Come della coscienza, così della conoscenza ci si puòsbrigare, coi realisti americani, dicendo che le percezio-ni non sono per sé dei casi di conoscenza, ma sono sem-plicemente degli avvenimenti naturali, che non implica-no maggiore conoscenza di qualunque altro avvenimen-to nella natura, per esempio, di una pioggia. Di unapioggia o della sensazione di una pioggia? Qui mi pareche sia tutto l'escamotage.

A ogni modo, liberati a buon mercato di un incomodosoggetto, possiamo navigare senza difficoltà in pienooggettivismo. I fatti fisici, i fatti fisiologici, i fatti psico-logici si pongono tutti sullo stesso piano e tra essi sonopossibili quelle interazioni che apparivano incompatibilitra una coscienza e un pezzo di materia. Nel fatto, peresempio, della percezione di una stella, noi possiamosostituire all'io cosciente una lastra fotografica. Tra que-sti due oggetti esiste un rapporto da passivo ad attivo; ela passività della lastra tien luogo esattamente di quelladel soggetto senziente. Ma è proprio sicuro il Russellche la lastra fotografica veda la stella; o non è piuttostoegli stesso, soggetto suo malgrado, che vede la stella ela fotografia della stella?

Eliminando il soggetto cosciente, è facile poi elimina-re anche un'altra entità metafisica: la materia. Se quelleche io chiamo sensazioni sono le cose stesse, non giàmiei atti di conoscenza, è inutile ricercare dietro di esseun'entità materiale che le sostenga: si sostengono da sé.Così risulta fondato il realismo neutro, cioè una dottrina

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Come della coscienza, così della conoscenza ci si puòsbrigare, coi realisti americani, dicendo che le percezio-ni non sono per sé dei casi di conoscenza, ma sono sem-plicemente degli avvenimenti naturali, che non implica-no maggiore conoscenza di qualunque altro avvenimen-to nella natura, per esempio, di una pioggia. Di unapioggia o della sensazione di una pioggia? Qui mi pareche sia tutto l'escamotage.

A ogni modo, liberati a buon mercato di un incomodosoggetto, possiamo navigare senza difficoltà in pienooggettivismo. I fatti fisici, i fatti fisiologici, i fatti psico-logici si pongono tutti sullo stesso piano e tra essi sonopossibili quelle interazioni che apparivano incompatibilitra una coscienza e un pezzo di materia. Nel fatto, peresempio, della percezione di una stella, noi possiamosostituire all'io cosciente una lastra fotografica. Tra que-sti due oggetti esiste un rapporto da passivo ad attivo; ela passività della lastra tien luogo esattamente di quelladel soggetto senziente. Ma è proprio sicuro il Russellche la lastra fotografica veda la stella; o non è piuttostoegli stesso, soggetto suo malgrado, che vede la stella ela fotografia della stella?

Eliminando il soggetto cosciente, è facile poi elimina-re anche un'altra entità metafisica: la materia. Se quelleche io chiamo sensazioni sono le cose stesse, non giàmiei atti di conoscenza, è inutile ricercare dietro di esseun'entità materiale che le sostenga: si sostengono da sé.Così risulta fondato il realismo neutro, cioè una dottrina

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imparziale tra la mente e gli oggetti, che rivela in en-trambi la medesima sostanza costitutiva: la mind-stuff.Noi possiamo passar oltre: concezioni come questa, danoi, per buona sorte, non si criticano più, se non a titolodi esercitazioni scolastiche.

Molto più cauti sono altri due dottori (li chiamereidoctores subtiles) della scuola: il Moore e il Broad.Anch'essi vogliono porsi in un mondo «ufficiale», «pub-blico» e non meramente privato; anche per essi non c'èun problema da risolvere, che concerna il modo di usci-re dal circolo delle nostre idee e sensazioni: il semplicefatto di avere una sensazione significa essere fuori diquel circolo48. In altri termini, esistono oggettivamente icontenuti dei sensi e gli oggetti fisici le cui vibrazionistimolano i nostri organi e danno luogo alle sensazioni;ma esistono anche, e meritano di essere tenuti in conto, isoggetti senzienti e coscienti.

Qui le cose si complicano, perché vengon poste treentità, dove il Russell sbrigativamente ne poneva una.Innanzi tutto, qual è il rapporto tra i contenuti sensibili(i sensa, come vengono chiamati) e gli oggetti fisici,dato che siano delle cose distinte? Due teorie ci sono of-ferte: quella delle relazioni multiple, di Dawes Hicks edi G. E. Moore, secondo cui l'oggetto fisico non è cheun complesso di relazioni tra vari punti di vista sensibili(cioè un complesso di sensa); l'altra – la object theory –del Broad, secondo la quale c'è un sensum, un sentito,48 G. E. MOORE, Philosophical Studies, London, 1922, p. 27.

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imparziale tra la mente e gli oggetti, che rivela in en-trambi la medesima sostanza costitutiva: la mind-stuff.Noi possiamo passar oltre: concezioni come questa, danoi, per buona sorte, non si criticano più, se non a titolodi esercitazioni scolastiche.

Molto più cauti sono altri due dottori (li chiamereidoctores subtiles) della scuola: il Moore e il Broad.Anch'essi vogliono porsi in un mondo «ufficiale», «pub-blico» e non meramente privato; anche per essi non c'èun problema da risolvere, che concerna il modo di usci-re dal circolo delle nostre idee e sensazioni: il semplicefatto di avere una sensazione significa essere fuori diquel circolo48. In altri termini, esistono oggettivamente icontenuti dei sensi e gli oggetti fisici le cui vibrazionistimolano i nostri organi e danno luogo alle sensazioni;ma esistono anche, e meritano di essere tenuti in conto, isoggetti senzienti e coscienti.

Qui le cose si complicano, perché vengon poste treentità, dove il Russell sbrigativamente ne poneva una.Innanzi tutto, qual è il rapporto tra i contenuti sensibili(i sensa, come vengono chiamati) e gli oggetti fisici,dato che siano delle cose distinte? Due teorie ci sono of-ferte: quella delle relazioni multiple, di Dawes Hicks edi G. E. Moore, secondo cui l'oggetto fisico non è cheun complesso di relazioni tra vari punti di vista sensibili(cioè un complesso di sensa); l'altra – la object theory –del Broad, secondo la quale c'è un sensum, un sentito,48 G. E. MOORE, Philosophical Studies, London, 1922, p. 27.

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che forma un'essenza intermedia a parte, tra l'oggetto fi-sico e il soggetto senziente. Io credo di poter dare diquesto sensum un equivalente esatto, servendomi di unnome familiare allo studioso di filosofia medievale: essoè la specie sensibile degli scolastici.

Questa dottrina dei sensa è forse uno dei tratti più ca-ratteristici del realismo inglese. Si è voluto creare permezzo di essi un elemento non solo intermedio, ma an-che mediatore, tra il soggetto psicologico e la realtà fisi-ca, per evitare un troppo crudo contatto (l'influxusphysicus) dei due termini eterogenei. I sensa dipendono,da una parte, dalla mente, ma non sono semplici stati omodi della mente: come dice il Kemp Smith, essi sonooggetti di fronte a soggetti, e come tali vengono appresi,contemplati, e non creati dall'atto del sentire49. Li si puòrassomigliare – ciò che conferma la loro analogia con lespecie sensibili della scolastica – alle immagini mentali;con la differenza, però, che vanno considerati come im-magini esistenti per sé, indipendentemente dall'essererappresentate (unimaged images). Non c'è infatti, sog-giunge il Broad, a cui questa comparazione è dovuta50,ragione intrinseca perché dei tratti colorati non siano ca-paci di esistere, anche non veduti. D'altra parte, essisono in rapporto con gli oggetti fisici, di cui costituisco-no la ratio cognoscendi, e a lor volta ne dipendono,come dalla propria ratio essendi. Si dovrà dire allora

49 KEMP SMITH, Op. cit., p. 19.50 BROAD, Scientific Thought, pp. 259, 265.

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che forma un'essenza intermedia a parte, tra l'oggetto fi-sico e il soggetto senziente. Io credo di poter dare diquesto sensum un equivalente esatto, servendomi di unnome familiare allo studioso di filosofia medievale: essoè la specie sensibile degli scolastici.

Questa dottrina dei sensa è forse uno dei tratti più ca-ratteristici del realismo inglese. Si è voluto creare permezzo di essi un elemento non solo intermedio, ma an-che mediatore, tra il soggetto psicologico e la realtà fisi-ca, per evitare un troppo crudo contatto (l'influxusphysicus) dei due termini eterogenei. I sensa dipendono,da una parte, dalla mente, ma non sono semplici stati omodi della mente: come dice il Kemp Smith, essi sonooggetti di fronte a soggetti, e come tali vengono appresi,contemplati, e non creati dall'atto del sentire49. Li si puòrassomigliare – ciò che conferma la loro analogia con lespecie sensibili della scolastica – alle immagini mentali;con la differenza, però, che vanno considerati come im-magini esistenti per sé, indipendentemente dall'essererappresentate (unimaged images). Non c'è infatti, sog-giunge il Broad, a cui questa comparazione è dovuta50,ragione intrinseca perché dei tratti colorati non siano ca-paci di esistere, anche non veduti. D'altra parte, essisono in rapporto con gli oggetti fisici, di cui costituisco-no la ratio cognoscendi, e a lor volta ne dipendono,come dalla propria ratio essendi. Si dovrà dire allora

49 KEMP SMITH, Op. cit., p. 19.50 BROAD, Scientific Thought, pp. 259, 265.

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che un sensum di colore rosso esista come talenell'oggetto fisico? e non si contraddice così alla vedutascientifica, secondo la quale i dati oggettivi non sonocolori, ma vibrazioni dell'etere luminoso? Sarebbe unerrore, risponde il Broad, asserire che, in base ai datidell'ottica, il colore non possa esistere negli oggetti; lateoria della luce afferma, per esempio, che quando noiavvertiamo un sensum rosso, delle vibrazioni di una cer-ta frequenza colpiscono la retina. Ma questo non provache i corpi che emettono vibrazioni di quella frequenzanon siano letteralmente rossi, perché potrebbe ben darsiche solo dei corpi rossi possano emettere tali vibrazio-ni51.

I sensa sono dunque negli oggetti. Ma in che modo,poi, passano nel soggetto che percepisce? Qui sorge unanuova complicazione, a causa di un altro elemento ches'interpone tra il sensum e il soggetto senziente: il siste-ma nervoso. Si deve attribuire a quest'ultimo una partecostitutiva, creativa, nella formazione della percezionesensibile, o soltanto un'azione afferente, e di che specie?Su questo punto, il realismo si biforca in due vedute di-vergenti: l'una che è professata dall'Alexander, il quale asua volta la mutua al Bergson, è che il sistema nervosoabbia soltanto una efficacia selettiva, sia destinato cioè ascegliere, dalla massa delle immagini (dei sensa) che siaffollano intorno alla coscienza, quelle soltanto che ri-spondono a un interesse vitale, pratico, dell'individuo, e

51 Ibid., p. 280.

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che un sensum di colore rosso esista come talenell'oggetto fisico? e non si contraddice così alla vedutascientifica, secondo la quale i dati oggettivi non sonocolori, ma vibrazioni dell'etere luminoso? Sarebbe unerrore, risponde il Broad, asserire che, in base ai datidell'ottica, il colore non possa esistere negli oggetti; lateoria della luce afferma, per esempio, che quando noiavvertiamo un sensum rosso, delle vibrazioni di una cer-ta frequenza colpiscono la retina. Ma questo non provache i corpi che emettono vibrazioni di quella frequenzanon siano letteralmente rossi, perché potrebbe ben darsiche solo dei corpi rossi possano emettere tali vibrazio-ni51.

I sensa sono dunque negli oggetti. Ma in che modo,poi, passano nel soggetto che percepisce? Qui sorge unanuova complicazione, a causa di un altro elemento ches'interpone tra il sensum e il soggetto senziente: il siste-ma nervoso. Si deve attribuire a quest'ultimo una partecostitutiva, creativa, nella formazione della percezionesensibile, o soltanto un'azione afferente, e di che specie?Su questo punto, il realismo si biforca in due vedute di-vergenti: l'una che è professata dall'Alexander, il quale asua volta la mutua al Bergson, è che il sistema nervosoabbia soltanto una efficacia selettiva, sia destinato cioè ascegliere, dalla massa delle immagini (dei sensa) che siaffollano intorno alla coscienza, quelle soltanto che ri-spondono a un interesse vitale, pratico, dell'individuo, e

51 Ibid., p. 280.

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a ricacciar nell'ombra tutte le altre. A questa teoria vieneobiettato da altri scrittori, tra i quali il Broad52 e il KempSmith53, che essa costringe a postulare una sterminatavarietà e complessità di immagini o di sensa per ciascunoggetto empirico. Un albero, una casa, per esempio, ap-paiono diversamente a diversi individui, ed anche allostesso individuo in diverse situazioni; ciò implichereb-be, nella teoria dei sensa, un'infinità d'immagini oggetti-ve, corrispondenti ciascuna a una possibile prospettivadi un qualunque osservatore; cosa che sembra inammis-sibile54. Senza contare, poi, che il cervello, al quale spet-ta, in tale ipotesi di esercitare una funzione discriminan-te e selettiva, dovrebbe avere una potenza anche più mi-racolosa di quella che gli attribuiscono i materialisti,quando fanno scaturire da esso il pensiero.

A questa dottrina gli scrittori testé citati sostituisconouna concezione che essi chiamano «generativa», e checonsiste nell'attribuire ai processi fisiologici (nervosi) lacapacità di collaborare alla formazione stessa dei sensa;il che sarebbe confermato da esempi di molti processipatologici, nei quali si rivela chiaramente la capacità deinervi e della corteccia cerebrale di creare delle sensazio-ni, anche senza uno stimolo adeguato e appropriato. Ma

52 Ibid., pp. 526 sgg.53 KEMP SMITH, Op. cit., pp. 89 sgg.54 L'Alexander vorrebbe sormontare questa difficoltà, paragonando i sensa

alle sezioni matematiche in cui mentalmente possiamo decomporre un og-getto; ma se è concepibile un'infinità di sezioni matematiche, trattandosi dilinee e piani astratti, immaginari, non sembra egualmente accettabile l'ideadi un'infinità attuale di immagini-sezioni reali.

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a ricacciar nell'ombra tutte le altre. A questa teoria vieneobiettato da altri scrittori, tra i quali il Broad52 e il KempSmith53, che essa costringe a postulare una sterminatavarietà e complessità di immagini o di sensa per ciascunoggetto empirico. Un albero, una casa, per esempio, ap-paiono diversamente a diversi individui, ed anche allostesso individuo in diverse situazioni; ciò implichereb-be, nella teoria dei sensa, un'infinità d'immagini oggetti-ve, corrispondenti ciascuna a una possibile prospettivadi un qualunque osservatore; cosa che sembra inammis-sibile54. Senza contare, poi, che il cervello, al quale spet-ta, in tale ipotesi di esercitare una funzione discriminan-te e selettiva, dovrebbe avere una potenza anche più mi-racolosa di quella che gli attribuiscono i materialisti,quando fanno scaturire da esso il pensiero.

A questa dottrina gli scrittori testé citati sostituisconouna concezione che essi chiamano «generativa», e checonsiste nell'attribuire ai processi fisiologici (nervosi) lacapacità di collaborare alla formazione stessa dei sensa;il che sarebbe confermato da esempi di molti processipatologici, nei quali si rivela chiaramente la capacità deinervi e della corteccia cerebrale di creare delle sensazio-ni, anche senza uno stimolo adeguato e appropriato. Ma

52 Ibid., pp. 526 sgg.53 KEMP SMITH, Op. cit., pp. 89 sgg.54 L'Alexander vorrebbe sormontare questa difficoltà, paragonando i sensa

alle sezioni matematiche in cui mentalmente possiamo decomporre un og-getto; ma se è concepibile un'infinità di sezioni matematiche, trattandosi dilinee e piani astratti, immaginari, non sembra egualmente accettabile l'ideadi un'infinità attuale di immagini-sezioni reali.

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se si accetta questa veduta, che resta più della pretesaoggettività dei sensa? Ed è lecito poi presumere che, seil soggetto fisiologico imprime, già esso solo, una im-pronta soggettivistica o un carattere «privato» alla vitasensibile, tanto più forte dovrà imprimerla il soggettopsicologico, una volta che venga preso in seria conside-razione.

Qui il realismo viene a trovarsi, ancora una volta, in-nanzi a una svolta. Secondo le sue premesse originarie,esso dovrebbe star fermo al principio, che il soggettoconoscente non aggiunge nulla di suo al mondo, e nonfa che contemplare ciò che gli è già dato oggettivamen-te. Ma questa assunzione è contestata da alcuni deglistessi realisti: è concepibile mai, essi dicono, che l'appa-rato fisiologico abbia parte effettiva nel determinare lastruttura degli oggetti, e tutto l'organismo spirituale nonne abbia alcuna? La natura, che in ogni ordine o gradodella realtà realizza un incremento sull'ordine o gradoanteriore, dovrebbe fare un'eccezione proprio per lo spi-rito umano, cioè per l'ordine più alto che essa raggiungenella sua evoluzione?

Così il Broad, che nel citato libro sul «Pensiero scien-tifico» attribuiva un valore ontologico ai sensa, in unoscritto seguente, The mind and its place in Nature, simostra sotto l'influsso di un indirizzo alquanto divergen-te, che negli ultimi anni va acquistando sempre maggiorfavore tra i filosofi inglesi, e che prende nome di dottri-na dell'evoluzione emergente. Il termine e m e rg e n t e,

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se si accetta questa veduta, che resta più della pretesaoggettività dei sensa? Ed è lecito poi presumere che, seil soggetto fisiologico imprime, già esso solo, una im-pronta soggettivistica o un carattere «privato» alla vitasensibile, tanto più forte dovrà imprimerla il soggettopsicologico, una volta che venga preso in seria conside-razione.

Qui il realismo viene a trovarsi, ancora una volta, in-nanzi a una svolta. Secondo le sue premesse originarie,esso dovrebbe star fermo al principio, che il soggettoconoscente non aggiunge nulla di suo al mondo, e nonfa che contemplare ciò che gli è già dato oggettivamen-te. Ma questa assunzione è contestata da alcuni deglistessi realisti: è concepibile mai, essi dicono, che l'appa-rato fisiologico abbia parte effettiva nel determinare lastruttura degli oggetti, e tutto l'organismo spirituale nonne abbia alcuna? La natura, che in ogni ordine o gradodella realtà realizza un incremento sull'ordine o gradoanteriore, dovrebbe fare un'eccezione proprio per lo spi-rito umano, cioè per l'ordine più alto che essa raggiungenella sua evoluzione?

Così il Broad, che nel citato libro sul «Pensiero scien-tifico» attribuiva un valore ontologico ai sensa, in unoscritto seguente, The mind and its place in Nature, simostra sotto l'influsso di un indirizzo alquanto divergen-te, che negli ultimi anni va acquistando sempre maggiorfavore tra i filosofi inglesi, e che prende nome di dottri-na dell'evoluzione emergente. Il termine e m e rg e n t e,

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in contrapposto al termine r i s u l ta n t e, in uso nellameccanica, fu adoperato la prima volta da G. H. Lewesnei suoi Problems of Life and Mind. Ma la formulazionepiù completa della teoria che vi si connette è stata data,sulle tracce del Bergson e dell'Alexander, dal LloydMorgan. Essa muove dalla premessa che in nessun casoil comportamento (behaviour) di un tutto composto divari ingredienti possa essere completamente determina-to, e quindi sicuramente previsto, in base alle qualità deisingoli componenti. Per esempio, già nella stessa fisica,la risultante meccanica di due forze, moventisi secondoun certo angolo, è la somma v e t to r ia l e delle due for-ze: questo v e t to r e è un'emergenza nuova. In un com-posto chimico, i pesi dei componenti danno un risultatoprevedibile, ma le qualità del nuovo corpo che ne risultasono nuove e non implicite negli elementi costitutivi.Anche più forte è il distacco, e quindi l'emergenza,dall'ordine chimico all'ordine fisiologico, e costituisceun'istanza a favore del vitalismo, pur senza l'entelechiadel Driesch. Si può già presumere che l'emergenza siamassima nell'ordine dei fatti psicologici55.

Il lettore che ha familiarità coi principali indirizzi delpensiero contemporaneo, ritrova già in questi primi cen-ni molti spunti di vedute a lui note, dal contingentismodel Boutroux all'evoluzione creatrice del Bergson. An-che nel caso di questa nuova varietà di evoluzionismo,55 C. D. BROAD, The mind and its place in Nature, 1925, p. 58; LLOYD

MORGAN, Emergent Evolution (Gifford Lectures, 1922), London, 1927, pp.2-3.

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in contrapposto al termine r i s u l ta n t e, in uso nellameccanica, fu adoperato la prima volta da G. H. Lewesnei suoi Problems of Life and Mind. Ma la formulazionepiù completa della teoria che vi si connette è stata data,sulle tracce del Bergson e dell'Alexander, dal LloydMorgan. Essa muove dalla premessa che in nessun casoil comportamento (behaviour) di un tutto composto divari ingredienti possa essere completamente determina-to, e quindi sicuramente previsto, in base alle qualità deisingoli componenti. Per esempio, già nella stessa fisica,la risultante meccanica di due forze, moventisi secondoun certo angolo, è la somma v e t to r ia l e delle due for-ze: questo v e t to r e è un'emergenza nuova. In un com-posto chimico, i pesi dei componenti danno un risultatoprevedibile, ma le qualità del nuovo corpo che ne risultasono nuove e non implicite negli elementi costitutivi.Anche più forte è il distacco, e quindi l'emergenza,dall'ordine chimico all'ordine fisiologico, e costituisceun'istanza a favore del vitalismo, pur senza l'entelechiadel Driesch. Si può già presumere che l'emergenza siamassima nell'ordine dei fatti psicologici55.

Il lettore che ha familiarità coi principali indirizzi delpensiero contemporaneo, ritrova già in questi primi cen-ni molti spunti di vedute a lui note, dal contingentismodel Boutroux all'evoluzione creatrice del Bergson. An-che nel caso di questa nuova varietà di evoluzionismo,55 C. D. BROAD, The mind and its place in Nature, 1925, p. 58; LLOYD

MORGAN, Emergent Evolution (Gifford Lectures, 1922), London, 1927, pp.2-3.

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ne vien fuori una dottrina di gradi e livelli dell'esistenzache s'implicano a vicenda, ciascuno dei quali però non sipuò ricondurre analiticamente e meccanicamente al li-vello inferiore, perché costituisce una novità irriducibi-le. Non c'è mente senza vita, non c'è vita senza sintesichimica, non sintesi chimica senza basi fisiche e mecca-niche; ma la mente non è soltanto vita, la vita non è solochimismo, e così via.

Volendoci fermare in particolar modo sull'ordinementale, notiamo innanzi tutto che, da questo punto divista, vien confermata la famosa correzione leibnizianaal principio dell'empirismo: niente, è vero, c'è nell'intel-letto che non sia nel senso, tranne però l'intelletto stesso,che è un'emergenza nuova. In nessun significato perciòsi può dire che la mente sia simile ad uno spettatore cheguarda le cose come sono già in se stesse precostituite,mediante uno strumento perfezionatissimo; essa parteci-pa a costituirle. Qui il Morgan dichiara di aderire allaveduta dell'idealismo56. Ma, a differenza degli idealisti,egli sostiene che la mente e la coscienza non siano unarealtà primaria, fondamento di tutte le altre, bensì l'ulti-mo e più evoluto prodotto di una lunga evoluzioneemergente. La coscienza è qualcosa che sopravviene inun mondo già in qualche modo formato e preparato adare quella più alta rivelazione della sua potenza; manon sopravviene post festum, per illuminare quel che giàc'è: nella sua luce si creano qualità nuove che prima non

56 LLOYD MORGAN, Op. cit., p. 48.

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ne vien fuori una dottrina di gradi e livelli dell'esistenzache s'implicano a vicenda, ciascuno dei quali però non sipuò ricondurre analiticamente e meccanicamente al li-vello inferiore, perché costituisce una novità irriducibi-le. Non c'è mente senza vita, non c'è vita senza sintesichimica, non sintesi chimica senza basi fisiche e mecca-niche; ma la mente non è soltanto vita, la vita non è solochimismo, e così via.

Volendoci fermare in particolar modo sull'ordinementale, notiamo innanzi tutto che, da questo punto divista, vien confermata la famosa correzione leibnizianaal principio dell'empirismo: niente, è vero, c'è nell'intel-letto che non sia nel senso, tranne però l'intelletto stesso,che è un'emergenza nuova. In nessun significato perciòsi può dire che la mente sia simile ad uno spettatore cheguarda le cose come sono già in se stesse precostituite,mediante uno strumento perfezionatissimo; essa parteci-pa a costituirle. Qui il Morgan dichiara di aderire allaveduta dell'idealismo56. Ma, a differenza degli idealisti,egli sostiene che la mente e la coscienza non siano unarealtà primaria, fondamento di tutte le altre, bensì l'ulti-mo e più evoluto prodotto di una lunga evoluzioneemergente. La coscienza è qualcosa che sopravviene inun mondo già in qualche modo formato e preparato adare quella più alta rivelazione della sua potenza; manon sopravviene post festum, per illuminare quel che giàc'è: nella sua luce si creano qualità nuove che prima non

56 LLOYD MORGAN, Op. cit., p. 48.

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esistevano. Si prenda per esempio un colore. La co-scienza lo vede con una diretta e passiva apprensione, olo attribuisce all'oggetto con un riferimento proiettivo(projicient reference)? Nella risposta a questo quesito, ladottrina dell'evoluzione emergente si divide dal reali-smo. Per i realisti il colore era già nelle cose; per ilLloyd Morgan invece, ciò ch'è dato è un'influenza elet-tromagnetica, ma il colore è riferito e come proiettatonello spazio. Tanto è vero che i due centri (dell'oggetto edella proiezione) possono anche non coincidere: peresempio per la rifrazione atmosferica il punto di riferi-mento può differire più o meno da quello occupatodall'agente fisico. Polemizzando con l'Alexander, che èfautore della dottrina oggettivistica del sensum, il Mor-gan precisa la sua veduta, dicendo che le qualità sensibi-li emergono dal rapporto tra le cose fisiche e gl'individuisenzienti, allo stesso modo, per esempio, come la bel-lezza di un panorama vien fuori da un concorso tra coluiche contempla e ciò che è contemplato57. E il Broad dirincalzo – sconfessando più radicalmente di quel ch'eglistesso non creda la sua precedente dottrina – affermache «il colore non è qualità intrinseca di alcuna cosa. Lasua natura è tale che può pervadere un luogo solo da unaltro luogo. Si può esprimere questo concetto col direche esso rivela un carattere di inerenza multipla. Esserecolorato è come essere invidiato»58: bisogna, in altri ter-mini, essere almeno in due.57 LLOYD MORGAN, Ibid., p. 231.58 BROAD, Mind, ecc., p. 176.

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esistevano. Si prenda per esempio un colore. La co-scienza lo vede con una diretta e passiva apprensione, olo attribuisce all'oggetto con un riferimento proiettivo(projicient reference)? Nella risposta a questo quesito, ladottrina dell'evoluzione emergente si divide dal reali-smo. Per i realisti il colore era già nelle cose; per ilLloyd Morgan invece, ciò ch'è dato è un'influenza elet-tromagnetica, ma il colore è riferito e come proiettatonello spazio. Tanto è vero che i due centri (dell'oggetto edella proiezione) possono anche non coincidere: peresempio per la rifrazione atmosferica il punto di riferi-mento può differire più o meno da quello occupatodall'agente fisico. Polemizzando con l'Alexander, che èfautore della dottrina oggettivistica del sensum, il Mor-gan precisa la sua veduta, dicendo che le qualità sensibi-li emergono dal rapporto tra le cose fisiche e gl'individuisenzienti, allo stesso modo, per esempio, come la bel-lezza di un panorama vien fuori da un concorso tra coluiche contempla e ciò che è contemplato57. E il Broad dirincalzo – sconfessando più radicalmente di quel ch'eglistesso non creda la sua precedente dottrina – affermache «il colore non è qualità intrinseca di alcuna cosa. Lasua natura è tale che può pervadere un luogo solo da unaltro luogo. Si può esprimere questo concetto col direche esso rivela un carattere di inerenza multipla. Esserecolorato è come essere invidiato»58: bisogna, in altri ter-mini, essere almeno in due.57 LLOYD MORGAN, Ibid., p. 231.58 BROAD, Mind, ecc., p. 176.

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Concludendo, la dottrina dell'evoluzione emergentesembra a mezza via tra l'idealismo e il realismo. Accettada quest'ultimo l'idea che la mente forma un ordine diesistenze oggettive allo stesso titolo di tutti gli altri esse-ri; ma, più coerentemente del realismo, vuole che questoordine arricchisca con un contributo suo il «quantum» omeglio il «quale» della realtà complessiva. Quando ilprimo barlume di vita sensibile traluce nel mondo, gliconferisce un modo di essere nuovo ed originale. Ladottrina implica dunque che c'è una crescente comples-sità nella serie cosmica: ogni emergenza nuova non èche un nuovo gruppo di relazioni che si aggiunge aquello che preesisteva; e al sommo di questa scala c'è lospirito umano, che insieme ci rivela il proprio modo diessere e quello di tutti gli altri enti.

Una ulteriore quistione che interessa la dottrina dellascienza è quella dei rapporti tra l'intuizione filosoficadell'«evoluzione emergente» e le concezioni materiali-stiche dell'evoluzionismo. Alla soluzione di essa è dedi-cato il volume del Lloyd Morgan: Mind at the cros-sways. Nella ricerca scientifica – afferma l'autore – lamente si trova a un certo punto dinanzi a un bivio. «Visono due vie lungo le quali si può dar conto di un even-to. Si può spiegare il suo presentarsi come dovutoall'atto di qualcuno. E mi si consenta di chiamare questoqualcuno un agente. Si può interpretare, d'altra parte, ilsuo presentarsi in rapporto con l'ordine della natura. Misi consenta di dare a tale spiegazione il nome di scienti-

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Concludendo, la dottrina dell'evoluzione emergentesembra a mezza via tra l'idealismo e il realismo. Accettada quest'ultimo l'idea che la mente forma un ordine diesistenze oggettive allo stesso titolo di tutti gli altri esse-ri; ma, più coerentemente del realismo, vuole che questoordine arricchisca con un contributo suo il «quantum» omeglio il «quale» della realtà complessiva. Quando ilprimo barlume di vita sensibile traluce nel mondo, gliconferisce un modo di essere nuovo ed originale. Ladottrina implica dunque che c'è una crescente comples-sità nella serie cosmica: ogni emergenza nuova non èche un nuovo gruppo di relazioni che si aggiunge aquello che preesisteva; e al sommo di questa scala c'è lospirito umano, che insieme ci rivela il proprio modo diessere e quello di tutti gli altri enti.

Una ulteriore quistione che interessa la dottrina dellascienza è quella dei rapporti tra l'intuizione filosoficadell'«evoluzione emergente» e le concezioni materiali-stiche dell'evoluzionismo. Alla soluzione di essa è dedi-cato il volume del Lloyd Morgan: Mind at the cros-sways. Nella ricerca scientifica – afferma l'autore – lamente si trova a un certo punto dinanzi a un bivio. «Visono due vie lungo le quali si può dar conto di un even-to. Si può spiegare il suo presentarsi come dovutoall'atto di qualcuno. E mi si consenta di chiamare questoqualcuno un agente. Si può interpretare, d'altra parte, ilsuo presentarsi in rapporto con l'ordine della natura. Misi consenta di dare a tale spiegazione il nome di scienti-

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fica»59. Le due vie sono alterne: se entriamo nell'ordinedella natura, dobbiamo escludere dal suo dominio ogniconsiderazione di agenti e limitarci a studiare dal puntodi vista delle pure relazioni gli eventi che si presentano.Se entriamo nell'altra via, il determinismo meccanicodella natura non ci è più di alcun soccorso: in termini di«agenti», il mondo ci si offre come una scena «dramma-tica». D'altra parte, non si può spiegare l'alternativa nelsenso che esistano due classi di eventi, una delle qualisia intelligibile in rapporto all'ordine della natura, el'altra in rapporto all'atto di un agente. Vi è una solaclasse di eventi, tutti suscettibili d'interpretazione natu-rale, tutti suscettibili d'interpretazione drammatica60.

Ma vi sono rapporti mediati tra le due vie, innanzitutto nel senso che, se non v'è agente individualizzato,umano o diverso dall'umano, immanente alla natura,non v'è più materia da interpretare in termini di relazioniscientifiche: la maniera «drammatica» ha, dunque, uncarattere primario e fondamentale in confronto conl'altra. Inoltre quell'ascensione di gradi che noi osservia-mo nell'ordine della natura e che in sede scientifica nonpossiamo spiegare (donde nascono le vedute contingen-tistiche, che, come tali, non spiegano, anzi sono una ri-nunzia a ogni spiegazione), s'illumina invece dal puntadi vista drammatico. L'emergenza del nuovo nell'evolu-zione naturale appare come l'opera di agenti, a cui è affi-

59 LLOYD MORGAN, Mind at the crossways, London, 1929, p. 1.60 Op. cit., p. 4.

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fica»59. Le due vie sono alterne: se entriamo nell'ordinedella natura, dobbiamo escludere dal suo dominio ogniconsiderazione di agenti e limitarci a studiare dal puntodi vista delle pure relazioni gli eventi che si presentano.Se entriamo nell'altra via, il determinismo meccanicodella natura non ci è più di alcun soccorso: in termini di«agenti», il mondo ci si offre come una scena «dramma-tica». D'altra parte, non si può spiegare l'alternativa nelsenso che esistano due classi di eventi, una delle qualisia intelligibile in rapporto all'ordine della natura, el'altra in rapporto all'atto di un agente. Vi è una solaclasse di eventi, tutti suscettibili d'interpretazione natu-rale, tutti suscettibili d'interpretazione drammatica60.

Ma vi sono rapporti mediati tra le due vie, innanzitutto nel senso che, se non v'è agente individualizzato,umano o diverso dall'umano, immanente alla natura,non v'è più materia da interpretare in termini di relazioniscientifiche: la maniera «drammatica» ha, dunque, uncarattere primario e fondamentale in confronto conl'altra. Inoltre quell'ascensione di gradi che noi osservia-mo nell'ordine della natura e che in sede scientifica nonpossiamo spiegare (donde nascono le vedute contingen-tistiche, che, come tali, non spiegano, anzi sono una ri-nunzia a ogni spiegazione), s'illumina invece dal puntadi vista drammatico. L'emergenza del nuovo nell'evolu-zione naturale appare come l'opera di agenti, a cui è affi-

59 LLOYD MORGAN, Mind at the crossways, London, 1929, p. 1.60 Op. cit., p. 4.

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dato il compito d'introdurre novità e progresso nel mon-do. «Pertanto, quello che nell'interpretazione naturale èemergente, nell'esplicazione drammatica è creativo»61.

In conformità delle esposte premesse non si può direche il mentale emerga dal fisico. «Il mentale non puòemergere che dalle formazioni più basse del mentalemedesimo, come gli stadi più elevati dell'evoluzione na-turale emergono dai meno elevati.» Ciò vuol dire cheun'attività psichica, per quanto elementare, si ritrovalungo tutta la linea ascendente degli esseri, ed è proprioessa che dà a questa linea la sua direzione ascendente.L'evoluzionismo naturalistico ha la propria base in unaevoluzione spirituale e creatrice.

Ora è evidente che ciò che il Lloyd Morgan chiamainterpretazione «drammatica» coincide esattamente conciò che noi chiamiamo interpretazione «storica». Non sofino a qual punto tale coincidenza sia palese allo stessoautore, che, nel volume in quistione, ha preso particolar-mente in esame la metodologia della scienza della natu-ra ed ha dato solo un abbozzo dell'altra. Ma, nell'appro-fondire la rimanente parte del suo lavoro è facile che glisi chiarisca ciò che ancora è forse un'esigenza oscura delsuo pensiero.

61 Ibid., p. 21.

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dato il compito d'introdurre novità e progresso nel mon-do. «Pertanto, quello che nell'interpretazione naturale èemergente, nell'esplicazione drammatica è creativo»61.

In conformità delle esposte premesse non si può direche il mentale emerga dal fisico. «Il mentale non puòemergere che dalle formazioni più basse del mentalemedesimo, come gli stadi più elevati dell'evoluzione na-turale emergono dai meno elevati.» Ciò vuol dire cheun'attività psichica, per quanto elementare, si ritrovalungo tutta la linea ascendente degli esseri, ed è proprioessa che dà a questa linea la sua direzione ascendente.L'evoluzionismo naturalistico ha la propria base in unaevoluzione spirituale e creatrice.

Ora è evidente che ciò che il Lloyd Morgan chiamainterpretazione «drammatica» coincide esattamente conciò che noi chiamiamo interpretazione «storica». Non sofino a qual punto tale coincidenza sia palese allo stessoautore, che, nel volume in quistione, ha preso particolar-mente in esame la metodologia della scienza della natu-ra ed ha dato solo un abbozzo dell'altra. Ma, nell'appro-fondire la rimanente parte del suo lavoro è facile che glisi chiarisca ciò che ancora è forse un'esigenza oscura delsuo pensiero.

61 Ibid., p. 21.

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IV

GIORGIO SANTAYANA

Giorgio Santayana62 è oriundo spagnuolo, ma inglesedi elezione. Della sua patria originaria egli ha una esu-beranza, tutta meridionale, di sensibilità e d'immagina-zione, unita a una concettuosità tipicamente spagnuola.Dalla patria elettiva egli ha preso l'orientamento dellasua cultura e i problemi stessi della sua filosofia. Secon-do la terminologia filosofica corrente, egli può esserecaratterizzato come un «realista»; ma a differenza dalrealismo aridamente logico di un Broad e di un Moore odal realismo astrusamente scientifico di un Whitehead,il suo è un realismo ricco di motivi artistici e di scorcisuggestivi, in cui si rivela un felice incrocio di nativotemperamento e di cultura acquisita. Come scrittore,egli ha doti eccezionali: sotto la sua penna, la sobria e

62 Opere: Platonism and the spiritual life; Dialogues in Limbo; The sense ofBeauty; Little Essays; Poems; The life of reason (5 voll.: I. Reason incommon sense; II. Reason in society; III. Reason in religion; IV. Reason inart; V. Reason in science); Soliloquies in England; Character and opinionin the United States; Scepticism and animal faith; The realm of essence(tutte edite da Constable, London).

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GIORGIO SANTAYANA

Giorgio Santayana62 è oriundo spagnuolo, ma inglesedi elezione. Della sua patria originaria egli ha una esu-beranza, tutta meridionale, di sensibilità e d'immagina-zione, unita a una concettuosità tipicamente spagnuola.Dalla patria elettiva egli ha preso l'orientamento dellasua cultura e i problemi stessi della sua filosofia. Secon-do la terminologia filosofica corrente, egli può esserecaratterizzato come un «realista»; ma a differenza dalrealismo aridamente logico di un Broad e di un Moore odal realismo astrusamente scientifico di un Whitehead,il suo è un realismo ricco di motivi artistici e di scorcisuggestivi, in cui si rivela un felice incrocio di nativotemperamento e di cultura acquisita. Come scrittore,egli ha doti eccezionali: sotto la sua penna, la sobria e

62 Opere: Platonism and the spiritual life; Dialogues in Limbo; The sense ofBeauty; Little Essays; Poems; The life of reason (5 voll.: I. Reason incommon sense; II. Reason in society; III. Reason in religion; IV. Reason inart; V. Reason in science); Soliloquies in England; Character and opinionin the United States; Scepticism and animal faith; The realm of essence(tutte edite da Constable, London).

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asciutta lingua filosofica degl'inglesi acquista una viva-cità e un colorito senza riscontro nella tradizione; qual-cosa di analogo (ma non perciò di simile) a quel che di-viene il linguaggio razionalistico dei filosofi francesi at-traverso l'espressività del Bergson. Per queste sue doti,il Santayana è scrittore molto popolare nei paesi anglo-sassoni e con la sua vasta opera ha contribuito a renderefamiliari i princìpi informatori del realismo anche alpubblico colto non filosoficamente specializzato.

Difettano a lui le doti propriamente costruttive delpensatore di vocazione. Egli è quel che si dice, nel mi-glior senso della parola, un ingegno «brillante», che sitrova a suo agio nei vagabondaggi intellettuali attraver-so i campi più disparati del sapere, dove tuttavia nonporta un senso dilettantesco e frivolo, ma assai spessoqualche nota concettosa; e, quando si tratta di polemiz-zare, quasi sempre sa trovare la nota giusta o almeno ilpunto debole dell'avversario. Specialmente la sua pole-mica anti-idealistica è ricca di ammaestramenti per glistessi idealisti. Perciò i suoi scritti migliori non sonquelli in cui espone dottrinalmente il suo punto di vistafilosofico, come Scepticism and animal faith o, moltopeggio, The realm of essence, bensì quelli in cui può darlibero corso al suo temperamento rapsodico, come i cin-que volumi de La vita della ragione, che, a suo direstesso, avrebbero meglio meritato il titolo di The ro-mance of wisdom.

Purtroppo, per l'economia delle presente rassegna, noi

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asciutta lingua filosofica degl'inglesi acquista una viva-cità e un colorito senza riscontro nella tradizione; qual-cosa di analogo (ma non perciò di simile) a quel che di-viene il linguaggio razionalistico dei filosofi francesi at-traverso l'espressività del Bergson. Per queste sue doti,il Santayana è scrittore molto popolare nei paesi anglo-sassoni e con la sua vasta opera ha contribuito a renderefamiliari i princìpi informatori del realismo anche alpubblico colto non filosoficamente specializzato.

Difettano a lui le doti propriamente costruttive delpensatore di vocazione. Egli è quel che si dice, nel mi-glior senso della parola, un ingegno «brillante», che sitrova a suo agio nei vagabondaggi intellettuali attraver-so i campi più disparati del sapere, dove tuttavia nonporta un senso dilettantesco e frivolo, ma assai spessoqualche nota concettosa; e, quando si tratta di polemiz-zare, quasi sempre sa trovare la nota giusta o almeno ilpunto debole dell'avversario. Specialmente la sua pole-mica anti-idealistica è ricca di ammaestramenti per glistessi idealisti. Perciò i suoi scritti migliori non sonquelli in cui espone dottrinalmente il suo punto di vistafilosofico, come Scepticism and animal faith o, moltopeggio, The realm of essence, bensì quelli in cui può darlibero corso al suo temperamento rapsodico, come i cin-que volumi de La vita della ragione, che, a suo direstesso, avrebbero meglio meritato il titolo di The ro-mance of wisdom.

Purtroppo, per l'economia delle presente rassegna, noi

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dovremo fermarci sui libri sistematici del Santayana,che possono essere rapidamente caratterizzati, piuttostoche sugli altri, che non offrono facile presa a un tentati-vo di ricostruzione critica. Ci basti accennare sommaria-mente che l'insistenza dell'autore sul tema della «ragio-ne» in tutte le manifestazioni della vita (nel senso comu-ne, nella società, nella religione, nell'arte, nella scienza– donde hanno origine i cinque volumi della raccolta)non rivela una vera e propria tendenza razionalistica, se-condo la comune accezione filosofica di questo termine.«Uno spirito onnivoro – egli avverte nella 2a edizionedell'opera63 – non è uno spirito per me; ed io non potevoscrivere la vita della ragione senza distinguerla dallapazzia.» Niente monismo razionalistico, dunque: la ra-zionalità richiede la fusione di due tipi di vita che abi-tualmente sono del tutto separati: una vita d'impulsi im-mediati, che si esprimono nelle passioni e nelle vicendedella operosità comune, e una vita di riflessione, espres-sa nella religione, nella scienza e nelle arti. «La vita del-la ragione è il felice matrimonio di questi due elementiche, divorziati, ridurrebbero l'uomo a un bruto o a unmaniaco. L'animale razionale è generato dall'unione diquesti due mostri»64.

E con l'anti-razionalismo, nel senso spiegato, si ac-compagna, fin da questi primi scritti, un motivo anti-idealistico, che in seguito diverrà un tema dominante.

63 The life of reason, I, prefaz., p. XI.64 Ibid., I, Reason in common sense, p. 5.

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dovremo fermarci sui libri sistematici del Santayana,che possono essere rapidamente caratterizzati, piuttostoche sugli altri, che non offrono facile presa a un tentati-vo di ricostruzione critica. Ci basti accennare sommaria-mente che l'insistenza dell'autore sul tema della «ragio-ne» in tutte le manifestazioni della vita (nel senso comu-ne, nella società, nella religione, nell'arte, nella scienza– donde hanno origine i cinque volumi della raccolta)non rivela una vera e propria tendenza razionalistica, se-condo la comune accezione filosofica di questo termine.«Uno spirito onnivoro – egli avverte nella 2a edizionedell'opera63 – non è uno spirito per me; ed io non potevoscrivere la vita della ragione senza distinguerla dallapazzia.» Niente monismo razionalistico, dunque: la ra-zionalità richiede la fusione di due tipi di vita che abi-tualmente sono del tutto separati: una vita d'impulsi im-mediati, che si esprimono nelle passioni e nelle vicendedella operosità comune, e una vita di riflessione, espres-sa nella religione, nella scienza e nelle arti. «La vita del-la ragione è il felice matrimonio di questi due elementiche, divorziati, ridurrebbero l'uomo a un bruto o a unmaniaco. L'animale razionale è generato dall'unione diquesti due mostri»64.

E con l'anti-razionalismo, nel senso spiegato, si ac-compagna, fin da questi primi scritti, un motivo anti-idealistico, che in seguito diverrà un tema dominante.

63 The life of reason, I, prefaz., p. XI.64 Ibid., I, Reason in common sense, p. 5.

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Alla definizione testé accennata dello «spirito»dell'idealismo come uno «spirito onnivoro» fa riscontrouna gustosa definizione degli idealisti come (honni soitqui mal y pense!) «voracious thinkers» pensatori voraci,come degli struzzi metafisici che ogni cosa pretendereb-bero inghiottire nel loro soggetto pensante, senza accor-gersi che, dove tutto è già spirito, ogni sforzo di spiri-tualizzazione, in cui consiste la dignità della vita e l'effi-cacia della civiltà umana, sarebbe reso inutile. L'ideali-smo, aggiunge di rincalzo il Santayana, consiste nelprendere una frase ambigua, che, in un senso, è un trui-smo e, in un altro, è un'assurdità, ed erigerla in principiofilosofico. Esso non fa che confondere lo strumento conla sua funzione e l'operazione col suo significato65. Nonsi può negare che la critica calza perfettamente, almenoa quel tipo d'idealismo, che pretende di risolvere tutto ilreale nell'atto del pensiero, come se l'attestato che noipensiamo contenesse la ragione o la convalidazione diquel che effettivamente pensiamo.

Escluso pertanto il vano truismo di una razionalitàdelle cose, già data col tocco magico dell'atto del pen-siero, il problema del valore della ragione nella vita staper il Santayana nel ricercare come effettivamente la ra-gione emerga con fatica dal complesso degl'impulsi edelle tendenze prerazionali della vita stessa e si sforzi diassimilare e disciplinare questo materiale incondito.Così nel libro Reason in society egli s'ingegna di dimo-

65 Ibid., I, p. 113.

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Alla definizione testé accennata dello «spirito»dell'idealismo come uno «spirito onnivoro» fa riscontrouna gustosa definizione degli idealisti come (honni soitqui mal y pense!) «voracious thinkers» pensatori voraci,come degli struzzi metafisici che ogni cosa pretendereb-bero inghiottire nel loro soggetto pensante, senza accor-gersi che, dove tutto è già spirito, ogni sforzo di spiri-tualizzazione, in cui consiste la dignità della vita e l'effi-cacia della civiltà umana, sarebbe reso inutile. L'ideali-smo, aggiunge di rincalzo il Santayana, consiste nelprendere una frase ambigua, che, in un senso, è un trui-smo e, in un altro, è un'assurdità, ed erigerla in principiofilosofico. Esso non fa che confondere lo strumento conla sua funzione e l'operazione col suo significato65. Nonsi può negare che la critica calza perfettamente, almenoa quel tipo d'idealismo, che pretende di risolvere tutto ilreale nell'atto del pensiero, come se l'attestato che noipensiamo contenesse la ragione o la convalidazione diquel che effettivamente pensiamo.

Escluso pertanto il vano truismo di una razionalitàdelle cose, già data col tocco magico dell'atto del pen-siero, il problema del valore della ragione nella vita staper il Santayana nel ricercare come effettivamente la ra-gione emerga con fatica dal complesso degl'impulsi edelle tendenze prerazionali della vita stessa e si sforzi diassimilare e disciplinare questo materiale incondito.Così nel libro Reason in society egli s'ingegna di dimo-

65 Ibid., I, p. 113.

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strare come tutti gl'interessi spirituali della società sisvolgono dalla vita animale che, insieme, li ostacola e lisostiene66. Similmente, nel libro Reason in religion, eglimostra che la religione persegue la razionalità attraversol'immaginazione, che costituisce il suo fondo sorgivo67;e ci dà una buona analisi della mitologia religiosa che«ha la forma della poesia e la funzione della prosa»,cioè è un prodotto dell'immaginazione, ma non si con-tenta del puro gioco delle immagini, ma vuol con essespiegare le cose come sono, e pertanto «non è né spon-tanea poesia né valida scienza, ma la comune radice e lamateria grezza di entrambe»68. Qui la spiegazione razio-nalistica presenta già un'incrinatura, perché se il mito èproduzione fantastica volta a un fine pratico, è evidente-mente un posterius e non un prius rispetto al puro lavo-ro della fantasia. E l'incrinatura si accentua nel volumeReason in art, dove, in conformità dello schema che si èproposto, egli deve dare un'importanza sproporzionataalla tecnica e condurre avanti, sullo stesso piano, le artibelle e le arti utilitarie, perdendo assai spesso il criteriodistintivo delle une e delle altre. È interessante notareche il Santayana, che ha doti artistiche molto notevoli,ha scarsa coscienza critica delle sue stesse doti, ed oscil-la tra il platonismo della pura bellezza e il realismo bru-tale della poiesis quasi manuale. Ma, come in seguitovedremo, dalla sua dottrina della conoscenza scaturisce

66 Ibid., II, pp. 33 sgg.67 Ibid., III, p. 10.68 Ibid., III, p. 49.

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strare come tutti gl'interessi spirituali della società sisvolgono dalla vita animale che, insieme, li ostacola e lisostiene66. Similmente, nel libro Reason in religion, eglimostra che la religione persegue la razionalità attraversol'immaginazione, che costituisce il suo fondo sorgivo67;e ci dà una buona analisi della mitologia religiosa che«ha la forma della poesia e la funzione della prosa»,cioè è un prodotto dell'immaginazione, ma non si con-tenta del puro gioco delle immagini, ma vuol con essespiegare le cose come sono, e pertanto «non è né spon-tanea poesia né valida scienza, ma la comune radice e lamateria grezza di entrambe»68. Qui la spiegazione razio-nalistica presenta già un'incrinatura, perché se il mito èproduzione fantastica volta a un fine pratico, è evidente-mente un posterius e non un prius rispetto al puro lavo-ro della fantasia. E l'incrinatura si accentua nel volumeReason in art, dove, in conformità dello schema che si èproposto, egli deve dare un'importanza sproporzionataalla tecnica e condurre avanti, sullo stesso piano, le artibelle e le arti utilitarie, perdendo assai spesso il criteriodistintivo delle une e delle altre. È interessante notareche il Santayana, che ha doti artistiche molto notevoli,ha scarsa coscienza critica delle sue stesse doti, ed oscil-la tra il platonismo della pura bellezza e il realismo bru-tale della poiesis quasi manuale. Ma, come in seguitovedremo, dalla sua dottrina della conoscenza scaturisce

66 Ibid., II, pp. 33 sgg.67 Ibid., III, p. 10.68 Ibid., III, p. 49.

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una estetica molto diversa da quella che è esposta inReason in art e in The sense of beauty.

Un'analoga sproporzione si osserva in Reason inscience tra la dottrina che ivi è formulata intorno allastoria e il posto che occupa effettivamente la storianell'economia del suo pensiero. Dal concetto dell'emer-genza della ragione attraverso ed oltre le fasi della vitaanimale, si può facilmente inferire il carattere storicisti-co, almeno nel senso evoluzionistico, della sua dottrina;eppure, quand'egli vuole attribuire alla storia un postonel sistema delle scienze, non sa che considerarla, baco-nianamente, come un racconto fondato sulla memoria, eintessuto di elementi romanzeschi, che poi passanonell'epica e nelle tragedie, oppure si condensano in mo-tivi gnomici che servono di ammaestramento per la pra-tica. Di scientifico, egli non riconosce alla storia chel'investigazione filologica che è «la scienza naturale delpassato»; quanto al resto, «la storia si dimostra un cam-po imperfetto per l'esercizio della ragione. Essa è unadisciplina provvisoria: i suoi valori, col progredir dellamente, passano in altre attività. La funzione della storiaè di prestar materiale alla politica e alla poesia»69.

La scienza della natura invece ha un carattere perma-nente, che non consiste però, come da molti s'immagina,nel trascrivere, magari abbreviando, una realtà di fatto.Le leggi formulate dalla scienza posseggono una propriaspecie platonica di realtà. Esse sono più reali, se si vuo-69 Ibid., V, pp. 38, 49, 66.

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una estetica molto diversa da quella che è esposta inReason in art e in The sense of beauty.

Un'analoga sproporzione si osserva in Reason inscience tra la dottrina che ivi è formulata intorno allastoria e il posto che occupa effettivamente la storianell'economia del suo pensiero. Dal concetto dell'emer-genza della ragione attraverso ed oltre le fasi della vitaanimale, si può facilmente inferire il carattere storicisti-co, almeno nel senso evoluzionistico, della sua dottrina;eppure, quand'egli vuole attribuire alla storia un postonel sistema delle scienze, non sa che considerarla, baco-nianamente, come un racconto fondato sulla memoria, eintessuto di elementi romanzeschi, che poi passanonell'epica e nelle tragedie, oppure si condensano in mo-tivi gnomici che servono di ammaestramento per la pra-tica. Di scientifico, egli non riconosce alla storia chel'investigazione filologica che è «la scienza naturale delpassato»; quanto al resto, «la storia si dimostra un cam-po imperfetto per l'esercizio della ragione. Essa è unadisciplina provvisoria: i suoi valori, col progredir dellamente, passano in altre attività. La funzione della storiaè di prestar materiale alla politica e alla poesia»69.

La scienza della natura invece ha un carattere perma-nente, che non consiste però, come da molti s'immagina,nel trascrivere, magari abbreviando, una realtà di fatto.Le leggi formulate dalla scienza posseggono una propriaspecie platonica di realtà. Esse sono più reali, se si vuo-69 Ibid., V, pp. 38, 49, 66.

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le, dei fatti stessi, perché sono più stabili e degne di fi-ducia; ma nel medesimo tempo non sono reali affatto,perché sono incompatibili con l'immediatezza e alienedall'esistenza bruta. Dichiarando ciò ch'è vero intornoall'esistenza, esse rinunziano a un'esistenza per proprioconto. L'elemento materiale è il solo che esista, mentrel'elemento ideale non è che la somma di tutte le proposi-zioni che possono enunciarsi su ciò che esiste material-mente. È più facile che esista la gerarchia dell'Olimpoche non la gravitazione universale o la selezione natura-le, che sono soltanto schemi di relazioni, incapaci diun'esistenza di fatto70. La scienza, come la conoscenzain genere, è un complesso di simboli, significanti, maintraducibili nei termini delle realtà a cui corrispondono;l'opera del pensiero è come una nuova dimensione dellarealtà, che però lascia intatte le precedenti e non comu-nica con esse, ma vi si sovrappone.

In questi accenni, noi troviamo già il preannunziodella dottrina propriamente filosofica, esposta dall'auto-re in Scepticism and animal faith e The realm ofessence. Qui il primo problema in cui c'imbattiamo è ap-punto quello della possibilità di un rapporto o di un pas-saggio dal mondo dei simboli mentali a quello dellerealtà in sé. E il problema è risolto negativamente, conun metodo analogo a quello del dubbio cartesiano, cheperò vuole andare molto più a fondo. Gli esseri coscientinon possono in alcun modo rompere il circolo magico

70 Ibid., V, pp. 9 sgg.

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le, dei fatti stessi, perché sono più stabili e degne di fi-ducia; ma nel medesimo tempo non sono reali affatto,perché sono incompatibili con l'immediatezza e alienedall'esistenza bruta. Dichiarando ciò ch'è vero intornoall'esistenza, esse rinunziano a un'esistenza per proprioconto. L'elemento materiale è il solo che esista, mentrel'elemento ideale non è che la somma di tutte le proposi-zioni che possono enunciarsi su ciò che esiste material-mente. È più facile che esista la gerarchia dell'Olimpoche non la gravitazione universale o la selezione natura-le, che sono soltanto schemi di relazioni, incapaci diun'esistenza di fatto70. La scienza, come la conoscenzain genere, è un complesso di simboli, significanti, maintraducibili nei termini delle realtà a cui corrispondono;l'opera del pensiero è come una nuova dimensione dellarealtà, che però lascia intatte le precedenti e non comu-nica con esse, ma vi si sovrappone.

In questi accenni, noi troviamo già il preannunziodella dottrina propriamente filosofica, esposta dall'auto-re in Scepticism and animal faith e The realm ofessence. Qui il primo problema in cui c'imbattiamo è ap-punto quello della possibilità di un rapporto o di un pas-saggio dal mondo dei simboli mentali a quello dellerealtà in sé. E il problema è risolto negativamente, conun metodo analogo a quello del dubbio cartesiano, cheperò vuole andare molto più a fondo. Gli esseri coscientinon possono in alcun modo rompere il circolo magico

70 Ibid., V, pp. 9 sgg.

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della coscienza, per spingere il loro sguardo nel regnodelle cose. Qualunque cosa essi riescano a vedere, èsempre vista nei termini della loro esperienza mentale:le cose sono, ipso facto, tramutate in simboli. La certez-za dell'esistenza, che Cartesio pretende di raggiungereattraverso il dubbio e pel fatto del dubitare, è illusoria:in realtà, noi non acquistiamo certezza che del pensieroe mai di cose diverse dal pensiero. E lo stesso Cartesio,in fondo, n'è dovuto essere convinto, poiché non ha osa-to fondare sul Cogito l'esistenza di una natura esterna,ma ha sentito il bisogno di ricorrere alla veracità divina:un criterio che purtroppo non ci soccorre nella vita mor-tale. Non c'è dunque riparo o via di uscita da uno scetti-cismo radicale, finché vogliamo istituire rapporti tra ter-mini incommensurabili, come sono i pensieri e le cose71.

Dire che le cose sono concrezioni di pensieri (nel sen-so più lato, che include le sensazioni, le immagini, i ri-cordi, ecc.) significa confondere il simbolo con ciò ch'èsimboleggiato. Ma non affermiamo tuttavia che c'è unrapporto, magari di distinzione, tra i due termini, e conquesta incursione in un campo che ci è precluso nonusciamo in qualche modo dallo scetticismo? L'autorestesso è costretto a riconoscerlo. In realtà, quelle concre-zioni mentali non sono una nostra libera produzione:esse sono in un certo senso una creazione nostra, ma arime obbligate, sotto la spinta, l'urto, la provocazione diqualcosa che sentiamo diversa da noi, e di cui nel tempo

71 Scepticism, ecc., p. 40.

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della coscienza, per spingere il loro sguardo nel regnodelle cose. Qualunque cosa essi riescano a vedere, èsempre vista nei termini della loro esperienza mentale:le cose sono, ipso facto, tramutate in simboli. La certez-za dell'esistenza, che Cartesio pretende di raggiungereattraverso il dubbio e pel fatto del dubitare, è illusoria:in realtà, noi non acquistiamo certezza che del pensieroe mai di cose diverse dal pensiero. E lo stesso Cartesio,in fondo, n'è dovuto essere convinto, poiché non ha osa-to fondare sul Cogito l'esistenza di una natura esterna,ma ha sentito il bisogno di ricorrere alla veracità divina:un criterio che purtroppo non ci soccorre nella vita mor-tale. Non c'è dunque riparo o via di uscita da uno scetti-cismo radicale, finché vogliamo istituire rapporti tra ter-mini incommensurabili, come sono i pensieri e le cose71.

Dire che le cose sono concrezioni di pensieri (nel sen-so più lato, che include le sensazioni, le immagini, i ri-cordi, ecc.) significa confondere il simbolo con ciò ch'èsimboleggiato. Ma non affermiamo tuttavia che c'è unrapporto, magari di distinzione, tra i due termini, e conquesta incursione in un campo che ci è precluso nonusciamo in qualche modo dallo scetticismo? L'autorestesso è costretto a riconoscerlo. In realtà, quelle concre-zioni mentali non sono una nostra libera produzione:esse sono in un certo senso una creazione nostra, ma arime obbligate, sotto la spinta, l'urto, la provocazione diqualcosa che sentiamo diversa da noi, e di cui nel tempo

71 Scepticism, ecc., p. 40.

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stesso sentiamo di non poter fare a meno. Questo «senti-re» ci dice la natura della nostra credenza: non è unchiaro, luminoso ragionamento; anzi, finché ragionia-mo, l'esistenza di cose non espresse e non esprimibili intermini di esperienza nostra resta sempre problematica eingiustificabile. Ma è un oscuro e tuttavia tenace «istin-to animale», che nessuna forza di ragionamento riusciràmai a sormontare. «In rapporto agli articoli originali delcredo animale – che c'è un mondo, che c'è un passato,che le cose cercate possono essere trovate e le cose ve-dute possono essere mangiate – nessuna garanzia puòessere offerta. Io sono certo che questi dommi sonospesso falsi;... ma, mentre la vita dura, in una forma o inun'altra questa fede deve durare. Essa è l'espressione ini-ziale della vitalità animale, il primo annunzio che qual-cosa accade. Essa è implicita in ogni spasimo di fame,di paura, di amore. Essa dà l'avviamento all'avventuradella conoscenza»72. Ma perché questo istinto dovrebbe,più del pensiero cosciente, essere in comunione direttacon la realtà? perché, risponde l'autore, «essendo espres-sione di fame, tendenza, urto, paura, esso è diretto sucose; cioè non assume l'esistenza di esseri estranei chesi sviluppano da sé, indipendentemente dalla conoscen-za, ma di esseri capaci di essere affetti dall'azione»73. Inaltri termini, vi sarebbe una continuità vitale, pratica, trala natura delle cose in sé e gl'istinti in cui essa immedia-tamente si esprime. Questi non sono delle sostanze a72 Op. cit., p. 180.73 Ibid., p. 214.

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stesso sentiamo di non poter fare a meno. Questo «senti-re» ci dice la natura della nostra credenza: non è unchiaro, luminoso ragionamento; anzi, finché ragionia-mo, l'esistenza di cose non espresse e non esprimibili intermini di esperienza nostra resta sempre problematica eingiustificabile. Ma è un oscuro e tuttavia tenace «istin-to animale», che nessuna forza di ragionamento riusciràmai a sormontare. «In rapporto agli articoli originali delcredo animale – che c'è un mondo, che c'è un passato,che le cose cercate possono essere trovate e le cose ve-dute possono essere mangiate – nessuna garanzia puòessere offerta. Io sono certo che questi dommi sonospesso falsi;... ma, mentre la vita dura, in una forma o inun'altra questa fede deve durare. Essa è l'espressione ini-ziale della vitalità animale, il primo annunzio che qual-cosa accade. Essa è implicita in ogni spasimo di fame,di paura, di amore. Essa dà l'avviamento all'avventuradella conoscenza»72. Ma perché questo istinto dovrebbe,più del pensiero cosciente, essere in comunione direttacon la realtà? perché, risponde l'autore, «essendo espres-sione di fame, tendenza, urto, paura, esso è diretto sucose; cioè non assume l'esistenza di esseri estranei chesi sviluppano da sé, indipendentemente dalla conoscen-za, ma di esseri capaci di essere affetti dall'azione»73. Inaltri termini, vi sarebbe una continuità vitale, pratica, trala natura delle cose in sé e gl'istinti in cui essa immedia-tamente si esprime. Questi non sono delle sostanze a72 Op. cit., p. 180.73 Ibid., p. 214.

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parte, ma come dei modi o vortici della sostanza genera-le della natura74.

A questo punto, chiunque abbia a cuore il rigore logi-co delle dottrine, non può fare a meno di riconoscereche il Santayana ne sa anche troppo del suo inconoscibi-le e che il suo scetticismo è non meno «malicious» diquel ch'è per lui il sapere degl'idealisti. Dalle sue affer-mazioni si ricava già quanto basta per identificare unametafisica a fondo volontaristico che sfocia in una dot-trina fenomenistica della conoscenza. Ed anche il modocom'egli salda quel fondo oscuro dell'essere col primoalbeggiare della coscienza nella sensazione ce ne dà laconferma. Da una parte infatti egli dichiara che l'urto(shock) è il grande argomento del senso comune perl'esistenza delle cose materiali75. D'altra parte egli defi-nisce il senso comune una facoltà «of calling namesunder provocation»: tutte le percezioni – e per conse-guenza i pensieri – sono gridi e commenti che si levanodal cuore di qualche creatura vivente76 sotto la provoca-zione di qualche cosa. Dunque, come nel faticoso scavodi un tunnel, egli sente l'«urto» al di qua e al di là: c'è dapensare che una possibilità di comunicazione non siamolto lontana.

Ma il Santayana ha un certo pudore che lo trattienedall'abbattere gli ultimi schermi: e con un uomo così di-

74 Ibid., p. 221.75 Ibid., p. 145.76 Ibid., p. 86.

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parte, ma come dei modi o vortici della sostanza genera-le della natura74.

A questo punto, chiunque abbia a cuore il rigore logi-co delle dottrine, non può fare a meno di riconoscereche il Santayana ne sa anche troppo del suo inconoscibi-le e che il suo scetticismo è non meno «malicious» diquel ch'è per lui il sapere degl'idealisti. Dalle sue affer-mazioni si ricava già quanto basta per identificare unametafisica a fondo volontaristico che sfocia in una dot-trina fenomenistica della conoscenza. Ed anche il modocom'egli salda quel fondo oscuro dell'essere col primoalbeggiare della coscienza nella sensazione ce ne dà laconferma. Da una parte infatti egli dichiara che l'urto(shock) è il grande argomento del senso comune perl'esistenza delle cose materiali75. D'altra parte egli defi-nisce il senso comune una facoltà «of calling namesunder provocation»: tutte le percezioni – e per conse-guenza i pensieri – sono gridi e commenti che si levanodal cuore di qualche creatura vivente76 sotto la provoca-zione di qualche cosa. Dunque, come nel faticoso scavodi un tunnel, egli sente l'«urto» al di qua e al di là: c'è dapensare che una possibilità di comunicazione non siamolto lontana.

Ma il Santayana ha un certo pudore che lo trattienedall'abbattere gli ultimi schermi: e con un uomo così di-

74 Ibid., p. 221.75 Ibid., p. 145.76 Ibid., p. 86.

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screto non vogliamo più insistere. Guardiamo piuttostoquel che si fa nella parte già illuminata del tunnel, o,fuor di metafora, nel mondo della conoscenza. Lo scetti-cismo del quale testé parlavamo, che sussiste a torto o aragione finché pretendiamo commisurare i simboli men-tali alla realtà in sé, scompare invece, a dir del Santaya-na, quando rinunziamo a quella pretesa e ci contentiamodi fruire di ciò che ci è dato in termini di esperienzamentale. Escluso (e questa esclusione ricorda il processodi riduzione fenomenologica dello Husserl) lo sconcer-tante problema dell'esistenza, ci resta, come pascolo in-disturbato, tutto il pacifico mondo delle essenze, cioèdegli elementi o enti mentali, contemplati e intuiti dalpensiero. Il regno delle essenze – ci spiega il Santayana– non è popolato da forme esemplari o da magici poteri.Esso è semplicemente il catalogo non scritto, prosaicoed infinito, di tutti i caratteri posseduti dalle cose cheper avventura esistono77. Siamo insomma nel mondoplatonico delle idee, reso più armonico mercé l'elimina-zione di quella tormentosa esigenza che spingeva Plato-ne a calare dal suo empireo nella zona del divenire natu-rale.

Molti troveranno con ragione che con questa decurta-zione una buona parte dell'interesse della dottrina delleessenze svapora. Ma un rapporto, anche negativo, è pursempre un rapporto; e l'autore sa far sprizzare qualchescintilla anche dal buio. Già, per cominciare, col fatto

77 Scepticism, p. 76.

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screto non vogliamo più insistere. Guardiamo piuttostoquel che si fa nella parte già illuminata del tunnel, o,fuor di metafora, nel mondo della conoscenza. Lo scetti-cismo del quale testé parlavamo, che sussiste a torto o aragione finché pretendiamo commisurare i simboli men-tali alla realtà in sé, scompare invece, a dir del Santaya-na, quando rinunziamo a quella pretesa e ci contentiamodi fruire di ciò che ci è dato in termini di esperienzamentale. Escluso (e questa esclusione ricorda il processodi riduzione fenomenologica dello Husserl) lo sconcer-tante problema dell'esistenza, ci resta, come pascolo in-disturbato, tutto il pacifico mondo delle essenze, cioèdegli elementi o enti mentali, contemplati e intuiti dalpensiero. Il regno delle essenze – ci spiega il Santayana– non è popolato da forme esemplari o da magici poteri.Esso è semplicemente il catalogo non scritto, prosaicoed infinito, di tutti i caratteri posseduti dalle cose cheper avventura esistono77. Siamo insomma nel mondoplatonico delle idee, reso più armonico mercé l'elimina-zione di quella tormentosa esigenza che spingeva Plato-ne a calare dal suo empireo nella zona del divenire natu-rale.

Molti troveranno con ragione che con questa decurta-zione una buona parte dell'interesse della dottrina delleessenze svapora. Ma un rapporto, anche negativo, è pursempre un rapporto; e l'autore sa far sprizzare qualchescintilla anche dal buio. Già, per cominciare, col fatto

77 Scepticism, p. 76.

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stesso che è escluso il problema di un'adeguazione lette-rale del pensiero alle cose, balza fuori impensatamenteun sentimento vivace di un'originalità creativa del co-smo mentale. Sul limitare di questo cosmo, le sensazionici appaiono coi segni di una novità fresca e indelebile.Esse sono risposte a urti misteriosi; ma l'accento battesulla spontaneità sorgiva della risposta. E i pensieri checomentano e interpretano queste risposte sono liberianch'essi dall'incubo che pesa da tempo immemorabilesu tutti i comentatori e i traduttori: quello della fedeltà.Non vi sono comenti fedeli e comenti poetici: tutti sonoin fondo poetici78. Noi leggiamo la natura come gl'ingle-si usano leggere il latino, pronunziandolo a modo loro,ma intendendolo benissimo. Così ogni famiglia di esserianimati, ogni senso, ogni stadio di esperienza e di scien-za legge il libro della natura secondo un sistema foneti-co tutto suo, senza possibilità di scambiarlo coi suoninativi; ma questa situazione, benché in un senso sia sen-za speranza, non è insoddisfacente dal punto di vistapratico, ed è innocently humorous. Appunto perché leimmagini date nel senso sono così originali e fantasti-che, l'intelletto può allargare la conoscenza, correggen-do, combinando e scontando (discounting) tali apparen-ze. «Questo mondo di libera espressione, questo com-plesso di sensazioni, passioni, idee, che perpetuamentesi accende e si spegne nella luce della coscienza, è ciòche si chiama il regno dello spirito»79.78 Scepticism, p. 86.79 The realm of essence, p. x.

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stesso che è escluso il problema di un'adeguazione lette-rale del pensiero alle cose, balza fuori impensatamenteun sentimento vivace di un'originalità creativa del co-smo mentale. Sul limitare di questo cosmo, le sensazionici appaiono coi segni di una novità fresca e indelebile.Esse sono risposte a urti misteriosi; ma l'accento battesulla spontaneità sorgiva della risposta. E i pensieri checomentano e interpretano queste risposte sono liberianch'essi dall'incubo che pesa da tempo immemorabilesu tutti i comentatori e i traduttori: quello della fedeltà.Non vi sono comenti fedeli e comenti poetici: tutti sonoin fondo poetici78. Noi leggiamo la natura come gl'ingle-si usano leggere il latino, pronunziandolo a modo loro,ma intendendolo benissimo. Così ogni famiglia di esserianimati, ogni senso, ogni stadio di esperienza e di scien-za legge il libro della natura secondo un sistema foneti-co tutto suo, senza possibilità di scambiarlo coi suoninativi; ma questa situazione, benché in un senso sia sen-za speranza, non è insoddisfacente dal punto di vistapratico, ed è innocently humorous. Appunto perché leimmagini date nel senso sono così originali e fantasti-che, l'intelletto può allargare la conoscenza, correggen-do, combinando e scontando (discounting) tali apparen-ze. «Questo mondo di libera espressione, questo com-plesso di sensazioni, passioni, idee, che perpetuamentesi accende e si spegne nella luce della coscienza, è ciòche si chiama il regno dello spirito»79.78 Scepticism, p. 86.79 The realm of essence, p. x.

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Di qui l'autore trae una prima e importante conse-guenza: che «la fantasia poetica, creatrice, originale nonè una forma secondaria di sensibilità, ma la sua prima eunica forma... L'arte bella è così più antica del lavoroservile»80. Valga questo accenno per confermare quelche testé dicevamo: che dalla dottrina del Santayana sipuò ricavare un'estetica ben diversa da quella ch'eglistesso ha esplicitamente formulata. Più difficile è inveceil raccordo tra questa fase fantastica dell'attività dellospirito e la successiva fase logica e raziocinativa. In fon-do, una discriminazione netta tra le due fasi è impossibi-le, date le premesse: tutto quello ch'egli può fare è di-stinguere delle espressioni più libere ed altre meno libe-re, «private» quelle, «pubbliche» o «legali» queste. Visono per esempio varie rappresentazioni della luna:quella dell'uomo comune, del poeta, dell'astronomo. Inultima istanza, si equivalgono tutte, perché sono tutteegualmente intuizioni di essenze, termini del discorsoumano, inesistenti in sé. I termini dell'astronomia sonoessenze non meno umane e visionarie di quelle della mi-tologia; ma esse sono il frutto di un'attenzione messa piùa foco, più castigata e più prolungata: in altre parole,esse si tengono più strette alla fede animale e più liberedagli elementi pittorici e fantastici. Nel mito, invece,l'intuizione vaga senza controllo; piuttosto che lasciarsiguidare da uno studio sempre nuovo dell'oggetto postodalla fede animale e incontrato nell'azione, essa corre ai

80 Op. cit., p. x.

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Di qui l'autore trae una prima e importante conse-guenza: che «la fantasia poetica, creatrice, originale nonè una forma secondaria di sensibilità, ma la sua prima eunica forma... L'arte bella è così più antica del lavoroservile»80. Valga questo accenno per confermare quelche testé dicevamo: che dalla dottrina del Santayana sipuò ricavare un'estetica ben diversa da quella ch'eglistesso ha esplicitamente formulata. Più difficile è inveceil raccordo tra questa fase fantastica dell'attività dellospirito e la successiva fase logica e raziocinativa. In fon-do, una discriminazione netta tra le due fasi è impossibi-le, date le premesse: tutto quello ch'egli può fare è di-stinguere delle espressioni più libere ed altre meno libe-re, «private» quelle, «pubbliche» o «legali» queste. Visono per esempio varie rappresentazioni della luna:quella dell'uomo comune, del poeta, dell'astronomo. Inultima istanza, si equivalgono tutte, perché sono tutteegualmente intuizioni di essenze, termini del discorsoumano, inesistenti in sé. I termini dell'astronomia sonoessenze non meno umane e visionarie di quelle della mi-tologia; ma esse sono il frutto di un'attenzione messa piùa foco, più castigata e più prolungata: in altre parole,esse si tengono più strette alla fede animale e più liberedagli elementi pittorici e fantastici. Nel mito, invece,l'intuizione vaga senza controllo; piuttosto che lasciarsiguidare da uno studio sempre nuovo dell'oggetto postodalla fede animale e incontrato nell'azione, essa corre ai

80 Op. cit., p. x.

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commenti marginali, alle associazioni soggettive e reto-riche81. Lo spazio, la materia, la gravitazione, il tempo ele leggi del moto concepiti dagli astronomi sono soltan-to essenze o meri simboli ad uso della fede animale. Lascienza in ogni momento può rivedere e correggere que-sti simboli, e il nucleo di verità in tale lavoro sta nellaproporzione in cui vien tolto il vestimento sensibile evengono poste in evidenza le relazioni strutturali tra glieventi. La conoscenza è perciò una fede: è credenza inun mondo di eventi, e particolarmente in quelle parti diesso che sono più vicine all'io e lo tentano o lo minac-ciano. Questa credenza è innata agli animali e comun-que precede ogni uso deliberato delle intuizioni comesegni o descrizioni di essa. La verità di tali presunzionio concezioni non implica adeguatezza né identità tral'essenza dell'intuizione e la costituzione dell'oggetto. Ildiscorso è un linguaggio, non uno specchio. E la veritàche il discorso può conseguire è verità nei suoi propritermini: è appropriata descrizione, non incorporazione oriproduzione dell'oggetto nella mente82.

La verità assoluta non può invece essere scoperta, ap-punto perché non è una prospettiva. Le prospettive sonoessenziali all'apprensione animale: un osservatore, ch'èparte egli stesso del mondo che osserva, deve avere unaparticolare stazione in esso. La verità assoluta ha la suapropria realtà intangibile, che rifugge dall'esser cono-

81 Scepticism, p. 177.82 Scepticism, p. 179.

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commenti marginali, alle associazioni soggettive e reto-riche81. Lo spazio, la materia, la gravitazione, il tempo ele leggi del moto concepiti dagli astronomi sono soltan-to essenze o meri simboli ad uso della fede animale. Lascienza in ogni momento può rivedere e correggere que-sti simboli, e il nucleo di verità in tale lavoro sta nellaproporzione in cui vien tolto il vestimento sensibile evengono poste in evidenza le relazioni strutturali tra glieventi. La conoscenza è perciò una fede: è credenza inun mondo di eventi, e particolarmente in quelle parti diesso che sono più vicine all'io e lo tentano o lo minac-ciano. Questa credenza è innata agli animali e comun-que precede ogni uso deliberato delle intuizioni comesegni o descrizioni di essa. La verità di tali presunzionio concezioni non implica adeguatezza né identità tral'essenza dell'intuizione e la costituzione dell'oggetto. Ildiscorso è un linguaggio, non uno specchio. E la veritàche il discorso può conseguire è verità nei suoi propritermini: è appropriata descrizione, non incorporazione oriproduzione dell'oggetto nella mente82.

La verità assoluta non può invece essere scoperta, ap-punto perché non è una prospettiva. Le prospettive sonoessenziali all'apprensione animale: un osservatore, ch'èparte egli stesso del mondo che osserva, deve avere unaparticolare stazione in esso. La verità assoluta ha la suapropria realtà intangibile, che rifugge dall'esser cono-

81 Scepticism, p. 177.82 Scepticism, p. 179.

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Page 76: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

sciuta. La funzione della mente è piuttosto di accrescerela ricchezza dell'universo nella dimensione spirituale,aggiungendo apparenza alla sostanza, passione alla ne-cessità e creando tutte quelle private prospettive e quelleemozioni di meraviglia, di curiosità, di avventura, chel'onniscienza escluderebbe83.

Questa veduta oggi è molto familiare tra gli scienziatiinglesi e generalmente tra i fautori della teoria della re-latività. Essa in fondo consiste nel separare una naturain sé, che ha un suo proprio comportamento autonomo,da un sistema di strutture nella mente che obbedisce alleleggi proprie del pensiero. È una specie di dualismo car-tesiano, con la differenza che l'estensione, la quale perCartesio appartiene alle cose in sé, diviene (non senzareminiscenze di Kant) la trama stessa del lavoro menta-le. Ma, separato dalle cose, e senza un Dio che faccia damediatore e da interprete, il pensiero vaga come in unlimbo popolato di ombre, ma incalzato dalla nostalgiadella terra lontana, eppur sempre presente coi suoi con-tinui richiami. Si ha un bel fissare i limiti dell'inconosci-bile: in realtà, senza il suo concorso, cioè senza chequalche lembo di esso si sveli, le strutture non si conva-lidano. Se anche la mente non è che una nuova dimen-sione del mondo naturale, bisogna che in qualche modoessa si saldi alle precedenti. Questo senso di continuità,che smentisce almeno in parte le premesse dualistiche, èchiaramente espresso dal brano seguente del Santayana.

83 The realm, p. XIII.

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sciuta. La funzione della mente è piuttosto di accrescerela ricchezza dell'universo nella dimensione spirituale,aggiungendo apparenza alla sostanza, passione alla ne-cessità e creando tutte quelle private prospettive e quelleemozioni di meraviglia, di curiosità, di avventura, chel'onniscienza escluderebbe83.

Questa veduta oggi è molto familiare tra gli scienziatiinglesi e generalmente tra i fautori della teoria della re-latività. Essa in fondo consiste nel separare una naturain sé, che ha un suo proprio comportamento autonomo,da un sistema di strutture nella mente che obbedisce alleleggi proprie del pensiero. È una specie di dualismo car-tesiano, con la differenza che l'estensione, la quale perCartesio appartiene alle cose in sé, diviene (non senzareminiscenze di Kant) la trama stessa del lavoro menta-le. Ma, separato dalle cose, e senza un Dio che faccia damediatore e da interprete, il pensiero vaga come in unlimbo popolato di ombre, ma incalzato dalla nostalgiadella terra lontana, eppur sempre presente coi suoi con-tinui richiami. Si ha un bel fissare i limiti dell'inconosci-bile: in realtà, senza il suo concorso, cioè senza chequalche lembo di esso si sveli, le strutture non si conva-lidano. Se anche la mente non è che una nuova dimen-sione del mondo naturale, bisogna che in qualche modoessa si saldi alle precedenti. Questo senso di continuità,che smentisce almeno in parte le premesse dualistiche, èchiaramente espresso dal brano seguente del Santayana.

83 The realm, p. XIII.

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Page 77: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

«La natura, egli dice, non è un'immagine visuale iposta-tizzata: essa ha incorporato, da tempo indefinito, tutte leessenze che ha incorporato, senza chiedere il nostro per-messo e senza preventivamente conformarsi (come i fi-losofi sembra che si aspettino) all'economia e alla logicadei nostri pensieri. Pure, questi nostri pensieri e immagi-ni, con la loro economia, non sono irrilevanti alla natu-ra, una volta che essa li produce in dati punti del suoprocesso; la nostra immaginazione e la nostra logicasono la sua immaginazione e la sua logica, con cui al-meno essa trova possibile possedere e celebrare se stes-sa spiritualmente. Esse sono perciò abbastanza vere, euna differente logica o una differente immaginazionenon sarebbero probabilmente più vere... Con la nascitadello spirito la natura si è resa complicata ed eteroclita,come la vita animale più tardi con l'origine del linguag-gio; ma lo spirito non può contenere alcuna porzione, etanto meno la totalità, del flusso naturale che lo gene-ra»84.

Ma, una volta posto che il pensiero è in rapporto dicontinuità con la natura, anzi è, in un certo senso, l'auto-espressione della natura, non si spiega, nella dottrina delSantayana, perché a una natura concepita dinamicamen-te, come un perenne flusso eracliteo, debba corrisponde-re un pensiero platonizzante, che si compendia esclusi-vamente nell'intuizione di essenze fisse ed immutevoli.Una rappresentazione per esempio kantiana del pensie-

84 The realm, p. 136.

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«La natura, egli dice, non è un'immagine visuale iposta-tizzata: essa ha incorporato, da tempo indefinito, tutte leessenze che ha incorporato, senza chiedere il nostro per-messo e senza preventivamente conformarsi (come i fi-losofi sembra che si aspettino) all'economia e alla logicadei nostri pensieri. Pure, questi nostri pensieri e immagi-ni, con la loro economia, non sono irrilevanti alla natu-ra, una volta che essa li produce in dati punti del suoprocesso; la nostra immaginazione e la nostra logicasono la sua immaginazione e la sua logica, con cui al-meno essa trova possibile possedere e celebrare se stes-sa spiritualmente. Esse sono perciò abbastanza vere, euna differente logica o una differente immaginazionenon sarebbero probabilmente più vere... Con la nascitadello spirito la natura si è resa complicata ed eteroclita,come la vita animale più tardi con l'origine del linguag-gio; ma lo spirito non può contenere alcuna porzione, etanto meno la totalità, del flusso naturale che lo gene-ra»84.

Ma, una volta posto che il pensiero è in rapporto dicontinuità con la natura, anzi è, in un certo senso, l'auto-espressione della natura, non si spiega, nella dottrina delSantayana, perché a una natura concepita dinamicamen-te, come un perenne flusso eracliteo, debba corrisponde-re un pensiero platonizzante, che si compendia esclusi-vamente nell'intuizione di essenze fisse ed immutevoli.Una rappresentazione per esempio kantiana del pensie-

84 The realm, p. 136.

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Page 78: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

ro, come una sintesi progressiva, sempre in via di com-piersi e mai compiuta, sembrerebbe più adeguata al cor-so delle cose. Ma qui il Santayana è stato dominato daisuoi gusti platonici, comuni, del resto, anche a molticultori odierni di scienze naturali. E, d'altra parte, la lo-gica stessa della distinzione da lui stabilita tra un mondodi esistenze e di sostanze, e un mondo di meri enti e diessenze, doveva inevitabilmente condurlo tra le idee delplatonismo e tra le difficoltà ad esse inerenti. Il suo libroThe realm of essence vorrebbe dare una sistemazionespeculativa di tutto il cósmos noetós, ma s'incontra neglistessi ostacoli che già a Platone impedirono il compi-mento di questa impresa. Tra le idee non vi può esserenesso intrinseco quando esse non scaturiscono daun'attività mentale. Tutto quello ch'egli sa dirne ci eragià noto dalla tradizione platonica. E cioè, che il princi-pio dell'essenza è l'identità; che l'essere di ciascuna es-senza è interamente esaurito dalla sua definizione; chel'essenza è immutevole più di qualunque evento o cosadell'esperienza; che il divenire e il durare son privilegidell'esistenza, mentre le essenze possono essere scam-biate ma non possono cambiare; che l'esistenza è loca-lizzata, mentre l'essenza è fuori di ogni localizzazione; ecosì via85. Manca però – ed è segno d'inferiorità rispettoal platonismo – ogni complemento teistico della dottrinadelle idee; e queste rassomigliano a spiriti vaganti fuoridell'Ade, reclamanti la non concessa sepoltura.

85 Op. cit., pp. 18 sgg.

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ro, come una sintesi progressiva, sempre in via di com-piersi e mai compiuta, sembrerebbe più adeguata al cor-so delle cose. Ma qui il Santayana è stato dominato daisuoi gusti platonici, comuni, del resto, anche a molticultori odierni di scienze naturali. E, d'altra parte, la lo-gica stessa della distinzione da lui stabilita tra un mondodi esistenze e di sostanze, e un mondo di meri enti e diessenze, doveva inevitabilmente condurlo tra le idee delplatonismo e tra le difficoltà ad esse inerenti. Il suo libroThe realm of essence vorrebbe dare una sistemazionespeculativa di tutto il cósmos noetós, ma s'incontra neglistessi ostacoli che già a Platone impedirono il compi-mento di questa impresa. Tra le idee non vi può esserenesso intrinseco quando esse non scaturiscono daun'attività mentale. Tutto quello ch'egli sa dirne ci eragià noto dalla tradizione platonica. E cioè, che il princi-pio dell'essenza è l'identità; che l'essere di ciascuna es-senza è interamente esaurito dalla sua definizione; chel'essenza è immutevole più di qualunque evento o cosadell'esperienza; che il divenire e il durare son privilegidell'esistenza, mentre le essenze possono essere scam-biate ma non possono cambiare; che l'esistenza è loca-lizzata, mentre l'essenza è fuori di ogni localizzazione; ecosì via85. Manca però – ed è segno d'inferiorità rispettoal platonismo – ogni complemento teistico della dottrinadelle idee; e queste rassomigliano a spiriti vaganti fuoridell'Ade, reclamanti la non concessa sepoltura.

85 Op. cit., pp. 18 sgg.

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In verità, la filosofia del Santayana, come la sirenadella leggenda, desinit in piscem. Piena di vivacità e dicolore finché si muove, anche con intenti polemici, trale cose e le realtà che pretende interdire al pensiero,s'inaridisce e s'annulla quando prende sul serio l'inter-detto e si chiude nel vagheggiato regno, che le apparivaattraente, quando l'intravvedeva da lontano, in un con-trasto di ombre e di luci. Non vuol forse dir questo cheil contrasto è più essenziale e intrinseco al pensiero chenon la sospirata quiete? e che la quiete stessa del puromondo delle essenze non è che una mobile prospettivapresa dal contrastato mondo del divenire? Buon perl'autore, come già per Platone, ch'egli s'indugi, anchecon scopo polemico, nella zona dei contrasti: qualcosadi quella vita egli la porta con sé nel suo limbo. Altricontemplatori di essenze – lo Husserl, ad esempio, perparlar dei contemporanei – avendo voluto essere più sol-leciti a chiudersi nel loro rifugio, hanno assai più prestoannaspato nel vuoto dei meri concetti.

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In verità, la filosofia del Santayana, come la sirenadella leggenda, desinit in piscem. Piena di vivacità e dicolore finché si muove, anche con intenti polemici, trale cose e le realtà che pretende interdire al pensiero,s'inaridisce e s'annulla quando prende sul serio l'inter-detto e si chiude nel vagheggiato regno, che le apparivaattraente, quando l'intravvedeva da lontano, in un con-trasto di ombre e di luci. Non vuol forse dir questo cheil contrasto è più essenziale e intrinseco al pensiero chenon la sospirata quiete? e che la quiete stessa del puromondo delle essenze non è che una mobile prospettivapresa dal contrastato mondo del divenire? Buon perl'autore, come già per Platone, ch'egli s'indugi, anchecon scopo polemico, nella zona dei contrasti: qualcosadi quella vita egli la porta con sé nel suo limbo. Altricontemplatori di essenze – lo Husserl, ad esempio, perparlar dei contemporanei – avendo voluto essere più sol-leciti a chiudersi nel loro rifugio, hanno assai più prestoannaspato nel vuoto dei meri concetti.

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V

JOHN DEWEY

John Dewey86 è conosciuto in Italia specialmentecome pedagogista. La sua dottrina dell'educazione haimpresso un orientamento nuovo alle scuole americane,e, mediatamente, opera anche tra noi, per merito del86 Una bibliografia completa degli scritti del Dewey è quella di MILTON

HALSEY THOMAS & HERBERT WALLACE SCHNEIDER, A bibliography of JohnDewey, New York, Columbia University Press, 1929. Un'ottima scelta dibrani, sistematicamente raggruppati, è data dal volume: The philosophy ofJohn Dewey selected and edited by J. RATNER, New York, Holt, 1928. Leopere più significative del Dewey sono: Psychology, New York, 1887(18913); Outlines of a critical theory of ethics, N. Y., 1891; Studies inlogical theory, Chicago, 1903; How we think, Boston, 1910; Democracyand education, N. Y., 1916; Essays in experimental logic, Chicago, 1916;Reconstruction in philosophy, N. Y., 1920; Human nature and conduct, N.Y., 1922; Experience and nature, Chicago, 1925; Characters and events(Popolar essays in social and political philosophy), N. Y., 1929, 2 voll.;The quest for certainty, N. Y., 1929; Construction and criticism (The firstDavies Memorial Lectures), Columbia University Press, 1930. Si vedanoanche gli articoli che il D. ha pubblicato in The Journal of Philosophy, edi-to dallo Schneider. Per la letteratura intorno al Dewey, si consulti il vol.cit. di Milton Halsey Thomas ed Herbert Wallace Schneider. Una traduzio-ne italiana del libro Reconstruction in philosophy è stata da me pubblicatapresso l'editore Laterza, col titolo: Ricostruzione filosofica. V. anche: Thephilosophy of J. D., 1939 (esposta da vari autori, in The library of livingphilosophers dello SCHLIPP).

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JOHN DEWEY

John Dewey86 è conosciuto in Italia specialmentecome pedagogista. La sua dottrina dell'educazione haimpresso un orientamento nuovo alle scuole americane,e, mediatamente, opera anche tra noi, per merito del86 Una bibliografia completa degli scritti del Dewey è quella di MILTON

HALSEY THOMAS & HERBERT WALLACE SCHNEIDER, A bibliography of JohnDewey, New York, Columbia University Press, 1929. Un'ottima scelta dibrani, sistematicamente raggruppati, è data dal volume: The philosophy ofJohn Dewey selected and edited by J. RATNER, New York, Holt, 1928. Leopere più significative del Dewey sono: Psychology, New York, 1887(18913); Outlines of a critical theory of ethics, N. Y., 1891; Studies inlogical theory, Chicago, 1903; How we think, Boston, 1910; Democracyand education, N. Y., 1916; Essays in experimental logic, Chicago, 1916;Reconstruction in philosophy, N. Y., 1920; Human nature and conduct, N.Y., 1922; Experience and nature, Chicago, 1925; Characters and events(Popolar essays in social and political philosophy), N. Y., 1929, 2 voll.;The quest for certainty, N. Y., 1929; Construction and criticism (The firstDavies Memorial Lectures), Columbia University Press, 1930. Si vedanoanche gli articoli che il D. ha pubblicato in The Journal of Philosophy, edi-to dallo Schneider. Per la letteratura intorno al Dewey, si consulti il vol.cit. di Milton Halsey Thomas ed Herbert Wallace Schneider. Una traduzio-ne italiana del libro Reconstruction in philosophy è stata da me pubblicatapresso l'editore Laterza, col titolo: Ricostruzione filosofica. V. anche: Thephilosophy of J. D., 1939 (esposta da vari autori, in The library of livingphilosophers dello SCHLIPP).

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Lombardo Radice, che ha saputo cogliere alcune affinitàprofonde che, malgrado la diversità delle insegne specu-lative, esistono tra essa e la pedagogia idealistica, ed hapotuto così innestare molte vedute originali del Deweynella propria dottrina pedagogica.

Ma il Dewey ha elaborato anche una filosofia, nelsenso più ampio e complesso che si suol dare a questaparola, di cui la citata pedagogia non è che un prolunga-mento e un completamento, e che merita di esser cono-sciuta come una delle espressioni più spontanee ed ori-ginali del pensiero contemporaneo. Una delle prime pro-ve di queste sue qualità ci è indirettamente offerta dalladifficoltà stessa che s'incontra nel catalogarla tra lescuole e gl'indirizzi che la tradizione ci ha reso familiari.Essa ha qualche affinità col prammatismo, in quanto ri-fugge dagli schemi intellettualistici del pensiero classicoe considera l'attività stessa della mente come un valorestrumentale; donde il nome di «strumentalismo» con cuisuol essere designata. Ma, in contrasto con la grettezzafilistea del prammatismo, che degrada l'attività del pen-siero al livello di un'utilità meramente economica, essane rivendica il carattere e il significato ideale. Dire cheil pensiero sia uno strumento non significa, per ilDewey, che esso escluda ogni ricerca imparziale e disin-teressata; allo stesso modo che – come egli dice – attri-buire a una locomotiva un carattere strumentale non si-gnifica deprezzare il valore di un'accurata ed elaboratacostruzione di essa. Ma c'è di più una netta differenza

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Lombardo Radice, che ha saputo cogliere alcune affinitàprofonde che, malgrado la diversità delle insegne specu-lative, esistono tra essa e la pedagogia idealistica, ed hapotuto così innestare molte vedute originali del Deweynella propria dottrina pedagogica.

Ma il Dewey ha elaborato anche una filosofia, nelsenso più ampio e complesso che si suol dare a questaparola, di cui la citata pedagogia non è che un prolunga-mento e un completamento, e che merita di esser cono-sciuta come una delle espressioni più spontanee ed ori-ginali del pensiero contemporaneo. Una delle prime pro-ve di queste sue qualità ci è indirettamente offerta dalladifficoltà stessa che s'incontra nel catalogarla tra lescuole e gl'indirizzi che la tradizione ci ha reso familiari.Essa ha qualche affinità col prammatismo, in quanto ri-fugge dagli schemi intellettualistici del pensiero classicoe considera l'attività stessa della mente come un valorestrumentale; donde il nome di «strumentalismo» con cuisuol essere designata. Ma, in contrasto con la grettezzafilistea del prammatismo, che degrada l'attività del pen-siero al livello di un'utilità meramente economica, essane rivendica il carattere e il significato ideale. Dire cheil pensiero sia uno strumento non significa, per ilDewey, che esso escluda ogni ricerca imparziale e disin-teressata; allo stesso modo che – come egli dice – attri-buire a una locomotiva un carattere strumentale non si-gnifica deprezzare il valore di un'accurata ed elaboratacostruzione di essa. Ma c'è di più una netta differenza

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tra la strumentalità fisica e quella intellettuale; la primaè più limitata e circoscritta nel suo uso, la seconda, ap-punto perché è una strumentalità altamente generalizza-ta, è più flessibile nell'adattamento a un uso imprevi-sto87. Queste parole del Dewey ci ricordano la definizio-ne che il Montaigne dava del pensiero come un outil àtout usage, e ci spiegano che egli possa dare al suoprammatismo o strumentalismo una qualifica idealistica.Del resto, le espressioni «prammatismo», «idealismo»,nel loro raccostamento statico non valgono a darci unarappresentazione adeguata della sua dottrina: come hagià notato un critico americano, la via giusta per apprez-zare la filosofia del Dewey è quella di considerare non ipunti di partenza e di arrivo, ma il movimento dagli uniagli altri. Nelle sue ricerche egli di solito esordisce colpiù crudo empirismo e con un ostentato disprezzo peidommi della filosofia intellettualistica tradizionale, chepuò urtare una mente filosoficamente educata; ma, dota-to com'egli è del senso della complessità crescente dellavita spirituale, non si appaga delle semplificazioni su-perficiali da cui muove, ma scava in profondità e si ri-trova così alle stesse fonti a cui hanno attinto i maestridella speculazione idealistica di tutti i tempi. Insomma,l'idealismo non è per lui un risultato, ma una linea dimovimento, di cui va acquistando sempre più piena co-scienza88.

87 DEWEY, Reconstruction in philosophy (10a ristampa), 1929, pp. 148-49.88 V. l'art. di W. E. HOCKING, Action and certainty, in Journal of philosophy

del 24 aprile 1930, pp. 225, 238.

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tra la strumentalità fisica e quella intellettuale; la primaè più limitata e circoscritta nel suo uso, la seconda, ap-punto perché è una strumentalità altamente generalizza-ta, è più flessibile nell'adattamento a un uso imprevi-sto87. Queste parole del Dewey ci ricordano la definizio-ne che il Montaigne dava del pensiero come un outil àtout usage, e ci spiegano che egli possa dare al suoprammatismo o strumentalismo una qualifica idealistica.Del resto, le espressioni «prammatismo», «idealismo»,nel loro raccostamento statico non valgono a darci unarappresentazione adeguata della sua dottrina: come hagià notato un critico americano, la via giusta per apprez-zare la filosofia del Dewey è quella di considerare non ipunti di partenza e di arrivo, ma il movimento dagli uniagli altri. Nelle sue ricerche egli di solito esordisce colpiù crudo empirismo e con un ostentato disprezzo peidommi della filosofia intellettualistica tradizionale, chepuò urtare una mente filosoficamente educata; ma, dota-to com'egli è del senso della complessità crescente dellavita spirituale, non si appaga delle semplificazioni su-perficiali da cui muove, ma scava in profondità e si ri-trova così alle stesse fonti a cui hanno attinto i maestridella speculazione idealistica di tutti i tempi. Insomma,l'idealismo non è per lui un risultato, ma una linea dimovimento, di cui va acquistando sempre più piena co-scienza88.

87 DEWEY, Reconstruction in philosophy (10a ristampa), 1929, pp. 148-49.88 V. l'art. di W. E. HOCKING, Action and certainty, in Journal of philosophy

del 24 aprile 1930, pp. 225, 238.

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Il Dewey muove dal sentimento vivace dell'antitesitra l'intuizione antica della vita e la moderna. Pei Grecil'immobilità e 1'immutevolezza erano i caratteri essen-ziali del vero essere; il mutamento apparteneva a unasfera inferiore dell'apparenza spuria e ingannatrice. Inquesta visione si rifletteva uno statico ordine sociale,avente al suo vertice, almeno come ideale aspirazione,una vita puramente contemplativa, non turbatadall'affaccendamento tumultuoso delle forme di vita piùbasse, alle prese col mobile divenire. Oggi la disposizio-ne morale di fronte al mutamento è profondamente mo-dificata. «Questo perde il suo pathos, cessa di esserguardato con malinconia come una caduta dalla grazia,come fautore di decadenza e di perdizione. Esso viene asignificare nuove possibilità e nuovi fini da raggiungere:diviene profetico di un futuro migliore»89. Quindi, anchela concezione contemplativa del sapere, che presuppo-neva un oggetto stabile e immutevole, perde ogni valo-re. Oggi, l'ultima cosa a cui pensa un uomo di scienza èil contemplare. Egli non aspetta passivamente una rive-lazione, ma comincia col fare qualche cosa, col portarqualche reagente sulla materia da studiare, per vederecome si comporta. Egli non può certo mutare le stelle,ma può almeno, con lenti e con prismi, mutare la loroluce non appena tocca la terra; può apprestar trappoleper scoprire mutamenti che in ogni altro caso sfuggireb-bero90. Alla passività della contemplazione subentra così89 Reconstruction, p. 116.90 Ibid., pp. 112-13.

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Il Dewey muove dal sentimento vivace dell'antitesitra l'intuizione antica della vita e la moderna. Pei Grecil'immobilità e 1'immutevolezza erano i caratteri essen-ziali del vero essere; il mutamento apparteneva a unasfera inferiore dell'apparenza spuria e ingannatrice. Inquesta visione si rifletteva uno statico ordine sociale,avente al suo vertice, almeno come ideale aspirazione,una vita puramente contemplativa, non turbatadall'affaccendamento tumultuoso delle forme di vita piùbasse, alle prese col mobile divenire. Oggi la disposizio-ne morale di fronte al mutamento è profondamente mo-dificata. «Questo perde il suo pathos, cessa di esserguardato con malinconia come una caduta dalla grazia,come fautore di decadenza e di perdizione. Esso viene asignificare nuove possibilità e nuovi fini da raggiungere:diviene profetico di un futuro migliore»89. Quindi, anchela concezione contemplativa del sapere, che presuppo-neva un oggetto stabile e immutevole, perde ogni valo-re. Oggi, l'ultima cosa a cui pensa un uomo di scienza èil contemplare. Egli non aspetta passivamente una rive-lazione, ma comincia col fare qualche cosa, col portarqualche reagente sulla materia da studiare, per vederecome si comporta. Egli non può certo mutare le stelle,ma può almeno, con lenti e con prismi, mutare la loroluce non appena tocca la terra; può apprestar trappoleper scoprire mutamenti che in ogni altro caso sfuggireb-bero90. Alla passività della contemplazione subentra così89 Reconstruction, p. 116.90 Ibid., pp. 112-13.

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l'esperimento attivo, che rompe la stabilità apparentedelle cose ed apre la via al mutamento. Per questa via siscoprono le proprietà delle cose, che restano invece oc-culte a una contemplazione vagante alla superficie diesse. E la «realtà» cessa di essere qualcosa di bell'e fattoe di definitivo; essa diviene ciò che va accettato come ilmateriale del mutamento. A loro volta, anche l'«ideale»e il «razionale» cessano di far parte di un mondo separa-to, incapace di essere usato per far leva nella trasforma-zione del mondo empirico; ma rappresentano delle pos-sibilità intelligentemente intravviste in seno alle cosedell'esperienza, di cui ci si può servire per migliorarle91.

Di questa visione moderna della realtà le scienze del-la natura sono, per il Dewey, l'espressione più genuina.La filosofia, invece, che per molti riguardi ha assecon-dato e promosso l'emancipazione dello spirito modernodai legami di un'irrigidita tradizione, per altri riguardi liha confermati e ribaditi, col fatto stesso che ha mutuatodai Greci molti dei suoi problemi e dei suoi ideali. An-cora per essa vige l'identificazione della realtà con ciòch'è stabile, regolare, finito; mentre l'esperienza, nellesue forme non sofisticate, ci attesta una differente realtàe ci avvia verso una differente concezione delle cose. Ineffetti, noi viviamo in un mondo che è un miscuglio disufficienza, compiutezza, ordine e ricorrenza, che ren-dono possibili la previsione e il controllo, e di singolari-tà, ambiguità, incertezze, insomma di processi che si av-

91 Reconstruction, p. 122.

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l'esperimento attivo, che rompe la stabilità apparentedelle cose ed apre la via al mutamento. Per questa via siscoprono le proprietà delle cose, che restano invece oc-culte a una contemplazione vagante alla superficie diesse. E la «realtà» cessa di essere qualcosa di bell'e fattoe di definitivo; essa diviene ciò che va accettato come ilmateriale del mutamento. A loro volta, anche l'«ideale»e il «razionale» cessano di far parte di un mondo separa-to, incapace di essere usato per far leva nella trasforma-zione del mondo empirico; ma rappresentano delle pos-sibilità intelligentemente intravviste in seno alle cosedell'esperienza, di cui ci si può servire per migliorarle91.

Di questa visione moderna della realtà le scienze del-la natura sono, per il Dewey, l'espressione più genuina.La filosofia, invece, che per molti riguardi ha assecon-dato e promosso l'emancipazione dello spirito modernodai legami di un'irrigidita tradizione, per altri riguardi liha confermati e ribaditi, col fatto stesso che ha mutuatodai Greci molti dei suoi problemi e dei suoi ideali. An-cora per essa vige l'identificazione della realtà con ciòch'è stabile, regolare, finito; mentre l'esperienza, nellesue forme non sofisticate, ci attesta una differente realtàe ci avvia verso una differente concezione delle cose. Ineffetti, noi viviamo in un mondo che è un miscuglio disufficienza, compiutezza, ordine e ricorrenza, che ren-dono possibili la previsione e il controllo, e di singolari-tà, ambiguità, incertezze, insomma di processi che si av-

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viano verso conseguenze ancora indeterminate. Questidue aspetti son mescolati insieme non meccanicamente,ma vitalmente, come il grano e la zizzania della parabo-la: noi possiamo riconoscerli separatamente, ma non di-viderli. Irrigidirli in due mondi distinti, come, nella scìadella tradizione, sèguita ancora a far la filosofia, signifi-ca perdere il senso della loro antitesi e del loro intrec-cio92. Bisogna che essa invece si ponga al loro centro oalla loro confluenza; che cioè essa si liberi del tutto dal-le forme del pensiero classico ed operi lo stesso muta-mento che già le scienze della natura hanno attuato. Nonsi tratta però – è bene avvertirlo – di appropriarsi, se-condo i dettami del positivismo, dei risultati scientifici,per sottoporli a una manipolazione di secondo grado;ma di dare un riconoscimento alla funzione attiva delpensiero in un mondo a cui il mutamento è connaturato.La trasformazione che il Dewey vagheggia ha un signi-ficato metodologico e insieme metafisico: la scienzanon è tanto un modello da imitare, quanto un segno e undocumento di un mutato atteggiamento spirituale versoil mondo, da cui bisogna trarre tutte le implicite conse-guenze, speculative ed etiche.

Molte vane quistioni filosofiche sorgono dall'assun-zione di una mente che sta a sé, da una parte, e un estra-neo e stabile oggetto dall'altra, che dev'esser visto e os-servato. Si chiede allora come mai una mente e un mon-do, un soggetto e un oggetto, così separati e indipenden-

92 Experience and nature, p. 47.

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viano verso conseguenze ancora indeterminate. Questidue aspetti son mescolati insieme non meccanicamente,ma vitalmente, come il grano e la zizzania della parabo-la: noi possiamo riconoscerli separatamente, ma non di-viderli. Irrigidirli in due mondi distinti, come, nella scìadella tradizione, sèguita ancora a far la filosofia, signifi-ca perdere il senso della loro antitesi e del loro intrec-cio92. Bisogna che essa invece si ponga al loro centro oalla loro confluenza; che cioè essa si liberi del tutto dal-le forme del pensiero classico ed operi lo stesso muta-mento che già le scienze della natura hanno attuato. Nonsi tratta però – è bene avvertirlo – di appropriarsi, se-condo i dettami del positivismo, dei risultati scientifici,per sottoporli a una manipolazione di secondo grado;ma di dare un riconoscimento alla funzione attiva delpensiero in un mondo a cui il mutamento è connaturato.La trasformazione che il Dewey vagheggia ha un signi-ficato metodologico e insieme metafisico: la scienzanon è tanto un modello da imitare, quanto un segno e undocumento di un mutato atteggiamento spirituale versoil mondo, da cui bisogna trarre tutte le implicite conse-guenze, speculative ed etiche.

Molte vane quistioni filosofiche sorgono dall'assun-zione di una mente che sta a sé, da una parte, e un estra-neo e stabile oggetto dall'altra, che dev'esser visto e os-servato. Si chiede allora come mai una mente e un mon-do, un soggetto e un oggetto, così separati e indipenden-

92 Experience and nature, p. 47.

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ti, possano venire in tale relazione tra loro, che una veraconoscenza sia resa possibile. Se il conoscere fosse abi-tualmente concepito come attivo ed operativo, secondol'analogia dell'esperimento guidato da ipotesi odell'invenzione guidata dall'idea di qualche possibilità,non è troppo dire – osserva il Dewey – che il primo ef-fetto sarebbe di emancipare la filosofia da tutti i puzzlesepistemologici che ora l'ingombrano93. E per comincia-re: il fatto della relatività delle sensazioni suscita diffi-coltà gravi solo se si attribuisce alle sensazioni il valoreteoretico di riproduzioni soggettive di una realtà oggetti-va preesistente. Bisogna invece considerarle come di na-tura emotiva e pratica piuttosto che cognitiva e intellet-tuale. Esse sono urti, che segnalano un mutamento, do-vuto all'interruzione di un assetto anteriore. «Per esem-pio, una persona che prende note con una matita non av-verte la pressione della matita sulla carta o sulla mano,finché essa scorre liberamente. L'attività sensoriale inci-ta in modo automatico e inconscio la risposta motrice.V'è una preformata connessione fisiologica, acquistatacon l'abitudine, ma che in ultima istanza si riferisce auna connessione originaria nel sistema nervoso. Se lapunta della matita si rompe e l'abitudine dello scriverenon opera speditamente, allora c'è un urto cosciente: lasensazione che qualcosa non va. Questo mutamentoemotivo opera come uno stimolo per un mutamento ri-chiesto nell'operazione. Si guarda la matita e la si tem-

93 Reconstruction, p. 123.

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ti, possano venire in tale relazione tra loro, che una veraconoscenza sia resa possibile. Se il conoscere fosse abi-tualmente concepito come attivo ed operativo, secondol'analogia dell'esperimento guidato da ipotesi odell'invenzione guidata dall'idea di qualche possibilità,non è troppo dire – osserva il Dewey – che il primo ef-fetto sarebbe di emancipare la filosofia da tutti i puzzlesepistemologici che ora l'ingombrano93. E per comincia-re: il fatto della relatività delle sensazioni suscita diffi-coltà gravi solo se si attribuisce alle sensazioni il valoreteoretico di riproduzioni soggettive di una realtà oggetti-va preesistente. Bisogna invece considerarle come di na-tura emotiva e pratica piuttosto che cognitiva e intellet-tuale. Esse sono urti, che segnalano un mutamento, do-vuto all'interruzione di un assetto anteriore. «Per esem-pio, una persona che prende note con una matita non av-verte la pressione della matita sulla carta o sulla mano,finché essa scorre liberamente. L'attività sensoriale inci-ta in modo automatico e inconscio la risposta motrice.V'è una preformata connessione fisiologica, acquistatacon l'abitudine, ma che in ultima istanza si riferisce auna connessione originaria nel sistema nervoso. Se lapunta della matita si rompe e l'abitudine dello scriverenon opera speditamente, allora c'è un urto cosciente: lasensazione che qualcosa non va. Questo mutamentoemotivo opera come uno stimolo per un mutamento ri-chiesto nell'operazione. Si guarda la matita e la si tem-

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Page 87: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

pera o se ne prende un'altra. La sensazione opera comeun pivot of readjusting behaviour. Essa segna una rottu-ra nella routine precedente dello scrivere e l'inizio di unnuovo modo di azione. Le sensazioni sono relative nelsenso che segnano transizioni nei modi del comporta-mento da un abito a un altro. Il razionalista ha ragionepertanto di negare che le sensazioni come tali siano verielementi di conoscenza. Ma le ragioni che egli dà in fa-vore di questa conclusione e le conseguenze che ne traesono erronee. Le sensazioni non sono parti di alcuna co-noscenza, buona o cattiva, superiore o inferiore, imper-fetta o completa. Esse sono piuttosto provocazioni, inci-tamenti, sfide, a una ricerca che termina in una cono-scenza. Come interruzioni, esse sollevano le domande:cosa significa questo urto? che accade? qual è la mia re-lazione col turbato ambiente? che bisogna fare?»94. Setale è la loro natura, il loro preteso atomismo scomparetotalmente, e si rende superflua l'esigenza di una facoltàsintetica, di una ragione super-empirica per connetterle.La filosofia non si trova più di fronte al problema inso-lubile di cercare una via per mezzo della quale dei graniseparati di sabbia possano esser saldati in una forte ecoerente roccia. Scompare ogni necessità del macchina-rio kantiano di concetti a priori per sintetizzare una pre-tesa materia amorfa dell'esperienza. La vera materiaconsiste in processi di adattamento reciproco tra azioni,abiti, funzioni attive, connessioni tra fare e subire: coor-

94 Reconstruction, pp. 89-90.

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pera o se ne prende un'altra. La sensazione opera comeun pivot of readjusting behaviour. Essa segna una rottu-ra nella routine precedente dello scrivere e l'inizio di unnuovo modo di azione. Le sensazioni sono relative nelsenso che segnano transizioni nei modi del comporta-mento da un abito a un altro. Il razionalista ha ragionepertanto di negare che le sensazioni come tali siano verielementi di conoscenza. Ma le ragioni che egli dà in fa-vore di questa conclusione e le conseguenze che ne traesono erronee. Le sensazioni non sono parti di alcuna co-noscenza, buona o cattiva, superiore o inferiore, imper-fetta o completa. Esse sono piuttosto provocazioni, inci-tamenti, sfide, a una ricerca che termina in una cono-scenza. Come interruzioni, esse sollevano le domande:cosa significa questo urto? che accade? qual è la mia re-lazione col turbato ambiente? che bisogna fare?»94. Setale è la loro natura, il loro preteso atomismo scomparetotalmente, e si rende superflua l'esigenza di una facoltàsintetica, di una ragione super-empirica per connetterle.La filosofia non si trova più di fronte al problema inso-lubile di cercare una via per mezzo della quale dei graniseparati di sabbia possano esser saldati in una forte ecoerente roccia. Scompare ogni necessità del macchina-rio kantiano di concetti a priori per sintetizzare una pre-tesa materia amorfa dell'esperienza. La vera materiaconsiste in processi di adattamento reciproco tra azioni,abiti, funzioni attive, connessioni tra fare e subire: coor-

94 Reconstruction, pp. 89-90.

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Page 88: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

dinazioni sensorio-motrici. Questa organizzazione in-trinseca alla vita rende superflua una sintesi al di sopradella natura e dell'esperienza95.

Pure, se un pensiero non è necessario per coordinareil materiale sensibile, è necessario per rispondere alledomande poste dalle sensazioni. Non ritornano così, peraltra via e con forma diversa, le categorie e la sintesikantiane? Questo ritorno si effettua, nella concezionedel Dewey, quasi a insaputa del suo autore: egli parla dimetodi mentali, di analisi, di generalizzazioni, ecc. sen-za chiedersi se queste articolazioni del pensiero non ab-biano per caso bisogno di una spiegazione a priori. Eglisi serve dei suoi «strumenti» intellettuali senza indagarefino in fondo come mai essi son posti in grado di fun-zionare. Le sue prevenzioni contro il kantismo sono par-ticolarmente suggerite da un'istintiva ripugnanza perl'interpretazione fichtiana di Kant: cioè per l'idea di unEgo troppo sufficiente a se stesso, che con una specie dimagìa crea il mondo. Tale non è per lui la funzione delpensiero, bensì quella di ricreare il mondo, trasforman-dolo in uno strumento e un possesso dell'intelligenza. Ilpensiero prende inizio da specifici conflitti in senoall'esperienza, che cagionano perplessità e turbamenti.«Gli uomini, per norma, non pensano, se non quandohanno perturbazioni da sedare, difficoltà da superare.Una vita di riposo, di successo senza sforzo, sarebbeuna vita senza pensiero. Gli uomini non tendono a pen-

95 Ibid., pp. 90-91.

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dinazioni sensorio-motrici. Questa organizzazione in-trinseca alla vita rende superflua una sintesi al di sopradella natura e dell'esperienza95.

Pure, se un pensiero non è necessario per coordinareil materiale sensibile, è necessario per rispondere alledomande poste dalle sensazioni. Non ritornano così, peraltra via e con forma diversa, le categorie e la sintesikantiane? Questo ritorno si effettua, nella concezionedel Dewey, quasi a insaputa del suo autore: egli parla dimetodi mentali, di analisi, di generalizzazioni, ecc. sen-za chiedersi se queste articolazioni del pensiero non ab-biano per caso bisogno di una spiegazione a priori. Eglisi serve dei suoi «strumenti» intellettuali senza indagarefino in fondo come mai essi son posti in grado di fun-zionare. Le sue prevenzioni contro il kantismo sono par-ticolarmente suggerite da un'istintiva ripugnanza perl'interpretazione fichtiana di Kant: cioè per l'idea di unEgo troppo sufficiente a se stesso, che con una specie dimagìa crea il mondo. Tale non è per lui la funzione delpensiero, bensì quella di ricreare il mondo, trasforman-dolo in uno strumento e un possesso dell'intelligenza. Ilpensiero prende inizio da specifici conflitti in senoall'esperienza, che cagionano perplessità e turbamenti.«Gli uomini, per norma, non pensano, se non quandohanno perturbazioni da sedare, difficoltà da superare.Una vita di riposo, di successo senza sforzo, sarebbeuna vita senza pensiero. Gli uomini non tendono a pen-

95 Ibid., pp. 90-91.

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Page 89: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

sare quando la loro azione è dettata dall'autorità. I solda-ti hanno difficoltà e restrizioni a iosa, ma, in quanto sol-dati, non hanno fama di essere pensatori. Il pensiero èapprontato per essi dall'alto. Dovunque regna un'autoritàesterna, il pensiero è sospetto e nocivo»96.

Il pensiero nondimeno non è la sola via in cui può es-ser cercata una soluzione personale d'una difficoltà. So-gni, fantasticherie, idealizzazioni emotive, sonoanch'essi vie di scampo dalla perplessità e dal contrasto.Ciò che contraddistingue il pensiero è il modo di affron-tare i fatti: osservazione, analisi, generalizzazione, infe-renza, sono le principali articolazioni del lavoro menta-le. Niente ha fatto più danno all'opera del pensierodell'abitudine di considerare l'osservazione come qual-cosa che è fuori e prima del pensiero e il pensiero comequalcosa che può andare avanti senza includere l'osser-vazione di nuovi fatti. Il pensiero, che è inteso comemetodo di una ricostruzione dell'esperienza, trattal'osservazione come un passo necessario nella definizio-ne del problema, che consiste nel localizzare il perturba-mento o la difficoltà, e nell'intravvedere, se pure inmodo vago, il significato di essi. L'osservazione è dia-gnosi, e la diagnosi implica sempre un interesse in anti-cipazione e preparazione. Risulta di qui che la formazio-ne delle idee e dei concetti è già in embrione in questoprimo stadio: le idee infatti, quando non sono mere fan-tasie tramate dalla memoria come un rifugio sentimenta-

96 Reconstruction, p. 138.

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sare quando la loro azione è dettata dall'autorità. I solda-ti hanno difficoltà e restrizioni a iosa, ma, in quanto sol-dati, non hanno fama di essere pensatori. Il pensiero èapprontato per essi dall'alto. Dovunque regna un'autoritàesterna, il pensiero è sospetto e nocivo»96.

Il pensiero nondimeno non è la sola via in cui può es-ser cercata una soluzione personale d'una difficoltà. So-gni, fantasticherie, idealizzazioni emotive, sonoanch'essi vie di scampo dalla perplessità e dal contrasto.Ciò che contraddistingue il pensiero è il modo di affron-tare i fatti: osservazione, analisi, generalizzazione, infe-renza, sono le principali articolazioni del lavoro menta-le. Niente ha fatto più danno all'opera del pensierodell'abitudine di considerare l'osservazione come qual-cosa che è fuori e prima del pensiero e il pensiero comequalcosa che può andare avanti senza includere l'osser-vazione di nuovi fatti. Il pensiero, che è inteso comemetodo di una ricostruzione dell'esperienza, trattal'osservazione come un passo necessario nella definizio-ne del problema, che consiste nel localizzare il perturba-mento o la difficoltà, e nell'intravvedere, se pure inmodo vago, il significato di essi. L'osservazione è dia-gnosi, e la diagnosi implica sempre un interesse in anti-cipazione e preparazione. Risulta di qui che la formazio-ne delle idee e dei concetti è già in embrione in questoprimo stadio: le idee infatti, quando non sono mere fan-tasie tramate dalla memoria come un rifugio sentimenta-

96 Reconstruction, p. 138.

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le, sono appunto anticipazioni di qualcosa da venire,ipotesi da accettare come punti di orientamento di un la-voro. Intendere questo fatto, soggiunge il Dewey, signi-fica bandire ogni rigido dogma dal mondo, e riconosce-re che le concezioni, le teorie, i sistemi sono sempreaperti allo sviluppo, mediante l'uso. Essi sono, come s'èdetto, strumenti, il cui valore sta nella loro capacità dilavoro. «Knowing is not self-enclosed and final, butinstrumental to reconstruction of situation»97.

Questo carattere strumentale è osservabile anche ne-gli stadi più alti del lavoro del pensiero, cioè nei proces-si di astrazione e di generalizzazione. Ogni concretaesperienza è unica nella sua totalità e non è ripetibile.Ora, mediante l'astrazione, un certo elemento di essa èprescelto per il sussidio che offre nell'afferrare qualchealtra cosa ancora. Preso per sé, è un frammento mutilo,un povero sostituto della totalità vivente da cui è estrat-to. Ma, considerato funzionalmente, e non in modo sta-tico e strutturale, esso rappresenta la sola via in cuiun'esperienza può essere resa valida per un'altra. L'astra-zione è liberazione dai limiti dell'esperienza singola. Piùessa è teoretica e astratta, cioè più si allontana dal parti-colare sperimentato, e più si fa adatta all'infinita varietàdelle cose che possono presentarsi. Le antiche matema-tiche e l'antica fisica erano molto più vicine all'esperien-za concreta e corpulenta che non quelle moderne. E, ap-punto perciò, erano più incapaci di applicazioni estensi-

97 Op. cit., p. 145.

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le, sono appunto anticipazioni di qualcosa da venire,ipotesi da accettare come punti di orientamento di un la-voro. Intendere questo fatto, soggiunge il Dewey, signi-fica bandire ogni rigido dogma dal mondo, e riconosce-re che le concezioni, le teorie, i sistemi sono sempreaperti allo sviluppo, mediante l'uso. Essi sono, come s'èdetto, strumenti, il cui valore sta nella loro capacità dilavoro. «Knowing is not self-enclosed and final, butinstrumental to reconstruction of situation»97.

Questo carattere strumentale è osservabile anche ne-gli stadi più alti del lavoro del pensiero, cioè nei proces-si di astrazione e di generalizzazione. Ogni concretaesperienza è unica nella sua totalità e non è ripetibile.Ora, mediante l'astrazione, un certo elemento di essa èprescelto per il sussidio che offre nell'afferrare qualchealtra cosa ancora. Preso per sé, è un frammento mutilo,un povero sostituto della totalità vivente da cui è estrat-to. Ma, considerato funzionalmente, e non in modo sta-tico e strutturale, esso rappresenta la sola via in cuiun'esperienza può essere resa valida per un'altra. L'astra-zione è liberazione dai limiti dell'esperienza singola. Piùessa è teoretica e astratta, cioè più si allontana dal parti-colare sperimentato, e più si fa adatta all'infinita varietàdelle cose che possono presentarsi. Le antiche matema-tiche e l'antica fisica erano molto più vicine all'esperien-za concreta e corpulenta che non quelle moderne. E, ap-punto perciò, erano più incapaci di applicazioni estensi-

97 Op. cit., p. 145.

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ve, in forme inaspettate.Astrazione e generalizzazione sono connesse. Esse

sono, rispettivamente, l'aspetto negativo e positivo dellastessa funzione. L'astrazione libera un fattore in modoche possa essere usato; la generalizzazione rappresental'uso. Essa trasferisce, estende, applica un risultato d'unaprecedente esperienza, per ricevere e interpretareun'esperienza nuova. I processi deduttivi, a loro volta,definiscono, delimitano, purificano e pongono in ordinele idee mediante le quali è condotta questa operazionepotenziatrice e direttiva, ma non possono da soli, perquanto perfetti, garantirne l'esito98. Questo può essereassicurato soltanto da una conferma sperimentale delleipotesi elaborate dal pensiero; in modo che tutto il lavo-ro mentale si svolge in un circolo, il quale movendo daifatti ritorna ad essi, arricchendoli di un significato cheoriginariamente non avevano. Nella fase iniziale, essierano materia bruta; nella fase finale sono elementi si-gnificativi di una ricostruzione intelligente, appartengo-no a un livello più alto dell'esistenza.

Di qui, un nuovo concetto attivo e dinamico della ve-rità. Se le idee, le teorie, i sistemi, sono strumenti di unariorganizzazione intelligente di una situazione data, allo-ra la prova della loro validità sta nell'effettivo compi-mento di questo lavoro. Se essi ottengono successo nellaloro funzione, sono attendibili, sani, validi, veri. Altri-menti, falsi. La conferma, la corroborazione, la verifica-98 Ibid., pp. 150-51.

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ve, in forme inaspettate.Astrazione e generalizzazione sono connesse. Esse

sono, rispettivamente, l'aspetto negativo e positivo dellastessa funzione. L'astrazione libera un fattore in modoche possa essere usato; la generalizzazione rappresental'uso. Essa trasferisce, estende, applica un risultato d'unaprecedente esperienza, per ricevere e interpretareun'esperienza nuova. I processi deduttivi, a loro volta,definiscono, delimitano, purificano e pongono in ordinele idee mediante le quali è condotta questa operazionepotenziatrice e direttiva, ma non possono da soli, perquanto perfetti, garantirne l'esito98. Questo può essereassicurato soltanto da una conferma sperimentale delleipotesi elaborate dal pensiero; in modo che tutto il lavo-ro mentale si svolge in un circolo, il quale movendo daifatti ritorna ad essi, arricchendoli di un significato cheoriginariamente non avevano. Nella fase iniziale, essierano materia bruta; nella fase finale sono elementi si-gnificativi di una ricostruzione intelligente, appartengo-no a un livello più alto dell'esistenza.

Di qui, un nuovo concetto attivo e dinamico della ve-rità. Se le idee, le teorie, i sistemi, sono strumenti di unariorganizzazione intelligente di una situazione data, allo-ra la prova della loro validità sta nell'effettivo compi-mento di questo lavoro. Se essi ottengono successo nellaloro funzione, sono attendibili, sani, validi, veri. Altri-menti, falsi. La conferma, la corroborazione, la verifica-98 Ibid., pp. 150-51.

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zione stanno nelle opere, nelle conseguenze.«Handsome is that handsome does.» «By their fruitsshall we know them.» Ciò che ci guida veramente èvero. L'avverbio «veramente» è più fondamentale, tantodell'aggettivo «vero», quanto del nome «verità». Un av-verbio esprime una via, un modo di azione. Ora un'ideaè appunto un disegno o un piano per agire in una certavia, per chiarire una data situazione. Nelle materie fisi-che gli uomini si sono a poco a poco abituati a identifi-care la verità col verificato. Ma essi ancora esitano a ri-conoscere ciò che da questa identificazione procede e aderivarne una nuova definizione della verità. Generaliz-zare questo riconoscimento, significa imporre all'uomola responsabilità di abbandonare gl'irrigiditi dogmi, cosìnella logica, come nella politica e nella morale, e di as-soggettare alla prova delle conseguenze i suoi più caripregiudizi99.

Questa, nelle sue linee sommarie, è la dottrina dellaconoscenza del Dewey. Si tratta ora di vedere in chemodo essa stessa soddisfi al proposto criterio di validità.Una dottrina della conoscenza ha sempre le sue radici inuna metafisica implicita o esplicita. E, nel caso nostro,se il conoscere ha il valore di una ricostruzione intenzio-nale della realtà, se i concetti sono ipotesi soggette aconvalida sperimentale, c'è luogo a chiedersi se il com-portamento delle cose, nella loro struttura oggettiva,giustifica tali vedute. La risposta a questo quesito è con-

99 Ibid., pp. 156-59.

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zione stanno nelle opere, nelle conseguenze.«Handsome is that handsome does.» «By their fruitsshall we know them.» Ciò che ci guida veramente èvero. L'avverbio «veramente» è più fondamentale, tantodell'aggettivo «vero», quanto del nome «verità». Un av-verbio esprime una via, un modo di azione. Ora un'ideaè appunto un disegno o un piano per agire in una certavia, per chiarire una data situazione. Nelle materie fisi-che gli uomini si sono a poco a poco abituati a identifi-care la verità col verificato. Ma essi ancora esitano a ri-conoscere ciò che da questa identificazione procede e aderivarne una nuova definizione della verità. Generaliz-zare questo riconoscimento, significa imporre all'uomola responsabilità di abbandonare gl'irrigiditi dogmi, cosìnella logica, come nella politica e nella morale, e di as-soggettare alla prova delle conseguenze i suoi più caripregiudizi99.

Questa, nelle sue linee sommarie, è la dottrina dellaconoscenza del Dewey. Si tratta ora di vedere in chemodo essa stessa soddisfi al proposto criterio di validità.Una dottrina della conoscenza ha sempre le sue radici inuna metafisica implicita o esplicita. E, nel caso nostro,se il conoscere ha il valore di una ricostruzione intenzio-nale della realtà, se i concetti sono ipotesi soggette aconvalida sperimentale, c'è luogo a chiedersi se il com-portamento delle cose, nella loro struttura oggettiva,giustifica tali vedute. La risposta a questo quesito è con-

99 Ibid., pp. 156-59.

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tenuta nell'opera Experience and nature, che è la più de-cisamente orientata verso la metafisica. Il Dewey negache esista una rigida separazione tra la mente, comecentro d'interessi conoscitivi e sperimentali e la naturacome oggetto conosciuto e sperimentato. Per lui, i duetermini della tradizionale antitesi sono sulla stessa lineadi sviluppo: il conoscere sperimentale appartieneall'ordine della realtà naturale, ed è lo stadio più alto, incui alcuni genuini tratti della natura vengono a manife-sta realizzazione; e, d'altra parte, la natura stessa, neisuoi stadi pre-conoscitivi, non ha una struttura materialeestranea alla mente, ma esige la mente e perciò haun'affinità profonda con essa100. Natura e conoscenza (oesperienza) sono momenti di un'identica storia. Le coseempiriche immediate, nel loro significato presentativo enon ancora rappresentativo, sono punti terminali di sto-rie naturali. La conoscenza scientifica, a sua volta, noneleva un altro regno rivale di esistenza antitetica, ma ri-vela l'interna struttura, l'ordine e il senso da cui dipendeil presentarsi degli eventi immediati. Essa insomma tra-sforma gli eventi in oggetti, dove gli oggetti sono glistessi eventi forniti di un significato101. E il significatonon è qualcosa di soggettivo, che noi aggiungiamo a unarealtà estranea e impassibile, ma è parte oggettiva e inte-grante della stessa realtà, che per mezzo della conoscen-za si scopre. A volte, la «scoperta» è considerata comeuna prova che l'oggetto della conoscenza sia già lì, bell'e100 Experience and nature, p. 24.101 «Objects are events with meanings»: Exper. and nat., p. 318.

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tenuta nell'opera Experience and nature, che è la più de-cisamente orientata verso la metafisica. Il Dewey negache esista una rigida separazione tra la mente, comecentro d'interessi conoscitivi e sperimentali e la naturacome oggetto conosciuto e sperimentato. Per lui, i duetermini della tradizionale antitesi sono sulla stessa lineadi sviluppo: il conoscere sperimentale appartieneall'ordine della realtà naturale, ed è lo stadio più alto, incui alcuni genuini tratti della natura vengono a manife-sta realizzazione; e, d'altra parte, la natura stessa, neisuoi stadi pre-conoscitivi, non ha una struttura materialeestranea alla mente, ma esige la mente e perciò haun'affinità profonda con essa100. Natura e conoscenza (oesperienza) sono momenti di un'identica storia. Le coseempiriche immediate, nel loro significato presentativo enon ancora rappresentativo, sono punti terminali di sto-rie naturali. La conoscenza scientifica, a sua volta, noneleva un altro regno rivale di esistenza antitetica, ma ri-vela l'interna struttura, l'ordine e il senso da cui dipendeil presentarsi degli eventi immediati. Essa insomma tra-sforma gli eventi in oggetti, dove gli oggetti sono glistessi eventi forniti di un significato101. E il significatonon è qualcosa di soggettivo, che noi aggiungiamo a unarealtà estranea e impassibile, ma è parte oggettiva e inte-grante della stessa realtà, che per mezzo della conoscen-za si scopre. A volte, la «scoperta» è considerata comeuna prova che l'oggetto della conoscenza sia già lì, bell'e100 Experience and nature, p. 24.101 «Objects are events with meanings»: Exper. and nat., p. 318.

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pronto. Ora, che vi sia un'esistenza antecedente alla ri-cerca e alla scoperta, non si può negare; ma si nega che,come tale, cioè indipendentemente dalla conclusionedell'evento storico della ricerca nella sua connessionecon altre storie, essa sia già l'oggetto della conoscenza.Si dice che i norvegesi abbiano scoperta l'America. Main che senso? Essi approdarono alle sue coste dopo unviaggio burrascoso: vi fu scoperta nel senso che fu toc-cata una terra non ancora toccata da europei. Ma, finchéil nuovo oggetto veduto e trovato non fu usato per modi-ficare antiche credenze, per mutare il senso della vec-chia carta del mondo, non vi fu scoperta in un significa-to intellettuale pieno e concreto. La scoperta dell'Ameri-ca implicava l'inserzione di una terra appena toccata nel-la carta del globo; ed anzi, questa inserzione non erameramente additiva, ma trasformatrice di un quadro pre-cedente del mondo102.

In che differisce questa concezione dall'idealismo, al-meno com'è comunemente inteso? In ciò, che l'ideali-smo, seguendo la tradizione classica che identifical'oggetto della conoscenza con la realtà, la verità conl'essere, è costretto a prender l'opera del pensiero assolu-tamente e tutta in una volta, invece che relativamente eper gradi. In altri termini, esso prende la ricostruzionementale per una costruzione originaria. Accettando lapremessa dell'equivalenza della realtà col conseguitooggetto della conoscenza, l'idealismo non ha modo di

102 Op. cit., p. 156.

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pronto. Ora, che vi sia un'esistenza antecedente alla ri-cerca e alla scoperta, non si può negare; ma si nega che,come tale, cioè indipendentemente dalla conclusionedell'evento storico della ricerca nella sua connessionecon altre storie, essa sia già l'oggetto della conoscenza.Si dice che i norvegesi abbiano scoperta l'America. Main che senso? Essi approdarono alle sue coste dopo unviaggio burrascoso: vi fu scoperta nel senso che fu toc-cata una terra non ancora toccata da europei. Ma, finchéil nuovo oggetto veduto e trovato non fu usato per modi-ficare antiche credenze, per mutare il senso della vec-chia carta del mondo, non vi fu scoperta in un significa-to intellettuale pieno e concreto. La scoperta dell'Ameri-ca implicava l'inserzione di una terra appena toccata nel-la carta del globo; ed anzi, questa inserzione non erameramente additiva, ma trasformatrice di un quadro pre-cedente del mondo102.

In che differisce questa concezione dall'idealismo, al-meno com'è comunemente inteso? In ciò, che l'ideali-smo, seguendo la tradizione classica che identifical'oggetto della conoscenza con la realtà, la verità conl'essere, è costretto a prender l'opera del pensiero assolu-tamente e tutta in una volta, invece che relativamente eper gradi. In altri termini, esso prende la ricostruzionementale per una costruzione originaria. Accettando lapremessa dell'equivalenza della realtà col conseguitooggetto della conoscenza, l'idealismo non ha modo di

102 Op. cit., p. 156.

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Page 95: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

notare che il pensiero è intermediario tra alcuni dati em-pirici ed altri di ordine più alto, tra eventi ed oggetti. Diqui, un compito di trasformazione è stato convertito inun atto miracoloso di creazione. Una conversione di og-getti immediatamente attuali in oggetti «migliori», piùsicuri e significanti, è stata considerata come un passag-gio dall'apparente e fenomenico al veramente reale. Inbreve, l'idealismo è colpevole di aver trascurato chepensiero e conoscenza sono storie103, che l'intelligenzanon è qualcosa di posseduto una volta per tutte, ma incostante processo di formazione ed esige costante sve-gliatezza nell'osservare e nell'inferire, mente aperta perimparare e coraggio nel riadattare.

Idealistica è tuttavia la concezione del Dewey, se nonnel senso da lui criticato, che è quello dell'idealismopost-kantiano, certo in un senso più largo, in quanto fadel pensiero e della scienza «la direzione intenzionaledegli eventi della natura verso significati capaci di pos-sesso e godimento spirituale... Questa direzione è essastessa un evento naturale, in cui la natura, altrimentiparziale e incompleta, ritorna pienamente a se stessa;cosicché gli oggetti dell'esperienza conscia, quandosono riflessivamente scelti, formano il fine della natu-ra»104.

La distinzione tra fisico, psico-fisico e mentale si ri-solve pertanto in una distinzione di livelli di crescente

103 Experience and nature, p. 158; Reconstruction, p. 96.104 Experience, p. 358.

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notare che il pensiero è intermediario tra alcuni dati em-pirici ed altri di ordine più alto, tra eventi ed oggetti. Diqui, un compito di trasformazione è stato convertito inun atto miracoloso di creazione. Una conversione di og-getti immediatamente attuali in oggetti «migliori», piùsicuri e significanti, è stata considerata come un passag-gio dall'apparente e fenomenico al veramente reale. Inbreve, l'idealismo è colpevole di aver trascurato chepensiero e conoscenza sono storie103, che l'intelligenzanon è qualcosa di posseduto una volta per tutte, ma incostante processo di formazione ed esige costante sve-gliatezza nell'osservare e nell'inferire, mente aperta perimparare e coraggio nel riadattare.

Idealistica è tuttavia la concezione del Dewey, se nonnel senso da lui criticato, che è quello dell'idealismopost-kantiano, certo in un senso più largo, in quanto fadel pensiero e della scienza «la direzione intenzionaledegli eventi della natura verso significati capaci di pos-sesso e godimento spirituale... Questa direzione è essastessa un evento naturale, in cui la natura, altrimentiparziale e incompleta, ritorna pienamente a se stessa;cosicché gli oggetti dell'esperienza conscia, quandosono riflessivamente scelti, formano il fine della natu-ra»104.

La distinzione tra fisico, psico-fisico e mentale si ri-solve pertanto in una distinzione di livelli di crescente

103 Experience and nature, p. 158; Reconstruction, p. 96.104 Experience, p. 358.

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Page 96: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

complessità ed intimità d'interazione tra eventi naturali.L'idea che la materia, la vita, la mente rappresentino se-parate specie di «essere» è un errore che proviene dauna sostantivazione di funzioni. La fallacia sta nel con-vertire le conseguenze di un'interazione di eventi in cau-se dell'interazione stessa105. L'errore della scienza grecanon è di avere assegnato delle qualità all'esistenza natu-rale, ma nell'aver male inteso il locus della loro effica-cia. Essa ha attribuito alle qualità, indipendentementedall'azione organica, un'efficacia che esse posseggonosolo attraverso un mezzo organizzato di vita e di mente.Quando la vita e la mente sono riconosciute come carat-teri di un'interazione molto complessa ed estensiva dieventi, è possibile dare uno status naturale, esistenziale,alle qualità, senza ricadere nell'errore della scienza gre-ca106.

In generale, si possono distinguere tre livelli ascen-denti di siffatti campi (fields) d'interazione. Il primo, cheè la scena delle interazioni più ristrette ed esterne, ben-ché qualitativamente diversificate in sé, è quello fisico.Le sue proprietà distintive son quelle del sistema mate-matico-meccanico scoperto dalla fisica e che definiscela materia come un carattere generale. Il secondo livelloè quello della vita. Malgrado le differenze interne, leazioni vitali hanno caratteri comuni, che si sogliono de-signare col nome di psico-fisici. Il terzo livello è quello

105 Ibid., p. 261.106 Experience, p. 265.

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complessità ed intimità d'interazione tra eventi naturali.L'idea che la materia, la vita, la mente rappresentino se-parate specie di «essere» è un errore che proviene dauna sostantivazione di funzioni. La fallacia sta nel con-vertire le conseguenze di un'interazione di eventi in cau-se dell'interazione stessa105. L'errore della scienza grecanon è di avere assegnato delle qualità all'esistenza natu-rale, ma nell'aver male inteso il locus della loro effica-cia. Essa ha attribuito alle qualità, indipendentementedall'azione organica, un'efficacia che esse posseggonosolo attraverso un mezzo organizzato di vita e di mente.Quando la vita e la mente sono riconosciute come carat-teri di un'interazione molto complessa ed estensiva dieventi, è possibile dare uno status naturale, esistenziale,alle qualità, senza ricadere nell'errore della scienza gre-ca106.

In generale, si possono distinguere tre livelli ascen-denti di siffatti campi (fields) d'interazione. Il primo, cheè la scena delle interazioni più ristrette ed esterne, ben-ché qualitativamente diversificate in sé, è quello fisico.Le sue proprietà distintive son quelle del sistema mate-matico-meccanico scoperto dalla fisica e che definiscela materia come un carattere generale. Il secondo livelloè quello della vita. Malgrado le differenze interne, leazioni vitali hanno caratteri comuni, che si sogliono de-signare col nome di psico-fisici. Il terzo livello è quello

105 Ibid., p. 261.106 Experience, p. 265.

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dell'associazione, della partecipazione, della comunica-zione. Esso è ancora più diversificato internamente, per-ché consta di formazioni individualizzate, ma ha un co-mune denominatore mentale, dove la mente si definiscecome un possesso di «significati»107. La realtà, nel suotutto, è lo stesso processo di crescenza. Fanciullezza edetà adulta sono fasi di una continuità, in cui – appuntoperché si tratta di una storia – ciò che vien dopo non puòesistere se il precedente non esiste (materialismo mecca-nistico in germe) e in cui il seguente fa uso di ciò che ilprecedente ha accumulato (teologia spiritualistica ingerme). La reale esistenza è la storia nella sua interezza.L'operazione di dividerla in due parti, per poi unirle conun legame causale, è arbitraria e gratuita108.

Conformemente a queste premesse, nel binomiocorpo-mente, il corpo designa le operazioni di fattoriche sono in continuità col resto della natura, così inani-mata come animata; mentre la mente designa caratteridifferenziali, indicatori di tratti che emergono quando ilcorpo è impegnato in una situazione più larga, comples-sa e interdipendente. Come per parlare bisogna usaresuoni e gesti antecedenti al parlare, così, quando gli uo-mini cominciano a osservare e a pensare, essi debbonousare il sistema nervoso e le altre strutture organiche giàesistenti. La mente (mind) denota l'intero sistema deirapporti mentali (meanings) come sono incorporati nelle

107 Ibid., p. 272.108 Experience, p. 275.

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dell'associazione, della partecipazione, della comunica-zione. Esso è ancora più diversificato internamente, per-ché consta di formazioni individualizzate, ma ha un co-mune denominatore mentale, dove la mente si definiscecome un possesso di «significati»107. La realtà, nel suotutto, è lo stesso processo di crescenza. Fanciullezza edetà adulta sono fasi di una continuità, in cui – appuntoperché si tratta di una storia – ciò che vien dopo non puòesistere se il precedente non esiste (materialismo mecca-nistico in germe) e in cui il seguente fa uso di ciò che ilprecedente ha accumulato (teologia spiritualistica ingerme). La reale esistenza è la storia nella sua interezza.L'operazione di dividerla in due parti, per poi unirle conun legame causale, è arbitraria e gratuita108.

Conformemente a queste premesse, nel binomiocorpo-mente, il corpo designa le operazioni di fattoriche sono in continuità col resto della natura, così inani-mata come animata; mentre la mente designa caratteridifferenziali, indicatori di tratti che emergono quando ilcorpo è impegnato in una situazione più larga, comples-sa e interdipendente. Come per parlare bisogna usaresuoni e gesti antecedenti al parlare, così, quando gli uo-mini cominciano a osservare e a pensare, essi debbonousare il sistema nervoso e le altre strutture organiche giàesistenti. La mente (mind) denota l'intero sistema deirapporti mentali (meanings) come sono incorporati nelle

107 Ibid., p. 272.108 Experience, p. 275.

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Page 98: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

opere della vita organica. La coscienza, in un essere for-nito di linguaggio, è percezione di questi rapporti; il suocampo è molto più ristretto di quello della mente109. Sipotrebbe anzi stabilire l'equazione, che la mente sta aglieventi, come la coscienza sta agli oggetti.

A questa metafisica corrisponde un'etica che attribui-sce ai processi attivi della ricerca e della scoperta, nellavita morale, lo stesso posto che occupano nella scienzadella natura, e alla ragione il compito di segnare delledirettive, delle linee ideali di movimento all'attività pra-tica, soggette a loro volta a continue revisioni e a riadat-tamenti sperimentali. Nessun individuo o gruppo vuolessere giudicato dal conseguimento di un certo risultato,ma dalla direzione in cui si muove. L'uomo cattivo è co-lui che, non importa quanto sia stato moralmente imme-ritevole, si avvia a diventar migliore110. Tale concezioneci fa severi nel giudicare noi stessi, umani nel giudicargli altri. Essa esclude quell'arroganza che sempre ac-compagna il giudizio fondato sul grado di approssima-zione a un fine prestabilito. Onestà, temperanza, giusti-zia, e, similmente, salute, ricchezza, sapere, non sono

109 Ibid., pp. 285-303.110 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: così nel testo di riferimento, ma

si tratta di un errore di traduzione; la frase corretta è “L'uomo buono è co-lui che, non importa quanto sia stato moralmente immeritevole, si avvia adiventar migliore”. Ciò è confermato dal confronto col testo originale:“The bad man is the man who no matter how good he has been isbeginning to deteriorate, to grow less good. The good man is the man whono matter how morally unworthy he has been is moving to become better.”(corsivi redazionali).

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opere della vita organica. La coscienza, in un essere for-nito di linguaggio, è percezione di questi rapporti; il suocampo è molto più ristretto di quello della mente109. Sipotrebbe anzi stabilire l'equazione, che la mente sta aglieventi, come la coscienza sta agli oggetti.

A questa metafisica corrisponde un'etica che attribui-sce ai processi attivi della ricerca e della scoperta, nellavita morale, lo stesso posto che occupano nella scienzadella natura, e alla ragione il compito di segnare delledirettive, delle linee ideali di movimento all'attività pra-tica, soggette a loro volta a continue revisioni e a riadat-tamenti sperimentali. Nessun individuo o gruppo vuolessere giudicato dal conseguimento di un certo risultato,ma dalla direzione in cui si muove. L'uomo cattivo è co-lui che, non importa quanto sia stato moralmente imme-ritevole, si avvia a diventar migliore110. Tale concezioneci fa severi nel giudicare noi stessi, umani nel giudicargli altri. Essa esclude quell'arroganza che sempre ac-compagna il giudizio fondato sul grado di approssima-zione a un fine prestabilito. Onestà, temperanza, giusti-zia, e, similmente, salute, ricchezza, sapere, non sono

109 Ibid., pp. 285-303.110 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: così nel testo di riferimento, ma

si tratta di un errore di traduzione; la frase corretta è “L'uomo buono è co-lui che, non importa quanto sia stato moralmente immeritevole, si avvia adiventar migliore”. Ciò è confermato dal confronto col testo originale:“The bad man is the man who no matter how good he has been isbeginning to deteriorate, to grow less good. The good man is the man whono matter how morally unworthy he has been is moving to become better.”(corsivi redazionali).

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beni da esser posseduti come se esprimessero fini prefis-si da raggiungere. Essi sono direzioni del mutamentonella qualità dell'esperienza. L'unico fine morale è lostesso sviluppo111.

Pessimismo ed ottimismo sono due alternative egual-mente fallaci. Il pessimismo è una dottrina paralizzante.Nel dichiarare che il mondo è tutto cattivo, esso rendefutili tutti gli sforzi per scoprire le cause di specificimali, e così distrugge alla radice ogni tentativo per ren-dere il mondo migliore e più felice. D'altra parte, l'otti-mismo totale, che è la conseguenza del tentativo diescludere il male dal mondo, è egualmente un incubo. Infondo, l'ottimismo, che giudica il mondo come il miglio-re dei mondi possibili, può essere considerato come ilpiù cinico dei pessimismi. Se questo mondo è già il mi-gliore, a che vale sforzarsi di migliorarlo? «Meliorism»è la convinzione che le condizioni specifiche, che esi-stono in un momento dato, buone o cattive che sianocomparativamente, possono sempre essere migliorate.Esso incoraggia l'intelligenza a studiare i positivi mezzidel bene e gli ostacoli che si oppongono alla loro realiz-zazione, per rimuovere questi ultimi112.

Da questo punto di vista vanno giudicate le associa-zioni e le istituzioni, che riuniscono insieme gli sforzi ele aspirazioni umane. Esse son fatte per l'uomo, più chel'uomo non sia fatto per esse: la loro natura è quella di

111 Reconstruction, pp. 176-77.112 Ibid., p. 178.

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beni da esser posseduti come se esprimessero fini prefis-si da raggiungere. Essi sono direzioni del mutamentonella qualità dell'esperienza. L'unico fine morale è lostesso sviluppo111.

Pessimismo ed ottimismo sono due alternative egual-mente fallaci. Il pessimismo è una dottrina paralizzante.Nel dichiarare che il mondo è tutto cattivo, esso rendefutili tutti gli sforzi per scoprire le cause di specificimali, e così distrugge alla radice ogni tentativo per ren-dere il mondo migliore e più felice. D'altra parte, l'otti-mismo totale, che è la conseguenza del tentativo diescludere il male dal mondo, è egualmente un incubo. Infondo, l'ottimismo, che giudica il mondo come il miglio-re dei mondi possibili, può essere considerato come ilpiù cinico dei pessimismi. Se questo mondo è già il mi-gliore, a che vale sforzarsi di migliorarlo? «Meliorism»è la convinzione che le condizioni specifiche, che esi-stono in un momento dato, buone o cattive che sianocomparativamente, possono sempre essere migliorate.Esso incoraggia l'intelligenza a studiare i positivi mezzidel bene e gli ostacoli che si oppongono alla loro realiz-zazione, per rimuovere questi ultimi112.

Da questo punto di vista vanno giudicate le associa-zioni e le istituzioni, che riuniscono insieme gli sforzi ele aspirazioni umane. Esse son fatte per l'uomo, più chel'uomo non sia fatto per esse: la loro natura è quella di

111 Reconstruction, pp. 176-77.112 Ibid., p. 178.

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Page 100: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

mezzi e strumenti dell'umano benessere e progresso.Non bisogna però intendere tale strumentalità nel sensoangusto, che serva a ottenere qualcosa per gl'individui,nemmeno la felicità. Esse son mezzi per creare gli stessiindividui. Solo in un senso fisico e spaziale l'individua-lità è un dato originario; in un senso morale e sociale,essa è qualcosa da creare. Individualità significa iniziati-va, inventività, assunzione di responsabilità nella sceltadelle credenze e nella direzione della condotta. E questinon sono doni, ma realizzazioni113. Ora, ogni associazio-ne schiavistica deprime, non libera, le forze individuali.Solo nell'organizzarsi con eguali l'uomo diviene un con-sapevole centro di esperienza. L'organizzazione che ladottrina tradizionale ha generalmente pensato sotto ilnome di stato, in quanto è subordinata, diviene statica,rigida, istituzionalizzata, sempre che non sia usata perfacilitare e arricchire i contatti degli esseri umani traloro. Se la filosofia liberale inglese tendeva, fedele allospirito del suo empirismo atomistico, a fare della libertàe dell'esercizio dei diritti dei fini a se stessi, il rimedionon è da cercare nel ricorrere a una filosofia che poneobblighi fissi e leggi autoritarie, qual è quella tedesca114.L'idealismo istituzionale – come opportunamente ilDewey chiama la dottrina politica di Hegel – ha idealiz-zato le istituzioni storiche, col concepirle come incarna-zioni di una mente immanente e assoluta. Non si puònegare che questa filosofia abbia avuto una potente in-113 Reconstruction, p. 194.114 Ibid., pp. 207-208.

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mezzi e strumenti dell'umano benessere e progresso.Non bisogna però intendere tale strumentalità nel sensoangusto, che serva a ottenere qualcosa per gl'individui,nemmeno la felicità. Esse son mezzi per creare gli stessiindividui. Solo in un senso fisico e spaziale l'individua-lità è un dato originario; in un senso morale e sociale,essa è qualcosa da creare. Individualità significa iniziati-va, inventività, assunzione di responsabilità nella sceltadelle credenze e nella direzione della condotta. E questinon sono doni, ma realizzazioni113. Ora, ogni associazio-ne schiavistica deprime, non libera, le forze individuali.Solo nell'organizzarsi con eguali l'uomo diviene un con-sapevole centro di esperienza. L'organizzazione che ladottrina tradizionale ha generalmente pensato sotto ilnome di stato, in quanto è subordinata, diviene statica,rigida, istituzionalizzata, sempre che non sia usata perfacilitare e arricchire i contatti degli esseri umani traloro. Se la filosofia liberale inglese tendeva, fedele allospirito del suo empirismo atomistico, a fare della libertàe dell'esercizio dei diritti dei fini a se stessi, il rimedionon è da cercare nel ricorrere a una filosofia che poneobblighi fissi e leggi autoritarie, qual è quella tedesca114.L'idealismo istituzionale – come opportunamente ilDewey chiama la dottrina politica di Hegel – ha idealiz-zato le istituzioni storiche, col concepirle come incarna-zioni di una mente immanente e assoluta. Non si puònegare che questa filosofia abbia avuto una potente in-113 Reconstruction, p. 194.114 Ibid., pp. 207-208.

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fluenza nello scuotere il pensiero, al principio del XIXsecolo, dall'individualismo atomistico in cui era cadutoin Francia e in Inghilterra. Essa ha servito anche a ren-dere lo stato più costruttivamente interessato in materied'importanza pubblica, e a soddisfare il bisogno diun'educazione nazionalmente organizzata nell'interessegenerale e a promuovere lo spirito collettivo di ricercain tutti i campi. Essa ha fatto, per rendere efficaci le or-ganizzazioni, più di quanto non abbia fatto qualunquealtra filosofia; ma non ha provveduto alla possibilità diuna libera modificazione sperimentale delle organizza-zioni stesse115. Inoltre, pur magnificando l'individualitàin astratto, ha inghiottito le individualità concrete.L'organicismo sociale significa che ogni individuo ha unposto e una funzione limitati, che debbono essere inte-grati dalle funzioni di altri organi. La nozione di organi-smo è usata quindi per dare una filosofica sanzione alladivisione delle classi: ciò che nelle applicazioni socialisignifica esterna imposizione, in luogo di crescita spon-tanea116.

A questa dottrina il Dewey oppone una concezionedemocratica delle associazioni umane. Per lui, una so-cietà che provvede a partecipare i propri beni a tutti isuoi membri in termini eguali (almeno come tendenza,se non come risultato) e che assicura un flessibile riadat-tamento delle sue istituzioni mediante l'interazione di

115 The philosophy of J. D., p. 392.116 Democracy and education, p. 70.

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fluenza nello scuotere il pensiero, al principio del XIXsecolo, dall'individualismo atomistico in cui era cadutoin Francia e in Inghilterra. Essa ha servito anche a ren-dere lo stato più costruttivamente interessato in materied'importanza pubblica, e a soddisfare il bisogno diun'educazione nazionalmente organizzata nell'interessegenerale e a promuovere lo spirito collettivo di ricercain tutti i campi. Essa ha fatto, per rendere efficaci le or-ganizzazioni, più di quanto non abbia fatto qualunquealtra filosofia; ma non ha provveduto alla possibilità diuna libera modificazione sperimentale delle organizza-zioni stesse115. Inoltre, pur magnificando l'individualitàin astratto, ha inghiottito le individualità concrete.L'organicismo sociale significa che ogni individuo ha unposto e una funzione limitati, che debbono essere inte-grati dalle funzioni di altri organi. La nozione di organi-smo è usata quindi per dare una filosofica sanzione alladivisione delle classi: ciò che nelle applicazioni socialisignifica esterna imposizione, in luogo di crescita spon-tanea116.

A questa dottrina il Dewey oppone una concezionedemocratica delle associazioni umane. Per lui, una so-cietà che provvede a partecipare i propri beni a tutti isuoi membri in termini eguali (almeno come tendenza,se non come risultato) e che assicura un flessibile riadat-tamento delle sue istituzioni mediante l'interazione di

115 The philosophy of J. D., p. 392.116 Democracy and education, p. 70.

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differenti forme di associazioni, è democratica117. Natu-ralmente, la democrazia politica non è che un episodio,e neppure tra i più felici, di un processo di democratiz-zazione così inteso. Della democrazia si suol dare co-munemente la giustificazione che, poiché una societàdemocratica ripudia il principio dell'autorità esterna,essa deve trovare un sostituto nella volontaria disposi-zione e nel volontario interesse: ciò che può esser creatosolo dall'educazione. Ma v'è una spiegazione anche piùprofonda. L'estensione nello spazio del numerodegl'individui che partecipano a un dato interesse, inmodo che ciascuno deve riferire la propria azione aquella degli altri e deve aver presente l'azione altrui perdare un punto di riferimento alla propria, equivale allarottura di quelle barriere di classi, razze, nazionalità, cheimpediscono agli uomini di percepire, e quindi di realiz-zare, la piena portata spirituale della loro attività118.

Nell'un senso e nell'altro, l'avvento della democraziaè affidato a una bene intesa e accuratamente promossaeducazione. Per educazione il Dewey intende quella ri-costruzione e riorganizzazione dell'esperienza, che dàsempre nuovo significato all'esperienza stessa e accrescel'abilità di dirigerne il corso e lo sviluppo. Infanzia, gio-vinezza, età adulta, stanno tutte sullo stesso livello edu-cativo, nel senso che tutte le età della vita hanno ciascu-na il proprio compito ricostruttivo e la propria meta di

117 Ibid., p. 115.118 Democracy and education, p. 101.

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differenti forme di associazioni, è democratica117. Natu-ralmente, la democrazia politica non è che un episodio,e neppure tra i più felici, di un processo di democratiz-zazione così inteso. Della democrazia si suol dare co-munemente la giustificazione che, poiché una societàdemocratica ripudia il principio dell'autorità esterna,essa deve trovare un sostituto nella volontaria disposi-zione e nel volontario interesse: ciò che può esser creatosolo dall'educazione. Ma v'è una spiegazione anche piùprofonda. L'estensione nello spazio del numerodegl'individui che partecipano a un dato interesse, inmodo che ciascuno deve riferire la propria azione aquella degli altri e deve aver presente l'azione altrui perdare un punto di riferimento alla propria, equivale allarottura di quelle barriere di classi, razze, nazionalità, cheimpediscono agli uomini di percepire, e quindi di realiz-zare, la piena portata spirituale della loro attività118.

Nell'un senso e nell'altro, l'avvento della democraziaè affidato a una bene intesa e accuratamente promossaeducazione. Per educazione il Dewey intende quella ri-costruzione e riorganizzazione dell'esperienza, che dàsempre nuovo significato all'esperienza stessa e accrescel'abilità di dirigerne il corso e lo sviluppo. Infanzia, gio-vinezza, età adulta, stanno tutte sullo stesso livello edu-cativo, nel senso che tutte le età della vita hanno ciascu-na il proprio compito ricostruttivo e la propria meta di

117 Ibid., p. 115.118 Democracy and education, p. 101.

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arricchire lo spirito umano119. L'educazione tradizionalesi fonda essenzialmente sulla routine, sulla iterazione esull'accumulazione automatica. Ora queste possono, sì,accrescere l'abilità tecnica, ed hanno pertanto un certovalore educativo. Ma esse non conducono a nuove per-cezioni e connessioni; limitano, piuttosto che ampliare,l'orizzonte mentale. E quando l'ambiente muta e la no-stra maniera di agire dovrebbe essere modificata per po-ter essere tenuta in una equilibrata connessione con lecose, la routine si risolve in una passività disastrosa; lavantata abilità in una grande inettitudine. Bisogna per-tanto, nell'educazione, dare il primo posto al far da sé, alpensar da sé, alla spontaneità inventiva. Non è irragio-nevole procurare che l'apprendimento abbia luogo in talicondizioni che, dal punto di vista di chi impara, vi siagenuina scoperta. Se gli scolari più immaturi non fannoscoperte dal punto di vista dei più progrediti, essi nefanno dal proprio punto di vista, sempre che v'è genuinoapprendimento. Nel processo normale dell'imparare an-che cose già note ad altri, lo scolaro reagisce in modiinaspettati. V'è qualcosa di fresco, qualcosa che non puòessere preveduto anche dal maestro più esperto, nelmodo con cui egli affronta il suo tema e nelle vie in cuile cose lo colpiscono. Troppo spesso tutto ciò è spazzatovia come irrilevante, e gli scolari sono deliberatamentetenuti a ripetere le materie nell'esatta forma in cui gli an-ziani le concepiscono. Il risultato è che ciò ch'è istintiva-

119 Ibid., p. 89; The philosophy of J. D., p. 382.

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arricchire lo spirito umano119. L'educazione tradizionalesi fonda essenzialmente sulla routine, sulla iterazione esull'accumulazione automatica. Ora queste possono, sì,accrescere l'abilità tecnica, ed hanno pertanto un certovalore educativo. Ma esse non conducono a nuove per-cezioni e connessioni; limitano, piuttosto che ampliare,l'orizzonte mentale. E quando l'ambiente muta e la no-stra maniera di agire dovrebbe essere modificata per po-ter essere tenuta in una equilibrata connessione con lecose, la routine si risolve in una passività disastrosa; lavantata abilità in una grande inettitudine. Bisogna per-tanto, nell'educazione, dare il primo posto al far da sé, alpensar da sé, alla spontaneità inventiva. Non è irragio-nevole procurare che l'apprendimento abbia luogo in talicondizioni che, dal punto di vista di chi impara, vi siagenuina scoperta. Se gli scolari più immaturi non fannoscoperte dal punto di vista dei più progrediti, essi nefanno dal proprio punto di vista, sempre che v'è genuinoapprendimento. Nel processo normale dell'imparare an-che cose già note ad altri, lo scolaro reagisce in modiinaspettati. V'è qualcosa di fresco, qualcosa che non puòessere preveduto anche dal maestro più esperto, nelmodo con cui egli affronta il suo tema e nelle vie in cuile cose lo colpiscono. Troppo spesso tutto ciò è spazzatovia come irrilevante, e gli scolari sono deliberatamentetenuti a ripetere le materie nell'esatta forma in cui gli an-ziani le concepiscono. Il risultato è che ciò ch'è istintiva-

119 Ibid., p. 89; The philosophy of J. D., p. 382.

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mente originale nell'individualità, ciò che distingue unindividuo dall'altro, resta inutilizzato e non diretto120.

In tema d'individualità, è falsa l'idea del Rousseau cheil bambino debba essere solo e non impegnato in attivitàassociate, per poter svolgere indisturbato le proprie atti-tudini personali. Questa idea misura l'individualità se-condo i limiti spaziali e ne fa una cosa fisica. Al contra-rio, molte delle capacità individuali non vengono allaluce se non sotto lo stimolo dell'associazione. Ma, anchesenza giungere all'esagerazione del Rousseau, v'è,nell'organizzazione presente delle scuole, una tendenzaad isolarle dalle ordinarie condizioni della vita. Si rea-lizza così il curioso paradosso, che il luogo dove i fan-ciulli sono mandati per imparare è l'unico luogo delmondo dov'è difficile avere delle esperienze.

La scuola com'è disegnata dal Dewey, e come si vieneattuando sotto il suo influsso, vuol essere una comunitàin miniatura, una società in embrione, sulla stessa lineadi sviluppo della società in grande. Il suo principio in-formatore è che la coscienza dell'individuo non è qual-cosa di meramente privato, un continente chiuso, indi-pendente da ogni altro; ma è qualcosa che viene in con-tinua partecipazione e comunicazione. Questo carattereviene in luce, piuttosto che nella contemplazione teoreti-ca, nell'azione: quando agiscono, gli uomini agiscono inun mondo comune e pubblico. Perciò, nella scuola diDewey, il fanciullo comincia non con l'imparare qualco-120 The philosophy of J. D., pp. 384-86; Democracy, pp. 91-354.

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mente originale nell'individualità, ciò che distingue unindividuo dall'altro, resta inutilizzato e non diretto120.

In tema d'individualità, è falsa l'idea del Rousseau cheil bambino debba essere solo e non impegnato in attivitàassociate, per poter svolgere indisturbato le proprie atti-tudini personali. Questa idea misura l'individualità se-condo i limiti spaziali e ne fa una cosa fisica. Al contra-rio, molte delle capacità individuali non vengono allaluce se non sotto lo stimolo dell'associazione. Ma, anchesenza giungere all'esagerazione del Rousseau, v'è,nell'organizzazione presente delle scuole, una tendenzaad isolarle dalle ordinarie condizioni della vita. Si rea-lizza così il curioso paradosso, che il luogo dove i fan-ciulli sono mandati per imparare è l'unico luogo delmondo dov'è difficile avere delle esperienze.

La scuola com'è disegnata dal Dewey, e come si vieneattuando sotto il suo influsso, vuol essere una comunitàin miniatura, una società in embrione, sulla stessa lineadi sviluppo della società in grande. Il suo principio in-formatore è che la coscienza dell'individuo non è qual-cosa di meramente privato, un continente chiuso, indi-pendente da ogni altro; ma è qualcosa che viene in con-tinua partecipazione e comunicazione. Questo carattereviene in luce, piuttosto che nella contemplazione teoreti-ca, nell'azione: quando agiscono, gli uomini agiscono inun mondo comune e pubblico. Perciò, nella scuola diDewey, il fanciullo comincia non con l'imparare qualco-120 The philosophy of J. D., pp. 384-86; Democracy, pp. 91-354.

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sa, ma col fare qualcosa. Il primo approccio con qualun-que oggetto, nella scuola, dev'essere il meno scolasticoch'è possibile. Si spiega pertanto che il Dewey abbiascarse simpatie per la tecnica Montessori, che si dà trop-pa cura di ottenere distinzioni intellettuali senza perditadi tempo e senza sforzo, e d'introdurre immediatamentei fanciulli nel mondo dei rapporti intellettuali che gliadulti hanno formulato. Invece, il primo contatto con unmateriale nuovo, in qualunque stadio dell'attività umana,deve avere il carattere di un tentativo, di una prova, chedà libero corso anche all'errore. Un individuo deve pri-ma tentare, nel gioco o nel lavoro, di fare qualcosa colsuo materiale, attuando i propri impulsi; poi egli stessoverrà notando l'interazione della sua energia col materia-le impiegato121. L'esperienza non è una mera combina-zione di mente e natura, soggetto e oggetto, metodo emateriale, ma un'unica, continua interazione di unagrande varietà di energie. Non c'è pertanto separazionenetta tra maestro e scolaro, tra chi comunica e chi rice-ve; si tratta di una shared activity, che imparando inse-gna e insegnando impara.

Insieme con questi già accennati, ritroviamo nelDewey molti di quei concetti che son poi divenuti fami-liari nella pedagogia idealistica italiana. Così l'unità tragioco e lavoro; così la massima che results (externalanswers or solutions) may be hurried; process may notbe forced; così i motivi polemici contro la filosofia mec-

121 Democracy and education, p. 180.

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sa, ma col fare qualcosa. Il primo approccio con qualun-que oggetto, nella scuola, dev'essere il meno scolasticoch'è possibile. Si spiega pertanto che il Dewey abbiascarse simpatie per la tecnica Montessori, che si dà trop-pa cura di ottenere distinzioni intellettuali senza perditadi tempo e senza sforzo, e d'introdurre immediatamentei fanciulli nel mondo dei rapporti intellettuali che gliadulti hanno formulato. Invece, il primo contatto con unmateriale nuovo, in qualunque stadio dell'attività umana,deve avere il carattere di un tentativo, di una prova, chedà libero corso anche all'errore. Un individuo deve pri-ma tentare, nel gioco o nel lavoro, di fare qualcosa colsuo materiale, attuando i propri impulsi; poi egli stessoverrà notando l'interazione della sua energia col materia-le impiegato121. L'esperienza non è una mera combina-zione di mente e natura, soggetto e oggetto, metodo emateriale, ma un'unica, continua interazione di unagrande varietà di energie. Non c'è pertanto separazionenetta tra maestro e scolaro, tra chi comunica e chi rice-ve; si tratta di una shared activity, che imparando inse-gna e insegnando impara.

Insieme con questi già accennati, ritroviamo nelDewey molti di quei concetti che son poi divenuti fami-liari nella pedagogia idealistica italiana. Così l'unità tragioco e lavoro; così la massima che results (externalanswers or solutions) may be hurried; process may notbe forced; così i motivi polemici contro la filosofia mec-

121 Democracy and education, p. 180.

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canistica e contro l'empirismo associazionistico.«Scuola attiva» è stata designata, nel suo complesso,

l'organizzazione scolastica vagheggiata dal Dewey. Atti-va, non già nel senso che anteponga la mera prassiall'insegnamento teoretico, ma nel senso che consideraqualunque materia d'insegnamento nel suo motivo dina-mico generatore, e vuole che le vie dell'imparare sianopel fanciullo quelle stesse che percorre l'umanità nel suocomplesso. Così l'insegnamento scientifico non consistenel travasare idee fatte, ma nel porre lo scolaro in gradodi riscoprire da sé passo per passo ciò che il pensieroscientifico ha scoperto: che è condizione di una intrinse-ca assimilazione. L'insegnamento della geografia si fanon raccogliendo nomi e dati, ma viaggiando, magarisulla carta: si muove dal proprio paese, da interessi loca-li, e poco per volta si progredisce verso il nuovo, si sco-prono paesi e continenti ignoti. Similmente, nello studiodella storia il Dewey osserva che ciò che ne uccide lavitalità è la segregazione dai modi e dagl'interessi dellavita sociale presente. Il passato, come mero passato, nonconta più: lasciate che i morti seppelliscano i loro morti.Il quadro della storia invece si anima se la conoscenzadel passato viene considerata come la chiave per inten-dere il presente. Il vero punto di partenza della storia èsempre una certa situazione presente, coi suoi problemiindividualizzati122.

Come si vede, questi sviluppi metafisici, etici e peda-122 Op. cit., pp. 248, 250, 257.

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canistica e contro l'empirismo associazionistico.«Scuola attiva» è stata designata, nel suo complesso,

l'organizzazione scolastica vagheggiata dal Dewey. Atti-va, non già nel senso che anteponga la mera prassiall'insegnamento teoretico, ma nel senso che consideraqualunque materia d'insegnamento nel suo motivo dina-mico generatore, e vuole che le vie dell'imparare sianopel fanciullo quelle stesse che percorre l'umanità nel suocomplesso. Così l'insegnamento scientifico non consistenel travasare idee fatte, ma nel porre lo scolaro in gradodi riscoprire da sé passo per passo ciò che il pensieroscientifico ha scoperto: che è condizione di una intrinse-ca assimilazione. L'insegnamento della geografia si fanon raccogliendo nomi e dati, ma viaggiando, magarisulla carta: si muove dal proprio paese, da interessi loca-li, e poco per volta si progredisce verso il nuovo, si sco-prono paesi e continenti ignoti. Similmente, nello studiodella storia il Dewey osserva che ciò che ne uccide lavitalità è la segregazione dai modi e dagl'interessi dellavita sociale presente. Il passato, come mero passato, nonconta più: lasciate che i morti seppelliscano i loro morti.Il quadro della storia invece si anima se la conoscenzadel passato viene considerata come la chiave per inten-dere il presente. Il vero punto di partenza della storia èsempre una certa situazione presente, coi suoi problemiindividualizzati122.

Come si vede, questi sviluppi metafisici, etici e peda-122 Op. cit., pp. 248, 250, 257.

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Page 107: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

gogici della dottrina del Dewey sorpassano di gran lun-ga le premesse prammatistiche e strumentalistiche ini-ziali. La stessa esaltazione del metodo delle scienze del-la natura, come ci è offerta in Reconstruction, sembrache debba essere attenuata. Se anche nelle scienze dellospirito, al pari che in quelle naturali, si tratta di speri-mentare e di non perder contatto con la realtà effettuale,l'esperimento assume un valore profondamente diverso.Il mondo della natura è un mondo da assoggettare, ilmondo dello spirito è un mondo da liberare, e solo me-diante un libero sprigionarsi di attività, di forme, distrutture, può realizzare se stesso. Il Dewey è venuto ac-quistando una coscienza sempre più chiara di questa esi-genza idealistica di liberazione; ma non ha ancora, inconformità di essa, compiuto una revisione delle sueoriginarie premesse metodologiche.

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gogici della dottrina del Dewey sorpassano di gran lun-ga le premesse prammatistiche e strumentalistiche ini-ziali. La stessa esaltazione del metodo delle scienze del-la natura, come ci è offerta in Reconstruction, sembrache debba essere attenuata. Se anche nelle scienze dellospirito, al pari che in quelle naturali, si tratta di speri-mentare e di non perder contatto con la realtà effettuale,l'esperimento assume un valore profondamente diverso.Il mondo della natura è un mondo da assoggettare, ilmondo dello spirito è un mondo da liberare, e solo me-diante un libero sprigionarsi di attività, di forme, distrutture, può realizzare se stesso. Il Dewey è venuto ac-quistando una coscienza sempre più chiara di questa esi-genza idealistica di liberazione; ma non ha ancora, inconformità di essa, compiuto una revisione delle sueoriginarie premesse metodologiche.

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VI

IDEALISTI INGLESI (BAILLIE, COLLINGWOOD)

Ho citato in un capitolo precedente123 il Baillie, unodegli epigoni dell'hegelismo, il cui intelletto, turbatodalle visioni della guerra, s'è abbandonato a considera-zioni pessimistiche sulle sorti della filosofia. Il caso nonè nuovo, anzi, in altri rami dell'attività umana, è statouno dei più comuni fenomeni del disorientamento spiri-tuale del dopo-guerra. Ma in filosofia, esso presentaquesto di particolare, che il pessimismo filosofico è asua volta una filosofia, e ribadisce la servitù invece didare la desiderata liberazione.

Ora, è accaduto al Baillie di cambiare un padrone mi-gliore con un altro peggiore. Sconfessando il suo passa-to hegelismo, egli vorrebbe porsi al di sopra della mi-schia dei sistemi filosofici, in una posizione che si diffe-renzia dal tradizionale eclettismo in ciò, che non tende aconciliare insieme delle dottrine già date, bensì a riser-barsi un terreno neutro, immune dai contrasti delle scuo-

123 V. in questo vol., p. 13.

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IDEALISTI INGLESI (BAILLIE, COLLINGWOOD)

Ho citato in un capitolo precedente123 il Baillie, unodegli epigoni dell'hegelismo, il cui intelletto, turbatodalle visioni della guerra, s'è abbandonato a considera-zioni pessimistiche sulle sorti della filosofia. Il caso nonè nuovo, anzi, in altri rami dell'attività umana, è statouno dei più comuni fenomeni del disorientamento spiri-tuale del dopo-guerra. Ma in filosofia, esso presentaquesto di particolare, che il pessimismo filosofico è asua volta una filosofia, e ribadisce la servitù invece didare la desiderata liberazione.

Ora, è accaduto al Baillie di cambiare un padrone mi-gliore con un altro peggiore. Sconfessando il suo passa-to hegelismo, egli vorrebbe porsi al di sopra della mi-schia dei sistemi filosofici, in una posizione che si diffe-renzia dal tradizionale eclettismo in ciò, che non tende aconciliare insieme delle dottrine già date, bensì a riser-barsi un terreno neutro, immune dai contrasti delle scuo-

123 V. in questo vol., p. 13.

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le, per esplicarvi un pacifico lavoro di dissodamento.L'ultimo suo libro Studies in human nature (1921) con-sta infatti di una serie di saggi quasi staccati, concernen-ti il significato dell'attività mentale per la vita umana, ilvalore della memoria, il concorso dei fattori emotivi epratici nella conoscenza, ecc.; che nel loro complessovorrebbero essere contributi ad una psicologia del lavo-ro mentale, valida egualmente pei realisti e per gl'ideali-sti.

Se egli non avesse fatto che condurre a termine unatale intrapresa, noi potremmo risparmiarci di esaminareil suo libro. Invece gli accade che il suo ingegno filoso-fico reagisca quasi inconsapevolmente contro la superfi-cialità di questo imparziale psicologismo; sì che, di fatti,egli finisce col darci di più e di meglio di quel che s'eraproposto. Le parti più vive del suo libro sono appuntoquelle in cui nella sua apparente imparzialità si nascon-de un costante motivo polemico contro il realismo; ciòche conferisce ad esso una insospettata e inconfessataattualità nell'ambiente filosofico inglese contemporaneo.

Il realismo cerca di convertire i concetti in oggetti;ora, osserva il Baillie, se tali essi fossero realmente, nonsarebbero affatto oggettivi, perché non avrebbero più ilcarattere di funzioni mentali in riferimento agli oggetti,donde l'oggettività scaturisce124. Inoltre il realismo ponesullo stesso piano la mente che conosce e gli oggetti co-nosciuti (si ricordi il percipient event dell'Alexander e124 BAILLIE, Studies in human nature, 1921, p. 26.

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le, per esplicarvi un pacifico lavoro di dissodamento.L'ultimo suo libro Studies in human nature (1921) con-sta infatti di una serie di saggi quasi staccati, concernen-ti il significato dell'attività mentale per la vita umana, ilvalore della memoria, il concorso dei fattori emotivi epratici nella conoscenza, ecc.; che nel loro complessovorrebbero essere contributi ad una psicologia del lavo-ro mentale, valida egualmente pei realisti e per gl'ideali-sti.

Se egli non avesse fatto che condurre a termine unatale intrapresa, noi potremmo risparmiarci di esaminareil suo libro. Invece gli accade che il suo ingegno filoso-fico reagisca quasi inconsapevolmente contro la superfi-cialità di questo imparziale psicologismo; sì che, di fatti,egli finisce col darci di più e di meglio di quel che s'eraproposto. Le parti più vive del suo libro sono appuntoquelle in cui nella sua apparente imparzialità si nascon-de un costante motivo polemico contro il realismo; ciòche conferisce ad esso una insospettata e inconfessataattualità nell'ambiente filosofico inglese contemporaneo.

Il realismo cerca di convertire i concetti in oggetti;ora, osserva il Baillie, se tali essi fossero realmente, nonsarebbero affatto oggettivi, perché non avrebbero più ilcarattere di funzioni mentali in riferimento agli oggetti,donde l'oggettività scaturisce124. Inoltre il realismo ponesullo stesso piano la mente che conosce e gli oggetti co-nosciuti (si ricordi il percipient event dell'Alexander e124 BAILLIE, Studies in human nature, 1921, p. 26.

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Page 110: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

del Whitehead). Questa tesi ripugna essa pure a un inge-gno filosoficamente educato, come quello del Baillie.Nel conoscere, egli dice, la mente trascende il suo og-getto; essa ha una individualità da conservare, che è piùalta, nell'ordine dell'essere, di quella dell'oggetto; la suarelazione conoscitiva con la natura non è che un gradinoper il raggiungimento di un suo più elevato livello diesistenza. Ed è senza senso dire che la mente copia lanatura delle cose o riproduce l'ordine del mondo in ter-mini intelligibili. Questa veduta capovolge la realtà del-la situazione, perché implica che la mente non porti nul-la di nuovo nel mondo; e che questo sia già completo insé senza la mente, la quale può tutt'al più duplicare aguisa di ombra ciò che sostanzialmente è già dato. Inve-ce la realtà non è conosciuta come completa fino a chela mente non ne raccoglie in sé tutta la sostanza. È im-possibile copiare finché non si conosce l'originale; e ciòsignifica che la conoscenza dell'originale non può essereessa stessa una copia. È egualmente impossibile copiarefinché l'originale non è tutto presente innanzi a noi; mase è richiesta la mente per completare la realtà, l'origina-le non è tutto in essere finché non c'è la mente – vale adire che la così detta copia è essa stessa un fattore costi-tutivo dell'originale125.

Il motivo di queste critiche al realismo è evidente-mente idealistico; ma invano ci aspetteremmo di vederlosvolto fino in fondo. Sembra che il Baillie, dopo aver

125 Op. cit., pp. 53-58.

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del Whitehead). Questa tesi ripugna essa pure a un inge-gno filosoficamente educato, come quello del Baillie.Nel conoscere, egli dice, la mente trascende il suo og-getto; essa ha una individualità da conservare, che è piùalta, nell'ordine dell'essere, di quella dell'oggetto; la suarelazione conoscitiva con la natura non è che un gradinoper il raggiungimento di un suo più elevato livello diesistenza. Ed è senza senso dire che la mente copia lanatura delle cose o riproduce l'ordine del mondo in ter-mini intelligibili. Questa veduta capovolge la realtà del-la situazione, perché implica che la mente non porti nul-la di nuovo nel mondo; e che questo sia già completo insé senza la mente, la quale può tutt'al più duplicare aguisa di ombra ciò che sostanzialmente è già dato. Inve-ce la realtà non è conosciuta come completa fino a chela mente non ne raccoglie in sé tutta la sostanza. È im-possibile copiare finché non si conosce l'originale; e ciòsignifica che la conoscenza dell'originale non può essereessa stessa una copia. È egualmente impossibile copiarefinché l'originale non è tutto presente innanzi a noi; mase è richiesta la mente per completare la realtà, l'origina-le non è tutto in essere finché non c'è la mente – vale adire che la così detta copia è essa stessa un fattore costi-tutivo dell'originale125.

Il motivo di queste critiche al realismo è evidente-mente idealistico; ma invano ci aspetteremmo di vederlosvolto fino in fondo. Sembra che il Baillie, dopo aver

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negato che la mente abbia una funzione di amanuense,voglia attribuirle quella di un disegnatore che tracci, asuo gusto, degli arabeschi. La mente, nel conoscere, nonmira a rivelare un mondo oggettivo, ma a realizzare sestessa nella sua libera individualità; essa opera for itsown sake and for nothing else. Certo, anche il mondooggettivo è in qualche modo pervaso da questa attivitàche gli conferisce un nuovo significato: però siffattomodo d'essere della natura, come sostegno della viventeindividualità, lascia sempre supporre un modo di esserediverso e più primitivo, in cui potrà sempre rifugiarsi ilrealismo. Quest'ultimo non sarà mai sorpassato, fino ache gli verrà opposto soltanto che «la verità non è larealtà, ma una conscia realizzazione di una individualitàtotale»126. Siamo qui in presenza di una forma di pram-matismo idealistico, esposta alla stessa difficoltà del co-mune prammatismo: come si spiega il realizzarsi dellamente nella conoscenza, se la funzione o g g e ttiv a dellaconoscenza stessa viene frustrata?

Si può osservare infine una curiosa analogia tra que-sta veduta del Baillie e le idee esposte dal filosofo fran-cese Rémacle in una serie di articoli pubblicati tra il1893 e il 1897 nella Revue de Métaphysique et deMorale. Che cosa sono, si chiedeva il Rémacle, la rifles-sione, la conoscenza, la scienza? Non rappresentazionidi oggetti preventivamente dati, ma creazioni, che nonriproducono il reale, ma lo continuano, lo completano e

126 Ibid., pp. 58, 66, 75.

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negato che la mente abbia una funzione di amanuense,voglia attribuirle quella di un disegnatore che tracci, asuo gusto, degli arabeschi. La mente, nel conoscere, nonmira a rivelare un mondo oggettivo, ma a realizzare sestessa nella sua libera individualità; essa opera for itsown sake and for nothing else. Certo, anche il mondooggettivo è in qualche modo pervaso da questa attivitàche gli conferisce un nuovo significato: però siffattomodo d'essere della natura, come sostegno della viventeindividualità, lascia sempre supporre un modo di esserediverso e più primitivo, in cui potrà sempre rifugiarsi ilrealismo. Quest'ultimo non sarà mai sorpassato, fino ache gli verrà opposto soltanto che «la verità non è larealtà, ma una conscia realizzazione di una individualitàtotale»126. Siamo qui in presenza di una forma di pram-matismo idealistico, esposta alla stessa difficoltà del co-mune prammatismo: come si spiega il realizzarsi dellamente nella conoscenza, se la funzione o g g e ttiv a dellaconoscenza stessa viene frustrata?

Si può osservare infine una curiosa analogia tra que-sta veduta del Baillie e le idee esposte dal filosofo fran-cese Rémacle in una serie di articoli pubblicati tra il1893 e il 1897 nella Revue de Métaphysique et deMorale. Che cosa sono, si chiedeva il Rémacle, la rifles-sione, la conoscenza, la scienza? Non rappresentazionidi oggetti preventivamente dati, ma creazioni, che nonriproducono il reale, ma lo continuano, lo completano e

126 Ibid., pp. 58, 66, 75.

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rispondono a bisogni del tutto soggettivi di stabilità e diequilibrio interno127. Non so se il Baillie sia consapevoledi questa stretta rassomiglianza; poiché nel suo libro gliscritti del Rémacle non sono citati, e non è lecito dubita-re della sua probità mentale, è da ritenere che il rapportosia soltanto fortuito.

Con Baillie una generazione filosofica tramonta; colCollingwood ne sorge una nuova. Il lettore italiano degliscritti di questo giovane filosofo si trova in un ambienteche le opere del Croce gli hanno già reso familiare; pureegli non può non avvertire che l'accento del pensiero e ilcontenuto stesso delle esperienze spirituali sono nuovi, eirriducibili alle fonti italiane. Il libro finora più impor-tante del Collingwood ha per titolo Speculum mentis eper oggetto lo studio dei rapporti dialettici tra le formedello spirito. Di esso discorse ampiamente il Croce neLa Critica128 e vi osservò «tale copia di pensieri che ri-chiederebbe lungo e particolareggiato esame». «Puòdarsi, egli soggiungeva, che io più in là mi risolva aquesto esame e torni a discorrere di alcune sue parti»;intanto si limitava a giudicarne la prima, che trattadell'estetica, e che in certo modo è la chiave di volta del-le rimanenti. Ma prima di accennare alle obiezioni cro-ciane, gioverà indicare i tratti differenziali della costru-zione del Collingwood di fronte alle sue fonti italiane.Diversamente dal Croce, egli ritiene che il nesso delle

127 V. anche: PARODI, La philosophie contemporaine en France, 19202, p. 297.128 Vol. XXIII (1925), pp. 55-59.

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rispondono a bisogni del tutto soggettivi di stabilità e diequilibrio interno127. Non so se il Baillie sia consapevoledi questa stretta rassomiglianza; poiché nel suo libro gliscritti del Rémacle non sono citati, e non è lecito dubita-re della sua probità mentale, è da ritenere che il rapportosia soltanto fortuito.

Con Baillie una generazione filosofica tramonta; colCollingwood ne sorge una nuova. Il lettore italiano degliscritti di questo giovane filosofo si trova in un ambienteche le opere del Croce gli hanno già reso familiare; pureegli non può non avvertire che l'accento del pensiero e ilcontenuto stesso delle esperienze spirituali sono nuovi, eirriducibili alle fonti italiane. Il libro finora più impor-tante del Collingwood ha per titolo Speculum mentis eper oggetto lo studio dei rapporti dialettici tra le formedello spirito. Di esso discorse ampiamente il Croce neLa Critica128 e vi osservò «tale copia di pensieri che ri-chiederebbe lungo e particolareggiato esame». «Puòdarsi, egli soggiungeva, che io più in là mi risolva aquesto esame e torni a discorrere di alcune sue parti»;intanto si limitava a giudicarne la prima, che trattadell'estetica, e che in certo modo è la chiave di volta del-le rimanenti. Ma prima di accennare alle obiezioni cro-ciane, gioverà indicare i tratti differenziali della costru-zione del Collingwood di fronte alle sue fonti italiane.Diversamente dal Croce, egli ritiene che il nesso delle

127 V. anche: PARODI, La philosophie contemporaine en France, 19202, p. 297.128 Vol. XXIII (1925), pp. 55-59.

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attività spirituali risulti da una dialettica di opposti e nondi distinti; su questo punto egli aderisce alla veduta delGentile, o meglio, rendendo a Cesare quel ch'è di Cesa-re, dello Hegel; – senza per altro accettare la triade he-geliana – arte, religione, filosofia – che costringe le atti-vità spirituali in un letto di Procuste, annullando alcunicaratteri peculiari e differenziali di esse: per esempiol'autonomia della scienza naturale. E dell'opposizionedialettica il Collingwood ha, come pochi altri, il senti-mento profondo, aderente alla ricchezza e varietà delleforme dell'esperienza umana. Leggendo il suo libro, noinon c'imbattiamo mai in quel mero formalismo in cui hafinito con l'adagiarsi quella scuola idealistica italianache prende nome di idealismo attuale.

Per il Collingwood l'ordine irriversibile e progressivodelle attività spirituali consta di cinque momenti: arte,religione, scienza naturale, storia, filosofia; e il loromoto ascensivo è determinato da ciò, che ponendosiognuna di esse come definizione della verità o dell'asso-luto, rivela la propria natura contradittoria e svolge dalsuo seno stesso un'esigenza che solo la forma superiorepuò adempiere; così, di forma in forma, si ascende finoalla filosofia che tutte le spiega, le riscatta e le armoniz-za nell'unità dello spirito. Questa unità non è soltanto unbisogno architettonico della ragione; essa è, più ancora,un'esigenza vitale dello spirito moderno, che, avendorotto, fin dagli albori del Rinascimento e della Riforma,la compatta unità della coscienza medievale e sparpa-

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attività spirituali risulti da una dialettica di opposti e nondi distinti; su questo punto egli aderisce alla veduta delGentile, o meglio, rendendo a Cesare quel ch'è di Cesa-re, dello Hegel; – senza per altro accettare la triade he-geliana – arte, religione, filosofia – che costringe le atti-vità spirituali in un letto di Procuste, annullando alcunicaratteri peculiari e differenziali di esse: per esempiol'autonomia della scienza naturale. E dell'opposizionedialettica il Collingwood ha, come pochi altri, il senti-mento profondo, aderente alla ricchezza e varietà delleforme dell'esperienza umana. Leggendo il suo libro, noinon c'imbattiamo mai in quel mero formalismo in cui hafinito con l'adagiarsi quella scuola idealistica italianache prende nome di idealismo attuale.

Per il Collingwood l'ordine irriversibile e progressivodelle attività spirituali consta di cinque momenti: arte,religione, scienza naturale, storia, filosofia; e il loromoto ascensivo è determinato da ciò, che ponendosiognuna di esse come definizione della verità o dell'asso-luto, rivela la propria natura contradittoria e svolge dalsuo seno stesso un'esigenza che solo la forma superiorepuò adempiere; così, di forma in forma, si ascende finoalla filosofia che tutte le spiega, le riscatta e le armoniz-za nell'unità dello spirito. Questa unità non è soltanto unbisogno architettonico della ragione; essa è, più ancora,un'esigenza vitale dello spirito moderno, che, avendorotto, fin dagli albori del Rinascimento e della Riforma,la compatta unità della coscienza medievale e sparpa-

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gliato in un logorante particolarismo le sue numerose at-tività, sente i danni di questa dispersione e il valore del-la riconquista di una umanità totale.

La prima e più elementare forma di attività spiritualeè l'arte, che il Collingwood considera come «immagina-zione» (imagination) non già nel senso peggiorativo cri-ticato dal Croce, ma nel senso crociano di «fantasia».Con questo termine vien designato, essenzialmente, ilcarattere non assertivo dell'arte, che, come tra breve ve-dremo, è di grande momento nella crisi della coscienzaartistica e nel superamento di essa. In generale la dottri-na dell'arte delineata in Speculum mentis e poi più larga-mente svolta in un bel libriccino divulgativo Outlines ofa philosophy of art è di stretta ispirazione crociana,senz'essere però una parafrasi del pensiero del Croce,contenendo applicazioni originali, le quali rivelano unadiretta esperienza artistica. Per non addentrarci tropponei particolari, sorvoliamo sugli sviluppi dei temi cro-ciani a noi ben noti della «totalità dell'opera d'arte», del-la polarizzazione dell'attività estetica nel bello e nelbrutto, del carattere monadistico dell'arte, per cui essa ènelle sue manifestazioni essenzialmente discontinua.«Senza dubbio, soggiunge l'A., la storia dell'arte mostrauna certa continuità di sviluppo, ma la mostra allo stori-co, non all'artista»129.

Però, in contrasto col Croce, il Collingwood affermal'incapacità dell'arte di sostenersi come un tutto spiritua-129 Speculum mentis (1924), pp. 71-72.

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gliato in un logorante particolarismo le sue numerose at-tività, sente i danni di questa dispersione e il valore del-la riconquista di una umanità totale.

La prima e più elementare forma di attività spiritualeè l'arte, che il Collingwood considera come «immagina-zione» (imagination) non già nel senso peggiorativo cri-ticato dal Croce, ma nel senso crociano di «fantasia».Con questo termine vien designato, essenzialmente, ilcarattere non assertivo dell'arte, che, come tra breve ve-dremo, è di grande momento nella crisi della coscienzaartistica e nel superamento di essa. In generale la dottri-na dell'arte delineata in Speculum mentis e poi più larga-mente svolta in un bel libriccino divulgativo Outlines ofa philosophy of art è di stretta ispirazione crociana,senz'essere però una parafrasi del pensiero del Croce,contenendo applicazioni originali, le quali rivelano unadiretta esperienza artistica. Per non addentrarci tropponei particolari, sorvoliamo sugli sviluppi dei temi cro-ciani a noi ben noti della «totalità dell'opera d'arte», del-la polarizzazione dell'attività estetica nel bello e nelbrutto, del carattere monadistico dell'arte, per cui essa ènelle sue manifestazioni essenzialmente discontinua.«Senza dubbio, soggiunge l'A., la storia dell'arte mostrauna certa continuità di sviluppo, ma la mostra allo stori-co, non all'artista»129.

Però, in contrasto col Croce, il Collingwood affermal'incapacità dell'arte di sostenersi come un tutto spiritua-129 Speculum mentis (1924), pp. 71-72.

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le self-contained ed autonomo. Il pensiero, di cui essa èl'espressione più elementare, la rode dall'interno e laspinge a sorpassarsi. Questa crisi è rappresentatadall'antitesi, insita alla coscienza stessa dell'artista, tral'arte e la critica: «o l'artista è un sognatore incoerente, oè un critico; e se non è l'uno è l'altro. Ma, benché ogniartista sia un critico, il suo successo nell'arte sta nel di-menticare e negare di essere un critico». Di qui la naturacontradittoria di questi due elementi, che pure sonoegualmente necessari, del suo spirito. Inoltre, comeKant ha detto, la bellezza è un fine senza fine; il belloha l'aria di condurre a compimento un fine, di significa-re o d'intendere qualche cosa; ma quando si chiede checosa intenda o significhi, non si può dire che cosa sia.L'arte è significance without signification; essa è pre-gnante di un senso che non può rivelare, ma la cui rive-lazione s'impone allo spirito umano, che è, sì, artistico,ma è più che soltanto artistico. «Questo stadio esiste peressere superato. Se noi scopriamo che cosa esso signifi-ca, lo stadio estetico è già oltrepassato. L'arte deve mo-rire come la conoscenza cresce. Ma essa perisce come lafenice che risorge dalle proprie ceneri... Il valoredell'arte come forma di esperienza è l'auto-trascendenza.L'arte non è attaccata e distrutta dalla filosofia come daun esterno nemico; ma si distrugge da sé, per la sua inti-ma contradizione, definendo se stessa come pura intui-zione ed espressione, immaginazione e pensiero, signifi-

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le self-contained ed autonomo. Il pensiero, di cui essa èl'espressione più elementare, la rode dall'interno e laspinge a sorpassarsi. Questa crisi è rappresentatadall'antitesi, insita alla coscienza stessa dell'artista, tral'arte e la critica: «o l'artista è un sognatore incoerente, oè un critico; e se non è l'uno è l'altro. Ma, benché ogniartista sia un critico, il suo successo nell'arte sta nel di-menticare e negare di essere un critico». Di qui la naturacontradittoria di questi due elementi, che pure sonoegualmente necessari, del suo spirito. Inoltre, comeKant ha detto, la bellezza è un fine senza fine; il belloha l'aria di condurre a compimento un fine, di significa-re o d'intendere qualche cosa; ma quando si chiede checosa intenda o significhi, non si può dire che cosa sia.L'arte è significance without signification; essa è pre-gnante di un senso che non può rivelare, ma la cui rive-lazione s'impone allo spirito umano, che è, sì, artistico,ma è più che soltanto artistico. «Questo stadio esiste peressere superato. Se noi scopriamo che cosa esso signifi-ca, lo stadio estetico è già oltrepassato. L'arte deve mo-rire come la conoscenza cresce. Ma essa perisce come lafenice che risorge dalle proprie ceneri... Il valoredell'arte come forma di esperienza è l'auto-trascendenza.L'arte non è attaccata e distrutta dalla filosofia come daun esterno nemico; ma si distrugge da sé, per la sua inti-ma contradizione, definendo se stessa come pura intui-zione ed espressione, immaginazione e pensiero, signifi-

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cazione senza significato, concetto intuitivo»130. Qui,come si vede, siamo in presenza di temi schiettamentehegeliani; e ci si spiega che il Croce, il quale ha costan-temente combattuto l'idea romantica della «mortedell'arte» contesti la validità anche di questa ultima in-carnazione di essa. Nella recensione di cui ho testé par-lato, il lettore de La Critica troverà svolte le principaliistanze critiche contro siffatto modo d'intendere il supe-ramento dell'arte.

Dunque, per il Collingwood, l'arte fallisce perché nonafferma (la realtà); la religione invece afferma ciò cheimmagina. Il punto in cui il fanciullo comincia a chiede-re se le storie sono vere, è un punto di già più avanzataevoluzione. Occorre una certa critica; così la religionenon può affermare tutte le favole come indiscriminata-mente reali, tanto più che esse sono spesso in contrastol'una con l'altra131.

Come la religione è il dialettico sviluppo dell'arte,così la santità è lo sviluppo dialettico della bellezza. Lareligione è arte che afferma il suo oggetto; l'oggettodell'arte è il bello, perciò il mito è il bello affermatocome reale. Quindi il rapimento e l'ammirazione che su-scita in noi l'opera d'arte è, nel caso della religione, fusacol convincimento che ci troviamo di fronte a qualcosache non è la nostra mera immaginazione, ma è infinita-mente reale, il fondamento e la fonte del nostro essere.

130 Speculum mentis (1924), p. 90.131 Ibid., pp. 110-13.

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cazione senza significato, concetto intuitivo»130. Qui,come si vede, siamo in presenza di temi schiettamentehegeliani; e ci si spiega che il Croce, il quale ha costan-temente combattuto l'idea romantica della «mortedell'arte» contesti la validità anche di questa ultima in-carnazione di essa. Nella recensione di cui ho testé par-lato, il lettore de La Critica troverà svolte le principaliistanze critiche contro siffatto modo d'intendere il supe-ramento dell'arte.

Dunque, per il Collingwood, l'arte fallisce perché nonafferma (la realtà); la religione invece afferma ciò cheimmagina. Il punto in cui il fanciullo comincia a chiede-re se le storie sono vere, è un punto di già più avanzataevoluzione. Occorre una certa critica; così la religionenon può affermare tutte le favole come indiscriminata-mente reali, tanto più che esse sono spesso in contrastol'una con l'altra131.

Come la religione è il dialettico sviluppo dell'arte,così la santità è lo sviluppo dialettico della bellezza. Lareligione è arte che afferma il suo oggetto; l'oggettodell'arte è il bello, perciò il mito è il bello affermatocome reale. Quindi il rapimento e l'ammirazione che su-scita in noi l'opera d'arte è, nel caso della religione, fusacol convincimento che ci troviamo di fronte a qualcosache non è la nostra mera immaginazione, ma è infinita-mente reale, il fondamento e la fonte del nostro essere.

130 Speculum mentis (1924), p. 90.131 Ibid., pp. 110-13.

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Page 117: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

Così la nemica della religione è l'idolatria, la pretesa diadorare un oggetto che, per quanto squisito all'occhiodell'artista, non può reclamare una realtà autonoma132.

La chiave per la comprensione della religione nellasua intimità è un principio che in essa esiste solo impli-citamente e che consiste nella distinzione tra simbolo esignificato. Il rituale di una particolare cerimonia e lasua mitologia sono strettamente legati insieme, così chenon si può dire se l'uno è causa dell'altra o viceversa. Ilfatto è che essi vengono all'esistenza in un sol tempo,atto sacro e storia sacra, e raggiungono la loro forma piùalta e ragionevole quando la storia sacra rivela se stessacome un credo e l'atto sacro come la solenne recitazionedi quel credo. Ora questi atti e storie, coi loro sviluppi,formano il corpo della religione; l'anima è invece nelloro significato. Tale distinzione tra corpo e anima è im-plicita nella religione, ma celata ad essa, e non diventaesplicita che quando passiamo dalla religione alla scien-za. Qui il linguaggio si fa trasparente e noi ne cogliamoil senso; mentre nella religione il linguaggio è ancoraopaco, fuso col suo significato in una indifferenziataunità. Ma se, in sede puramente religiosa e non ancorascientifica, noi tentiamo di risvegliare l'anima e di libe-rarla dagl'inceppi del corpo, l'anima stessa nel suo trion-fo piomba negli abissi del misticismo: questo è la coro-na della religiosità, e insieme il suo più mortale nemico;

132 Speculum mentis (1924), p. 120.

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Così la nemica della religione è l'idolatria, la pretesa diadorare un oggetto che, per quanto squisito all'occhiodell'artista, non può reclamare una realtà autonoma132.

La chiave per la comprensione della religione nellasua intimità è un principio che in essa esiste solo impli-citamente e che consiste nella distinzione tra simbolo esignificato. Il rituale di una particolare cerimonia e lasua mitologia sono strettamente legati insieme, così chenon si può dire se l'uno è causa dell'altra o viceversa. Ilfatto è che essi vengono all'esistenza in un sol tempo,atto sacro e storia sacra, e raggiungono la loro forma piùalta e ragionevole quando la storia sacra rivela se stessacome un credo e l'atto sacro come la solenne recitazionedi quel credo. Ora questi atti e storie, coi loro sviluppi,formano il corpo della religione; l'anima è invece nelloro significato. Tale distinzione tra corpo e anima è im-plicita nella religione, ma celata ad essa, e non diventaesplicita che quando passiamo dalla religione alla scien-za. Qui il linguaggio si fa trasparente e noi ne cogliamoil senso; mentre nella religione il linguaggio è ancoraopaco, fuso col suo significato in una indifferenziataunità. Ma se, in sede puramente religiosa e non ancorascientifica, noi tentiamo di risvegliare l'anima e di libe-rarla dagl'inceppi del corpo, l'anima stessa nel suo trion-fo piomba negli abissi del misticismo: questo è la coro-na della religiosità, e insieme il suo più mortale nemico;

132 Speculum mentis (1924), p. 120.

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i grandi mistici sono insieme santi ed eresiarchi133.Queste conseguenze scaturiscono dalla peculiarità

della distinzione tra simbolo e significato: poiché la di-stinzione implicitamente c'è, la parola e l'atto religiososon pieni di significato; essi sono sentiti come carichi ditutto il peso di un messaggio inespresso, e questo sensodi oppressiva «meaningfullness» è la vera fonte dellasantità e dell'adorazione. Noi non intendiamo né vedia-mo la verità, ma solo il simbolo che la porta, e perciòconsideriamo quest'ultimo come infinitamente prezioso.È materia di comune osservazione che la religione nonspiega mai se stessa, e che se le si chiede: che cosa si-gnifica il simbolo? essa non ci risponde che con un altrosimbolo. La religione non può interpretarsi, non perchénon abbia significato, ma perché, pur avendolo, essapensa di averlo già espresso. Un aspetto del grande pa-radosso della religione è il fatto che essa reclama la ve-rità ma rifiuta di discutere (claims truth but refuses toargue): e questa è la fede134.

L'antitesi, nella religione, tra simbolo e significato, sirisolve nella scienza, con la quale la vita del pensiero silibera, non dal linguaggio, ma dalla opacità del linguag-gio e ne penetra il senso. Così la scienza cessa dal per-sonificare le astrazioni, ma le presenta così come sono.Nel suo persistente astrattismo, la scienza è l'erede dellareligiosità: il concetto, come emerge dalla sua crisalide

133 Ibid., pp. 122-27.134 Ibid., pp. 127-31.

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i grandi mistici sono insieme santi ed eresiarchi133.Queste conseguenze scaturiscono dalla peculiarità

della distinzione tra simbolo e significato: poiché la di-stinzione implicitamente c'è, la parola e l'atto religiososon pieni di significato; essi sono sentiti come carichi ditutto il peso di un messaggio inespresso, e questo sensodi oppressiva «meaningfullness» è la vera fonte dellasantità e dell'adorazione. Noi non intendiamo né vedia-mo la verità, ma solo il simbolo che la porta, e perciòconsideriamo quest'ultimo come infinitamente prezioso.È materia di comune osservazione che la religione nonspiega mai se stessa, e che se le si chiede: che cosa si-gnifica il simbolo? essa non ci risponde che con un altrosimbolo. La religione non può interpretarsi, non perchénon abbia significato, ma perché, pur avendolo, essapensa di averlo già espresso. Un aspetto del grande pa-radosso della religione è il fatto che essa reclama la ve-rità ma rifiuta di discutere (claims truth but refuses toargue): e questa è la fede134.

L'antitesi, nella religione, tra simbolo e significato, sirisolve nella scienza, con la quale la vita del pensiero silibera, non dal linguaggio, ma dalla opacità del linguag-gio e ne penetra il senso. Così la scienza cessa dal per-sonificare le astrazioni, ma le presenta così come sono.Nel suo persistente astrattismo, la scienza è l'erede dellareligiosità: il concetto, come emerge dalla sua crisalide

133 Ibid., pp. 122-27.134 Ibid., pp. 127-31.

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nella vita esplicita, porta con sé i segni del suo carattereoriginario. La storia della scienza europea comincia conla rottura tra scienza e religione nella mente dell'anticaGrecia, e i concetti della scienza greca appaiono comedegli dèi spersonalizzati. A somiglianza degli dèi di cuiprendono il posto, essi sono sospesi al di sopra del mon-do sensibile in un cielo proprio. Così il segreto dellascienza vien trovato nell'assoluta distinzione tra l'uni-versale e i particolari, tra il mondo del pensiero e ilmondo dei sensi135.

La scienza per eccellenza è apriori o deduttiva ed hail suo tipo ideale nella matematica, che non ha che farecon lo spazio o il tempo o la qualità – elementi di con-creta esperienza – ma è semplicemente una dottrina diordine. Dalla matematica, al determinismo, al materiali-smo, è un unico e ininterrotto corso di pensiero scientifi-co: la matematica significa la falsa trascendenza recipro-ca dell'uno e dei più; il determinismo la falsa trascen-denza della condizione rispetto al condizionato; la mate-ria infine è la sostanzialità o realtà degli oggetti, conce-pita come trascendente rispetto agli oggetti stessi. «Si èa volte fantasticato – soggiunge il Collingwood, riferen-dosi ad alcuni indirizzi scientifici contemporanei – chela fisica moderna, con la sua tendenza a risolvere la ma-teria corpulenta (gross-matter) in energie, eventi o de-terminazioni dello spazio-tempo, sia sulla via di oltre-passare il materialismo con la sua stessa dialettica. Non

135 Ibid., pp. 159-61.

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nella vita esplicita, porta con sé i segni del suo carattereoriginario. La storia della scienza europea comincia conla rottura tra scienza e religione nella mente dell'anticaGrecia, e i concetti della scienza greca appaiono comedegli dèi spersonalizzati. A somiglianza degli dèi di cuiprendono il posto, essi sono sospesi al di sopra del mon-do sensibile in un cielo proprio. Così il segreto dellascienza vien trovato nell'assoluta distinzione tra l'uni-versale e i particolari, tra il mondo del pensiero e ilmondo dei sensi135.

La scienza per eccellenza è apriori o deduttiva ed hail suo tipo ideale nella matematica, che non ha che farecon lo spazio o il tempo o la qualità – elementi di con-creta esperienza – ma è semplicemente una dottrina diordine. Dalla matematica, al determinismo, al materiali-smo, è un unico e ininterrotto corso di pensiero scientifi-co: la matematica significa la falsa trascendenza recipro-ca dell'uno e dei più; il determinismo la falsa trascen-denza della condizione rispetto al condizionato; la mate-ria infine è la sostanzialità o realtà degli oggetti, conce-pita come trascendente rispetto agli oggetti stessi. «Si èa volte fantasticato – soggiunge il Collingwood, riferen-dosi ad alcuni indirizzi scientifici contemporanei – chela fisica moderna, con la sua tendenza a risolvere la ma-teria corpulenta (gross-matter) in energie, eventi o de-terminazioni dello spazio-tempo, sia sulla via di oltre-passare il materialismo con la sua stessa dialettica. Non

135 Ibid., pp. 159-61.

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è così. L'essenza del materialismo, la sua asserzione diun sostrato indifferente, identico a se stesso, al di là del-la varietà dei fatti empirici, non è mutata se questo so-strato si chiami materia, energia o spazio-tempo. Il ma-terialismo è un fenomeno logico, è l'indifferenzadell'astratto universale ai suoi propri particolari»136. Difatto, la materia, secondo l'antica rappresentazione, eral'esponente di un ancora incompleto materialismo, per-ché la sua corpulenza era un residuo di qualità sensibilinon ancora espulse dal puro concetto; le vedute più mo-derne non fanno quindi che raffinare ed epurare il mate-rialismo.

Per questa via, la scienza trionfa, ma la realtà si nulli-fica in vuote determinazioni spaziali. Ed è il fato dellascienza deduttiva, nella formulazione che ha ricevutodai Greci; se la moderna scienza fisico-matematica vi sisottrae, è perché essa appartiene ad un più alto stadio(induttivo) di sviluppo scientifico. Gli scienziati, dal Ri-nascimento in poi, iniziarono una grande battaglia per ilriconoscimento dei fatti. Osservazione ed esperimento,essi sostennero, sono le vere fonti della conoscenzascientifica. Essi erano anche matematici; ma la matema-tica doveva formare solo lo scheletro o il corpo dellascienza; la carne e il sangue venivano dall'esperienza.Tuttavia, l'osservazione e l'esperimento non sorpassanola deduzione apriori. L'induzione infatti riposa su unprincipio variamente descritto come uniformità della na-

136 Ibid., p. 167.

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è così. L'essenza del materialismo, la sua asserzione diun sostrato indifferente, identico a se stesso, al di là del-la varietà dei fatti empirici, non è mutata se questo so-strato si chiami materia, energia o spazio-tempo. Il ma-terialismo è un fenomeno logico, è l'indifferenzadell'astratto universale ai suoi propri particolari»136. Difatto, la materia, secondo l'antica rappresentazione, eral'esponente di un ancora incompleto materialismo, per-ché la sua corpulenza era un residuo di qualità sensibilinon ancora espulse dal puro concetto; le vedute più mo-derne non fanno quindi che raffinare ed epurare il mate-rialismo.

Per questa via, la scienza trionfa, ma la realtà si nulli-fica in vuote determinazioni spaziali. Ed è il fato dellascienza deduttiva, nella formulazione che ha ricevutodai Greci; se la moderna scienza fisico-matematica vi sisottrae, è perché essa appartiene ad un più alto stadio(induttivo) di sviluppo scientifico. Gli scienziati, dal Ri-nascimento in poi, iniziarono una grande battaglia per ilriconoscimento dei fatti. Osservazione ed esperimento,essi sostennero, sono le vere fonti della conoscenzascientifica. Essi erano anche matematici; ma la matema-tica doveva formare solo lo scheletro o il corpo dellascienza; la carne e il sangue venivano dall'esperienza.Tuttavia, l'osservazione e l'esperimento non sorpassanola deduzione apriori. L'induzione infatti riposa su unprincipio variamente descritto come uniformità della na-

136 Ibid., p. 167.

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tura, causalità universale, ecc., che, appunto perché for-ma il fondamento dell'induzione, non può riposare suessa. Il principio dell'uniformità è quello che la deduzio-ne assume, cioè l'esistenza del concetto astratto, indiffe-rente alle variazioni e al mutamento. Quindi non si puòparlare di priorità dell'induzione o della deduzione: lascienza le assume insieme, senza riuscire a fonderle inuna unità. Se le fondesse, allora la scienza come tale pe-rirebbe, perché induzione e deduzione sparirebbero; ilche implicherebbe la negazione di ogni distinzione nelprocesso dall'universale al particolare e viceversa, e ilriconoscimento che universale e particolare non sonoseparati, ma solo distinti momenti di un tutto indivisibi-le. Ma la scienza non è che l'affermazione del concettoastratto; quando questa astrattezza è riconosciuta, essa ètrascesa: una conscia astrazione non è più un'astrazione,perché implica l'affermazione di una realtà che soggiacead essa. La scoperta dell'astrattezza della scienza è lanascita della storia137.

Universale e individuale, realtà e apparenza, necessitàe contingenza, creano con la loro opposizione dei pro-blemi che per la coscienza scientifica sono insolubili.L'apparenza deve essere apparenza di una realtà; il con-tingente dev'essere in qualche modo fondato sul neces-sario: questi termini sono stati soltanto separati, ma nonposti in relazione l'uno con l'altro: essi hanno bisogno diessere riuniti e spiegati come egualmente necessari

137 Ibid., pp. 177-80.

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tura, causalità universale, ecc., che, appunto perché for-ma il fondamento dell'induzione, non può riposare suessa. Il principio dell'uniformità è quello che la deduzio-ne assume, cioè l'esistenza del concetto astratto, indiffe-rente alle variazioni e al mutamento. Quindi non si puòparlare di priorità dell'induzione o della deduzione: lascienza le assume insieme, senza riuscire a fonderle inuna unità. Se le fondesse, allora la scienza come tale pe-rirebbe, perché induzione e deduzione sparirebbero; ilche implicherebbe la negazione di ogni distinzione nelprocesso dall'universale al particolare e viceversa, e ilriconoscimento che universale e particolare non sonoseparati, ma solo distinti momenti di un tutto indivisibi-le. Ma la scienza non è che l'affermazione del concettoastratto; quando questa astrattezza è riconosciuta, essa ètrascesa: una conscia astrazione non è più un'astrazione,perché implica l'affermazione di una realtà che soggiacead essa. La scoperta dell'astrattezza della scienza è lanascita della storia137.

Universale e individuale, realtà e apparenza, necessitàe contingenza, creano con la loro opposizione dei pro-blemi che per la coscienza scientifica sono insolubili.L'apparenza deve essere apparenza di una realtà; il con-tingente dev'essere in qualche modo fondato sul neces-sario: questi termini sono stati soltanto separati, ma nonposti in relazione l'uno con l'altro: essi hanno bisogno diessere riuniti e spiegati come egualmente necessari

137 Ibid., pp. 177-80.

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scambievolmente. Questo bisogno è soddisfatto dallacoscienza storica, il cui oggetto è l'individuo; non più unastratto universale divorziato dai suoi particolari egual-mente astratti, bensì un universale che si particolarizza,un particolare fondato sulla propria universalità. Per lastoria, la verità non è più una necessità astratta, che nonesiste attualmente in nessun luogo, ma è concreta e at-tuale, mentre la necessità della scienza è meramenteipotetica, e la sua verità è una realtà in certo senso irrea-le, un ideale non realizzato, una legge che non ha esem-pi. Anche nella storia tuttavia c'è un residuo dell'astrat-tezza della scienza. Esso consiste nella separazione delpensiero dal suo oggetto. Il fatto, che è oggetto del pen-siero storico, è una cosa in sé, una cosa la cui esistenza enatura sono supposte come del tutto indipendenti da chile pensa: il còmpito dello storico è di scoprire un mondodi fatti «che è sempre lì» da scoprire. E perciò anche lostorico fallisce al suo còmpito di unificare pensiero edazione. Egli non modifica il mondo, ma l'apprende; egliè uomo di pensiero, non di azione. Questa astrattezza èsuperata solo dalla filosofia, l'oggetto della quale è unarealtà che include insieme il fatto di cui lo storico è con-scio e la sua coscienza di questo fatto. Il filosofo è ilpensatore che non solo pensa, ma sa di pensare e consi-dera suo còmpito scoprire le implicazioni di questo fat-to. Egli non è, come lo storico, fuori del suo quadro, masente se stesso come parte del processo storico che stu-

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scambievolmente. Questo bisogno è soddisfatto dallacoscienza storica, il cui oggetto è l'individuo; non più unastratto universale divorziato dai suoi particolari egual-mente astratti, bensì un universale che si particolarizza,un particolare fondato sulla propria universalità. Per lastoria, la verità non è più una necessità astratta, che nonesiste attualmente in nessun luogo, ma è concreta e at-tuale, mentre la necessità della scienza è meramenteipotetica, e la sua verità è una realtà in certo senso irrea-le, un ideale non realizzato, una legge che non ha esem-pi. Anche nella storia tuttavia c'è un residuo dell'astrat-tezza della scienza. Esso consiste nella separazione delpensiero dal suo oggetto. Il fatto, che è oggetto del pen-siero storico, è una cosa in sé, una cosa la cui esistenza enatura sono supposte come del tutto indipendenti da chile pensa: il còmpito dello storico è di scoprire un mondodi fatti «che è sempre lì» da scoprire. E perciò anche lostorico fallisce al suo còmpito di unificare pensiero edazione. Egli non modifica il mondo, ma l'apprende; egliè uomo di pensiero, non di azione. Questa astrattezza èsuperata solo dalla filosofia, l'oggetto della quale è unarealtà che include insieme il fatto di cui lo storico è con-scio e la sua coscienza di questo fatto. Il filosofo è ilpensatore che non solo pensa, ma sa di pensare e consi-dera suo còmpito scoprire le implicazioni di questo fat-to. Egli non è, come lo storico, fuori del suo quadro, masente se stesso come parte del processo storico che stu-

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dia138.Dalla precedente esposizione appare una successione

di momenti spirituali puramente teoretici; ma in realtà ilCollingwood dà ad essi un valore teoretico e pratico in-sieme, mostrando come a ciascuna posizione speculati-va dello spirito corrisponda un appropriato atteggiamen-to pratico, quindi una determinata eticità. Così allo sta-dio dell'arte corrisponde l'azione come gioco (play); lostadio religioso si esprime in una moralità di «comanda-menti», una moralità formalistica e convenzionale, dovelo spirito in cui l'atto è compiuto non può essere separa-to dall'atto stesso. L'etica dello stadio scientifico è l'utili-tarismo, che astrae dalle concrete azioni i loro fini,come la scienza astrae dai concreti oggetti i loro princìpigenerali e permanenti. L'etica della storia è l'eticadell'individualità e della libertà; essa prelude, col suo re-siduo di astrattismo a cui fuggevolmente abbiamo giàaccennato, all'etica assoluta della filosofia.

Per esigenze di spazio ho dovuto ridurre a pochi puntifondamentali l'esposizione del nutrito pensierodell'Autore. Ma da essi io credo che risulti già chiaroche egli non riduce la vita dello spirito a un arido sche-ma dialettico, a una mera rotazione monotona di tre mo-menti logici. Com'egli stesso osserva in un caso analo-go, «questo triplice ritmo è presente in tutta la vita, manon è mai due volte simile: il suo carattere totale è mo-dificato continuamente dalle differenze specifiche138 Outlines of a philosophy of art, p. 92.

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dia138.Dalla precedente esposizione appare una successione

di momenti spirituali puramente teoretici; ma in realtà ilCollingwood dà ad essi un valore teoretico e pratico in-sieme, mostrando come a ciascuna posizione speculati-va dello spirito corrisponda un appropriato atteggiamen-to pratico, quindi una determinata eticità. Così allo sta-dio dell'arte corrisponde l'azione come gioco (play); lostadio religioso si esprime in una moralità di «comanda-menti», una moralità formalistica e convenzionale, dovelo spirito in cui l'atto è compiuto non può essere separa-to dall'atto stesso. L'etica dello stadio scientifico è l'utili-tarismo, che astrae dalle concrete azioni i loro fini,come la scienza astrae dai concreti oggetti i loro princìpigenerali e permanenti. L'etica della storia è l'eticadell'individualità e della libertà; essa prelude, col suo re-siduo di astrattismo a cui fuggevolmente abbiamo giàaccennato, all'etica assoluta della filosofia.

Per esigenze di spazio ho dovuto ridurre a pochi puntifondamentali l'esposizione del nutrito pensierodell'Autore. Ma da essi io credo che risulti già chiaroche egli non riduce la vita dello spirito a un arido sche-ma dialettico, a una mera rotazione monotona di tre mo-menti logici. Com'egli stesso osserva in un caso analo-go, «questo triplice ritmo è presente in tutta la vita, manon è mai due volte simile: il suo carattere totale è mo-dificato continuamente dalle differenze specifiche138 Outlines of a philosophy of art, p. 92.

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dell'esperienza in cui è incorporato»139. Aver mostrato inatto questa novità di contenuto e di accento che assumelo sviluppo dialettico nei suoi vari momenti, è uno deiprincipali meriti dell'opera del Collingwood. Ad essa sipotrebbero rivolgere, nei particolari, alcune obiezioni;specialmente la dottrina della storia sembra la partemeno elaborata di tutto il sistema, con la sua riduzionedella conoscenza storica al «fatto» oggettivo, divorziatodalla soggettività dello spirito. Invece le parti più ricchedi contenuto e più suggestive son quelle che concernonola religione e la scienza naturale. Formulare una conclu-sione critica definitiva sul pensiero del Collingwood,che non ha ancor dato tutta la sua misura e che appare invia di continuo sviluppo, è prematuro; mi basta aver se-gnalato in esso una delle manifestazioni più elevate del-la generazione che segue quella dei maestri dell'ideali-smo contemporaneo.

139 Philosophy of art, p. 88.

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dell'esperienza in cui è incorporato»139. Aver mostrato inatto questa novità di contenuto e di accento che assumelo sviluppo dialettico nei suoi vari momenti, è uno deiprincipali meriti dell'opera del Collingwood. Ad essa sipotrebbero rivolgere, nei particolari, alcune obiezioni;specialmente la dottrina della storia sembra la partemeno elaborata di tutto il sistema, con la sua riduzionedella conoscenza storica al «fatto» oggettivo, divorziatodalla soggettività dello spirito. Invece le parti più ricchedi contenuto e più suggestive son quelle che concernonola religione e la scienza naturale. Formulare una conclu-sione critica definitiva sul pensiero del Collingwood,che non ha ancor dato tutta la sua misura e che appare invia di continuo sviluppo, è prematuro; mi basta aver se-gnalato in esso una delle manifestazioni più elevate del-la generazione che segue quella dei maestri dell'ideali-smo contemporaneo.

139 Philosophy of art, p. 88.

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VII

HAMELIN

La fama di Hamelin è stata postuma. Il titolo stessodella sua opera principale: Essai sur les élémentsprincipaux de la représentation, sembrava fatto appostaper dissimulare, sotto le false apparenze di un lavoro dipsicologia descrittiva, il vero significato speculativodella costruzione che vi era racchiusa. Il libro, apparsola prima volta nel 1901, mentr'era in pieno sviluppo lafilosofia bergsoniana, passò quasi inosservato, ed il suoautore visse una oscura vita accademica di chargé decours alla Sorbona, eclissato dalla fama dei grandi cori-fei dell'insegnamento ufficiale, il Boutroux e il Bergson.Mancavano a lui le doti brillanti e l'esprit de finesse deisuoi più fortunati rivali; e le stesse qualità positive di cuiera dotato, una non comune forza di costruzione metafi-sica e una conoscenza profonda del pensiero dei classi-ci, non erano le più appropriate a procacciargli un rapi-do successo in un paese rimasto in gran parte estraneoalla speculazione post-kantiana e avvezzo a distinguerecartesianamente il pensiero originale dall'erudizione fi-

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HAMELIN

La fama di Hamelin è stata postuma. Il titolo stessodella sua opera principale: Essai sur les élémentsprincipaux de la représentation, sembrava fatto appostaper dissimulare, sotto le false apparenze di un lavoro dipsicologia descrittiva, il vero significato speculativodella costruzione che vi era racchiusa. Il libro, apparsola prima volta nel 1901, mentr'era in pieno sviluppo lafilosofia bergsoniana, passò quasi inosservato, ed il suoautore visse una oscura vita accademica di chargé decours alla Sorbona, eclissato dalla fama dei grandi cori-fei dell'insegnamento ufficiale, il Boutroux e il Bergson.Mancavano a lui le doti brillanti e l'esprit de finesse deisuoi più fortunati rivali; e le stesse qualità positive di cuiera dotato, una non comune forza di costruzione metafi-sica e una conoscenza profonda del pensiero dei classi-ci, non erano le più appropriate a procacciargli un rapi-do successo in un paese rimasto in gran parte estraneoalla speculazione post-kantiana e avvezzo a distinguerecartesianamente il pensiero originale dall'erudizione fi-

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losofica. Il saggio, col suo fenomenismo razionalistico,apparve come un proseguimento dell'indirizzo neo-kan-tiano del Renouvier; ed a questo filosofo infatti l'autorenon soltanto lo dedicava, ma si dichiarava spiritualmen-te debitore più che a qualunque altro. In realtà, il saggioera un ripensamento della logica hegeliana, il più pro-fondo, forse, che fino a quel tempo (la data della pubbli-cazione, come si è detto, è del 1901, ma l'elaborazioneera durata venti anni) fosse stato compiuto; e, a differen-za di altri tentativi del genere – basti ricordare, per tutti,quello dello Spaventa – era scevro di ogni riecheggia-mento scolastico del testo hegeliano, e pur accogliendoil principio della sintesi dialettica degli opposti, davaalle sue costruzioni triadiche un indirizzo del tutto indi-pendente.

Alcuni anni dopo la morte dell'Hamelin, il saggio, in-sieme con altri due scritti di argomento storico (Lesystème de Descartes e Le système de Aristote)140 è statoriscoperto e quasi riesumato da alcuni amici del filoso-fo, il Brunschwicg e il Robin; e la nuova edizione del1925, curata dal Darbon, corredata di sobrie annotazionistoriche, le quali chiariscono alcune oscure ed ellitticheallusioni alle dottrine dei classici e dei contemporanei, èstata come la rivelazione di un'opera nuova, che prestoha elevato il suo autore al grado dei maestri più celebratidel pensiero francese. Così, nella recente storia della fi-140 Del secondo di questi due libri ho parlato in una rassegna dei più recenti

studi sulla filosofia antica (v. La Critica, XXVI, 1928, pp. 169-81); delprimo nel mio volume su L'età cartesiana, Bari, Laterza, 19484.

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losofica. Il saggio, col suo fenomenismo razionalistico,apparve come un proseguimento dell'indirizzo neo-kan-tiano del Renouvier; ed a questo filosofo infatti l'autorenon soltanto lo dedicava, ma si dichiarava spiritualmen-te debitore più che a qualunque altro. In realtà, il saggioera un ripensamento della logica hegeliana, il più pro-fondo, forse, che fino a quel tempo (la data della pubbli-cazione, come si è detto, è del 1901, ma l'elaborazioneera durata venti anni) fosse stato compiuto; e, a differen-za di altri tentativi del genere – basti ricordare, per tutti,quello dello Spaventa – era scevro di ogni riecheggia-mento scolastico del testo hegeliano, e pur accogliendoil principio della sintesi dialettica degli opposti, davaalle sue costruzioni triadiche un indirizzo del tutto indi-pendente.

Alcuni anni dopo la morte dell'Hamelin, il saggio, in-sieme con altri due scritti di argomento storico (Lesystème de Descartes e Le système de Aristote)140 è statoriscoperto e quasi riesumato da alcuni amici del filoso-fo, il Brunschwicg e il Robin; e la nuova edizione del1925, curata dal Darbon, corredata di sobrie annotazionistoriche, le quali chiariscono alcune oscure ed ellitticheallusioni alle dottrine dei classici e dei contemporanei, èstata come la rivelazione di un'opera nuova, che prestoha elevato il suo autore al grado dei maestri più celebratidel pensiero francese. Così, nella recente storia della fi-140 Del secondo di questi due libri ho parlato in una rassegna dei più recenti

studi sulla filosofia antica (v. La Critica, XXVI, 1928, pp. 169-81); delprimo nel mio volume su L'età cartesiana, Bari, Laterza, 19484.

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losofia contemporanea in Francia del Parodi, l'Hamelinè considerato come il più alto e maturo esponente dellanuova speculazione razionalistica francese, come l'ini-ziatore o il precursore di una immancabile riscossa con-tro l'irrazionalismo filosofico degli ultimi decenni.

Il punto di partenza della filosofia dell'Hamelin è nel-la contrapposizione, formulata dalla critica kantiana,svolta dalla metafisica post-kantiana e divenuta familia-re al pensiero francese per mezzo del Ravaisson e deisuoi seguaci, tra il pensiero analitico e il pensiero sinte-tico. L'uno, che ha la sua espressione metodologica nelladeduzione (e, in fondo, anche nell'induzione, com'è sta-to dimostrato dal Lachelier) e che ha la sua attuazionenelle scienze esatte e in quelle che più si avvicinanoall'esattezza, consiste in un procedimento regressivo percui tutto ciò che la natura ci offre di composto e di orga-nico vien decomposto nei propri elementi, e così ricon-dotto sotto leggi via via più generali e semplici. Ma ap-punto perciò il procedimento analitico implica e presup-pone un procedimento sintetico immanente alla realtàstessa, in via di organizzarsi e di ascendere a forme sem-pre più complesse di esistenza. Ora, c'è un pensiero ade-guato a questa progressione, anzi, capace di formularnela regola e il segno? I post-kantiani hanno risposto di sì,e l'Hamelin accoglie da essi, in linea di massima, l'ideadella dialettica degli opposti come legge sintetica dellarealtà. La sua ricerca pertanto concerne una produzionesintetica (non una deduzione, come voleva Kant ancora

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losofia contemporanea in Francia del Parodi, l'Hamelinè considerato come il più alto e maturo esponente dellanuova speculazione razionalistica francese, come l'ini-ziatore o il precursore di una immancabile riscossa con-tro l'irrazionalismo filosofico degli ultimi decenni.

Il punto di partenza della filosofia dell'Hamelin è nel-la contrapposizione, formulata dalla critica kantiana,svolta dalla metafisica post-kantiana e divenuta familia-re al pensiero francese per mezzo del Ravaisson e deisuoi seguaci, tra il pensiero analitico e il pensiero sinte-tico. L'uno, che ha la sua espressione metodologica nelladeduzione (e, in fondo, anche nell'induzione, com'è sta-to dimostrato dal Lachelier) e che ha la sua attuazionenelle scienze esatte e in quelle che più si avvicinanoall'esattezza, consiste in un procedimento regressivo percui tutto ciò che la natura ci offre di composto e di orga-nico vien decomposto nei propri elementi, e così ricon-dotto sotto leggi via via più generali e semplici. Ma ap-punto perciò il procedimento analitico implica e presup-pone un procedimento sintetico immanente alla realtàstessa, in via di organizzarsi e di ascendere a forme sem-pre più complesse di esistenza. Ora, c'è un pensiero ade-guato a questa progressione, anzi, capace di formularnela regola e il segno? I post-kantiani hanno risposto di sì,e l'Hamelin accoglie da essi, in linea di massima, l'ideadella dialettica degli opposti come legge sintetica dellarealtà. La sua ricerca pertanto concerne una produzionesintetica (non una deduzione, come voleva Kant ancora

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impigliato nella vecchia logica) delle categorie, intesecome forme razionali, costitutive del reale; o con altritermini, che chiariscono il significato metafisico e nonmeramente critico dell'indagine, essa è una prova onto-logica dell'idealismo assoluto.

Tuttavia, la dialettica dell'Hamelin si differenzia daquella di Hegel in un punto essenziale. Hegel ha preso ilfinito per contradittorio, e, non senza inconseguenza, havoluto far posto nella sua logica al principio di contradi-zione, affermando che il finito si nega in quanto contra-dittorio e così passa in altro. Al contrario, per 1'H. «lasintesi che concilia gli opposti non li nega». Essi nonsono dei contradittori, «ma soltanto dei contrari, e perben caratterizzarli bisogna dire che sono correlativi.Alla contradizione hegeliana noi sostituiamo la correla-zione. Ciò ch'è determinato, non essendo dunque contra-dittorio in sé, ma soltanto incompleto in ciascuna dellesue determinazioni presa a parte, porta per conseguenzache il metodo sintetico, lungi dallo svilupparsi alla ma-niera hegeliana in successive negazioni, dovrà procede-re al contrario con affermazioni che si completano a vi-cenda, e l'ultima delle quali, totalmente differente dalnulla della teologia negativa, sarà, come voleva in fondoAristotele, molto male a proposito citato da Hegel,l'essere compiuto e integralmente definito »141.

Invece che per negazioni, dunque, la dialettica

141 O. HAMELIN, Essai sur les éléments principaux de la représentation(deuxième édition par Darbon, Paris, Alcan, 1925, pp. XI-528), p. 40.

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impigliato nella vecchia logica) delle categorie, intesecome forme razionali, costitutive del reale; o con altritermini, che chiariscono il significato metafisico e nonmeramente critico dell'indagine, essa è una prova onto-logica dell'idealismo assoluto.

Tuttavia, la dialettica dell'Hamelin si differenzia daquella di Hegel in un punto essenziale. Hegel ha preso ilfinito per contradittorio, e, non senza inconseguenza, havoluto far posto nella sua logica al principio di contradi-zione, affermando che il finito si nega in quanto contra-dittorio e così passa in altro. Al contrario, per 1'H. «lasintesi che concilia gli opposti non li nega». Essi nonsono dei contradittori, «ma soltanto dei contrari, e perben caratterizzarli bisogna dire che sono correlativi.Alla contradizione hegeliana noi sostituiamo la correla-zione. Ciò ch'è determinato, non essendo dunque contra-dittorio in sé, ma soltanto incompleto in ciascuna dellesue determinazioni presa a parte, porta per conseguenzache il metodo sintetico, lungi dallo svilupparsi alla ma-niera hegeliana in successive negazioni, dovrà procede-re al contrario con affermazioni che si completano a vi-cenda, e l'ultima delle quali, totalmente differente dalnulla della teologia negativa, sarà, come voleva in fondoAristotele, molto male a proposito citato da Hegel,l'essere compiuto e integralmente definito »141.

Invece che per negazioni, dunque, la dialettica

141 O. HAMELIN, Essai sur les éléments principaux de la représentation(deuxième édition par Darbon, Paris, Alcan, 1925, pp. XI-528), p. 40.

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dell'Hamelin procede per affermazioni via via più con-crete e particolareggiate, nella cui serie ascendente si di-stribuisce il divenire della realtà, e il cui progresso ha lasua ragione in ciò, che la sintesi più bassa, per forza del-la razionalità che, direi quasi, la sospinge, esige la piùalta. Questo incolonnamento di determinazioni positivee affermative, se da una parte smorza gli urti di certipassaggi troppo bruschi che troviamo nella logica hege-liana, dall'altra però lascia le stesse perplessità e gli stes-si dubbi circa la saldezza della connessione tra una cate-goria e un'altra. Ma, poiché su questo punto si è piùaspramente affaticato l'Hamelin, noi cercheremo, nellaesposizione del suo pensiero, di riprodurre le giustifica-zioni dialettiche almeno dei passaggi più importanti, af-finché il lettore esperto della logica hegeliana possa giu-dicare se il nuovo tentativo di deduzione delle categorie– nel senso chiarito di auto-produzione – sia più felicedel precedente.

Il primo principio del metodo, e nel tempo stesso ilprimo elemento delle cose, non è l'essere, come per He-gel, ma il rapporto, cioè la forma e la legge stessa delpensiero, che pone, oppone, unifica, e che informa diquesto suo ritmo tutto il divenire. Al di sopra della purarelazione, v'è il gruppo delle categorie delle quantità –numero, tempo, spazio, movimento, – dove i termini delrapporto logico si vanno progressivamente entificando enaturalizzando. Il passaggio da un momento all'altro èspiegato, dialetticamente, così: «Dal punto di vista della

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dell'Hamelin procede per affermazioni via via più con-crete e particolareggiate, nella cui serie ascendente si di-stribuisce il divenire della realtà, e il cui progresso ha lasua ragione in ciò, che la sintesi più bassa, per forza del-la razionalità che, direi quasi, la sospinge, esige la piùalta. Questo incolonnamento di determinazioni positivee affermative, se da una parte smorza gli urti di certipassaggi troppo bruschi che troviamo nella logica hege-liana, dall'altra però lascia le stesse perplessità e gli stes-si dubbi circa la saldezza della connessione tra una cate-goria e un'altra. Ma, poiché su questo punto si è piùaspramente affaticato l'Hamelin, noi cercheremo, nellaesposizione del suo pensiero, di riprodurre le giustifica-zioni dialettiche almeno dei passaggi più importanti, af-finché il lettore esperto della logica hegeliana possa giu-dicare se il nuovo tentativo di deduzione delle categorie– nel senso chiarito di auto-produzione – sia più felicedel precedente.

Il primo principio del metodo, e nel tempo stesso ilprimo elemento delle cose, non è l'essere, come per He-gel, ma il rapporto, cioè la forma e la legge stessa delpensiero, che pone, oppone, unifica, e che informa diquesto suo ritmo tutto il divenire. Al di sopra della purarelazione, v'è il gruppo delle categorie delle quantità –numero, tempo, spazio, movimento, – dove i termini delrapporto logico si vanno progressivamente entificando enaturalizzando. Il passaggio da un momento all'altro èspiegato, dialetticamente, così: «Dal punto di vista della

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relazione, le cose appaiono soprattutto come legate traloro; mentre, dal punto di vista del numero, esse s'isola-no e si distinguono piuttosto che non si colleghino. Checosa esprimerà dunque la sintesi in cui si conciliano larelazione e il numero? Questo, senza dubbio: che qual-che cosa esiste che è insieme e invincibilmente legame edispersione; accolta di termini discreti e tuttavia non se-parati»142. Tale è il tempo, di cui si può dire più giusta-mente quel che Malebranche diceva dello spazio, checiascuna delle sue parti implica il nulla di tutte le altre, eche nondimeno rende possibile un ordine di cose che siescludono e insieme si legano.

Inoltre, «dal fatto che ciascuna parte del tempo impli-ca il nulla di tutte le altre, cioè è la negazione di esse,segue che il tempo forma una serie successiva, irriversi-bile e unica. Ma questi caratteri non si comprendono chein opposizione a contrari, e quindi bisogna che vi sia,come antitesi della quantità temporale, una secondaquantità, dove le parti, non escludendosi che in un certosenso, si presentano in serie simultanee riversibili emultiple. Si riconoscono qui i tratti generali del concettodi spazio»143. E il tempo e lo spazio, opposti tra loro,s'integrano nel movimento, dove si prende la posizionein funzione della durata e la durata in funzione della po-sizione.

Contro Kant, che ha voluto fare del tempo e dello

142 Op. cit., p. 57.143 Ibid., p. 81.

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relazione, le cose appaiono soprattutto come legate traloro; mentre, dal punto di vista del numero, esse s'isola-no e si distinguono piuttosto che non si colleghino. Checosa esprimerà dunque la sintesi in cui si conciliano larelazione e il numero? Questo, senza dubbio: che qual-che cosa esiste che è insieme e invincibilmente legame edispersione; accolta di termini discreti e tuttavia non se-parati»142. Tale è il tempo, di cui si può dire più giusta-mente quel che Malebranche diceva dello spazio, checiascuna delle sue parti implica il nulla di tutte le altre, eche nondimeno rende possibile un ordine di cose che siescludono e insieme si legano.

Inoltre, «dal fatto che ciascuna parte del tempo impli-ca il nulla di tutte le altre, cioè è la negazione di esse,segue che il tempo forma una serie successiva, irriversi-bile e unica. Ma questi caratteri non si comprendono chein opposizione a contrari, e quindi bisogna che vi sia,come antitesi della quantità temporale, una secondaquantità, dove le parti, non escludendosi che in un certosenso, si presentano in serie simultanee riversibili emultiple. Si riconoscono qui i tratti generali del concettodi spazio»143. E il tempo e lo spazio, opposti tra loro,s'integrano nel movimento, dove si prende la posizionein funzione della durata e la durata in funzione della po-sizione.

Contro Kant, che ha voluto fare del tempo e dello

142 Op. cit., p. 57.143 Ibid., p. 81.

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spazio delle intuizioni sensibili, sottraendoli, almeno nelloro principio, alla giurisdizione dell'intelletto, l'Hame-lin conduce una critica acutissima, nell'intento di portar-li al livello logico delle categorie, cioè di rivendicarne larazionalità. L'argomento fondamentale di Kant, com'ènoto, è che, mentre un concetto si risolve in un certo nu-mero di caratteri che ne sono gli elementi, e che, a que-sto titolo, sono anteriori al tutto, nel tempo e nello spa-zio il tutto precede le parti, le quali non possono essererappresentate che come limitazioni di esso; e ancora,mentre gl'individui si dispongono sotto i concetti, le par-ti del tempo e dello spazio sono nel tempo e nello spa-zio, quindi non possono essere sussunte dal pensiero di-scorsivo, ma debbono essere intuite sensibilmente. Alche l'Hamelin risponde che è inesatto dire che nella rap-presentazione del tempo e dello spazio il tutto sia ante-riore alle parti: la verità è che il tutto e le parti sono datiinsieme in un'opposizione indivisibile; per esempio, nel-lo spazio non esiste né un limite senza intervalli, né unintervallo senza limite. Lo spazio dunque (e non diver-samente il tempo) è una rappresentazione generale sottola quale bisogna collocarne altre più particolari, come ladestra, la sinistra, l'alto, il basso, ecc., secondo la leggecomune a tutte le rappresentazioni logiche144.

Dalle quantità si procede alla serie delle categoriequalitative. Le prime sono infatti dei composti (e per ec-cellenza composita è la più alta delle determinazioni

144 Ibid., pp. 72 sgg.

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spazio delle intuizioni sensibili, sottraendoli, almeno nelloro principio, alla giurisdizione dell'intelletto, l'Hame-lin conduce una critica acutissima, nell'intento di portar-li al livello logico delle categorie, cioè di rivendicarne larazionalità. L'argomento fondamentale di Kant, com'ènoto, è che, mentre un concetto si risolve in un certo nu-mero di caratteri che ne sono gli elementi, e che, a que-sto titolo, sono anteriori al tutto, nel tempo e nello spa-zio il tutto precede le parti, le quali non possono essererappresentate che come limitazioni di esso; e ancora,mentre gl'individui si dispongono sotto i concetti, le par-ti del tempo e dello spazio sono nel tempo e nello spa-zio, quindi non possono essere sussunte dal pensiero di-scorsivo, ma debbono essere intuite sensibilmente. Alche l'Hamelin risponde che è inesatto dire che nella rap-presentazione del tempo e dello spazio il tutto sia ante-riore alle parti: la verità è che il tutto e le parti sono datiinsieme in un'opposizione indivisibile; per esempio, nel-lo spazio non esiste né un limite senza intervalli, né unintervallo senza limite. Lo spazio dunque (e non diver-samente il tempo) è una rappresentazione generale sottola quale bisogna collocarne altre più particolari, come ladestra, la sinistra, l'alto, il basso, ecc., secondo la leggecomune a tutte le rappresentazioni logiche144.

Dalle quantità si procede alla serie delle categoriequalitative. Le prime sono infatti dei composti (e per ec-cellenza composita è la più alta delle determinazioni

144 Ibid., pp. 72 sgg.

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quantitative, il movimento), che pertanto richiamanol'antitesi e il correlativo del semplice, cioè della qualità,che a sua volta dà luogo, dialetticamente, all'alterazione(trasformazione di una qualità nel suo contrario) e allaspecificazione (con cui la qualità posta e negata vienreintegrata sinteticamente).

Si passa di qui alla categoria di causa, che, insiemecon quella di fine che la segue nell'ordine dialettico, for-ma una delle parti più originali dell'intero sistema. Perl'H., «la causalità è una determinazione che procede daldi fuori, dal triplice punto di vista dello spazio, dellaqualità e del tempo. In effetti essa consiste per costru-zione in una dipendenza che lega ciascuna partedell'estensione qualificata a tutte le altre, in quanto sonoreciprocamente esteriori e i loro stati sono successivi. Sivede dunque subito, con una facile analisi, che, quantoallo spazio e alla qualità, ciascuna delle parti dell'esten-sione qualificata possiede ciò che si chiama in meccani-ca l'inerzia, vale a dire è incapace d'influire su di sé, al-meno direttamente, e riceve l'influenza da tutto il resto.La causa del movimento, per esempio, non è nel mobi-le»145. E, quanto al tempo, come l'anteriore e il posterio-re sono correlativi, altrettali son la causa e l'effetto: ildire che la causa chiama l'effetto, significa che in ogniistante lo stato già dato delle cose non basta a se stesso eche non può essere pensato senza che si anticipino tuttigli altri che verranno. Due conseguenze importanti sca-

145 Ibid., p. 250.

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quantitative, il movimento), che pertanto richiamanol'antitesi e il correlativo del semplice, cioè della qualità,che a sua volta dà luogo, dialetticamente, all'alterazione(trasformazione di una qualità nel suo contrario) e allaspecificazione (con cui la qualità posta e negata vienreintegrata sinteticamente).

Si passa di qui alla categoria di causa, che, insiemecon quella di fine che la segue nell'ordine dialettico, for-ma una delle parti più originali dell'intero sistema. Perl'H., «la causalità è una determinazione che procede daldi fuori, dal triplice punto di vista dello spazio, dellaqualità e del tempo. In effetti essa consiste per costru-zione in una dipendenza che lega ciascuna partedell'estensione qualificata a tutte le altre, in quanto sonoreciprocamente esteriori e i loro stati sono successivi. Sivede dunque subito, con una facile analisi, che, quantoallo spazio e alla qualità, ciascuna delle parti dell'esten-sione qualificata possiede ciò che si chiama in meccani-ca l'inerzia, vale a dire è incapace d'influire su di sé, al-meno direttamente, e riceve l'influenza da tutto il resto.La causa del movimento, per esempio, non è nel mobi-le»145. E, quanto al tempo, come l'anteriore e il posterio-re sono correlativi, altrettali son la causa e l'effetto: ildire che la causa chiama l'effetto, significa che in ogniistante lo stato già dato delle cose non basta a se stesso eche non può essere pensato senza che si anticipino tuttigli altri che verranno. Due conseguenze importanti sca-

145 Ibid., p. 250.

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turiscono da queste premesse: l'una è che la causalitànon esiste nei fenomeni (onde si esclude ogni sostanti-vazione di forze e di potenze occulte) ma soltanto tra ifenomeni. L'altra è che non esistono rapporti parziali oindividuali di causa ed effetto, ma la causalità è un mu-tuo legame universale, che coincide con la rappresenta-zione meccanistico-dinamica dell'universo.

Come tale, la causalità richiama la teleologia, che nonè da intendere però come una forma o sottoforma diconnessione causale. L'espressione di causa finale è perl'H. un controsenso: un fine non è e non può essere unacausa che agisca meccanicamente: è stato questo il tortodei finalisti di tutti i tempi e la ragione della sfiduciasempre più diffusa verso le spiegazioni di tal genere, laquale trova un'eco perfino nella Critica del Giudizio,che, pure, ha iniziato una geniale trasposizione della te-leologia sopra un piano diverso e più alto che non quellodella causalità meccanica. Dunque i fini, come ricono-sce esplicitamente l'Hamelin a coronamento della ricer-ca kantiana, non fa n n o nulla; ciò che opera è soltantola causalità, la quale coincide col meccanismo. Ma allo-ra, hanno una propria ragion d'essere e un modo propriodi agire? La causalità, risponde l'H., è, per sé sola, unconcetto incompleto, come vien dimostrato, indiretta-mente, dalle deficienze di tutte le spiegazioni meccani-stiche dell'universo. Nel materialismo, i caratteri di cuisi nega la proprietà alla materia vivente vengono tra-sportati in quella così detta bruta; e in tal modo l'essere

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turiscono da queste premesse: l'una è che la causalitànon esiste nei fenomeni (onde si esclude ogni sostanti-vazione di forze e di potenze occulte) ma soltanto tra ifenomeni. L'altra è che non esistono rapporti parziali oindividuali di causa ed effetto, ma la causalità è un mu-tuo legame universale, che coincide con la rappresenta-zione meccanistico-dinamica dell'universo.

Come tale, la causalità richiama la teleologia, che nonè da intendere però come una forma o sottoforma diconnessione causale. L'espressione di causa finale è perl'H. un controsenso: un fine non è e non può essere unacausa che agisca meccanicamente: è stato questo il tortodei finalisti di tutti i tempi e la ragione della sfiduciasempre più diffusa verso le spiegazioni di tal genere, laquale trova un'eco perfino nella Critica del Giudizio,che, pure, ha iniziato una geniale trasposizione della te-leologia sopra un piano diverso e più alto che non quellodella causalità meccanica. Dunque i fini, come ricono-sce esplicitamente l'Hamelin a coronamento della ricer-ca kantiana, non fa n n o nulla; ciò che opera è soltantola causalità, la quale coincide col meccanismo. Ma allo-ra, hanno una propria ragion d'essere e un modo propriodi agire? La causalità, risponde l'H., è, per sé sola, unconcetto incompleto, come vien dimostrato, indiretta-mente, dalle deficienze di tutte le spiegazioni meccani-stiche dell'universo. Nel materialismo, i caratteri di cuisi nega la proprietà alla materia vivente vengono tra-sportati in quella così detta bruta; e in tal modo l'essere

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inorganico, e particolarmente il cristallo, si arricchisco-no a misura che l'essere organizzato sembra impoverirsi.Ma per questa via non si va verso la riduzione della vitaa qualcosa che non vive, bensì verso la soppressione diogni materia rigorosamente bruta, verso l'estensione del-la vita senza altro limite che l'esistenza stessa. Equand'anche in un laboratorio si riuscisse alla creazionedi una cellula di protoplasma, l'operatore, facendo con-vergere una moltitudine enorme di serie di fenomeni,avrebbe penetrato di finalità la sua opera. Così la dottri-na meccanicistica risulta insufficiente anche nel domi-nio che sembrava suo senza contestazione, nel mondocosì detto inorganico: essendo la vita da per tutto, esso,inteso in senso stretto ed esclusivo, è cacciato da per tut-to146.

Ma, se la causalità pura è incompleta, come la si po-trebbe completare? Bisognerebbe che il risultato mecca-nico, l'effetto, si trasformasse in concorrente alla propriadeterminazione. E come mai l'ultimo termine di un pro-cesso causale vi può aver la funzione di un agente; comemai l'avvenire che sembra, come tale, sprovvisto di real-tà, diviene reale e capace di agire? Divien tale senzauscire dall'ordine del tempo, grazie alla previsione o aqualche operazione analoga? O, al contrario, sorpassan-do il tempo, perché il pensiero è per sé intemporale e ladistinzione di un passato e di un avvenire svanisce in-nanzi ad esso? Secondo Kant, la seconda alternativa è

146 Ibid., pp. 289, 302 sgg.

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inorganico, e particolarmente il cristallo, si arricchisco-no a misura che l'essere organizzato sembra impoverirsi.Ma per questa via non si va verso la riduzione della vitaa qualcosa che non vive, bensì verso la soppressione diogni materia rigorosamente bruta, verso l'estensione del-la vita senza altro limite che l'esistenza stessa. Equand'anche in un laboratorio si riuscisse alla creazionedi una cellula di protoplasma, l'operatore, facendo con-vergere una moltitudine enorme di serie di fenomeni,avrebbe penetrato di finalità la sua opera. Così la dottri-na meccanicistica risulta insufficiente anche nel domi-nio che sembrava suo senza contestazione, nel mondocosì detto inorganico: essendo la vita da per tutto, esso,inteso in senso stretto ed esclusivo, è cacciato da per tut-to146.

Ma, se la causalità pura è incompleta, come la si po-trebbe completare? Bisognerebbe che il risultato mecca-nico, l'effetto, si trasformasse in concorrente alla propriadeterminazione. E come mai l'ultimo termine di un pro-cesso causale vi può aver la funzione di un agente; comemai l'avvenire che sembra, come tale, sprovvisto di real-tà, diviene reale e capace di agire? Divien tale senzauscire dall'ordine del tempo, grazie alla previsione o aqualche operazione analoga? O, al contrario, sorpassan-do il tempo, perché il pensiero è per sé intemporale e ladistinzione di un passato e di un avvenire svanisce in-nanzi ad esso? Secondo Kant, la seconda alternativa è

146 Ibid., pp. 289, 302 sgg.

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da adottare. La prima presenta l'inconveniente che,quando concepiamo il fine sotto la specie di una rappre-sentazione anticipata dell'oggetto e riattacchiamo a que-sta rappresentazione l'attività che realizza l'oggetto, noideformiamo il fine vero e proprio, e ne facciamo unacausa. Ed è un vizio di cui soffrirà ogni concezione tem-porale della finalità, perché dove c'è il tempo c'è il mec-canismo. Ma è lecito trascendere il tempo nel modo chepretende Kant? Il pensiero è, sì, fuori del tempo dei rea-listi, ma non è fuori del tempo vero, ed indubbiamentein un atto che dura esso si rappresenta l'unità del diveni-re: «in quanto si pone in atto di abbracciare il futuro,esso organizza il futuro»147. Si potrebbe adombrare il ca-rattere sopratemporale, e tuttavia svolgentesi nel tempo,della finalità, ravvicinando questa all'attività intenziona-le, cioè intelligente e volontaria. Ma bisogna avvertireche, se essa è ciò che si può immaginare più vicino alpensiero in senso stretto, cioè allo spirito, alla coscien-za, nondimeno appartiene ancora al dominio del mondooggettivo e naturale, non a quello del soggetto. Peresprimere tale differenza ed inferiorità gerarchica, sidirà che la finalità non è un'attività derivata dal concet-to, ma è il concetto stesso come attività sintetica: il con-cetto è il tipo di un'organizzazione teleologica, che sirealizza per mezzo della causalità meccanica. Troviamoqui il punto d'incontro della teleologia e del meccani-smo: «la finalità è la determinazione di un risultato per

147 Ibid., pp. 332 sgg.

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da adottare. La prima presenta l'inconveniente che,quando concepiamo il fine sotto la specie di una rappre-sentazione anticipata dell'oggetto e riattacchiamo a que-sta rappresentazione l'attività che realizza l'oggetto, noideformiamo il fine vero e proprio, e ne facciamo unacausa. Ed è un vizio di cui soffrirà ogni concezione tem-porale della finalità, perché dove c'è il tempo c'è il mec-canismo. Ma è lecito trascendere il tempo nel modo chepretende Kant? Il pensiero è, sì, fuori del tempo dei rea-listi, ma non è fuori del tempo vero, ed indubbiamentein un atto che dura esso si rappresenta l'unità del diveni-re: «in quanto si pone in atto di abbracciare il futuro,esso organizza il futuro»147. Si potrebbe adombrare il ca-rattere sopratemporale, e tuttavia svolgentesi nel tempo,della finalità, ravvicinando questa all'attività intenziona-le, cioè intelligente e volontaria. Ma bisogna avvertireche, se essa è ciò che si può immaginare più vicino alpensiero in senso stretto, cioè allo spirito, alla coscien-za, nondimeno appartiene ancora al dominio del mondooggettivo e naturale, non a quello del soggetto. Peresprimere tale differenza ed inferiorità gerarchica, sidirà che la finalità non è un'attività derivata dal concet-to, ma è il concetto stesso come attività sintetica: il con-cetto è il tipo di un'organizzazione teleologica, che sirealizza per mezzo della causalità meccanica. Troviamoqui il punto d'incontro della teleologia e del meccani-smo: «la finalità è la determinazione di un risultato per

147 Ibid., pp. 332 sgg.

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mezzo della totalità dei fenomeni che possono esercitaresu di esso un'azione causale», ossia è il determinismovisto nella sua sistematicità, nella sua unità concettua-le148. Ci si spiega così quel che poc'anzi si diceva: che lafinalità da sé non fa niente: ciò ch'è destinato a fare èuna causa adattata a un fine; o meglio, il vero agente èla sintesi della causa e del fine.

Il cammino fin qui seguito dal pensiero è il seguente:«Una serie causale data in abstracto, manifestante colsuo carattere incompleto la sua natura di cosa dipenden-te, è posta come un mezzo che si adatta a un fine; poi,dei due termini così mutuamente adattati si forma un si-stema; è ben dunque il sistema che, come riassumente econsacrante questo adattamento reciproco, possiede quiil supremo valore... Insomma, per concludere, la finalitànon è la conformità all'idea [com'è l'azione intenziona-le]; ma è l'idea stessa, purché, comprendendo l'idea algrado in cui è qui presa, ci si renda conto che si tratta diun'organizzazione che s'inventa da sé, d'un plan qui sedresse lui-même»149.

Con la finalità e la vita noi giungiamo sul limitare delmondo della soggettività, della coscienza. Infatti, la sin-tesi della causalità meccanica e della teleologia è nellarappresentazione di un «sistema agente», inteso comeun rapporto completo e sufficiente, come una realtà persé. Questi caratteri significano, rispettivamente, libertà e

148 Ibid., pp. 338-39.149 Ibid., pp. 351-52.

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mezzo della totalità dei fenomeni che possono esercitaresu di esso un'azione causale», ossia è il determinismovisto nella sua sistematicità, nella sua unità concettua-le148. Ci si spiega così quel che poc'anzi si diceva: che lafinalità da sé non fa niente: ciò ch'è destinato a fare èuna causa adattata a un fine; o meglio, il vero agente èla sintesi della causa e del fine.

Il cammino fin qui seguito dal pensiero è il seguente:«Una serie causale data in abstracto, manifestante colsuo carattere incompleto la sua natura di cosa dipenden-te, è posta come un mezzo che si adatta a un fine; poi,dei due termini così mutuamente adattati si forma un si-stema; è ben dunque il sistema che, come riassumente econsacrante questo adattamento reciproco, possiede quiil supremo valore... Insomma, per concludere, la finalitànon è la conformità all'idea [com'è l'azione intenziona-le]; ma è l'idea stessa, purché, comprendendo l'idea algrado in cui è qui presa, ci si renda conto che si tratta diun'organizzazione che s'inventa da sé, d'un plan qui sedresse lui-même»149.

Con la finalità e la vita noi giungiamo sul limitare delmondo della soggettività, della coscienza. Infatti, la sin-tesi della causalità meccanica e della teleologia è nellarappresentazione di un «sistema agente», inteso comeun rapporto completo e sufficiente, come una realtà persé. Questi caratteri significano, rispettivamente, libertà e

148 Ibid., pp. 338-39.149 Ibid., pp. 351-52.

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coscienza; e l'uno e l'altro insieme costituiscono la per-sonalità o il soggetto. Il pensiero così, in questo suo piùalto stadio, è autocoscienza; mentre, per un altro riguar-do, esso è tutti i momenti che abbiamo in precedenzapercorso; è la relazione, numero, causa, fine. Per l'inse-parabilità tra pensiero e coscienza, s'impone una esten-sione indefinita della coscienza per gradi indefinitamen-te decrescenti, ciascuno dei quali è il momento soggetti-vo di una corrispondente oggettività; e il pensiero, nellasua pienezza, è il processo bilaterale, lo sviluppo organi-co di una realtà che è insieme oggetto e soggetto. Perconseguenza, la rappresentazione, contrariamente al si-gnificato etimologico della parola, non rappresenta unoggetto e un soggetto posto fuori di essa, ma è insiemeil soggetto e l'oggetto, è tutta la realtà150. Con questaspiegazione, ci si chiarisce il titolo del saggio, a primavista ingannevole.

La rappresentazione si distingue, dialetticamente, inteoretica, pratica, affettiva. Ma la prima è a sua voltapratica fino a un certo punto: «il pensiero teoretico è unpensiero pratico il cui lato pratico è accorciato. E questoaccorciamento, sempre inerente a qualunque pensiero,non va ricercato molto lontano: esso è il segno. L'idea diuna cosa che l'atto può compiere è già in ogni coscienzal'atto stesso: per un uccello, per esempio, l'idea del nidoè già la nidificazione. Se l'atto abortisce in parte, ciò chene resta diviene il segno: il segno uditivo, muscolare,

150 Ibid., pp. 355-74.

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coscienza; e l'uno e l'altro insieme costituiscono la per-sonalità o il soggetto. Il pensiero così, in questo suo piùalto stadio, è autocoscienza; mentre, per un altro riguar-do, esso è tutti i momenti che abbiamo in precedenzapercorso; è la relazione, numero, causa, fine. Per l'inse-parabilità tra pensiero e coscienza, s'impone una esten-sione indefinita della coscienza per gradi indefinitamen-te decrescenti, ciascuno dei quali è il momento soggetti-vo di una corrispondente oggettività; e il pensiero, nellasua pienezza, è il processo bilaterale, lo sviluppo organi-co di una realtà che è insieme oggetto e soggetto. Perconseguenza, la rappresentazione, contrariamente al si-gnificato etimologico della parola, non rappresenta unoggetto e un soggetto posto fuori di essa, ma è insiemeil soggetto e l'oggetto, è tutta la realtà150. Con questaspiegazione, ci si chiarisce il titolo del saggio, a primavista ingannevole.

La rappresentazione si distingue, dialetticamente, inteoretica, pratica, affettiva. Ma la prima è a sua voltapratica fino a un certo punto: «il pensiero teoretico è unpensiero pratico il cui lato pratico è accorciato. E questoaccorciamento, sempre inerente a qualunque pensiero,non va ricercato molto lontano: esso è il segno. L'idea diuna cosa che l'atto può compiere è già in ogni coscienzal'atto stesso: per un uccello, per esempio, l'idea del nidoè già la nidificazione. Se l'atto abortisce in parte, ciò chene resta diviene il segno: il segno uditivo, muscolare,

150 Ibid., pp. 355-74.

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ecc. E questi atti abortiti, potendo attaccarsi ad ogni spe-cie d'idee, anche astratte, ne divengono, per così dire, labase fisica»151. La rappresentazione teoretica consta ditre momenti, il concetto, il giudizio, il ragionamento,con l'avvertenza però che non v'è concetto fuori del giu-dizio, né giudizio che non formuli un concetto; l'uno el'altro sono prodotti da un atto unico, che è lo stesso ra-gionamento.

La concezione dell'Hamelin non è tuttavia così intel-lettualistica come apparirebbe da ciò che s'è fin qui det-to. Al di sopra del pensiero teoretico essa pone il pensie-ro pratico; più che nella contemplazione, «è in un attolibero che l'essere concreto, pienamente reale, si pone edentra in possesso di sé medesimo»152. Ma l'atto liberonon è irrazionale; esso è l'azione motivata, dove il moti-vo non è più la causa in senso deterministico, né il finedella teleologia organica, ma è insieme la causa e il finericondotti all'unità nel concetto del sistema agente, e neltempo stesso dotati di coscienza e riferiti ad un soggetto.

La rappresentazione pratica si tripartisce in attivitàtecnica, estetica, morale. Ciascuna di esse ha dei caratte-ri propri: nell'una c'è la preponderanza del risultato, nel-la seconda dei mezzi, nella terza la sintesi del risultato edei mezzi. «L'attività tecnica è la continuazione ed anziil fondo stesso della natura, il prolungamento nella rap-presentazione pratica di ciò che, nella rappresentazione

151 Ibid., p. 374.152 Ibid., p. 434.

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ecc. E questi atti abortiti, potendo attaccarsi ad ogni spe-cie d'idee, anche astratte, ne divengono, per così dire, labase fisica»151. La rappresentazione teoretica consta ditre momenti, il concetto, il giudizio, il ragionamento,con l'avvertenza però che non v'è concetto fuori del giu-dizio, né giudizio che non formuli un concetto; l'uno el'altro sono prodotti da un atto unico, che è lo stesso ra-gionamento.

La concezione dell'Hamelin non è tuttavia così intel-lettualistica come apparirebbe da ciò che s'è fin qui det-to. Al di sopra del pensiero teoretico essa pone il pensie-ro pratico; più che nella contemplazione, «è in un attolibero che l'essere concreto, pienamente reale, si pone edentra in possesso di sé medesimo»152. Ma l'atto liberonon è irrazionale; esso è l'azione motivata, dove il moti-vo non è più la causa in senso deterministico, né il finedella teleologia organica, ma è insieme la causa e il finericondotti all'unità nel concetto del sistema agente, e neltempo stesso dotati di coscienza e riferiti ad un soggetto.

La rappresentazione pratica si tripartisce in attivitàtecnica, estetica, morale. Ciascuna di esse ha dei caratte-ri propri: nell'una c'è la preponderanza del risultato, nel-la seconda dei mezzi, nella terza la sintesi del risultato edei mezzi. «L'attività tecnica è la continuazione ed anziil fondo stesso della natura, il prolungamento nella rap-presentazione pratica di ciò che, nella rappresentazione

151 Ibid., p. 374.152 Ibid., p. 434.

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teoretica, era l'oggetto»153.L'attività estetica è concepita kantianamente

dall'Hamelin, come finalità senza fine, come gioco di-sinteressato; e il carattere pratico di essa risulterebbe daciò, che ogni bellezza, è, in fondo, il prodotto di un'arte:è, nel significato più ampio, una ποίησις154. Infine, l'atti-vità morale è quella che fonde e intrinseca nell'unità del-la persona i mezzi ed i fini; donde risulta il seguentecorrettivo della formula kantiana del dovere: «ciò chepermette di riconoscere che un'azione è conforme al do-vere non è la possibilità di universalizzarla, ma la possi-bilità di farla entrare in un sistema di azioni favorevolialla personalità»155.

Con la rappresentazione affettiva si conclude il ciclodialettico dello spirito soggettivo. «Dopo di avere nellafase teoretica posto un oggetto di fronte al soggetto, ilpensiero nella fase pratica appare a se stesso come unsoggetto che si appropria e dirige ormai lo sviluppo ul-teriore dell'oggetto. Ma, assimilandosi così quest'ultimo,il pensiero non ha detto ancora la sua ultima parola, enon la dirà se non constatando quale effetto produce sulsoggetto la conquista dell'oggettività»156. Per conseguen-za, come vi son tre gradi di rappresentazione pratica,così debbono esservi tre specie corrispondenti e irriduci-bili di affettività: il sentimento sensitivo, estetico e mo-153 Ibid., p. 443.154 Ibid., p. 445.155 Ibid., p. 466.156 Ibid., p. 467.

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teoretica, era l'oggetto»153.L'attività estetica è concepita kantianamente

dall'Hamelin, come finalità senza fine, come gioco di-sinteressato; e il carattere pratico di essa risulterebbe daciò, che ogni bellezza, è, in fondo, il prodotto di un'arte:è, nel significato più ampio, una ποίησις154. Infine, l'atti-vità morale è quella che fonde e intrinseca nell'unità del-la persona i mezzi ed i fini; donde risulta il seguentecorrettivo della formula kantiana del dovere: «ciò chepermette di riconoscere che un'azione è conforme al do-vere non è la possibilità di universalizzarla, ma la possi-bilità di farla entrare in un sistema di azioni favorevolialla personalità»155.

Con la rappresentazione affettiva si conclude il ciclodialettico dello spirito soggettivo. «Dopo di avere nellafase teoretica posto un oggetto di fronte al soggetto, ilpensiero nella fase pratica appare a se stesso come unsoggetto che si appropria e dirige ormai lo sviluppo ul-teriore dell'oggetto. Ma, assimilandosi così quest'ultimo,il pensiero non ha detto ancora la sua ultima parola, enon la dirà se non constatando quale effetto produce sulsoggetto la conquista dell'oggettività»156. Per conseguen-za, come vi son tre gradi di rappresentazione pratica,così debbono esservi tre specie corrispondenti e irriduci-bili di affettività: il sentimento sensitivo, estetico e mo-153 Ibid., p. 443.154 Ibid., p. 445.155 Ibid., p. 466.156 Ibid., p. 467.

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rale. Con ciò, noi giungiamo all'ultimo grado del pro-gresso sintetico, che è a sua volta il primo del regressoanalitico dell'esperienza comune e delle scienze partico-lari.

Qualche ulteriore chiarimento è tuttavia necessario,per meglio individuare il carattere di quel pensiero che,come sintesi autonoma e compiuta di soggetto e di og-getto, viene anche chiamato dall'Hamelin col terminetradizionale di Assoluto. Si tratta del pensiero umano? odel pensiero divino? e quest'ultimo, come distinto dalprimo o come tutt'uno con esso? L'A. sente qui il biso-gno di distinguere la sua concezione da quella del «pan-teismo idealistico». Anche per lui, la realtà fondamenta-le è il pensiero, mentre il tempo, lo spazio, il movimen-to, ecc., non sono che aspetti secondari, e superficialidel reale. «Però, egli soggiunge, due ragioni ci allonta-nano da quel sistema. La prima è che il pensiero sostan-zializzato di cui esso si accontenta è per noi una cosa epartecipa come tale dell'inintelligibilità della materia.L'altra è che il panteismo non ammette che un solo indi-viduo. Se noi dunque constatiamo l'esistenza di una plu-ralità di coscienze, il panteismo è inaccettabile»157. Etale constatazione lo spinge ad accettare, pur con molteesitazioni, il teismo, che, malgrado le sue deficienze,soddisfa ancora, meglio di ogni altra dottrina, alle esi-genze della filosofia idealistica, nel modo ch'egli l'inten-de. E soggiunge, con una riserva che per un filosofo

157 Ibid., p. 488.

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rale. Con ciò, noi giungiamo all'ultimo grado del pro-gresso sintetico, che è a sua volta il primo del regressoanalitico dell'esperienza comune e delle scienze partico-lari.

Qualche ulteriore chiarimento è tuttavia necessario,per meglio individuare il carattere di quel pensiero che,come sintesi autonoma e compiuta di soggetto e di og-getto, viene anche chiamato dall'Hamelin col terminetradizionale di Assoluto. Si tratta del pensiero umano? odel pensiero divino? e quest'ultimo, come distinto dalprimo o come tutt'uno con esso? L'A. sente qui il biso-gno di distinguere la sua concezione da quella del «pan-teismo idealistico». Anche per lui, la realtà fondamenta-le è il pensiero, mentre il tempo, lo spazio, il movimen-to, ecc., non sono che aspetti secondari, e superficialidel reale. «Però, egli soggiunge, due ragioni ci allonta-nano da quel sistema. La prima è che il pensiero sostan-zializzato di cui esso si accontenta è per noi una cosa epartecipa come tale dell'inintelligibilità della materia.L'altra è che il panteismo non ammette che un solo indi-viduo. Se noi dunque constatiamo l'esistenza di una plu-ralità di coscienze, il panteismo è inaccettabile»157. Etale constatazione lo spinge ad accettare, pur con molteesitazioni, il teismo, che, malgrado le sue deficienze,soddisfa ancora, meglio di ogni altra dottrina, alle esi-genze della filosofia idealistica, nel modo ch'egli l'inten-de. E soggiunge, con una riserva che per un filosofo

157 Ibid., p. 488.

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dell'assoluto può sembrare strana: «Aspettando che unascoperta geniale riveli per la filosofia idealistica un ter-zo sbocco, non si può se non aderire al teismo contro1'antropocentrismo. Ciascuna coscienza particolare è uncentro senza dubbio, ma solo dal suo punto di vista, e lacoscienza dell'universo, che è necessariamente e insepa-rabilmente connessa ad ogni coscienza, non è la vera eprimordiale coscienza, quella che in realtà è il centro ela base di tutto»158.159 Ma il teismo dell'H. non ha che ve-dere con quello della religiosità positiva: esso concepi-sce, sì, Dio come personalità, ma l'oggetto di questosoggetto è il mondo, e l'uno e l'altro si fondono insiemenel divenire dialettico; donde la conseguenza scandalosaper il teismo tradizionale, che Dio si fa Dio.

A ogni modo, quali che siano i particolari di questateologia, è sconcertante il modo del tutto ipotetico edubbioso con cui ci vengon presentati160. Proprio là,dove noi dovremmo veder concentrarsi come in un focounico tutti gli elementi della precedente speculazione edattuarsi in una realtà concretissima ciò che negli stadiinferiori del processo dialettico è in qualche misuraastratto e irreale, vediamo invece ogni cosa sfumarenell'indeterminatezza e nel vuoto. Questo c'induce a ri-considerare l'intera serie delle categorie ed a chiederci:

158 Ibid., p. 494.159 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: Le virgolette chiuse non sono

presenti nell'edizione di riferimento, ma la collocazione qui è da ritenersiragionevole.

160 Ibid., p. 497: l'A. parla dell'«ipotesi» teistica come della più «probabile».

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dell'assoluto può sembrare strana: «Aspettando che unascoperta geniale riveli per la filosofia idealistica un ter-zo sbocco, non si può se non aderire al teismo contro1'antropocentrismo. Ciascuna coscienza particolare è uncentro senza dubbio, ma solo dal suo punto di vista, e lacoscienza dell'universo, che è necessariamente e insepa-rabilmente connessa ad ogni coscienza, non è la vera eprimordiale coscienza, quella che in realtà è il centro ela base di tutto»158.159 Ma il teismo dell'H. non ha che ve-dere con quello della religiosità positiva: esso concepi-sce, sì, Dio come personalità, ma l'oggetto di questosoggetto è il mondo, e l'uno e l'altro si fondono insiemenel divenire dialettico; donde la conseguenza scandalosaper il teismo tradizionale, che Dio si fa Dio.

A ogni modo, quali che siano i particolari di questateologia, è sconcertante il modo del tutto ipotetico edubbioso con cui ci vengon presentati160. Proprio là,dove noi dovremmo veder concentrarsi come in un focounico tutti gli elementi della precedente speculazione edattuarsi in una realtà concretissima ciò che negli stadiinferiori del processo dialettico è in qualche misuraastratto e irreale, vediamo invece ogni cosa sfumarenell'indeterminatezza e nel vuoto. Questo c'induce a ri-considerare l'intera serie delle categorie ed a chiederci:

158 Ibid., p. 494.159 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: Le virgolette chiuse non sono

presenti nell'edizione di riferimento, ma la collocazione qui è da ritenersiragionevole.

160 Ibid., p. 497: l'A. parla dell'«ipotesi» teistica come della più «probabile».

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le singole determinazioni concettuali e i loro nessi sinte-tici hanno o non hanno un significato necessario, aprio-ri? Nel caso affermativo, anche l'idea di Dio, anzi, essasopra tutte, dovrebbe avere un valore apriori, anteceden-te ad ogni esperienza, e non potrebbe attendere confer-ma o smentita in nessuna «scoperta geniale», e tantomeno potrebbe essere sostituita da una «ipotesi» piùplausibile. Ma tale risposta affermativa sembra alienadalle vedute dell'autore. Egli non mostra di accogliere laconcezione idealistica dell'apriori, come presuppostodell'esperienza, ma vuole invece che la ricerca delle ca-tegorie presupponga un ciclo compiuto di esperienze.Per fare della filosofia, egli dice, «si tratta né più némeno d'immaginare per anticipazione le scienze com-piute, integrate da una scienza della conoscenza, e tuttele proposizioni di questo sapere universale legate traloro da legami intelligibili: con questo doppio oggetto econ questo metodo converrà definire la filosofia». Ma laverità e la certezza così intese sono infinitamente lonta-ne da noi, quindi il razionalismo resta nel frattempo,forzatamente, un mero probabilismo161. Ci si spiega, diqui, il carattere meramente ipotetico della teologiadell'Hamelin; ma resta più che mai inesplicabile come ilpensiero sintetico, che forma il motore della sua dialetti-ca, sia dipendente dal regresso analitico, cioè abbia lasua norma nell'esperienza empirica delle scienze parti-colari; e come il suo divenire si subordini a un «divenu-

161 Ibid., p. 512.

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le singole determinazioni concettuali e i loro nessi sinte-tici hanno o non hanno un significato necessario, aprio-ri? Nel caso affermativo, anche l'idea di Dio, anzi, essasopra tutte, dovrebbe avere un valore apriori, anteceden-te ad ogni esperienza, e non potrebbe attendere confer-ma o smentita in nessuna «scoperta geniale», e tantomeno potrebbe essere sostituita da una «ipotesi» piùplausibile. Ma tale risposta affermativa sembra alienadalle vedute dell'autore. Egli non mostra di accogliere laconcezione idealistica dell'apriori, come presuppostodell'esperienza, ma vuole invece che la ricerca delle ca-tegorie presupponga un ciclo compiuto di esperienze.Per fare della filosofia, egli dice, «si tratta né più némeno d'immaginare per anticipazione le scienze com-piute, integrate da una scienza della conoscenza, e tuttele proposizioni di questo sapere universale legate traloro da legami intelligibili: con questo doppio oggetto econ questo metodo converrà definire la filosofia». Ma laverità e la certezza così intese sono infinitamente lonta-ne da noi, quindi il razionalismo resta nel frattempo,forzatamente, un mero probabilismo161. Ci si spiega, diqui, il carattere meramente ipotetico della teologiadell'Hamelin; ma resta più che mai inesplicabile come ilpensiero sintetico, che forma il motore della sua dialetti-ca, sia dipendente dal regresso analitico, cioè abbia lasua norma nell'esperienza empirica delle scienze parti-colari; e come il suo divenire si subordini a un «divenu-

161 Ibid., p. 512.

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to», implichi cioè un ciclo compiuto di sapere, che ripu-gna alla sua mobile natura sempre in fieri.

Visto così nel suo insieme il sistema dell'Hamelin dàuna certa impressione d'inconsistenza, o almeno di per-plessità e di disagio. Ciò non toglie però che esso eccel-la nelle analisi particolari, talune delle quali, come quel-le del tempo, dello spazio, della causa e del fine, sonotra i contributi più notevoli che il pensiero contempora-neo abbia dato alla ricerca intrapresa da Kant.

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to», implichi cioè un ciclo compiuto di sapere, che ripu-gna alla sua mobile natura sempre in fieri.

Visto così nel suo insieme il sistema dell'Hamelin dàuna certa impressione d'inconsistenza, o almeno di per-plessità e di disagio. Ciò non toglie però che esso eccel-la nelle analisi particolari, talune delle quali, come quel-le del tempo, dello spazio, della causa e del fine, sonotra i contributi più notevoli che il pensiero contempora-neo abbia dato alla ricerca intrapresa da Kant.

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VIII

EMILIO MEYERSON

La dottrina critica delle scienze della natura è statanegli ultimi decenni ed è tuttora uno dei temi preferitidai filosofi francesi. Ma, in questo costante interessa-mento, è dato notare negli anni più vicini a noi un muta-mento sensibile d'indirizzo mentale.

Col Poincaré, col Duhem, col Milhaud, col Bergson,e più esageratamente col Le Roy, la dottrina delle scien-ze aveva preso un orientamento ipercritico, che culmi-nava in una vera e propria svalutazione del lavoro scien-tifico, risolvendolo in un insieme di assunzioni arbitrariee convenzionali. V'era indubbiamente in questo indiriz-zo un elemento positivo di grande valore: l'accentuazio-ne dell'opera dello scienziato, della sua iniziativa e per-fino del suo arbitrio, nella costruzione del mondo natu-rale, che il materialismo e, in qualche misura, il positivi-smo, avevano per così dire solidificato e reso impenetra-bile al pensiero, ottenebrando quasi del tutto il caratterementale dei princìpi e delle leggi che ne formano la tra-ma. Tuttavia, i moderni critici cadevano nell'eccesso op-

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EMILIO MEYERSON

La dottrina critica delle scienze della natura è statanegli ultimi decenni ed è tuttora uno dei temi preferitidai filosofi francesi. Ma, in questo costante interessa-mento, è dato notare negli anni più vicini a noi un muta-mento sensibile d'indirizzo mentale.

Col Poincaré, col Duhem, col Milhaud, col Bergson,e più esageratamente col Le Roy, la dottrina delle scien-ze aveva preso un orientamento ipercritico, che culmi-nava in una vera e propria svalutazione del lavoro scien-tifico, risolvendolo in un insieme di assunzioni arbitrariee convenzionali. V'era indubbiamente in questo indiriz-zo un elemento positivo di grande valore: l'accentuazio-ne dell'opera dello scienziato, della sua iniziativa e per-fino del suo arbitrio, nella costruzione del mondo natu-rale, che il materialismo e, in qualche misura, il positivi-smo, avevano per così dire solidificato e reso impenetra-bile al pensiero, ottenebrando quasi del tutto il caratterementale dei princìpi e delle leggi che ne formano la tra-ma. Tuttavia, i moderni critici cadevano nell'eccesso op-

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Page 145: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

posto, di fare della presenza della mente un deus ex ma-china troppo arbitrario e ingiustificato, che non poteva asua volta spiegare la «riuscita» dei concetti soggettivi econvenzionali in un mondo di oggetti del tutto estraneoed indipendente.

Ora negli ultimi anni si nota una tendenza a reintegra-re i valori dell'attività scientifica, senza però ricadere nelmaterialismo e nel positivismo e senza neppure negare irisultati di maggiore importanza conseguiti dal prece-dente indirizzo; una tendenza che potremmo chiamareidealistica, la quale consiste nel dare alla trama concet-tuale creata dal pensiero scientifico il significato non piùdi un contributo soggettivo e convenzionale, ma di unelemento integrante e costitutivo del mondo della scien-za. Su questa via noi incontriamo due pensatori francesi,il Meyerson e il Brunschwicg, l'uno che, avendo esordi-to come cultore di scienze naturali, s'è venuto poi sem-pre più affiatando coi problemi e con la mentalità stessadella filosofia; l'altro, che proviene dagli studi filosofici,ma ha acquistato grande competenza nelle discussionipropriamente scientifiche.

La dottrina del Meyerson è contenuta in tre opereprincipali: Identité et réalité (1908); De l'explicationdans les sciences (1921); La déduction relativiste(1925); delle quali la seconda e la terza non sono cheamplificazioni soverchiamente prolisse della prima162.

162 Questi scritti sono stati poi rifusi in un'opera di maggior mole che ha pertitolo: Du cheminement de la pensée (in 3 volumi).

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posto, di fare della presenza della mente un deus ex ma-china troppo arbitrario e ingiustificato, che non poteva asua volta spiegare la «riuscita» dei concetti soggettivi econvenzionali in un mondo di oggetti del tutto estraneoed indipendente.

Ora negli ultimi anni si nota una tendenza a reintegra-re i valori dell'attività scientifica, senza però ricadere nelmaterialismo e nel positivismo e senza neppure negare irisultati di maggiore importanza conseguiti dal prece-dente indirizzo; una tendenza che potremmo chiamareidealistica, la quale consiste nel dare alla trama concet-tuale creata dal pensiero scientifico il significato non piùdi un contributo soggettivo e convenzionale, ma di unelemento integrante e costitutivo del mondo della scien-za. Su questa via noi incontriamo due pensatori francesi,il Meyerson e il Brunschwicg, l'uno che, avendo esordi-to come cultore di scienze naturali, s'è venuto poi sem-pre più affiatando coi problemi e con la mentalità stessadella filosofia; l'altro, che proviene dagli studi filosofici,ma ha acquistato grande competenza nelle discussionipropriamente scientifiche.

La dottrina del Meyerson è contenuta in tre opereprincipali: Identité et réalité (1908); De l'explicationdans les sciences (1921); La déduction relativiste(1925); delle quali la seconda e la terza non sono cheamplificazioni soverchiamente prolisse della prima162.

162 Questi scritti sono stati poi rifusi in un'opera di maggior mole che ha pertitolo: Du cheminement de la pensée (in 3 volumi).

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L'autore si oppone alla veduta del fenomenismo e delpositivismo, che le scienze della natura, nel loro stadiopiù evoluto, debbano rinunziare ad ogni spiegazionecausale dei fatti nella loro realtà ontologica e limitarsi aindagare soltanto le uniformità o le leggi fenomeniche.La scienza è per lui essenzialmente: a) o n to lo g i a, nelsenso che non può contentarsi di meri rapports sanssupports, quali sarebbero quelli che il fenomenismo sta-bilisce tra i dati della sensazione, ma richiede fonda-menti stabili, oggettivi, delle cose, il più che possibileindipendenti dalle condizioni soggettive della percezio-ne. b) Inoltre la scienza è e s p l ic a t iv a, ha di mira cioènon solo la legalità, ma anche, e più, la causalità dei fe-nomeni, la quale ci dà il perché delle loro connessioni.

La giustificazione di questi caratteri sembra legataalla concezione materialistica della scienza; è possibileinvece, si chiede il Meyerson, derivarla da una interpre-tazione razionalistica dell'esperienza scientifica, senzaricorrere ad entità metafisiche impenetrabili al pensiero?Egli risponde affermativamente a questa domanda:l'ontologismo della scienza è una conseguenza necessa-ria del procedimento della scienza stessa, e non un suopresupposto. Come l'esperienza comune, anche la scien-za ha il proprio punto di partenza nei dati sensibili, chesono il risultato di rapporti tra noi e gli oggetti. Ma ilsenso comune e la scienza, che ne segue, almeno qui, leorme, tendono a sostituire i rapporti, la cui natura mobi-le e fluida offre poca presa alle esigenze dell'azione, con

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L'autore si oppone alla veduta del fenomenismo e delpositivismo, che le scienze della natura, nel loro stadiopiù evoluto, debbano rinunziare ad ogni spiegazionecausale dei fatti nella loro realtà ontologica e limitarsi aindagare soltanto le uniformità o le leggi fenomeniche.La scienza è per lui essenzialmente: a) o n to lo g i a, nelsenso che non può contentarsi di meri rapports sanssupports, quali sarebbero quelli che il fenomenismo sta-bilisce tra i dati della sensazione, ma richiede fonda-menti stabili, oggettivi, delle cose, il più che possibileindipendenti dalle condizioni soggettive della percezio-ne. b) Inoltre la scienza è e s p l ic a t iv a, ha di mira cioènon solo la legalità, ma anche, e più, la causalità dei fe-nomeni, la quale ci dà il perché delle loro connessioni.

La giustificazione di questi caratteri sembra legataalla concezione materialistica della scienza; è possibileinvece, si chiede il Meyerson, derivarla da una interpre-tazione razionalistica dell'esperienza scientifica, senzaricorrere ad entità metafisiche impenetrabili al pensiero?Egli risponde affermativamente a questa domanda:l'ontologismo della scienza è una conseguenza necessa-ria del procedimento della scienza stessa, e non un suopresupposto. Come l'esperienza comune, anche la scien-za ha il proprio punto di partenza nei dati sensibili, chesono il risultato di rapporti tra noi e gli oggetti. Ma ilsenso comune e la scienza, che ne segue, almeno qui, leorme, tendono a sostituire i rapporti, la cui natura mobi-le e fluida offre poca presa alle esigenze dell'azione, con

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le cose, cioè coi loro aspetti più stabili e duraturi, che siottengono astraendo il più che sia possibile dalle condi-zioni soggettive della percezione. Su questa via, lascienza sorpassa di gran lunga il senso comune, le cui«cose» contengono numerosi residui sensibili, mentre le«cose» scientifiche si fanno via via più remote dallasensibilità, fino a condensarsi in puri enti di ragione(atomi, etere, ecc.), dove l'indipendenza dalla percezio-ne è massima. Il progresso della scienza consiste appun-to in questa epurazione degli elementi, che agl'inespertipuò apparire come una smaterializzazione degli oggetti.Così l'abbandono del vecchio atomismo ha la sua ragio-ne intrinseca nell'eccessiva corpulenza dei suoi atomi,che trascinava con sé troppi detriti di qualità sensibili; eil successivo polverizzamento degli atomi in entità an-cora più elementari (gli elettroni), l'assunzione dell'eterecome un'espressione fisica dello spazio matematico, in-fine, il principio di relatività che rende superfluo anchel'etere, riducendo la fisica a una geometria superiore,obbediscono alla costante esigenza «realistica» (in unsenso quasi medievale) della scienza, di porre delle enti-tà per sé sussistenti e non modificabili dai nostri sensi163.

Questo processo si può chiamare razionalistico, nelsenso cartesiano della parola. Finché siamo in presenzadelle qualità sensibili e dei così detti fatti bruti dell'espe-rienza, noi urtiamo contro resistenze insormontabili, chec'impediscono di sistemare in un tutto ben connesso, at-

163 De l'explication dans les sciences, 2 voll., 1921, I, pp. 17-27, 111.

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le cose, cioè coi loro aspetti più stabili e duraturi, che siottengono astraendo il più che sia possibile dalle condi-zioni soggettive della percezione. Su questa via, lascienza sorpassa di gran lunga il senso comune, le cui«cose» contengono numerosi residui sensibili, mentre le«cose» scientifiche si fanno via via più remote dallasensibilità, fino a condensarsi in puri enti di ragione(atomi, etere, ecc.), dove l'indipendenza dalla percezio-ne è massima. Il progresso della scienza consiste appun-to in questa epurazione degli elementi, che agl'inespertipuò apparire come una smaterializzazione degli oggetti.Così l'abbandono del vecchio atomismo ha la sua ragio-ne intrinseca nell'eccessiva corpulenza dei suoi atomi,che trascinava con sé troppi detriti di qualità sensibili; eil successivo polverizzamento degli atomi in entità an-cora più elementari (gli elettroni), l'assunzione dell'eterecome un'espressione fisica dello spazio matematico, in-fine, il principio di relatività che rende superfluo anchel'etere, riducendo la fisica a una geometria superiore,obbediscono alla costante esigenza «realistica» (in unsenso quasi medievale) della scienza, di porre delle enti-tà per sé sussistenti e non modificabili dai nostri sensi163.

Questo processo si può chiamare razionalistico, nelsenso cartesiano della parola. Finché siamo in presenzadelle qualità sensibili e dei così detti fatti bruti dell'espe-rienza, noi urtiamo contro resistenze insormontabili, chec'impediscono di sistemare in un tutto ben connesso, at-

163 De l'explication dans les sciences, 2 voll., 1921, I, pp. 17-27, 111.

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traversato in tutti i sensi dal nostro pensiero, gli oggettinaturali; eliminando invece quegli elementi perturbatori,il mondo si fa sempre più accessibile alla ragione, laquale trionfa nella formulazione delle leggi della natura,aventi sempre più i caratteri di vere e proprie leggi, amisura che concernono un mondo sempre più omogeneoed uniforme. L'ideale razionalistico della scienza mo-derna, come fu già vagheggiato ed entro certi limiti at-tuato da Cartesio, è nella riduzione di tutte le varietà na-turali all'identità dello spazio, appunto perché i rapportimatematici e geometrici sono i più semplici ed omoge-nei, quindi anche i più intelligibili.

Il principio che presiede a queste riduzioni e semplifi-cazioni vien chiamato, nella logica, principio d'identità.Esso va però interpretato non secondo la maniera anali-tica e tautologica dei manuali di logica formale, bensì inun senso attivo e sintetico, come principio di identifica-zione. In virtù di esso, non soltanto riconosciamo l'iden-tico là dove esiste, ma riconduciamo all'identico ciò chedapprima non ci era parso tale164.

Bisogna ora, a fianco ad esso, ammetterne un secon-do: quello che il Leibniz chiamava principio di ragionsufficiente, e che dovrebbe servire a spiegare il muta-mento, come il primo spiega la permanenza sostanziale?Questo significherebbe ricondurre il principio d'identitàalla sua formulazione analitica, mentre la funzione chegli attribuisce il Meyerson, essendo sintetica, deve poter164 Op. cit., I, p. 146.

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traversato in tutti i sensi dal nostro pensiero, gli oggettinaturali; eliminando invece quegli elementi perturbatori,il mondo si fa sempre più accessibile alla ragione, laquale trionfa nella formulazione delle leggi della natura,aventi sempre più i caratteri di vere e proprie leggi, amisura che concernono un mondo sempre più omogeneoed uniforme. L'ideale razionalistico della scienza mo-derna, come fu già vagheggiato ed entro certi limiti at-tuato da Cartesio, è nella riduzione di tutte le varietà na-turali all'identità dello spazio, appunto perché i rapportimatematici e geometrici sono i più semplici ed omoge-nei, quindi anche i più intelligibili.

Il principio che presiede a queste riduzioni e semplifi-cazioni vien chiamato, nella logica, principio d'identità.Esso va però interpretato non secondo la maniera anali-tica e tautologica dei manuali di logica formale, bensì inun senso attivo e sintetico, come principio di identifica-zione. In virtù di esso, non soltanto riconosciamo l'iden-tico là dove esiste, ma riconduciamo all'identico ciò chedapprima non ci era parso tale164.

Bisogna ora, a fianco ad esso, ammetterne un secon-do: quello che il Leibniz chiamava principio di ragionsufficiente, e che dovrebbe servire a spiegare il muta-mento, come il primo spiega la permanenza sostanziale?Questo significherebbe ricondurre il principio d'identitàalla sua formulazione analitica, mentre la funzione chegli attribuisce il Meyerson, essendo sintetica, deve poter164 Op. cit., I, p. 146.

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includere il caso della diversità e del mutamento, senzabisogno di ammettere un secondo principio. Qui siamoin un altro ordine di problemi, che concerne non piùl'ontologismo della scienza, ma il valore delle spiegazio-ni causali delle dottrine scientifiche. Può il concetto dicausa, allo stesso titolo di quello di sostanza, ricondursial principio d'identità? Noi non dobbiamo, risponde ilMeyerson, anche attribuendo alla scienza un compitoesplicativo e non meramente legale, far intervenire nellespiegazioni le vecchie cause efficienti della metafisica,dotate di occulte potenze produttive. Le cause, di cui lascienza moderna si serve, sono qualcosa di più modesto,ma anche di più positivo: esse concernono il mutamentodelle cose nel tempo e tendono a stabilire che un feno-meno il quale succede a un altro conserva gli elementiquantitativi del precedente. La causalità, insomma, con-siste nel negare, nell'eliminare, l'influenza del tempo, ri-conducendo le variazioni a modificazioni spaziali, chelasciano intatta la sostanza della cosa. Così la spiegazio-ne più perfetta consisterà nel mostrare che ciò che esi-steva prima sussiste dopo; che niente s'è creato e nientes'è perduto. Si chiami anche ragion sufficiente il princi-pio in virtù del quale noi spieghiamo il mutevole colpersistente e ci persuadiamo che nessun elemento essen-ziale di un fenomeno può essere distrutto o creato dalnulla; questa ragion sufficiente, in fondo, non è altro cheuna forma del processo d'identificazione. La causalità èl'identità nel tempo; ciò che significa, in ultima istanza,la neutralizzazione del tempo e del mutamento; la ridu-

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includere il caso della diversità e del mutamento, senzabisogno di ammettere un secondo principio. Qui siamoin un altro ordine di problemi, che concerne non piùl'ontologismo della scienza, ma il valore delle spiegazio-ni causali delle dottrine scientifiche. Può il concetto dicausa, allo stesso titolo di quello di sostanza, ricondursial principio d'identità? Noi non dobbiamo, risponde ilMeyerson, anche attribuendo alla scienza un compitoesplicativo e non meramente legale, far intervenire nellespiegazioni le vecchie cause efficienti della metafisica,dotate di occulte potenze produttive. Le cause, di cui lascienza moderna si serve, sono qualcosa di più modesto,ma anche di più positivo: esse concernono il mutamentodelle cose nel tempo e tendono a stabilire che un feno-meno il quale succede a un altro conserva gli elementiquantitativi del precedente. La causalità, insomma, con-siste nel negare, nell'eliminare, l'influenza del tempo, ri-conducendo le variazioni a modificazioni spaziali, chelasciano intatta la sostanza della cosa. Così la spiegazio-ne più perfetta consisterà nel mostrare che ciò che esi-steva prima sussiste dopo; che niente s'è creato e nientes'è perduto. Si chiami anche ragion sufficiente il princi-pio in virtù del quale noi spieghiamo il mutevole colpersistente e ci persuadiamo che nessun elemento essen-ziale di un fenomeno può essere distrutto o creato dalnulla; questa ragion sufficiente, in fondo, non è altro cheuna forma del processo d'identificazione. La causalità èl'identità nel tempo; ciò che significa, in ultima istanza,la neutralizzazione del tempo e del mutamento; la ridu-

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zione, come direbbe il Bergson, del tempo allo spazio165.L'identità perfetta tra la causa e l'effetto, postulata dallatendenza causale, implica la possibilità di rovesciare ilfenomeno, cioè di giungere all'antecedente partendo dalseguente (cioè di ricostruire la causa con l'effetto); e taleè in realtà la tendenza della scienza esplicativa, come siosserva nella meccanica razionale, dove tutti i movi-menti sono riversibili, dove cioè l'irriversibilità, ch'èpropria del tempo e dei movimenti concreti che avven-gono nel tempo, è sostituita dalla riversibilità delle fun-zioni spaziali. Certo, nel mondo dell'esperienza non vipotrebbe essere un meccanismo affatto sprovvisto di at-triti e perciò dotato di una vera riversibilità; questa perònon cessa di essere l'ideale a cui la scienza tende, ed acui può avvicinarsi per quel che le consente la relativasemplicità ed omogeneità dei suoi elementi166.

Da questo punto di vista il Meyerson, giudicando inun recente volume la dottrina della relatività, ha potutomolto fondatamente mostrare, contro alcuni fraintendi-menti neo-kantiani o addirittura protagorei, che essa nonsi sottrae alla comune tendenza realistica od ontologicadi tutte le dottrine scientifiche, e che, con le sue riduzio-ni del principio di gravità al principio d'inerzia, dei rap-porti fisici a rapporti geometrici e, generalmente, delmondo naturale a funzioni spaziali, essa rappresenta lostadio fino ad oggi più evoluto della scienza esplicativa.

165 Ibid., I, pp. 151-170.166 Identité et réalité, 1908, pp. 195-97.

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zione, come direbbe il Bergson, del tempo allo spazio165.L'identità perfetta tra la causa e l'effetto, postulata dallatendenza causale, implica la possibilità di rovesciare ilfenomeno, cioè di giungere all'antecedente partendo dalseguente (cioè di ricostruire la causa con l'effetto); e taleè in realtà la tendenza della scienza esplicativa, come siosserva nella meccanica razionale, dove tutti i movi-menti sono riversibili, dove cioè l'irriversibilità, ch'èpropria del tempo e dei movimenti concreti che avven-gono nel tempo, è sostituita dalla riversibilità delle fun-zioni spaziali. Certo, nel mondo dell'esperienza non vipotrebbe essere un meccanismo affatto sprovvisto di at-triti e perciò dotato di una vera riversibilità; questa perònon cessa di essere l'ideale a cui la scienza tende, ed acui può avvicinarsi per quel che le consente la relativasemplicità ed omogeneità dei suoi elementi166.

Da questo punto di vista il Meyerson, giudicando inun recente volume la dottrina della relatività, ha potutomolto fondatamente mostrare, contro alcuni fraintendi-menti neo-kantiani o addirittura protagorei, che essa nonsi sottrae alla comune tendenza realistica od ontologicadi tutte le dottrine scientifiche, e che, con le sue riduzio-ni del principio di gravità al principio d'inerzia, dei rap-porti fisici a rapporti geometrici e, generalmente, delmondo naturale a funzioni spaziali, essa rappresenta lostadio fino ad oggi più evoluto della scienza esplicativa.

165 Ibid., I, pp. 151-170.166 Identité et réalité, 1908, pp. 195-97.

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Ma, proprio là dove la scienza razionale celebra i suoimaggiori trionfi, la realtà sembra svanire nel nulla. Colsostituirsi dell'identico al diverso e con l'assottigliarsidegli elementi delle cose fino a diventare mere configu-razioni e rapporti spaziali, il mondo oggettivo sconfinanell'astratto; ed il più strano è che questo annientamentoprogredisce a misura che l'ontologismo scientifico siconsolida e si purifica delle scorie sensibili, in modo chegli ultimi enti della scienza sono a un tempo più sostan-ziali delle cose dell'esperienza comune e più inconsi-stenti ed inafferrabili. Se questa tendenza identificatricenon incontrasse ostacoli nella resistenza degli oggetti, ilprogresso della scienza ci condurrebbe a una specie diacosmismo concettuale, distruttivo di quelle esigenzeempiriche e realistiche che la scienza non può fare ameno di conoscere e di far sue. Ma la realtà resiste allosforzo riduttivo dei nostri procedimenti razionali, e lasua resistenza ci obbliga a constatare qualche cosa d'irri-ducibile, a cui diamo il nome d'irrazionale, per ragioned'antitesi con la razionalità di quel procedimento. Così,sul limitare stesso dei dati della conoscenza, è irriduci-bile la sensazione al fatto meccanico dello stimolo: lequalità sensibili sono le novità del mondo che non si la-sciano in alcun modo dedurre. E nella sfera della mecca-nica, noi possiamo, sì, ridurre i fenomeni al più sempli-ce di tutti, all'urto; ma questo a sua volta è inesplicabilee va accettato, con le sue conseguenze, come un merofatto: e via via, in ogni ordine di ricerche scientifiche, cisi presentano sempre nuovi dati, da accettare come testi-

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Ma, proprio là dove la scienza razionale celebra i suoimaggiori trionfi, la realtà sembra svanire nel nulla. Colsostituirsi dell'identico al diverso e con l'assottigliarsidegli elementi delle cose fino a diventare mere configu-razioni e rapporti spaziali, il mondo oggettivo sconfinanell'astratto; ed il più strano è che questo annientamentoprogredisce a misura che l'ontologismo scientifico siconsolida e si purifica delle scorie sensibili, in modo chegli ultimi enti della scienza sono a un tempo più sostan-ziali delle cose dell'esperienza comune e più inconsi-stenti ed inafferrabili. Se questa tendenza identificatricenon incontrasse ostacoli nella resistenza degli oggetti, ilprogresso della scienza ci condurrebbe a una specie diacosmismo concettuale, distruttivo di quelle esigenzeempiriche e realistiche che la scienza non può fare ameno di conoscere e di far sue. Ma la realtà resiste allosforzo riduttivo dei nostri procedimenti razionali, e lasua resistenza ci obbliga a constatare qualche cosa d'irri-ducibile, a cui diamo il nome d'irrazionale, per ragioned'antitesi con la razionalità di quel procedimento. Così,sul limitare stesso dei dati della conoscenza, è irriduci-bile la sensazione al fatto meccanico dello stimolo: lequalità sensibili sono le novità del mondo che non si la-sciano in alcun modo dedurre. E nella sfera della mecca-nica, noi possiamo, sì, ridurre i fenomeni al più sempli-ce di tutti, all'urto; ma questo a sua volta è inesplicabilee va accettato, con le sue conseguenze, come un merofatto: e via via, in ogni ordine di ricerche scientifiche, cisi presentano sempre nuovi dati, da accettare come testi-

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monianza di una realtà che ci sorpassa e che non po-tremmo mai completamente padroneggiare.

Il Meyerson non ha approfondito abbastanza la naturaspeculativa di questo irrazionale; o per meglio dire,avendo egli compendiata la razionalità nel procedimentoastrattivo e riduttivo della scienza, si trova già precosti-tuita un'irrazionalità in tutto ciò che sfugge agli astrattischemi concettuali. Forse, guardando la razionalità daun punto di vista più alto, egli avrebbe potuto giudicarepiù veramente razionale il gioco delle due opposte ten-denze. E che cos'altro è infatti la sua filosofia se non untentativo di dominare sinteticamente quel razionale equell'irrazionale, per dare una rappresentazione comple-ta della realtà? Tanto varrebbe dire, che la sua filosofia,non rientrando nell'uno o nell'altro reparto, perché pre-tende abbracciarli entrambi, non può ricevere nessunaqualifica mentale! La verità è che, mentre è relativamen-te facile ricercare le categorie dei giudizi altrui, è anchepiù facile perdere di vista le categorie in virtù delle qualisi valutano quei giudizi.

Se per questa parte la concezione dell'irrazionale ab-bozzata dal Meyerson è insufficiente, per un'altra inveceè degna di molta considerazione, per aver posto cioè ingrande rilievo l'importanza pratica che il presunto irra-zionale ha nelle costruzioni scientifiche. Egli ha partico-larmente indagato il gioco di questo fattore in un casoche gli altri critici della scienza non avevano finora ade-guatamente illustrato. Mi riferisco al grande sviluppo da

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monianza di una realtà che ci sorpassa e che non po-tremmo mai completamente padroneggiare.

Il Meyerson non ha approfondito abbastanza la naturaspeculativa di questo irrazionale; o per meglio dire,avendo egli compendiata la razionalità nel procedimentoastrattivo e riduttivo della scienza, si trova già precosti-tuita un'irrazionalità in tutto ciò che sfugge agli astrattischemi concettuali. Forse, guardando la razionalità daun punto di vista più alto, egli avrebbe potuto giudicarepiù veramente razionale il gioco delle due opposte ten-denze. E che cos'altro è infatti la sua filosofia se non untentativo di dominare sinteticamente quel razionale equell'irrazionale, per dare una rappresentazione comple-ta della realtà? Tanto varrebbe dire, che la sua filosofia,non rientrando nell'uno o nell'altro reparto, perché pre-tende abbracciarli entrambi, non può ricevere nessunaqualifica mentale! La verità è che, mentre è relativamen-te facile ricercare le categorie dei giudizi altrui, è anchepiù facile perdere di vista le categorie in virtù delle qualisi valutano quei giudizi.

Se per questa parte la concezione dell'irrazionale ab-bozzata dal Meyerson è insufficiente, per un'altra inveceè degna di molta considerazione, per aver posto cioè ingrande rilievo l'importanza pratica che il presunto irra-zionale ha nelle costruzioni scientifiche. Egli ha partico-larmente indagato il gioco di questo fattore in un casoche gli altri critici della scienza non avevano finora ade-guatamente illustrato. Mi riferisco al grande sviluppo da

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lui dato al rôle filosofico del principio che porta il nomedi Sadi Carnot o anche di Carnot e di Clausius. È il cosìdetto principio della degradazione dell'energia, secondoil quale tutte le forme superiori di energia si trasformanoa poco a poco, e in maniera irriversibile, nel calore, cheè la forma più bassa; così che per conservarle o ricon-durle al primitivo stato di organizzazione occorre darloro un supplemento di energia dal di fuori. Da sé soletutte le trasformazioni cosmiche tendono a compiersi inun solo senso, che è quello dell'equilibrio progressivo, odell'abbassamento delle forme più alte al livello dellepiù basse.

Il principio di Carnot forma la seconda delle grandileggi della termodinamica, che si differenzia profonda-mente dalla prima, la quale enuncia un principio di con-servazione dell'energia. Certo, tra le due leggi non v'ècontradizione, perché, anche nella degradazionedell'energia, si dà una perfetta equivalenza quantitativadi fenomeni; la differenza concerne invece il caratteredel mutamento. La legge di Carnot enuncia non unaconservazione, ma un cambiamento, non un'identità, mauna diversità. Essa è una legge del divenire: contro le il-lusioni che le teorie meccaniche tendono a far nascere,essa afferma che l'universo intero si modifica col tempoin una direzione costante. E, in contrasto con la vecchiaveduta della circolarità delle vicende cosmiche, essa dàun indirizzo determinato e irriversibile al mutamento167.

167 Identité et réalité, pp. 236 sgg.

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lui dato al rôle filosofico del principio che porta il nomedi Sadi Carnot o anche di Carnot e di Clausius. È il cosìdetto principio della degradazione dell'energia, secondoil quale tutte le forme superiori di energia si trasformanoa poco a poco, e in maniera irriversibile, nel calore, cheè la forma più bassa; così che per conservarle o ricon-durle al primitivo stato di organizzazione occorre darloro un supplemento di energia dal di fuori. Da sé soletutte le trasformazioni cosmiche tendono a compiersi inun solo senso, che è quello dell'equilibrio progressivo, odell'abbassamento delle forme più alte al livello dellepiù basse.

Il principio di Carnot forma la seconda delle grandileggi della termodinamica, che si differenzia profonda-mente dalla prima, la quale enuncia un principio di con-servazione dell'energia. Certo, tra le due leggi non v'ècontradizione, perché, anche nella degradazionedell'energia, si dà una perfetta equivalenza quantitativadi fenomeni; la differenza concerne invece il caratteredel mutamento. La legge di Carnot enuncia non unaconservazione, ma un cambiamento, non un'identità, mauna diversità. Essa è una legge del divenire: contro le il-lusioni che le teorie meccaniche tendono a far nascere,essa afferma che l'universo intero si modifica col tempoin una direzione costante. E, in contrasto con la vecchiaveduta della circolarità delle vicende cosmiche, essa dàun indirizzo determinato e irriversibile al mutamento167.

167 Identité et réalité, pp. 236 sgg.

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Ora l'irrazionalità di questo principio, inserendosinell'organismo della scienza razionale, lo modifica pro-fondamente. L'identità è il quadro eterno del nostro spi-rito. Noi non possiamo fare a meno di ritrovarla in tuttociò che esso crea, ed abbiamo constatato in effetti che lascienza n'è penetrata. Ma l'identità non è tutto, e il prin-cipio di Carnot appartiene esso pure alla scienza. È dun-que la scienza stessa che, per mezzo di quel principio,ristabilisce la realtà nei suoi diritti. Essa riconosce che,contrariamente a ciò che la causalità postulava, non èpossibile eliminare il tempo, dato che tale eliminazioneavrebbe per condizione preventiva la riversibilità perfet-ta dei fenomeni, mentre la riversibilità non esiste in nes-suna parte della natura. Insomma, il principio di Carnotè solidale col concetto del tempo e dà precisione a que-sto concetto, assicurandoci l'impossibilità di ritorni ci-clici a lunga scadenza. Donde il principio complementa-re enunciato dal Perrin: che un sistema isolato non passamai due volte per lo stesso stato e che l'universo non ri-veste mai due volte lo stesso aspetto. Secondo la profon-da formula del Bergson, le grandi scoperte si sono fattespesso par des coups de sonde dans la durée pure; e ilprincipio di Carnot è uno di siffatti colpi di sonda168.

Di qui vediamo che avremmo torto di attribuire allascienza l'annullamento progressivo della realtà, che è laconseguenza del processo d'identificazione. La realtà siribella e non permette che la si neghi. Il principio di

168 Ibid., pp. 254 sgg.

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Ora l'irrazionalità di questo principio, inserendosinell'organismo della scienza razionale, lo modifica pro-fondamente. L'identità è il quadro eterno del nostro spi-rito. Noi non possiamo fare a meno di ritrovarla in tuttociò che esso crea, ed abbiamo constatato in effetti che lascienza n'è penetrata. Ma l'identità non è tutto, e il prin-cipio di Carnot appartiene esso pure alla scienza. È dun-que la scienza stessa che, per mezzo di quel principio,ristabilisce la realtà nei suoi diritti. Essa riconosce che,contrariamente a ciò che la causalità postulava, non èpossibile eliminare il tempo, dato che tale eliminazioneavrebbe per condizione preventiva la riversibilità perfet-ta dei fenomeni, mentre la riversibilità non esiste in nes-suna parte della natura. Insomma, il principio di Carnotè solidale col concetto del tempo e dà precisione a que-sto concetto, assicurandoci l'impossibilità di ritorni ci-clici a lunga scadenza. Donde il principio complementa-re enunciato dal Perrin: che un sistema isolato non passamai due volte per lo stesso stato e che l'universo non ri-veste mai due volte lo stesso aspetto. Secondo la profon-da formula del Bergson, le grandi scoperte si sono fattespesso par des coups de sonde dans la durée pure; e ilprincipio di Carnot è uno di siffatti colpi di sonda168.

Di qui vediamo che avremmo torto di attribuire allascienza l'annullamento progressivo della realtà, che è laconseguenza del processo d'identificazione. La realtà siribella e non permette che la si neghi. Il principio di

168 Ibid., pp. 254 sgg.

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Carnot è l'espressione della resistenza che la natura op-pone alla contrainte che il nostro intelletto, per mezzodella causalità, tenta di esercitare su di essa. Non si trat-ta qui di un caso isolato, ma del caso più generale edelementare che si riproduce con maggiore complessitànegli ordini più complessi dei fenomeni. Anche l'evolu-zione organica postula un divenire, un mutamento conti-nuo e irreversibile nel tempo. È dunque un'esigenza ana-loga a quella che è espressa dal principio di Carnot:come un corpo la cui temperatura è superiore a quelladei corpi che lo circondano cerca di mettersi in equili-brio con essi, così una specie animale, trapiantata in unmezzo che non le conviene, cerca di modificarsi pergiungere a uno stato, che si può egualmente qualificarecome di equilibrio. È perciò che il Perrin, volendo desi-gnare il principio di Carnot con un termine più generale,l'ha chiamato principio di evoluzione169.

La legittimità dell'uso di questo termine sembra peròalquanto discutibile. Basta qui ricordare che alcuni annior sono il Lalande, volendo contrapporre all'evoluzioni-smo spenceriano una formula antitetica di «dissoluzio-ne»170, faceva appello, molto opportunamente, al princi-pio di Carnot, il quale nel suo significato genuino espri-me appunto una degradazione, una dissoluzione delleforme più alte di energia nelle più basse. E, ad ognimodo, la scienza stessa è lontana dall'aver detto l'ultima

169 Ibid., pp. 262, 289.170 LALANDE, La dissolution opposée à l'évolution, 1893.

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Carnot è l'espressione della resistenza che la natura op-pone alla contrainte che il nostro intelletto, per mezzodella causalità, tenta di esercitare su di essa. Non si trat-ta qui di un caso isolato, ma del caso più generale edelementare che si riproduce con maggiore complessitànegli ordini più complessi dei fenomeni. Anche l'evolu-zione organica postula un divenire, un mutamento conti-nuo e irreversibile nel tempo. È dunque un'esigenza ana-loga a quella che è espressa dal principio di Carnot:come un corpo la cui temperatura è superiore a quelladei corpi che lo circondano cerca di mettersi in equili-brio con essi, così una specie animale, trapiantata in unmezzo che non le conviene, cerca di modificarsi pergiungere a uno stato, che si può egualmente qualificarecome di equilibrio. È perciò che il Perrin, volendo desi-gnare il principio di Carnot con un termine più generale,l'ha chiamato principio di evoluzione169.

La legittimità dell'uso di questo termine sembra peròalquanto discutibile. Basta qui ricordare che alcuni annior sono il Lalande, volendo contrapporre all'evoluzioni-smo spenceriano una formula antitetica di «dissoluzio-ne»170, faceva appello, molto opportunamente, al princi-pio di Carnot, il quale nel suo significato genuino espri-me appunto una degradazione, una dissoluzione delleforme più alte di energia nelle più basse. E, ad ognimodo, la scienza stessa è lontana dall'aver detto l'ultima

169 Ibid., pp. 262, 289.170 LALANDE, La dissolution opposée à l'évolution, 1893.

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parola sulla fatalità di questa dissoluzione e della finedel mondo che ne sarebbe la conseguenza inevitabile;anzi, come lo stesso Meyerson pone in rilievo, il cosìdetto movimento browniano o movimento molecolare,non soltanto sembra sottrarsi al principio di Carnot, maci addita anche la possibilità che nei corpi infinitamentepiccoli si reintegri quell'energia che si disperde nei corpimacroscopici.

Lasciando ai competenti queste discussioni tecniche ecircoscrivendo il nostro apprezzamento alla posizionespeculativa dell'opera del Meyerson, ci sembra che essasi compendi in un neo-kantismo, consapevole piuttostodei limiti segnati dalla critica kantiana, che della nuovavita spirituale che si svolge dall'interno di essa. I limitidella spiegazione scientifica sono, anche per il Meyer-son, indicati dalle antinomie. Noi abbiamo già accenna-to al contrasto che egli pone senza risolvere esplicita-mente, tra il razionale e l'irrazionale. In termini più ge-nerali, lo stesso antinomismo è da lui svolto sotto formadi un paradosso epistemologico. Non è strano e contra-dittorio, egli osserva, che la scienza studi i fenomeni chenon sono altro che mutamento, con l'aiuto di un princi-pio che tende ad affermare l'identità dell'antecedente edel conseguente, cioè a negare che le cose mutino? cheessa si serva, per penetrare l'essenza delle cose di cui af-ferma la realtà, di una concezione che annulla tutta laloro varietà? Non è paradossale al più alto grado cheessa riesca in qualche misura in questa sua impresa; e

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parola sulla fatalità di questa dissoluzione e della finedel mondo che ne sarebbe la conseguenza inevitabile;anzi, come lo stesso Meyerson pone in rilievo, il cosìdetto movimento browniano o movimento molecolare,non soltanto sembra sottrarsi al principio di Carnot, maci addita anche la possibilità che nei corpi infinitamentepiccoli si reintegri quell'energia che si disperde nei corpimacroscopici.

Lasciando ai competenti queste discussioni tecniche ecircoscrivendo il nostro apprezzamento alla posizionespeculativa dell'opera del Meyerson, ci sembra che essasi compendi in un neo-kantismo, consapevole piuttostodei limiti segnati dalla critica kantiana, che della nuovavita spirituale che si svolge dall'interno di essa. I limitidella spiegazione scientifica sono, anche per il Meyer-son, indicati dalle antinomie. Noi abbiamo già accenna-to al contrasto che egli pone senza risolvere esplicita-mente, tra il razionale e l'irrazionale. In termini più ge-nerali, lo stesso antinomismo è da lui svolto sotto formadi un paradosso epistemologico. Non è strano e contra-dittorio, egli osserva, che la scienza studi i fenomeni chenon sono altro che mutamento, con l'aiuto di un princi-pio che tende ad affermare l'identità dell'antecedente edel conseguente, cioè a negare che le cose mutino? cheessa si serva, per penetrare l'essenza delle cose di cui af-ferma la realtà, di una concezione che annulla tutta laloro varietà? Non è paradossale al più alto grado cheessa riesca in qualche misura in questa sua impresa; e

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che la natura, se pur limitatamente, sembri mostrarsi pe-netrabile, plastica, a una teoria che mira a dimostrarlainsussistente?

In altri termini, la contradizione è la conseguenzastessa del fatto che esiste un mondo esteriore, una natu-ra, che noi sentiamo, quali che siano i nostri sforzi perassorbirla o confonderci con essa, differente dal nostroio, pur restando convinti che essa non è che il contenutodella nostra esperienza. Questo fa sì che nella scienza ledue correnti opposte coesistano pacificamente. Col mec-canismo, coi princìpi di conservazione e con l'ipotesidell'unità della materia, essa tende verso l'immobilitàdel mondo e la sua riduzione allo spazio; mentre, colprincipio di Carnot e con gli altri irrazionali, essa rico-nosce l'impossibilità di conseguire quella meta171.

Posta l'antinomia, il Meyerson fa ancora un passo –ma un passo solo – sulla via della soluzione, riconoscen-do che il conflitto non è tra due termini incomparabili,l'io e la natura, ma esiste nell'interno stesso della ragio-ne. E, ciò che per un cultore di scienze naturali è unaconcessione eccezionale, egli si spinge fino a dire che«Hegel, estendendo molto legittimamente i limitidell'insegnamento di Kant sul lato antinomico del nostrointelletto, ha ammirevolmente inteso che il conflitto èessenziale. La contradizione si manifesta, in effetti, ap-pena si rivela l'esistenza del diverso. Ma come e su chepotrebbe esercitarsi l'attività identificatrice della ragio-171 De l'explication, ecc., II, pp. 349-50.

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che la natura, se pur limitatamente, sembri mostrarsi pe-netrabile, plastica, a una teoria che mira a dimostrarlainsussistente?

In altri termini, la contradizione è la conseguenzastessa del fatto che esiste un mondo esteriore, una natu-ra, che noi sentiamo, quali che siano i nostri sforzi perassorbirla o confonderci con essa, differente dal nostroio, pur restando convinti che essa non è che il contenutodella nostra esperienza. Questo fa sì che nella scienza ledue correnti opposte coesistano pacificamente. Col mec-canismo, coi princìpi di conservazione e con l'ipotesidell'unità della materia, essa tende verso l'immobilitàdel mondo e la sua riduzione allo spazio; mentre, colprincipio di Carnot e con gli altri irrazionali, essa rico-nosce l'impossibilità di conseguire quella meta171.

Posta l'antinomia, il Meyerson fa ancora un passo –ma un passo solo – sulla via della soluzione, riconoscen-do che il conflitto non è tra due termini incomparabili,l'io e la natura, ma esiste nell'interno stesso della ragio-ne. E, ciò che per un cultore di scienze naturali è unaconcessione eccezionale, egli si spinge fino a dire che«Hegel, estendendo molto legittimamente i limitidell'insegnamento di Kant sul lato antinomico del nostrointelletto, ha ammirevolmente inteso che il conflitto èessenziale. La contradizione si manifesta, in effetti, ap-pena si rivela l'esistenza del diverso. Ma come e su chepotrebbe esercitarsi l'attività identificatrice della ragio-171 De l'explication, ecc., II, pp. 349-50.

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ne, se non vi fosse il diverso?»172.Vuol dire forse questo, che il Meyerson accetta la dia-

lettica hegeliana come soluzione delle antinomie dellaragione? Parrebbe, ma non è così. In un lunghissimo ca-pitolo dedicato ad Hegel, egli s'impiglia nelle difficoltàparticolari del sistema, lasciandosene sfuggire lo spiritoanimatore, che pure aveva intravvisto nell'accenno danoi precedentemente riferito. E, tutto sommato, la dia-lettica hegeliana finisce col significare per lui una sezio-ne – la più bizzarra ed eterodossa senza dubbio – diquello stesso razionalismo che egli ha visto già esempla-to nelle scienze, e che ha fuori e contro di sé un irrazio-nale inesplicabile. La funzione sintetica della ragioneconcreta gli sfugge, così, totalmente.

Il suo giudizio su Hegel risente dell'incertezza ed in-stabilità di questa sua posizione mentale. Dopo aver det-to che Hegel «ha esteso molto legittimamente l'insegna-mento di Kant sul lato antinomico della ragione», egliafferma che la logica hegeliana, fondata sull'antinomiastessa, non è valida, e ripete con Kant che la logica nonha fatto un sol passo avanti da Aristotele in poi. Eppureanche lui, con la sua interpretazione dinamica del prin-cipio di identità, è uscito fuori della logica aristotelica,e, per la sua modesta parte, ha rinnovato la stranezzadell'atteggiamento kantiano, di riconfermare verbalmen-te quel che in atto veniva sorpassando e scalzando.

172 Ibid., II, p. 351.

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ne, se non vi fosse il diverso?»172.Vuol dire forse questo, che il Meyerson accetta la dia-

lettica hegeliana come soluzione delle antinomie dellaragione? Parrebbe, ma non è così. In un lunghissimo ca-pitolo dedicato ad Hegel, egli s'impiglia nelle difficoltàparticolari del sistema, lasciandosene sfuggire lo spiritoanimatore, che pure aveva intravvisto nell'accenno danoi precedentemente riferito. E, tutto sommato, la dia-lettica hegeliana finisce col significare per lui una sezio-ne – la più bizzarra ed eterodossa senza dubbio – diquello stesso razionalismo che egli ha visto già esempla-to nelle scienze, e che ha fuori e contro di sé un irrazio-nale inesplicabile. La funzione sintetica della ragioneconcreta gli sfugge, così, totalmente.

Il suo giudizio su Hegel risente dell'incertezza ed in-stabilità di questa sua posizione mentale. Dopo aver det-to che Hegel «ha esteso molto legittimamente l'insegna-mento di Kant sul lato antinomico della ragione», egliafferma che la logica hegeliana, fondata sull'antinomiastessa, non è valida, e ripete con Kant che la logica nonha fatto un sol passo avanti da Aristotele in poi. Eppureanche lui, con la sua interpretazione dinamica del prin-cipio di identità, è uscito fuori della logica aristotelica,e, per la sua modesta parte, ha rinnovato la stranezzadell'atteggiamento kantiano, di riconfermare verbalmen-te quel che in atto veniva sorpassando e scalzando.

172 Ibid., II, p. 351.

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IX

L'ULTIMO BERGSON

La pubblicazione de L'évolution créatrice (1907) se-gna l'ultima fase del vero e proprio svolgimento del pen-siero bergsoniano. Ultima non vuol dire però conclusi-va; essa infatti lasciava aperto il problema dell'originedello slancio vitale e della materia che ne scandisce ilritmo, cioè, in ultima istanza, del significato unitario etrascendente dell'evoluzione cosmica. La soluzione diquesto problema avrebbe dovuto formare oggetto di unafilosofia della religione, o forse, piuttosto, di una teogo-nia: un'opera che il Bergson ha più volte promesso e isuoi scolari hanno preannunziata come un nescio quidmaius, ma che poi egli non ha data. E quasi per compen-sare questa mancanza – o per farla sentire più pungente– un recente biografo ha voluto costruire, lasciandosiguidare dagli scarsi cenni disseminati nell'opera delmaestro, e più ancora dallo spirito informatore di tutto ilsistema, quella che a suo avviso avrebbe dovuto o potu-to essere la teologia del Bergson173. Egli ci ha avvertito,

173 J. CHEVALIER, Bergson, Paris, Plon, 1926.

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IX

L'ULTIMO BERGSON

La pubblicazione de L'évolution créatrice (1907) se-gna l'ultima fase del vero e proprio svolgimento del pen-siero bergsoniano. Ultima non vuol dire però conclusi-va; essa infatti lasciava aperto il problema dell'originedello slancio vitale e della materia che ne scandisce ilritmo, cioè, in ultima istanza, del significato unitario etrascendente dell'evoluzione cosmica. La soluzione diquesto problema avrebbe dovuto formare oggetto di unafilosofia della religione, o forse, piuttosto, di una teogo-nia: un'opera che il Bergson ha più volte promesso e isuoi scolari hanno preannunziata come un nescio quidmaius, ma che poi egli non ha data. E quasi per compen-sare questa mancanza – o per farla sentire più pungente– un recente biografo ha voluto costruire, lasciandosiguidare dagli scarsi cenni disseminati nell'opera delmaestro, e più ancora dallo spirito informatore di tutto ilsistema, quella che a suo avviso avrebbe dovuto o potu-to essere la teologia del Bergson173. Egli ci ha avvertito,

173 J. CHEVALIER, Bergson, Paris, Plon, 1926.

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è vero, che il suo tentativo è stato incoraggiato e appro-vato dal filosofo; ma siffatto consenso non è forse diver-so da quello che sogliono dare i maestri ai lavori degliscolari; e quand'anche noi dovessimo esser convinti chenessun altro epilogo meglio si appropria all'intuizionebergsoniana del mondo, saremmo tuttavia tentati a giu-dicarlo spurio egualmente, perché vi fanno difetto quellatensione dello sforzo e della ricerca mentale, e quellaprofonda magia animatrice delle cose in apparenza fred-de e morte, in cui consiste l'arte inimitabile del Bergson.

Per limitarci soltanto alle manifestazioni autentichedell'«ultimo Bergson», ci si offrono tre libri, uno deiquali, sotto il titolo L'énergie spirituelle, riunisce varisaggi, in parte almeno posteriori a L'évolution créatrice;l'altro, Durée et simultanéité, contiene una critica delladottrina della relatività, per quel che, con l'idea delle du-rate multiple, interferisce o sembra interferire con laconcezione bergsoniana del tempo. Il terzo, infine, Lesdeux sources de la morale et de la religion, contiene, inscorcio, la sua visione del mondo morale e del mondoreligioso. In questi scritti non si avverte nessun distacconetto dalle posizioni mentali già segnate dalle opere pre-cedenti; pure non si può dire che essi rappresentino va-riazioni insignificanti intorno a temi esauriti. Il pensierodel Bergson intacca sempre in qualche modo quel chetocca, e quand'anche non scava profondamente, tuttaviaincide. Non sarà quindi superfluo dedicare ad essi unostudio accurato, con la speranza che le modificazioni

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è vero, che il suo tentativo è stato incoraggiato e appro-vato dal filosofo; ma siffatto consenso non è forse diver-so da quello che sogliono dare i maestri ai lavori degliscolari; e quand'anche noi dovessimo esser convinti chenessun altro epilogo meglio si appropria all'intuizionebergsoniana del mondo, saremmo tuttavia tentati a giu-dicarlo spurio egualmente, perché vi fanno difetto quellatensione dello sforzo e della ricerca mentale, e quellaprofonda magia animatrice delle cose in apparenza fred-de e morte, in cui consiste l'arte inimitabile del Bergson.

Per limitarci soltanto alle manifestazioni autentichedell'«ultimo Bergson», ci si offrono tre libri, uno deiquali, sotto il titolo L'énergie spirituelle, riunisce varisaggi, in parte almeno posteriori a L'évolution créatrice;l'altro, Durée et simultanéité, contiene una critica delladottrina della relatività, per quel che, con l'idea delle du-rate multiple, interferisce o sembra interferire con laconcezione bergsoniana del tempo. Il terzo, infine, Lesdeux sources de la morale et de la religion, contiene, inscorcio, la sua visione del mondo morale e del mondoreligioso. In questi scritti non si avverte nessun distacconetto dalle posizioni mentali già segnate dalle opere pre-cedenti; pure non si può dire che essi rappresentino va-riazioni insignificanti intorno a temi esauriti. Il pensierodel Bergson intacca sempre in qualche modo quel chetocca, e quand'anche non scava profondamente, tuttaviaincide. Non sarà quindi superfluo dedicare ad essi unostudio accurato, con la speranza che le modificazioni

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più recenti dei punti già acquisiti ci consentano di trarrequalche elemento nuovo di giudizio sull'intuizione berg-soniana nel suo complesso.

Il saggio Durée et simultanéité vuole, come si è ac-cennato, ribadire l'idea della durée pure, quale risultavadalla classica tesi su Les données immédiates de laconscience, contro le deformazioni spaziali che essa su-bisce nella concezione relativistica dell'Einstein. Sem-brerebbe a prima vista che il Bergson avesse anticipato,da più di trent'anni, la posizione einsteiniana, quando inun passo delle Données (1889), egli affermava che iltempo, tradotto dall'interiorità della coscienza nell'este-riorità della natura geometrica e meccanica, fosse daconsiderare non soltanto come spazio, ma proprio comeuna quarta dimensione spaziale174. Non v'era già qui, al-meno nelle linee essenziali, l'idea di quel continuum aquattro dimensioni, di cui hanno tanto usato e abusatogli odierni relativisti? Certamente; e si spiega il senso dicompiacenza con cui il Bergson ricorda la sua quasi pro-fetica intuizione. Tuttavia i due casi non sono perfetta-mente identici; altrimenti, per confutare l'Einstein o percircoscrivere la portata della sua dottrina, bastava che ilBergson rinviasse il lettore allo scritto precedente, inve-ce di darsi la pena di scrivere un nuovo libro. In effetti,se noi, prescindendo per un momento dall'espressionemetaforica del tempo come una quarta dimensione dello

174 Essai sur les données, ecc., p. 83; v. anche Durée et simultanéité, Paris,Alcan, 19263, p. 78.

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più recenti dei punti già acquisiti ci consentano di trarrequalche elemento nuovo di giudizio sull'intuizione berg-soniana nel suo complesso.

Il saggio Durée et simultanéité vuole, come si è ac-cennato, ribadire l'idea della durée pure, quale risultavadalla classica tesi su Les données immédiates de laconscience, contro le deformazioni spaziali che essa su-bisce nella concezione relativistica dell'Einstein. Sem-brerebbe a prima vista che il Bergson avesse anticipato,da più di trent'anni, la posizione einsteiniana, quando inun passo delle Données (1889), egli affermava che iltempo, tradotto dall'interiorità della coscienza nell'este-riorità della natura geometrica e meccanica, fosse daconsiderare non soltanto come spazio, ma proprio comeuna quarta dimensione spaziale174. Non v'era già qui, al-meno nelle linee essenziali, l'idea di quel continuum aquattro dimensioni, di cui hanno tanto usato e abusatogli odierni relativisti? Certamente; e si spiega il senso dicompiacenza con cui il Bergson ricorda la sua quasi pro-fetica intuizione. Tuttavia i due casi non sono perfetta-mente identici; altrimenti, per confutare l'Einstein o percircoscrivere la portata della sua dottrina, bastava che ilBergson rinviasse il lettore allo scritto precedente, inve-ce di darsi la pena di scrivere un nuovo libro. In effetti,se noi, prescindendo per un momento dall'espressionemetaforica del tempo come una quarta dimensione dello

174 Essai sur les données, ecc., p. 83; v. anche Durée et simultanéité, Paris,Alcan, 19263, p. 78.

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spazio, poniamo a raffronto la sostanza della tesi svoltanelle Données con la dottrina della relatività, non trovia-mo tra l'una e l'altra quell'antitesi così recisa che ci vie-ne presentata in Durée et simultanéité. Nella relatività(ristretta), il Lorentz, e sulle sue orme l'Einstein, in baseai risultati dell'esperimento Michelson-Morley, sono sta-ti portati a formulare l'ipotesi che in un moto rettilineo,uniforme ed estremamente celere, si dia una contrazionedello spazio e un allungamento del tempo. Donde le dueconseguenze paradossali, che hanno urtato e scosso ilsenso comune anche più dei vecchi argomenti zenonia-ni: la prima è che un individuo lanciato in un proiettilecon una velocità di poco inferiore a quella della luce, esupposto ritornato al punto di partenza dopo di aver per-corso, tra l'andata e il ritorno, una certa traiettoria, haimpiegato un tempo di gran lunga minore di quel che ri-sulta a un osservatore immobile: per esempio, se il fan-tastico viaggiatore ha impiegato due anni, il non menofantastico osservatore ha dovuto consumare due secolinell'attesa. Una seconda, ulteriore conseguenza, è che,dato l'allungamento del tempo, quelle che da un punto divista appaiono come delle simultaneità, da un punto diriferimento diverso si distendono, per così dire, in suc-cessioni.

Noi non vogliamo qui entrare nei particolari delladottrina della relatività, ma soltanto studiare le ripercus-sioni di essa sulla intuizione bergsoniana del tempo.Perciò ci chiediamo: questa idea delle durate multiple,

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spazio, poniamo a raffronto la sostanza della tesi svoltanelle Données con la dottrina della relatività, non trovia-mo tra l'una e l'altra quell'antitesi così recisa che ci vie-ne presentata in Durée et simultanéité. Nella relatività(ristretta), il Lorentz, e sulle sue orme l'Einstein, in baseai risultati dell'esperimento Michelson-Morley, sono sta-ti portati a formulare l'ipotesi che in un moto rettilineo,uniforme ed estremamente celere, si dia una contrazionedello spazio e un allungamento del tempo. Donde le dueconseguenze paradossali, che hanno urtato e scosso ilsenso comune anche più dei vecchi argomenti zenonia-ni: la prima è che un individuo lanciato in un proiettilecon una velocità di poco inferiore a quella della luce, esupposto ritornato al punto di partenza dopo di aver per-corso, tra l'andata e il ritorno, una certa traiettoria, haimpiegato un tempo di gran lunga minore di quel che ri-sulta a un osservatore immobile: per esempio, se il fan-tastico viaggiatore ha impiegato due anni, il non menofantastico osservatore ha dovuto consumare due secolinell'attesa. Una seconda, ulteriore conseguenza, è che,dato l'allungamento del tempo, quelle che da un punto divista appaiono come delle simultaneità, da un punto diriferimento diverso si distendono, per così dire, in suc-cessioni.

Noi non vogliamo qui entrare nei particolari delladottrina della relatività, ma soltanto studiare le ripercus-sioni di essa sulla intuizione bergsoniana del tempo.Perciò ci chiediamo: questa idea delle durate multiple,

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diverse pei diversi osservatori, è proprio del tutto in-compatibile con quella della durée pure, esposta nellaclassica tesi del Bergson? Implica forse quest'ultima untempo assoluto, unico per tutti gli esseri, simile al temponewtoniano? A noi pare di dover rispondere negativa-mente. Certo, c'è tra le due vedute un'immensa distanza:l'una esprime un tempo vissuto, l'altra un tempo simbo-leggiato in una formula matematica. Tuttavia la prima,quella di Bergson, non esclude, anzi implica le duratemultiple, e, se qualcosa esclude, è proprio l'idea del tem-po unico e assoluto del Newton. Se il tempo infatti èsentimento immediato dell'io che «si lascia vivere», ècompenetrazione di stati d'animo, come note di una me-lodia, è chiaro che esso varia secondo il contenuto,l'intensità, la tensione della vita individuale. Debbonoesserci così delle durate di differente decorso(écoulement) pei differenti esseri: per la pietra che quasinon è intaccata dal morso del tempo, per la farfalla chevive un giorno, per l'uomo, anzi pei singoli uomini e peivari momenti della loro vita. E non v'è neppure, da que-sto punto di vista, una vera e propria simultaneità: solo auna constatazione estrinseca, fatta coi mezzi meccanici(per esempio, con un orologio), può risultare che dueprocessi vitali si svolgono nello stesso tempo, ma nelsuo interno ciascuno di essi ha un modo proprio e in-comparabile di scandire il proprio tempo. In breve: se ciponiamo col Bergson nella coscienza immediata ed ele-mentare, quella che precede ogni distinzione e compara-zione riflessa – e tale appunto è la posizione delle

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diverse pei diversi osservatori, è proprio del tutto in-compatibile con quella della durée pure, esposta nellaclassica tesi del Bergson? Implica forse quest'ultima untempo assoluto, unico per tutti gli esseri, simile al temponewtoniano? A noi pare di dover rispondere negativa-mente. Certo, c'è tra le due vedute un'immensa distanza:l'una esprime un tempo vissuto, l'altra un tempo simbo-leggiato in una formula matematica. Tuttavia la prima,quella di Bergson, non esclude, anzi implica le duratemultiple, e, se qualcosa esclude, è proprio l'idea del tem-po unico e assoluto del Newton. Se il tempo infatti èsentimento immediato dell'io che «si lascia vivere», ècompenetrazione di stati d'animo, come note di una me-lodia, è chiaro che esso varia secondo il contenuto,l'intensità, la tensione della vita individuale. Debbonoesserci così delle durate di differente decorso(écoulement) pei differenti esseri: per la pietra che quasinon è intaccata dal morso del tempo, per la farfalla chevive un giorno, per l'uomo, anzi pei singoli uomini e peivari momenti della loro vita. E non v'è neppure, da que-sto punto di vista, una vera e propria simultaneità: solo auna constatazione estrinseca, fatta coi mezzi meccanici(per esempio, con un orologio), può risultare che dueprocessi vitali si svolgono nello stesso tempo, ma nelsuo interno ciascuno di essi ha un modo proprio e in-comparabile di scandire il proprio tempo. In breve: se ciponiamo col Bergson nella coscienza immediata ed ele-mentare, quella che precede ogni distinzione e compara-zione riflessa – e tale appunto è la posizione delle

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Données – non giungeremo mai alla nozione di un tem-po unico, denominatore comune dei nostri giudizi sullesimultaneità e le successioni degli avvenimenti.

Com'è allora che il Bergson nell'ultimo scritto citato(Durée et simultanéité) giunge all'idea di questo tempo efa di esso una barriera insuperabile contro i paradossidel relativismo? Cominciamo col ricapitolare brevemen-te le sue critiche. Egli dice in sostanza ai relativisti:quando voi prendete due sistemi diversi di riferimento,l'uno immobile e l'altro in moto, e fate constatare concalcoli matematici rigorosi che la misura del tempo è di-versa nei due casi, voi confondete in una sola due que-stioni ben distinte. Da una parte, c'è una rappresentazio-ne matematica, esatta ma convenzionale, la quale nonconcerne il tempo realmente vissuto, bensì i soli inter-valli, che ne sono le traduzioni spaziali e come le proie-zioni immobili. Dall'altra parte, c'è una interpretazionepsicologica che si insinua, come un miraggio quasi in-consapevole, tra quelle formule e dà ad esse un sensoparadossale. Ma riprendiamo l'ipotesi dei due osservato-ri, l'uno che viaggia nel proiettile, mentre l'altro sta fer-mo sulla terra: essi non sono ambedue reali, cioè non vi-vono egualmente le due «durate»; e invece, a secondache si assume come centro di riferimento la terra o ilproiettile, in quel centro vien collocato un osservatore incarne ed ossa, e l'altro non è che un fantasma, una proie-zione immaginaria, concepita secondo le leggi di unaprospettiva sui generis. Avviene qui, nell'ordine del

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Données – non giungeremo mai alla nozione di un tem-po unico, denominatore comune dei nostri giudizi sullesimultaneità e le successioni degli avvenimenti.

Com'è allora che il Bergson nell'ultimo scritto citato(Durée et simultanéité) giunge all'idea di questo tempo efa di esso una barriera insuperabile contro i paradossidel relativismo? Cominciamo col ricapitolare brevemen-te le sue critiche. Egli dice in sostanza ai relativisti:quando voi prendete due sistemi diversi di riferimento,l'uno immobile e l'altro in moto, e fate constatare concalcoli matematici rigorosi che la misura del tempo è di-versa nei due casi, voi confondete in una sola due que-stioni ben distinte. Da una parte, c'è una rappresentazio-ne matematica, esatta ma convenzionale, la quale nonconcerne il tempo realmente vissuto, bensì i soli inter-valli, che ne sono le traduzioni spaziali e come le proie-zioni immobili. Dall'altra parte, c'è una interpretazionepsicologica che si insinua, come un miraggio quasi in-consapevole, tra quelle formule e dà ad esse un sensoparadossale. Ma riprendiamo l'ipotesi dei due osservato-ri, l'uno che viaggia nel proiettile, mentre l'altro sta fer-mo sulla terra: essi non sono ambedue reali, cioè non vi-vono egualmente le due «durate»; e invece, a secondache si assume come centro di riferimento la terra o ilproiettile, in quel centro vien collocato un osservatore incarne ed ossa, e l'altro non è che un fantasma, una proie-zione immaginaria, concepita secondo le leggi di unaprospettiva sui generis. Avviene qui, nell'ordine del

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tempo, qualcosa di analogo a quello che ci è molto piùfamiliare nell'ordine dei rapporti spaziali: un pittore chevuol ritrarre due individui situati a una certa distanzal'uno dall'altro, li fa di diversa grandezza, dando dimen-sioni maggiori a quello che è più vicino al centro dellasua visione, e impiccolendo l'altro. Ma a nessuno ver-rebbe in mente di dire che il pittore abbia ritratto unnano e un gigante, né che questi sian collocati in duespazi diversamente conformati; ognuno anzi giudicheràche, essendo unico lo spazio, le due figurazioni debbonoessere differenti, per uniformarsi alla legge di esso. Si-milmente, i tempi multipli di Einstein, non solo risulta-no da un'analoga prospettiva, ma presuppongono e im-plicano un tempo unico e assoluto175.

La critica è acuta e convincente; ma come si giustifi-ca, dal punto di vista bergsoniano, questa assunzione deltempo unico? Quasi senza accorgersene, il Bergson s'èvenuto a poco a poco allontanando dalla posizione dellacoscienza immediata in cui s'era chiuso nelle Données.Già in Matière et mémoire, egli aveva cominciato conl'integrare il sentimento ingenuo ed elementare della du-rata col sussidio della memoria, senza la quale è impos-sibile distinguere e connettere un «prima» e un «poi».Ma porre una memoria significa porre una coscienza,presente ai singoli momenti, che li connetta insieme. Sidirà allora che ci son tante coscienze, ciascuna con unapropria legge e con un proprio ritmo, quanti individui vi

175 Durée et simultanéité, pp. 100 sgg.

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tempo, qualcosa di analogo a quello che ci è molto piùfamiliare nell'ordine dei rapporti spaziali: un pittore chevuol ritrarre due individui situati a una certa distanzal'uno dall'altro, li fa di diversa grandezza, dando dimen-sioni maggiori a quello che è più vicino al centro dellasua visione, e impiccolendo l'altro. Ma a nessuno ver-rebbe in mente di dire che il pittore abbia ritratto unnano e un gigante, né che questi sian collocati in duespazi diversamente conformati; ognuno anzi giudicheràche, essendo unico lo spazio, le due figurazioni debbonoessere differenti, per uniformarsi alla legge di esso. Si-milmente, i tempi multipli di Einstein, non solo risulta-no da un'analoga prospettiva, ma presuppongono e im-plicano un tempo unico e assoluto175.

La critica è acuta e convincente; ma come si giustifi-ca, dal punto di vista bergsoniano, questa assunzione deltempo unico? Quasi senza accorgersene, il Bergson s'èvenuto a poco a poco allontanando dalla posizione dellacoscienza immediata in cui s'era chiuso nelle Données.Già in Matière et mémoire, egli aveva cominciato conl'integrare il sentimento ingenuo ed elementare della du-rata col sussidio della memoria, senza la quale è impos-sibile distinguere e connettere un «prima» e un «poi».Ma porre una memoria significa porre una coscienza,presente ai singoli momenti, che li connetta insieme. Sidirà allora che ci son tante coscienze, ciascuna con unapropria legge e con un proprio ritmo, quanti individui vi

175 Durée et simultanéité, pp. 100 sgg.

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sono? Chi ben guardi, vedrà che la coscienza, nel fonda-re l'idea del tempo, interviene non già come un mezzo diseparazione e di disgregazione, ma come un principiounificatore, come un piano identico su cui si graduano esi distribuiscono i dati qualitativamente eterogeneidell'esperienza sensibile immediata. Se questa è la natu-ra e la legge della coscienza, è chiaro che essa non puòattuarsi in due modi diversi, una volta come mezzo diunione, un'altra di disgregazione; ma che tra coscienza ecoscienza deve prolungarsi, per così dire, quella stessaopera di collegamento che s'è effettuata nell'interno diuna singola coscienza. Il Bergson ha inconsapevolmenteobbedito a questa esigenza profonda, nel formulare allafine il concetto di un tempo unico, compreso in una co-scienza unica; ed a spingerlo per la nuova via molto hacontribuito il fatto che, con L'évolution créatrice, egliaveva già molto ampliato la sfera della sua indagine,passando da un punta di vista psicologico individuale aun punto di vista cosmico e universale. Ma il concetto diuna coscienza unica, «normale» in un senso kantiano,non si trova in nessun altro scritto così chiaramente for-mulato come in Durée et simultanéité.

È interessante osservare il modo con cui egli vi giun-ge, per via d'ipotesi e di approssimazioni, che ricordanopiuttosto il procedimento dello scienziato o del matema-tico, che non quello del filosofo. «L'ipotesi di un tempounico, egli dice, è fondata sopra un ragionamento peranalogia, che dobbiamo ritener conclusivo fino a che

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sono? Chi ben guardi, vedrà che la coscienza, nel fonda-re l'idea del tempo, interviene non già come un mezzo diseparazione e di disgregazione, ma come un principiounificatore, come un piano identico su cui si graduano esi distribuiscono i dati qualitativamente eterogeneidell'esperienza sensibile immediata. Se questa è la natu-ra e la legge della coscienza, è chiaro che essa non puòattuarsi in due modi diversi, una volta come mezzo diunione, un'altra di disgregazione; ma che tra coscienza ecoscienza deve prolungarsi, per così dire, quella stessaopera di collegamento che s'è effettuata nell'interno diuna singola coscienza. Il Bergson ha inconsapevolmenteobbedito a questa esigenza profonda, nel formulare allafine il concetto di un tempo unico, compreso in una co-scienza unica; ed a spingerlo per la nuova via molto hacontribuito il fatto che, con L'évolution créatrice, egliaveva già molto ampliato la sfera della sua indagine,passando da un punta di vista psicologico individuale aun punto di vista cosmico e universale. Ma il concetto diuna coscienza unica, «normale» in un senso kantiano,non si trova in nessun altro scritto così chiaramente for-mulato come in Durée et simultanéité.

È interessante osservare il modo con cui egli vi giun-ge, per via d'ipotesi e di approssimazioni, che ricordanopiuttosto il procedimento dello scienziato o del matema-tico, che non quello del filosofo. «L'ipotesi di un tempounico, egli dice, è fondata sopra un ragionamento peranalogia, che dobbiamo ritener conclusivo fino a che

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non ci verrà offerto nulla di più soddisfacente. Questoragionamento, appena cosciente, potrebbe formularsicosì. Tutte le coscienze umane sono della stessa natura,percepiscono nello stesso modo, camminano con lo stes-so passo e vivono la stessa durata. Ora, nulla c'impedi-sce d'immaginare quante coscienze umane si voglia, dis-seminate a distanza attraverso la totalità dell'universo,ma abbastanza vicine l'una all'altra perché due di esseconsecutive, prese a caso, abbiano in comune la parteestrema del campo della loro esperienza esteriore. Cia-scuna di queste due esperienze esteriori partecipa alladurata di ciascuna delle due coscienze. E, poiché le duecoscienze hanno lo stesso ritmo di durata, così dev'esse-re anche delle due esperienze. Ma le due esperienzehanno una parte comune; dunque, con questo traitd'union, esse si congiungono in un'esperienza unica, chesi svolge in una durata unica e può considerarsi, a vo-lontà, come appartenente all'una e all'altra delle due co-scienze. Poiché lo stesso ragionamento può ripetersi daogni punto al punto contiguo, una medesima durata vienraccogliendo, lungo la sua via, gli avvenimenti della to-talità del mondo materiale; e alla fine possiamo elimina-re le coscienze umane che avevamo collocate nei varipunti come altrettanti collegamenti per il movimento delnostro pensiero: e non vi sarà più che il tempo imperso-nale in cui scorreranno tutte le cose»176.

Questo tempo impersonale non è che il tempo come

176 Op. cit., pp. 58-59.

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non ci verrà offerto nulla di più soddisfacente. Questoragionamento, appena cosciente, potrebbe formularsicosì. Tutte le coscienze umane sono della stessa natura,percepiscono nello stesso modo, camminano con lo stes-so passo e vivono la stessa durata. Ora, nulla c'impedi-sce d'immaginare quante coscienze umane si voglia, dis-seminate a distanza attraverso la totalità dell'universo,ma abbastanza vicine l'una all'altra perché due di esseconsecutive, prese a caso, abbiano in comune la parteestrema del campo della loro esperienza esteriore. Cia-scuna di queste due esperienze esteriori partecipa alladurata di ciascuna delle due coscienze. E, poiché le duecoscienze hanno lo stesso ritmo di durata, così dev'esse-re anche delle due esperienze. Ma le due esperienzehanno una parte comune; dunque, con questo traitd'union, esse si congiungono in un'esperienza unica, chesi svolge in una durata unica e può considerarsi, a vo-lontà, come appartenente all'una e all'altra delle due co-scienze. Poiché lo stesso ragionamento può ripetersi daogni punto al punto contiguo, una medesima durata vienraccogliendo, lungo la sua via, gli avvenimenti della to-talità del mondo materiale; e alla fine possiamo elimina-re le coscienze umane che avevamo collocate nei varipunti come altrettanti collegamenti per il movimento delnostro pensiero: e non vi sarà più che il tempo imperso-nale in cui scorreranno tutte le cose»176.

Questo tempo impersonale non è che il tempo come

176 Op. cit., pp. 58-59.

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può essere rappresentato da una coscienza in genere: di-verso, sì, dagli schemi spaziali della scienza della natu-ra, ma risultante da un procedimento concettuale che hadi gran lunga sorpassato l'intuizione irriflessa e ingenuadelle Données. Ora se è vero, e tal è certamente in rap-porto alla filosofia bergsoniana, che il progresso specu-lativo è segnato dai nuovi coups de sonde dans la duréepure, questo sviluppo della concezione del tempo devemodificare non poco l'orientamento fondamentale delpensiero del Bergson. Raccogliamo infatti gli elementidi giudizio che le opere precedenti ci offrivano. Sfron-data della magìa delle parole e delle effusioni mistiche,la vita dello spirito appariva in esse come qualcosa diestremamente povero: la sua perfezione era tutta alleorigini, in un albeggiare indistinto e ineffabile della co-scienza che «si lascia vivere» senza riflettere, separare,astrarre, insomma senza dar forma al suo contenutofluente ed amorfo. Anzi, tutto questo ulteriore lavoro delpensiero e della volontà veniva giudicato come una fal-sificazione e una deformazione; e il compito stesso dellacritica filosofica consisteva nel liberare da siffatte incro-stazioni della vita intellettuale e sociale la realtà puradella coscienza immediata. Certamente, noi sentivamoche nel Bergson pensatore c'era molto più che questoideale di rinuncia, che questa negazione di ogni proces-so di vita psicologica; c'era, in effetti, lo stesso sforzocritico, razionale malgrado tutto, per scalzare, ma insie-me per spiegare e in qualche modo giustificare, ciò chenell'evoluzione umana si vien sovrapponendo all'espe-

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può essere rappresentato da una coscienza in genere: di-verso, sì, dagli schemi spaziali della scienza della natu-ra, ma risultante da un procedimento concettuale che hadi gran lunga sorpassato l'intuizione irriflessa e ingenuadelle Données. Ora se è vero, e tal è certamente in rap-porto alla filosofia bergsoniana, che il progresso specu-lativo è segnato dai nuovi coups de sonde dans la duréepure, questo sviluppo della concezione del tempo devemodificare non poco l'orientamento fondamentale delpensiero del Bergson. Raccogliamo infatti gli elementidi giudizio che le opere precedenti ci offrivano. Sfron-data della magìa delle parole e delle effusioni mistiche,la vita dello spirito appariva in esse come qualcosa diestremamente povero: la sua perfezione era tutta alleorigini, in un albeggiare indistinto e ineffabile della co-scienza che «si lascia vivere» senza riflettere, separare,astrarre, insomma senza dar forma al suo contenutofluente ed amorfo. Anzi, tutto questo ulteriore lavoro delpensiero e della volontà veniva giudicato come una fal-sificazione e una deformazione; e il compito stesso dellacritica filosofica consisteva nel liberare da siffatte incro-stazioni della vita intellettuale e sociale la realtà puradella coscienza immediata. Certamente, noi sentivamoche nel Bergson pensatore c'era molto più che questoideale di rinuncia, che questa negazione di ogni proces-so di vita psicologica; c'era, in effetti, lo stesso sforzocritico, razionale malgrado tutto, per scalzare, ma insie-me per spiegare e in qualche modo giustificare, ciò chenell'evoluzione umana si vien sovrapponendo all'espe-

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rienza immediata. Egli, insomma, non si chiudeva neiconfini della vita elementare dello spirito, ma ne uscivafuori, sia pure per meglio delimitarli e agguerrirli; sì chenoi potevamo dubitare e sperare che la sua filosofia si-gnificasse, più che un tentativo per farci retrocedere auno stato di natura o d'infanzia, uno sforzo per elevarcia una concezione più matura di vita, mediata da tutto illavorìo critico con cui lo spirito si riafferma, attraverso eal di sopra delle sue apparenti negazioni. O meglio, ilBergson ci offriva confusamente l'una e l'altra alternati-va: col suo intuizionismo irrazionalistico egli era sullavia delle negazioni sterili e corrosive; con la penetrazio-ne della sua critica, capace di trarre profondi motivi spi-rituali anche da ciò che all'apparenza è insensibile eopaco ad ogni luce mentale, egli era sulla via delle ne-gazioni dialettiche e innovatrici. Così la visione dellospirito, nella sua filosofia, oscillava tra una specie di re-gresso e d'involuzione tendente verso qualcosa di primi-tivo e d'indifferenziato, e uno sviluppo culminante in unconsapevole possesso dei momenti superati nel corsodel divenire. Lo spirito insomma appariva ora come al-cunché di tanto semplice e puro, che al primo contattocon le cose del mondo rischiava di appannarsi e di cor-rompersi, ora come una complessa realtà, che si temprae si fortifica nella vita, che include più che non escluda,che si afferma anche negandosi.

Bisogna francamente riconoscere che nella scuolabergsoniana e su tutto l'ambiente storico contempora-

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rienza immediata. Egli, insomma, non si chiudeva neiconfini della vita elementare dello spirito, ma ne uscivafuori, sia pure per meglio delimitarli e agguerrirli; sì chenoi potevamo dubitare e sperare che la sua filosofia si-gnificasse, più che un tentativo per farci retrocedere auno stato di natura o d'infanzia, uno sforzo per elevarcia una concezione più matura di vita, mediata da tutto illavorìo critico con cui lo spirito si riafferma, attraverso eal di sopra delle sue apparenti negazioni. O meglio, ilBergson ci offriva confusamente l'una e l'altra alternati-va: col suo intuizionismo irrazionalistico egli era sullavia delle negazioni sterili e corrosive; con la penetrazio-ne della sua critica, capace di trarre profondi motivi spi-rituali anche da ciò che all'apparenza è insensibile eopaco ad ogni luce mentale, egli era sulla via delle ne-gazioni dialettiche e innovatrici. Così la visione dellospirito, nella sua filosofia, oscillava tra una specie di re-gresso e d'involuzione tendente verso qualcosa di primi-tivo e d'indifferenziato, e uno sviluppo culminante in unconsapevole possesso dei momenti superati nel corsodel divenire. Lo spirito insomma appariva ora come al-cunché di tanto semplice e puro, che al primo contattocon le cose del mondo rischiava di appannarsi e di cor-rompersi, ora come una complessa realtà, che si temprae si fortifica nella vita, che include più che non escluda,che si afferma anche negandosi.

Bisogna francamente riconoscere che nella scuolabergsoniana e su tutto l'ambiente storico contempora-

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neo, già per sua natura proclive all'irrazionalismo, al de-cadentismo, al volontarismo vuoto e inconsistente, hainfluito il Bergson deteriore, che era anche il più facile eil più indulgente verso le vanità e le debolezze umane.Era agevole infatti a qualunque filisteo, dimentico oignaro di tutto il tormentoso lavoro che era costata almaestro la conquista di quell'apparente rivelazione dellavita immediata dello spirito, abbandonarsi al facile e di-lettantesco intuizionismo, alle stolte negazioni di ogniseria attività mentale, e trincerarsi nel ben difeso campodella propria ignoranza. Chi pensa al bergsonismo spic-ciolo, che ha infestato la cultura contemporanea, nonpuò non osservarvi una curiosa analogia con certi atteg-giamenti degli antichi gnostici, i quali, immaginando diessere naturalmente custodi e interpreti dello spirito, sicredevano in diritto di esentarsi da ogni sforzo e pena dieducazione mentale e morale.

Ma in Bergson c'è incomparabilmente di più e di me-glio che nel bergsonismo. E le ultime manifestazioni delsuo pensiero confermano e rendono maggiormenteesplicito quello sforzo di espansione e di elevazioneche, nella sua visione dello spirito, tempera e neutralizzal'opposta tendenza verso un'eccessiva semplificazione.Noi abbiamo constatato lo sviluppo della sua dottrinadel tempo, e le considerazioni che siamo poi venutiesponendo saranno forse apparse sproporzionate all'inte-resse di un tema così particolare. Non si dimentichi peròche il Bergson è, per eccellenza, il filosofo della «durée

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neo, già per sua natura proclive all'irrazionalismo, al de-cadentismo, al volontarismo vuoto e inconsistente, hainfluito il Bergson deteriore, che era anche il più facile eil più indulgente verso le vanità e le debolezze umane.Era agevole infatti a qualunque filisteo, dimentico oignaro di tutto il tormentoso lavoro che era costata almaestro la conquista di quell'apparente rivelazione dellavita immediata dello spirito, abbandonarsi al facile e di-lettantesco intuizionismo, alle stolte negazioni di ogniseria attività mentale, e trincerarsi nel ben difeso campodella propria ignoranza. Chi pensa al bergsonismo spic-ciolo, che ha infestato la cultura contemporanea, nonpuò non osservarvi una curiosa analogia con certi atteg-giamenti degli antichi gnostici, i quali, immaginando diessere naturalmente custodi e interpreti dello spirito, sicredevano in diritto di esentarsi da ogni sforzo e pena dieducazione mentale e morale.

Ma in Bergson c'è incomparabilmente di più e di me-glio che nel bergsonismo. E le ultime manifestazioni delsuo pensiero confermano e rendono maggiormenteesplicito quello sforzo di espansione e di elevazioneche, nella sua visione dello spirito, tempera e neutralizzal'opposta tendenza verso un'eccessiva semplificazione.Noi abbiamo constatato lo sviluppo della sua dottrinadel tempo, e le considerazioni che siamo poi venutiesponendo saranno forse apparse sproporzionate all'inte-resse di un tema così particolare. Non si dimentichi peròche il Bergson è, per eccellenza, il filosofo della «durée

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pure» e che pertanto ogni mutamento nella posizione diquesto problema non può mancare di ripercuotersi sututti gli altri. È quel che noi vogliamo ora mostrare, esa-minando alcuni degli scritti più significativi riuniti nelvolume su L'énergie spirituelle.

Dobbiamo ancora una volta rifarci da L'évolutioncréatrice che segna, per tutti i problemi della filosofiabergsoniana, un passaggio di grande importanza dalpunto di vista psicologico delle Données a un punto divista cosmologico e cosmogonico. Ciò vuol dire chequel che all'individuo appare immediato e quasi nativo,nella vita dell'universo, invece, è il prodotto ultimo,estremamente elaborato e complesso, di una lunga evo-luzione cosmica, di uno slancio vitale e cosciente che at-traversa tutti i gradi dell'esistenza, e condensa inun'energia sempre più compatta ed esplosiva quel cheraccoglie lungo il corso del suo divenire. Sotto l'appa-rente semplicità e facile spontaneità dell'io, che l'ispe-zione psicologica ci rivela, si tende una forza tanto piùattiva quanto più affonda nel passato. Si prenda peresempio, dice il Bergson, l'attività pratica: «a qual segnoriconosciamo noi d'ordinario l'uomo di azione, colui chelascia la sua impronta sugli avvenimenti ai quali lo me-scola la fortuna? Non forse da ciò, ch'egli abbraccia unavisione più o meno lunga in una visione istantanea? Piùgrande è la porzione del passato ch'egli possiede nel suopresente, più pesante è la massa ch'egli spinge nell'avve-nire per far pressione contro le eventualità che si prepa-

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pure» e che pertanto ogni mutamento nella posizione diquesto problema non può mancare di ripercuotersi sututti gli altri. È quel che noi vogliamo ora mostrare, esa-minando alcuni degli scritti più significativi riuniti nelvolume su L'énergie spirituelle.

Dobbiamo ancora una volta rifarci da L'évolutioncréatrice che segna, per tutti i problemi della filosofiabergsoniana, un passaggio di grande importanza dalpunto di vista psicologico delle Données a un punto divista cosmologico e cosmogonico. Ciò vuol dire chequel che all'individuo appare immediato e quasi nativo,nella vita dell'universo, invece, è il prodotto ultimo,estremamente elaborato e complesso, di una lunga evo-luzione cosmica, di uno slancio vitale e cosciente che at-traversa tutti i gradi dell'esistenza, e condensa inun'energia sempre più compatta ed esplosiva quel cheraccoglie lungo il corso del suo divenire. Sotto l'appa-rente semplicità e facile spontaneità dell'io, che l'ispe-zione psicologica ci rivela, si tende una forza tanto piùattiva quanto più affonda nel passato. Si prenda peresempio, dice il Bergson, l'attività pratica: «a qual segnoriconosciamo noi d'ordinario l'uomo di azione, colui chelascia la sua impronta sugli avvenimenti ai quali lo me-scola la fortuna? Non forse da ciò, ch'egli abbraccia unavisione più o meno lunga in una visione istantanea? Piùgrande è la porzione del passato ch'egli possiede nel suopresente, più pesante è la massa ch'egli spinge nell'avve-nire per far pressione contro le eventualità che si prepa-

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rano: la sua azione, simile a una freccia, scocca con tan-ta più forza in avanti, quanto più la sua rappresentazionesi tendeva indietro»177. Così, generalmente, «una forzalavora alle nostre spalle, che cerca di liberarsi dai suoiimpedimenti e di sorpassare se medesima, dando, dap-prima, tutto ciò che ha, e poi anche più di quel che ha:come definire diversamente lo spirito? e in che cosa laforza spirituale si distinguerebbe dalle altre, se non perla facoltà di trarre da se stessa più di ciò che contiene?Ma bisogna tener conto degli ostacoli d'ogni genere chequesta forza incontra nel suo cammino. L'evoluzionedella vita, dalle sue origini fino all'uomo, evoca ai nostriocchi l'immagine di una corrente di coscienza ches'impegna nella materia come per crearsi un passaggiosotterraneo, fa dei tentativi a destra e a sinistra, si spingepiù o meno avanti, s'infrange il più spesso contro la roc-cia, e tuttavia, in una direzione almeno, riesce a forare ead emergere alla luce. Questa direzione è la linea d'evo-luzione che va a finire all'uomo»178.

La rappresentazione che precede può far nascerel'idea che sull'uomo il passato agisca come un impulsoin qualche modo meccanico, che lo pone gratuitamentein possesso di un'energia accumulata da altri e lo di-spensa dalle pene di un lavoro proprio. Così nella visio-ne facile e istantanea degli oggetti che ci circondano, siattualizza in noi con un fiat un'infinità di vibrazioni ma-

177 L'énergie spirituelle, p. 16.178 Op. cit., p. 22.

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rano: la sua azione, simile a una freccia, scocca con tan-ta più forza in avanti, quanto più la sua rappresentazionesi tendeva indietro»177. Così, generalmente, «una forzalavora alle nostre spalle, che cerca di liberarsi dai suoiimpedimenti e di sorpassare se medesima, dando, dap-prima, tutto ciò che ha, e poi anche più di quel che ha:come definire diversamente lo spirito? e in che cosa laforza spirituale si distinguerebbe dalle altre, se non perla facoltà di trarre da se stessa più di ciò che contiene?Ma bisogna tener conto degli ostacoli d'ogni genere chequesta forza incontra nel suo cammino. L'evoluzionedella vita, dalle sue origini fino all'uomo, evoca ai nostriocchi l'immagine di una corrente di coscienza ches'impegna nella materia come per crearsi un passaggiosotterraneo, fa dei tentativi a destra e a sinistra, si spingepiù o meno avanti, s'infrange il più spesso contro la roc-cia, e tuttavia, in una direzione almeno, riesce a forare ead emergere alla luce. Questa direzione è la linea d'evo-luzione che va a finire all'uomo»178.

La rappresentazione che precede può far nascerel'idea che sull'uomo il passato agisca come un impulsoin qualche modo meccanico, che lo pone gratuitamentein possesso di un'energia accumulata da altri e lo di-spensa dalle pene di un lavoro proprio. Così nella visio-ne facile e istantanea degli oggetti che ci circondano, siattualizza in noi con un fiat un'infinità di vibrazioni ma-

177 L'énergie spirituelle, p. 16.178 Op. cit., p. 22.

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teriali, si rivela come un epilogo, continuamente rinno-vantesi, di tutta la storia del mondo. Ma se è vero chel'uomo beneficia dell'energia che, come direbbe Campa-nella, ha rubato al sole, è anche vero che la leggedell'energia spirituale è di attuarsi per mezzo di nuovaenergia e di sorpassarsi continuamente. Lo spirito, hadetto in qualche parte Bergson con una frase felice, nonvive di rendita; il capitale gli frutta solo col nuovo lavo-ro. Esso non fa leva su di un passato che gli è dato gra-tuitamente tutto in una volta, ma in un certo senso si dàda se stesso quel passato con la sua attività. E a misurache se ne appropria, se ne disimpegna e si libera. Ognicreazione spirituale è un trionfo sulla materia; ma insie-me, e questo per il Bergson è il punto più importante, èimpulso a nuove creazioni. Risiede qui il criterio distin-tivo delle forme inferiori dell'attività spirituale, quellecioè che sono ancora imprigionate nella materia, dalleforme più alte e propriamente umane. «Veduta dal difuori, la natura appare come una immensa efflorescenzad'imprevedibile novità: la forza che l'anima sembracreare con amore, per niente, per semplice gusto, la va-rietà senza fine delle specie vegetali e animali; a ciascu-na, essa conferisce il valore assoluto di una grande ope-ra d'arte; si direbbe che essa si attacchi alla prima venutaquanto alle altre, quanto all'uomo stesso. Ma la forma diun vivente, una volta disegnata, si ripete indefinitamen-te, e gli atti di questo vivente, una volta compiuti, tendo-no a imitarsi l'un l'altro e a ricominciare automaticamen-te: l'automatismo e la ripetizione, che dominano dovun-

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teriali, si rivela come un epilogo, continuamente rinno-vantesi, di tutta la storia del mondo. Ma se è vero chel'uomo beneficia dell'energia che, come direbbe Campa-nella, ha rubato al sole, è anche vero che la leggedell'energia spirituale è di attuarsi per mezzo di nuovaenergia e di sorpassarsi continuamente. Lo spirito, hadetto in qualche parte Bergson con una frase felice, nonvive di rendita; il capitale gli frutta solo col nuovo lavo-ro. Esso non fa leva su di un passato che gli è dato gra-tuitamente tutto in una volta, ma in un certo senso si dàda se stesso quel passato con la sua attività. E a misurache se ne appropria, se ne disimpegna e si libera. Ognicreazione spirituale è un trionfo sulla materia; ma insie-me, e questo per il Bergson è il punto più importante, èimpulso a nuove creazioni. Risiede qui il criterio distin-tivo delle forme inferiori dell'attività spirituale, quellecioè che sono ancora imprigionate nella materia, dalleforme più alte e propriamente umane. «Veduta dal difuori, la natura appare come una immensa efflorescenzad'imprevedibile novità: la forza che l'anima sembracreare con amore, per niente, per semplice gusto, la va-rietà senza fine delle specie vegetali e animali; a ciascu-na, essa conferisce il valore assoluto di una grande ope-ra d'arte; si direbbe che essa si attacchi alla prima venutaquanto alle altre, quanto all'uomo stesso. Ma la forma diun vivente, una volta disegnata, si ripete indefinitamen-te, e gli atti di questo vivente, una volta compiuti, tendo-no a imitarsi l'un l'altro e a ricominciare automaticamen-te: l'automatismo e la ripetizione, che dominano dovun-

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que, fuorché nell'uomo, dovrebbero avvertirci che siamoqui innanzi ad arresti, e che la vita invece di progredire,si limita a segnare il passo»179. Superiore è l'attivitàdell'uomo; e più alta di ogni altra, quella dell'uomo mo-rale. «L'uomo, chiamato senza tregua ad appoggiarsisulla totalità del suo passato, per pesare tanto più poten-temente sull'avvenire, è il grande successo della vita.Ma creatore per eccellenza è colui, la cui azione, intensaessa stessa, è capace d'intensificare anche quella deglialtri uomini, d'accendere, generosa, dei focolai di gene-rosità. I grandi spiriti morali, particolarmente quelli ilcui eroismo inventivo e semplice ha aperto nuove viealla virtù, sono rivelatori di verità metafisica. Si dicapure che essi sono al punto culminante dell'evoluzione;essi son tuttavia più vicini alle origini e rendono sensibi-le ai nostri occhi l'impulso che vien dal fondo. Conside-riamoli attentamente, cerchiamo di provare con simpatiaciò che essi provano, se vogliamo penetrare con un attod'intuizione fino al principio stesso della vita. Per son-dare il mistero delle profondità, bisogna talvolta esami-nare le cime. Il fuoco che è al centro della terra non ap-pare che alla sommità dei vulcani»180.

Qui ci si rende più evidente quel che già avevamo os-servato nello schema dell'idea del tempo. La filosofiadel Bergson, nella sua ultima fase, accentua quell'ele-mento di sviluppo e di progresso, che era già sensibile

179 Ibid., pp. 25-26.180 Ibid., pp. 26-27.

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que, fuorché nell'uomo, dovrebbero avvertirci che siamoqui innanzi ad arresti, e che la vita invece di progredire,si limita a segnare il passo»179. Superiore è l'attivitàdell'uomo; e più alta di ogni altra, quella dell'uomo mo-rale. «L'uomo, chiamato senza tregua ad appoggiarsisulla totalità del suo passato, per pesare tanto più poten-temente sull'avvenire, è il grande successo della vita.Ma creatore per eccellenza è colui, la cui azione, intensaessa stessa, è capace d'intensificare anche quella deglialtri uomini, d'accendere, generosa, dei focolai di gene-rosità. I grandi spiriti morali, particolarmente quelli ilcui eroismo inventivo e semplice ha aperto nuove viealla virtù, sono rivelatori di verità metafisica. Si dicapure che essi sono al punto culminante dell'evoluzione;essi son tuttavia più vicini alle origini e rendono sensibi-le ai nostri occhi l'impulso che vien dal fondo. Conside-riamoli attentamente, cerchiamo di provare con simpatiaciò che essi provano, se vogliamo penetrare con un attod'intuizione fino al principio stesso della vita. Per son-dare il mistero delle profondità, bisogna talvolta esami-nare le cime. Il fuoco che è al centro della terra non ap-pare che alla sommità dei vulcani»180.

Qui ci si rende più evidente quel che già avevamo os-servato nello schema dell'idea del tempo. La filosofiadel Bergson, nella sua ultima fase, accentua quell'ele-mento di sviluppo e di progresso, che era già sensibile

179 Ibid., pp. 25-26.180 Ibid., pp. 26-27.

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nell'Évolution créatrice, e, senza sconfessare l'intuizionedella vita immediata dello spirito, si sforza di conciliarlacon una visione più mediata e riflessa. Al culminedell'attività umana, essa ritrova le forze motrici elemen-tari; ma non può ritrovarle intatte e immutate, come setutto il lavoro compiuto da un capo all'altro fosse statovano, bensì come si ritrova nell'organismo la virtù fe-condatrice del germe. All'inizio non c'è che una potenzain atto di spiegarsi, non una realtà già perfetta e suffi-ciente che possa isolarsi da tutto ciò che essa non è an-cora divenuta, ma è in via di divenire. Il «farsi altro» ècondizione di vita e di sviluppo; il negarsi è mezzo dipiù energica affermazione; mentre un'intuizione istanta-nea – quella delle Données –, che separi puntualmente idati della vita immediata da quelli che vi sovrapponeuna riflessione falsamente intesa come postuma, nonpuò che pietrificare e fossilizzare la vita nel germe. Siricordi il motivo insistente delle Données: le temps est-il de l'espace? e, insieme, la preoccupazione costantecon cui il Bergson voleva in quel libro salvare la realtàpura dello spirito da ogni contaminazione esterna e spa-ziale. Che cosa in effetti salvava? null'altro che la sterili-tà del seme, al riparo dalla corruzione fecondatrice dellaterra. Ora, se vogliamo trarre tutte le conseguenze impli-cite nel nuovo orientamento bergsoniano, dobbiamo ri-spondere, che il tempo non è ma si fa spazio, senza darepiù a questo passaggio il significato di una falsificazio-ne; dandovi, anzi, il senso di uno sviluppo. Il tempo si faspazio per ritrovarsi tempo più pieno; o, fuori di questa

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nell'Évolution créatrice, e, senza sconfessare l'intuizionedella vita immediata dello spirito, si sforza di conciliarlacon una visione più mediata e riflessa. Al culminedell'attività umana, essa ritrova le forze motrici elemen-tari; ma non può ritrovarle intatte e immutate, come setutto il lavoro compiuto da un capo all'altro fosse statovano, bensì come si ritrova nell'organismo la virtù fe-condatrice del germe. All'inizio non c'è che una potenzain atto di spiegarsi, non una realtà già perfetta e suffi-ciente che possa isolarsi da tutto ciò che essa non è an-cora divenuta, ma è in via di divenire. Il «farsi altro» ècondizione di vita e di sviluppo; il negarsi è mezzo dipiù energica affermazione; mentre un'intuizione istanta-nea – quella delle Données –, che separi puntualmente idati della vita immediata da quelli che vi sovrapponeuna riflessione falsamente intesa come postuma, nonpuò che pietrificare e fossilizzare la vita nel germe. Siricordi il motivo insistente delle Données: le temps est-il de l'espace? e, insieme, la preoccupazione costantecon cui il Bergson voleva in quel libro salvare la realtàpura dello spirito da ogni contaminazione esterna e spa-ziale. Che cosa in effetti salvava? null'altro che la sterili-tà del seme, al riparo dalla corruzione fecondatrice dellaterra. Ora, se vogliamo trarre tutte le conseguenze impli-cite nel nuovo orientamento bergsoniano, dobbiamo ri-spondere, che il tempo non è ma si fa spazio, senza darepiù a questo passaggio il significato di una falsificazio-ne; dandovi, anzi, il senso di uno sviluppo. Il tempo si faspazio per ritrovarsi tempo più pieno; o, fuori di questa

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figurazione un po' simbolica, lo spirito traversa la mate-ria, per possedersi più compiutamente come spirito.

Dovremo dir lo stesso dei rapporti tra l'intuizione el'intelletto? È qui che in fondo volevamo arrivare.L'intuizionismo irrazionalistico del Bergson non rappre-senta che una fase iniziale e provvisoria della sua dottri-na; è come una difesa con cui egli ha protetto la nascen-te concezione energetica dello spirito dagli attacchidell'intellettualismo scientifico e del piatto razionalismofilosofico francese. Ma, una volta conquistata una visio-ne dell'evoluzione creatrice, egli non può coerentementerinnegare le tappe più progredite del cammino dello spi-rito a profitto della più bassa. La sua intuizione filosofi-ca non si scava una comoda nicchia in uno strato alogi-co o prelogico dell'anima, per respingere tutto ciò che nesorpassa gli angusti limiti, ma traversa la zona dell'intel-letto e la sorpassa, per riconfermare e svolgere, attraver-so quella mediazione critica, la rivelazione della co-scienza immediata. Noi crediamo perciò di coglierne ilsenso più profondo – quello ch'è sfuggito ai bergsonianie in qualche modo allo stesso Bergson – ponendola sulpiano di un razionalismo speculativo.

La curva del pensiero bergsoniano ci rappresenta, iniscorcio, la più ampia curva che vien descrivendo tuttala filosofia francese contemporanea. Satura di un razio-nalismo astratto e impersonale che tre secoli di specula-zione le avevano istillato nel sangue, quella filosofia èesplosa, negli ultimi decenni, in una reazione violenta e

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figurazione un po' simbolica, lo spirito traversa la mate-ria, per possedersi più compiutamente come spirito.

Dovremo dir lo stesso dei rapporti tra l'intuizione el'intelletto? È qui che in fondo volevamo arrivare.L'intuizionismo irrazionalistico del Bergson non rappre-senta che una fase iniziale e provvisoria della sua dottri-na; è come una difesa con cui egli ha protetto la nascen-te concezione energetica dello spirito dagli attacchidell'intellettualismo scientifico e del piatto razionalismofilosofico francese. Ma, una volta conquistata una visio-ne dell'evoluzione creatrice, egli non può coerentementerinnegare le tappe più progredite del cammino dello spi-rito a profitto della più bassa. La sua intuizione filosofi-ca non si scava una comoda nicchia in uno strato alogi-co o prelogico dell'anima, per respingere tutto ciò che nesorpassa gli angusti limiti, ma traversa la zona dell'intel-letto e la sorpassa, per riconfermare e svolgere, attraver-so quella mediazione critica, la rivelazione della co-scienza immediata. Noi crediamo perciò di coglierne ilsenso più profondo – quello ch'è sfuggito ai bergsonianie in qualche modo allo stesso Bergson – ponendola sulpiano di un razionalismo speculativo.

La curva del pensiero bergsoniano ci rappresenta, iniscorcio, la più ampia curva che vien descrivendo tuttala filosofia francese contemporanea. Satura di un razio-nalismo astratto e impersonale che tre secoli di specula-zione le avevano istillato nel sangue, quella filosofia èesplosa, negli ultimi decenni, in una reazione violenta e

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benefica contro il suo passato, contro la raison che, di-staccatasi dalle fonti della vita, aveva creato al di sopradi essa un tessuto di schemi e di formule. La scienceprimait la conscience. Con quella reazione, la coscienzaha preso il sopravvento, la filosofia ha ripreso contattocon la vita; ha ripreso il senso del concreto, dello spon-taneo, dell'immediato, del contingente, del nuovo. Que-sta riconquista s'è fatta a prezzo dell'intelletto, dellascienza: la conscience a primé la science. Ma vi sonooggi segni numerosi e non dubbi di un ritorno al razio-nalismo, o meglio di una tendenza verso un razionali-smo nuovo, che non riconsacri i vecchi schemi e nonannulli le recenti conquiste, ma contemperi e rinsaldi vi-cendevolmente l'intuizione e la ragione. È importantenotare che due recentissime storie del pensiero france-se181 esprimono questa identica tendenza; ed è caratteri-stico che una di esse, scritta da uno dei più chiari rap-presentanti della filosofia contemporanea (il Brunschwi-cg) sia dedicata al Bergson, non a titolo di genericoomaggio, ma come all'esponente maggiore del nuovoavviamento speculativo. «Il servigio capitale di cui la fi-losofia è debitrice a Bergson, scrive il Brunschwicg182, èche egli ci ha fatto uscire, in una volta, dal sec. XVIII edal XIX. Egli ha messo fuori contestazione il caratteresuperficiale e inconsistente del pseudorazionalismo al

181 PARODI, La philosophie contemporaine en France, Paris, Alcan, 19273;BRUNSCHVICG, Le progrès de la conscience dans la philosophie occidentale,ivi, 1927.

182 Op. cit., II, p. 693.

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benefica contro il suo passato, contro la raison che, di-staccatasi dalle fonti della vita, aveva creato al di sopradi essa un tessuto di schemi e di formule. La scienceprimait la conscience. Con quella reazione, la coscienzaha preso il sopravvento, la filosofia ha ripreso contattocon la vita; ha ripreso il senso del concreto, dello spon-taneo, dell'immediato, del contingente, del nuovo. Que-sta riconquista s'è fatta a prezzo dell'intelletto, dellascienza: la conscience a primé la science. Ma vi sonooggi segni numerosi e non dubbi di un ritorno al razio-nalismo, o meglio di una tendenza verso un razionali-smo nuovo, che non riconsacri i vecchi schemi e nonannulli le recenti conquiste, ma contemperi e rinsaldi vi-cendevolmente l'intuizione e la ragione. È importantenotare che due recentissime storie del pensiero france-se181 esprimono questa identica tendenza; ed è caratteri-stico che una di esse, scritta da uno dei più chiari rap-presentanti della filosofia contemporanea (il Brunschwi-cg) sia dedicata al Bergson, non a titolo di genericoomaggio, ma come all'esponente maggiore del nuovoavviamento speculativo. «Il servigio capitale di cui la fi-losofia è debitrice a Bergson, scrive il Brunschwicg182, èche egli ci ha fatto uscire, in una volta, dal sec. XVIII edal XIX. Egli ha messo fuori contestazione il caratteresuperficiale e inconsistente del pseudorazionalismo al

181 PARODI, La philosophie contemporaine en France, Paris, Alcan, 19273;BRUNSCHVICG, Le progrès de la conscience dans la philosophie occidentale,ivi, 1927.

182 Op. cit., II, p. 693.

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quale il Mill si richiamava per opporlo all'apologia ro-mantica dell'istinto... Grazie a Bergson, al di là del for-malismo dell'intelligenza e dell'incoscienza dell'istinto,la filosofia del XX secolo cammina verso ciò che erastata la base dello spiritualismo del XVIII secolo; l'unitàdella verità nella scienza e nella coscienza. Ma il XX se-colo non si può ricondurre al XVIII, puramente e sem-plicemente. Tra i due si pone tutto lo sviluppo della ri-flessione critica, che ha avuto per effetto di eliminare gliultimi impacci al movimento di un'intelligenza ascen-dente e conquistatrice.»

Questo giudizio è la conferma autorevole dell'inter-pretazione da noi data nelle pagine precedenti della filo-sofia bergsoniana, riveduta attraverso l'ultima fase dellasua evoluzione. Noi siamo confortati a concludere che,mentre il bergsonismo tramonta, il pensiero vivo diBergson gli sopravvive ed è ben lontano dall'aver esau-rito tutta la propria efficacia. In un passo citato dalBrunschwicg183, il nostro filosofo, dopo aver constatatogli enormi progressi della potenza fisica dell'uomo,compiuti per mezzo delle scienze della natura, scriveva:«Se si considera che ogni nuovo utensile, ogni nuovamacchina, è per noi un nuovo organo (un organo non èeffettivamente ed etimologicamente un utensile?), ci siaccorge che è proprio il corpo dell'uomo quello che si èingrandito in così breve tempo. Ma la sua anima – io183 BRUNSCHVICG, op. cit., pp. 694-95 (estratto da Séances et travaux de

l'Académie de sciences morales et politiques, Nouvelle serie, t. LXXI,1914, I, p. 132).

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quale il Mill si richiamava per opporlo all'apologia ro-mantica dell'istinto... Grazie a Bergson, al di là del for-malismo dell'intelligenza e dell'incoscienza dell'istinto,la filosofia del XX secolo cammina verso ciò che erastata la base dello spiritualismo del XVIII secolo; l'unitàdella verità nella scienza e nella coscienza. Ma il XX se-colo non si può ricondurre al XVIII, puramente e sem-plicemente. Tra i due si pone tutto lo sviluppo della ri-flessione critica, che ha avuto per effetto di eliminare gliultimi impacci al movimento di un'intelligenza ascen-dente e conquistatrice.»

Questo giudizio è la conferma autorevole dell'inter-pretazione da noi data nelle pagine precedenti della filo-sofia bergsoniana, riveduta attraverso l'ultima fase dellasua evoluzione. Noi siamo confortati a concludere che,mentre il bergsonismo tramonta, il pensiero vivo diBergson gli sopravvive ed è ben lontano dall'aver esau-rito tutta la propria efficacia. In un passo citato dalBrunschwicg183, il nostro filosofo, dopo aver constatatogli enormi progressi della potenza fisica dell'uomo,compiuti per mezzo delle scienze della natura, scriveva:«Se si considera che ogni nuovo utensile, ogni nuovamacchina, è per noi un nuovo organo (un organo non èeffettivamente ed etimologicamente un utensile?), ci siaccorge che è proprio il corpo dell'uomo quello che si èingrandito in così breve tempo. Ma la sua anima – io183 BRUNSCHVICG, op. cit., pp. 694-95 (estratto da Séances et travaux de

l'Académie de sciences morales et politiques, Nouvelle serie, t. LXXI,1914, I, p. 132).

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parlo dell'anima individuale e dell'anima sociale – haacquistato forse nello stesso tempo il supplemento diforze necessarie per governare questo corpo subitamentee prodigiosamente ingigantito? E i formidabili problemidavanti ai quali noi oggi ci troviamo, non sono nati, ingran parte almeno, da questa sproporzione?». È un pas-so che io lascio alla seria meditazione del lettore, re-stringendomi qui a segnalare nel Bergson uno di queigrandi maestri di vita spirituale, che più hanno giovato epossono giovare tuttora a colmare quella sproporzio-ne184.

L'ultimo dei tre libri ricordati, Les deux sources de lamorale et de la religion, c'introduce ai problemi dellavita morale e religiosa. Ritroviamo qui il Bergson a noigià noto, coi suoi schemi ingegnosi: morale statica e

184 Sono lieto di poter qui trascrivere una nota con cui il Croce sottolineava neLa Critica, la mia interpretazione della filosofia bergsoniana:

«A conferma del giudizio, che qui è dato, sulla necessaria dialettica allaquale conduce il concetto bergsoniano dell'ʻintuizioneʼ, dirò che, avendo ioor son ventitré anni, nel mio saggio sullo Hegel (1906), affermato appuntoquesto (v. 3a ed., pp. 141-42), e dimostrato che il Bergson rifaceva in nuovimodi contro l'intelletto astratto una critica già fatta dall'idealismo classico edallo Hegel, ma che lo Hegel progrediva oltre l'intuizione e fondava la suacritica sopra un nuovo ʻconcetto del concettoʼ, ebbi poi, a questo proposito,col Bergson, nel 1911, a Bologna, una importante conversazione. Il Berg-son mi espresse maraviglia che io avessi potuto connettere la sua posizionecon quella dello Hegel, ʻche era un intellettualistaʼ, e io gli risposi che, percontrario, lo Hegel era un ʻantintellettualistaʼ, e che bisognava stare attentia non attingere la notizia del suo pensiero dalle frigide esposizioni che neerano state fatte, e neppure dalle esteriorità sistematiche, ma dall'acqua cor-rente e dalla fonte, e anzitutto dalla Fenomenologia. Il Bergson mi disseche queste indicazioni gli suscitavano molto interesse e che egli, fin allora,non aveva studiato direttamente l'opera hegeliana».

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parlo dell'anima individuale e dell'anima sociale – haacquistato forse nello stesso tempo il supplemento diforze necessarie per governare questo corpo subitamentee prodigiosamente ingigantito? E i formidabili problemidavanti ai quali noi oggi ci troviamo, non sono nati, ingran parte almeno, da questa sproporzione?». È un pas-so che io lascio alla seria meditazione del lettore, re-stringendomi qui a segnalare nel Bergson uno di queigrandi maestri di vita spirituale, che più hanno giovato epossono giovare tuttora a colmare quella sproporzio-ne184.

L'ultimo dei tre libri ricordati, Les deux sources de lamorale et de la religion, c'introduce ai problemi dellavita morale e religiosa. Ritroviamo qui il Bergson a noigià noto, coi suoi schemi ingegnosi: morale statica e

184 Sono lieto di poter qui trascrivere una nota con cui il Croce sottolineava neLa Critica, la mia interpretazione della filosofia bergsoniana:

«A conferma del giudizio, che qui è dato, sulla necessaria dialettica allaquale conduce il concetto bergsoniano dell'ʻintuizioneʼ, dirò che, avendo ioor son ventitré anni, nel mio saggio sullo Hegel (1906), affermato appuntoquesto (v. 3a ed., pp. 141-42), e dimostrato che il Bergson rifaceva in nuovimodi contro l'intelletto astratto una critica già fatta dall'idealismo classico edallo Hegel, ma che lo Hegel progrediva oltre l'intuizione e fondava la suacritica sopra un nuovo ʻconcetto del concettoʼ, ebbi poi, a questo proposito,col Bergson, nel 1911, a Bologna, una importante conversazione. Il Berg-son mi espresse maraviglia che io avessi potuto connettere la sua posizionecon quella dello Hegel, ʻche era un intellettualistaʼ, e io gli risposi che, percontrario, lo Hegel era un ʻantintellettualistaʼ, e che bisognava stare attentia non attingere la notizia del suo pensiero dalle frigide esposizioni che neerano state fatte, e neppure dalle esteriorità sistematiche, ma dall'acqua cor-rente e dalla fonte, e anzitutto dalla Fenomenologia. Il Bergson mi disseche queste indicazioni gli suscitavano molto interesse e che egli, fin allora,non aveva studiato direttamente l'opera hegeliana».

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morale dinamica, religione cristallizzata e religionecreatrice, variazioni nuove sull'antitesi familiare dellospazio e del tempo, della materia meccanica e delloslancio vitale. Ma Bergson è sempre, oggi come prima,il pensatore che non si esaurisce nello schema e sa dar-gli un contenuto e un tono sempre nuovi, sì che anchel'interesse del lettore si rinnova continuamente e assapo-ra il piacere dell'imprevisto, abbastanza raro in tema difilosofia.

La sua etica considera l'obbligazione come espressio-ne di una morale inferiore, essenzialmente statica, detta-ta dalla società. Non si può vivere la vita di tutti i giornisenza obbedire a certe prescrizioni. Una scelta s'imponein ogni istante, e noi optiamo naturalmente per ciò ch'èconforme alla regola. Noi non ne abbiamo quasi co-scienza e non facciamo quasi sforzo. «Una via è statatracciata dalla società, noi la troviamo aperta innanzi anoi e la seguiamo; occorrerebbe maggiore iniziativa perprendere una scorciatoia attraverso i campi. Il dovere,così inteso, si compie quasi sempre automaticamente, el'obbedienza al dovere, nei casi più frequenti, si potreb-be definire come un lasciarsi andare o un abbandono»185.Come si spiega allora che questa obbedienza appare alcontrario come uno stato di tensione e il dovere stessouna cosa rigida e dura? Son casi eccezionali, risponde ilBergson, e, per la solidarietà dei doveri tra loro, essi

185 BERGSON, Les deux sources de la morale et de la religion, Paris, 1932, p.13.

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morale dinamica, religione cristallizzata e religionecreatrice, variazioni nuove sull'antitesi familiare dellospazio e del tempo, della materia meccanica e delloslancio vitale. Ma Bergson è sempre, oggi come prima,il pensatore che non si esaurisce nello schema e sa dar-gli un contenuto e un tono sempre nuovi, sì che anchel'interesse del lettore si rinnova continuamente e assapo-ra il piacere dell'imprevisto, abbastanza raro in tema difilosofia.

La sua etica considera l'obbligazione come espressio-ne di una morale inferiore, essenzialmente statica, detta-ta dalla società. Non si può vivere la vita di tutti i giornisenza obbedire a certe prescrizioni. Una scelta s'imponein ogni istante, e noi optiamo naturalmente per ciò ch'èconforme alla regola. Noi non ne abbiamo quasi co-scienza e non facciamo quasi sforzo. «Una via è statatracciata dalla società, noi la troviamo aperta innanzi anoi e la seguiamo; occorrerebbe maggiore iniziativa perprendere una scorciatoia attraverso i campi. Il dovere,così inteso, si compie quasi sempre automaticamente, el'obbedienza al dovere, nei casi più frequenti, si potreb-be definire come un lasciarsi andare o un abbandono»185.Come si spiega allora che questa obbedienza appare alcontrario come uno stato di tensione e il dovere stessouna cosa rigida e dura? Son casi eccezionali, risponde ilBergson, e, per la solidarietà dei doveri tra loro, essi

185 BERGSON, Les deux sources de la morale et de la religion, Paris, 1932, p.13.

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danno il loro colorito a tutti gli altri. In esseri dotati diistinti sociali, come le formiche e le api, questi, che pernoi sono doveri, non sono che atti automatici, mediantei quali la specie si conserva negli individui; per noi, chesiamo «lestés de variabilité et d'intelligence» la necessi-tà prende la souplesse dell'obbligazione. Ma, in ognicaso, la vita sociale è egualmente immanente all'istintocome all'intelligenza; e che gli uomini giustifichino in-nanzi alla propria coscienza i loro doveri, non significache questi abbiano una natura di ordine razionale. «Al-tra cosa è una tendenza, naturale o acquisita, altra è ilmetodo, necessariamente razionale, che s'impiegheràper renderle la sua forza e per combattere ciò che vi sioppone»186. Più, dunque, si guarda alla fonte dell'obbli-gazione più la si confonde con la necessità e la si riavvi-cina all'istinto – o meglio, a un surrogato intelligentedell'istinto.

Ma, di fronte a questa morale del formicaio umano,v'è quella del genio etico che spontaneamente si prodi-ga, che non impone prescrizioni, e la cui vita stessa è unappello, un esempio. Tra le due, v'è differenza di natura,come tra la società e l'umanità. La prima è quella a cuipensiamo ordinariamente quando ci sentiamo obbligati.Però, al di sopra di questi doveri ben precisi, noi amia-mo di rappresentarcene altri, più fluenti, che vi si so-vrappongono: dono di sé, spirito di sacrifizio, carità, talisono le parole che pronunziamo quando pensiamo ad

186 Ibid., p. 16.

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danno il loro colorito a tutti gli altri. In esseri dotati diistinti sociali, come le formiche e le api, questi, che pernoi sono doveri, non sono che atti automatici, mediantei quali la specie si conserva negli individui; per noi, chesiamo «lestés de variabilité et d'intelligence» la necessi-tà prende la souplesse dell'obbligazione. Ma, in ognicaso, la vita sociale è egualmente immanente all'istintocome all'intelligenza; e che gli uomini giustifichino in-nanzi alla propria coscienza i loro doveri, non significache questi abbiano una natura di ordine razionale. «Al-tra cosa è una tendenza, naturale o acquisita, altra è ilmetodo, necessariamente razionale, che s'impiegheràper renderle la sua forza e per combattere ciò che vi sioppone»186. Più, dunque, si guarda alla fonte dell'obbli-gazione più la si confonde con la necessità e la si riavvi-cina all'istinto – o meglio, a un surrogato intelligentedell'istinto.

Ma, di fronte a questa morale del formicaio umano,v'è quella del genio etico che spontaneamente si prodi-ga, che non impone prescrizioni, e la cui vita stessa è unappello, un esempio. Tra le due, v'è differenza di natura,come tra la società e l'umanità. La prima è quella a cuipensiamo ordinariamente quando ci sentiamo obbligati.Però, al di sopra di questi doveri ben precisi, noi amia-mo di rappresentarcene altri, più fluenti, che vi si so-vrappongono: dono di sé, spirito di sacrifizio, carità, talisono le parole che pronunziamo quando pensiamo ad

186 Ibid., p. 16.

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essi. Tra le due morali corre la stessa distanza che v'è trail riposo e il movimento. La prima è ritenuta immutevo-le, e, se anche muta, non confessa di aver cambiato o lodimentica. La forma che essa presenta in qualunque mo-mento dato ha la pretesa di essere definitiva. Ma l'altra èuna spinta, una esigenza di movimento. Ponete la prima,e voi non ne farete uscire la seconda, non più che da unao più posizioni di un mobile possiate trarre il movimen-to. Al contrario, il movimento include l'immobilità, poi-ché ciascuna posizione traversata dal mobile può esserconcepita ed anche percepita come un arresto virtuale.«Del resto, non c'è bisogno di una dimostrazione in re-gola: la superiorità è vissuta prima di essere rappresen-tata. Ed è una differenza di tono vitale. Colui che praticaregolarmente la morale della città prova quel sentimentodi benessere, comune all'individuo e alla società, chemanifesta le interferenze reciproche delle resistenze ma-teriali. Ma l'anima che si apre, ed agli occhi della qualegli ostacoli materiali cadono, è piena di gioia. Piacere ebenessere sono qualche cosa, ma la gioia è assai più.L'una infatti non è contenuta negli altri, bensì gli altri,virtualmente, in essa. Quelli sono arresti o segnano ilpasso, mentre essa si muove in avanti»187. Le grandi fi-gure morali che hanno lasciato la loro impronta nellastoria si danno la mano al di sopra dei secoli o al di so-pra delle città umane: insieme, compongono una cittàdivina in cui c'invitano ad entrare. Noi possiamo non in-

187 Ibid., p. 56.

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essi. Tra le due morali corre la stessa distanza che v'è trail riposo e il movimento. La prima è ritenuta immutevo-le, e, se anche muta, non confessa di aver cambiato o lodimentica. La forma che essa presenta in qualunque mo-mento dato ha la pretesa di essere definitiva. Ma l'altra èuna spinta, una esigenza di movimento. Ponete la prima,e voi non ne farete uscire la seconda, non più che da unao più posizioni di un mobile possiate trarre il movimen-to. Al contrario, il movimento include l'immobilità, poi-ché ciascuna posizione traversata dal mobile può esserconcepita ed anche percepita come un arresto virtuale.«Del resto, non c'è bisogno di una dimostrazione in re-gola: la superiorità è vissuta prima di essere rappresen-tata. Ed è una differenza di tono vitale. Colui che praticaregolarmente la morale della città prova quel sentimentodi benessere, comune all'individuo e alla società, chemanifesta le interferenze reciproche delle resistenze ma-teriali. Ma l'anima che si apre, ed agli occhi della qualegli ostacoli materiali cadono, è piena di gioia. Piacere ebenessere sono qualche cosa, ma la gioia è assai più.L'una infatti non è contenuta negli altri, bensì gli altri,virtualmente, in essa. Quelli sono arresti o segnano ilpasso, mentre essa si muove in avanti»187. Le grandi fi-gure morali che hanno lasciato la loro impronta nellastoria si danno la mano al di sopra dei secoli o al di so-pra delle città umane: insieme, compongono una cittàdivina in cui c'invitano ad entrare. Noi possiamo non in-

187 Ibid., p. 56.

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tendere distintamente la loro voce; ma l'appello è lancia-to, e qualcosa vi risponde sempre dal fondo della nostraanima188.

Questa città divina e mistica non ha, evidentemente,contorni precisi e istituzioni fisse, come la città terrena.«L'aspirazione pura è un limite ideale come l'obbliga-zione nuda. Ma non è men vero che sono le anime misti-che quelle che hanno trascinato e continuano a trascina-re nel loro movimento le società civilizzate»189. È quil'aspetto più interessante e più nuovo dell'etica del Berg-son. Se nelle Données e nell'Évolution créatrice egli sicompiaceva di esasperare l'antitesi tra lo statico e il di-namico, qui egli comincia a sentire l'esigenza dialetticadi una sintesi. Fra una mera obbligazione infra-razionalee uno slancio super-razionale, posti come limiti idealiestremi della vita morale, egli comincia a intendere laforza mediatrice dell'intelligenza, che, trasferendo gliopposti sul piano della società storica, contempera laconservazione col progresso, l'arresto col movimento.«La giustizia viene così senza posa allargata dalla carità;la carità prende di più in più la forma della semplicegiustizia... L'umanità è invitata a porsi a un livello deter-minato – più alto di una società animale, dove l'obbliga-zione non sarebbe che la forza dell'istinto, ma meno altodi un'assemblea di dèi, dove tutto sarebbe slancio crea-tore. Considerando allora le manifestazioni della vita

188 Ibid., p. 66.189 Ibid., p. 84.

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tendere distintamente la loro voce; ma l'appello è lancia-to, e qualcosa vi risponde sempre dal fondo della nostraanima188.

Questa città divina e mistica non ha, evidentemente,contorni precisi e istituzioni fisse, come la città terrena.«L'aspirazione pura è un limite ideale come l'obbliga-zione nuda. Ma non è men vero che sono le anime misti-che quelle che hanno trascinato e continuano a trascina-re nel loro movimento le società civilizzate»189. È quil'aspetto più interessante e più nuovo dell'etica del Berg-son. Se nelle Données e nell'Évolution créatrice egli sicompiaceva di esasperare l'antitesi tra lo statico e il di-namico, qui egli comincia a sentire l'esigenza dialetticadi una sintesi. Fra una mera obbligazione infra-razionalee uno slancio super-razionale, posti come limiti idealiestremi della vita morale, egli comincia a intendere laforza mediatrice dell'intelligenza, che, trasferendo gliopposti sul piano della società storica, contempera laconservazione col progresso, l'arresto col movimento.«La giustizia viene così senza posa allargata dalla carità;la carità prende di più in più la forma della semplicegiustizia... L'umanità è invitata a porsi a un livello deter-minato – più alto di una società animale, dove l'obbliga-zione non sarebbe che la forza dell'istinto, ma meno altodi un'assemblea di dèi, dove tutto sarebbe slancio crea-tore. Considerando allora le manifestazioni della vita

188 Ibid., p. 66.189 Ibid., p. 84.

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morale così organizzata, le si troverà perfettamente coe-renti tra loro, e capaci per conseguenza di essere ricon-dotte a princìpi determinati. La vita morale sarà una vitarazionale»190.

Analoga è la ricerca delle due fonti della religione,che si svolge parallelamente a quella della morale, senzainterferenze reciproche, in modo che il lettore resta per-plesso sui caratteri differenziali dell'una e dell'altra. IlBergson si attiene, nei due casi, al metodo introspettivodell'osservazione psicologica; pure, su questo stesso pia-no empirico, poiché si presentano di fatto nella coscien-za non poche interferenze tra moralità e religione, sareb-be stato opportuno uno studio comparativo delle dueforme di esperienza. Anche nel caso della religione ilBergson, benché non lo soccorra qui l'analogia con glianimali inferiori, che non presentano nulla di compara-bile con un'esperienza religiosa, cerca di fondarsi suqualcosa di naturale o d'istintivo. L'uomo, egli dice, è ilsolo essere che si senta soggetto alla malattia e che sap-pia di dover morire, mentre tutto il resto della natura siespande in una tranquillità perfetta. Inoltre, di tutti gliesseri viventi in società l'uomo è il solo che possa devia-re dalla linea sociale, cedendo a preoccupazioni egoisti-che, mentre è in causa il bene comune; altrove l'interes-se individuale è dovunque coordinato e subordinato algenerale. Ora la natura, che ha dato all'uomo, con l'intel-ligenza, quelle preoccupazioni e quelle deviazioni, gli

190 Ibid., p. 85.

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morale così organizzata, le si troverà perfettamente coe-renti tra loro, e capaci per conseguenza di essere ricon-dotte a princìpi determinati. La vita morale sarà una vitarazionale»190.

Analoga è la ricerca delle due fonti della religione,che si svolge parallelamente a quella della morale, senzainterferenze reciproche, in modo che il lettore resta per-plesso sui caratteri differenziali dell'una e dell'altra. IlBergson si attiene, nei due casi, al metodo introspettivodell'osservazione psicologica; pure, su questo stesso pia-no empirico, poiché si presentano di fatto nella coscien-za non poche interferenze tra moralità e religione, sareb-be stato opportuno uno studio comparativo delle dueforme di esperienza. Anche nel caso della religione ilBergson, benché non lo soccorra qui l'analogia con glianimali inferiori, che non presentano nulla di compara-bile con un'esperienza religiosa, cerca di fondarsi suqualcosa di naturale o d'istintivo. L'uomo, egli dice, è ilsolo essere che si senta soggetto alla malattia e che sap-pia di dover morire, mentre tutto il resto della natura siespande in una tranquillità perfetta. Inoltre, di tutti gliesseri viventi in società l'uomo è il solo che possa devia-re dalla linea sociale, cedendo a preoccupazioni egoisti-che, mentre è in causa il bene comune; altrove l'interes-se individuale è dovunque coordinato e subordinato algenerale. Ora la natura, che ha dato all'uomo, con l'intel-ligenza, quelle preoccupazioni e quelle deviazioni, gli

190 Ibid., p. 85.

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ha dato anche la possibilità e il modo di compensarle, inguisa che la tendenza all'ordine si manifesti automatica-mente. È così che la religione, sotto forma di fonctionfabulatrice, interviene: essa dunque «è una reazione di-fensiva della natura contro ciò che vi potrebbe essere dideprimente per l'individuo e di dissolvente per la societànell'esercizio dell'intelligenza»191. Insomma la religioneè destinata a colmare, in esseri dotati di riflessione, undeficit eventuale di attaccamento alla vita; e adempie aquesto compito raccontando all'uomo delle storie para-gonabili a quelle con cui si cullano i fanciulli. La fontedella religione – si parla qui della religione statica, natu-ralmente – è pertanto l'immaginazione; ma ci son dueprodotti distinti di questa attività. Le favole della reli-gione hanno un carattere di necessità che manca alle al-tre: esse contraffanno la realtà percepita in modo da pro-lungarsi in azioni, mentre le altre possono restare allostato d'idee192.

Di fronte a questa religione statica, di cui il Bergsonci dà analisi molto più particolareggiate e sottili che sia-mo costretti a tralasciare, la religione dinamica è slanciomistico dell'anima, che coincide, almeno parzialmente,con lo sforzo creatore «che muove da Dio, se non è Diostesso». L'amore che consuma il mistico non è più sem-plicemente l'amore dell'uomo per Dio, ma è l'amorestesso di Dio per tutti gli uomini. Ma anche qui, come

191 Ibid., p. 219.192 Ibid., p. 225.

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ha dato anche la possibilità e il modo di compensarle, inguisa che la tendenza all'ordine si manifesti automatica-mente. È così che la religione, sotto forma di fonctionfabulatrice, interviene: essa dunque «è una reazione di-fensiva della natura contro ciò che vi potrebbe essere dideprimente per l'individuo e di dissolvente per la societànell'esercizio dell'intelligenza»191. Insomma la religioneè destinata a colmare, in esseri dotati di riflessione, undeficit eventuale di attaccamento alla vita; e adempie aquesto compito raccontando all'uomo delle storie para-gonabili a quelle con cui si cullano i fanciulli. La fontedella religione – si parla qui della religione statica, natu-ralmente – è pertanto l'immaginazione; ma ci son dueprodotti distinti di questa attività. Le favole della reli-gione hanno un carattere di necessità che manca alle al-tre: esse contraffanno la realtà percepita in modo da pro-lungarsi in azioni, mentre le altre possono restare allostato d'idee192.

Di fronte a questa religione statica, di cui il Bergsonci dà analisi molto più particolareggiate e sottili che sia-mo costretti a tralasciare, la religione dinamica è slanciomistico dell'anima, che coincide, almeno parzialmente,con lo sforzo creatore «che muove da Dio, se non è Diostesso». L'amore che consuma il mistico non è più sem-plicemente l'amore dell'uomo per Dio, ma è l'amorestesso di Dio per tutti gli uomini. Ma anche qui, come

191 Ibid., p. 219.192 Ibid., p. 225.

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nell'etica, si dà una fusione delle due forme di religiosi-tà, per cui la religione assume l'aspetto di una «cristal-lizzazione, per mezzo di un raffreddamento graduale, diciò che il misticismo vien depositando, ancora in istatoincandescente, nell'anima dell'umanità»193. In questosenso la religione sta al misticismo come la volgarizza-zione alla scienza.

Da questo breve saggio si può già vedere quantos'ingannassero quei bergsoniani – tipo Chevalier – che,integrando per proprio conto la dottrina ancora incom-piuta del Bergson, pretendevano imporle un cappelloteologico di vecchio stile. Bergson invece, nella sua fi-losofia della religione, non esce dai limiti dell'esperien-za religiosa e dello slancio vitale: di Dio egli ci dice nonpiù di quanto si può argomentare dal movimento stessodell'anima verso di lui. E s'ingannavano egualmente co-loro che credevano di poter trarre dal bergsonismo con-seguenze politiche e sociali di stile «nazionalistico» e«attivistico». Essi prendevano troppo au pied de lalettre le formule irrazionalistiche del loro autore, senzapensare che dietro di esse vi era un tormentato pensieroche, nell'esasperarle, si affermava mentre credeva dieclissarsi. Una raffinata e intelligente critica dell'intelli-genza è stata scambiata così con un ideale d'irrazionali-smo quasi ferino. Giungono pertanto molto opportune leconsiderazioni politiche del capitolo conclusivodell'opera che qui consideriamo, dalle quali impariamo a

193 Ibid., p. 254.

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nell'etica, si dà una fusione delle due forme di religiosi-tà, per cui la religione assume l'aspetto di una «cristal-lizzazione, per mezzo di un raffreddamento graduale, diciò che il misticismo vien depositando, ancora in istatoincandescente, nell'anima dell'umanità»193. In questosenso la religione sta al misticismo come la volgarizza-zione alla scienza.

Da questo breve saggio si può già vedere quantos'ingannassero quei bergsoniani – tipo Chevalier – che,integrando per proprio conto la dottrina ancora incom-piuta del Bergson, pretendevano imporle un cappelloteologico di vecchio stile. Bergson invece, nella sua fi-losofia della religione, non esce dai limiti dell'esperien-za religiosa e dello slancio vitale: di Dio egli ci dice nonpiù di quanto si può argomentare dal movimento stessodell'anima verso di lui. E s'ingannavano egualmente co-loro che credevano di poter trarre dal bergsonismo con-seguenze politiche e sociali di stile «nazionalistico» e«attivistico». Essi prendevano troppo au pied de lalettre le formule irrazionalistiche del loro autore, senzapensare che dietro di esse vi era un tormentato pensieroche, nell'esasperarle, si affermava mentre credeva dieclissarsi. Una raffinata e intelligente critica dell'intelli-genza è stata scambiata così con un ideale d'irrazionali-smo quasi ferino. Giungono pertanto molto opportune leconsiderazioni politiche del capitolo conclusivodell'opera che qui consideriamo, dalle quali impariamo a

193 Ibid., p. 254.

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conoscere un Bergson umanitario, antisciovinista, criti-co acuto della civiltà industriale: un Bergson insomma ilquale ci conferma ancora una volta che la cultura, quan-do è piena e schietta cultura e non imparaticcio verbale,non può esser mai mortificatrice dell'umanità.

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conoscere un Bergson umanitario, antisciovinista, criti-co acuto della civiltà industriale: un Bergson insomma ilquale ci conferma ancora una volta che la cultura, quan-do è piena e schietta cultura e non imparaticcio verbale,non può esser mai mortificatrice dell'umanità.

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LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ E I SUOI SVILUPPI

FILOSOFICI

È ormai un dato di fatto pacifico che la teoria dellarelatività di Einstein è una concezione scientifica, la cuiimportanza fisica e astronomica va esaminata e valutatadai cultori delle scienze della natura e non dagl'incom-petenti filosofi. Già alcuni anni or sono il Cassirer osser-vava che si fa a quella dottrina un cattivo servigio quan-do si cerca di convertire troppo immediatamente i suoidati in risultati filosofici e metafisici194, come hanno fat-to tutti coloro che l'hanno presa per una reincarnazionedella sofistica protagorea o per un superamento dellaCritica kantiana. A questi fraintendimenti molto ha con-tribuito la scarsa conoscenza che i filosofi avevano dellostato presente delle quistioni fisiche. Essi, che nonavrebbero neppur sognato di contestare la validità delleequazioni di Maxwell o della trasformazione di Lorentz,

194 E. CAASSIRER, Zur Einstein'schen Relativitätstheorie. Erkenntnis-theoretische Betrachtungen, Berlin, 1920, p. 75.

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LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ E I SUOI SVILUPPI

FILOSOFICI

È ormai un dato di fatto pacifico che la teoria dellarelatività di Einstein è una concezione scientifica, la cuiimportanza fisica e astronomica va esaminata e valutatadai cultori delle scienze della natura e non dagl'incom-petenti filosofi. Già alcuni anni or sono il Cassirer osser-vava che si fa a quella dottrina un cattivo servigio quan-do si cerca di convertire troppo immediatamente i suoidati in risultati filosofici e metafisici194, come hanno fat-to tutti coloro che l'hanno presa per una reincarnazionedella sofistica protagorea o per un superamento dellaCritica kantiana. A questi fraintendimenti molto ha con-tribuito la scarsa conoscenza che i filosofi avevano dellostato presente delle quistioni fisiche. Essi, che nonavrebbero neppur sognato di contestare la validità delleequazioni di Maxwell o della trasformazione di Lorentz,

194 E. CAASSIRER, Zur Einstein'schen Relativitätstheorie. Erkenntnis-theoretische Betrachtungen, Berlin, 1920, p. 75.

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si sono attaccati invece alla relatività come a un domi-nio proprio, forse perché erano più direttamente colpitidalle sottili argomentazioni sul tempo, sullo spazio, sul-la simultaneità, e dal senso paradossale di alcune affer-mazioni relativistiche, che rinfrescavano il ricordo delletesi zenoniane. Indagini storiche accurate, fatte da culto-ri di scienze fisiche, hanno mostrato che la teoria dellarelatività è tutt'altro che una novità improvvisa e impre-veduta – come, per dirla con un vecchio esempio, il col-po di pistola che fa voltar la gente nella strada –, ma è illogico epilogo di una serie di assidue ricerche, a cuihanno collaborato numerosi scienziati e matematici, dalMaxwell al Lorentz, al Riemann, al Ricci195, al Minkow-ski, ecc., e che il genio di Einstein ha fatto convergere inun unico foco.

Da queste premesse non bisogna tuttavia concludereche la filosofia sia tenuta a disinteressarsi della teoriadella relatività, ma soltanto che il suo interessamentodebba essere indiretto e mediato. Come dottrina dellascienza, essa ha il compito d'indagare il carattere, il sen-so e il valore del procedimento scientifico seguito dallascienza relativistica; come dottrina dei massimi princìpi,essa ha il diritto di giudicare se e quale assegnamentopossa farsi sul nuovo concetto del tempo-spazio, che lanuova scienza offre alla meditazione filosofica. Episte-mologia e metafisica sono di fatto le due grandi vie lun-

195 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: si tratta per la precisione diGregorio Ricci-Curbastro.

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si sono attaccati invece alla relatività come a un domi-nio proprio, forse perché erano più direttamente colpitidalle sottili argomentazioni sul tempo, sullo spazio, sul-la simultaneità, e dal senso paradossale di alcune affer-mazioni relativistiche, che rinfrescavano il ricordo delletesi zenoniane. Indagini storiche accurate, fatte da culto-ri di scienze fisiche, hanno mostrato che la teoria dellarelatività è tutt'altro che una novità improvvisa e impre-veduta – come, per dirla con un vecchio esempio, il col-po di pistola che fa voltar la gente nella strada –, ma è illogico epilogo di una serie di assidue ricerche, a cuihanno collaborato numerosi scienziati e matematici, dalMaxwell al Lorentz, al Riemann, al Ricci195, al Minkow-ski, ecc., e che il genio di Einstein ha fatto convergere inun unico foco.

Da queste premesse non bisogna tuttavia concludereche la filosofia sia tenuta a disinteressarsi della teoriadella relatività, ma soltanto che il suo interessamentodebba essere indiretto e mediato. Come dottrina dellascienza, essa ha il compito d'indagare il carattere, il sen-so e il valore del procedimento scientifico seguito dallascienza relativistica; come dottrina dei massimi princìpi,essa ha il diritto di giudicare se e quale assegnamentopossa farsi sul nuovo concetto del tempo-spazio, che lanuova scienza offre alla meditazione filosofica. Episte-mologia e metafisica sono di fatto le due grandi vie lun-

195 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: si tratta per la precisione diGregorio Ricci-Curbastro.

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go le quali s'è andata incamminando la speculazionepost-relativistica, specialmente nei paesi anglosassoni,francesi e tedeschi. E la produzione filosofica che s'è ve-nuta accumulando è così ricca, e così vivace è l'eccita-mento mentale suscitato dai nuovi problemi, che, sepure i risultati non fossero ancora apprezzabili, noi nonpotremmo metter da parte questi studi con uno sterilefin de non recevoir. Qualunque idea si abbia dei rapportiformali tra la scienza e la filosofia, giova non dimentica-re che la Critica della ragion pura e i Princìpi metafisi-ci della scienza della natura sono nati nella mente diKant dalla meditazione della meccanica newtoniana.

Un'esposizione sommaria, quale noi ci proponiamo difare, degli sviluppi filosofici della teoria della relatività,implica però un'esposizione almeno altrettanto somma-ria della teoria stessa. E questa è cosa molto più ardua diquanto non si creda. Le complicazioni delle formulematematiche non costituiscono, contro le apparenze, ilnodo principale della difficoltà; si può benissimo capireil senso della teoria della relatività, anche senza essereparticolarmente versati nelle matematiche superiori, maè malagevole ricostruire il valore mentale di certi pas-saggi, che il matematico è in grado di compiere facil-mente, con una mera sostituzione di formule, senza pre-occuparsi delle cose che si sottendono alle formule. Unmatematico definì la sua disciplina come quella «in cuinon si sa di che cosa si parla»; e gli espositori della teo-ria della relatività hanno fatto spesso tesoro di quella de-

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go le quali s'è andata incamminando la speculazionepost-relativistica, specialmente nei paesi anglosassoni,francesi e tedeschi. E la produzione filosofica che s'è ve-nuta accumulando è così ricca, e così vivace è l'eccita-mento mentale suscitato dai nuovi problemi, che, sepure i risultati non fossero ancora apprezzabili, noi nonpotremmo metter da parte questi studi con uno sterilefin de non recevoir. Qualunque idea si abbia dei rapportiformali tra la scienza e la filosofia, giova non dimentica-re che la Critica della ragion pura e i Princìpi metafisi-ci della scienza della natura sono nati nella mente diKant dalla meditazione della meccanica newtoniana.

Un'esposizione sommaria, quale noi ci proponiamo difare, degli sviluppi filosofici della teoria della relatività,implica però un'esposizione almeno altrettanto somma-ria della teoria stessa. E questa è cosa molto più ardua diquanto non si creda. Le complicazioni delle formulematematiche non costituiscono, contro le apparenze, ilnodo principale della difficoltà; si può benissimo capireil senso della teoria della relatività, anche senza essereparticolarmente versati nelle matematiche superiori, maè malagevole ricostruire il valore mentale di certi pas-saggi, che il matematico è in grado di compiere facil-mente, con una mera sostituzione di formule, senza pre-occuparsi delle cose che si sottendono alle formule. Unmatematico definì la sua disciplina come quella «in cuinon si sa di che cosa si parla»; e gli espositori della teo-ria della relatività hanno fatto spesso tesoro di quella de-

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finizione, dispensandosi dall'interpretare i loro simboli.Non potendo pertanto rimandare il lettore non matema-tico a nessuna esposizione intelligibile della dottrina, edovendo pur dargliene qualche cenno per dare un signi-ficato alle considerazioni epistemologiche che formanooggetto del nostro studio, siamo costretti a rischiare pernostro conto un'esposizione non-matematica.

La teoria della relatività si divide in due parti, specia-le e generale, la prima delle quali concerne i movimentiuniformi (dipendenti dal principio d'inerzia), la secondageneralizza i risultati della prima, estendendoli anche aimovimenti accelerati (dipendenti dal principio di gravi-tà), o meglio trova delle formule più generali, in cui siparificano le due specie di movimenti, che sembranorette da due leggi diverse.

La relatività speciale di Einstein non è a sua volta chel'estensione di un principio già noto nella meccanicaclassica col nome stesso di principio di relatività, checonsiste nel considerare come indifferente ed equivalen-te, rispetto alle leggi del moto, la condizione di riposo odi movimento rettilineo e uniforme di qualunque mobi-le. Questa relatività implicava tuttavia la permanenzadello spazio e del tempo come punti di riferimento delmoto: così il Newton, nelle sue applicazioni della mec-canica ai movimenti celesti, postulava l'immobilità asso-luta dello spazio e la costanza assoluta del tempo. Allanozione stessa del relativo pareva che fosse indispensa-bile un termine di rapporto assoluto; e tempo e spazio,

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finizione, dispensandosi dall'interpretare i loro simboli.Non potendo pertanto rimandare il lettore non matema-tico a nessuna esposizione intelligibile della dottrina, edovendo pur dargliene qualche cenno per dare un signi-ficato alle considerazioni epistemologiche che formanooggetto del nostro studio, siamo costretti a rischiare pernostro conto un'esposizione non-matematica.

La teoria della relatività si divide in due parti, specia-le e generale, la prima delle quali concerne i movimentiuniformi (dipendenti dal principio d'inerzia), la secondageneralizza i risultati della prima, estendendoli anche aimovimenti accelerati (dipendenti dal principio di gravi-tà), o meglio trova delle formule più generali, in cui siparificano le due specie di movimenti, che sembranorette da due leggi diverse.

La relatività speciale di Einstein non è a sua volta chel'estensione di un principio già noto nella meccanicaclassica col nome stesso di principio di relatività, checonsiste nel considerare come indifferente ed equivalen-te, rispetto alle leggi del moto, la condizione di riposo odi movimento rettilineo e uniforme di qualunque mobi-le. Questa relatività implicava tuttavia la permanenzadello spazio e del tempo come punti di riferimento delmoto: così il Newton, nelle sue applicazioni della mec-canica ai movimenti celesti, postulava l'immobilità asso-luta dello spazio e la costanza assoluta del tempo. Allanozione stessa del relativo pareva che fosse indispensa-bile un termine di rapporto assoluto; e tempo e spazio,

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infatti, elevati da lui a dignità di «sensori di Dio», costi-tuivano appunto delle condizioni assolute di tutte le re-lazioni fisiche. La meccanica celeste post-newtoniana,fino ad Einstein, è stata fedele a questi presupposti (senon alla illustrazione deistica di essi), sia che assumessecome costante la posizione delle stelle fisse, sia che po-stulasse un etere immobile, sia che immaginasse, colNaumann196, un invisibile corpo a, fisso nello spazio, acui si potessero riferire i moti relativi di tutti gli astri.

Il principio classico di relatività, testé accennato, haavuto un'incondizionata validità fino ai nostri tempi, o,più precisamente, fino a quando sono stati studiati deimovimenti abbastanza lenti, non esclusi quelli degliastri. Ma l'esame di movimenti celerissimi, come quellidell'elettricità e della luce, ha dimostrato l'insufficienzadel principio e ha fatto constatare delle divergenze note-voli nel comportamento di questi fenomeni. Le equazio-ni del Maxwell, che costituiscono le leggi dell'elettrodi-namica, non conservano la loro forma nel passaggio dauna condizione di riposo a una condizione di movimen-to. Similmente, la luce si propaga nel vuoto con una ve-locità costante, eguale per tutti i colori e qualunque siala velocità con cui si muove la sorgente luminosa. Que-sta costanza è stata indirettamente provata dal famosoesperimento di Michelson-Morley, che ha avuto una im-

196 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: così nel testo di ri-ferimento, ma si tratta con tutta probabilità di Franz ErnstNeumann (1798-1895).

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infatti, elevati da lui a dignità di «sensori di Dio», costi-tuivano appunto delle condizioni assolute di tutte le re-lazioni fisiche. La meccanica celeste post-newtoniana,fino ad Einstein, è stata fedele a questi presupposti (senon alla illustrazione deistica di essi), sia che assumessecome costante la posizione delle stelle fisse, sia che po-stulasse un etere immobile, sia che immaginasse, colNaumann196, un invisibile corpo a, fisso nello spazio, acui si potessero riferire i moti relativi di tutti gli astri.

Il principio classico di relatività, testé accennato, haavuto un'incondizionata validità fino ai nostri tempi, o,più precisamente, fino a quando sono stati studiati deimovimenti abbastanza lenti, non esclusi quelli degliastri. Ma l'esame di movimenti celerissimi, come quellidell'elettricità e della luce, ha dimostrato l'insufficienzadel principio e ha fatto constatare delle divergenze note-voli nel comportamento di questi fenomeni. Le equazio-ni del Maxwell, che costituiscono le leggi dell'elettrodi-namica, non conservano la loro forma nel passaggio dauna condizione di riposo a una condizione di movimen-to. Similmente, la luce si propaga nel vuoto con una ve-locità costante, eguale per tutti i colori e qualunque siala velocità con cui si muove la sorgente luminosa. Que-sta costanza è stata indirettamente provata dal famosoesperimento di Michelson-Morley, che ha avuto una im-

196 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: così nel testo di ri-ferimento, ma si tratta con tutta probabilità di Franz ErnstNeumann (1798-1895).

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Page 193: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

portanza decisiva nella genesi della teoria della relativi-tà. Gli sperimentatori movevano dal presupposto dellameccanica classica, che la propagazione della luce fosserelativa alla quiete e al movimento della sorgente lumi-nosa; quindi pensavano che un raggio luminoso, moven-tesi nel senso del moto della terra, avesse una velocitàmaggiore di un altro raggio che si propagasse lungo unadirezione normale a quella del primo; e con un dispositi-vo di specchi che rimandavano indietro i due raggi, cre-devano di poter misurare la differenza delle rispettivevelocità, mercé l'esame delle frange d'interferenza deiraggi stessi. Invece l'esperienza, ripetuta nelle condizio-ni più diverse e con strumenti sempre più perfetti, diedesempre risultati negativi, offrendo così l'indiretta provadell'indipendenza della velocità della luce da quella del-la sorgente luminosa. Per spiegare questa anomalia, unfisico, il FitzGerald, formulò l'ipotesi che un corpo inmoto subisse una contrazione nel senso stesso del suomovimento; ma tale ipotesi sembrò ad alcuni arbitraria egratuita, simile a «un dono dall'alto», com'ebbe a dire ilMinkowski. Einstein sentì per primo l'importanza delproblema che l'esperienza di Michelson-Morley aprivaal pensiero scientifico. Da una parte v'era un principio digrande autorità, dall'altra un dato di fatto che vi contrad-diceva: abbandonar l'uno non era possibile, perché con-tinuava ad essere adeguato a tutta una serie di fenomeni;per rinunziare all'altro sarebbe stata necessaria unasmentita sperimentale, mentre al contrario tutte le espe-rienze lo confermavano; accettar l'uno e l'altro significa-

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portanza decisiva nella genesi della teoria della relativi-tà. Gli sperimentatori movevano dal presupposto dellameccanica classica, che la propagazione della luce fosserelativa alla quiete e al movimento della sorgente lumi-nosa; quindi pensavano che un raggio luminoso, moven-tesi nel senso del moto della terra, avesse una velocitàmaggiore di un altro raggio che si propagasse lungo unadirezione normale a quella del primo; e con un dispositi-vo di specchi che rimandavano indietro i due raggi, cre-devano di poter misurare la differenza delle rispettivevelocità, mercé l'esame delle frange d'interferenza deiraggi stessi. Invece l'esperienza, ripetuta nelle condizio-ni più diverse e con strumenti sempre più perfetti, diedesempre risultati negativi, offrendo così l'indiretta provadell'indipendenza della velocità della luce da quella del-la sorgente luminosa. Per spiegare questa anomalia, unfisico, il FitzGerald, formulò l'ipotesi che un corpo inmoto subisse una contrazione nel senso stesso del suomovimento; ma tale ipotesi sembrò ad alcuni arbitraria egratuita, simile a «un dono dall'alto», com'ebbe a dire ilMinkowski. Einstein sentì per primo l'importanza delproblema che l'esperienza di Michelson-Morley aprivaal pensiero scientifico. Da una parte v'era un principio digrande autorità, dall'altra un dato di fatto che vi contrad-diceva: abbandonar l'uno non era possibile, perché con-tinuava ad essere adeguato a tutta una serie di fenomeni;per rinunziare all'altro sarebbe stata necessaria unasmentita sperimentale, mentre al contrario tutte le espe-rienze lo confermavano; accettar l'uno e l'altro significa-

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va rinunciare a ogni criterio unitario nell'interpretazionedei fenomeni. L'unica soluzione plausibile sarebbe statadi escogitare una formulazione nuova del principio direlatività, che includesse anche il fenomeno ribelle. Talesoluzione costituisce appunto la dottrina einsteniana del-la relatività (ristretta, cioè limitata ai movimenti unifor-mi)197.

A differenza del principio classico di relatività, chepresupponeva la costanza degl'intervalli temporali e spa-ziali, quello di Einstein considera come relativi lo stessospazio e lo stesso tempo. Ogni sistema di riferimento hala sua propria misura delle distanze spaziali e degl'inter-valli temporali; e le misure non coincidono, quando queisistemi son diversi. Lo spazio misurato da un osservato-re in riposo differisce da quello che è misurato da un os-servatore in movimento; e lo stesso può dirsi del tempo.Due avvenimenti, contemporanei per il primo di essi,sono successivi per il secondo. Tutto ciò può darl'impressione a un terzo, che considera dall'esterno quel-la differenza, che il tempo e lo spazio effettivamente siaccorciano e si allungano, come se fossero delle materieelastiche, mentre invece non si tratta che di mutamentidi prospettive. Ma le variazioni del tempo e dello spazionon vanno intese come se ciascuna si effettuasse per sé,indipendentemente dall'altra. In realtà esse sono inter-relate. Poiché la velocità-limite con cui i fenomeni si197 EINSTEIN, Sulla teoria speciale e generale della relatività, trad. ital., Bolo-

gna, 1921, pp. 14 e sgg.; R. MARCOLONGO, Relatività, Messina, 19232, pp.63, 210, 212 e sgg.

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va rinunciare a ogni criterio unitario nell'interpretazionedei fenomeni. L'unica soluzione plausibile sarebbe statadi escogitare una formulazione nuova del principio direlatività, che includesse anche il fenomeno ribelle. Talesoluzione costituisce appunto la dottrina einsteniana del-la relatività (ristretta, cioè limitata ai movimenti unifor-mi)197.

A differenza del principio classico di relatività, chepresupponeva la costanza degl'intervalli temporali e spa-ziali, quello di Einstein considera come relativi lo stessospazio e lo stesso tempo. Ogni sistema di riferimento hala sua propria misura delle distanze spaziali e degl'inter-valli temporali; e le misure non coincidono, quando queisistemi son diversi. Lo spazio misurato da un osservato-re in riposo differisce da quello che è misurato da un os-servatore in movimento; e lo stesso può dirsi del tempo.Due avvenimenti, contemporanei per il primo di essi,sono successivi per il secondo. Tutto ciò può darl'impressione a un terzo, che considera dall'esterno quel-la differenza, che il tempo e lo spazio effettivamente siaccorciano e si allungano, come se fossero delle materieelastiche, mentre invece non si tratta che di mutamentidi prospettive. Ma le variazioni del tempo e dello spazionon vanno intese come se ciascuna si effettuasse per sé,indipendentemente dall'altra. In realtà esse sono inter-relate. Poiché la velocità-limite con cui i fenomeni si197 EINSTEIN, Sulla teoria speciale e generale della relatività, trad. ital., Bolo-

gna, 1921, pp. 14 e sgg.; R. MARCOLONGO, Relatività, Messina, 19232, pp.63, 210, 212 e sgg.

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propagano è quella della luce, qualunque misura spazia-le è in funzione del tempo della propagazione della luce,e questo tempo è a sua volta esprimibile in termini dispazio (1 secondo = 300 mila km.). Non vi sono insom-ma uno spazio e un tempo separati, ma v'è un continuospazio-temporale.

Non tutte, però, le differenze delle misure dello spa-zio e del tempo, dipendenti dalla diversità dei sistemi diriferimento, sono praticamente apprezzabili. Nel caso dimoti lenti, esse sono trascurabili; ma per moti celeri, chesi avvicinano alla velocità-limite della luce, si fannosempre maggiori. Il modo di computare tali differenze èofferto da una formula matematica che, dal suo invento-re, prende il nome di trasformazione di Lorentz, e dellaquale Einstein ha esteso il valore a tutti i movimenti uni-formi. Così vengono unificati sotto una stessa legge imoti celeri e i moti lenti: la meccanica galileo-newtonia-na rientra nella meccanica di Einstein come un caso-limite, dove cioè, per la lentezza dei moti di cui si tratta,la trasformazione di Lorentz porta una variazione che siavvicina allo zero. Al posto dell'assoluto spazio-tempo-rale della vecchia meccanica, subentra, come nuova«costante» fisica, la trasformazione di Lorentz, moltomeno carica di nebbie metafisiche, benché porti ancorain sé qualche traccia di quell'assoluto, racchiusa nel mi-stico simbolo c, che esprime la velocità costante dellaluce. Se il tempo e lo spazio non sono più sensori diDio, la luce figura ancora come un raggio che parte

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propagano è quella della luce, qualunque misura spazia-le è in funzione del tempo della propagazione della luce,e questo tempo è a sua volta esprimibile in termini dispazio (1 secondo = 300 mila km.). Non vi sono insom-ma uno spazio e un tempo separati, ma v'è un continuospazio-temporale.

Non tutte, però, le differenze delle misure dello spa-zio e del tempo, dipendenti dalla diversità dei sistemi diriferimento, sono praticamente apprezzabili. Nel caso dimoti lenti, esse sono trascurabili; ma per moti celeri, chesi avvicinano alla velocità-limite della luce, si fannosempre maggiori. Il modo di computare tali differenze èofferto da una formula matematica che, dal suo invento-re, prende il nome di trasformazione di Lorentz, e dellaquale Einstein ha esteso il valore a tutti i movimenti uni-formi. Così vengono unificati sotto una stessa legge imoti celeri e i moti lenti: la meccanica galileo-newtonia-na rientra nella meccanica di Einstein come un caso-limite, dove cioè, per la lentezza dei moti di cui si tratta,la trasformazione di Lorentz porta una variazione che siavvicina allo zero. Al posto dell'assoluto spazio-tempo-rale della vecchia meccanica, subentra, come nuova«costante» fisica, la trasformazione di Lorentz, moltomeno carica di nebbie metafisiche, benché porti ancorain sé qualche traccia di quell'assoluto, racchiusa nel mi-stico simbolo c, che esprime la velocità costante dellaluce. Se il tempo e lo spazio non sono più sensori diDio, la luce figura ancora come un raggio che parte

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dall'occhio divino. Bisogna però aggiungere che quellatraccia scompare nella teoria della relatività generalizza-ta.

In questa seconda fase della dottrina, Einstein ha toltoa considerare i movimenti accelerati dipendenti dallagravitazione. Può essere considerata come insormonta-bile – egli s'è chiesto – la differenza tra la massa inerzia-le e la massa ponderale di un corpo, tra il moto uniformedella meccanica e il moto accelerato della gravifica? Osi può risolvere anch'essa in una differenza relativa ai si-stemi di riferimento? Per avvicinarci alla comprensionedel problema, ricorriamo a qualche esempio. Una figuracircolare, guardata di scorcio, ci appare come un'ellisse.Dobbiamo forse concludere che il circolo effettivamentesi schiaccia, ed immaginare una forza che eserciti su diesso una pressione? Lo stesso potremmo immaginareanche della forza di gravità198. Anche più calzante è que-sto secondo esempio, addotto dall'Eddington. Gli antichisi raffiguravano la terra come piana; sicché, quando essivolevano tracciare sulla carta il contorno dei vari paesi,erano costretti ad alterare le rispettive distanze, ingran-dendo le dimensioni della Grecia, che era al centro delloro quadro e accorciando le terre e i mari via via piùlontani da quel centro. Di tali distorsioni ci dà un esem-pio la così detta proiezione ortografica d'Ipparco. Oraimmaginiamo un osservatore che, con una carta alla

198 H. WEYL, Raum, Zeit, Materie. Vorlesungen ueber allgemeineRelativitätstheorie, Berlin, 19235, p. 166.

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dall'occhio divino. Bisogna però aggiungere che quellatraccia scompare nella teoria della relatività generalizza-ta.

In questa seconda fase della dottrina, Einstein ha toltoa considerare i movimenti accelerati dipendenti dallagravitazione. Può essere considerata come insormonta-bile – egli s'è chiesto – la differenza tra la massa inerzia-le e la massa ponderale di un corpo, tra il moto uniformedella meccanica e il moto accelerato della gravifica? Osi può risolvere anch'essa in una differenza relativa ai si-stemi di riferimento? Per avvicinarci alla comprensionedel problema, ricorriamo a qualche esempio. Una figuracircolare, guardata di scorcio, ci appare come un'ellisse.Dobbiamo forse concludere che il circolo effettivamentesi schiaccia, ed immaginare una forza che eserciti su diesso una pressione? Lo stesso potremmo immaginareanche della forza di gravità198. Anche più calzante è que-sto secondo esempio, addotto dall'Eddington. Gli antichisi raffiguravano la terra come piana; sicché, quando essivolevano tracciare sulla carta il contorno dei vari paesi,erano costretti ad alterare le rispettive distanze, ingran-dendo le dimensioni della Grecia, che era al centro delloro quadro e accorciando le terre e i mari via via piùlontani da quel centro. Di tali distorsioni ci dà un esem-pio la così detta proiezione ortografica d'Ipparco. Oraimmaginiamo un osservatore che, con una carta alla

198 H. WEYL, Raum, Zeit, Materie. Vorlesungen ueber allgemeineRelativitätstheorie, Berlin, 19235, p. 166.

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mano, avesse voluto accertarsi della velocità di unanave moventesi dalle colonne d'Ercole verso la Grecia.Egli avrebbe dovuto constatare con sorpresa un'accele-razione a misura che la nave si avvicinava alla meta, e,per spiegarsi lo strano fenomeno, avrebbe potuto pensa-re a un demone che attirasse i vascelli verso la patria eche ritardasse invece quelli che se ne allontanavano. Pernoi invece quell'accelerazione non racchiude più nessunmistero, ma consiste in una illusione prospettica, dipen-dente dalla proiezione in un piano di ciò che ha naturadi una curva199. Analogamente, l'accelerazione della gra-vità che noi constatiamo prendendo come sistema di ri-ferimento lo spazio euclideo a tre dimensioni, non po-trebbe dipendere da una simile illusione? dal fatto cioèche noi trascuriamo una curvatura sui generis dello spa-zio euclideo, prodotta dall'inserzione della dimensionetempo? L'analogia è più che plausibile: quando noi cirappresentiamo un movimento in uno spazio tridimen-sionale, noi dimentichiamo in effetti che la traiettoria ècontinuamente modificata dal tempo. Noi parliamo, peresempio, delle ellissi che i pianeti descrivono intorno alsole, e così dicendo immobilizziamo lo spazio fuori deltempo, mentre è chiaro che, effettuandosi la traslazionenel tempo, il movimento non è ellittico, ma elicoidale.

Ancora un esempio, offertoci dall'Eddington in formadi un gustoso apologo. C'era una volta, egli dice, una

199 A. S. EDDINGTON, The nature of the physical world, Cambridge, 1929, p.117.

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mano, avesse voluto accertarsi della velocità di unanave moventesi dalle colonne d'Ercole verso la Grecia.Egli avrebbe dovuto constatare con sorpresa un'accele-razione a misura che la nave si avvicinava alla meta, e,per spiegarsi lo strano fenomeno, avrebbe potuto pensa-re a un demone che attirasse i vascelli verso la patria eche ritardasse invece quelli che se ne allontanavano. Pernoi invece quell'accelerazione non racchiude più nessunmistero, ma consiste in una illusione prospettica, dipen-dente dalla proiezione in un piano di ciò che ha naturadi una curva199. Analogamente, l'accelerazione della gra-vità che noi constatiamo prendendo come sistema di ri-ferimento lo spazio euclideo a tre dimensioni, non po-trebbe dipendere da una simile illusione? dal fatto cioèche noi trascuriamo una curvatura sui generis dello spa-zio euclideo, prodotta dall'inserzione della dimensionetempo? L'analogia è più che plausibile: quando noi cirappresentiamo un movimento in uno spazio tridimen-sionale, noi dimentichiamo in effetti che la traiettoria ècontinuamente modificata dal tempo. Noi parliamo, peresempio, delle ellissi che i pianeti descrivono intorno alsole, e così dicendo immobilizziamo lo spazio fuori deltempo, mentre è chiaro che, effettuandosi la traslazionenel tempo, il movimento non è ellittico, ma elicoidale.

Ancora un esempio, offertoci dall'Eddington in formadi un gustoso apologo. C'era una volta, egli dice, una

199 A. S. EDDINGTON, The nature of the physical world, Cambridge, 1929, p.117.

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specie di pesci che viveva in un oceano a due dimensio-ni. Si poteva osservare che questi pesci in genere nuota-vano seguendo linee rette, a meno che non vi fosse unostacolo al loro libero percorso. Ciò sembrava naturalis-simo. Ma c'era una regione in quell'oceano dove i pesciche vi si avventuravano sembravano cadere sotto l'impe-ro di un incantesimo: alcuni, traversandola, cambiavanola direzione del loro movimento, altri si mettevano anuotare in giro, indefinitamente. Per spiegare questa sin-golarità, un tale immaginò una dottrina del movimentovorticoso (Cartesio); un altro (Newton) immaginò che ipesci fossero tutti attirati da un pesce enorme (il pesce-sole), che dormiva al centro di quella regione. Questadottrina fu confermata con esattezza meravigliosa perogni genere di esperienza. Si trovò che tutti i pesci ave-vano in sé una potenza attrattiva proporzionale alla lorodimensione e inversamente proporzionale al quadratodelle loro distanze. Vi furono, sì, taluni che si lamenta-rono di non vedere come una tale azione potesse propa-garsi a distanza; ma l'opinione generale fu che tale in-fluenza si propagasse per mezzo dell'oceano, e che se necomprenderebbe meglio il meccanismo il giorno in cuisi conoscesse qualcosa di più sulla natura dell'acqua. Mavenne infine un tale (Einstein) che concepì una tutt'altraspiegazione. Egli era colpito dal fatto che i pesci, grandie piccoli, seguivano sempre le stesse traiettorie, e portòtutta la sua attenzione sulle traiettorie invece che sulleforze. Così ottenne una spiegazione interessantedell'intero sistema. Vi era nell'oceano una collina che

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specie di pesci che viveva in un oceano a due dimensio-ni. Si poteva osservare che questi pesci in genere nuota-vano seguendo linee rette, a meno che non vi fosse unostacolo al loro libero percorso. Ciò sembrava naturalis-simo. Ma c'era una regione in quell'oceano dove i pesciche vi si avventuravano sembravano cadere sotto l'impe-ro di un incantesimo: alcuni, traversandola, cambiavanola direzione del loro movimento, altri si mettevano anuotare in giro, indefinitamente. Per spiegare questa sin-golarità, un tale immaginò una dottrina del movimentovorticoso (Cartesio); un altro (Newton) immaginò che ipesci fossero tutti attirati da un pesce enorme (il pesce-sole), che dormiva al centro di quella regione. Questadottrina fu confermata con esattezza meravigliosa perogni genere di esperienza. Si trovò che tutti i pesci ave-vano in sé una potenza attrattiva proporzionale alla lorodimensione e inversamente proporzionale al quadratodelle loro distanze. Vi furono, sì, taluni che si lamenta-rono di non vedere come una tale azione potesse propa-garsi a distanza; ma l'opinione generale fu che tale in-fluenza si propagasse per mezzo dell'oceano, e che se necomprenderebbe meglio il meccanismo il giorno in cuisi conoscesse qualcosa di più sulla natura dell'acqua. Mavenne infine un tale (Einstein) che concepì una tutt'altraspiegazione. Egli era colpito dal fatto che i pesci, grandie piccoli, seguivano sempre le stesse traiettorie, e portòtutta la sua attenzione sulle traiettorie invece che sulleforze. Così ottenne una spiegazione interessantedell'intero sistema. Vi era nell'oceano una collina che

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circondava il pesce-sole; e i pesci non potevano perce-pirla direttamente, essendo di due dimensioni. Ma quan-do un pesce veniva ad avventurarsi su l'uno dei due ver-santi della collina, benché facesse del suo meglio pernuotar diritto, faceva sempre un certo giro (un viaggia-tore che sale obliquamente il declivo di una montagna lacui sommità è alla sua destra deve scientemente poggia-re a sinistra se vuol conservare la sua posizione primiti-va in rapporto alla bussola). Era là il segreto diquell'attrazione incomprensibile o di quella deviazionedelle traiettorie nella regione della collina. Questo para-gone, soggiunge l'Eddington, non è perfetto, perché nonfa che far intervenire una collina nello spazio, mentrebisogna rappresentarsi il fenomeno come dipendente dauna curvatura dello spazio-tempo. Esso nondimeno di-mostra abbastanza bene come la curvatura dell'universoin cui abitiamo possa dare l'illusione di una forza attrat-tiva sui generis200.

Ci avviamo così ad intendere, almeno approssimati-vamente, quale sia stato il procedimento seguìtodall'Einstein nella sua teoria della relatività generalizza-ta. Invece di partire dallo spazio euclideo e di servirsidelle coordinate piane della fisica tradizionale, egli èpartito dalla geometria quadridimensionale del Riemanne del Minkowski e si è servito delle coordinate curve delGauss. Così, col sussidio del calcolo, egli è riuscito a ri-

200 EDDINGTON, Espace, temps, gravitation, trad. francese, Paris, 1921, pp. 119-20.

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circondava il pesce-sole; e i pesci non potevano perce-pirla direttamente, essendo di due dimensioni. Ma quan-do un pesce veniva ad avventurarsi su l'uno dei due ver-santi della collina, benché facesse del suo meglio pernuotar diritto, faceva sempre un certo giro (un viaggia-tore che sale obliquamente il declivo di una montagna lacui sommità è alla sua destra deve scientemente poggia-re a sinistra se vuol conservare la sua posizione primiti-va in rapporto alla bussola). Era là il segreto diquell'attrazione incomprensibile o di quella deviazionedelle traiettorie nella regione della collina. Questo para-gone, soggiunge l'Eddington, non è perfetto, perché nonfa che far intervenire una collina nello spazio, mentrebisogna rappresentarsi il fenomeno come dipendente dauna curvatura dello spazio-tempo. Esso nondimeno di-mostra abbastanza bene come la curvatura dell'universoin cui abitiamo possa dare l'illusione di una forza attrat-tiva sui generis200.

Ci avviamo così ad intendere, almeno approssimati-vamente, quale sia stato il procedimento seguìtodall'Einstein nella sua teoria della relatività generalizza-ta. Invece di partire dallo spazio euclideo e di servirsidelle coordinate piane della fisica tradizionale, egli èpartito dalla geometria quadridimensionale del Riemanne del Minkowski e si è servito delle coordinate curve delGauss. Così, col sussidio del calcolo, egli è riuscito a ri-

200 EDDINGTON, Espace, temps, gravitation, trad. francese, Paris, 1921, pp. 119-20.

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costruire, con approssimazione anche maggiore delNewton, le leggi della gravitazione. Se i vantaggi speri-mentali della sua dottrina sono modesti (e finora par chesi limitino al computo di un lieve spostamento secolaredel perielio di Mercurio e di minime inflessioni dellaluce stellare che passa per il campo di gravitazione delsole), i vantaggi dottrinali sembrano grandissimi. Permezzo di essa si unificano in un solo principio i movi-menti uniformi e quelli accelerati; la gravità s'identificacon l'inerzia; la fisica, secondo l'antico e inappagatovoto di Cartesio, si converte in una geometria superiore.

Le meditazioni filosofiche sulla dottrina fisica quisommariamente esposta hanno preso, come s'è accenna-to, due indirizzi distinti. Alcuni pensatori si sono fondatisulla nuova concezione dello spazio-tempo per elevaredello costruzioni metafisiche in antitesi col vecchio ma-terialismo, che s'ispirava alle tramontate vedute mecca-nistiche della scienza naturale. L'idea dell'atomo mate-riale come sostegno delle qualità fisiche non è infattiche una proiezione nello spazio sottratta al divenire deltempo; mentre nella continuità spazio-temporale, l'ato-mo rigido si converte in un evento, e si fa intrinseca allanatura l'idea di un divenire che nell'ipotesi materialisticaera sempre in qualche modo avventizia. Noi abbiamogià esaminate201 alcune di queste costruzioni metafisi-che, come quella dell'Alexander e del Whitehead. Ci re-sta qui da considerare l'altro indirizzo, più strettamente

201 V. i capitoli 1 e 2 di questo volume.

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costruire, con approssimazione anche maggiore delNewton, le leggi della gravitazione. Se i vantaggi speri-mentali della sua dottrina sono modesti (e finora par chesi limitino al computo di un lieve spostamento secolaredel perielio di Mercurio e di minime inflessioni dellaluce stellare che passa per il campo di gravitazione delsole), i vantaggi dottrinali sembrano grandissimi. Permezzo di essa si unificano in un solo principio i movi-menti uniformi e quelli accelerati; la gravità s'identificacon l'inerzia; la fisica, secondo l'antico e inappagatovoto di Cartesio, si converte in una geometria superiore.

Le meditazioni filosofiche sulla dottrina fisica quisommariamente esposta hanno preso, come s'è accenna-to, due indirizzi distinti. Alcuni pensatori si sono fondatisulla nuova concezione dello spazio-tempo per elevaredello costruzioni metafisiche in antitesi col vecchio ma-terialismo, che s'ispirava alle tramontate vedute mecca-nistiche della scienza naturale. L'idea dell'atomo mate-riale come sostegno delle qualità fisiche non è infattiche una proiezione nello spazio sottratta al divenire deltempo; mentre nella continuità spazio-temporale, l'ato-mo rigido si converte in un evento, e si fa intrinseca allanatura l'idea di un divenire che nell'ipotesi materialisticaera sempre in qualche modo avventizia. Noi abbiamogià esaminate201 alcune di queste costruzioni metafisi-che, come quella dell'Alexander e del Whitehead. Ci re-sta qui da considerare l'altro indirizzo, più strettamente

201 V. i capitoli 1 e 2 di questo volume.

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epistemologico, che consiste nel sottoporre ad esamecritico il procedimento e i risultati della teoria della rela-tività. Tra i due indirizzi la distinzione non è così nettacome la nostra classificazione lascerebbe apparire: i cri-tici della scienza hanno sempre di mira una visione uni-taria del cosmo, e i metafisici a loro volta muovono daconsiderazioni critiche sui dati della relatività. C'è tutta-via una diversità d'indirizzo nel rispettivo lavoro, similea quella che, per usare un paragone dell'Eddington, cor-re tra l'opera di due minatori che da due punti oppostiattendono a traforare lo stesso monte.

Anche dell'epistemologia relativistica abbiamo avutoin parte occasione di occuparci, parlando del Bergson edel Meyerson202. Qui vogliamo più particolarmente stu-diare le interferenze della nuova dottrina dello spazio-tempo con l'estetica trascendentale di Kant e alcune in-teressanti conseguenze, inaspettatamente idealistiche,tratte da un grande astronomo inglese (il già citato Ed-dington) dalle vedute einsteiniane. Quanto al primo pun-to, è lecito forse affermare che la concezione kantianasia indissolubilmente legata all'intuizione dello spazioeuclideo e che la validità della geometria non euclideanella rappresentazione scientifica dell'universo ne costi-tuisca una implicita confutazione? Ora bisogna distin-guere tra le cognizioni scientifiche di Kant e il significa-to filosofico della sua estetica trascendentale. È indubi-tato che nel raffigurarsi una intuizione pura dello spazio

202 V. i capitoli 8 e 9 di questo volume.

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epistemologico, che consiste nel sottoporre ad esamecritico il procedimento e i risultati della teoria della rela-tività. Tra i due indirizzi la distinzione non è così nettacome la nostra classificazione lascerebbe apparire: i cri-tici della scienza hanno sempre di mira una visione uni-taria del cosmo, e i metafisici a loro volta muovono daconsiderazioni critiche sui dati della relatività. C'è tutta-via una diversità d'indirizzo nel rispettivo lavoro, similea quella che, per usare un paragone dell'Eddington, cor-re tra l'opera di due minatori che da due punti oppostiattendono a traforare lo stesso monte.

Anche dell'epistemologia relativistica abbiamo avutoin parte occasione di occuparci, parlando del Bergson edel Meyerson202. Qui vogliamo più particolarmente stu-diare le interferenze della nuova dottrina dello spazio-tempo con l'estetica trascendentale di Kant e alcune in-teressanti conseguenze, inaspettatamente idealistiche,tratte da un grande astronomo inglese (il già citato Ed-dington) dalle vedute einsteiniane. Quanto al primo pun-to, è lecito forse affermare che la concezione kantianasia indissolubilmente legata all'intuizione dello spazioeuclideo e che la validità della geometria non euclideanella rappresentazione scientifica dell'universo ne costi-tuisca una implicita confutazione? Ora bisogna distin-guere tra le cognizioni scientifiche di Kant e il significa-to filosofico della sua estetica trascendentale. È indubi-tato che nel raffigurarsi una intuizione pura dello spazio

202 V. i capitoli 8 e 9 di questo volume.

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egli si riferisce allo spazio euclideo della geometria edella fisica del suo tempo; ma ciò non vuol dire che lapura forma della spazialità, come ordinatrice dei dati delsenso esterno, sia in alcun modo dipendente dalla scien-za euclidea. Anche nello spazio del Riemann, in quantoè spazio, gli elementi debbono essere rappresentati l'unofuori dell'altro; ed appunto in questa mera esteriorità, enella spiegazione che ne dà Kant, come una necessitàdella nostra costituzione spirituale, consiste il valorepermanente dell'Estetica kantiana. A questa considera-zione il Cassirer, che ha dedicato un importante studio airapporti tra Einstein e Kant, ne aggiunge un'altra egual-mente perentoria. Se la teoria kantiana dello spazio, eglidice, fosse legata a una veduta euclidea, essa non sareb-be valida neppure per spiegare le nostre rappresentazio-ni empiriche. Lo spazio della comune esperienza, infatti,a differenza dello spazio scientifico, non è isotropo néomogeneo, il che vuol dire che non è affatto geometrico.E lo stesso si può ripetere anche del tempo. Ora è evi-dente che, se Kant ignorava lo spazio non euclideo dellegeometrie superiori, costruito un secolo più tardi, nonignorava certo il carattere non euclideo dello spazio em-pirico, e tuttavia non ritenne affatto incompatibile conesso la propria concezione. Si può pertanto concludereche, se la forma della spazialità in genere è apriori nelsenso kantiano, cioè una condizione dell'esperienza nonspiegabile per mezzo di associazioni empiriche, la tra-duzione in atto di quella forma, invece, è soggetta a unprocesso evolutivo, per cui, a misura che si fanno più

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egli si riferisce allo spazio euclideo della geometria edella fisica del suo tempo; ma ciò non vuol dire che lapura forma della spazialità, come ordinatrice dei dati delsenso esterno, sia in alcun modo dipendente dalla scien-za euclidea. Anche nello spazio del Riemann, in quantoè spazio, gli elementi debbono essere rappresentati l'unofuori dell'altro; ed appunto in questa mera esteriorità, enella spiegazione che ne dà Kant, come una necessitàdella nostra costituzione spirituale, consiste il valorepermanente dell'Estetica kantiana. A questa considera-zione il Cassirer, che ha dedicato un importante studio airapporti tra Einstein e Kant, ne aggiunge un'altra egual-mente perentoria. Se la teoria kantiana dello spazio, eglidice, fosse legata a una veduta euclidea, essa non sareb-be valida neppure per spiegare le nostre rappresentazio-ni empiriche. Lo spazio della comune esperienza, infatti,a differenza dello spazio scientifico, non è isotropo néomogeneo, il che vuol dire che non è affatto geometrico.E lo stesso si può ripetere anche del tempo. Ora è evi-dente che, se Kant ignorava lo spazio non euclideo dellegeometrie superiori, costruito un secolo più tardi, nonignorava certo il carattere non euclideo dello spazio em-pirico, e tuttavia non ritenne affatto incompatibile conesso la propria concezione. Si può pertanto concludereche, se la forma della spazialità in genere è apriori nelsenso kantiano, cioè una condizione dell'esperienza nonspiegabile per mezzo di associazioni empiriche, la tra-duzione in atto di quella forma, invece, è soggetta a unprocesso evolutivo, per cui, a misura che si fanno più

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complesse le esigenze sperimentali, le costruzioni dellospazio si complicano a loro volta. E, come lo spazio eu-clideo rappresentava, di fronte allo spazio dell'esperien-za prescientifica, un grado superiore di astrazione e dicoordinazione, similmente lo spazio delle geometrienon-euclidee può significare un nuovo grado lungo lamedesima linea ascensiva. Del che ci viene data confer-ma dalla stessa impossibilità in cui siamo di rappresen-tarcelo sensibilmente, perché il progresso delle costru-zioni scientifiche consiste appunto nel distaccare gli og-getti dalle condizioni empiriche della sensibilità203. Daquesto punto di vista non fa più scandalo la relatività deirapporti spaziali illustrata da Einstein: tale relatività nontocca l'osservatore empirico, che può praticamente con-tare sopra una sufficiente costanza delle sue relazionicon l'ambiente, ma tocca soltanto colui che vuol formar-si una veduta d'insieme del cosmo, prescindendo perquanto è possibile dai punti di vista divergenti di singoliosservatori, collocati nelle situazioni più disparate. In uncerto senso, la così detta teoria della relatività, potrebbemeglio chiamarsi della non-relatività, perché tende asottrarre i propri enti dal relativismo delle prospettiveempiriche.

Osservazioni analoghe valgono per il tempo. E qui ilCassirer pone opportunamente a raffronto la tesi bergso-niana della durée pure col tempo einsteiniano simboleg-giato dalla trasformazione di Lorentz, mostrando che in

203 CASSIRER, op. cit., pp. 123 e sgg.

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complesse le esigenze sperimentali, le costruzioni dellospazio si complicano a loro volta. E, come lo spazio eu-clideo rappresentava, di fronte allo spazio dell'esperien-za prescientifica, un grado superiore di astrazione e dicoordinazione, similmente lo spazio delle geometrienon-euclidee può significare un nuovo grado lungo lamedesima linea ascensiva. Del che ci viene data confer-ma dalla stessa impossibilità in cui siamo di rappresen-tarcelo sensibilmente, perché il progresso delle costru-zioni scientifiche consiste appunto nel distaccare gli og-getti dalle condizioni empiriche della sensibilità203. Daquesto punto di vista non fa più scandalo la relatività deirapporti spaziali illustrata da Einstein: tale relatività nontocca l'osservatore empirico, che può praticamente con-tare sopra una sufficiente costanza delle sue relazionicon l'ambiente, ma tocca soltanto colui che vuol formar-si una veduta d'insieme del cosmo, prescindendo perquanto è possibile dai punti di vista divergenti di singoliosservatori, collocati nelle situazioni più disparate. In uncerto senso, la così detta teoria della relatività, potrebbemeglio chiamarsi della non-relatività, perché tende asottrarre i propri enti dal relativismo delle prospettiveempiriche.

Osservazioni analoghe valgono per il tempo. E qui ilCassirer pone opportunamente a raffronto la tesi bergso-niana della durée pure col tempo einsteiniano simboleg-giato dalla trasformazione di Lorentz, mostrando che in

203 CASSIRER, op. cit., pp. 123 e sgg.

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realtà essi si dispongono su due piani di coscienza di-versi: il che spiega quanto poco siano state concludentile fantastiche peregrinazioni attraverso gli spazi inter-stellari escogitate dai rivenditori di scienza relativisticaal minuto e le non meno fantastiche constatazioni delledivergenze tra il tempo vissuto dai viaggiatori celesti equello registrato dagli osservatori terreni. Un punto peròvale ancor la pena di esaminare, per completare questamise à point della critica kantiana con la scienza dellarelatività. L'unificazione del tempo e dello spazio, o,come si suol dire comunemente, la traduzione del tempoin una quarta dimensione spaziale, non annulla la distin-zione posta da Kant tra le due forme, del senso interno edel senso esterno? Anche qui bisogna intendersi. Già lostesso Kant, nel porre quella distinzione, non volle deltutto separare il tempo dallo spazio. Egli anzi, movendodalla giusta considerazione che una sintesi di rappresen-tazioni fuori di noi non è possibile se prima non la com-piamo dentro di noi, ammise una ideale priorità dellaforma del tempo su quella dello spazio e un necessarioconcorso dell'intuizione temporale nel prodursi dellasintesi spaziale. Ma i relativisti, a loro volta, annullanoforse ogni distinzione tra il tempo e lo spazio? Nellastessa espressione simbolica delle matematiche la quartadimensione dello spazio, cioè il tempo, non si confondecon le rimanenti, ma presenta la caratteristica che il suosegno algebrico è negativo, mentre quello delle altre treè positivo. Ciò basta a simboleggiare l'esigenza almenodi una distinzione; ed uno dei più filosofici fautori della

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realtà essi si dispongono su due piani di coscienza di-versi: il che spiega quanto poco siano state concludentile fantastiche peregrinazioni attraverso gli spazi inter-stellari escogitate dai rivenditori di scienza relativisticaal minuto e le non meno fantastiche constatazioni delledivergenze tra il tempo vissuto dai viaggiatori celesti equello registrato dagli osservatori terreni. Un punto peròvale ancor la pena di esaminare, per completare questamise à point della critica kantiana con la scienza dellarelatività. L'unificazione del tempo e dello spazio, o,come si suol dire comunemente, la traduzione del tempoin una quarta dimensione spaziale, non annulla la distin-zione posta da Kant tra le due forme, del senso interno edel senso esterno? Anche qui bisogna intendersi. Già lostesso Kant, nel porre quella distinzione, non volle deltutto separare il tempo dallo spazio. Egli anzi, movendodalla giusta considerazione che una sintesi di rappresen-tazioni fuori di noi non è possibile se prima non la com-piamo dentro di noi, ammise una ideale priorità dellaforma del tempo su quella dello spazio e un necessarioconcorso dell'intuizione temporale nel prodursi dellasintesi spaziale. Ma i relativisti, a loro volta, annullanoforse ogni distinzione tra il tempo e lo spazio? Nellastessa espressione simbolica delle matematiche la quartadimensione dello spazio, cioè il tempo, non si confondecon le rimanenti, ma presenta la caratteristica che il suosegno algebrico è negativo, mentre quello delle altre treè positivo. Ciò basta a simboleggiare l'esigenza almenodi una distinzione; ed uno dei più filosofici fautori della

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scienza relativistica, il Weyl, non ha esitato a tradurrequesta esigenza nei termini della dottrina kantiana, af-fermando che, «di fronte alla struttura materiale delmondo, il tempo e lo spazio sono da considerarsi comeforme (al plurale) dei fenomeni»204.

Anche di fronte all'Analitica della ragion pura dellaCritica kantiana, la dottrina della relatività non solo noncostituisce una deviazione, ma anzi una conferma delcarattere funzionale e sintetico delle leggi scientifiche.Coloro che si son fermati alle apparenze protagoree delrelativismo non hanno considerato – come osserva giu-stamente il Cassirer – che le indagini di Einstein tendo-no a fondare, attraverso e oltre la relatività, delle nuove«invarianti» fisiche. Esse riconoscono che la costanza,propria del lavoro concettuale, non appartiene mai allecose quali che siano, ma solo e sempre ad alcuni riferi-menti fondamentali e ad alcune dipendenze funzionali,che nella lingua simbolica delle matematiche e della fi-sica si traducono in equazioni determinate. Questa riso-luzione delle cose, mutevoli aggregati di qualità sensibi-li, nei rapporti quantitativi e invariabili, di cui tutta lascienza moderna ci offre, nella sua storia, una progressi-va esemplificazione, raggiunge il suo stadio più alto nel-la scienza einsteiniana, che semplifica il mondo materia-le fino al punto da farlo coincidere con un puro schema

204 WEYL, op. cit., p. 223: So darf man behaupten dass erst der jetzt von unseingenommene Standpunkt der allgemeinen Relativität dem Umstandevöllig gerecht wird, dass Raum und Zeit dem materiellen Gehalt der Weltals Formen der Erscheinungen gegenübertreten.

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scienza relativistica, il Weyl, non ha esitato a tradurrequesta esigenza nei termini della dottrina kantiana, af-fermando che, «di fronte alla struttura materiale delmondo, il tempo e lo spazio sono da considerarsi comeforme (al plurale) dei fenomeni»204.

Anche di fronte all'Analitica della ragion pura dellaCritica kantiana, la dottrina della relatività non solo noncostituisce una deviazione, ma anzi una conferma delcarattere funzionale e sintetico delle leggi scientifiche.Coloro che si son fermati alle apparenze protagoree delrelativismo non hanno considerato – come osserva giu-stamente il Cassirer – che le indagini di Einstein tendo-no a fondare, attraverso e oltre la relatività, delle nuove«invarianti» fisiche. Esse riconoscono che la costanza,propria del lavoro concettuale, non appartiene mai allecose quali che siano, ma solo e sempre ad alcuni riferi-menti fondamentali e ad alcune dipendenze funzionali,che nella lingua simbolica delle matematiche e della fi-sica si traducono in equazioni determinate. Questa riso-luzione delle cose, mutevoli aggregati di qualità sensibi-li, nei rapporti quantitativi e invariabili, di cui tutta lascienza moderna ci offre, nella sua storia, una progressi-va esemplificazione, raggiunge il suo stadio più alto nel-la scienza einsteiniana, che semplifica il mondo materia-le fino al punto da farlo coincidere con un puro schema

204 WEYL, op. cit., p. 223: So darf man behaupten dass erst der jetzt von unseingenommene Standpunkt der allgemeinen Relativität dem Umstandevöllig gerecht wird, dass Raum und Zeit dem materiellen Gehalt der Weltals Formen der Erscheinungen gegenübertreten.

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dello spazio-tempo e sostituisce alla personificazione,sempre in qualche modo animistica, delle «forze» fisi-che una composizione di traiettorie geometriche205. Ilmondo di Einstein sta a quello della fisica precedentecome il mondo di Galileo stava a quello della fisica ani-mistica del Rinascimento. E lo studio di esso fa risultarmolto più chiaro, secondo il Cassirer, il valore della tra-sformazione introdotta da Kant nella dottrina della co-noscenza dalla vecchia Abbildtheorie della tradizioneplatonica, nella nuova Funktionstheorie. In conclusione,lungi dall'ostacolare l'idealismo critico della filosofiakantiana, la scienza di Einstein ne ha facilitata l'intelli-genza e confermata la validità.

Che la cosa effettivamente sia così, ci viene provato,oltre che dalle considerazioni del Cassirer, anche indi-rettamente dal fatto che tutte le dottrine critiche dellascienza sorte negli ultimi anni dallo studio della teoriadella relatività, hanno un'evidente intonazione idealisti-ca. E il fatto è anche più significativo perché gli autoridi quelle dottrine sono per la maggior parte cultori discienze naturali, ignari dell'idealismo della tradizione fi-losofica ed anzi propensi, per abito mentale dello spe-cialismo scientifico, alle interpretazioni materialistichedegli «oggetti» delle loro discipline. Emerge tra costoroun astronomo inglese, A. S. Eddington, autore di dueopere importanti sulla teoria della relatività, in cui allatrattazione scientifica s'intreccia quella epistemologica:

205 CASSIRER, op. cit., pp. 40, 55.

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dello spazio-tempo e sostituisce alla personificazione,sempre in qualche modo animistica, delle «forze» fisi-che una composizione di traiettorie geometriche205. Ilmondo di Einstein sta a quello della fisica precedentecome il mondo di Galileo stava a quello della fisica ani-mistica del Rinascimento. E lo studio di esso fa risultarmolto più chiaro, secondo il Cassirer, il valore della tra-sformazione introdotta da Kant nella dottrina della co-noscenza dalla vecchia Abbildtheorie della tradizioneplatonica, nella nuova Funktionstheorie. In conclusione,lungi dall'ostacolare l'idealismo critico della filosofiakantiana, la scienza di Einstein ne ha facilitata l'intelli-genza e confermata la validità.

Che la cosa effettivamente sia così, ci viene provato,oltre che dalle considerazioni del Cassirer, anche indi-rettamente dal fatto che tutte le dottrine critiche dellascienza sorte negli ultimi anni dallo studio della teoriadella relatività, hanno un'evidente intonazione idealisti-ca. E il fatto è anche più significativo perché gli autoridi quelle dottrine sono per la maggior parte cultori discienze naturali, ignari dell'idealismo della tradizione fi-losofica ed anzi propensi, per abito mentale dello spe-cialismo scientifico, alle interpretazioni materialistichedegli «oggetti» delle loro discipline. Emerge tra costoroun astronomo inglese, A. S. Eddington, autore di dueopere importanti sulla teoria della relatività, in cui allatrattazione scientifica s'intreccia quella epistemologica:

205 CASSIRER, op. cit., pp. 40, 55.

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il tutto con una libertà e spregiudicatezza mentale e conuna vivacità d'intuizioni filosofiche, che ci rivelanocome sia progredita la nuova generazione scientifica ri-spetto alla precedente. Il primo dei due libri, che s'intito-la Spazio, tempo, gravitazione, ci fa assistere alla spon-tanea germinazione del problema filosofico nel pensierodel suo autore, che era originariamente partito da piùmodesti e limitati intendimenti. Infatti, dopo aver datoun'esposizione, irta di formule matematiche, della dottri-na fisica, l'Eddington giunge a questa conclusione ina-spettata: «La teoria della relatività riconduce tutta lascienza della natura a delle relazioni; altrimenti detto,ciò che conta è la struttura, non la sostanza. Se anche lasostanza è indispensabile alla struttura, la sua natura nonentra nel computo... È forse esagerato dire che il nostrospirito, ricercando la permanenza, è quello che creal'universo della fisica? e che là dove la scienza ha fattoprogressi maggiori, ivi lo spirito non ha fatto che ripren-dere dalla natura ciò ch'esso aveva introdotto? Da quan-to si è detto, questa conseguenza s'impone: le leggi dellameccanica, della gravitazione, dell'elettrodinamica,dell'ottica, che noi abbiamo raccolte in un unico schema,non hanno la loro origine in un meccanismo specialedella natura, ma nel nostro spirito»206. Tale conclusioneha un evidente senso kantiano, tanto più significativoquanto meno consapevole. Non ci manca neppurel'ombra della cosa in sé, della «sostanza sconosciuta»,

206 EDDINGTON, op. cit., pp. 242-47 passim.

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il tutto con una libertà e spregiudicatezza mentale e conuna vivacità d'intuizioni filosofiche, che ci rivelanocome sia progredita la nuova generazione scientifica ri-spetto alla precedente. Il primo dei due libri, che s'intito-la Spazio, tempo, gravitazione, ci fa assistere alla spon-tanea germinazione del problema filosofico nel pensierodel suo autore, che era originariamente partito da piùmodesti e limitati intendimenti. Infatti, dopo aver datoun'esposizione, irta di formule matematiche, della dottri-na fisica, l'Eddington giunge a questa conclusione ina-spettata: «La teoria della relatività riconduce tutta lascienza della natura a delle relazioni; altrimenti detto,ciò che conta è la struttura, non la sostanza. Se anche lasostanza è indispensabile alla struttura, la sua natura nonentra nel computo... È forse esagerato dire che il nostrospirito, ricercando la permanenza, è quello che creal'universo della fisica? e che là dove la scienza ha fattoprogressi maggiori, ivi lo spirito non ha fatto che ripren-dere dalla natura ciò ch'esso aveva introdotto? Da quan-to si è detto, questa conseguenza s'impone: le leggi dellameccanica, della gravitazione, dell'elettrodinamica,dell'ottica, che noi abbiamo raccolte in un unico schema,non hanno la loro origine in un meccanismo specialedella natura, ma nel nostro spirito»206. Tale conclusioneha un evidente senso kantiano, tanto più significativoquanto meno consapevole. Non ci manca neppurel'ombra della cosa in sé, della «sostanza sconosciuta»,

206 EDDINGTON, op. cit., pp. 242-47 passim.

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che si nasconde dietro i rapporti meramente strutturalidella scienza, per quanto già si intravveda che l'appren-sione diretta della coscienza possa attingerla.

L'altro libro dell'Eddington, che ha per titolo Thenature of physical world, pubblicato a dieci anni dal pri-mo, rivela una padronanza di gran lunga maggiore deiproblemi filosofici che in questo erano appena abbozza-ti. L'antitesi latente tra i due punti di vista sulla realtà,l'uno della scienza che circuisce la natura con le sue re-lazioni, l'altro della coscienza che ne coglie qualcosa dipiù interiore ed attuale (dove quest'ultimo termine espri-me un contrasto col carattere ipotetico delle leggi scien-tifiche), è più largamente sviluppata. «Il mondo dellascienza è un mondo umbratile (shadow world), che om-breggia un mondo familiare alla nostra coscienza. Findove ci aspettiamo che si estenda la sua ombra? Noncerto dov'è quistione di nostri stati interni, emozioni, ri-cordi, ecc., ma dove si tratta d'impressioni che apparten-gono ai sensi esterni. Ma il tempo entra negli uni e nellealtre, e così forma un legame intermedio tra l'interno el'esterno»207.

Come si passa dal mondo immediato della coscienzaalla formazione del mondo scientifico? C'è una capacitàselettiva della mente, la quale si esercita col creare unacornice di leggi permanenti, in cui s'inquadra il divenirenaturale. Queste leggi sono di tre specie: leggi identiche,leggi statistiche, leggi trascendentali (un termine che ha207 EDDINGTON, The nature, ecc., pp. 109-10.

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che si nasconde dietro i rapporti meramente strutturalidella scienza, per quanto già si intravveda che l'appren-sione diretta della coscienza possa attingerla.

L'altro libro dell'Eddington, che ha per titolo Thenature of physical world, pubblicato a dieci anni dal pri-mo, rivela una padronanza di gran lunga maggiore deiproblemi filosofici che in questo erano appena abbozza-ti. L'antitesi latente tra i due punti di vista sulla realtà,l'uno della scienza che circuisce la natura con le sue re-lazioni, l'altro della coscienza che ne coglie qualcosa dipiù interiore ed attuale (dove quest'ultimo termine espri-me un contrasto col carattere ipotetico delle leggi scien-tifiche), è più largamente sviluppata. «Il mondo dellascienza è un mondo umbratile (shadow world), che om-breggia un mondo familiare alla nostra coscienza. Findove ci aspettiamo che si estenda la sua ombra? Noncerto dov'è quistione di nostri stati interni, emozioni, ri-cordi, ecc., ma dove si tratta d'impressioni che apparten-gono ai sensi esterni. Ma il tempo entra negli uni e nellealtre, e così forma un legame intermedio tra l'interno el'esterno»207.

Come si passa dal mondo immediato della coscienzaalla formazione del mondo scientifico? C'è una capacitàselettiva della mente, la quale si esercita col creare unacornice di leggi permanenti, in cui s'inquadra il divenirenaturale. Queste leggi sono di tre specie: leggi identiche,leggi statistiche, leggi trascendentali (un termine che ha207 EDDINGTON, The nature, ecc., pp. 109-10.

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per l'A., come vedremo, un significato molto diverso daquello kantiano). Le prime non esprimono che la perma-nenza stessa della mente e dei suoi valori: tali, peresempio, le grandi leggi di «conservazione» (massa,energia, momento, ecc.) della meccanica classica, non-ché quelle che ha aggiunte la dottrina della relatività.Esse sono in fondo, dice l'Eddington, dei meri truismi, enello scoprirle in natura, la mente non fa che riprendereciò che ha posto già in essa. Le leggi statistiche si riferi-scono al comportamento delle folle e si fondano sul pre-supposto che, benché l'azione degl'individui sia impre-vedibile nella sua singolarità, i risultati medi possonoessere predetti con confidenza. Molta dell'apparente uni-formità della natura è uniformità di medie. E la tendenzadella scienza fisica contemporanea, in contrapposto conquella classica, sta nel convertire le «identità» delle co-struzioni meccanistiche in mere uniformità empiriche.Non soltanto il principio di entropia della termodinami-ca ha un evidente e riconosciuto carattere statistico, maanche i princìpi della meccanica hanno, sotto un certoaspetto, una simile natura. «L'eclisse del 1999 è sicuracome il bilancio di una compagnia di assicurazione; lasorte di un quantum atomico è incerta come la vostravita e la mia»208. Infine le leggi del terzo tipo, chel'Eddington chiama trascendentali, son quelle che nonconstano di ovvie identità, ma che concernono il com-portamento di oggetti estranei: elettroni, quanta, ecc. Si

208 Op. cit., p. 300.

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per l'A., come vedremo, un significato molto diverso daquello kantiano). Le prime non esprimono che la perma-nenza stessa della mente e dei suoi valori: tali, peresempio, le grandi leggi di «conservazione» (massa,energia, momento, ecc.) della meccanica classica, non-ché quelle che ha aggiunte la dottrina della relatività.Esse sono in fondo, dice l'Eddington, dei meri truismi, enello scoprirle in natura, la mente non fa che riprendereciò che ha posto già in essa. Le leggi statistiche si riferi-scono al comportamento delle folle e si fondano sul pre-supposto che, benché l'azione degl'individui sia impre-vedibile nella sua singolarità, i risultati medi possonoessere predetti con confidenza. Molta dell'apparente uni-formità della natura è uniformità di medie. E la tendenzadella scienza fisica contemporanea, in contrapposto conquella classica, sta nel convertire le «identità» delle co-struzioni meccanistiche in mere uniformità empiriche.Non soltanto il principio di entropia della termodinami-ca ha un evidente e riconosciuto carattere statistico, maanche i princìpi della meccanica hanno, sotto un certoaspetto, una simile natura. «L'eclisse del 1999 è sicuracome il bilancio di una compagnia di assicurazione; lasorte di un quantum atomico è incerta come la vostravita e la mia»208. Infine le leggi del terzo tipo, chel'Eddington chiama trascendentali, son quelle che nonconstano di ovvie identità, ma che concernono il com-portamento di oggetti estranei: elettroni, quanta, ecc. Si

208 Op. cit., p. 300.

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va compiendo qualche progresso verso queste leggi, maassai più lento che non verso le altre: qui infatti non sitratta per noi di riguadagnare dalla natura ciò che noistessi abbiamo conferito alla natura, ma ci troviamo difronte al suo intrinseco sistema di governo. Pure, possia-mo dire che questo governo ci sia del tutto estraneo? Èqui il nodo della questione. Si ha un bel dire che le leggid'identità o di conservazione sono dei meri truismi, o deidecreti della mente: se in qualche misura valgono nelmondo naturale, vuol dire che questo deve avere in séqualcosa di quei truismi o una certa sudditanza verso lamente.

A questa conclusione bisogna riconoscere chel'Eddington arriva da sé, senza alcuno sforzo. Gli entidella fisica, egli dice, sono delle schede di segnali indi-catori (pointer readings) attaccate a un fondamento sco-nosciuto. «Perché non attaccarle a qualcosa di naturaspirituale, la cui caratteristica preminente è il pensiero?Sembra piuttosto sciocco (silly) preferire di attaccarle auna così detta natura concreta inconsistente col pensieroe poi meravigliarsi come mai venga fuori il pensiero.Noi abbiamo rinunziato ad ogni preconcetto su quel fon-damento e per la maggior parte non possiamo scoprirnulla della sua natura. Ma in un caso, cioè pei segnaliindicatori del mio cervello, io ho una veduta che non èlimitata all'evidenza dei segnali stessi. Questa veduta mimostra che essi sono attaccati al fondamento della co-scienza. Ed io posso pensare che il fondamento degli al-

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va compiendo qualche progresso verso queste leggi, maassai più lento che non verso le altre: qui infatti non sitratta per noi di riguadagnare dalla natura ciò che noistessi abbiamo conferito alla natura, ma ci troviamo difronte al suo intrinseco sistema di governo. Pure, possia-mo dire che questo governo ci sia del tutto estraneo? Èqui il nodo della questione. Si ha un bel dire che le leggid'identità o di conservazione sono dei meri truismi, o deidecreti della mente: se in qualche misura valgono nelmondo naturale, vuol dire che questo deve avere in séqualcosa di quei truismi o una certa sudditanza verso lamente.

A questa conclusione bisogna riconoscere chel'Eddington arriva da sé, senza alcuno sforzo. Gli entidella fisica, egli dice, sono delle schede di segnali indi-catori (pointer readings) attaccate a un fondamento sco-nosciuto. «Perché non attaccarle a qualcosa di naturaspirituale, la cui caratteristica preminente è il pensiero?Sembra piuttosto sciocco (silly) preferire di attaccarle auna così detta natura concreta inconsistente col pensieroe poi meravigliarsi come mai venga fuori il pensiero.Noi abbiamo rinunziato ad ogni preconcetto su quel fon-damento e per la maggior parte non possiamo scoprirnulla della sua natura. Ma in un caso, cioè pei segnaliindicatori del mio cervello, io ho una veduta che non èlimitata all'evidenza dei segnali stessi. Questa veduta mimostra che essi sono attaccati al fondamento della co-scienza. Ed io posso pensare che il fondamento degli al-

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tri segnali sia di natura continuo con ciò che mi è rivela-to in questo caso particolare, benché io non possa sup-porre che esso abbia gli attributi più particolari dellamia coscienza»209. Non è pensabile che l'attività dellamateria a un certo punto del cervello stimoli l'attivitàdella mente; al contrario, l'attività della materia non èche una descrizione metrica di certi aspetti dell'attivitàdella mente. Essa è il nostro modo di riconoscere unacerta combinazione delle nostre misure di «struttura»mentre l'attività della mente è la nostra veduta internanel complesso delle relazioni, la cui comparabilità dà ilfondamento di quelle misure210. Insomma, partendodall'etere, dagli elettroni e dagli altri meccanismi fisicinoi non possiamo raggiungere l'uomo cosciente e renderconto di ciò che è appreso dalla sua coscienza. Il fisicodi oggi considera il mondo esterno in un modo che sipuò descrivere come più mistico, benché non menoesatto e pratico di trent'anni fa, quando si riteneva chenessuna verità fosse certa se non si potesse esibire unmodello meccanico. Parlare di qualunque aspirazione aldi là della fisica sembrava un non-senso. Oggi invece siva oltre, e si domanda se ci sia un fondamento fisicodello stesso non-senso. Se il cervello contiene il fonda-mento fisico del non-senso che viene immaginato,dev'esserci una combinazione particolare delle entitàdella fisica, capace di produrlo. Ora, quando io dico che,nell'enunciare la proposizione vera 7 x 8 = 56, il mio209 Ibid., p. 259.210 Ibid., p. 268.

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tri segnali sia di natura continuo con ciò che mi è rivela-to in questo caso particolare, benché io non possa sup-porre che esso abbia gli attributi più particolari dellamia coscienza»209. Non è pensabile che l'attività dellamateria a un certo punto del cervello stimoli l'attivitàdella mente; al contrario, l'attività della materia non èche una descrizione metrica di certi aspetti dell'attivitàdella mente. Essa è il nostro modo di riconoscere unacerta combinazione delle nostre misure di «struttura»mentre l'attività della mente è la nostra veduta internanel complesso delle relazioni, la cui comparabilità dà ilfondamento di quelle misure210. Insomma, partendodall'etere, dagli elettroni e dagli altri meccanismi fisicinoi non possiamo raggiungere l'uomo cosciente e renderconto di ciò che è appreso dalla sua coscienza. Il fisicodi oggi considera il mondo esterno in un modo che sipuò descrivere come più mistico, benché non menoesatto e pratico di trent'anni fa, quando si riteneva chenessuna verità fosse certa se non si potesse esibire unmodello meccanico. Parlare di qualunque aspirazione aldi là della fisica sembrava un non-senso. Oggi invece siva oltre, e si domanda se ci sia un fondamento fisicodello stesso non-senso. Se il cervello contiene il fonda-mento fisico del non-senso che viene immaginato,dev'esserci una combinazione particolare delle entitàdella fisica, capace di produrlo. Ora, quando io dico che,nell'enunciare la proposizione vera 7 x 8 = 56, il mio209 Ibid., p. 259.210 Ibid., p. 268.

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cervello produce zucchero, e nell'enunciare la proposi-zione falsa 7 x 8 = 65 il mio cervello produce gesso, chipuò affermare che il meccanismo abbia funzionatomale? Come macchina fisica, il cervello ha agito nei duecasi secondo le leggi inderogabili della fisica: perchéstigmatizzare la sua azione? Questa distinzione di pro-dotti in buoni e cattivi, in veri e falsi non ha riscontronella chimica. Noi non possiamo assimilare le leggi delpensiero alle leggi della natura; esse son leggi che oughtto be (sollen) obbedite, non leggi che must be (müssen)obbedite; e il fisico deve accettar le leggi del pensieroprima di accettar le leggi fisiche, ed anzi come condizio-ni di esse. In un mondo di etere e di elettroni, noi pos-siamo forse incontrare il non-senso, ma non già il non-senso condannato211.

In conclusione, qualunque testimonianza di realtà nonpuò venirci dalle leggi fisiche, ma solo dalla coscienza.Noi possiamo immaginare un mondo, Utopia, per esem-pio, governato da tutte le leggi della natura note edignote che governano il nostro stesso mondo, ma conte-nente migliori stelle, pianeti, città, animali, ecc.; unmondo che potrebbe esistere, ma che, per puro caso, nonesiste. Chi ce lo attesta? Non certo la scienza. Pensiamoa un frammento di materia in esso: non è reale materia,ma attrae ogni altro frammento di (irreale) materia diUtopia, secondo la legge di gravitazione. Scale e orologicostruiti di questa materia irreale misureranno intervalli

211 Ibid., p. 345.

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cervello produce zucchero, e nell'enunciare la proposi-zione falsa 7 x 8 = 65 il mio cervello produce gesso, chipuò affermare che il meccanismo abbia funzionatomale? Come macchina fisica, il cervello ha agito nei duecasi secondo le leggi inderogabili della fisica: perchéstigmatizzare la sua azione? Questa distinzione di pro-dotti in buoni e cattivi, in veri e falsi non ha riscontronella chimica. Noi non possiamo assimilare le leggi delpensiero alle leggi della natura; esse son leggi che oughtto be (sollen) obbedite, non leggi che must be (müssen)obbedite; e il fisico deve accettar le leggi del pensieroprima di accettar le leggi fisiche, ed anzi come condizio-ni di esse. In un mondo di etere e di elettroni, noi pos-siamo forse incontrare il non-senso, ma non già il non-senso condannato211.

In conclusione, qualunque testimonianza di realtà nonpuò venirci dalle leggi fisiche, ma solo dalla coscienza.Noi possiamo immaginare un mondo, Utopia, per esem-pio, governato da tutte le leggi della natura note edignote che governano il nostro stesso mondo, ma conte-nente migliori stelle, pianeti, città, animali, ecc.; unmondo che potrebbe esistere, ma che, per puro caso, nonesiste. Chi ce lo attesta? Non certo la scienza. Pensiamoa un frammento di materia in esso: non è reale materia,ma attrae ogni altro frammento di (irreale) materia diUtopia, secondo la legge di gravitazione. Scale e orologicostruiti di questa materia irreale misureranno intervalli

211 Ibid., p. 345.

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irreali; stelle irreali emetteranno raggi irreali che cadran-no su retine irreali e impressioneranno irreali cervelli, ecosì via. Insomma, non appena noi entriamo nel ciclodella fisica, non possiamo mai trovare un punto vulnera-bile, perché ciascun elemento è connesso a tutto il restodel circolo, e tutte le leggi di natura espresse dal ciclovalgono ipoteticamente. La sola coscienza guardanell'interno del circolo. Così, da un punto di vista piùprofondo di quello che presiede all'elaborazione deglischemi fisici delle leggi, noi non possiamo considerarela connessione con la mente come un mero incidente inun mondo inorganico esistente per sé. L'attualità dellanatura implica la coscienza. Questa attualità a sua voltanon esprime che un aspetto soggettivo e immediato delmondo; per generalizzare tale risultato e per adeguarlo auna pluralità d'individui consapevoli, noi dobbiamo in-cluderlo in una potenzialità più vasta e concludere che ilconcetto di una esperienza possibile costituisce il limitemassimo dell'oggettività delle nostre conoscenze212. An-che qui noi giungiamo, pur attraverso un differente girodi pensiero, allo stesso limite della Critica kantiana.

Può sembrare forse che le considerazioni precedentinon abbiano stretti rapporti con la dottrina della relativi-tà e siano appropriate a qualunque concezione scientifi-ca. Ma il valore della fisica einsteiniana in rapporto conla filosofia sta appunto nell'aver resi più evidenti certiaspetti idealistici della gnoseologia e di averne resi con-

212 Ibid., pp. 265-67.

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irreali; stelle irreali emetteranno raggi irreali che cadran-no su retine irreali e impressioneranno irreali cervelli, ecosì via. Insomma, non appena noi entriamo nel ciclodella fisica, non possiamo mai trovare un punto vulnera-bile, perché ciascun elemento è connesso a tutto il restodel circolo, e tutte le leggi di natura espresse dal ciclovalgono ipoteticamente. La sola coscienza guardanell'interno del circolo. Così, da un punto di vista piùprofondo di quello che presiede all'elaborazione deglischemi fisici delle leggi, noi non possiamo considerarela connessione con la mente come un mero incidente inun mondo inorganico esistente per sé. L'attualità dellanatura implica la coscienza. Questa attualità a sua voltanon esprime che un aspetto soggettivo e immediato delmondo; per generalizzare tale risultato e per adeguarlo auna pluralità d'individui consapevoli, noi dobbiamo in-cluderlo in una potenzialità più vasta e concludere che ilconcetto di una esperienza possibile costituisce il limitemassimo dell'oggettività delle nostre conoscenze212. An-che qui noi giungiamo, pur attraverso un differente girodi pensiero, allo stesso limite della Critica kantiana.

Può sembrare forse che le considerazioni precedentinon abbiano stretti rapporti con la dottrina della relativi-tà e siano appropriate a qualunque concezione scientifi-ca. Ma il valore della fisica einsteiniana in rapporto conla filosofia sta appunto nell'aver resi più evidenti certiaspetti idealistici della gnoseologia e di averne resi con-

212 Ibid., pp. 265-67.

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sapevoli gli stessi cultori delle scienze naturali. Fino aqualche decennio fa pareva inevitabile che un naturali-sta non potesse essere se non materialista. Oggi invecesi comincia a intendere che la tendenza ad entificare,che è insita alla scienza per la necessità del suo procedi-mento, non significa materializzare, ma permeare di re-lazioni mentali costanti il flusso del divenire cosmico; eche pertanto la scienza non ha per compito di compri-mere le rivelazioni della coscienza ma le esige e ne vie-ne integrata. Se il progresso della filosofia non consistesoltanto in una successione dinastica di sistemi decifra-bili da pochi iniziati, ma in una larga ed intensa circola-zione di esigenze mentali poste dal pensiero filosofico,bisogna convenire che la dottrina della relatività ha mol-to contribuito, negli ultimi anni, a tale progresso213.

213 Abbiamo tolto in esame i1 pensiero dell'astronomo Eddington, come quel-lo che meglio si prestava a un particolareggiato discorso. Considerazionianaloghe sono suggerite dalle vedute filosofiche più sporadiche e fram-mentarie di altri teorici della relatività. Per esempio anche il Weyl affermache le cose del mondo reale ci son date soltanto come «intenzionali oggettidi atti di coscienza: l'Erlebnis della coscienza è il dato assoluto che non sipuò trascendere» (Raum, Zeit, Materie, cit., p. 3). E il tutto non è né spazioné tempo, ma storia, «als einen in zeitlicher Entwicklung begriffenen, imRaume sich abspielenden Prozess».

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sapevoli gli stessi cultori delle scienze naturali. Fino aqualche decennio fa pareva inevitabile che un naturali-sta non potesse essere se non materialista. Oggi invecesi comincia a intendere che la tendenza ad entificare,che è insita alla scienza per la necessità del suo procedi-mento, non significa materializzare, ma permeare di re-lazioni mentali costanti il flusso del divenire cosmico; eche pertanto la scienza non ha per compito di compri-mere le rivelazioni della coscienza ma le esige e ne vie-ne integrata. Se il progresso della filosofia non consistesoltanto in una successione dinastica di sistemi decifra-bili da pochi iniziati, ma in una larga ed intensa circola-zione di esigenze mentali poste dal pensiero filosofico,bisogna convenire che la dottrina della relatività ha mol-to contribuito, negli ultimi anni, a tale progresso213.

213 Abbiamo tolto in esame i1 pensiero dell'astronomo Eddington, come quel-lo che meglio si prestava a un particolareggiato discorso. Considerazionianaloghe sono suggerite dalle vedute filosofiche più sporadiche e fram-mentarie di altri teorici della relatività. Per esempio anche il Weyl affermache le cose del mondo reale ci son date soltanto come «intenzionali oggettidi atti di coscienza: l'Erlebnis della coscienza è il dato assoluto che non sipuò trascendere» (Raum, Zeit, Materie, cit., p. 3). E il tutto non è né spazioné tempo, ma storia, «als einen in zeitlicher Entwicklung begriffenen, imRaume sich abspielenden Prozess».

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XI

IL NUOVO ATOMISMO

Lo studioso di filosofia che ha la forza di distogliereun po' lo sguardo dalle sue carte e di dare un'occhiata aquel che succede nel più vasto mondo, può trovare dellesorprese alle quali le sue carte lo avevano ormai disav-vezzato. Se volge per esempio la sua attenzione a quelche avviene nel campo della fisica, avverte, per pocoche ne capisca, uno straordinario affaccendamento, chestranamente contrasta con la placidità sonnolenta delmondo filosofico. Egli credeva di aver saldato i suoiconti col problema della natura, ricevendo dai fisici del-la generazione passata l'idea, molto rassicurante per lesue speculazioni, che l'atomismo non è che una ipotesi,che il fenomenismo è un limite insuperabile dell'indagi-ne naturale, e che generalmente i concetti scientificisono convenzioni arbitrarie ma utili. Riprendendo oracontatto con gli scienziati della generazione presente,trova che essi hanno un contegno molto meno acquie-scente – anzi, si potrebbe dire aggressivo; e che, lungidal lasciar campo libero ai filosofi, col chiudersi in un

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IL NUOVO ATOMISMO

Lo studioso di filosofia che ha la forza di distogliereun po' lo sguardo dalle sue carte e di dare un'occhiata aquel che succede nel più vasto mondo, può trovare dellesorprese alle quali le sue carte lo avevano ormai disav-vezzato. Se volge per esempio la sua attenzione a quelche avviene nel campo della fisica, avverte, per pocoche ne capisca, uno straordinario affaccendamento, chestranamente contrasta con la placidità sonnolenta delmondo filosofico. Egli credeva di aver saldato i suoiconti col problema della natura, ricevendo dai fisici del-la generazione passata l'idea, molto rassicurante per lesue speculazioni, che l'atomismo non è che una ipotesi,che il fenomenismo è un limite insuperabile dell'indagi-ne naturale, e che generalmente i concetti scientificisono convenzioni arbitrarie ma utili. Riprendendo oracontatto con gli scienziati della generazione presente,trova che essi hanno un contegno molto meno acquie-scente – anzi, si potrebbe dire aggressivo; e che, lungidal lasciar campo libero ai filosofi, col chiudersi in un

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presente positivismo, fanno largo uso e critica spregiu-dicata di concetti filosofici, mostrando (bisogna anchericonoscere) una finezza mentale molto maggiore diquella dei loro antenati, materialisti e positivisti. Ed essihanno dei risultati ben tangibili da opporre ai filosofi:l'atomismo, ci proclamano tutti ormai concordemente,non è più un'ipotesi, non è un'assunzione metafisica, mauna verità di ordine sperimentale. «L'atomismo ha vin-to», ha detto con accento trionfale uno di essi in un re-cente libro, le cui conclusioni intendono di non eccederei limiti dei risultati ottenuti in un laboratorio di chimi-ca214. E questa vittoria appare più sicura, per il fatto stes-so che nella nuova teoria atomica confluiscono diversiordini di ricerche, moventi da punti lontanissimi l'unodall'altro, e che si confermano reciprocamente.

L'esistenza, dunque, dell'atomo sembra fuori discus-sione. È un atomo sui generis, che, tanto per comincia-re, contraddice alla propria natura etimologica, perchéha per suo primo carattere di esser diviso in parti, il nu-cleo e gli elettroni. L'uno e gli altri, come ormai sannoanche i lettori dei giornali, si equilibrano, nel senso cheall'elettricità positiva dell'uno corrisponde un'eguale ca-rica negativa degli altri. Ed è anche risaputo che il rap-porto tra nucleo ed elettroni è concepito ad analogia diun sistema planetario e che nel mutuo gioco delle azionie reazioni l'equilibrio può essere più o meno facilmenterotto dalla proiezione di qualche elettrone superficiale

214 PERRIN, Les atomes, Paris, 19302, p. 321.

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presente positivismo, fanno largo uso e critica spregiu-dicata di concetti filosofici, mostrando (bisogna anchericonoscere) una finezza mentale molto maggiore diquella dei loro antenati, materialisti e positivisti. Ed essihanno dei risultati ben tangibili da opporre ai filosofi:l'atomismo, ci proclamano tutti ormai concordemente,non è più un'ipotesi, non è un'assunzione metafisica, mauna verità di ordine sperimentale. «L'atomismo ha vin-to», ha detto con accento trionfale uno di essi in un re-cente libro, le cui conclusioni intendono di non eccederei limiti dei risultati ottenuti in un laboratorio di chimi-ca214. E questa vittoria appare più sicura, per il fatto stes-so che nella nuova teoria atomica confluiscono diversiordini di ricerche, moventi da punti lontanissimi l'unodall'altro, e che si confermano reciprocamente.

L'esistenza, dunque, dell'atomo sembra fuori discus-sione. È un atomo sui generis, che, tanto per comincia-re, contraddice alla propria natura etimologica, perchéha per suo primo carattere di esser diviso in parti, il nu-cleo e gli elettroni. L'uno e gli altri, come ormai sannoanche i lettori dei giornali, si equilibrano, nel senso cheall'elettricità positiva dell'uno corrisponde un'eguale ca-rica negativa degli altri. Ed è anche risaputo che il rap-porto tra nucleo ed elettroni è concepito ad analogia diun sistema planetario e che nel mutuo gioco delle azionie reazioni l'equilibrio può essere più o meno facilmenterotto dalla proiezione di qualche elettrone superficiale

214 PERRIN, Les atomes, Paris, 19302, p. 321.

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fuori del sistema, da cui si generano fenomeni detti diionizzazione. Una stabilità relativamente maggiore pre-senta il nucleo; ma neppur questo corrisponde al signifi-cato etimologico dell'atomo. Esso consta a sua volta diprotoni e di altri elettroni interni, distinti da quelli peri-ferici o planetari, e non è neppur certo che il processoanalitico di decomposizione debba arrestarsi a questielementi, tant'è vero che si comincia a parlare già da ta-luni dell'esistenza di sub-elettroni. Nella fase odiernadelle scienze fisiche, l'attenzione degli studiosi è tuttaconcentrata sullo studio della composizione del nucleo edei mezzi per ottenerne la disintegrazione. E in questocampo sono ormai famose le esperienze del Rutherford,che sono riuscite a fissare otticamente le traiettorie, eperfino acusticamente i «bombardamenti» di alcuni diquesti proiettili atomici. Si è potuto inoltre accertarel'identità di natura del mondo materiale, vincendo l'irri-ducibilità dei così detti corpi semplici l'uno all'altro, per-ché è risultato che i loro ingredienti comuni sono i nu-clei dell'idrogeno in proporzione diversa per ciascuno diessi, ma secondo una progressione definita, crescenteper unità intere. I sogni degli alchimisti, della trasmuta-zione della materia, sono apparsi in via di realizzarsi. Edaltre speranze, anche più ambiziose, sono state concepi-te; poiché il conglomerarsi di protoni d'idrogeno nellaformazione dei nuclei più pesanti sprigiona una quantitàenorme di energia, che corrisponde a una diminuzionedella massa dell'agglomerato, si è potuto parlare di an-nientamento della materia, o meglio della conversione

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fuori del sistema, da cui si generano fenomeni detti diionizzazione. Una stabilità relativamente maggiore pre-senta il nucleo; ma neppur questo corrisponde al signifi-cato etimologico dell'atomo. Esso consta a sua volta diprotoni e di altri elettroni interni, distinti da quelli peri-ferici o planetari, e non è neppur certo che il processoanalitico di decomposizione debba arrestarsi a questielementi, tant'è vero che si comincia a parlare già da ta-luni dell'esistenza di sub-elettroni. Nella fase odiernadelle scienze fisiche, l'attenzione degli studiosi è tuttaconcentrata sullo studio della composizione del nucleo edei mezzi per ottenerne la disintegrazione. E in questocampo sono ormai famose le esperienze del Rutherford,che sono riuscite a fissare otticamente le traiettorie, eperfino acusticamente i «bombardamenti» di alcuni diquesti proiettili atomici. Si è potuto inoltre accertarel'identità di natura del mondo materiale, vincendo l'irri-ducibilità dei così detti corpi semplici l'uno all'altro, per-ché è risultato che i loro ingredienti comuni sono i nu-clei dell'idrogeno in proporzione diversa per ciascuno diessi, ma secondo una progressione definita, crescenteper unità intere. I sogni degli alchimisti, della trasmuta-zione della materia, sono apparsi in via di realizzarsi. Edaltre speranze, anche più ambiziose, sono state concepi-te; poiché il conglomerarsi di protoni d'idrogeno nellaformazione dei nuclei più pesanti sprigiona una quantitàenorme di energia, che corrisponde a una diminuzionedella massa dell'agglomerato, si è potuto parlare di an-nientamento della materia, o meglio della conversione

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di essa in pura energia radiante; il che spiegherebbecome siano inesauste e praticamente inesauribili le riser-ve di energia del sole e delle stelle, mentre un'ordinariacombustione le esaurirebbe in tempo relativamente bre-ve. Se qualcosa di simile si potesse realizzare alla nostrascala, con la energia liberata dall'annientamento di qual-che chilogrammo di materia, saremmo in grado di ali-mentare tutto il meccanismo delle nostre industrie.

Queste nozioni sono ormai nel dominio di tutti, alme-no per ciò che riguarda i risultati più appariscenti. Nellaloro genesi invece, e nel loro significato più intimo, esseappartengono al dominio di pochissimi e presentanograndi astrusità e complicazioni. Ora, se vogliamo col-pire qualche tratto distintivo del nuovo atomismo, cheinteressi le nostre concezioni filosofiche, dobbiamosforzarci di svelare questi aspetti meno apparenti. Io mici proverò nella misura limitata delle mie forze e dellemie informazioni scientifiche, nella speranza che altri,meglio dotati, possano allargare e prolungare il piccoloe breve solco.

C'è stata, nell'evoluzione della fisica moderna,un'oscillazione pendolare tra due vedute opposte dellamateria, l'una delle quali ne fa un continuo, indefinita-mente divisibile, l'altra un composto di parti discrete, diatomi. In generale si può dire che le dottrine che consi-derano come una proprietà essenziale della materia laspazialità sono orientate verso la veduta del «continuo»,perché è inseparabile dall'idea di spazio quella di una di-

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di essa in pura energia radiante; il che spiegherebbecome siano inesauste e praticamente inesauribili le riser-ve di energia del sole e delle stelle, mentre un'ordinariacombustione le esaurirebbe in tempo relativamente bre-ve. Se qualcosa di simile si potesse realizzare alla nostrascala, con la energia liberata dall'annientamento di qual-che chilogrammo di materia, saremmo in grado di ali-mentare tutto il meccanismo delle nostre industrie.

Queste nozioni sono ormai nel dominio di tutti, alme-no per ciò che riguarda i risultati più appariscenti. Nellaloro genesi invece, e nel loro significato più intimo, esseappartengono al dominio di pochissimi e presentanograndi astrusità e complicazioni. Ora, se vogliamo col-pire qualche tratto distintivo del nuovo atomismo, cheinteressi le nostre concezioni filosofiche, dobbiamosforzarci di svelare questi aspetti meno apparenti. Io mici proverò nella misura limitata delle mie forze e dellemie informazioni scientifiche, nella speranza che altri,meglio dotati, possano allargare e prolungare il piccoloe breve solco.

C'è stata, nell'evoluzione della fisica moderna,un'oscillazione pendolare tra due vedute opposte dellamateria, l'una delle quali ne fa un continuo, indefinita-mente divisibile, l'altra un composto di parti discrete, diatomi. In generale si può dire che le dottrine che consi-derano come una proprietà essenziale della materia laspazialità sono orientate verso la veduta del «continuo»,perché è inseparabile dall'idea di spazio quella di una di-

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visione all'infinito; mentre le dottrine di origine piùstrettamente fisica e sperimentale si sono di buon'oraorientate verso l'atomismo, anche in via soltanto ipoteti-ca.

Il cartesianismo, conforme alle sue premesse spazialie geometriche, è stato decisamente anti-atomistico. Ga-lileo si è sforzato di giungere a una transazione delledue vedute opposte, ponendosi da un punto di vista pu-ramente logico e formale, cioè proponendosi di dimo-strare che il continuo non possa risultare se non di partidiscrete; ma il suo tentativo si può considerare fallito215.Battuta in breccia la scienza cartesiana dalla fisica speri-mentale dei secoli XVIII e XIX, l'atomismo ha avuto unsopravvento sempre più decisivo, fino a che nella secon-da metà dell'800 non v'è stata una ripresa della dottrinadel continuo, con l'energetica di Mach e di Ostwald.Oggi infine si rinnova il trionfo dell'atomismo, ma neltempo stesso, e, quel ch'è più caratteristico, per operadei suoi stessi fautori, si riafferma la dottrina della con-tinuità, nella forma della fisica relativistica. Ciò che piùcolpisce in queste oscillazioni è che le due vedute appa-iono contrastanti e complementari insieme; esse si re-spingono e si attraggono, senza che per altro si riesca atrovare uno stabile punto di giuntura216.215 V. il capitolo su G. Galilei nel mio volume su L'età cartesiana, Bari, Later-

za, 1933.216 Il LOHR (Atomismus und Kontinuitätstheorie in der neuzeitlichen Physik,

Leipzig, 1926) mostra che l'idea della continuità è implicita in molte con-cezioni della fisica del discontinuo. Per esempio: i centri di forza di Fara-day non sono isolati nello spazio, ma implicano una continuità materiale.

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visione all'infinito; mentre le dottrine di origine piùstrettamente fisica e sperimentale si sono di buon'oraorientate verso l'atomismo, anche in via soltanto ipoteti-ca.

Il cartesianismo, conforme alle sue premesse spazialie geometriche, è stato decisamente anti-atomistico. Ga-lileo si è sforzato di giungere a una transazione delledue vedute opposte, ponendosi da un punto di vista pu-ramente logico e formale, cioè proponendosi di dimo-strare che il continuo non possa risultare se non di partidiscrete; ma il suo tentativo si può considerare fallito215.Battuta in breccia la scienza cartesiana dalla fisica speri-mentale dei secoli XVIII e XIX, l'atomismo ha avuto unsopravvento sempre più decisivo, fino a che nella secon-da metà dell'800 non v'è stata una ripresa della dottrinadel continuo, con l'energetica di Mach e di Ostwald.Oggi infine si rinnova il trionfo dell'atomismo, ma neltempo stesso, e, quel ch'è più caratteristico, per operadei suoi stessi fautori, si riafferma la dottrina della con-tinuità, nella forma della fisica relativistica. Ciò che piùcolpisce in queste oscillazioni è che le due vedute appa-iono contrastanti e complementari insieme; esse si re-spingono e si attraggono, senza che per altro si riesca atrovare uno stabile punto di giuntura216.215 V. il capitolo su G. Galilei nel mio volume su L'età cartesiana, Bari, Later-

za, 1933.216 Il LOHR (Atomismus und Kontinuitätstheorie in der neuzeitlichen Physik,

Leipzig, 1926) mostra che l'idea della continuità è implicita in molte con-cezioni della fisica del discontinuo. Per esempio: i centri di forza di Fara-day non sono isolati nello spazio, ma implicano una continuità materiale.

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Uno degli episodi più significativi di questo conflittosi ebbe già sul finire del '600, nello studio del problemadella luce. Il Newton formulò un'ipotesi emissionistica,che attribuiva alla luce una struttura discontinua e cor-puscolare. D'altra parte, lo Huygens aveva già formulatoun'ipotesi ondulatoria, secondo la quale l'irradiazione èun perturbamento di natura continua, decomponibile inuna infinità ininterrotta di onde. Dal Fresnel allo Hertz,questa seconda ipotesi s'è consolidata ed ha avuto la suaprova cruciale nell'esperienza del Foucault. È accadutocosì che, mentre l'atomismo trionfava nella spiegazionedella materia, la dottrina del continuo prevaleva in quel-la delle radiazioni luminose e in tutte le altre, elettriche,magnetiche, ecc., che la scienza veniva nel frattempoassimilando ad esse. Il dualismo tra il continuo e il di-screto veniva in tal modo a prender corpo nella dualità

Similmente, gli atomi di Thomson sono immersi in un fluido etereo conti-nuo. Per il Lohr l'assunzione di particelle discrete corrisponde in ultimaistanza alle posizioni mentali discrete del nostro intelletto, mentre il conti-nuum è una forma dell'intuizione, la quale è matematicamente articolata(mediante gl'intervalli-limiti infinitamente piccoli) in elementi differenzialiche fluiscono l'uno nell'altro, senza tuttavia sciogliersi in elementi indipen-denti l'uno dall'altro. Il calcolo infinitesimale di Leibniz e di Newton creòuna forma adeguata al continuo con la legge del differenziale e dell'azionecontigua (Nahewirkungsgesetz). Contro il nuovo atomismo, il Lohr crededi poter riaffermare la vitalità di una fisica del continuo (sulle orme delJannan), secondo la quale non c'è uno spazio distinto da una sostanza; mac'è solo uno spazio con alcune proprietà, che vengono caratterizzate da va-lori variabili di situazione e di tempo. Nel movimento, ciò che si muove èuna determinata Zustandestruktur, un determinato complesso spaziale, nonun portatore sostanziale delle proprietà. Invece di un movimento di parti-celle, bisogna parlare di una Fortpflanzung, di mutamenti di stato. Si trattaqui, com'è facile riconoscere, di un aggiornamento della fisica cartesiana.

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Uno degli episodi più significativi di questo conflittosi ebbe già sul finire del '600, nello studio del problemadella luce. Il Newton formulò un'ipotesi emissionistica,che attribuiva alla luce una struttura discontinua e cor-puscolare. D'altra parte, lo Huygens aveva già formulatoun'ipotesi ondulatoria, secondo la quale l'irradiazione èun perturbamento di natura continua, decomponibile inuna infinità ininterrotta di onde. Dal Fresnel allo Hertz,questa seconda ipotesi s'è consolidata ed ha avuto la suaprova cruciale nell'esperienza del Foucault. È accadutocosì che, mentre l'atomismo trionfava nella spiegazionedella materia, la dottrina del continuo prevaleva in quel-la delle radiazioni luminose e in tutte le altre, elettriche,magnetiche, ecc., che la scienza veniva nel frattempoassimilando ad esse. Il dualismo tra il continuo e il di-screto veniva in tal modo a prender corpo nella dualità

Similmente, gli atomi di Thomson sono immersi in un fluido etereo conti-nuo. Per il Lohr l'assunzione di particelle discrete corrisponde in ultimaistanza alle posizioni mentali discrete del nostro intelletto, mentre il conti-nuum è una forma dell'intuizione, la quale è matematicamente articolata(mediante gl'intervalli-limiti infinitamente piccoli) in elementi differenzialiche fluiscono l'uno nell'altro, senza tuttavia sciogliersi in elementi indipen-denti l'uno dall'altro. Il calcolo infinitesimale di Leibniz e di Newton creòuna forma adeguata al continuo con la legge del differenziale e dell'azionecontigua (Nahewirkungsgesetz). Contro il nuovo atomismo, il Lohr crededi poter riaffermare la vitalità di una fisica del continuo (sulle orme delJannan), secondo la quale non c'è uno spazio distinto da una sostanza; mac'è solo uno spazio con alcune proprietà, che vengono caratterizzate da va-lori variabili di situazione e di tempo. Nel movimento, ciò che si muove èuna determinata Zustandestruktur, un determinato complesso spaziale, nonun portatore sostanziale delle proprietà. Invece di un movimento di parti-celle, bisogna parlare di una Fortpflanzung, di mutamenti di stato. Si trattaqui, com'è facile riconoscere, di un aggiornamento della fisica cartesiana.

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dell'energia radiante e della materia. Ma recentementequesto tacito compromesso, che dissimulava in realtà unproblema insoluto, è stato nuovamente turbatodall'apparizione della teoria dei quanta. Il Planck, chene è l'autore, movendo da alcuni dati sperimentali, notisotto il nome di legge di Stefan e di legge di Wien, e re-lativi alla misura delle radiazioni luminose emananti daun recinto isotermico, attraverso un foro praticato sullaparete di esso, e sottoponendo questi dati al calcolo ma-tematico, è giunto a conclusioni incompatibili con l'ipo-tesi di una radiazione continua e conciliabili solo conl'ipotesi di una emissione di energia per quanta discreti.La luce in altri termini sarebbe emessa a fiotti disconti-nui – atomi luminosi o fotoni – con un'energia matema-ticamente calcolabile secondo una certa formula. Ein-stein ha poi generalizzato queste conclusioni, facendodella discontinuità un principio universale del mondo fi-sico. In effetti, con la veduta atomistica dell'energia ra-diante sembrerebbe appianato il conflitto tra materia eradiazione. Nell'un caso e nell'altro si tratterebbe dellastessa sostanza, in due forme, per così dire, di aggrega-zione diversa: la materia in senso stretto sarebbe unaspecie di radiazione congelata, secondo l'immagine delJeans, cioè dotata di movimenti lenti e circolari; l'ener-gia radiante si propagherebbe in linea retta con la velo-cità della luce. È una veduta che, sia detto per incidente,presenta, insieme con grandi differenze, anche strane af-finità con quella cartesiana dei vortici materiali, attra-verso i quali passa in linea retta l'elemento sottilissimo

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dell'energia radiante e della materia. Ma recentementequesto tacito compromesso, che dissimulava in realtà unproblema insoluto, è stato nuovamente turbatodall'apparizione della teoria dei quanta. Il Planck, chene è l'autore, movendo da alcuni dati sperimentali, notisotto il nome di legge di Stefan e di legge di Wien, e re-lativi alla misura delle radiazioni luminose emananti daun recinto isotermico, attraverso un foro praticato sullaparete di esso, e sottoponendo questi dati al calcolo ma-tematico, è giunto a conclusioni incompatibili con l'ipo-tesi di una radiazione continua e conciliabili solo conl'ipotesi di una emissione di energia per quanta discreti.La luce in altri termini sarebbe emessa a fiotti disconti-nui – atomi luminosi o fotoni – con un'energia matema-ticamente calcolabile secondo una certa formula. Ein-stein ha poi generalizzato queste conclusioni, facendodella discontinuità un principio universale del mondo fi-sico. In effetti, con la veduta atomistica dell'energia ra-diante sembrerebbe appianato il conflitto tra materia eradiazione. Nell'un caso e nell'altro si tratterebbe dellastessa sostanza, in due forme, per così dire, di aggrega-zione diversa: la materia in senso stretto sarebbe unaspecie di radiazione congelata, secondo l'immagine delJeans, cioè dotata di movimenti lenti e circolari; l'ener-gia radiante si propagherebbe in linea retta con la velo-cità della luce. È una veduta che, sia detto per incidente,presenta, insieme con grandi differenze, anche strane af-finità con quella cartesiana dei vortici materiali, attra-verso i quali passa in linea retta l'elemento sottilissimo

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della luce. E tanto Cartesio quanto i moderni si sono ar-restati innanzi al mistero inesplicabile di questa diversi-tà di comportamento; anzi i moderni si sono trovati incondizioni, sotto certi aspetti, più svantaggiose. Infatti ladottrina dei quanta, se da un lato porta con sé la ricorda-ta semplificazione, da un altro invece crea una compli-cazione nuova, per il fatto che i fenomeni d'interferenzae di polarizzazione dei raggi luminosi non si spieganocon l'ipotesi dell'emissione discontinua e richiedono in-vece un'interpretazione conforme alla dottrina ondulato-ria. In altri termini, l'opposizione del continuo e del di-screto si sposta dalla diade materia-radiazione in senoall'unica e identica sostanza risultante dall'accennataunificazione.

A questo punto, due soluzioni sono pensabili e sonostate, effettivamente, tentate. Una prima si potrebbe direkantiana, anche se i fautori di essa sono immemori diKant. Il continuo e il discreto sono termini di una delleantinomie «matematiche» della Critica della ragionpura. Ora il fatto che, comunque si spinga avanti il pro-cedimento analitico del pensiero, ci si ritrova in presen-za dell'antitesi, è segno che questa ha la sua origine inuna illusione della ragione che trasferisce alle cose in séciò che appartiene a una propria maniera necessaria dipensare. In altri termini, la materia in sé è inconoscibilee quindi non si può dire di essa né che sia continua néche sia discreta; continuo e discreto sono due modi dirappresentarcela ed hanno pertanto una mera validità fe-

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della luce. E tanto Cartesio quanto i moderni si sono ar-restati innanzi al mistero inesplicabile di questa diversi-tà di comportamento; anzi i moderni si sono trovati incondizioni, sotto certi aspetti, più svantaggiose. Infatti ladottrina dei quanta, se da un lato porta con sé la ricorda-ta semplificazione, da un altro invece crea una compli-cazione nuova, per il fatto che i fenomeni d'interferenzae di polarizzazione dei raggi luminosi non si spieganocon l'ipotesi dell'emissione discontinua e richiedono in-vece un'interpretazione conforme alla dottrina ondulato-ria. In altri termini, l'opposizione del continuo e del di-screto si sposta dalla diade materia-radiazione in senoall'unica e identica sostanza risultante dall'accennataunificazione.

A questo punto, due soluzioni sono pensabili e sonostate, effettivamente, tentate. Una prima si potrebbe direkantiana, anche se i fautori di essa sono immemori diKant. Il continuo e il discreto sono termini di una delleantinomie «matematiche» della Critica della ragionpura. Ora il fatto che, comunque si spinga avanti il pro-cedimento analitico del pensiero, ci si ritrova in presen-za dell'antitesi, è segno che questa ha la sua origine inuna illusione della ragione che trasferisce alle cose in séciò che appartiene a una propria maniera necessaria dipensare. In altri termini, la materia in sé è inconoscibilee quindi non si può dire di essa né che sia continua néche sia discreta; continuo e discreto sono due modi dirappresentarcela ed hanno pertanto una mera validità fe-

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nomenica. Il punto di vista fenomenistico è stato recen-temente riaffermato, in seno alla nuova fisica, dallo Hei-senberg, con un argomento diverso da quello kantiano,ma non meno convincente. «Con un'analisi profondadelle condizioni stesse di qualunque osservazione, Hei-senberg mostra che questa implica sempre un'azionedell'osservatore sul sistema osservato e una reazione in-versa. Per seguire il movimento di un proiettile, bisognanecessariamente illuminarlo, cioè inviare su di esso uncerto numero di fotoni, una parte dei quali ritornasull'osservatore e manifesta la presenza dell'oggetto.L'urto di questi fotoni turba il movimento che si vuolestudiare, ma la costante di Planck è così piccola, e iquanta di luce visibile sono così leggeri, che la luce ne-cessaria per rischiarare il proiettile non gli trasmette chedelle quantità insignificanti di energia e di movimento,sì che non turba il suo moto se non in misura insensibi-le. La cosa invece è ben diversa quando si discende neldominio corpuscolare: il fatto che la quantità di luce uti-lizzata per illuminare un atomo e mettere in evidenza glielettroni che esso contiene non può scendere al di sottodi un fotone, e che l'incontro di un fotone con un elettro-ne, per l'assorbimento del fotone o per l'effetto Comp-ton, turba profondamente il movimento dell'elettronestesso, ha per conseguenza che non si può sperare dimettere in evidenza il moto di un solo elettrone senzamodificarlo in tal maniera che ogni osservazione èsprovvista di significato sperimentale... Il nostro scal-pello per dividere la natura ha una lama di limitata sotti-

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nomenica. Il punto di vista fenomenistico è stato recen-temente riaffermato, in seno alla nuova fisica, dallo Hei-senberg, con un argomento diverso da quello kantiano,ma non meno convincente. «Con un'analisi profondadelle condizioni stesse di qualunque osservazione, Hei-senberg mostra che questa implica sempre un'azionedell'osservatore sul sistema osservato e una reazione in-versa. Per seguire il movimento di un proiettile, bisognanecessariamente illuminarlo, cioè inviare su di esso uncerto numero di fotoni, una parte dei quali ritornasull'osservatore e manifesta la presenza dell'oggetto.L'urto di questi fotoni turba il movimento che si vuolestudiare, ma la costante di Planck è così piccola, e iquanta di luce visibile sono così leggeri, che la luce ne-cessaria per rischiarare il proiettile non gli trasmette chedelle quantità insignificanti di energia e di movimento,sì che non turba il suo moto se non in misura insensibi-le. La cosa invece è ben diversa quando si discende neldominio corpuscolare: il fatto che la quantità di luce uti-lizzata per illuminare un atomo e mettere in evidenza glielettroni che esso contiene non può scendere al di sottodi un fotone, e che l'incontro di un fotone con un elettro-ne, per l'assorbimento del fotone o per l'effetto Comp-ton, turba profondamente il movimento dell'elettronestesso, ha per conseguenza che non si può sperare dimettere in evidenza il moto di un solo elettrone senzamodificarlo in tal maniera che ogni osservazione èsprovvista di significato sperimentale... Il nostro scal-pello per dividere la natura ha una lama di limitata sotti-

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gliezza, misurata dalla costante di Planck; e questo fattoimpedisce che l'idea del movimento individuale di uncorpuscolo di un'orbita elettronica possa avere un sensosperimentale»217. Su queste conclusioni negative, lo Hei-senberg ha fondato una meccanica di tendenza fenome-nistica piuttosto che esplicativa, utilizzando il calcolodelle matrici.

Carattere fenomenistico hanno anche altre soluzioniaffini, tendenti a ridurre il contrasto tra il continuo e ildiscreto, col considerare come equivalenti i corpuscoli ele onde. Si fa infatti notare che questo contrasto sussistequando i termini son presi a una scala relativamente ma-croscopica, e si attribuisce ai corpuscoli una rigidezzamateriale incompatibile con la proprietà delle onde; maalla scala microscopica della fisica atomistica la diffi-coltà scompare. Ed è possibile associare strettamente in-sieme i corpuscoli alle onde ed interpretare gli uni conle altre. È qui il presupposto della nuova meccanica on-dulatoria del De Broglie e dello Schrödinger.

Ma tutti i tentativi per conciliare il continuo e il di-screto, quand'anche si arrestano prudenzialmente in unazona intermedia, sufficiente alle esigenze del calcolo,dissimulano, in realtà, un problema metafisico, che co-stituisce la seconda alternativa nella soluzione dell'anti-nomia. È possibile, cioè, giungere alla comune radicedel continuo e del discreto? In sede scientifica, benché

217 LANGEVIN, L'orientation actuelle de la physique (nel volume L'orientationactuelle des sciences, Paris, Alcan, 1930), pp. 55-56.

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gliezza, misurata dalla costante di Planck; e questo fattoimpedisce che l'idea del movimento individuale di uncorpuscolo di un'orbita elettronica possa avere un sensosperimentale»217. Su queste conclusioni negative, lo Hei-senberg ha fondato una meccanica di tendenza fenome-nistica piuttosto che esplicativa, utilizzando il calcolodelle matrici.

Carattere fenomenistico hanno anche altre soluzioniaffini, tendenti a ridurre il contrasto tra il continuo e ildiscreto, col considerare come equivalenti i corpuscoli ele onde. Si fa infatti notare che questo contrasto sussistequando i termini son presi a una scala relativamente ma-croscopica, e si attribuisce ai corpuscoli una rigidezzamateriale incompatibile con la proprietà delle onde; maalla scala microscopica della fisica atomistica la diffi-coltà scompare. Ed è possibile associare strettamente in-sieme i corpuscoli alle onde ed interpretare gli uni conle altre. È qui il presupposto della nuova meccanica on-dulatoria del De Broglie e dello Schrödinger.

Ma tutti i tentativi per conciliare il continuo e il di-screto, quand'anche si arrestano prudenzialmente in unazona intermedia, sufficiente alle esigenze del calcolo,dissimulano, in realtà, un problema metafisico, che co-stituisce la seconda alternativa nella soluzione dell'anti-nomia. È possibile, cioè, giungere alla comune radicedel continuo e del discreto? In sede scientifica, benché

217 LANGEVIN, L'orientation actuelle de la physique (nel volume L'orientationactuelle des sciences, Paris, Alcan, 1930), pp. 55-56.

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molti vagheggino una «sintesi ultima» di tal genere,nessuno ha ancora tentato di realizzarla. Si vaga tra ipo-tesi in gran parte arbitrarie. Una conversione radicaledegli elettroni in onde, se fosse ammissibile, risolvereb-be il problema, a prezzo però di volatilizzare la materiain una serie di rapports sans supports, il che contraddicealla costante e sana tendenza ontologica della scienza. Èuna soluzione a cui inclinano molti scienziati di gustiimmaterialistici e idealistici; ma è un idealismo alquantospurio, quello che pretende arrivare alla sostanza pen-sante mediante la volatilizzazione della sostanza estesa.La soluzione opposta, di ridurre le onde ai corpuscoli,incontrerebbe a sua volta la difficoltà di concepire deisupports sans rapports, trascurando un dato di fatto ac-certato, che cioè nel determinare il comportamento di unelettrone entra solo in parte la sua struttura individuale,ma in parte molto maggiore l'ambiente nel quale esso simuove (il campo elettro-magnetico, gravitazionale, ecc.;e, per gli elettroni compresi nei tessuti organici, non sa-rebbe forse il caso di parlare di un campo vitale o di al-cunché di analogo?). In altri termini, la fisica contempo-ranea fa una parte sempre più larga a quello che in lin-guaggio kantiano potremmo chiamare un finalismo in-terno, cioè a una determinazione della totalità sugli ele-menti costitutivi. Sotto questo aspetto, essa è in pienocontrasto col vecchio atomismo, che pretendeva ridurreil tutto a un mero aggregato meccanico delle parti. Nelleconcezioni odierne, le nature elementari hanno una pla-sticità incomparabilmente maggiore. Esse obbediscono

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molti vagheggino una «sintesi ultima» di tal genere,nessuno ha ancora tentato di realizzarla. Si vaga tra ipo-tesi in gran parte arbitrarie. Una conversione radicaledegli elettroni in onde, se fosse ammissibile, risolvereb-be il problema, a prezzo però di volatilizzare la materiain una serie di rapports sans supports, il che contraddicealla costante e sana tendenza ontologica della scienza. Èuna soluzione a cui inclinano molti scienziati di gustiimmaterialistici e idealistici; ma è un idealismo alquantospurio, quello che pretende arrivare alla sostanza pen-sante mediante la volatilizzazione della sostanza estesa.La soluzione opposta, di ridurre le onde ai corpuscoli,incontrerebbe a sua volta la difficoltà di concepire deisupports sans rapports, trascurando un dato di fatto ac-certato, che cioè nel determinare il comportamento di unelettrone entra solo in parte la sua struttura individuale,ma in parte molto maggiore l'ambiente nel quale esso simuove (il campo elettro-magnetico, gravitazionale, ecc.;e, per gli elettroni compresi nei tessuti organici, non sa-rebbe forse il caso di parlare di un campo vitale o di al-cunché di analogo?). In altri termini, la fisica contempo-ranea fa una parte sempre più larga a quello che in lin-guaggio kantiano potremmo chiamare un finalismo in-terno, cioè a una determinazione della totalità sugli ele-menti costitutivi. Sotto questo aspetto, essa è in pienocontrasto col vecchio atomismo, che pretendeva ridurreil tutto a un mero aggregato meccanico delle parti. Nelleconcezioni odierne, le nature elementari hanno una pla-sticità incomparabilmente maggiore. Esse obbediscono

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in certa misura alle leggi del piano, per così dire, di vita,in cui sono costrette ad operare. Un atomo di una so-stanza inorganica non è lo stesso atomo se è rifuso inuna sostanza organica. Esso rassomiglia assai meno a ungranello di sabbia in un mucchio; assai più – per usarel'espressione felice di un fisico contemporaneo – a unanota in una sinfonia o a una vocale in un sonetto. Perquesta via, la scienza d'oggi appare, ad alcuni suoi fau-tori218, orientata verso un ordine d'idee schiettamenteidealistico, se anche non riesce a mantenervisi a lungo.

Sarebbe desiderabile poter determinare in quale misu-ra collaborano i singoli elementi e la totalità organica dicui essi fanno parte, nel risultato finale. Ma purtropposiamo lontani da questa meta. Poteva sembrare, ed infat-ti è sembrato, ricco di promesse il fatto che la fisica,proprio nel corso dei medesimi decenni, s'inoltrasse lun-go due direzioni opposte – nello studio della strutturamacro-cosmica con la dottrina della relatività, e in quel-lo dell'infinitamente piccolo con la fisica nucleare. Erasperabile che le due strade convergessero e che il relati-vismo potesse diradare molti dei misteri che si addensa-no intorno alla natura e alla energia atomica. Questesperanze sono state finora in gran parte smentite; e ledue dottrine non hanno offerto che un nuovo episodiodel vecchio confitto tra la scienza del continuo e lascienza del discreto. La dottrina della relatività s'è venu-

218 Si veda a questo proposito: WHITEHEAD, Process and reality, Cambridge,1929, p. 109; JEANS, The mysterious universe, Cambridge, 1930, p. 136.

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in certa misura alle leggi del piano, per così dire, di vita,in cui sono costrette ad operare. Un atomo di una so-stanza inorganica non è lo stesso atomo se è rifuso inuna sostanza organica. Esso rassomiglia assai meno a ungranello di sabbia in un mucchio; assai più – per usarel'espressione felice di un fisico contemporaneo – a unanota in una sinfonia o a una vocale in un sonetto. Perquesta via, la scienza d'oggi appare, ad alcuni suoi fau-tori218, orientata verso un ordine d'idee schiettamenteidealistico, se anche non riesce a mantenervisi a lungo.

Sarebbe desiderabile poter determinare in quale misu-ra collaborano i singoli elementi e la totalità organica dicui essi fanno parte, nel risultato finale. Ma purtropposiamo lontani da questa meta. Poteva sembrare, ed infat-ti è sembrato, ricco di promesse il fatto che la fisica,proprio nel corso dei medesimi decenni, s'inoltrasse lun-go due direzioni opposte – nello studio della strutturamacro-cosmica con la dottrina della relatività, e in quel-lo dell'infinitamente piccolo con la fisica nucleare. Erasperabile che le due strade convergessero e che il relati-vismo potesse diradare molti dei misteri che si addensa-no intorno alla natura e alla energia atomica. Questesperanze sono state finora in gran parte smentite; e ledue dottrine non hanno offerto che un nuovo episodiodel vecchio confitto tra la scienza del continuo e lascienza del discreto. La dottrina della relatività s'è venu-

218 Si veda a questo proposito: WHITEHEAD, Process and reality, Cambridge,1929, p. 109; JEANS, The mysterious universe, Cambridge, 1930, p. 136.

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ta sempre meglio chiarendo come una dottrina di «strut-ture» e non d'ingredienti del cosmo. Essa esprime in unaforma matematica più corretta e comprensiva delle pre-cedenti i rapporti invarianti tra le cose, ma non spiega lanatura stessa delle cose. Essa descrive la materia in ter-mini di «curvature» del continuo spazio-temporale, mal'esistenza e il valore di tali curvature è un mero presup-posto. «Ogni tentativo di ridurre la materia al campoelettro-magnetico ha presentato difficoltà insuperabili,dovute all'impossibilità di render conto, in termini disoli Eik (curve cosmiche), degli ultimi aspetti della mate-ria, l'elettrone il protone»219. Certo, qualche aspetto par-219 D'ABRO, The evolution of scientific thought from Newton to Einstein, New

York, 1927, p. 358. Lo stesso D'Abro osserva ancora: Uno dei maggiorimeriti della teoria della relatività è stato di permetterci di rappresentare lagravitazione come una diretta conseguenza della curvatura dello spazio-tempo. Sarebbe certo il coronamento di questa superba teoria, se essa cipotesse mettere in grado di interpretare tutte le manifestazioni dell'univer-so fisico in termini di vari tipi di curvature di un solo fondamentale conti-nuum spazio-temporale. Ma questo non è possibile. Le equazioni della gra-vitazione significano solo che quando noi riconosciamo l'esistenza di unagrandezza fisica essa è sempre accompagnata da corrispondenti curvaturedello spazio-tempo. Noi dunque assumiamo che le curvature sono prodotteda quei concreti «qualcosa» che chiamiamo massa, momento, energia,pressione. Per questa via, dobbiamo concedere una dualità di nature: esi-sterebbero cioè, a egual titolo, la materia e lo spazio-tempo, o meglio lamateria e il campo metrico dello spazio-tempo. Einstein, quando elaborò lasua ipotesi dell'universo cilindrico, tentò di rimuovere questa dualità, attri-buendo l'esistenza dell'intero campo metrico, cioè dello spazio-tempo,all'esistenza della materia. L'atteggiamento dell'Eddington è invece propriol'inverso. Per lui le equazioni della gravitazione sono mere identità. Essedicono soltanto che i nostri sensi riconosceranno l'esistenza di certe curva-ture dello spazio-tempo, interpretandole come materia, movimento, ecc. Inaltre parole: non c'è materia; non c'è altro che una variabile curvatura dellospazio-tempo. Materia, movimento, forza viva, sono i nomi che noi diamo

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ta sempre meglio chiarendo come una dottrina di «strut-ture» e non d'ingredienti del cosmo. Essa esprime in unaforma matematica più corretta e comprensiva delle pre-cedenti i rapporti invarianti tra le cose, ma non spiega lanatura stessa delle cose. Essa descrive la materia in ter-mini di «curvature» del continuo spazio-temporale, mal'esistenza e il valore di tali curvature è un mero presup-posto. «Ogni tentativo di ridurre la materia al campoelettro-magnetico ha presentato difficoltà insuperabili,dovute all'impossibilità di render conto, in termini disoli Eik (curve cosmiche), degli ultimi aspetti della mate-ria, l'elettrone il protone»219. Certo, qualche aspetto par-219 D'ABRO, The evolution of scientific thought from Newton to Einstein, New

York, 1927, p. 358. Lo stesso D'Abro osserva ancora: Uno dei maggiorimeriti della teoria della relatività è stato di permetterci di rappresentare lagravitazione come una diretta conseguenza della curvatura dello spazio-tempo. Sarebbe certo il coronamento di questa superba teoria, se essa cipotesse mettere in grado di interpretare tutte le manifestazioni dell'univer-so fisico in termini di vari tipi di curvature di un solo fondamentale conti-nuum spazio-temporale. Ma questo non è possibile. Le equazioni della gra-vitazione significano solo che quando noi riconosciamo l'esistenza di unagrandezza fisica essa è sempre accompagnata da corrispondenti curvaturedello spazio-tempo. Noi dunque assumiamo che le curvature sono prodotteda quei concreti «qualcosa» che chiamiamo massa, momento, energia,pressione. Per questa via, dobbiamo concedere una dualità di nature: esi-sterebbero cioè, a egual titolo, la materia e lo spazio-tempo, o meglio lamateria e il campo metrico dello spazio-tempo. Einstein, quando elaborò lasua ipotesi dell'universo cilindrico, tentò di rimuovere questa dualità, attri-buendo l'esistenza dell'intero campo metrico, cioè dello spazio-tempo,all'esistenza della materia. L'atteggiamento dell'Eddington è invece propriol'inverso. Per lui le equazioni della gravitazione sono mere identità. Essedicono soltanto che i nostri sensi riconosceranno l'esistenza di certe curva-ture dello spazio-tempo, interpretandole come materia, movimento, ecc. Inaltre parole: non c'è materia; non c'è altro che una variabile curvatura dellospazio-tempo. Materia, movimento, forza viva, sono i nomi che noi diamo

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ziale dell'atomismo ha ricevuto luce dalle scoperte rela-tivistiche, per esempio da quella dell'inflessione dei rag-gi luminosi per effetto della gravità e da quella della va-riazione della massa in rapporto con la velocità; ma ingenerale, le due dottrine si pongono su due piani mentalidiversi. La geometria dello spazio-tempo non è in gradodi dar conto del comportamento dell'atomo220. Questo,se da un lato ha quei caratteri, per così dire, societari dicui s'è fatto cenno in precedenza, dall'altro ha alcunitratti individualistici che sfuggono finora a qualunquedisciplina scientifica – non solo agli schemi della relati-vità, ma a tutti gli schemi del meccanismo escogitatidalla scienza moderna.

Noi veniamo così in presenza di uno degli aspetti piùsconcertanti dell'atomismo contemporaneo, che fanno diesso una dottrina toto caelo diversa dall'atomismo tradi-zionale. Noi eravamo avvezzati a considerare l'atomi-smo come sinonimo di materialismo e di meccanismo.Ora invece dobbiamo imparare a dissociar nettamentequesti tre nomi, se vogliamo penetrare nello spirito dellenuove dottrine. Il vecchio atomismo poneva come un

a queste curvature con riferimento ai vari modi con cui esse affettano i no-stri sensi. Fin qui il D'Abro (pp. 356-57); ma bisogna anche aggiungereche lo Eddington, per il fatto stesso che riduce le equazioni della gravita-zione a mere identità, a espressioni mentali più che reali, è portato a ingi-gantire il dissidio tra la dottrina della relatività e la fisica atomistica. Secon la prima noi non usciamo dal dominio della nostra mente, con la se-conda invece ci addentriamo nel dominio delle cose in sé.

220 Tra gli altri, il Bohr esclude che i fenomeni più minuti della natura ammet-tano una rappresentazione nella cornice spazio-temporale: questa sarebbeadeguata solo ai fenomeni macroscopici.

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ziale dell'atomismo ha ricevuto luce dalle scoperte rela-tivistiche, per esempio da quella dell'inflessione dei rag-gi luminosi per effetto della gravità e da quella della va-riazione della massa in rapporto con la velocità; ma ingenerale, le due dottrine si pongono su due piani mentalidiversi. La geometria dello spazio-tempo non è in gradodi dar conto del comportamento dell'atomo220. Questo,se da un lato ha quei caratteri, per così dire, societari dicui s'è fatto cenno in precedenza, dall'altro ha alcunitratti individualistici che sfuggono finora a qualunquedisciplina scientifica – non solo agli schemi della relati-vità, ma a tutti gli schemi del meccanismo escogitatidalla scienza moderna.

Noi veniamo così in presenza di uno degli aspetti piùsconcertanti dell'atomismo contemporaneo, che fanno diesso una dottrina toto caelo diversa dall'atomismo tradi-zionale. Noi eravamo avvezzati a considerare l'atomi-smo come sinonimo di materialismo e di meccanismo.Ora invece dobbiamo imparare a dissociar nettamentequesti tre nomi, se vogliamo penetrare nello spirito dellenuove dottrine. Il vecchio atomismo poneva come un

a queste curvature con riferimento ai vari modi con cui esse affettano i no-stri sensi. Fin qui il D'Abro (pp. 356-57); ma bisogna anche aggiungereche lo Eddington, per il fatto stesso che riduce le equazioni della gravita-zione a mere identità, a espressioni mentali più che reali, è portato a ingi-gantire il dissidio tra la dottrina della relatività e la fisica atomistica. Secon la prima noi non usciamo dal dominio della nostra mente, con la se-conda invece ci addentriamo nel dominio delle cose in sé.

220 Tra gli altri, il Bohr esclude che i fenomeni più minuti della natura ammet-tano una rappresentazione nella cornice spazio-temporale: questa sarebbeadeguata solo ai fenomeni macroscopici.

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postulato inderogabile la permanenza e l'immutabilitàdell'atomo e quindi la conservazione della quantità tota-le di materia. Questa permanenza dell'atomo abbiamovisto che non sussiste più. È stato provato che la massacorporea è soggetta ad accrescimento e a contrazioni.Già le esperienze del Thomson avevano posto in luceche la massa di un corpo elettrificato può essere mutataponendola in movimento: più rapido è il moto, più gran-de diviene la massa, in contrasto col concetto newtonia-no di una massa inalterabile. Più tardi, Einstein ha gene-ralizzato queste esperienze, mostrando che non solol'energia di movimento, ma qualunque specie di energiapossiede una massa propria. Ciò non vuol dire per altroche tutta la massa di un corpo sia dovuta all'energia con-tenuta in esso; ma si considera quella massa come risul-tante di due parti: una fissa che il corpo conserva inalte-rata e che è conosciuta sotto il nome di massa inerziale,e una parte variabile, dipendente dalla velocità del motoe proporzionale all'energia di esso, in modo che le mas-se di due elettroni differiscono nella misura delle rispet-tive energie. Questa convertibilità della massa in energia– se implica che qualcosa resti costante, cioè la quantitàdi energia – consente però di parlare di annientamentidella materia, che ripugnano al vecchio atomismo. Checosa sia poi una tale energia e come sia concepibile lasua permanenza sans support, è un'altra quistione di cuiil matematico non si preoccupa. Per lui essa è la costan-te dell'integrazione di una equazione differenziale.

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postulato inderogabile la permanenza e l'immutabilitàdell'atomo e quindi la conservazione della quantità tota-le di materia. Questa permanenza dell'atomo abbiamovisto che non sussiste più. È stato provato che la massacorporea è soggetta ad accrescimento e a contrazioni.Già le esperienze del Thomson avevano posto in luceche la massa di un corpo elettrificato può essere mutataponendola in movimento: più rapido è il moto, più gran-de diviene la massa, in contrasto col concetto newtonia-no di una massa inalterabile. Più tardi, Einstein ha gene-ralizzato queste esperienze, mostrando che non solol'energia di movimento, ma qualunque specie di energiapossiede una massa propria. Ciò non vuol dire per altroche tutta la massa di un corpo sia dovuta all'energia con-tenuta in esso; ma si considera quella massa come risul-tante di due parti: una fissa che il corpo conserva inalte-rata e che è conosciuta sotto il nome di massa inerziale,e una parte variabile, dipendente dalla velocità del motoe proporzionale all'energia di esso, in modo che le mas-se di due elettroni differiscono nella misura delle rispet-tive energie. Questa convertibilità della massa in energia– se implica che qualcosa resti costante, cioè la quantitàdi energia – consente però di parlare di annientamentidella materia, che ripugnano al vecchio atomismo. Checosa sia poi una tale energia e come sia concepibile lasua permanenza sans support, è un'altra quistione di cuiil matematico non si preoccupa. Per lui essa è la costan-te dell'integrazione di una equazione differenziale.

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Anche più grave è la crisi del meccanismo e del de-terminismo scientifico. Già nel corso del sec. XIX le in-terpretazioni rigorosamente meccanistiche della naturaavevano trovato un primo arresto in alcune verità di ori-gine sperimentale. Così, il secondo principio della ter-modinamica introduceva nella scienza l'idea di una de-gradazione dell'energia, cioè di un ordine irriversibiledelle forme qualitative dell'energia, che contraddicevaalla perfetta riversibilità dei sistemi puramente meccani-ci. E la teoria cinetica dei gas a sua volta poteva essereinclusa negli schemi del meccanismo, solo a condizionedi sostituire risultati globali e medie statistiche alla de-terminazione delle singole molecole. Essa apriva la viacosì a quella trattazione statistica della meccanica, chela più recente fisica nucleare è stata costretta ad usare supiù larga scala, in seguito alla constatata impossibilità difar rientrare gli atomi nelle leggi del meccanismo. Ilmondo dell'infinitamente piccolo, ci ripetono concorde-mente i fisici di oggi, è un mondo anarchico. La dottrinadei quanta ha rivelato che il mutamento è sempre di-scontinuo e che ogni sistema passa da uno stato all'altrosempre per una serie di salti. Ma se desideriamo saperecome si susseguono questi salti, nessuna legge esatta cisoccorre, e siamo costretti ad appellarci a considerazionidi ordine statistico. Nessun rigido schema deterministi-co è applicabile in natura, o, secondo le parole del Weyl,nessuna causalità della natura fisica è fondata su leggirigorosamente esatte. Nel regno microscopico c'imbat-tiamo nel caos: «il passato è ben lontano dal contenere il

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Anche più grave è la crisi del meccanismo e del de-terminismo scientifico. Già nel corso del sec. XIX le in-terpretazioni rigorosamente meccanistiche della naturaavevano trovato un primo arresto in alcune verità di ori-gine sperimentale. Così, il secondo principio della ter-modinamica introduceva nella scienza l'idea di una de-gradazione dell'energia, cioè di un ordine irriversibiledelle forme qualitative dell'energia, che contraddicevaalla perfetta riversibilità dei sistemi puramente meccani-ci. E la teoria cinetica dei gas a sua volta poteva essereinclusa negli schemi del meccanismo, solo a condizionedi sostituire risultati globali e medie statistiche alla de-terminazione delle singole molecole. Essa apriva la viacosì a quella trattazione statistica della meccanica, chela più recente fisica nucleare è stata costretta ad usare supiù larga scala, in seguito alla constatata impossibilità difar rientrare gli atomi nelle leggi del meccanismo. Ilmondo dell'infinitamente piccolo, ci ripetono concorde-mente i fisici di oggi, è un mondo anarchico. La dottrinadei quanta ha rivelato che il mutamento è sempre di-scontinuo e che ogni sistema passa da uno stato all'altrosempre per una serie di salti. Ma se desideriamo saperecome si susseguono questi salti, nessuna legge esatta cisoccorre, e siamo costretti ad appellarci a considerazionidi ordine statistico. Nessun rigido schema deterministi-co è applicabile in natura, o, secondo le parole del Weyl,nessuna causalità della natura fisica è fondata su leggirigorosamente esatte. Nel regno microscopico c'imbat-tiamo nel caos: «il passato è ben lontano dal contenere il

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presente, come dovrebbe secondo i concetti del determi-nismo»221. Le esperienze già citate del Rutherford avreb-bero dovuto dare, nell'àmbito della meccanica classica,un risultato nullo; invece il loro risultato è stato positi-vo. Similmente, per dare ragione della resistenza dei nu-clei atomici alle forze ripulsive dei protoni riuniti inessi, si è dovuto ammettere un arbitrario mutamento disegno delle cariche elettriche quando i protoni si avvici-nano oltre un certo limite indeterminabile. Si è finito colparlare di un principio di indeterminazione (Heisenberg)immanente all'atomo; l'apparente determinismo del ri-sultato globale non è che una manifestazione della leggedei grandi numeri, come la relativa costanza delle nasci-te o dei matrimoni nelle statistiche demografiche.

Queste conclusioni, per quanto provvisorie, sono giàdella più grande importanza. «Il quadro dell'universoche la nuova fisica ci presenta – osserva il Jeans222 –contiene possibilità maggiori che non l'antico quadromeccanico, perché la vita e la coscienza esistononell'interno del quadro stesso, con gli attributi che adesse noi attribuiamo, come il libero volere e la capacitàdi rendere l'universo in qualche grado differente con lanostra presenza.» Certo, sarebbe fallace associare l'ideadella libertà del volere con quella dell'indeterminismoatomico; e rassomiglierebbe alla pretesa di Epicuro disalvare la libertà con la declinazione degli atomi. Ma è

221 D'ABRO, op. cit., p. 382.222 JEANS, op. cit., p. 29.

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presente, come dovrebbe secondo i concetti del determi-nismo»221. Le esperienze già citate del Rutherford avreb-bero dovuto dare, nell'àmbito della meccanica classica,un risultato nullo; invece il loro risultato è stato positi-vo. Similmente, per dare ragione della resistenza dei nu-clei atomici alle forze ripulsive dei protoni riuniti inessi, si è dovuto ammettere un arbitrario mutamento disegno delle cariche elettriche quando i protoni si avvici-nano oltre un certo limite indeterminabile. Si è finito colparlare di un principio di indeterminazione (Heisenberg)immanente all'atomo; l'apparente determinismo del ri-sultato globale non è che una manifestazione della leggedei grandi numeri, come la relativa costanza delle nasci-te o dei matrimoni nelle statistiche demografiche.

Queste conclusioni, per quanto provvisorie, sono giàdella più grande importanza. «Il quadro dell'universoche la nuova fisica ci presenta – osserva il Jeans222 –contiene possibilità maggiori che non l'antico quadromeccanico, perché la vita e la coscienza esistononell'interno del quadro stesso, con gli attributi che adesse noi attribuiamo, come il libero volere e la capacitàdi rendere l'universo in qualche grado differente con lanostra presenza.» Certo, sarebbe fallace associare l'ideadella libertà del volere con quella dell'indeterminismoatomico; e rassomiglierebbe alla pretesa di Epicuro disalvare la libertà con la declinazione degli atomi. Ma è

221 D'ABRO, op. cit., p. 382.222 JEANS, op. cit., p. 29.

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anche certo che, considerando i singoli fatti alle debitedistanze e alla propria scala, la fisica odierna ci offreuna rappresentazione molto più plastica e molto menorigida del materiale cosmico, che esclude l'esistenza dicesure troppo nette tra i vari ordini di esseri e facilital'idea di una continuità di sviluppo, anche intermezzatada discontinuità e da salti, che lasciano largo margine alnuovo, all'imprevisto, all'energia creatrice. Il mondodella coscienza, del pensiero, non potrà mai, indubbia-mente, emergere da un mero mondo materiale: un'espe-rienza filosofica millenaria ci attesta l'incommensurabi-lità dei due ordini, sì che ci appare destituito di ognisenso il ricercare gli elettroni in atto di sprigionarsi dallavoro mentale. Però a me pare che la fisica odiernavenga incontro alle nostre esigenze filosofiche in mododiverso e indiretto. Da una parte, col disarticolare lastruttura degl'ingredienti elementari del mondo fisico,che la vecchia scienza aveva reso troppo irrigidita ecompatta, essa rende possibile associare fino ai gradi in-fimi della realtà alcuni di quei caratteri che, negli stadipiù progrediti, noi esprimiamo coi nomi di sensibilità,memoria, rappresentazione, coscienza, pensiero. D'altraparte, essa s'è allontanata dal procedimento troppo re-gressivo e riduttivo della scienza precedente, che nellaproprietà degli elementi e nella loro composizione mec-canica trovava le ragioni di tutte le formazioni cosmi-che, e s'è incamminata per la via opposta di spiegare, al-meno parzialmente, l'atteggiarsi degli elementi in con-formità delle leggi dei complessi naturali in cui operano.

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anche certo che, considerando i singoli fatti alle debitedistanze e alla propria scala, la fisica odierna ci offreuna rappresentazione molto più plastica e molto menorigida del materiale cosmico, che esclude l'esistenza dicesure troppo nette tra i vari ordini di esseri e facilital'idea di una continuità di sviluppo, anche intermezzatada discontinuità e da salti, che lasciano largo margine alnuovo, all'imprevisto, all'energia creatrice. Il mondodella coscienza, del pensiero, non potrà mai, indubbia-mente, emergere da un mero mondo materiale: un'espe-rienza filosofica millenaria ci attesta l'incommensurabi-lità dei due ordini, sì che ci appare destituito di ognisenso il ricercare gli elettroni in atto di sprigionarsi dallavoro mentale. Però a me pare che la fisica odiernavenga incontro alle nostre esigenze filosofiche in mododiverso e indiretto. Da una parte, col disarticolare lastruttura degl'ingredienti elementari del mondo fisico,che la vecchia scienza aveva reso troppo irrigidita ecompatta, essa rende possibile associare fino ai gradi in-fimi della realtà alcuni di quei caratteri che, negli stadipiù progrediti, noi esprimiamo coi nomi di sensibilità,memoria, rappresentazione, coscienza, pensiero. D'altraparte, essa s'è allontanata dal procedimento troppo re-gressivo e riduttivo della scienza precedente, che nellaproprietà degli elementi e nella loro composizione mec-canica trovava le ragioni di tutte le formazioni cosmi-che, e s'è incamminata per la via opposta di spiegare, al-meno parzialmente, l'atteggiarsi degli elementi in con-formità delle leggi dei complessi naturali in cui operano.

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Non tanto l'indeterminazione dell'atomo come tale,quanto la sua capacità di determinarsi variamente secon-do la natura del campo energetico, è ciò che offre mate-ria a considerazioni di ordine idealistico. Noi intravve-diamo la presenza di piani di azione influenti dall'alto albasso sulla struttura del mondo fisico, di anticipazioniteleologiche ordinatrici e distributrici degl'ingredientimateriali. Se nella vecchia concezione atomistica lamente era del tutto fuori del quadro della natura e non lasi poteva introdurre in esso che con un doppio miracolo,quello della creazione divina e quello della conoscenzaumana, nella nuova concezione invece ci par di vederlarendersi più intrinseca ad esso e meglio ripartita la suaazione nei vari ordini e livelli della vita cosmica. L'anti-co meccanismo non conosceva storia; in esso la mentenon poteva riconoscersi che come mens momentanea,cioè come negazione di quei caratteri che la mente si at-tribuisce come più propri e che si collegano ai nomi diprocesso e di sviluppo. Il nuovo atomismo fa una partepiù larga a questi valori ideali223.

223 Questo articolo era già scritto da tempo, quando m'è occorso di leggerenella Rivista di filosofia (ottobre-dicembre 1932) un lucidissimo articolo diG. FURLANI su La concezione del mondo fisico nella scienza moderna. Illettore troverà in esso una esposizione molto più tecnica e particolareggia-ta dei concetti scientifici che io ho accennati soltanto, dato l'intento al-quanto diverso del mio saggio.

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Non tanto l'indeterminazione dell'atomo come tale,quanto la sua capacità di determinarsi variamente secon-do la natura del campo energetico, è ciò che offre mate-ria a considerazioni di ordine idealistico. Noi intravve-diamo la presenza di piani di azione influenti dall'alto albasso sulla struttura del mondo fisico, di anticipazioniteleologiche ordinatrici e distributrici degl'ingredientimateriali. Se nella vecchia concezione atomistica lamente era del tutto fuori del quadro della natura e non lasi poteva introdurre in esso che con un doppio miracolo,quello della creazione divina e quello della conoscenzaumana, nella nuova concezione invece ci par di vederlarendersi più intrinseca ad esso e meglio ripartita la suaazione nei vari ordini e livelli della vita cosmica. L'anti-co meccanismo non conosceva storia; in esso la mentenon poteva riconoscersi che come mens momentanea,cioè come negazione di quei caratteri che la mente si at-tribuisce come più propri e che si collegano ai nomi diprocesso e di sviluppo. Il nuovo atomismo fa una partepiù larga a questi valori ideali223.

223 Questo articolo era già scritto da tempo, quando m'è occorso di leggerenella Rivista di filosofia (ottobre-dicembre 1932) un lucidissimo articolo diG. FURLANI su La concezione del mondo fisico nella scienza moderna. Illettore troverà in esso una esposizione molto più tecnica e particolareggia-ta dei concetti scientifici che io ho accennati soltanto, dato l'intento al-quanto diverso del mio saggio.

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Page 234: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

XII

IL DARWINISMO E I SUOI CRITICI

Fino a una trentina d'anni fa, chi avesse osato conte-stare la verità del darwinismo sarebbe stato colpito dallascomunica maggiore dei pontefici della scienza. Oggi lasituazione delle cose è quasi del tutto capovolta, e non sipubblica libro di biologia o di filosofia delle scienze,che non scagli il suo dardo contro l'«illusione trasformi-sta», o che, anche accettando un generico punto di vistaevoluzionistico, non senta il bisogno di differenziarsi daDarwin o da Haeckel. Ricorderò tra le opere più recenti,la storia delle dottrine biologiche del Radl, che primeg-gia per larghezza d'informazione e per acume critico, e,in un ordine d'idee molto vicino, i libri del Vialleton, delLalande, del Driesch224. Un posto a sé hanno gli scritti

224 EM. RADL, The history of biological theories, Oxford, Univ. Press, 1930; L.VIALLETON, L'origine des êtres vivants. L'illusion transformiste, Paris, Plon,1929; LALANDE, Les illusions transformistes, Alcan, 1930; E. LEROY,L'exigence idéaliste et le fait de l'évolution, Paris, 1927; ID., Les origineshumaines et l'évolution de l'intelligence, Paris, 1931; l'esposizione piùcompendiosa delle dottrine vitalistiche è nell'ormai vecchio libro delDRIESCH, Der Vitalismus als Geschichte und als Lehre, 1905; sugli sviluppifilosofici di questa dottrina, vedi O. HEINICHEN, Driesch's Philosophie, eine

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IL DARWINISMO E I SUOI CRITICI

Fino a una trentina d'anni fa, chi avesse osato conte-stare la verità del darwinismo sarebbe stato colpito dallascomunica maggiore dei pontefici della scienza. Oggi lasituazione delle cose è quasi del tutto capovolta, e non sipubblica libro di biologia o di filosofia delle scienze,che non scagli il suo dardo contro l'«illusione trasformi-sta», o che, anche accettando un generico punto di vistaevoluzionistico, non senta il bisogno di differenziarsi daDarwin o da Haeckel. Ricorderò tra le opere più recenti,la storia delle dottrine biologiche del Radl, che primeg-gia per larghezza d'informazione e per acume critico, e,in un ordine d'idee molto vicino, i libri del Vialleton, delLalande, del Driesch224. Un posto a sé hanno gli scritti

224 EM. RADL, The history of biological theories, Oxford, Univ. Press, 1930; L.VIALLETON, L'origine des êtres vivants. L'illusion transformiste, Paris, Plon,1929; LALANDE, Les illusions transformistes, Alcan, 1930; E. LEROY,L'exigence idéaliste et le fait de l'évolution, Paris, 1927; ID., Les origineshumaines et l'évolution de l'intelligence, Paris, 1931; l'esposizione piùcompendiosa delle dottrine vitalistiche è nell'ormai vecchio libro delDRIESCH, Der Vitalismus als Geschichte und als Lehre, 1905; sugli sviluppifilosofici di questa dottrina, vedi O. HEINICHEN, Driesch's Philosophie, eine

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più recenti del Le Roy.La crisi del darwinismo è molto più vasta di quel che

possa apparire a prima vista. Essa, infatti, non interessasoltanto le scienze biologiche; ma, come il darwinismoaveva finito con l'imporsi, negli ultimi decenni del seco-lo passato, in tutti i domini scientifici, dalla sociologiaalla psicologia, alla scienza del linguaggio, all'etnologia,ed era assurto a poco a poco al grado di una filosofia edi una religione, così la crisi comincia ad avere ripercus-sioni profonde in tutti i rami dello scibile, che vi sonomediatamente cointeressati.

Quando si parla di darwinismo, bisogna distingueretra la dottrina propria del Darwin e l'integramento siste-matico che questa ha avuto per opera di numerosi se-guaci. L'innovazione principale introdotta dal Darwinnelle scienze biologiche sta, com'è noto, nel metodo,cioè nella sostituzione di un punto di vista genetico alpunto di vista morfologico dominante attraverso una tra-dizione molte volte secolare, che va da Aristotele a Cu-vier. Secondo la morfologia, esistono dei tipi fissi distrutture organiche, che, secondo il loro grado di genera-lità prendono il nome di branche, classi, ordini, fami-glie, generi, specie. Ognuna di queste forme ha suoi ca-ratteri propri non convertibili l'uno nell'altro; e in virtùdi tale stabilità (che è retaggio della scienza greca) ilmondo animale e il mondo vegetale appaiono saldamen-te inquadrati in una serie di gradi immutevoli. Il pro-

Einführung, 1924.

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più recenti del Le Roy.La crisi del darwinismo è molto più vasta di quel che

possa apparire a prima vista. Essa, infatti, non interessasoltanto le scienze biologiche; ma, come il darwinismoaveva finito con l'imporsi, negli ultimi decenni del seco-lo passato, in tutti i domini scientifici, dalla sociologiaalla psicologia, alla scienza del linguaggio, all'etnologia,ed era assurto a poco a poco al grado di una filosofia edi una religione, così la crisi comincia ad avere ripercus-sioni profonde in tutti i rami dello scibile, che vi sonomediatamente cointeressati.

Quando si parla di darwinismo, bisogna distingueretra la dottrina propria del Darwin e l'integramento siste-matico che questa ha avuto per opera di numerosi se-guaci. L'innovazione principale introdotta dal Darwinnelle scienze biologiche sta, com'è noto, nel metodo,cioè nella sostituzione di un punto di vista genetico alpunto di vista morfologico dominante attraverso una tra-dizione molte volte secolare, che va da Aristotele a Cu-vier. Secondo la morfologia, esistono dei tipi fissi distrutture organiche, che, secondo il loro grado di genera-lità prendono il nome di branche, classi, ordini, fami-glie, generi, specie. Ognuna di queste forme ha suoi ca-ratteri propri non convertibili l'uno nell'altro; e in virtùdi tale stabilità (che è retaggio della scienza greca) ilmondo animale e il mondo vegetale appaiono saldamen-te inquadrati in una serie di gradi immutevoli. Il pro-

Einführung, 1924.

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gresso delle classificazioni fino al Cuvier ed oltre è con-sistito nell'attribuire valore differenziale a caratteri orga-nici sempre più intrinsecamente costitutivi, escludendo ipiù superficiali e variabili. E il Cuvier ha potuto rag-giungere un alto grado di perfezione in questo lavoro,mercé il principio da lui formulato delle correlazioni,secondo il quale vi sono rapporti costanti tra le varieparti di un organismo, cospiranti verso una unità coordi-nata e armonica, onde, per esempio, da un sol osso sipuò argomentare della struttura di tutto lo scheletro.

Il Darwin portò in questi studi una mentalità affattodiversa. Avviato, dalla cultura stessa del suo ambiente,verso l'empirismo e il nominalismo, egli doveva fin dalprincipio riconoscere, nelle classi e nelle specie animali,non più che aggruppamenti artificiali, ottenuti in base adaffinità e a somiglianze più o meno estrinseche. La fissi-tà e la permanenza delle specie perdevano così il loropresupposto metafisico; ed insieme riusciva molto piùplausibile ammettere la trasformazione d'una specie inun'altra. A questa parte positiva del suo lavoro, il Dar-win era condotto, tra l'altro, dall'esperienza degli alleva-tori inglesi di piante ed animali, che, mediante opportu-ne selezioni ed opportuni incroci, riuscivano a produrredei tipi organici nuovi. Non poteva essere stata la stessa– sopra un'assai più vasta scala – l'opera della natura? Inun lungo viaggio di esplorazione (la famosa crociera delBeagle), egli si diè a raccogliere una sterminata massadi documenti, che la vita stessa degli esseri naturali gli

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gresso delle classificazioni fino al Cuvier ed oltre è con-sistito nell'attribuire valore differenziale a caratteri orga-nici sempre più intrinsecamente costitutivi, escludendo ipiù superficiali e variabili. E il Cuvier ha potuto rag-giungere un alto grado di perfezione in questo lavoro,mercé il principio da lui formulato delle correlazioni,secondo il quale vi sono rapporti costanti tra le varieparti di un organismo, cospiranti verso una unità coordi-nata e armonica, onde, per esempio, da un sol osso sipuò argomentare della struttura di tutto lo scheletro.

Il Darwin portò in questi studi una mentalità affattodiversa. Avviato, dalla cultura stessa del suo ambiente,verso l'empirismo e il nominalismo, egli doveva fin dalprincipio riconoscere, nelle classi e nelle specie animali,non più che aggruppamenti artificiali, ottenuti in base adaffinità e a somiglianze più o meno estrinseche. La fissi-tà e la permanenza delle specie perdevano così il loropresupposto metafisico; ed insieme riusciva molto piùplausibile ammettere la trasformazione d'una specie inun'altra. A questa parte positiva del suo lavoro, il Dar-win era condotto, tra l'altro, dall'esperienza degli alleva-tori inglesi di piante ed animali, che, mediante opportu-ne selezioni ed opportuni incroci, riuscivano a produrredei tipi organici nuovi. Non poteva essere stata la stessa– sopra un'assai più vasta scala – l'opera della natura? Inun lungo viaggio di esplorazione (la famosa crociera delBeagle), egli si diè a raccogliere una sterminata massadi documenti, che la vita stessa degli esseri naturali gli

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offriva. Dati paleontologici, studi di fenomeni migratori,dimostranti la diversificazione degli stessi tipi organicitrapiantati in ambienti differenti; indagini sull'ereditarie-tà, da cui egli era portato a riscoprire direttamente unprincipio di grande importanza, già formulato dal La-marck, cioè la conservazione nella specie, per mezzodell'eredità, di caratteri nuovi, acquisiti dall'individuo;osservazioni sulle omologie degli organi nelle differentispecie e classi; questi ed altri simili dati formanol'ampia contestura della sua farraginosa opera sull'origi-ne delle specie.

Ma il materiale da solo non bastava; occorreva unprincipio direttivo capace di collegare le sparse espe-rienze e di farle convergere in una spiegazione dellacontinuità evolutiva della vita, cioè del graduale passag-gio da una specie all'altra. Questo principio egli l'attinse,com'è ben noto, alla cultura del suo tempo, e lo riadattòal suo problema. L'economia politica aveva messo in ri-lievo il concetto della concorrenza come mezzo di sele-zione e causa della sopravvivenza dei più adatti; Mal-thus aveva illustrato nella sua teoria della popolazione lasproporzione tra l'aumento naturale degl'individui equello dei mezzi di sussistenza. Darwin elevò questecircoscritte esperienze umane a legge biologica generalee spiegò che l'impulso all'evoluzione è dato dalla lottaper l'esistenza, cioè dalla concorrenza degli esseri viven-ti, che ha per risultato la selezione naturale o la soprav-vivenza dei più adatti alle condizioni imposte

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offriva. Dati paleontologici, studi di fenomeni migratori,dimostranti la diversificazione degli stessi tipi organicitrapiantati in ambienti differenti; indagini sull'ereditarie-tà, da cui egli era portato a riscoprire direttamente unprincipio di grande importanza, già formulato dal La-marck, cioè la conservazione nella specie, per mezzodell'eredità, di caratteri nuovi, acquisiti dall'individuo;osservazioni sulle omologie degli organi nelle differentispecie e classi; questi ed altri simili dati formanol'ampia contestura della sua farraginosa opera sull'origi-ne delle specie.

Ma il materiale da solo non bastava; occorreva unprincipio direttivo capace di collegare le sparse espe-rienze e di farle convergere in una spiegazione dellacontinuità evolutiva della vita, cioè del graduale passag-gio da una specie all'altra. Questo principio egli l'attinse,com'è ben noto, alla cultura del suo tempo, e lo riadattòal suo problema. L'economia politica aveva messo in ri-lievo il concetto della concorrenza come mezzo di sele-zione e causa della sopravvivenza dei più adatti; Mal-thus aveva illustrato nella sua teoria della popolazione lasproporzione tra l'aumento naturale degl'individui equello dei mezzi di sussistenza. Darwin elevò questecircoscritte esperienze umane a legge biologica generalee spiegò che l'impulso all'evoluzione è dato dalla lottaper l'esistenza, cioè dalla concorrenza degli esseri viven-ti, che ha per risultato la selezione naturale o la soprav-vivenza dei più adatti alle condizioni imposte

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Page 238: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

dall'ambiente in cui la lotta si effettua. L'idea della sele-zione, infine, veniva saldata con quella dell'ereditarietà,nel senso che i caratteri acquisiti per via selettiva si tra-smettevano ai discendenti, dando così origine a specienuove. Alla visione di una gerarchia statica di formerealizzanti momenti diversi di un unico piano creativo,predisposto dall'origine, subentrava, in tal modo, la vi-sione di una successione dinamica, ciascuna forma pas-sando per gradazioni lente e insensibili in un'altra. Don-de il nome, che la dottrina assunse, di trasformismo, ilquale precisa e chiarifica la più generica denominazionedi evoluzionismo.

Noi siamo soliti d'interpretare l'evoluzione in terminidi progresso. Ma non è questo il significato della dottri-na darwiniana. Il progresso implica un fine intenzionaleche si realizza per gradi, mentre Darwin esclude ogni fi-nalità della natura e considera la forza evolutiva comeun cieco meccanismo. È l'ambiente, per lui, che decidedella sorte degl'individui e delle specie: i selezionati nonsono, necessariamente, i migliori, ma quelli che sonoriusciti a sopportare le condizioni imposte del nutrimen-to, del clima, ecc. E se è vero che il processo evolutivova da specie più semplici e indifferenziate a specie piùdifferenziate e complesse, è anche vero che, talvolta,esso porta con sé delle degenerazioni, come, per esem-pio, il passaggio di alcune specie da una vita indipen-dente a una vita parassitaria.

E un altro punto ancora importa notare nella schietta

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dall'ambiente in cui la lotta si effettua. L'idea della sele-zione, infine, veniva saldata con quella dell'ereditarietà,nel senso che i caratteri acquisiti per via selettiva si tra-smettevano ai discendenti, dando così origine a specienuove. Alla visione di una gerarchia statica di formerealizzanti momenti diversi di un unico piano creativo,predisposto dall'origine, subentrava, in tal modo, la vi-sione di una successione dinamica, ciascuna forma pas-sando per gradazioni lente e insensibili in un'altra. Don-de il nome, che la dottrina assunse, di trasformismo, ilquale precisa e chiarifica la più generica denominazionedi evoluzionismo.

Noi siamo soliti d'interpretare l'evoluzione in terminidi progresso. Ma non è questo il significato della dottri-na darwiniana. Il progresso implica un fine intenzionaleche si realizza per gradi, mentre Darwin esclude ogni fi-nalità della natura e considera la forza evolutiva comeun cieco meccanismo. È l'ambiente, per lui, che decidedella sorte degl'individui e delle specie: i selezionati nonsono, necessariamente, i migliori, ma quelli che sonoriusciti a sopportare le condizioni imposte del nutrimen-to, del clima, ecc. E se è vero che il processo evolutivova da specie più semplici e indifferenziate a specie piùdifferenziate e complesse, è anche vero che, talvolta,esso porta con sé delle degenerazioni, come, per esem-pio, il passaggio di alcune specie da una vita indipen-dente a una vita parassitaria.

E un altro punto ancora importa notare nella schietta

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dottrina darwiniana, che la differenzia dal darwinismoposteriore, ed è che essa non ci dà una ricostruzionecompleta dell'albero genealogico della vita, a partire daun esemplare originario, ma fornisce un orientamento dilavoro e un abbozzo di esecuzione, ponendo all'originequattro o cinque grandi tipi, e quindi quattro o cinquegrandi linee di evoluzione, che le conoscenze scientifi-che del tempo (l'Origine delle specie è del 1859) nonconsentivano ancora di ridurre ulteriormente. Lo svilup-po sistematico del darwinismo, la sua coordinazione inuna visione unica e armonica, è opera di seguaci, chehanno avuto a loro disposizione un materiale scientifico,che Darwin ancora non possedeva. La dottrina propria-mente darwiniana era fondata sopra osservazioni, percosì dire, macroscopiche, degli esseri viventi, cioè sulloro comportamento, sui loro costumi, sulle loro varia-zioni appariscenti. Ma le indagini microscopichedell'embriologia e dell'istologia dovevano portare nuovaluce su quei trapassi insensibili, che la dottrina postula-va ma non dimostrava; dovevano principalmente farconstatare sorprendenti analogie tra le fasi di sviluppo diun singolo embrione e le fasi storiche attraversate dallavita nei millenni; e dovevano far concepire anche l'ardi-ta speranza di poter ricondurre tutte le forme organichead una cellula originaria di estrema semplicità, venutafuori a un certo momento dell'evoluzione cosmica dauna combinazione chimica di elementi inorganici. Inquesto modo il cauto e frammentario evoluzionismo delDarwin avrebbe rivelato tutte le possibilità latenti nelle

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dottrina darwiniana, che la differenzia dal darwinismoposteriore, ed è che essa non ci dà una ricostruzionecompleta dell'albero genealogico della vita, a partire daun esemplare originario, ma fornisce un orientamento dilavoro e un abbozzo di esecuzione, ponendo all'originequattro o cinque grandi tipi, e quindi quattro o cinquegrandi linee di evoluzione, che le conoscenze scientifi-che del tempo (l'Origine delle specie è del 1859) nonconsentivano ancora di ridurre ulteriormente. Lo svilup-po sistematico del darwinismo, la sua coordinazione inuna visione unica e armonica, è opera di seguaci, chehanno avuto a loro disposizione un materiale scientifico,che Darwin ancora non possedeva. La dottrina propria-mente darwiniana era fondata sopra osservazioni, percosì dire, macroscopiche, degli esseri viventi, cioè sulloro comportamento, sui loro costumi, sulle loro varia-zioni appariscenti. Ma le indagini microscopichedell'embriologia e dell'istologia dovevano portare nuovaluce su quei trapassi insensibili, che la dottrina postula-va ma non dimostrava; dovevano principalmente farconstatare sorprendenti analogie tra le fasi di sviluppo diun singolo embrione e le fasi storiche attraversate dallavita nei millenni; e dovevano far concepire anche l'ardi-ta speranza di poter ricondurre tutte le forme organichead una cellula originaria di estrema semplicità, venutafuori a un certo momento dell'evoluzione cosmica dauna combinazione chimica di elementi inorganici. Inquesto modo il cauto e frammentario evoluzionismo delDarwin avrebbe rivelato tutte le possibilità latenti nelle

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Page 240: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

sue istintive premesse materialistiche e non avrebbe piùlasciato lacune nella ricostruzione genetica del mondodalla bruta materia alle manifestazioni più alte e com-plesse della vita.

E questo è stato il cammino effettivamente percorsodalla dottrina trasformistica. Così, il Roux trasferiva ilprincipio della lotta per l'esistenza dagl'individui allecellule organiche; il Weismann lo portava nell'internodel germe, svolgendo l'idea di una selezione germinale.Ma principalmente lo Haeckel, che ha dato la forma piùsistemistica al darwinismo, enunciava il famoso princi-pio della corrispondenza tra le fasi ontogenetiche e filo-genetiche, che è sembrato per un certo tempo la provaperentoria del trasformismo. Egli dava in altri terminiper provato che ogni animale, durante la sua ontogenesi,cioè nello sviluppo dall'uovo alla forma finale, passa at-traverso gli stessi stadi pei quali passò la sua specie nel-la propria evoluzione millenaria. Stadi embrionali, lar-vali e simili rappresentano elementi ereditati fin daitempi remotissimi. Per esempio, nell'embrione dei mam-miferi si trovano delle branchie, e di qui si argomentache gli antenati dei mammiferi siano stati una volta pe-sci. Similmente si considera il cuore embrionale deimammiferi a ventricoli comunicanti come rappresentan-te lo stadio di rettile dell'evoluzione dei mammiferi. Ecosì via. Di qui lo Haeckel fu condotto a tracciare unquadro generale dell'evoluzione che, per gli esseri pluri-cellulari, aveva il suo punto di partenza nella gastrula,

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sue istintive premesse materialistiche e non avrebbe piùlasciato lacune nella ricostruzione genetica del mondodalla bruta materia alle manifestazioni più alte e com-plesse della vita.

E questo è stato il cammino effettivamente percorsodalla dottrina trasformistica. Così, il Roux trasferiva ilprincipio della lotta per l'esistenza dagl'individui allecellule organiche; il Weismann lo portava nell'internodel germe, svolgendo l'idea di una selezione germinale.Ma principalmente lo Haeckel, che ha dato la forma piùsistemistica al darwinismo, enunciava il famoso princi-pio della corrispondenza tra le fasi ontogenetiche e filo-genetiche, che è sembrato per un certo tempo la provaperentoria del trasformismo. Egli dava in altri terminiper provato che ogni animale, durante la sua ontogenesi,cioè nello sviluppo dall'uovo alla forma finale, passa at-traverso gli stessi stadi pei quali passò la sua specie nel-la propria evoluzione millenaria. Stadi embrionali, lar-vali e simili rappresentano elementi ereditati fin daitempi remotissimi. Per esempio, nell'embrione dei mam-miferi si trovano delle branchie, e di qui si argomentache gli antenati dei mammiferi siano stati una volta pe-sci. Similmente si considera il cuore embrionale deimammiferi a ventricoli comunicanti come rappresentan-te lo stadio di rettile dell'evoluzione dei mammiferi. Ecosì via. Di qui lo Haeckel fu condotto a tracciare unquadro generale dell'evoluzione che, per gli esseri pluri-cellulari, aveva il suo punto di partenza nella gastrula,

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Page 241: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

un essere formato di un sacco stomacale primitivo dalquale si sarebbero andati poi differenziando tutti gli altriorgani; e per gli esseri unicellulari dalla monera, unapresunta protocellula, in cui il nucleo e il protoplasmasono ancora indistinti.

Abbiamo esposto con qualche diffusione una dottrinafin troppo nota, per poter più facilmente mostrare comes'innestano ad essa le critiche dei recenti oppositori ecome cominciano a delinearsi delle concezioni nuove.Quelle critiche non sono senza precedenti. Se ne trova-no i capisaldi già nelle opere di contemporanei del Dar-win, cioè degli Owen, dei Broca, dei Von Baer. Ma ladifferenza da quel tempo ad ora sta principalmente inciò, che, quando la dottrina trasformistica era nella suaprima fioritura, essa aveva per sé il fascino della novitàe si avventurava in un campo d'indagine in gran parteinesplorato. Le confutazioni prevalentemente dottrinariedegli avversari parevano aver poca presa sopra una con-cezione che si professava fondata sui soli fatti dell'osser-vazione. Il darwinismo poteva esser battuto, o almenocircoscritto nella sua validità, solo sullo stesso terrenodell'esperienza, e le dottrine che gli venivano in primopiano contrapposte potevano a loro volta ritrovar creditosolo come conseguenza di questi risultati sperimentali.Tale è stato il lavoro dell'ultimo cinquantennio nellescienze biologiche, al quale lo stesso darwinismo ha for-nito le armi che dovevano servire a combatterlo.

Le conclusioni di queste indagini possono venire in

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un essere formato di un sacco stomacale primitivo dalquale si sarebbero andati poi differenziando tutti gli altriorgani; e per gli esseri unicellulari dalla monera, unapresunta protocellula, in cui il nucleo e il protoplasmasono ancora indistinti.

Abbiamo esposto con qualche diffusione una dottrinafin troppo nota, per poter più facilmente mostrare comes'innestano ad essa le critiche dei recenti oppositori ecome cominciano a delinearsi delle concezioni nuove.Quelle critiche non sono senza precedenti. Se ne trova-no i capisaldi già nelle opere di contemporanei del Dar-win, cioè degli Owen, dei Broca, dei Von Baer. Ma ladifferenza da quel tempo ad ora sta principalmente inciò, che, quando la dottrina trasformistica era nella suaprima fioritura, essa aveva per sé il fascino della novitàe si avventurava in un campo d'indagine in gran parteinesplorato. Le confutazioni prevalentemente dottrinariedegli avversari parevano aver poca presa sopra una con-cezione che si professava fondata sui soli fatti dell'osser-vazione. Il darwinismo poteva esser battuto, o almenocircoscritto nella sua validità, solo sullo stesso terrenodell'esperienza, e le dottrine che gli venivano in primopiano contrapposte potevano a loro volta ritrovar creditosolo come conseguenza di questi risultati sperimentali.Tale è stato il lavoro dell'ultimo cinquantennio nellescienze biologiche, al quale lo stesso darwinismo ha for-nito le armi che dovevano servire a combatterlo.

Le conclusioni di queste indagini possono venire in

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Page 242: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

breve riassunte nel modo seguente. L'odierna paleonto-logia dimostra che nella storia della terra non esiste unaserie regolare, continua e progressiva di mutamenti, cheportano alla trasformazione delle specie l'una nell'altra.Vi sono state piuttosto delle trasmutazioni ricorrenti pe-riodicamente; lunghi periodi di ristagno si sono alternaticon più brevi periodi di risveglio. Studiando gli avanzifossili esistenti negli strati geologici, si arriva a certe etàin cui le forme di vita esistenti improvvisamente scom-paiono. Esse sono sostituite nell'età seguente in unmodo del pari improvviso da una nuova fauna. E i mem-bri di questa non hanno immediate relazioni di discen-denza con quelli della precedente. Una forma è sostitui-ta da un'altra, non trasformata in un'altra.

Un secondo risultato non meno importante delle ri-cerche paleontologiche è stato quello di smentire l'esi-stenza di anelli intermedi nella catena degli esseri, cheera necessaria al darwinismo per postulare la continuitàininterrotta delle trasformazioni. Nel primo periodo difervore per il trasformismo, quasi ogni nuovo ritrova-mento di avanzi fossili di specie scomparse veniva usatoa colmare le lacune fra le specie conosciute, ma poste-riori ricerche hanno mostrato che non esistono specietransizionali e che quelle ch'eran credute tali o rientranoin altre specie già note, o costituiscono delle specie a sé,con caratteri del tutto autonomi e permanenti. Questistudi hanno assunto un particolare interesse in rapportoai ritrovamenti delle presunte forme intermedie tra la

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breve riassunte nel modo seguente. L'odierna paleonto-logia dimostra che nella storia della terra non esiste unaserie regolare, continua e progressiva di mutamenti, cheportano alla trasformazione delle specie l'una nell'altra.Vi sono state piuttosto delle trasmutazioni ricorrenti pe-riodicamente; lunghi periodi di ristagno si sono alternaticon più brevi periodi di risveglio. Studiando gli avanzifossili esistenti negli strati geologici, si arriva a certe etàin cui le forme di vita esistenti improvvisamente scom-paiono. Esse sono sostituite nell'età seguente in unmodo del pari improvviso da una nuova fauna. E i mem-bri di questa non hanno immediate relazioni di discen-denza con quelli della precedente. Una forma è sostitui-ta da un'altra, non trasformata in un'altra.

Un secondo risultato non meno importante delle ri-cerche paleontologiche è stato quello di smentire l'esi-stenza di anelli intermedi nella catena degli esseri, cheera necessaria al darwinismo per postulare la continuitàininterrotta delle trasformazioni. Nel primo periodo difervore per il trasformismo, quasi ogni nuovo ritrova-mento di avanzi fossili di specie scomparse veniva usatoa colmare le lacune fra le specie conosciute, ma poste-riori ricerche hanno mostrato che non esistono specietransizionali e che quelle ch'eran credute tali o rientranoin altre specie già note, o costituiscono delle specie a sé,con caratteri del tutto autonomi e permanenti. Questistudi hanno assunto un particolare interesse in rapportoai ritrovamenti delle presunte forme intermedie tra la

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scimmia e l'uomo. Per esempio il risultato dello studiodel Sergi sull'uomo del Neanderthal è che esso ha tutti icaratteri della specie umana e non rappresenta affattouno stadio transizionale. Conclusioni simili sono statetratte dallo studio di casi analoghi. La conseguenza ge-nerale è che le forme viventi non sono trascinate in unacorrente perpetua che le costringerebbe a non essere chele fasi effimere di una evoluzione senza sosta. Esse simostrano al contrario come degli stadi di equilibriomorfologico, che non mutano dal momento in cui hannorealizzato la loro struttura essenziale.

D'altra parte, la biologia s'è data a contestare puntoper punto la validità e l'efficacia dei fattori di evoluzioneenunciati dal Darwin, cioè la lotta per l'esistenza, la se-lezione naturale che ne deriva e l'eredità che ne trasmet-te e ne consolida i caratteri acquisiti. Ora, che la lottaper l'esistenza non abbia quel valore selettivo che le at-tribuisce il darwinismo, è cosa di cui ciascuno può ren-dersi conto nella propria esperienza. Non sempre, e nep-pure più spesso, sono i migliori o i più adatti quelli chesopravvivono alla lotta; ma la sopravvivenza è determi-nata da condizioni così contingenti e casuali, che non atorto un biologo poteva recentemente affermare che«nella concorrenza universale, gl'individui si trovano aun dipresso nella situazione dei viaggiatori soggetti adun accidente ferroviario: le loro qualità individuali con-tano poco per il risultato finale, che dipende innanzi tut-

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scimmia e l'uomo. Per esempio il risultato dello studiodel Sergi sull'uomo del Neanderthal è che esso ha tutti icaratteri della specie umana e non rappresenta affattouno stadio transizionale. Conclusioni simili sono statetratte dallo studio di casi analoghi. La conseguenza ge-nerale è che le forme viventi non sono trascinate in unacorrente perpetua che le costringerebbe a non essere chele fasi effimere di una evoluzione senza sosta. Esse simostrano al contrario come degli stadi di equilibriomorfologico, che non mutano dal momento in cui hannorealizzato la loro struttura essenziale.

D'altra parte, la biologia s'è data a contestare puntoper punto la validità e l'efficacia dei fattori di evoluzioneenunciati dal Darwin, cioè la lotta per l'esistenza, la se-lezione naturale che ne deriva e l'eredità che ne trasmet-te e ne consolida i caratteri acquisiti. Ora, che la lottaper l'esistenza non abbia quel valore selettivo che le at-tribuisce il darwinismo, è cosa di cui ciascuno può ren-dersi conto nella propria esperienza. Non sempre, e nep-pure più spesso, sono i migliori o i più adatti quelli chesopravvivono alla lotta; ma la sopravvivenza è determi-nata da condizioni così contingenti e casuali, che non atorto un biologo poteva recentemente affermare che«nella concorrenza universale, gl'individui si trovano aun dipresso nella situazione dei viaggiatori soggetti adun accidente ferroviario: le loro qualità individuali con-tano poco per il risultato finale, che dipende innanzi tut-

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to dal posto che essi occupano nel treno»225. Inoltre, laselezione naturale non si è mostrata, alla prova dei fatti,così efficace e creativa come immaginava il darwini-smo. Essa non è in grado di creare nessun tipo veramen-te nuovo, ma agisce essenzialmente come causa elimi-natrice, facendo sparire dei caratteri imperfetti. E a suavolta, l'azione dell'eredità è provato che si esercitaesclusivamente nei limiti del tipo specifico al quale ap-partiene l'individuo che si sviluppa. Non mai essa pro-duce strutture che si riferiscano a un altro tipo. Di più, latrasmissione dei caratteri acquisiti dall'individuo, volutadal Lamarck e dal Darwin, non è necessaria, né conti-nuativa. Al contrario, come osserva lo Chauffard, essatende a mantenere la specie in uno stato medio, cioè aristabilire l'equilibrio che le malattie o gli accidenti han-no potuto momentaneamente turbare. Anche l'eredità,dunque, come la selezione, ha un carattere piuttostoconservativo che acquisitivo.

Riassumendo, i fattori darwiniani sono, sì, delle forzereali che hanno esercitato una funzione nella formazionedegli esseri viventi, ma non già quella funzione trasfor-mistica che loro si attribuisce; e non potevano averla,perché la loro efficacia è molto più limitata che non sifosse creduto in principio. Né giova invocare, controqueste critiche, il fattore «tempo», affermando chel'azione evolutiva si è distribuita attraverso centinaia dimilioni di anni. Che i periodi sedimentari siano durati

225 RADL, op. cit.

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to dal posto che essi occupano nel treno»225. Inoltre, laselezione naturale non si è mostrata, alla prova dei fatti,così efficace e creativa come immaginava il darwini-smo. Essa non è in grado di creare nessun tipo veramen-te nuovo, ma agisce essenzialmente come causa elimi-natrice, facendo sparire dei caratteri imperfetti. E a suavolta, l'azione dell'eredità è provato che si esercitaesclusivamente nei limiti del tipo specifico al quale ap-partiene l'individuo che si sviluppa. Non mai essa pro-duce strutture che si riferiscano a un altro tipo. Di più, latrasmissione dei caratteri acquisiti dall'individuo, volutadal Lamarck e dal Darwin, non è necessaria, né conti-nuativa. Al contrario, come osserva lo Chauffard, essatende a mantenere la specie in uno stato medio, cioè aristabilire l'equilibrio che le malattie o gli accidenti han-no potuto momentaneamente turbare. Anche l'eredità,dunque, come la selezione, ha un carattere piuttostoconservativo che acquisitivo.

Riassumendo, i fattori darwiniani sono, sì, delle forzereali che hanno esercitato una funzione nella formazionedegli esseri viventi, ma non già quella funzione trasfor-mistica che loro si attribuisce; e non potevano averla,perché la loro efficacia è molto più limitata che non sifosse creduto in principio. Né giova invocare, controqueste critiche, il fattore «tempo», affermando chel'azione evolutiva si è distribuita attraverso centinaia dimilioni di anni. Che i periodi sedimentari siano durati

225 RADL, op. cit.

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migliaia o miliardi di anni poco importa, se noi abbiamonella successione degli strati geologici e in quella degliesseri viventi due scale presentanti la stessa graduazionee capaci di sovrapporsi. Queste scale in nessun modogiustificano l'idea di un mondo vivente che si complicaa poco a poco, a partire dai protozoi per finire ai verte-brati226. L'unico dato di fatto sicuro, che resta a favoredel darwinismo, è che i vertebrati mancano nelle etàgeologiche più antiche; ma questo fatto giustifica, piut-tosto che l'idea di una trasformazione graduale, quella diuna mutazione brusca.

Quanto alla dottrina haeckeliana, è noto che essa haavuto per qualche tempo uno strepitoso successo; mapiù accurati studi embriologici l'hanno poi demolita pez-zo per pezzo. Gastrule e monere si sono rivelate comeenti fittizi e insussistenti. Si trovò una volta nella pro-fondità del mare una melma gelatinosa che l'Huxley im-maginò fosse il protoplasma di un organismo primitivoe battezzò col nome di Bathybius Haeckelii, ma in se-guito risultò che il famoso Bathybius era una sostanzainorganica. Inoltre, la maggior parte degli esempi di pa-rallelismo tra l'ontogenesi e la filogenesi si è rivelatacome riposante su paragoni meramente nominali o sumeri riavvicinamenti funzionali di organi la cui anato-mia è troppo diversa perché li si possa collocare diretta-mente in serie.

I risultati delle odierne indagini non possono conside-226 VIALLETON, op. cit., p. 257.

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migliaia o miliardi di anni poco importa, se noi abbiamonella successione degli strati geologici e in quella degliesseri viventi due scale presentanti la stessa graduazionee capaci di sovrapporsi. Queste scale in nessun modogiustificano l'idea di un mondo vivente che si complicaa poco a poco, a partire dai protozoi per finire ai verte-brati226. L'unico dato di fatto sicuro, che resta a favoredel darwinismo, è che i vertebrati mancano nelle etàgeologiche più antiche; ma questo fatto giustifica, piut-tosto che l'idea di una trasformazione graduale, quella diuna mutazione brusca.

Quanto alla dottrina haeckeliana, è noto che essa haavuto per qualche tempo uno strepitoso successo; mapiù accurati studi embriologici l'hanno poi demolita pez-zo per pezzo. Gastrule e monere si sono rivelate comeenti fittizi e insussistenti. Si trovò una volta nella pro-fondità del mare una melma gelatinosa che l'Huxley im-maginò fosse il protoplasma di un organismo primitivoe battezzò col nome di Bathybius Haeckelii, ma in se-guito risultò che il famoso Bathybius era una sostanzainorganica. Inoltre, la maggior parte degli esempi di pa-rallelismo tra l'ontogenesi e la filogenesi si è rivelatacome riposante su paragoni meramente nominali o sumeri riavvicinamenti funzionali di organi la cui anato-mia è troppo diversa perché li si possa collocare diretta-mente in serie.

I risultati delle odierne indagini non possono conside-226 VIALLETON, op. cit., p. 257.

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rarsi come contrastanti con l'idea di una evoluzione ingenere, bensì con la forma che essa ha assunto nel dar-winismo, cioè con l'ipotesi di una trasformazione conti-nua e sotto la spinta di forze meccaniche. Quella conti-nuità si è dimostrata insussistente, e d'altra parte l'impie-go di forze brute e ciecamente meccaniche si è rivelatoinsufficiente a spiegare il passaggio dalle formazioni piùbasse e indifferenziate alle più alte e complesse dellascala degli esseri e lo sviluppo dal germe all'individuocompleto. Le più recenti dottrine, che emergono dallacritica del darwinismo sono tutte antimeccanistiche, e,nella maggior parte, antitrasformistiche. Esse possonocompendiarsi nei tre gruppi seguenti: a) dottrine neo-lamarckiane e neo-vitalistiche; b) dottrine delle muta-zioni brusche; c) dottrine dell'evoluzione creatrice. Nelfarne una breve rassegna non intendiamo invadere uncampo che non è il nostro, ma vogliamo soltanto mo-strare come, sotto l'influsso del generale rinnovamentodel pensiero filosofico, anche gli orientamenti scientificidel naturalismo sono venuti mutando. Dal che si potràtrarre una conferma che l'azione della filosofia sul pen-siero scientifico si esercita ab intra e non ab extra.

a) La dottrina del Lamarck è non meno materialisticadi quella del Darwin, ma contiene un principio fecondo,dissociabile dal materialismo, che consiste nell'accen-tuare l'importanza dello sforzo vitale come causa di evo-luzione, e quindi della «funzione» fisiologica e psichicacome determinante la formazione degli organi. Il la-

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rarsi come contrastanti con l'idea di una evoluzione ingenere, bensì con la forma che essa ha assunto nel dar-winismo, cioè con l'ipotesi di una trasformazione conti-nua e sotto la spinta di forze meccaniche. Quella conti-nuità si è dimostrata insussistente, e d'altra parte l'impie-go di forze brute e ciecamente meccaniche si è rivelatoinsufficiente a spiegare il passaggio dalle formazioni piùbasse e indifferenziate alle più alte e complesse dellascala degli esseri e lo sviluppo dal germe all'individuocompleto. Le più recenti dottrine, che emergono dallacritica del darwinismo sono tutte antimeccanistiche, e,nella maggior parte, antitrasformistiche. Esse possonocompendiarsi nei tre gruppi seguenti: a) dottrine neo-lamarckiane e neo-vitalistiche; b) dottrine delle muta-zioni brusche; c) dottrine dell'evoluzione creatrice. Nelfarne una breve rassegna non intendiamo invadere uncampo che non è il nostro, ma vogliamo soltanto mo-strare come, sotto l'influsso del generale rinnovamentodel pensiero filosofico, anche gli orientamenti scientificidel naturalismo sono venuti mutando. Dal che si potràtrarre una conferma che l'azione della filosofia sul pen-siero scientifico si esercita ab intra e non ab extra.

a) La dottrina del Lamarck è non meno materialisticadi quella del Darwin, ma contiene un principio fecondo,dissociabile dal materialismo, che consiste nell'accen-tuare l'importanza dello sforzo vitale come causa di evo-luzione, e quindi della «funzione» fisiologica e psichicacome determinante la formazione degli organi. Il la-

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marckismo, abbandonato in un primo tempo, conl'avvento della concezione darwiniana, molto più scien-tificamente fondata nei suoi particolari, è risorto più tar-di, in virtù di quel suo interno motivo vitalistico, chedava all'evoluzione un centro attivo e una forza di pro-pulsione, mancante nella dottrina del Darwin, la qualelasciava tutto in balìa dell'ambiente. S'è creata così, peropera del Cope, dello Eimer, del Pauly, del Butler eprincipalmente del Driesch, la scuola neo-vitalistica, laquale fa largo impiego, nelle sue spiegazioni, dei con-cetti di finalità interna, di perfezione, di entelechia, at-tinti alla tradizione aristotelico-leibniziana. Nella dottri-na del Driesch, in particolar modo, questa ispirazione fi-losofica è chiaramente visibile. All'idea di una prefor-mazione di tutti gli organi nel germe, che riduce l'evolu-zione a uno spiegamento di qualcosa di preesistente, ilDriesch ha sostituito in un primo tempo l'idea di un con-tinuo sprigionamento di nuove strutture, ed ha dato aquesta ipotesi il nome di teoria epigenetica o di «evolu-zione emergente». In seguito poi, servendosi della diadearistotelica di potenza e di atto, ha considerato la cellulaembrionale come dotata di una potenza e di un impulsoverso l'autorealizzazione, o, per usare le sue parole, diun «potere prospettivo» che tende a sviluppare i caratte-ri definiti dell'individuo completo. Alla concezionemeccanica della vita egli ha sostituito così un vitalismodinamico che rappresenta, in sede biologica, un orienta-mento di pensiero molto affine a quello che, in sede filo-

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marckismo, abbandonato in un primo tempo, conl'avvento della concezione darwiniana, molto più scien-tificamente fondata nei suoi particolari, è risorto più tar-di, in virtù di quel suo interno motivo vitalistico, chedava all'evoluzione un centro attivo e una forza di pro-pulsione, mancante nella dottrina del Darwin, la qualelasciava tutto in balìa dell'ambiente. S'è creata così, peropera del Cope, dello Eimer, del Pauly, del Butler eprincipalmente del Driesch, la scuola neo-vitalistica, laquale fa largo impiego, nelle sue spiegazioni, dei con-cetti di finalità interna, di perfezione, di entelechia, at-tinti alla tradizione aristotelico-leibniziana. Nella dottri-na del Driesch, in particolar modo, questa ispirazione fi-losofica è chiaramente visibile. All'idea di una prefor-mazione di tutti gli organi nel germe, che riduce l'evolu-zione a uno spiegamento di qualcosa di preesistente, ilDriesch ha sostituito in un primo tempo l'idea di un con-tinuo sprigionamento di nuove strutture, ed ha dato aquesta ipotesi il nome di teoria epigenetica o di «evolu-zione emergente». In seguito poi, servendosi della diadearistotelica di potenza e di atto, ha considerato la cellulaembrionale come dotata di una potenza e di un impulsoverso l'autorealizzazione, o, per usare le sue parole, diun «potere prospettivo» che tende a sviluppare i caratte-ri definiti dell'individuo completo. Alla concezionemeccanica della vita egli ha sostituito così un vitalismodinamico che rappresenta, in sede biologica, un orienta-mento di pensiero molto affine a quello che, in sede filo-

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sofica, informa lo spiritualismo francese del secoloXIX227.

b) La dottrina delle mutazioni brusche ha avuto il suopunto di partenza nella constatata incapacità del darwi-nismo di giustificare sperimentalmente la esistenza dianelli intermedi nella scala evolutiva. L'uomo stesso,venuto così tardi nei tempi geologici, è anch'esso unesempio dell'apparizione subitanea di una forma ben dif-ferenziata. E, più generalmente, un tratto caratteristicodell'evoluzione dei vertebrati è che le loro classi appaio-no con tutti i caratteri essenziali, presenti in una volta.Le forme superiori non appaiono dopo altre inferiori,ma quasi simultaneamente con esse: come dice il Vialle-ton, a ogni nuova èra geologica, tutta una nuova équipesostituisce quella ch'è scomparsa, e questa nuova non èfiglia della precedente, ma viene da più lontano e daun'altra fonte.

Questo comportamento delle classi e degli ordini con-ferma l'idea di un'apparizione brusca, di qualcosa cioèche, nell'ordine creativo, corrisponde alla catastrofe cheha inabissato la vita di un'èra precedente. Siffatta idea diun'evoluzione discontinua, a salti, fu enunciata, tra i pri-mi, dal Bateson, nel 1894, benché abbia addentellati piùlontani, fin nella ipotesi «catastrofica» del Cuvier. Ma èstato il Bateson che le ha dato veste di dottrina e l'habattezzata col nome di «teoria delle variazioni disconti-

227 Sopra una linea affine è la dottrina dell'«evoluzione emergente» di LloydMorgan, della quale ho già parlato nel cap. III di questo volume.

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sofica, informa lo spiritualismo francese del secoloXIX227.

b) La dottrina delle mutazioni brusche ha avuto il suopunto di partenza nella constatata incapacità del darwi-nismo di giustificare sperimentalmente la esistenza dianelli intermedi nella scala evolutiva. L'uomo stesso,venuto così tardi nei tempi geologici, è anch'esso unesempio dell'apparizione subitanea di una forma ben dif-ferenziata. E, più generalmente, un tratto caratteristicodell'evoluzione dei vertebrati è che le loro classi appaio-no con tutti i caratteri essenziali, presenti in una volta.Le forme superiori non appaiono dopo altre inferiori,ma quasi simultaneamente con esse: come dice il Vialle-ton, a ogni nuova èra geologica, tutta una nuova équipesostituisce quella ch'è scomparsa, e questa nuova non èfiglia della precedente, ma viene da più lontano e daun'altra fonte.

Questo comportamento delle classi e degli ordini con-ferma l'idea di un'apparizione brusca, di qualcosa cioèche, nell'ordine creativo, corrisponde alla catastrofe cheha inabissato la vita di un'èra precedente. Siffatta idea diun'evoluzione discontinua, a salti, fu enunciata, tra i pri-mi, dal Bateson, nel 1894, benché abbia addentellati piùlontani, fin nella ipotesi «catastrofica» del Cuvier. Ma èstato il Bateson che le ha dato veste di dottrina e l'habattezzata col nome di «teoria delle variazioni disconti-

227 Sopra una linea affine è la dottrina dell'«evoluzione emergente» di LloydMorgan, della quale ho già parlato nel cap. III di questo volume.

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nue». Alle sue indagini nel campo della zoologia fannopoi riscontro quelle del Korschinski in botanica (1899-1901), che giungono anch'esse alla conclusione che lenuove specie non vengono fuori da un processo gradua-le, bensì da mutamenti improvvisi occasionali (eteroge-nesi).

Ma lo scienziato che più di tutti ha legato il proprionome a questa nuova fase dell'evoluzionismo è stato ilDe Vries. Questi ha tracciato una netta separazione tra lespecie prodotte artificialmente, nelle quali le variazionifluttuanti sono accumulate per selezione, e le specie na-turali che vengon prodotte per mutazione. Col nome dimutazione egli ha inteso esprimere l'idea di una devia-zione, che appare subitamente e senza ovvie cause, eche differisce pertanto di gran lunga dalle variazioni ar-tificiali e graduali. Alle mutazioni risale, secondo il DeVries, l'origine delle specie elementari; in seguito, poi,la lotta per l'esistenza distrugge le meno vitali, mentre lealtre sopravvivono, e da esse hanno origine nuove muta-zioni, che spiegano la grande varietà delle forme assuntedalla vita. In questa ipotesi, i fattori trasformistici deldarwinismo hanno un riconoscimento subordinato, entrolimiti ben confermati dall'esperienza; mentre la forzaprincipale dell'evoluzione è qualcosa che non riusciamoperfettamente ad afferrare, perché è come una potenzaesplosiva di cui non conosciamo gl'ingredienti.

Recentemente un naturalista francese, il Vialleton, siè sforzato di dare una visione d'insieme del quadro della

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nue». Alle sue indagini nel campo della zoologia fannopoi riscontro quelle del Korschinski in botanica (1899-1901), che giungono anch'esse alla conclusione che lenuove specie non vengono fuori da un processo gradua-le, bensì da mutamenti improvvisi occasionali (eteroge-nesi).

Ma lo scienziato che più di tutti ha legato il proprionome a questa nuova fase dell'evoluzionismo è stato ilDe Vries. Questi ha tracciato una netta separazione tra lespecie prodotte artificialmente, nelle quali le variazionifluttuanti sono accumulate per selezione, e le specie na-turali che vengon prodotte per mutazione. Col nome dimutazione egli ha inteso esprimere l'idea di una devia-zione, che appare subitamente e senza ovvie cause, eche differisce pertanto di gran lunga dalle variazioni ar-tificiali e graduali. Alle mutazioni risale, secondo il DeVries, l'origine delle specie elementari; in seguito, poi,la lotta per l'esistenza distrugge le meno vitali, mentre lealtre sopravvivono, e da esse hanno origine nuove muta-zioni, che spiegano la grande varietà delle forme assuntedalla vita. In questa ipotesi, i fattori trasformistici deldarwinismo hanno un riconoscimento subordinato, entrolimiti ben confermati dall'esperienza; mentre la forzaprincipale dell'evoluzione è qualcosa che non riusciamoperfettamente ad afferrare, perché è come una potenzaesplosiva di cui non conosciamo gl'ingredienti.

Recentemente un naturalista francese, il Vialleton, siè sforzato di dare una visione d'insieme del quadro della

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vita come risulta da questo nuovo indirizzo evoluzioni-stico. Se si cerca di rappresentarsi, egli ha detto, l'insie-me dell'evoluzione dei vertebrati, l'immagine che vieneimmediatamente allo spirito è quella di un fuoco di arti-fizio. Ma, bisogna aggiungere, di un fuoco i cui varipezzi sono incapsulati gli uni negli altri, in modo dascoppiare in momenti successivi. L'incapsulamento deipezzi gli uni negli altri è la sola continuità che si possatrovare in essi. Questa continuità non è evolutiva, nelsenso che i nuovi scoppi non prolungano gli antichi, mavengono da un nuovo congegno, che tuttavia era rac-chiuso in quello che precedentemente era in azione.Questi scatti, o se si vuol parlar più propriamente, questirami non provengono dallo stesso tronco dei primi.L'albero filogenetico non è uno e continuo: ve ne sonomolti, forse uniti alla loro radice sotterranea, ma certo,appena usciti dal suolo si sono divisi, e i loro rami han-no ciascuno il proprio termine, raggiunto in un tempodiverso da ogni altro, e tale che non dà luogo ad altriprolungamenti. Tutte le forme nuove, infatti, non sonola continuazione di quelle che preesistevano, ma pro-vengono, per così dire, da bourgeons d'attente, che sem-brano dissimulati qua e là sotto la scorza dell'albero filo-genetico. Ma la discontinuità dei grandi tipi organici,ciascuno dei quali forma un ramo a sé, o un tronco a sé,magari riunito agli altri con radici sotterranee, si conci-lia con la continuità, in senso darwinistico, dei piccolirami. È questo il limitato margine che vien lasciato

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vita come risulta da questo nuovo indirizzo evoluzioni-stico. Se si cerca di rappresentarsi, egli ha detto, l'insie-me dell'evoluzione dei vertebrati, l'immagine che vieneimmediatamente allo spirito è quella di un fuoco di arti-fizio. Ma, bisogna aggiungere, di un fuoco i cui varipezzi sono incapsulati gli uni negli altri, in modo dascoppiare in momenti successivi. L'incapsulamento deipezzi gli uni negli altri è la sola continuità che si possatrovare in essi. Questa continuità non è evolutiva, nelsenso che i nuovi scoppi non prolungano gli antichi, mavengono da un nuovo congegno, che tuttavia era rac-chiuso in quello che precedentemente era in azione.Questi scatti, o se si vuol parlar più propriamente, questirami non provengono dallo stesso tronco dei primi.L'albero filogenetico non è uno e continuo: ve ne sonomolti, forse uniti alla loro radice sotterranea, ma certo,appena usciti dal suolo si sono divisi, e i loro rami han-no ciascuno il proprio termine, raggiunto in un tempodiverso da ogni altro, e tale che non dà luogo ad altriprolungamenti. Tutte le forme nuove, infatti, non sonola continuazione di quelle che preesistevano, ma pro-vengono, per così dire, da bourgeons d'attente, che sem-brano dissimulati qua e là sotto la scorza dell'albero filo-genetico. Ma la discontinuità dei grandi tipi organici,ciascuno dei quali forma un ramo a sé, o un tronco a sé,magari riunito agli altri con radici sotterranee, si conci-lia con la continuità, in senso darwinistico, dei piccolirami. È questo il limitato margine che vien lasciato

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all'azione dei fattori trasformistici228.Questa sommaria rappresentazione mostra che

un'evoluzione regolare e meccanica, com'era immagina-ta dai fautori del Darwin, si allontana molto da ciò chesi può effettivamente constatare. Ad ogni epoca non sivedono succedersi forme consecutive e regolarmente se-riate, come il trasformismo afferma, ma forme coordina-te tra loro, che costituiscono un insieme coerente, il qua-le racchiude i vari gradi di complessità e di potenza delmondo organico, in ciascuna età della sua storia.

L'esposta dottrina delle mutazioni brusche o del pro-gresso organico «per salti» corrisponde nell'ordinescientifico a ciò che in filosofia ha preso nome di con-tingentismo. Come questo, essa postula una discontinui-tà di gradi dell'esistenza e, attraverso i vari scatti,un'ascensione, che non si spiega con ragioni puramentemeccaniche, ma con l'assumere qualcosa ch'è al di sopradelle condizioni meramente fisiche della natura.Nell'ordine biologico, questo qualcosa prende il nome divita: elemento non isolabile con gli strumenti del labora-torio, e tuttavia presente, attivo ed espansivo, sì che,senza di esso, il comportamento degli esseri organici cisfugge del tutto. Il torto del trasformismo è stato di avervoluto compendiare la vita nelle leggi degl'ingredientimateriali di cui essa si serve, ma che non esauriscono af-fatto la sua natura propria. La teoria delle mutazionibrusche, pur avendo pretese esplicative tanto minori228 VIALLETON, op. cit., pp. 344 sgg.

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all'azione dei fattori trasformistici228.Questa sommaria rappresentazione mostra che

un'evoluzione regolare e meccanica, com'era immagina-ta dai fautori del Darwin, si allontana molto da ciò chesi può effettivamente constatare. Ad ogni epoca non sivedono succedersi forme consecutive e regolarmente se-riate, come il trasformismo afferma, ma forme coordina-te tra loro, che costituiscono un insieme coerente, il qua-le racchiude i vari gradi di complessità e di potenza delmondo organico, in ciascuna età della sua storia.

L'esposta dottrina delle mutazioni brusche o del pro-gresso organico «per salti» corrisponde nell'ordinescientifico a ciò che in filosofia ha preso nome di con-tingentismo. Come questo, essa postula una discontinui-tà di gradi dell'esistenza e, attraverso i vari scatti,un'ascensione, che non si spiega con ragioni puramentemeccaniche, ma con l'assumere qualcosa ch'è al di sopradelle condizioni meramente fisiche della natura.Nell'ordine biologico, questo qualcosa prende il nome divita: elemento non isolabile con gli strumenti del labora-torio, e tuttavia presente, attivo ed espansivo, sì che,senza di esso, il comportamento degli esseri organici cisfugge del tutto. Il torto del trasformismo è stato di avervoluto compendiare la vita nelle leggi degl'ingredientimateriali di cui essa si serve, ma che non esauriscono af-fatto la sua natura propria. La teoria delle mutazionibrusche, pur avendo pretese esplicative tanto minori228 VIALLETON, op. cit., pp. 344 sgg.

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dell'altra, è nondimeno un tentativo di cogliere il com-portamento della vita nel proprio livello di esistenza.

c) La dottrina dell'evoluzione creatrice enunciata dalBergson è ormai troppo nota perché convenga qui darneun'estesa notizia. Tuttavia essa ha avuto recentemente,per opera del Le Roy, alcuni importanti sviluppi, da cuisi chiarisce la sua posizione originale, inconfondibile,tanto col darwinismo, quanto con le concezioni avversa-rie, testé enumerate. E su questa peculiarità giova al-quanto soffermarsi per dare una qualche compiutezzaalla presente rassegna.

Contro le spiegazioni meccanistiche del darwinismo,la dottrina dell'evoluzione creatrice pone in evidenzal'importanza dei fattori interni dell'evoluzione, che sonodi natura biologica e psichica, e che segnano la direzio-ne dello slancio vitale verso una progressiva liberazionedella coscienza, pur attraverso deviazioni e ripiegamen-ti, in dipendenza delle abitudini inerziali proprie dellamateria. Anche il Le Roy, del resto, come il De Vries,ammette due ordini principali di variazioni nella storiadella vita: «Le une, sulle quali fa meglio presa la spiega-zione meccanistica, non sono che sviluppi per velocitàacquisita, e le si può osservare lungo le branche lateralie secondarie dell'albero filogenetico. Le altre, per mezzodelle quali si effettua il progresso maggiore, concernonole forme rimaste più confuse e plastiche, ma anche piùricche di potenziale evolutivo, veri embrioni nell'ordinedella filogenesi, che testimoniano delle iniziative con-

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dell'altra, è nondimeno un tentativo di cogliere il com-portamento della vita nel proprio livello di esistenza.

c) La dottrina dell'evoluzione creatrice enunciata dalBergson è ormai troppo nota perché convenga qui darneun'estesa notizia. Tuttavia essa ha avuto recentemente,per opera del Le Roy, alcuni importanti sviluppi, da cuisi chiarisce la sua posizione originale, inconfondibile,tanto col darwinismo, quanto con le concezioni avversa-rie, testé enumerate. E su questa peculiarità giova al-quanto soffermarsi per dare una qualche compiutezzaalla presente rassegna.

Contro le spiegazioni meccanistiche del darwinismo,la dottrina dell'evoluzione creatrice pone in evidenzal'importanza dei fattori interni dell'evoluzione, che sonodi natura biologica e psichica, e che segnano la direzio-ne dello slancio vitale verso una progressiva liberazionedella coscienza, pur attraverso deviazioni e ripiegamen-ti, in dipendenza delle abitudini inerziali proprie dellamateria. Anche il Le Roy, del resto, come il De Vries,ammette due ordini principali di variazioni nella storiadella vita: «Le une, sulle quali fa meglio presa la spiega-zione meccanistica, non sono che sviluppi per velocitàacquisita, e le si può osservare lungo le branche lateralie secondarie dell'albero filogenetico. Le altre, per mezzodelle quali si effettua il progresso maggiore, concernonole forme rimaste più confuse e plastiche, ma anche piùricche di potenziale evolutivo, veri embrioni nell'ordinedella filogenesi, che testimoniano delle iniziative con-

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quistatrici. Son esse che tracciano la via lungo la qualelo sforzo vitale trova un'uscita vittoriosa»229. Il torto deldarwinismo è stato di voler collocare in serie i punti ter-minali dei rami secondari, cioè le specie già fissate e ir-rigidite, quindi non più suscettive di ulteriore evoluzio-ne. Ma il torto degli avversari è stato di aver voluto ne-gare ogni validità all'ipotesi trasformistica, per la con-statata impossibilità di quei collegamenti, senza consi-derare che la transizione evolutiva, se mai c'è stata, nonè potuta avvenire tra due tipi definiti esplicitamente, conuna stabile struttura, ma solo tra forme confuse, appenanascenti. E la mancanza di documenti paleontologicidelle forme intermedie conferma, secondo il Le Roy,questa nuova interpretazione del trasformismo, perchéera estremamente improbabile la conservazione di avan-zi fossili di specie aventi indeterminatezza di struttura eplasticità di tessuti. Queste considerazioni sono utilizza-te dal Le Roy specialmente nello studio del problemagià trattato dal Darwin nel Descent of Man. «Le grandiscimmie antropomorfiche non sono gli antenatidell'uomo; tutt'al più son per lui dei cugini più o menolontani. Si sa che la linea di evoluzione che conduceall'uomo si è distaccata assai di buon'ora dal ceppo co-mune ed ha seguito un cammino quasi diretto, mentre ivari rami costituiti dalle specie scimmiesche hanno pre-so, in rapporto ad essa, una direzione laterale »230.

229 LE ROY, Les origines humaines, ecc., p. 115.230 Op. cit., p. 149.

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quistatrici. Son esse che tracciano la via lungo la qualelo sforzo vitale trova un'uscita vittoriosa»229. Il torto deldarwinismo è stato di voler collocare in serie i punti ter-minali dei rami secondari, cioè le specie già fissate e ir-rigidite, quindi non più suscettive di ulteriore evoluzio-ne. Ma il torto degli avversari è stato di aver voluto ne-gare ogni validità all'ipotesi trasformistica, per la con-statata impossibilità di quei collegamenti, senza consi-derare che la transizione evolutiva, se mai c'è stata, nonè potuta avvenire tra due tipi definiti esplicitamente, conuna stabile struttura, ma solo tra forme confuse, appenanascenti. E la mancanza di documenti paleontologicidelle forme intermedie conferma, secondo il Le Roy,questa nuova interpretazione del trasformismo, perchéera estremamente improbabile la conservazione di avan-zi fossili di specie aventi indeterminatezza di struttura eplasticità di tessuti. Queste considerazioni sono utilizza-te dal Le Roy specialmente nello studio del problemagià trattato dal Darwin nel Descent of Man. «Le grandiscimmie antropomorfiche non sono gli antenatidell'uomo; tutt'al più son per lui dei cugini più o menolontani. Si sa che la linea di evoluzione che conduceall'uomo si è distaccata assai di buon'ora dal ceppo co-mune ed ha seguito un cammino quasi diretto, mentre ivari rami costituiti dalle specie scimmiesche hanno pre-so, in rapporto ad essa, una direzione laterale »230.

229 LE ROY, Les origines humaines, ecc., p. 115.230 Op. cit., p. 149.

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C'è nell'esposta veduta una patente analogia con quel-la del Vialleton, che fa rampollare le nuove specie dabourgeons d'attente disseminati lungo la radicedell'albero filogenetico. Ma c'è di più il tentativo dispiegare come le forme più tardive (in questo caso laforma umana) abbiano, nella loro più lenta preparazio-ne, potuto condensare un maggior potenziale evolutivo,sì, che, venendo alla luce, esse già appaiono come lamèta di tutto lo sforzo vitale. La posizione privilegiatadell'uomo nell'universo non è insomma compromessa daun trasformismo interpretato idealisticamente. «Nonsembra negabile, scrive il Le Roy, che i movimenti dellavita si siano sempre diretti verso la realizzazione del si-stema nervoso più ricco e differenziato, verso la genesidi un cervello migliore, strumento di un psichismo piùsviluppato, più libero e più unito. In questa via, i succes-si sono ineguali: vi sono degli scacchi relativi, dei re-gressi, degli aborti; ma la direzione del moto si disegnaben visibile nell'insieme. La Vita, ancora una volta, è lastoria di una concentrazione e liberazione di pensiero. Inqueste condizioni, l'Uomo, nel quale l'organizzazionedei nervi e quindi le potenze psicologiche hanno rag-giunto un massimo d'intensità, deve fornire, per unagran parte, la chiave stessa dell'evoluzione231.

Antropomorfismo? È noto con quanta cura il Bergsonsi sia sforzato di evitare quel finalismo ingenuo, allaCandide, che fa intervenire l'utilità e la convenienza

231 Ibid., p. 84.

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C'è nell'esposta veduta una patente analogia con quel-la del Vialleton, che fa rampollare le nuove specie dabourgeons d'attente disseminati lungo la radicedell'albero filogenetico. Ma c'è di più il tentativo dispiegare come le forme più tardive (in questo caso laforma umana) abbiano, nella loro più lenta preparazio-ne, potuto condensare un maggior potenziale evolutivo,sì, che, venendo alla luce, esse già appaiono come lamèta di tutto lo sforzo vitale. La posizione privilegiatadell'uomo nell'universo non è insomma compromessa daun trasformismo interpretato idealisticamente. «Nonsembra negabile, scrive il Le Roy, che i movimenti dellavita si siano sempre diretti verso la realizzazione del si-stema nervoso più ricco e differenziato, verso la genesidi un cervello migliore, strumento di un psichismo piùsviluppato, più libero e più unito. In questa via, i succes-si sono ineguali: vi sono degli scacchi relativi, dei re-gressi, degli aborti; ma la direzione del moto si disegnaben visibile nell'insieme. La Vita, ancora una volta, è lastoria di una concentrazione e liberazione di pensiero. Inqueste condizioni, l'Uomo, nel quale l'organizzazionedei nervi e quindi le potenze psicologiche hanno rag-giunto un massimo d'intensità, deve fornire, per unagran parte, la chiave stessa dell'evoluzione231.

Antropomorfismo? È noto con quanta cura il Bergsonsi sia sforzato di evitare quel finalismo ingenuo, allaCandide, che fa intervenire l'utilità e la convenienza

231 Ibid., p. 84.

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umana nella spiegazione di qualunque fenomeno dellanatura. E il Le Roy, che ne segue le tracce, insiste anchelui nel mostrare che la Vita non realizza un piano pre-concetto, e che la sua finalità è «tâtonnante» e inventi-va, come quella di un pensiero in atto di creare232. Ciònon toglie però, che, se nell'ordine prospettivo non èpossibile prevedere quale indirizzo prenderà la vita nelfuturo, nell'ordine retrospettivo, invece, non si possa rin-tracciare nelle sue realizzazioni già compiute la tenden-za e il senso del movimento che ha condotto fino adesse. Ciò vale a differenziare questo indirizzo dal neo-vitalismo del Driesch, che ripristina le entelechie aristo-teliche.

Ancora un punto ci resta a considerare: il rapporto diquesta dottrina con quella delle mutazioni brusche. Il LeRoy non nega l'importanza delle discontinuità dell'evo-luzione notate dal De Vries, ma crede tuttavia che essepossano conciliarsi con l'affermazione di una continuitàfondamentale. Di queste sintesi di opposti anche la natu-ra inorganica offre esempi copiosi. Un corpo che un ri-scaldamento o un raffreddamento continuo fa mutar divolume, ma non di stato, solido o liquido, a un certomomento fonde o si congela: ecco che una qualità nuo-va e improvvisa è sorta per effetto di una evoluzionecontinua. Similmente la vita a sua volta, e forse anche ingrado maggiore, possiede questo carattere, di poter pas-sare dalla stabilità alla stabilità attraverso l'instabile, di

232 L'exigence idéaliste, ecc., p. 43.

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umana nella spiegazione di qualunque fenomeno dellanatura. E il Le Roy, che ne segue le tracce, insiste anchelui nel mostrare che la Vita non realizza un piano pre-concetto, e che la sua finalità è «tâtonnante» e inventi-va, come quella di un pensiero in atto di creare232. Ciònon toglie però, che, se nell'ordine prospettivo non èpossibile prevedere quale indirizzo prenderà la vita nelfuturo, nell'ordine retrospettivo, invece, non si possa rin-tracciare nelle sue realizzazioni già compiute la tenden-za e il senso del movimento che ha condotto fino adesse. Ciò vale a differenziare questo indirizzo dal neo-vitalismo del Driesch, che ripristina le entelechie aristo-teliche.

Ancora un punto ci resta a considerare: il rapporto diquesta dottrina con quella delle mutazioni brusche. Il LeRoy non nega l'importanza delle discontinuità dell'evo-luzione notate dal De Vries, ma crede tuttavia che essepossano conciliarsi con l'affermazione di una continuitàfondamentale. Di queste sintesi di opposti anche la natu-ra inorganica offre esempi copiosi. Un corpo che un ri-scaldamento o un raffreddamento continuo fa mutar divolume, ma non di stato, solido o liquido, a un certomomento fonde o si congela: ecco che una qualità nuo-va e improvvisa è sorta per effetto di una evoluzionecontinua. Similmente la vita a sua volta, e forse anche ingrado maggiore, possiede questo carattere, di poter pas-sare dalla stabilità alla stabilità attraverso l'instabile, di

232 L'exigence idéaliste, ecc., p. 43.

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partecipare al continuo e al discontinuo insieme, in unacontinuità eterogenea, attraversata da crisi che separanoe nel tempo stesso congiungono oasi di tranquillità233.

Non è qui il caso di seguire nei più minuti particolarigli sviluppi degl'indirizzi evoluzionistici, che emergonodalla crisi del darwinismo. Son problemi che solo lacompetenza di studiosi specializzati potrà risolvere. Mauna conclusione di carattere generale mi par che risultigià dalla rassegna sommaria precedente. Qualunque siail valore delle singole tesi scientifiche formulate dalDarwin e dai suoi seguaci, è indubitabile che il pregiopermanente del darwinismo consiste non tanto in esso,quanto nell'avere instaurato un procedimento genetico estorico nell'ordine delle ricerche biologiche, in luogodelle statiche classificazioni morfologiche. Il successodi questa metodologia non ha nessun legame di dipen-denza né col nominalismo dell'interpretazione delle«specie», né col trasformismo meccanistico, né col sot-tinteso materialismo con cui la dottrina è stata origina-riamente concepita. Anzi si può con certezza affermareche queste parziali vedute sono di grave impedimentoalla piena attuazione di una metodologia storica, perchénon può esservi vera storia dove c'è mero meccanismo edove manca un centro di spontaneità creatrice. Da que-sto punto di vista, le concezioni antidarwinistiche da noipassate in rassegna rappresentano il più efficace integra-mento del darwinismo, affinché questo possa liberamen-

233 Op. cit., p. 119; Les origines, ecc., pp. 51 sgg.

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partecipare al continuo e al discontinuo insieme, in unacontinuità eterogenea, attraversata da crisi che separanoe nel tempo stesso congiungono oasi di tranquillità233.

Non è qui il caso di seguire nei più minuti particolarigli sviluppi degl'indirizzi evoluzionistici, che emergonodalla crisi del darwinismo. Son problemi che solo lacompetenza di studiosi specializzati potrà risolvere. Mauna conclusione di carattere generale mi par che risultigià dalla rassegna sommaria precedente. Qualunque siail valore delle singole tesi scientifiche formulate dalDarwin e dai suoi seguaci, è indubitabile che il pregiopermanente del darwinismo consiste non tanto in esso,quanto nell'avere instaurato un procedimento genetico estorico nell'ordine delle ricerche biologiche, in luogodelle statiche classificazioni morfologiche. Il successodi questa metodologia non ha nessun legame di dipen-denza né col nominalismo dell'interpretazione delle«specie», né col trasformismo meccanistico, né col sot-tinteso materialismo con cui la dottrina è stata origina-riamente concepita. Anzi si può con certezza affermareche queste parziali vedute sono di grave impedimentoalla piena attuazione di una metodologia storica, perchénon può esservi vera storia dove c'è mero meccanismo edove manca un centro di spontaneità creatrice. Da que-sto punto di vista, le concezioni antidarwinistiche da noipassate in rassegna rappresentano il più efficace integra-mento del darwinismo, affinché questo possa liberamen-

233 Op. cit., p. 119; Les origines, ecc., pp. 51 sgg.

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te spiegare le possibilità latenti nelle sue assunzioni ge-netiche e portare il suo ancor ibrido storicismo al livellodella storia vera e propria.

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te spiegare le possibilità latenti nelle sue assunzioni ge-netiche e portare il suo ancor ibrido storicismo al livellodella storia vera e propria.

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XIII

GUGLIELMO DILTHEY

L'opera di Guglielmo Dilthey ci è stata rivelata in tut-ta la sua ampiezza solo di recente, grazie all'edizionecompleta delle opere, testé curata dal Misch, dal Groe-thuysen e da altri scolari234. In vita, il Dilthey non pub-blicò che un solo volume di tessitura alquanto organicae di largo respiro, l'Einleitung in dieGeisteswissenschaften (1883), che doveva costituire1'introduzione storico-critica alla dottrina della storia.Ma la seconda parte dell'opera, intorno alla quale egli siaffaticò per più di un trentennio e che era stata da luiconcepita col titolo ambizioso di una Critica della ra-gione storica, complemento della Critica della ragionpura di Kant, non vide mai la luce, almeno come un tut-to compiuto ed autonomo. Tuttavia egli ne andò pubbli-cando di volta in volta, in riviste storico-filosofiche, deibrani staccati, a testimonianza del suo assiduo lavorio e,insieme, dell'incompleta maturazione del vasto proble-ma nella sua mente, che gl'impediva di rifondere in un234 W. DILTHEY, Schriften (ed. Teubner, 12 voll. finora pubblicati).

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GUGLIELMO DILTHEY

L'opera di Guglielmo Dilthey ci è stata rivelata in tut-ta la sua ampiezza solo di recente, grazie all'edizionecompleta delle opere, testé curata dal Misch, dal Groe-thuysen e da altri scolari234. In vita, il Dilthey non pub-blicò che un solo volume di tessitura alquanto organicae di largo respiro, l'Einleitung in dieGeisteswissenschaften (1883), che doveva costituire1'introduzione storico-critica alla dottrina della storia.Ma la seconda parte dell'opera, intorno alla quale egli siaffaticò per più di un trentennio e che era stata da luiconcepita col titolo ambizioso di una Critica della ra-gione storica, complemento della Critica della ragionpura di Kant, non vide mai la luce, almeno come un tut-to compiuto ed autonomo. Tuttavia egli ne andò pubbli-cando di volta in volta, in riviste storico-filosofiche, deibrani staccati, a testimonianza del suo assiduo lavorio e,insieme, dell'incompleta maturazione del vasto proble-ma nella sua mente, che gl'impediva di rifondere in un234 W. DILTHEY, Schriften (ed. Teubner, 12 voll. finora pubblicati).

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Page 259: Guido De Ruggiero - Liber Liber · Filosofi del novecento . Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so-stegno di: E-text ... non piuttosto di temprare il proprio pensiero

sol getto tutto il materiale accumulato. Accadde qui alDilthey come nell'altra sua opera sulla storia dello spiri-to umano nell'età della Riforma: anche di questa eglipubblicò dei brani distaccati, e alle premure degli amiciperché li riunisse in un volume, oppose un costante ri-fiuto, affermando che l'opera era ancora da scrivere eche le parti già apparse erano soltanto degli schizzi pre-paratori del quadro futuro. Ma alla sua morte, questischizzi, raccolti insieme col titolo di Analyse desMenschen seit Renaissance und Reformation235, sonoapparsi più uniti e fusi di quel che non risultassero nellaloro prima pubblicazione frammentaria e sporadica, eformano il più importante contributo che il pensiero te-desco abbia finora dato all'interpretazione storica deitravagli spirituali della Riforma236. Similmente i saggidella dottrina della storia, in parte pubblicati tra il 1890e il 1910, in parte rimasti inediti allo stato di appunti, edora stampati tutti insieme nell'ordine cronologico dellaloro redazione, acquistano una certa unità, o almenoconsentono al lettore di ricostruire lo svolgimento delpensiero diltheyano nelle sue tappe principali.

Per intendere questo svolgimento, bisogna partire dairisultati dell'Introduzione alle scienze dello spirito del1883 che è il lavoro più sistematicamente elaborato, ma235 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: il titolo completo è “Weltan-

schauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation”.236 Per non ripetere cose già dette, rimando il lettore alla recensione che di

quell'opera feci ne La Critica (1927, fasc. V, pp. 313-21), in occasione del-la traduzione italiana di essa, fatta dal Sanna (Venezia, La Nuova Italiaed.).

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sol getto tutto il materiale accumulato. Accadde qui alDilthey come nell'altra sua opera sulla storia dello spiri-to umano nell'età della Riforma: anche di questa eglipubblicò dei brani distaccati, e alle premure degli amiciperché li riunisse in un volume, oppose un costante ri-fiuto, affermando che l'opera era ancora da scrivere eche le parti già apparse erano soltanto degli schizzi pre-paratori del quadro futuro. Ma alla sua morte, questischizzi, raccolti insieme col titolo di Analyse desMenschen seit Renaissance und Reformation235, sonoapparsi più uniti e fusi di quel che non risultassero nellaloro prima pubblicazione frammentaria e sporadica, eformano il più importante contributo che il pensiero te-desco abbia finora dato all'interpretazione storica deitravagli spirituali della Riforma236. Similmente i saggidella dottrina della storia, in parte pubblicati tra il 1890e il 1910, in parte rimasti inediti allo stato di appunti, edora stampati tutti insieme nell'ordine cronologico dellaloro redazione, acquistano una certa unità, o almenoconsentono al lettore di ricostruire lo svolgimento delpensiero diltheyano nelle sue tappe principali.

Per intendere questo svolgimento, bisogna partire dairisultati dell'Introduzione alle scienze dello spirito del1883 che è il lavoro più sistematicamente elaborato, ma235 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: il titolo completo è “Weltan-

schauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation”.236 Per non ripetere cose già dette, rimando il lettore alla recensione che di

quell'opera feci ne La Critica (1927, fasc. V, pp. 313-21), in occasione del-la traduzione italiana di essa, fatta dal Sanna (Venezia, La Nuova Italiaed.).

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anche più immaturo del Dilthey. Quivi il problema dellastoria gli si configurava ancora nella mente nella formaalquanto estrinseca di una metodologia empirica, piutto-sto che di una dottrina delle categorie in senso kantiano.Oggetto della ricerca era, in altri termini, la storiografiae non la storia, la ratio scribendi e non la ratio essendi:la storia vera e propria, come in ogni studio meramentemetodologico, era un presupposto, un dato da riprodurreo da imitare, e pertanto la sua intima struttura cadevadel tutto fuori del quadro della conoscenza. Concepireuna storiografia nella quale si realizzasse e si svolgessela realtà del mondo storico, cioè una conoscenza che siconcretasse col proprio oggetto, era questo il punto divista che si trattava di conquistare, per attuare nell'ordi-ne delle discipline storiche una rivoluzione copernicanaanaloga a quella attuata da Kant nell'ordine delle disci-pline naturalistiche. E un'ulteriore differenza dei duepunti di vista consisteva in ciò, che la metodologia for-malistica dell'Introduzione alle scienze dello spirito,puntualizzando l'opposizione tra la storia e la scienzadella natura nella rappresentazione statica di un contra-sto tra l'individuo da una parte e la legge astrattadall'altra, escludeva dalla storia ogni idea di divenire edi sviluppo, cioè quel che forma la sua vera peculiarità eil suo valore.

Sorpassare le premesse metodologiche per giungerealla dottrina della scienza è stato lo sforzo continuo e te-nace del Dilthey dopo la pubblicazione dell'Einleitung.

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anche più immaturo del Dilthey. Quivi il problema dellastoria gli si configurava ancora nella mente nella formaalquanto estrinseca di una metodologia empirica, piutto-sto che di una dottrina delle categorie in senso kantiano.Oggetto della ricerca era, in altri termini, la storiografiae non la storia, la ratio scribendi e non la ratio essendi:la storia vera e propria, come in ogni studio meramentemetodologico, era un presupposto, un dato da riprodurreo da imitare, e pertanto la sua intima struttura cadevadel tutto fuori del quadro della conoscenza. Concepireuna storiografia nella quale si realizzasse e si svolgessela realtà del mondo storico, cioè una conoscenza che siconcretasse col proprio oggetto, era questo il punto divista che si trattava di conquistare, per attuare nell'ordi-ne delle discipline storiche una rivoluzione copernicanaanaloga a quella attuata da Kant nell'ordine delle disci-pline naturalistiche. E un'ulteriore differenza dei duepunti di vista consisteva in ciò, che la metodologia for-malistica dell'Introduzione alle scienze dello spirito,puntualizzando l'opposizione tra la storia e la scienzadella natura nella rappresentazione statica di un contra-sto tra l'individuo da una parte e la legge astrattadall'altra, escludeva dalla storia ogni idea di divenire edi sviluppo, cioè quel che forma la sua vera peculiarità eil suo valore.

Sorpassare le premesse metodologiche per giungerealla dottrina della scienza è stato lo sforzo continuo e te-nace del Dilthey dopo la pubblicazione dell'Einleitung.

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E questa che pareva un tutto già compiuto, almeno nelsuo aspetto sistematico, e che doveva essere completatasolo nella sua parte storica (in quella che, per intenderci,potremmo chiamare la storia della storiografia) non haavuto invece il sèguito promesso, ed è rimasta sospesain una specie di limbo filosofico. Anche la storia dellastoriografia, infatti, non poteva non subire il contraccol-po del mutato punto di vista dell'Autore: la parte di essagià studiata nell'Einleitung, che si estende dall'antichitàal Rinascimento, non esce dal quadro convenzionale egenerico delle comuni storie della filosofia. Condurlaavanti con le stesse direttive sarebbe riuscito impossibi-le al Dilthey dopo che il problema speculativo della sto-ria gli si era venuto atteggiando nella mente in modoben diverso; ma, d'altra parte, gli mancarono le forze diriscriverla di getto, ed anche qui egli si limitò, secondoil suo costume, a tracciarne un rapido e luminoso abboz-zo. La storia della storiografia, nella sua concezione piùmatura, avrebbe dovuto tracciare i vari quadri di svilup-po delle discipline storiche nel processo esplicativo del-la realtà, dalle mere descrizioni dei primitivi alla inter-pretazione intima e genetica dei moderni. E i vari stadierano per lui i seguenti: arte di raccontare (Erodoto); il-lustrazione penetrante (Tucidide); applicazione di scien-ze sistematiche – costituzioni, finanze, organizzazionemilitare, ecc. – nella spiegazione dei fatti (Polibio, Ma-chiavelli, Guicciardini); divisione di relazioni connettivetra gruppi di azioni: diritto, religione, poesia, ecc. (Vol-taire); principio dello sviluppo (Möser, Herder). Per in-

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E questa che pareva un tutto già compiuto, almeno nelsuo aspetto sistematico, e che doveva essere completatasolo nella sua parte storica (in quella che, per intenderci,potremmo chiamare la storia della storiografia) non haavuto invece il sèguito promesso, ed è rimasta sospesain una specie di limbo filosofico. Anche la storia dellastoriografia, infatti, non poteva non subire il contraccol-po del mutato punto di vista dell'Autore: la parte di essagià studiata nell'Einleitung, che si estende dall'antichitàal Rinascimento, non esce dal quadro convenzionale egenerico delle comuni storie della filosofia. Condurlaavanti con le stesse direttive sarebbe riuscito impossibi-le al Dilthey dopo che il problema speculativo della sto-ria gli si era venuto atteggiando nella mente in modoben diverso; ma, d'altra parte, gli mancarono le forze diriscriverla di getto, ed anche qui egli si limitò, secondoil suo costume, a tracciarne un rapido e luminoso abboz-zo. La storia della storiografia, nella sua concezione piùmatura, avrebbe dovuto tracciare i vari quadri di svilup-po delle discipline storiche nel processo esplicativo del-la realtà, dalle mere descrizioni dei primitivi alla inter-pretazione intima e genetica dei moderni. E i vari stadierano per lui i seguenti: arte di raccontare (Erodoto); il-lustrazione penetrante (Tucidide); applicazione di scien-ze sistematiche – costituzioni, finanze, organizzazionemilitare, ecc. – nella spiegazione dei fatti (Polibio, Ma-chiavelli, Guicciardini); divisione di relazioni connettivetra gruppi di azioni: diritto, religione, poesia, ecc. (Vol-taire); principio dello sviluppo (Möser, Herder). Per in-

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tendere il significato di queste tappe, che naturalmentenon si escludono, ma si sommano e s'integrano237, dob-biamo cercare di fissare i tratti principali della nuovafase della dottrina diltheyana.

Questa si muove sulle orme della Critica della ragionpura, ricercando se siano possibili i giudizi storici, e po-nendo due gradi di conoscenza, che si integrano inun'unità sintetica. Ma mentre per la conoscenza dellescienze naturali il primo grado è costituito dalla intui-zione sensibile, cioè dall'oggettivazione nello spazio diun dato della sensibilità presente alla coscienza, per laconoscenza storica il primo grado è l'Erlebnis, cioèl'interiorizzazione di un contenuto di vita, sulla tracciadi un'esterna e frammentaria documentazione. Ciò che sioffre in primo luogo allo storico è una testimonianza oun segno o comunque un dato, che è il residuo apparen-te di un'attività. La metodologia empiristica della storiaimmagina che questo dato sia il fondamento della sto-riografia, non diversamente che la dottrina empiristicadella scienza crede di poter fondare sulle grezze sensa-zioni le costruzioni naturalistiche. Invece il dato docu-mentario non è che l'occasione a rivivere nella coscienzal'attività che l'ha creato e che ha esulato da esso. Dallapienezza della propria vita, lo storico, per una specie ditrasposizione, è portato a rivivere l'altrui vita e a trasva-lutare e ad animare la morta materia che gli è immedia-

237 DILTHEY, Der Aufbau der gesh. Welt in den Geisteswissenschaften, vol. VII,pp. 163-64.

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tendere il significato di queste tappe, che naturalmentenon si escludono, ma si sommano e s'integrano237, dob-biamo cercare di fissare i tratti principali della nuovafase della dottrina diltheyana.

Questa si muove sulle orme della Critica della ragionpura, ricercando se siano possibili i giudizi storici, e po-nendo due gradi di conoscenza, che si integrano inun'unità sintetica. Ma mentre per la conoscenza dellescienze naturali il primo grado è costituito dalla intui-zione sensibile, cioè dall'oggettivazione nello spazio diun dato della sensibilità presente alla coscienza, per laconoscenza storica il primo grado è l'Erlebnis, cioèl'interiorizzazione di un contenuto di vita, sulla tracciadi un'esterna e frammentaria documentazione. Ciò che sioffre in primo luogo allo storico è una testimonianza oun segno o comunque un dato, che è il residuo apparen-te di un'attività. La metodologia empiristica della storiaimmagina che questo dato sia il fondamento della sto-riografia, non diversamente che la dottrina empiristicadella scienza crede di poter fondare sulle grezze sensa-zioni le costruzioni naturalistiche. Invece il dato docu-mentario non è che l'occasione a rivivere nella coscienzal'attività che l'ha creato e che ha esulato da esso. Dallapienezza della propria vita, lo storico, per una specie ditrasposizione, è portato a rivivere l'altrui vita e a trasva-lutare e ad animare la morta materia che gli è immedia-

237 DILTHEY, Der Aufbau der gesh. Welt in den Geisteswissenschaften, vol. VII,pp. 163-64.

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tamente offerta238. Questo Erlebnis rappresenta l'ele-mento psicologico e, in un certo senso, artistico, dellastoriografia: uno storico che non sia dotato di ricca vitainteriore e quindi di capacità di rievocazione animata ed'interpretazione aderente, sarà un arido raccoglitore eun freddo ragionatore, ma non mai un vero risuscitatoredi un processo vitale. Alla vita non si aderisce che conla vita. Ed è proprio la differenza dell'Erlebnis e dellapercezione sensibile che spiega il diverso avviamentodelle discipline storiche e di quelle naturalistiche, le unetendenti verso il racconto individualizzato e drammati-co, le altre verso le connessioni spersonalizzate e astrat-te tra i fenomeni. L'ideale della costruzione naturalisticaè l'intelligibilità (Begreiflichkeit), il cui principio èl'equivalenza di causa ed effetto, condizionato a sua vol-ta, nelle sue applicazioni, dall'assoluta comparabilitàdelle grandezze. L'ideale delle scienze dello spirito è in-vece l'intelligenza di tutte le individuazioni storico-uma-ne del divenire psichico239.

Il Dilthey non s'è reso mai ben chiaro alla mente sequesto Erlebnis storico avesse il significato di una verae propria intuizione artistica o di una immediata disposi-zione psicologica, nel senso che vi dà la psicologia de-scrittiva. A volte infatti egli parla di un momento artisti-co della storiografia, e richiede dallo storico appunto«quella capacità rappresentativa che è propria dell'arti-

238 Beiträge zum Studium der Individualität (1895-96), vol. V, p. 263.239 Op. cit., p. 264.

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tamente offerta238. Questo Erlebnis rappresenta l'ele-mento psicologico e, in un certo senso, artistico, dellastoriografia: uno storico che non sia dotato di ricca vitainteriore e quindi di capacità di rievocazione animata ed'interpretazione aderente, sarà un arido raccoglitore eun freddo ragionatore, ma non mai un vero risuscitatoredi un processo vitale. Alla vita non si aderisce che conla vita. Ed è proprio la differenza dell'Erlebnis e dellapercezione sensibile che spiega il diverso avviamentodelle discipline storiche e di quelle naturalistiche, le unetendenti verso il racconto individualizzato e drammati-co, le altre verso le connessioni spersonalizzate e astrat-te tra i fenomeni. L'ideale della costruzione naturalisticaè l'intelligibilità (Begreiflichkeit), il cui principio èl'equivalenza di causa ed effetto, condizionato a sua vol-ta, nelle sue applicazioni, dall'assoluta comparabilitàdelle grandezze. L'ideale delle scienze dello spirito è in-vece l'intelligenza di tutte le individuazioni storico-uma-ne del divenire psichico239.

Il Dilthey non s'è reso mai ben chiaro alla mente sequesto Erlebnis storico avesse il significato di una verae propria intuizione artistica o di una immediata disposi-zione psicologica, nel senso che vi dà la psicologia de-scrittiva. A volte infatti egli parla di un momento artisti-co della storiografia, e richiede dallo storico appunto«quella capacità rappresentativa che è propria dell'arti-

238 Beiträge zum Studium der Individualität (1895-96), vol. V, p. 263.239 Op. cit., p. 264.

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sta»240; a volte invece si dà ad approfondire lo studiodella psicologia descrittiva, per ricercarvi la ragione pri-maria del procedimento storico. Questo secondo puntodi vista è senza dubbio prevalente ed informa di sé il vo-luminoso scritto che ha per titolo Ideen über einebeschreibende und zergliedernde Psychologie (1894).Quivi il problema intorno a cui si affatica il Dilthey è dispiegare come mai la vita limitata dell'individuo psico-logico, che sembra esaurirsi in una zona molto ristrettadello spazio e del tempo, possa adeguarsi alla vastitàdell'esperienza storica, che risulta da un intreccio com-plicato d'individuazioni. Come mai può avvenire, senzaevidenti arbitri, quella trasposizione di Erlebnis in cuivien fatta consistere la funzione primaria dello storico?Il problema è risolto dal Dilthey col formulare il concet-to di una connessione strutturale(Strukturzusammenhang) esistente in ogni vita psicolo-gica ben formata. Che cosa è questa struttura? L'io ritro-va se stesso in un continuo mutamento di stati, che ven-gono conosciuti come unitari mediante la coscienzadell'unità personale; ma insieme si trova condizionatodal mondo esterno e reagente a sua volta su di esso. Inquanto l'unità della vita è condizionata dal mezzo in cuila vita si svolge, sorge di qui la distinzione dei vari statiinterni. Ogni stato interno si trova in me in un dato tem-po, e in un dato tempo sparirà. Esso ha un corso: unprincipio, un mezzo e un fine. Esso si connette da una

240 Ibid., p.265.

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sta»240; a volte invece si dà ad approfondire lo studiodella psicologia descrittiva, per ricercarvi la ragione pri-maria del procedimento storico. Questo secondo puntodi vista è senza dubbio prevalente ed informa di sé il vo-luminoso scritto che ha per titolo Ideen über einebeschreibende und zergliedernde Psychologie (1894).Quivi il problema intorno a cui si affatica il Dilthey è dispiegare come mai la vita limitata dell'individuo psico-logico, che sembra esaurirsi in una zona molto ristrettadello spazio e del tempo, possa adeguarsi alla vastitàdell'esperienza storica, che risulta da un intreccio com-plicato d'individuazioni. Come mai può avvenire, senzaevidenti arbitri, quella trasposizione di Erlebnis in cuivien fatta consistere la funzione primaria dello storico?Il problema è risolto dal Dilthey col formulare il concet-to di una connessione strutturale(Strukturzusammenhang) esistente in ogni vita psicolo-gica ben formata. Che cosa è questa struttura? L'io ritro-va se stesso in un continuo mutamento di stati, che ven-gono conosciuti come unitari mediante la coscienzadell'unità personale; ma insieme si trova condizionatodal mondo esterno e reagente a sua volta su di esso. Inquanto l'unità della vita è condizionata dal mezzo in cuila vita si svolge, sorge di qui la distinzione dei vari statiinterni. Ogni stato interno si trova in me in un dato tem-po, e in un dato tempo sparirà. Esso ha un corso: unprincipio, un mezzo e un fine. Esso si connette da una

240 Ibid., p.265.

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parte all'identità della persona, dall'altra alla varietà emolteplicità degli eventi esterni. E i passaggi da uno sta-to a un altro, l'azione che porta dall'uno all'altro, cadononell'esperienza interna: la connessione strutturale è qual-cosa che vien vissuta. Nessuna ricerca concettuale rendeintelligibile come un dato sensibile possa passare in unaltro; solo l'Erlebnis ce ne può dare l'immediata e per-suasiva esperienza. Appunto per ciò noi siamo in gradodi sentire la vita degli altri uomini, le passioni, i dolori,le aspirazioni dell'esistenza umana. Quest'animata con-nessione strutturale ha insieme un valore teleologico: c'èuna tendenza finalistica in essa, essendo le varie partiche la costituiscono congiunte tra loro in un sol tutto241.Così l'individuazione psichica prelude all'individuazionestorica, ed anzi sconfina in essa, perché alla formazionedell'individuo concorre tutto l'ambiente storico e, attra-verso questo, tutta la storia del passato. Ciò vuol dire inultima istanza che nella storiografia non si tratta di effet-tuare una vera e propria trasposizione dall'individuo psi-cologico all'individuo storico, ma si tratta di continuareil moto espansivo e connettivo che è insito al primo.

Le idee fin qui esposte sono state elaborate dal Dil-they tra il 1894 e il 1896. Esse riappaiono, meglio in-quadrate in uno studio più organico delle categorie delpensiero storico, negli ultimi scritti dell'operosa vec-chiezza del filosofo. Gli Studien zur Grundlegung der

241 Ideen über eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, V, pp. 176,180, 200, 207, 237.

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parte all'identità della persona, dall'altra alla varietà emolteplicità degli eventi esterni. E i passaggi da uno sta-to a un altro, l'azione che porta dall'uno all'altro, cadononell'esperienza interna: la connessione strutturale è qual-cosa che vien vissuta. Nessuna ricerca concettuale rendeintelligibile come un dato sensibile possa passare in unaltro; solo l'Erlebnis ce ne può dare l'immediata e per-suasiva esperienza. Appunto per ciò noi siamo in gradodi sentire la vita degli altri uomini, le passioni, i dolori,le aspirazioni dell'esistenza umana. Quest'animata con-nessione strutturale ha insieme un valore teleologico: c'èuna tendenza finalistica in essa, essendo le varie partiche la costituiscono congiunte tra loro in un sol tutto241.Così l'individuazione psichica prelude all'individuazionestorica, ed anzi sconfina in essa, perché alla formazionedell'individuo concorre tutto l'ambiente storico e, attra-verso questo, tutta la storia del passato. Ciò vuol dire inultima istanza che nella storiografia non si tratta di effet-tuare una vera e propria trasposizione dall'individuo psi-cologico all'individuo storico, ma si tratta di continuareil moto espansivo e connettivo che è insito al primo.

Le idee fin qui esposte sono state elaborate dal Dil-they tra il 1894 e il 1896. Esse riappaiono, meglio in-quadrate in uno studio più organico delle categorie delpensiero storico, negli ultimi scritti dell'operosa vec-chiezza del filosofo. Gli Studien zur Grundlegung der

241 Ideen über eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, V, pp. 176,180, 200, 207, 237.

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Geisteswissenschaften, raccolti dal Groethuysen nel 7°volume delle opere, e composti tra il 1907 e il 1910, co-stituiscono senza dubbio l'espressione più matura delpensiero diltheyano. Se negli scritti precedenti l'interes-se maggiore del filosofo si accentrava sul primo mo-mento della sintesi storica, cioè sull'Erleben, in questiultimi invece esso si sposta sul secondo, cioè sulVerstehen. Non basta rivivere la vita; bisogna interpre-tarla, intenderla. E questo lavoro si compie mediante lecategorie, che formano le articolazioni logiche del pen-siero storico. Tra il vivere e l'intendere corre lo stessorapporto che Kant aveva posto tra l'intuizione spazio-temporale e il concetto. Vita ed esperienza della vita dauna parte, scienza concettuale dall'altra, stanno così inun'intima connessione e in un reciproco scambio. Non ilprocedimento concettuale forma il fondamento dellascienza dello spirito, ma il rendersi intimo uno stato psi-chico nella sua totalità e il ritrovarsi in esso nel riviver-lo. La vita abbraccia qui la vita, e la forza con cui le esi-genze elementari della scienza dello spirito vengonoadempiute è la condizione preliminare per la perfezionedi ciascuna parte di essa242. L'intendere dunque muovedalla vita e tende ad approfondirla e a connetterne lemolteplici manifestazioni. Ogni connessione parziale hain sé il proprio centro, in quanto pone e realizza un pro-prio valore, ma tutte sono strutturalmente connesse inuna totalità, in cui dall'importanza delle singole parti

242 Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften, vol. VII, p. 136.

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Geisteswissenschaften, raccolti dal Groethuysen nel 7°volume delle opere, e composti tra il 1907 e il 1910, co-stituiscono senza dubbio l'espressione più matura delpensiero diltheyano. Se negli scritti precedenti l'interes-se maggiore del filosofo si accentrava sul primo mo-mento della sintesi storica, cioè sull'Erleben, in questiultimi invece esso si sposta sul secondo, cioè sulVerstehen. Non basta rivivere la vita; bisogna interpre-tarla, intenderla. E questo lavoro si compie mediante lecategorie, che formano le articolazioni logiche del pen-siero storico. Tra il vivere e l'intendere corre lo stessorapporto che Kant aveva posto tra l'intuizione spazio-temporale e il concetto. Vita ed esperienza della vita dauna parte, scienza concettuale dall'altra, stanno così inun'intima connessione e in un reciproco scambio. Non ilprocedimento concettuale forma il fondamento dellascienza dello spirito, ma il rendersi intimo uno stato psi-chico nella sua totalità e il ritrovarsi in esso nel riviver-lo. La vita abbraccia qui la vita, e la forza con cui le esi-genze elementari della scienza dello spirito vengonoadempiute è la condizione preliminare per la perfezionedi ciascuna parte di essa242. L'intendere dunque muovedalla vita e tende ad approfondirla e a connetterne lemolteplici manifestazioni. Ogni connessione parziale hain sé il proprio centro, in quanto pone e realizza un pro-prio valore, ma tutte sono strutturalmente connesse inuna totalità, in cui dall'importanza delle singole parti

242 Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften, vol. VII, p. 136.

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emerge il senso della connessione dell'intero mondo sto-rico-umano. L'intendere dello storico vien portato a per-fezione mercé il mutuo riferimento di tutte le parti con-correnti della scienza dello spirito. Anche la determina-zione di una singola personalità storica non può esserfatta che per mezzo di rapporti attinti a tutti gli elementidel mondo storico. Così la comprensione dell'individua-lità esige pel suo compimento il sapere sistematico, equesto a sua volta è dipendente dalla capacità di unaviva adesione alla singola unità vitale. Il progresso dellescienze storiche è pertanto legato al progressodell'Erlebnis in nuove profondità e all'estensionedell'intendimento in un campo sempre più vasto243.

In questa attività dell'intendere ci si manifesta ciò cheil Dilthey chiama l'oggettivazione della vita, per cui al-cuni momenti dell'esperienza interiore si traducono infatti oggettivi, in distinzioni storiche, in una molteplicitàdi organici ordinamenti. «Con l'idea dell'oggettività noiguadagnamo244 uno sguardo interno nell'essenza di ciòch'è storico... L'estensione dei fenomeni che cadono sot-to la scienza dello spirito è determinata dall'oggettiva-zione della vita nel mondo esterno. Solo ciò che lo spiri-to ha creato, esso è in grado d'intendere»245. Siffatto con-cetto dell'oggettivazione, che è fondato sull'opera effet-tiva dello spirito, che cioè si dà nella storiografia in

243 Op. cit., pp. 142-43.244 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: così nell'edizione di riferimen-

to.245 Ibid, pp. 147-48.

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emerge il senso della connessione dell'intero mondo sto-rico-umano. L'intendere dello storico vien portato a per-fezione mercé il mutuo riferimento di tutte le parti con-correnti della scienza dello spirito. Anche la determina-zione di una singola personalità storica non può esserfatta che per mezzo di rapporti attinti a tutti gli elementidel mondo storico. Così la comprensione dell'individua-lità esige pel suo compimento il sapere sistematico, equesto a sua volta è dipendente dalla capacità di unaviva adesione alla singola unità vitale. Il progresso dellescienze storiche è pertanto legato al progressodell'Erlebnis in nuove profondità e all'estensionedell'intendimento in un campo sempre più vasto243.

In questa attività dell'intendere ci si manifesta ciò cheil Dilthey chiama l'oggettivazione della vita, per cui al-cuni momenti dell'esperienza interiore si traducono infatti oggettivi, in distinzioni storiche, in una molteplicitàdi organici ordinamenti. «Con l'idea dell'oggettività noiguadagnamo244 uno sguardo interno nell'essenza di ciòch'è storico... L'estensione dei fenomeni che cadono sot-to la scienza dello spirito è determinata dall'oggettiva-zione della vita nel mondo esterno. Solo ciò che lo spiri-to ha creato, esso è in grado d'intendere»245. Siffatto con-cetto dell'oggettivazione, che è fondato sull'opera effet-tiva dello spirito, che cioè si dà nella storiografia in

243 Op. cit., pp. 142-43.244 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: così nell'edizione di riferimen-

to.245 Ibid, pp. 147-48.

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quanto si attua nell'attività stessa della vita che si este-riorizza, differisce dal concetto hegeliano dell'oggettiva-zione dell'idea, che corrisponde a uno schema prestabili-to e trascendente. Inoltre, mentre movendo dall'Erlebnisnoi ci facciamo della vita e dei suoi rapporti un proble-ma, per Hegel questo problema non esiste, ma è risoltoprima che posto.

L'ultimo scritto diltheyano, che ha il titolo diEntwürfe zur Kritik der historischen Vernunft, si sforzadi spingere più innanzi la ricerca, col tracciare il sistemadelle categorie del pensiero storico. Le categorie delmondo spirituale s'iniziano dall'Erleben. Quivi già sussi-stono implicitamente i predicati universali delle connes-sioni tra i vari momenti di vita, nella sfera di un partico-lare individuo; l'opera dell'intendimento libera quei pre-dicati dalla loro limitata validità psicologica e li applicaa tutti i soggetti dei giudizi storici e a tutte le oggettiva-zioni della vita. Così essi acquistano valore e dignità dicategorie del mondo spirituale. Ora nella vita è contenu-ta, come prima determinazione categorica, e fondamen-to di tutte le altre, la temporalità. «Quivi il tempo vienesperimentato come incessante inoltrarsi del presente, incui la presenzialità continuamente si converte in passatoe il futuro in presente. Presente è il riempirsi di realtà diun momento di tempo, è l'Erlebnis in opposizione col ri-cordo del passato e con la rappresentazione del futuro.Questo riempirsi di realtà resta immutevole, mentre ciòche costituisce il contenuto dell'Erlebnis muta continua-

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quanto si attua nell'attività stessa della vita che si este-riorizza, differisce dal concetto hegeliano dell'oggettiva-zione dell'idea, che corrisponde a uno schema prestabili-to e trascendente. Inoltre, mentre movendo dall'Erlebnisnoi ci facciamo della vita e dei suoi rapporti un proble-ma, per Hegel questo problema non esiste, ma è risoltoprima che posto.

L'ultimo scritto diltheyano, che ha il titolo diEntwürfe zur Kritik der historischen Vernunft, si sforzadi spingere più innanzi la ricerca, col tracciare il sistemadelle categorie del pensiero storico. Le categorie delmondo spirituale s'iniziano dall'Erleben. Quivi già sussi-stono implicitamente i predicati universali delle connes-sioni tra i vari momenti di vita, nella sfera di un partico-lare individuo; l'opera dell'intendimento libera quei pre-dicati dalla loro limitata validità psicologica e li applicaa tutti i soggetti dei giudizi storici e a tutte le oggettiva-zioni della vita. Così essi acquistano valore e dignità dicategorie del mondo spirituale. Ora nella vita è contenu-ta, come prima determinazione categorica, e fondamen-to di tutte le altre, la temporalità. «Quivi il tempo vienesperimentato come incessante inoltrarsi del presente, incui la presenzialità continuamente si converte in passatoe il futuro in presente. Presente è il riempirsi di realtà diun momento di tempo, è l'Erlebnis in opposizione col ri-cordo del passato e con la rappresentazione del futuro.Questo riempirsi di realtà resta immutevole, mentre ciòche costituisce il contenuto dell'Erlebnis muta continua-

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mente. E le stesse rappresentazioni in cui possediamo ilpassato e il futuro sono reali solo per colui che vive nelpresente. Il presente è sempre là (ist immer da), e nienteè là, se non ciò che in esso passa. La nave della nostravita vien portata da una corrente che progredisce inces-santemente, e il presente è sempre e dovunque noi sia-mo su quelle onde»246. Qui è adombrato il concetto cro-ciano della contemporaneità della storia.

Mentre la presenzialità temporale dell'Erlebnis dàluogo, nella sfera dell'intelletto, alla categoria di realtà,la successione temporale si traduce nella categoria dicausalità. Il Wirkungszusammenhang247 del mondo sto-rico si distingue dalla connessione causale della natura,perché non implica un ordine irriversibile determinatoda leggi, ma consta di rapporti reciproci di azione e rea-zione. Inoltre esso, conforme alla struttura della vitadell'anima, crea valori e realizza fini. I portatori di que-sti valori nel mondo storico sono individui, comunità,sistemi di cultura, in cui i singoli operano insieme sotto-ponendosi a leggi comuni e proponendosi delle mete darealizzare. Si formano così delle personalità di nuovoordine, le così dette persone morali, che assumono unaconsistenza propria e una propria finalità, che giungeperfino ad eclissare i vari fini che le avevan posto in es-sere: come avviene, per esempio, nella formazione dello

246 Ibid., pp. 191-93.247 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: “Wirkenzusammenhang” nel te-

sto di riferimento, ma si tratta di un refuso.

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mente. E le stesse rappresentazioni in cui possediamo ilpassato e il futuro sono reali solo per colui che vive nelpresente. Il presente è sempre là (ist immer da), e nienteè là, se non ciò che in esso passa. La nave della nostravita vien portata da una corrente che progredisce inces-santemente, e il presente è sempre e dovunque noi sia-mo su quelle onde»246. Qui è adombrato il concetto cro-ciano della contemporaneità della storia.

Mentre la presenzialità temporale dell'Erlebnis dàluogo, nella sfera dell'intelletto, alla categoria di realtà,la successione temporale si traduce nella categoria dicausalità. Il Wirkungszusammenhang247 del mondo sto-rico si distingue dalla connessione causale della natura,perché non implica un ordine irriversibile determinatoda leggi, ma consta di rapporti reciproci di azione e rea-zione. Inoltre esso, conforme alla struttura della vitadell'anima, crea valori e realizza fini. I portatori di que-sti valori nel mondo storico sono individui, comunità,sistemi di cultura, in cui i singoli operano insieme sotto-ponendosi a leggi comuni e proponendosi delle mete darealizzare. Si formano così delle personalità di nuovoordine, le così dette persone morali, che assumono unaconsistenza propria e una propria finalità, che giungeperfino ad eclissare i vari fini che le avevan posto in es-sere: come avviene, per esempio, nella formazione dello

246 Ibid., pp. 191-93.247 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: “Wirkenzusammenhang” nel te-

sto di riferimento, ma si tratta di un refuso.

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Stato248.Un'altra categoria è quella d'importanza (Bedeutung),

che concerne il rapporto delle parti della vita rispetto altutto. Ogni individuo appartenente a una età e a un am-biente storico acquista il suo significato dall'insieme delmondo storico di cui fa parte. L'agire degli uomini, an-che dei grandi uomini, «non sconfina nella lontananzastorica, ma crea i suoi fini dai valori e dalle connessionisignificanti del tempo. L'energia produttiva di una na-zione in un periodo determinato riceve la sua massimaforza da ciò:249 che gli uomini che la compongono sonolimitati dall'orizzonte di essa; il loro lavoro serve allarealizzazione di ciò che costituisce l'indirizzo fonda-mentale del tempo. Così essi ne diventano i rappresen-tanti»250.

Ma insieme, ogni età contiene un riferimento a quellache la precede e una preparazione di quella che la segue.E questo è il senso della categoria dello sviluppo, chenon significa che alla vita di un individuo o di un popo-lo possa applicarsi il concetto di un fine che si attua, maesprime una proprietà essenziale e immanente alla vita:quella di essere in continua formazione. E la categoriad'importanza o di significato (Bedeutung) acquista a suavolta maggior rilievo in connessione con l'idea di svi-luppo, perché l'importanza di un momento del passato ci248 Ibid., p. 153.249 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: i due punti non sono presenti

nell'edizione di riferimento, ma, senza, la frase riesce incomprensibile. 250 Ibid., p. 186.

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Stato248.Un'altra categoria è quella d'importanza (Bedeutung),

che concerne il rapporto delle parti della vita rispetto altutto. Ogni individuo appartenente a una età e a un am-biente storico acquista il suo significato dall'insieme delmondo storico di cui fa parte. L'agire degli uomini, an-che dei grandi uomini, «non sconfina nella lontananzastorica, ma crea i suoi fini dai valori e dalle connessionisignificanti del tempo. L'energia produttiva di una na-zione in un periodo determinato riceve la sua massimaforza da ciò:249 che gli uomini che la compongono sonolimitati dall'orizzonte di essa; il loro lavoro serve allarealizzazione di ciò che costituisce l'indirizzo fonda-mentale del tempo. Così essi ne diventano i rappresen-tanti»250.

Ma insieme, ogni età contiene un riferimento a quellache la precede e una preparazione di quella che la segue.E questo è il senso della categoria dello sviluppo, chenon significa che alla vita di un individuo o di un popo-lo possa applicarsi il concetto di un fine che si attua, maesprime una proprietà essenziale e immanente alla vita:quella di essere in continua formazione. E la categoriad'importanza o di significato (Bedeutung) acquista a suavolta maggior rilievo in connessione con l'idea di svi-luppo, perché l'importanza di un momento del passato ci248 Ibid., p. 153.249 [nota per l’edizione elettronica Manuzio]: i due punti non sono presenti

nell'edizione di riferimento, ma, senza, la frase riesce incomprensibile. 250 Ibid., p. 186.

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è data dalla misura in cui esso realizza un legame coltempo seguente251.

Realtà, causalità (nel senso di azione reciproca), im-portanza e sviluppo sono le principali categorie storicheche il Dilthey ha enumerate e illustrate nei suoi saggi.La lista è evidentemente incompiuta; e la lettura degliEntwürfe zur Kritik der historischen Vernunft lasciacontinuamente trasparire l'insoddisfazione del suo auto-re per i risultati raggiunti. In realtà, l'abbozzo è moltopiù informe di quel che appaia dalla nostra esposizione,la quale chiarisce e semplifica ciò che nella mente delDilthey era ancora aggrovigliato ed oscuro. Non bisognadimenticare che l'opera ci è pervenuta allo stato embrio-nale di appunti, tirati giù a misura che l'estro gli venivadettando. E come suole accadere, nella redazione degliappunti lo schema iniziale veniva continuamente modi-ficato e deformato dal sorgere di nuovi dubbi e proble-mi, suscitati dallo sforzo stesso di fermare il propriopensiero. Ma è anche qui la ragione del loro valore sug-gestivo, perché il Dilthey veniva in essi condensando lesue concrete esperienze storiografiche. Così l'importan-za delle notazioni particolari soverchia quella della si-stemazione totale.

Forse a voler guardare fino in fondo, si può trovareche il limite del filosofo non è diverso da quello dellostorico. Non è un mero caso che anche le opere storichedel Dilthey ci siano giunte nello stesso stadio d'incom-251 Ibid., p. 233.

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è data dalla misura in cui esso realizza un legame coltempo seguente251.

Realtà, causalità (nel senso di azione reciproca), im-portanza e sviluppo sono le principali categorie storicheche il Dilthey ha enumerate e illustrate nei suoi saggi.La lista è evidentemente incompiuta; e la lettura degliEntwürfe zur Kritik der historischen Vernunft lasciacontinuamente trasparire l'insoddisfazione del suo auto-re per i risultati raggiunti. In realtà, l'abbozzo è moltopiù informe di quel che appaia dalla nostra esposizione,la quale chiarisce e semplifica ciò che nella mente delDilthey era ancora aggrovigliato ed oscuro. Non bisognadimenticare che l'opera ci è pervenuta allo stato embrio-nale di appunti, tirati giù a misura che l'estro gli venivadettando. E come suole accadere, nella redazione degliappunti lo schema iniziale veniva continuamente modi-ficato e deformato dal sorgere di nuovi dubbi e proble-mi, suscitati dallo sforzo stesso di fermare il propriopensiero. Ma è anche qui la ragione del loro valore sug-gestivo, perché il Dilthey veniva in essi condensando lesue concrete esperienze storiografiche. Così l'importan-za delle notazioni particolari soverchia quella della si-stemazione totale.

Forse a voler guardare fino in fondo, si può trovareche il limite del filosofo non è diverso da quello dellostorico. Non è un mero caso che anche le opere storichedel Dilthey ci siano giunte nello stesso stadio d'incom-251 Ibid., p. 233.

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piutezza e di scarsa organicità, ma piene di vita e ricchedi rilievo nelle singole parti. Il Dilthey aveva piuttostol'ambizione e l'ansia della grande sintesi storica che lacapacità di realizzarla. E questa insufficienza tradiva, infondo, un errore della sua dottrina storiografica. Egliaveva esordito, nella sua Introduzione del 1883, con unadistinzione delle scienze storiche dalle scienze naturali,fondata, non sul contenuto rispettivo, ma sul punto divista e sul procedimento dei due ordini di discipline.Successivamente, poi, egli aveva modificato il concettodella scienza storica con quello di una più comprensivascienza dello spirito, includente in sé la psicologia,l'economia, il diritto, la sociologia: cose tutte che, se-condo il loro procedimento mentale, avrebbero dovutofare parte delle scienze della natura. Questa distinzionedi contenuto, sovrapponendosi alla primitiva distinzioneformale, senza però del tutto cancellarla, doveva neces-sariamente deformare la schietta linea della scienza sto-rica, intrudendo in essa elementi estranei, naturalistici emeccanicizzati, pertanto incapaci di armonizzarsi congli altri. Quindi la sua sintesi storica, tanto nella formu-lazione speculativa, quanto nella pratica attuazione sto-riografica, risente di un certo ibridismo positivistico, re-taggio dell'età e dell'ambiente in cui il suo pensiero si èformato252.252 L'ottavo volume delle opere del Dilthey: Weltanschauungslehre.

Abhandlungen zur Philosophie der Philosophie è stato pubblicato nel1931. Esso non aggiunge nulla di sostanzialmente nuovo al contenuto deivolumi precedenti. Il titolo dato dall'editore B. Groethuysen al libro, «Filo-sofia della filosofia», promette in verità più di quanto effettivamente esso

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piutezza e di scarsa organicità, ma piene di vita e ricchedi rilievo nelle singole parti. Il Dilthey aveva piuttostol'ambizione e l'ansia della grande sintesi storica che lacapacità di realizzarla. E questa insufficienza tradiva, infondo, un errore della sua dottrina storiografica. Egliaveva esordito, nella sua Introduzione del 1883, con unadistinzione delle scienze storiche dalle scienze naturali,fondata, non sul contenuto rispettivo, ma sul punto divista e sul procedimento dei due ordini di discipline.Successivamente, poi, egli aveva modificato il concettodella scienza storica con quello di una più comprensivascienza dello spirito, includente in sé la psicologia,l'economia, il diritto, la sociologia: cose tutte che, se-condo il loro procedimento mentale, avrebbero dovutofare parte delle scienze della natura. Questa distinzionedi contenuto, sovrapponendosi alla primitiva distinzioneformale, senza però del tutto cancellarla, doveva neces-sariamente deformare la schietta linea della scienza sto-rica, intrudendo in essa elementi estranei, naturalistici emeccanicizzati, pertanto incapaci di armonizzarsi congli altri. Quindi la sua sintesi storica, tanto nella formu-lazione speculativa, quanto nella pratica attuazione sto-riografica, risente di un certo ibridismo positivistico, re-taggio dell'età e dell'ambiente in cui il suo pensiero si èformato252.252 L'ottavo volume delle opere del Dilthey: Weltanschauungslehre.

Abhandlungen zur Philosophie der Philosophie è stato pubblicato nel1931. Esso non aggiunge nulla di sostanzialmente nuovo al contenuto deivolumi precedenti. Il titolo dato dall'editore B. Groethuysen al libro, «Filo-sofia della filosofia», promette in verità più di quanto effettivamente esso

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non dia. Sotto quel nome, infatti, invece di una Kategorienlehre della filo-sofia, ci viene offerta una Typenlehre, o meglio, una Typenbeschreibungdei sistemi filosofici, intesa come una molteplicità di forme mentali, pro-cedente da una pluralità di atteggiamenti fondamentali della vita o della«struttura» dell'anima umana.

Di notevole non c'è in questo volume che una esasperata insistenza sulconcetto di «struttura», che forma la chiave di volta del sistema diltheyano.«La condizione più generale – leggiamo a p. 184 – sotto la quale sta ogniconoscenza, ogni determinazione di valori, ogni azione teleologica, insom-ma ogni connessione creata dalla coscienza, è nel nesso intimo che ci si dànella coscienza stessa e che costituisce la struttura della vita dell'anima.Tutto ciò che noi sappiamo in tema di connessioni è astratto da essa. Infattile impressioni sensibili non ci rivelano i nessi degli oggetti tra loro. Le ope-razioni elementari del pensiero a loro volta ci danno l'eguaglianza, la distin-zione, la contiguità, la successione, ma nessuna connessione vera e propria.Quando il giudizio esprime la convenienza di un predicato al soggetto, e ilpredicato è diverso dal soggetto, è formulata qui una connessione che vientratta dalla struttura della vita dell'anima. Anzi l'intelletto umano, in rappor-to col suo più alto compito, che sta nello scoprire le connessioni della real-tà, è legato alle connessioni contenute nell'unità vivente dell'anima. Al di làdella vita, la conoscenza non può andare, cioè essa non può istituire nessunnesso che non sia già dato nella propria vitalità.» Se consideriamo che quiil Dilthey si riferiva in modo particolare alla conoscenza storica, di cui ave-va più diretta esperienza, possiamo facilmente concludere che l'interpreta-zione psicologica è la chiave del suo storicismo. Questo criterio, spinto allesue estreme conseguenze, porta da un lato allo Spengler, da un altro latoalle biografie romanzate dei nostri giorni. Certo il Dilthey era ben altratempra di storico, ma l'insistenza, specialmente nei suoi ultimi scritti, sultema della «vita immediata» a spese della riflessione logica, costituisce unavviamento per quella china pericolosa.

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non dia. Sotto quel nome, infatti, invece di una Kategorienlehre della filo-sofia, ci viene offerta una Typenlehre, o meglio, una Typenbeschreibungdei sistemi filosofici, intesa come una molteplicità di forme mentali, pro-cedente da una pluralità di atteggiamenti fondamentali della vita o della«struttura» dell'anima umana.

Di notevole non c'è in questo volume che una esasperata insistenza sulconcetto di «struttura», che forma la chiave di volta del sistema diltheyano.«La condizione più generale – leggiamo a p. 184 – sotto la quale sta ogniconoscenza, ogni determinazione di valori, ogni azione teleologica, insom-ma ogni connessione creata dalla coscienza, è nel nesso intimo che ci si dànella coscienza stessa e che costituisce la struttura della vita dell'anima.Tutto ciò che noi sappiamo in tema di connessioni è astratto da essa. Infattile impressioni sensibili non ci rivelano i nessi degli oggetti tra loro. Le ope-razioni elementari del pensiero a loro volta ci danno l'eguaglianza, la distin-zione, la contiguità, la successione, ma nessuna connessione vera e propria.Quando il giudizio esprime la convenienza di un predicato al soggetto, e ilpredicato è diverso dal soggetto, è formulata qui una connessione che vientratta dalla struttura della vita dell'anima. Anzi l'intelletto umano, in rappor-to col suo più alto compito, che sta nello scoprire le connessioni della real-tà, è legato alle connessioni contenute nell'unità vivente dell'anima. Al di làdella vita, la conoscenza non può andare, cioè essa non può istituire nessunnesso che non sia già dato nella propria vitalità.» Se consideriamo che quiil Dilthey si riferiva in modo particolare alla conoscenza storica, di cui ave-va più diretta esperienza, possiamo facilmente concludere che l'interpreta-zione psicologica è la chiave del suo storicismo. Questo criterio, spinto allesue estreme conseguenze, porta da un lato allo Spengler, da un altro latoalle biografie romanzate dei nostri giorni. Certo il Dilthey era ben altratempra di storico, ma l'insistenza, specialmente nei suoi ultimi scritti, sultema della «vita immediata» a spese della riflessione logica, costituisce unavviamento per quella china pericolosa.

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XIV

STORICISMO E PSEUDO-STORICISMO

NELLA FILOSOFIA TEDESCA CONTEMPORANEA

Il paese dove la discussione dei problemi della meto-dologia storica e della filosofia della storia interessa unpiù largo circolo di studiosi è ancora la Germania. Lagrande tradizione storiografica tedesca del secolo XIX ètuttora viva e operante ed offre alla riflessione critica unimponente materiale di lavoro, che altrove invece, comeper esempio in Italia, lo studioso è costretto a rifar da sé,con sforzi personali, non sorretto dalla collaborazione edalla comprensione del proprio ambiente di cultura.Questa differenza ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi.Nel caso dell'Italia, è singolare l'ottusità degli storici diprofessione ai problemi filosofici e metodologici dellastoria, che ha la sua radice nella mancanza di una tradi-zione culturale. I migliori hanno creduto già assolto illoro còmpito col fatto del prendere a imitare i modelli e

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STORICISMO E PSEUDO-STORICISMO

NELLA FILOSOFIA TEDESCA CONTEMPORANEA

Il paese dove la discussione dei problemi della meto-dologia storica e della filosofia della storia interessa unpiù largo circolo di studiosi è ancora la Germania. Lagrande tradizione storiografica tedesca del secolo XIX ètuttora viva e operante ed offre alla riflessione critica unimponente materiale di lavoro, che altrove invece, comeper esempio in Italia, lo studioso è costretto a rifar da sé,con sforzi personali, non sorretto dalla collaborazione edalla comprensione del proprio ambiente di cultura.Questa differenza ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi.Nel caso dell'Italia, è singolare l'ottusità degli storici diprofessione ai problemi filosofici e metodologici dellastoria, che ha la sua radice nella mancanza di una tradi-zione culturale. I migliori hanno creduto già assolto illoro còmpito col fatto del prendere a imitare i modelli e

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i procedimenti della storiografia tedesca, senza riflettereche questi erano il frutto di un profondo movimento dipensiero, e che, accettando le conseguenze senza le pre-messe, essi non sarebbero stati più in grado di modifi-carle e di adattarle a situazioni spirituali nuove. Altri, ipiù, hanno ostentato e ostentano un certo disprezzo ver-so ogni sorta di indagine preliminare, e, con foga di em-pirici zelanti, si son dati a dissodare il loro campo, senzariflettere a loro volta che, se pure i fatti storici fosseroammassati nel passato come il carbone in una miniera,uno scavo fatto alla cieca non potrebbe dar frutti compa-rabili a quello che fosse guidato dalla scienza e dalla pe-rizia di un ingegnere. Per compenso, la mancanza stessadi una tradizione ha eccitato qualche spirito più profon-do a costruirsi e ad apparecchiarsi da sé gli strumenti eil materiale del proprio lavoro; e, come tutto ciò ch'èprodotto in una elaborazione personale, ha dato a quellavoro un tratto più vigoroso e incisivo. Il caso, per cita-re il maggiore, della storiografia e della metodologiastorica del Croce, si accorda dialetticamente, cioè perragione di contrasti, con l'ottusità filosofica della storio-grafia italiana.

Invece la Germania d'oggi non ha, in quest'ordine diproblemi, nulla di paragonabile all'opera del Croce; maneppur nulla che si avvicini alla verginità intellettualedei nostri storici. Ivi la tradizione ha formato e custoditoun comune patrimonio di quistioni e un minimo comundenominatore di giudizi, che rendono possibile a un cer-

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i procedimenti della storiografia tedesca, senza riflettereche questi erano il frutto di un profondo movimento dipensiero, e che, accettando le conseguenze senza le pre-messe, essi non sarebbero stati più in grado di modifi-carle e di adattarle a situazioni spirituali nuove. Altri, ipiù, hanno ostentato e ostentano un certo disprezzo ver-so ogni sorta di indagine preliminare, e, con foga di em-pirici zelanti, si son dati a dissodare il loro campo, senzariflettere a loro volta che, se pure i fatti storici fosseroammassati nel passato come il carbone in una miniera,uno scavo fatto alla cieca non potrebbe dar frutti compa-rabili a quello che fosse guidato dalla scienza e dalla pe-rizia di un ingegnere. Per compenso, la mancanza stessadi una tradizione ha eccitato qualche spirito più profon-do a costruirsi e ad apparecchiarsi da sé gli strumenti eil materiale del proprio lavoro; e, come tutto ciò ch'èprodotto in una elaborazione personale, ha dato a quellavoro un tratto più vigoroso e incisivo. Il caso, per cita-re il maggiore, della storiografia e della metodologiastorica del Croce, si accorda dialetticamente, cioè perragione di contrasti, con l'ottusità filosofica della storio-grafia italiana.

Invece la Germania d'oggi non ha, in quest'ordine diproblemi, nulla di paragonabile all'opera del Croce; maneppur nulla che si avvicini alla verginità intellettualedei nostri storici. Ivi la tradizione ha formato e custoditoun comune patrimonio di quistioni e un minimo comundenominatore di giudizi, che rendono possibile a un cer-

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to numero di filosofi e di storici di parlarsi e d'intendersitra loro; cosa che tra noi sarebbe follia sperare. D'altraparte però, come suole accadere particolarmente in tem-po di attenuata vigoria speculativa, quella stessa tradi-zione, non rinnovata continuamente dall'interno, ha ope-rato piuttosto in estensione che in intensità, smussandotutte le asprezze che son proprie dei problemi nuovi eche offrono buona presa al nuovo lavoro mentale. Il fat-to che le questioni da trattare erano già predisposte, or-dinate e classificate, portava con sé il rischio di un irri-gidimento scolastico e formulistico o di una svaporazio-ne dilettantesca e frivola. Sono le due alternative im-mancabili a cui va incontro un pensiero che lavora insenso puramente estensivo, che cioè non ricrea da sé isuoi problemi, ma li riceve in una formulazione già datae, non potendo investirli dal centro, opera alla loro peri-feria, e ne ispessisce con nuovi sedimenti la superficie,o v'incide bizzarri arabeschi.

Queste due opposte tendenze sono principalmenteesemplate in due libri della letteratura storico-filosoficatedesca degli ultimi anni: Der Historismus und seineProbleme del Troeltsch e Der Untergang desAbendlandes dello Spengler. L'uno e l'altro sono, ciascu-no a suo modo, documenti del largo interesse tuttoravivo, nella cultura tedesca, pei problemi filosofici dellastoriografia. Quello del Troeltsch è un libro un po' opa-co, massiccio, scolastico, ma coscienzioso e onesto. Unlettore ignaro delle quistioni che vi son trattate l'allonta-

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to numero di filosofi e di storici di parlarsi e d'intendersitra loro; cosa che tra noi sarebbe follia sperare. D'altraparte però, come suole accadere particolarmente in tem-po di attenuata vigoria speculativa, quella stessa tradi-zione, non rinnovata continuamente dall'interno, ha ope-rato piuttosto in estensione che in intensità, smussandotutte le asprezze che son proprie dei problemi nuovi eche offrono buona presa al nuovo lavoro mentale. Il fat-to che le questioni da trattare erano già predisposte, or-dinate e classificate, portava con sé il rischio di un irri-gidimento scolastico e formulistico o di una svaporazio-ne dilettantesca e frivola. Sono le due alternative im-mancabili a cui va incontro un pensiero che lavora insenso puramente estensivo, che cioè non ricrea da sé isuoi problemi, ma li riceve in una formulazione già datae, non potendo investirli dal centro, opera alla loro peri-feria, e ne ispessisce con nuovi sedimenti la superficie,o v'incide bizzarri arabeschi.

Queste due opposte tendenze sono principalmenteesemplate in due libri della letteratura storico-filosoficatedesca degli ultimi anni: Der Historismus und seineProbleme del Troeltsch e Der Untergang desAbendlandes dello Spengler. L'uno e l'altro sono, ciascu-no a suo modo, documenti del largo interesse tuttoravivo, nella cultura tedesca, pei problemi filosofici dellastoriografia. Quello del Troeltsch è un libro un po' opa-co, massiccio, scolastico, ma coscienzioso e onesto. Unlettore ignaro delle quistioni che vi son trattate l'allonta-

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na da sé con impazienza, perché non vi trovaquell'accento individuale che può eccitare un motod'interesse; ma un lettore esperto l'apprezza per questasua scarsa personalità, come un repertorio scolastico diproblemi, come un esponente di un certo tipo dottrinale.Esso si aggira nella stessa cerchia dei problemi trattatidai Dilthey, dai Windelband, dai Rickert, dai Weber, da-gli Scheler, dagli Spranger, dai Maier; eppure non è undoppione inutile dei suoi predecessori; un motivo criti-co, un mutamento di prospettiva, l'accentuazione di unelemento invece di un altro, bastano a illuminare diver-samente il quadro e a dar esca al pensiero di un vigilelettore. Il libro dello Spengler invece si presenta a primavista come un libro originale, di quella originalità dellaquale oggi tutti parlano, e che non consiste in una forzasorgiva e creativa (quindi ingenua e ignara della sua no-vità), ma nella voluta e consapevole inversione di unmeccanismo già noto. In realtà, i problemi dello Spen-gler sono gli stessi problemi della storiografia tradizio-nale, manipolati in diverso modo con una certa abilitàcombinatoria, sì che sembrano nuovi e paradossali. È infondo la stessa materia tradizionale, che nel caso prece-dente s'irrigidiva e solidificava, mentre nel presente sivolatilizza in mille apparenze effimere e sconcertanti.Spengler è anche lui l'esemplare di un tipo: dal Cham-berlain, al peggior Simmel, al Keyserling, al Friedell, airomanzatori della storia, lo schema è identico, e non va-riano se non gli espedienti e l'ingegnosità. Si tratta sem-pre di qualche vecchio tema scientifico distaccato dal

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na da sé con impazienza, perché non vi trovaquell'accento individuale che può eccitare un motod'interesse; ma un lettore esperto l'apprezza per questasua scarsa personalità, come un repertorio scolastico diproblemi, come un esponente di un certo tipo dottrinale.Esso si aggira nella stessa cerchia dei problemi trattatidai Dilthey, dai Windelband, dai Rickert, dai Weber, da-gli Scheler, dagli Spranger, dai Maier; eppure non è undoppione inutile dei suoi predecessori; un motivo criti-co, un mutamento di prospettiva, l'accentuazione di unelemento invece di un altro, bastano a illuminare diver-samente il quadro e a dar esca al pensiero di un vigilelettore. Il libro dello Spengler invece si presenta a primavista come un libro originale, di quella originalità dellaquale oggi tutti parlano, e che non consiste in una forzasorgiva e creativa (quindi ingenua e ignara della sua no-vità), ma nella voluta e consapevole inversione di unmeccanismo già noto. In realtà, i problemi dello Spen-gler sono gli stessi problemi della storiografia tradizio-nale, manipolati in diverso modo con una certa abilitàcombinatoria, sì che sembrano nuovi e paradossali. È infondo la stessa materia tradizionale, che nel caso prece-dente s'irrigidiva e solidificava, mentre nel presente sivolatilizza in mille apparenze effimere e sconcertanti.Spengler è anche lui l'esemplare di un tipo: dal Cham-berlain, al peggior Simmel, al Keyserling, al Friedell, airomanzatori della storia, lo schema è identico, e non va-riano se non gli espedienti e l'ingegnosità. Si tratta sem-pre di qualche vecchio tema scientifico distaccato dal

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suo contesto e variamente truccato a nuovo. E forse staqui il pericolo di questa «maniera», fatta apposta per ac-calappiare e irretire gli inesperti.

L'indirizzo del Troeltsch – e più che d'indirizzo sareb-be proprio parlare di un orientamento appena iniziale –scaturisce dall'approfondimento della latente antitesi trale due principali correnti del pensiero storiografico tede-sco contemporaneo, l'una delle quali fa capo al Dilthey,l'altra al Windelband e al Rickert. Il Troeltsch trova nelDilthey riunite insieme due anime, quella dell'epigonodel romanticismo filosofico e quella del seguacedell'empirismo inglese. Di qui, il suo pensiero storiogra-fico oscilla tra l'esigenza di una «Critica della ragionestorica» e quella di una «introduzione alle scienze dellospirito». Nessuna delle due tendenze è riuscita ad acqui-stare un durevole predominio sull'altra; v'è stata piutto-sto, tra di esse, una specie di ibridazione. All'ispirazioneempiristica si collega il suo tentativo di una interpreta-zione psicologica della storia, espressa dal concettodell'Erlebnis. Il còmpito iniziale dello storico sta nel ri-vivere ed animare i muti e inerti documenti della storia,nel rifonderli nella corrente della propria vita psichica,come un mezzo indispensabile per riadagiarli nella cor-rente della vita cosmica, da cui erano distaccati a guisadi detriti o di relitti. Ma questo concetto nell'Erlebnis èpieno di ambiguità: esso pone al primo piano, nell'anali-si della realtà storica, l'idea naturalistica di una correntevitale bruta e immediata, che suggerisce analogie fallaci

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suo contesto e variamente truccato a nuovo. E forse staqui il pericolo di questa «maniera», fatta apposta per ac-calappiare e irretire gli inesperti.

L'indirizzo del Troeltsch – e più che d'indirizzo sareb-be proprio parlare di un orientamento appena iniziale –scaturisce dall'approfondimento della latente antitesi trale due principali correnti del pensiero storiografico tede-sco contemporaneo, l'una delle quali fa capo al Dilthey,l'altra al Windelband e al Rickert. Il Troeltsch trova nelDilthey riunite insieme due anime, quella dell'epigonodel romanticismo filosofico e quella del seguacedell'empirismo inglese. Di qui, il suo pensiero storiogra-fico oscilla tra l'esigenza di una «Critica della ragionestorica» e quella di una «introduzione alle scienze dellospirito». Nessuna delle due tendenze è riuscita ad acqui-stare un durevole predominio sull'altra; v'è stata piutto-sto, tra di esse, una specie di ibridazione. All'ispirazioneempiristica si collega il suo tentativo di una interpreta-zione psicologica della storia, espressa dal concettodell'Erlebnis. Il còmpito iniziale dello storico sta nel ri-vivere ed animare i muti e inerti documenti della storia,nel rifonderli nella corrente della propria vita psichica,come un mezzo indispensabile per riadagiarli nella cor-rente della vita cosmica, da cui erano distaccati a guisadi detriti o di relitti. Ma questo concetto nell'Erlebnis èpieno di ambiguità: esso pone al primo piano, nell'anali-si della realtà storica, l'idea naturalistica di una correntevitale bruta e immediata, che suggerisce analogie fallaci

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con la vita meramente biologica, col suo procedere fata-le e irriflesso, col suo nascere crescere e morire secondoleggi fisiche inderogabili. Inoltre, l'inserzione del moti-vo psicologico dell'Erlebnis in questo tema naturalisti-co, mentre par che lo spiritualizzi, in realtà lo aggrava.L'anima individuale della psicologia è anch'essa una for-mazione naturale, un mondo chiuso, una monade senzafinestre; e, a volere interpretare il divenire storico allaluce di essa, si rischia di farne un chiuso circolo e di fal-sificarne gl'interni rapporti e l'immanente dialettica deisuoi momenti, alla stregua degli empirici e contingentipassaggi da uno stato psichico a un altro. Lungo la sciadel psicologismo si arriva, nel migliore dei casi, comenella scuola del Dilthey e dello Spranger, alla concezio-ne della storia come una rassegna di tipi e «forme divita» e «complessi culturali», o a una «fisiognomica»dei singoli momenti del divenire: in ogni modo, all'ideadi strutture statiche e rigide, che non passano l'unanell'altra, ma si esauriscono ciascuna in sé, e la cui suc-cessione pertanto è determinata da una legge trascen-dente. Nel peggior dei casi, poi, si arriva ai criteri infor-matori delle così dette storie romanzate, dove la psichedello storico, e spesse volte la sua dira cupido, divienela forma in cui si modella, nel modo più capriccioso edarbitrario, qualunque materiale storico. D'altra parte ilbiologismo storiografico, che non è, nella sua genesi, senon il peggioramento naturalistico dell'indirizzo «orga-nico» della vecchia «scuola storica» dell'età romantica,porta, nelle sue ultime degenerazioni, allo spenglerismo,

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con la vita meramente biologica, col suo procedere fata-le e irriflesso, col suo nascere crescere e morire secondoleggi fisiche inderogabili. Inoltre, l'inserzione del moti-vo psicologico dell'Erlebnis in questo tema naturalisti-co, mentre par che lo spiritualizzi, in realtà lo aggrava.L'anima individuale della psicologia è anch'essa una for-mazione naturale, un mondo chiuso, una monade senzafinestre; e, a volere interpretare il divenire storico allaluce di essa, si rischia di farne un chiuso circolo e di fal-sificarne gl'interni rapporti e l'immanente dialettica deisuoi momenti, alla stregua degli empirici e contingentipassaggi da uno stato psichico a un altro. Lungo la sciadel psicologismo si arriva, nel migliore dei casi, comenella scuola del Dilthey e dello Spranger, alla concezio-ne della storia come una rassegna di tipi e «forme divita» e «complessi culturali», o a una «fisiognomica»dei singoli momenti del divenire: in ogni modo, all'ideadi strutture statiche e rigide, che non passano l'unanell'altra, ma si esauriscono ciascuna in sé, e la cui suc-cessione pertanto è determinata da una legge trascen-dente. Nel peggior dei casi, poi, si arriva ai criteri infor-matori delle così dette storie romanzate, dove la psichedello storico, e spesse volte la sua dira cupido, divienela forma in cui si modella, nel modo più capriccioso edarbitrario, qualunque materiale storico. D'altra parte ilbiologismo storiografico, che non è, nella sua genesi, senon il peggioramento naturalistico dell'indirizzo «orga-nico» della vecchia «scuola storica» dell'età romantica,porta, nelle sue ultime degenerazioni, allo spenglerismo,

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cioè all'idea di una storia umana come una fauna di tipie classi e famiglie zoologiche, affaccendate a crescere, ariprodursi e a morire, senz'altro scopo né ragione che ilselvaggio piacere di vivere di una cieca natura. E tra leforme zoologiche dello Spengler e le forme di culturadella scuola diltheyana, v'è certamente differenza di gra-do, come tra l'ordine biologico e l'ordine psichico; ma infondo, le une e le altre sono sulla stessa linea mentale.

Nessuno potrà ritenere responsabile il Dilthey di que-sti pervertimenti storiografici. Per conto suo, pur avendoesordito col psicologismo, egli ha compiuto tutti glisforzi possibili per liberarsene, o almeno per integrarlocon una visione speculativa, mutuata all'idealismo clas-sico tedesco. Egli non tardava infatti a convincersi che«l'anima» della psicologia empirica non potesse servireda criterio d'interpretazione della storia, e vagheggiavauna psicologia di ordine superiore, che avesse per pro-prio soggetto, invece dell'anima, lo spirito. La distinzio-ne tra anima e spirito, tra ψυχὴ e πνεῦµα che, dal neo-platonismo in poi, ha attraversato tutta la storia del pen-siero ed ha trovato la sua espressione più complessanell'idealismo moderno, non s'è eclissata dall'orizzontefilosofico europeo neppure nel periodo della più violen-ta reazione anti-idealistica. Noi la ritroviamo perfino nelpositivismo sociologico, come distinzione tra un ordinepsichico individuale e un ordine psichico collettivo,dove il secondo non è una mera somma degli elementiche costituiscono l'ordine precedente, ma un'individuali-

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cioè all'idea di una storia umana come una fauna di tipie classi e famiglie zoologiche, affaccendate a crescere, ariprodursi e a morire, senz'altro scopo né ragione che ilselvaggio piacere di vivere di una cieca natura. E tra leforme zoologiche dello Spengler e le forme di culturadella scuola diltheyana, v'è certamente differenza di gra-do, come tra l'ordine biologico e l'ordine psichico; ma infondo, le une e le altre sono sulla stessa linea mentale.

Nessuno potrà ritenere responsabile il Dilthey di que-sti pervertimenti storiografici. Per conto suo, pur avendoesordito col psicologismo, egli ha compiuto tutti glisforzi possibili per liberarsene, o almeno per integrarlocon una visione speculativa, mutuata all'idealismo clas-sico tedesco. Egli non tardava infatti a convincersi che«l'anima» della psicologia empirica non potesse servireda criterio d'interpretazione della storia, e vagheggiavauna psicologia di ordine superiore, che avesse per pro-prio soggetto, invece dell'anima, lo spirito. La distinzio-ne tra anima e spirito, tra ψυχὴ e πνεῦµα che, dal neo-platonismo in poi, ha attraversato tutta la storia del pen-siero ed ha trovato la sua espressione più complessanell'idealismo moderno, non s'è eclissata dall'orizzontefilosofico europeo neppure nel periodo della più violen-ta reazione anti-idealistica. Noi la ritroviamo perfino nelpositivismo sociologico, come distinzione tra un ordinepsichico individuale e un ordine psichico collettivo,dove il secondo non è una mera somma degli elementiche costituiscono l'ordine precedente, ma un'individuali-

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tà sui generis, che ha una propria fisonomia, una proprialegge intrinseca e subordina a sé gl'individui psichiciche vivono in essa253. Il risveglio idealistico della secon-da metà dell'800 ha giovato a riapprofondire quella di-stinzione: così, per 1'Eucken, l'originaria autonomia del-le forme spirituali in contrasto col mero divenire psichi-co, la loro connessione in un regno di valori universali,il loro soggettivarsi mediante un'arcana libertà, sono se-gni distintivi dello spirito dall'anima. E la storia è il ter-reno in cui s'incontrano e s'incrociano questi due mondi:la vita dello spirito è l'intimo senso, ma non tutta la ma-teria della storia; in questa v'è ancora posto per lo spie-gamento di una mera natura animale, che si può conce-pire secondo le leggi naturali della psicologia e della so-ciologia. Anche per il Dilthey, l'Erlebnis psicologiconon copre l'intero dominio storico; ad esso si sovrappo-ne un Verstehen, un'interpretazione della vita, che segueleggi mentali, cioè spirituali e non meramente psichiche,e dà luogo al problema di una ricerca delle categorie delpensiero storico, analoga a quella che Kant intrapresenella sua Critica per le categorie del pensiero scientifi-co. Ma l'originaria impostazione psicologica del proble-ma, nella filosofia del Dilthey, ha nociuto alla realizza-zione di questo ulteriore compito: la sua Critica dellaragione storica è rimasta sempre in qualche modo attac-cata all'idea di una psicologia di ordine superiore, aven-te per proprio soggetto lo spirito in luogo dell'anima.

253 Si pensi, per esempio, alla concezione sociologica del Durkheim.

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tà sui generis, che ha una propria fisonomia, una proprialegge intrinseca e subordina a sé gl'individui psichiciche vivono in essa253. Il risveglio idealistico della secon-da metà dell'800 ha giovato a riapprofondire quella di-stinzione: così, per 1'Eucken, l'originaria autonomia del-le forme spirituali in contrasto col mero divenire psichi-co, la loro connessione in un regno di valori universali,il loro soggettivarsi mediante un'arcana libertà, sono se-gni distintivi dello spirito dall'anima. E la storia è il ter-reno in cui s'incontrano e s'incrociano questi due mondi:la vita dello spirito è l'intimo senso, ma non tutta la ma-teria della storia; in questa v'è ancora posto per lo spie-gamento di una mera natura animale, che si può conce-pire secondo le leggi naturali della psicologia e della so-ciologia. Anche per il Dilthey, l'Erlebnis psicologiconon copre l'intero dominio storico; ad esso si sovrappo-ne un Verstehen, un'interpretazione della vita, che segueleggi mentali, cioè spirituali e non meramente psichiche,e dà luogo al problema di una ricerca delle categorie delpensiero storico, analoga a quella che Kant intrapresenella sua Critica per le categorie del pensiero scientifi-co. Ma l'originaria impostazione psicologica del proble-ma, nella filosofia del Dilthey, ha nociuto alla realizza-zione di questo ulteriore compito: la sua Critica dellaragione storica è rimasta sempre in qualche modo attac-cata all'idea di una psicologia di ordine superiore, aven-te per proprio soggetto lo spirito in luogo dell'anima.

253 Si pensi, per esempio, alla concezione sociologica del Durkheim.

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In contrasto con questa corrente psicologistica, la fi-losofia dei valori del Windelband e del Rickert ha ac-centuato i momenti universali e necessari del giudiziostorico, sollevandoli molto al di sopra della materia em-pirica del divenire, in un regno di norme e di valori, chenon sono mai empiricamente realizzati, ma debbono es-sere realizzati, cioè si adeguano non alla coscienza em-pirica degl'individui, ma alla coscienza universale. Sel'indirizzo psicologistico, immergendosi nella correntedella vita immediata, rischiava di smarrire il senso delleforme e dei valori spirituali, questa filosofia invece, spa-ziando nel cielo delle norme trascendenti, rischia di per-der contatto col flusso del divenire, senza coscienza delquale neppur si dà vera storia. La scissione tra il diveni-re e le norme, tra l'individuale e l'universale, tra la vita ela forma, è visibile, anche più che nella dottrina delWindelband, la quale s'è limitata a una caratterizzazionemolto generica dei problemi della storiografia, in quelladel Rickert, che è voluta discendere fino ai particolari.Essa ha oscillato continuamente tra un dover esserastratto e un'individualità statica, senza riuscir mai a tro-var la via di fecondar l'uno con l'altra e quindi d'intende-re la dinamica del processo storico. Essa ha cristallizza-to da una parte le individualità che trapuntano il tessutodella storia, dall'altra i valori ideali, nell'incapacità ditrovare una mediazione tra le une e gli altri. Il puro «do-ver essere» non è una valida categoria storiografica, maappartiene a un momento diverso della vita spirituale:quello dell'azione pratica, in cui la coscienza giudica e

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In contrasto con questa corrente psicologistica, la fi-losofia dei valori del Windelband e del Rickert ha ac-centuato i momenti universali e necessari del giudiziostorico, sollevandoli molto al di sopra della materia em-pirica del divenire, in un regno di norme e di valori, chenon sono mai empiricamente realizzati, ma debbono es-sere realizzati, cioè si adeguano non alla coscienza em-pirica degl'individui, ma alla coscienza universale. Sel'indirizzo psicologistico, immergendosi nella correntedella vita immediata, rischiava di smarrire il senso delleforme e dei valori spirituali, questa filosofia invece, spa-ziando nel cielo delle norme trascendenti, rischia di per-der contatto col flusso del divenire, senza coscienza delquale neppur si dà vera storia. La scissione tra il diveni-re e le norme, tra l'individuale e l'universale, tra la vita ela forma, è visibile, anche più che nella dottrina delWindelband, la quale s'è limitata a una caratterizzazionemolto generica dei problemi della storiografia, in quelladel Rickert, che è voluta discendere fino ai particolari.Essa ha oscillato continuamente tra un dover esserastratto e un'individualità statica, senza riuscir mai a tro-var la via di fecondar l'uno con l'altra e quindi d'intende-re la dinamica del processo storico. Essa ha cristallizza-to da una parte le individualità che trapuntano il tessutodella storia, dall'altra i valori ideali, nell'incapacità ditrovare una mediazione tra le une e gli altri. Il puro «do-ver essere» non è una valida categoria storiografica, maappartiene a un momento diverso della vita spirituale:quello dell'azione pratica, in cui la coscienza giudica e

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supera ciò ch'è già fatto in vista del nuovo fare, e losquilibrio vitale tra ciò che è e ciò che dev'essere dàcontinuo incremento alla vita dello spirito, che altrimen-ti si arresterebbe nelle posizioni di volta in volta conqui-state. Ma appunto perciò bisogna che il «dover essere»,per potere valere come una molla di sviluppo, sia rifusonell'immanenza della coscienza e presupponga una di-stinzione dialettica tra il pensare e il volere, tra la rifles-sione storica e l'azione morale. Posto invece come uncriterio trascendente di giudizio dell'accaduto, divieneun inefficace ed estrinseco mezzo di valutazione morali-stica. Tale, e non altro, esso è nel sistema della filosofiadei valori.

Risulta chiara così l'antitesi delle due scuole tedesche,ciascuna delle quali ha accentuato un elemento essen-ziale della sintesi storica a detrimento dell'altro, l'Erleb-nis e la categoria mentale, il processo vitale del diveniree la forma che l'inalvea e l'organizza. E si spiega ancorache la coscienza di questo dissidio e l'esigenza di com-porlo in una dinamica unità, abbia potuto ispirare il la-voro speculativo dei più recenti teorici della storia. IlTroeltsch, nel suo libro citato, fa un'accurata e istruttivarassegna di alcuni di questi tentativi di mediazione, dal-la dottrina del Simmel, dove il contrasto tra vita e formaè svolto nelle sue alternative più crude e nelle sue con-seguenze più paradossali, ma, appunto perciò, il bisognodi una mediazione liberatrice si fa più acuto, pur nonriuscendo ad appagarsi, alla dottrina di Max Weber, del-

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supera ciò ch'è già fatto in vista del nuovo fare, e losquilibrio vitale tra ciò che è e ciò che dev'essere dàcontinuo incremento alla vita dello spirito, che altrimen-ti si arresterebbe nelle posizioni di volta in volta conqui-state. Ma appunto perciò bisogna che il «dover essere»,per potere valere come una molla di sviluppo, sia rifusonell'immanenza della coscienza e presupponga una di-stinzione dialettica tra il pensare e il volere, tra la rifles-sione storica e l'azione morale. Posto invece come uncriterio trascendente di giudizio dell'accaduto, divieneun inefficace ed estrinseco mezzo di valutazione morali-stica. Tale, e non altro, esso è nel sistema della filosofiadei valori.

Risulta chiara così l'antitesi delle due scuole tedesche,ciascuna delle quali ha accentuato un elemento essen-ziale della sintesi storica a detrimento dell'altro, l'Erleb-nis e la categoria mentale, il processo vitale del diveniree la forma che l'inalvea e l'organizza. E si spiega ancorache la coscienza di questo dissidio e l'esigenza di com-porlo in una dinamica unità, abbia potuto ispirare il la-voro speculativo dei più recenti teorici della storia. IlTroeltsch, nel suo libro citato, fa un'accurata e istruttivarassegna di alcuni di questi tentativi di mediazione, dal-la dottrina del Simmel, dove il contrasto tra vita e formaè svolto nelle sue alternative più crude e nelle sue con-seguenze più paradossali, ma, appunto perciò, il bisognodi una mediazione liberatrice si fa più acuto, pur nonriuscendo ad appagarsi, alla dottrina di Max Weber, del-

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lo Scheler, dello Spranger e di altri. Il vizio comune cheegli trova, sebbene in diverso grado, in tutti questi tenta-tivi, è la mancanza di una esplicita consapevolezza chesolo una concezione dialettica della vita può risolvere ilproblema. Finché la visione della storia, egli dice, vienposta sullo stesso piano mentale di quella delle scienzedella natura, e ci si limita soltanto a puntualizzare le dif-ferenze tra una causalità secondo leggi e una causalitàindividuale, tra una sostanza psichica e una sostanza fi-sica, ogni possibilità di mediazione tra il divenire e i va-lori resta preclusa, e la vita, nel suo fluire, conserva uncarattere di bruta e immediata naturalità, non diversa,ma analoga alla naturalità del mondo fisico. Bisogna in-vece, egli soggiunge, rinunziare affatto all'idea di inter-pretare la storia secondo le categorie di sostanza e dicausa, comunque riadattate e manipolate, ed imparare aintenderla alla luce della dialettica. Purtroppo, questoorientamento nuovo del Troeltsch è piuttosto accennatoche svolto: la sua Istorica s'è arrestata a mezzo, all'espo-sizione dei presupposti storici del problema, a cui avreb-be dovuto poi far seguito una trattazione propriamentesistematica; ma la morte gli ha tolto di poter adempierela promessa, e a noi non restano perciò che pochi spora-dici documenti del suo sistema, disseminati nei prolego-meni storici.

Il capitolo che nella sua Istorica egli ha dedicatoall'esame del pensiero hegeliano è per questo riguardomolto istruttivo. Il pregio della dialettica, com'è stata

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lo Scheler, dello Spranger e di altri. Il vizio comune cheegli trova, sebbene in diverso grado, in tutti questi tenta-tivi, è la mancanza di una esplicita consapevolezza chesolo una concezione dialettica della vita può risolvere ilproblema. Finché la visione della storia, egli dice, vienposta sullo stesso piano mentale di quella delle scienzedella natura, e ci si limita soltanto a puntualizzare le dif-ferenze tra una causalità secondo leggi e una causalitàindividuale, tra una sostanza psichica e una sostanza fi-sica, ogni possibilità di mediazione tra il divenire e i va-lori resta preclusa, e la vita, nel suo fluire, conserva uncarattere di bruta e immediata naturalità, non diversa,ma analoga alla naturalità del mondo fisico. Bisogna in-vece, egli soggiunge, rinunziare affatto all'idea di inter-pretare la storia secondo le categorie di sostanza e dicausa, comunque riadattate e manipolate, ed imparare aintenderla alla luce della dialettica. Purtroppo, questoorientamento nuovo del Troeltsch è piuttosto accennatoche svolto: la sua Istorica s'è arrestata a mezzo, all'espo-sizione dei presupposti storici del problema, a cui avreb-be dovuto poi far seguito una trattazione propriamentesistematica; ma la morte gli ha tolto di poter adempierela promessa, e a noi non restano perciò che pochi spora-dici documenti del suo sistema, disseminati nei prolego-meni storici.

Il capitolo che nella sua Istorica egli ha dedicatoall'esame del pensiero hegeliano è per questo riguardomolto istruttivo. Il pregio della dialettica, com'è stata

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concepita da Hegel, consiste per lui nella capacità dicreare una dinamica del processo storico. Finché le indi-vidualità puntuali e i valori universali sono meramentecontrapposti le une agli altri o fusi e incorporati le unenegli altri, non v'è possibilità di movimento e di svilup-po; bisogna invece che siano opposti e riuniti, cioè riu-niti mediante la loro stessa opposizione. La storia è con-tinua vicenda di contrasti, che continuamente si com-pongono nelle sintesi creatrici della coscienza umana, eche nel loro reciproco implicarsi e complicarsi dannovita a individualità di ordine superiore, famiglie, classi,stati, movimenti di cultura, religioni, istituti, ecc. È quiper il Troeltsch il momento vivo della dialettica hegelia-na; il punto morto di essa, invece, sta nella soverchiantetendenza monistica, di origine spinoziana, secondo laquale tutte le individuazioni del divenire si risolvono inmere identità ed esprimono in forme diverse della co-scienza sempre la stessa cosa. Così è assicurata la conti-nuità e la necessità logica del processo; ma, non ostanteogni proposito del filosofo di apprezzare il concreto e ilparticolare, la realtà svanisce in una mera apparenza.Tutta la pienezza delle forme degenera in vuoti schemi;tutti i fini, essendo identici, si annullano: non v'è che iltutto, che è fine del tutto. Questa conclusione, se puòappagare una mente divina, è desolante per il comunemortale. Essa è in fondo il perfetto quietismo, come nel-la filosofia di Spinoza; e, se il pensiero del fine edell'incremento del valore è più fortemente espresso inquesto «mobilitato spinozismo», si tratta però sempre di

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concepita da Hegel, consiste per lui nella capacità dicreare una dinamica del processo storico. Finché le indi-vidualità puntuali e i valori universali sono meramentecontrapposti le une agli altri o fusi e incorporati le unenegli altri, non v'è possibilità di movimento e di svilup-po; bisogna invece che siano opposti e riuniti, cioè riu-niti mediante la loro stessa opposizione. La storia è con-tinua vicenda di contrasti, che continuamente si com-pongono nelle sintesi creatrici della coscienza umana, eche nel loro reciproco implicarsi e complicarsi dannovita a individualità di ordine superiore, famiglie, classi,stati, movimenti di cultura, religioni, istituti, ecc. È quiper il Troeltsch il momento vivo della dialettica hegelia-na; il punto morto di essa, invece, sta nella soverchiantetendenza monistica, di origine spinoziana, secondo laquale tutte le individuazioni del divenire si risolvono inmere identità ed esprimono in forme diverse della co-scienza sempre la stessa cosa. Così è assicurata la conti-nuità e la necessità logica del processo; ma, non ostanteogni proposito del filosofo di apprezzare il concreto e ilparticolare, la realtà svanisce in una mera apparenza.Tutta la pienezza delle forme degenera in vuoti schemi;tutti i fini, essendo identici, si annullano: non v'è che iltutto, che è fine del tutto. Questa conclusione, se puòappagare una mente divina, è desolante per il comunemortale. Essa è in fondo il perfetto quietismo, come nel-la filosofia di Spinoza; e, se il pensiero del fine edell'incremento del valore è più fortemente espresso inquesto «mobilitato spinozismo», si tratta però sempre di

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un incremento della sola coscienza, non del contenuto,che è immutevolmente identico, e non fa che esprimersicon diversi gradi di pienezza, chiarezza e profondità.Non v'è mai nulla di veramente nuovo, e, malgrado tuttii contrasti, nessuna vera creazione nel mondo. Gl'indivi-dui si riducono a semplici marionette, costrette a esibirsisopra una scena di cui nulla sanno. A ciò si aggiunge lacontinua oscillazione del pensiero hegeliano tra laestemporalità puramente logica del processo da una par-te e la concreta temporalità delle manifestazioni finitedall'altra, che dà al processo medesimo ora l'apparenzadi un'illusione magica, ora quella di un reale spiegamen-to. Tutto ciò dipende dalla costrizione della dialettica inuna gnoseologia e una metafisica monistica, e dalla con-seguente degenerazione panlogistica ed anzi scolasticadi essa. Resta però intatto e saldo il suo nucleo, l'ideacioè di una pura dinamica storica, lo sciogliersi l'unonell'altro dell'individuale e dell'universale, l'immergersidelle serie causali prammatiche e delle finalità personaliin uno strato di movimenti vitali, che non si esaurisce inesse e non può essere imprigionato né frazionato colpuro intelletto riflessivo. Resta la possibilità e la neces-sità di organizzare il flusso dinamico, di fissare i nodi(Knotenpunkte) degli sviluppi, di concepire la totalità eil ritmo delle connessioni, di mediare le opposizioni deigrandi gruppi storici, di ricercare nel diviso e nel diver-so le tendenze unitarie e di scoprire i grandi raggruppa-

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un incremento della sola coscienza, non del contenuto,che è immutevolmente identico, e non fa che esprimersicon diversi gradi di pienezza, chiarezza e profondità.Non v'è mai nulla di veramente nuovo, e, malgrado tuttii contrasti, nessuna vera creazione nel mondo. Gl'indivi-dui si riducono a semplici marionette, costrette a esibirsisopra una scena di cui nulla sanno. A ciò si aggiunge lacontinua oscillazione del pensiero hegeliano tra laestemporalità puramente logica del processo da una par-te e la concreta temporalità delle manifestazioni finitedall'altra, che dà al processo medesimo ora l'apparenzadi un'illusione magica, ora quella di un reale spiegamen-to. Tutto ciò dipende dalla costrizione della dialettica inuna gnoseologia e una metafisica monistica, e dalla con-seguente degenerazione panlogistica ed anzi scolasticadi essa. Resta però intatto e saldo il suo nucleo, l'ideacioè di una pura dinamica storica, lo sciogliersi l'unonell'altro dell'individuale e dell'universale, l'immergersidelle serie causali prammatiche e delle finalità personaliin uno strato di movimenti vitali, che non si esaurisce inesse e non può essere imprigionato né frazionato colpuro intelletto riflessivo. Resta la possibilità e la neces-sità di organizzare il flusso dinamico, di fissare i nodi(Knotenpunkte) degli sviluppi, di concepire la totalità eil ritmo delle connessioni, di mediare le opposizioni deigrandi gruppi storici, di ricercare nel diviso e nel diver-so le tendenze unitarie e di scoprire i grandi raggruppa-

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menti planetari da cui anche gl'individui traggonoluce254.

Tutto ciò è vero, ma è molto vago. Se noi chiediamoal Troeltsch in che cosa propriamente consista il suo su-peramento del monismo spinoziano che aduggia la dia-lettica di Hegel, egli non ci dà mai una risposta precisaed esauriente. E noi siamo costretti a ricostruire quellarisposta coi pochi frammenti sporadici disseminati nelsuo libro, senza essere del tutto certi di non attribuirgliqualcosa che non gli appartiene. Innanzi tutto, mentreper Hegel l'individuo non è che un semplice momentonello spiegamento logico dell'universale, per lui invecevuol essere una realtà empirica, che non si deduce da al-tro, ma si produce da sé e che nell'originalità della pro-pria struttura costituisce l'insopprimibile elemento dellavarietà e della molteplicità nella sintesi storica. Quindi ilrapporto tra gli spiriti finiti e lo spirito infinito non èd'immediata inclusione, senza resistenze e senza residui,ma è un processo lento, pieno di oscurità e di contrasti,che non dà mai risultati identici, perché l'elemento parti-colare di esso reagisce in modo sempre diverso, e dàcosì una configurazione differente anche all'elementouniversale che, per sé preso, sarebbe sempre identico255.Un altro fattore importante di differenziamento delladialettica storica è posto in evidenza nell'ultimo libro delTroeltsch, Der Historismus und seine Ueberwindung, e254 E. TROELTSCH, Der Historismus und seine Probleme. Erster Buch, Das

logische Problem der Geschichtsphilosophie, Tübingen, 1922, p. 276.255 Op. cit., pp. 677-81.

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menti planetari da cui anche gl'individui traggonoluce254.

Tutto ciò è vero, ma è molto vago. Se noi chiediamoal Troeltsch in che cosa propriamente consista il suo su-peramento del monismo spinoziano che aduggia la dia-lettica di Hegel, egli non ci dà mai una risposta precisaed esauriente. E noi siamo costretti a ricostruire quellarisposta coi pochi frammenti sporadici disseminati nelsuo libro, senza essere del tutto certi di non attribuirgliqualcosa che non gli appartiene. Innanzi tutto, mentreper Hegel l'individuo non è che un semplice momentonello spiegamento logico dell'universale, per lui invecevuol essere una realtà empirica, che non si deduce da al-tro, ma si produce da sé e che nell'originalità della pro-pria struttura costituisce l'insopprimibile elemento dellavarietà e della molteplicità nella sintesi storica. Quindi ilrapporto tra gli spiriti finiti e lo spirito infinito non èd'immediata inclusione, senza resistenze e senza residui,ma è un processo lento, pieno di oscurità e di contrasti,che non dà mai risultati identici, perché l'elemento parti-colare di esso reagisce in modo sempre diverso, e dàcosì una configurazione differente anche all'elementouniversale che, per sé preso, sarebbe sempre identico255.Un altro fattore importante di differenziamento delladialettica storica è posto in evidenza nell'ultimo libro delTroeltsch, Der Historismus und seine Ueberwindung, e254 E. TROELTSCH, Der Historismus und seine Probleme. Erster Buch, Das

logische Problem der Geschichtsphilosophie, Tübingen, 1922, p. 276.255 Op. cit., pp. 677-81.

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sta nella distinzione tra le valutazioni morali della co-scienza individuale e i valori etici della coscienza stori-ca collettiva. Si tratta qui delle due sezioni della filoso-fia hegeliana dello spirito, che corrispondono, rispettiva-mente, alla sfera dello spirito soggettivo, e dello spiritooggettivo, e prendono i nomi di moralità e di eticità.Ora, nella concezione dello Hegel, questi due momentidel processo sono disposti in ordine gerarchico, in modoche il secondo supera ed assorbe in sé il primo senza re-sidui, e i valori storici oggettivi esercitano, di fatto,un'opprimente tirannia sulle valutazioni morali della co-scienza individuale. Il Troeltsch invece spezza questa ri-gida gerarchia del monismo. Egli intende e illustra ilcontrasto immanente che v'è tra giudizio morale dellacoscienza, che valuta quel ch'è bene e quel ch'è male,ponendosi da un punto di vista formale ed estrastorico,come aveva già mostrato il Kant, e i valori etico-cultura-li che sono incarnati nelle istituzioni della storia. Manega ogni preconcetta superiorità di questi su quello, edanzi è portato a capovolgere tale rapporto, vedendo nel-la coscienza il principio che vivifica gl'istituti etici dellastoria e che, con l'assolutezza dei propri giudizi, ne vin-ce il mero relativismo e ne rende possibile la correzione,la trasformazione e lo sviluppo256.

Questa prerogativa della coscienza morale è sentitacosì fortemente dal Troeltsch che gli suggerisce perfino

256 TROELTSCH, Der Historismus und seine Ueberwindung, Berlin, 1924, pp. 27sgg.

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sta nella distinzione tra le valutazioni morali della co-scienza individuale e i valori etici della coscienza stori-ca collettiva. Si tratta qui delle due sezioni della filoso-fia hegeliana dello spirito, che corrispondono, rispettiva-mente, alla sfera dello spirito soggettivo, e dello spiritooggettivo, e prendono i nomi di moralità e di eticità.Ora, nella concezione dello Hegel, questi due momentidel processo sono disposti in ordine gerarchico, in modoche il secondo supera ed assorbe in sé il primo senza re-sidui, e i valori storici oggettivi esercitano, di fatto,un'opprimente tirannia sulle valutazioni morali della co-scienza individuale. Il Troeltsch invece spezza questa ri-gida gerarchia del monismo. Egli intende e illustra ilcontrasto immanente che v'è tra giudizio morale dellacoscienza, che valuta quel ch'è bene e quel ch'è male,ponendosi da un punto di vista formale ed estrastorico,come aveva già mostrato il Kant, e i valori etico-cultura-li che sono incarnati nelle istituzioni della storia. Manega ogni preconcetta superiorità di questi su quello, edanzi è portato a capovolgere tale rapporto, vedendo nel-la coscienza il principio che vivifica gl'istituti etici dellastoria e che, con l'assolutezza dei propri giudizi, ne vin-ce il mero relativismo e ne rende possibile la correzione,la trasformazione e lo sviluppo256.

Questa prerogativa della coscienza morale è sentitacosì fortemente dal Troeltsch che gli suggerisce perfino

256 TROELTSCH, Der Historismus und seine Ueberwindung, Berlin, 1924, pp. 27sgg.

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l'idea di un «superamento dello storicismo». È un'ideaperò che bisogna circoscrivere nei suoi esatti termini,per evitare facili e pericolose confusioni. Si possono in-tendere, e sono di fatto intese, sotto il nome di storici-smo due cose molto diverse l'una dall'altra. Storicismopuò innanzi tutto significare il riconoscimento che larealtà è un processo spirituale dinamico, che nel suocorso realizza valori universali, in forme individualizza-te, che mai si ripetono. Ora questo riconoscimento non èfonte di relativismo e di scetticismo, quando è compresoin una concezione filosofica che mantiene saldo il con-cetto dell'universalità e immutabilità dei valori formali odelle categorie spirituali costituenti lo stabile alveo incui fluisce il divenire, e che, distinguendo una sfera del-la riflessione teoretica da una sfera dell'azione, noncomprime l'avvenire a vantaggio del passato, cioè nontoglie libertà ed autonomia alla creazione di nuova vita,da cui sorgerà nuova storia. In questa concezione, in-somma, la coscienza della storicità del reale è elementodi forza e di dominio, non di schiavitù e d'ignavia: inuno storicismo rettamente inteso può e dev'essere inclu-so un momento vitale di superamento della storia, ed èappunto il momento dell'azione. Solo che non può trat-tarsi di una negazione irrazionalistica, che farebbedell'azione stessa un miracolo arbitrario (come preten-dono i così detti attivisti), ma di una negazione dialetti-ca, che porta al foco dell'azione un contenuto storicoposseduto e vivificato dalla coscienza dell'agente. Ogniazione è così, nel tempo stesso, storica, in quanto s'inne-

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l'idea di un «superamento dello storicismo». È un'ideaperò che bisogna circoscrivere nei suoi esatti termini,per evitare facili e pericolose confusioni. Si possono in-tendere, e sono di fatto intese, sotto il nome di storici-smo due cose molto diverse l'una dall'altra. Storicismopuò innanzi tutto significare il riconoscimento che larealtà è un processo spirituale dinamico, che nel suocorso realizza valori universali, in forme individualizza-te, che mai si ripetono. Ora questo riconoscimento non èfonte di relativismo e di scetticismo, quando è compresoin una concezione filosofica che mantiene saldo il con-cetto dell'universalità e immutabilità dei valori formali odelle categorie spirituali costituenti lo stabile alveo incui fluisce il divenire, e che, distinguendo una sfera del-la riflessione teoretica da una sfera dell'azione, noncomprime l'avvenire a vantaggio del passato, cioè nontoglie libertà ed autonomia alla creazione di nuova vita,da cui sorgerà nuova storia. In questa concezione, in-somma, la coscienza della storicità del reale è elementodi forza e di dominio, non di schiavitù e d'ignavia: inuno storicismo rettamente inteso può e dev'essere inclu-so un momento vitale di superamento della storia, ed èappunto il momento dell'azione. Solo che non può trat-tarsi di una negazione irrazionalistica, che farebbedell'azione stessa un miracolo arbitrario (come preten-dono i così detti attivisti), ma di una negazione dialetti-ca, che porta al foco dell'azione un contenuto storicoposseduto e vivificato dalla coscienza dell'agente. Ogniazione è così, nel tempo stesso, storica, in quanto s'inne-

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sta in una situazione concreta e determinata; antistorica,o meglio sopra-storica, in quanto muta e trasfigura il giàfatto nel nuovo fare. E questa trasfigurazione è possibi-le, poiché il contenuto storico che si brucia nell'azione èdominato e giudicato dalla coscienza dell'agente, la qua-le, avvertendo il vitale squilibrio tra i valori già cristal-lizzati nella storia fatta e i valori puri, ideali, che essastessa coglie nella propria essenza spirituale, trova quil'impulso al nuovo agire. Nulla di più falso, quindi, cheil concepire lo storicista come il laudator temporis acti,e lo scettico assertore della vanità di ogni nuovo sforzoumano e del «nulla di nuovo sotto il sole». Lo storicistaè come ogni uomo, come ogni vivente, proteso intensa-mente in avanti, verso il futuro; solo che per lui questosforzo non deriva da una mera tensione vitale, cieca e ir-riflessa, ma è uno sforzo consapevole, in cui confluisco-no le forze della storia, e in cui perciò la sua individuali-tà esprime un'individualità più ricca e complessa.

Ma v'è uno storicismo deteriore, il quale si connette auna filosofia non spiritualistica, e quindi non articolatanei suoi elementi, che fa coincidere la storia col merodivenire naturale, cioè con un flusso indiscriminato e fa-tale, in cui la coscienza non può esercitare nessun domi-nio e produrre nessuna modificazione, perché essa stes-sa non è che un momento effimero del suo corso. A que-sto storicismo manca ogni idea di valori o categorie uni-versali; quindi esso afferma che la verità, la bellezza, labontà sono formazioni contingenti e caduche, e che tutto

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sta in una situazione concreta e determinata; antistorica,o meglio sopra-storica, in quanto muta e trasfigura il giàfatto nel nuovo fare. E questa trasfigurazione è possibi-le, poiché il contenuto storico che si brucia nell'azione èdominato e giudicato dalla coscienza dell'agente, la qua-le, avvertendo il vitale squilibrio tra i valori già cristal-lizzati nella storia fatta e i valori puri, ideali, che essastessa coglie nella propria essenza spirituale, trova quil'impulso al nuovo agire. Nulla di più falso, quindi, cheil concepire lo storicista come il laudator temporis acti,e lo scettico assertore della vanità di ogni nuovo sforzoumano e del «nulla di nuovo sotto il sole». Lo storicistaè come ogni uomo, come ogni vivente, proteso intensa-mente in avanti, verso il futuro; solo che per lui questosforzo non deriva da una mera tensione vitale, cieca e ir-riflessa, ma è uno sforzo consapevole, in cui confluisco-no le forze della storia, e in cui perciò la sua individuali-tà esprime un'individualità più ricca e complessa.

Ma v'è uno storicismo deteriore, il quale si connette auna filosofia non spiritualistica, e quindi non articolatanei suoi elementi, che fa coincidere la storia col merodivenire naturale, cioè con un flusso indiscriminato e fa-tale, in cui la coscienza non può esercitare nessun domi-nio e produrre nessuna modificazione, perché essa stes-sa non è che un momento effimero del suo corso. A que-sto storicismo manca ogni idea di valori o categorie uni-versali; quindi esso afferma che la verità, la bellezza, labontà sono formazioni contingenti e caduche, e che tutto

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ciò che l'uomo può operare con purezza d'animo, consacrifizio personale, con profondità di mente, con serie-tà di preparazione, equivale in fondo a qualunque altracosa, perché nulla al mondo può emergere dal comunerelativismo dei valori terreni. E manca ad esso ogni cri-terio di distinzione dialettica tra la riflessione e l'azione;donde segue che, poiché ogni azione vale l'altra, e tuttesono egualmente predeterminate dalla necessità del cor-so naturale, tanto vale agire alla cieca o non agire affat-to. Un attivismo brutale, che tutto vuol mutare per il gu-sto di mutare, o un conservatorismo scettico che tuttovuol conservare, per la convinzione che il mutamento èvano, sono le due conseguenze opposte, ma in fondoidentiche, dell'estremo relativismo storico.

Se lo storicismo vien preso in questo secondo senso,si spiega che la visione storica della vita che il Troeltschvagheggia prenda per sua insegna il «superamento» del-lo storicismo e che essa faccia bersaglio costante dellesue critiche la degradazione relativistica dei valori dellastoria. Ora, è accaduto appunto questo, negli ultimianni: che lo storicismo, nel primo senso da noi spiegato,come oggetto di operosità scientifica e criterio di disci-plina spirituale di una ristrettissima aristocrazia intellet-tuale, è stato segregato, ed anzi in parte si è segregato dase stesso, dagl'interessi pandemici della comune cultura;sì che quel che circola nel mondo sotto il suo mentitonome e nelle sue mentite spoglie, non è che la sua con-traffazione pseudo-dottrinale. Per limitarci alla Germa-

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ciò che l'uomo può operare con purezza d'animo, consacrifizio personale, con profondità di mente, con serie-tà di preparazione, equivale in fondo a qualunque altracosa, perché nulla al mondo può emergere dal comunerelativismo dei valori terreni. E manca ad esso ogni cri-terio di distinzione dialettica tra la riflessione e l'azione;donde segue che, poiché ogni azione vale l'altra, e tuttesono egualmente predeterminate dalla necessità del cor-so naturale, tanto vale agire alla cieca o non agire affat-to. Un attivismo brutale, che tutto vuol mutare per il gu-sto di mutare, o un conservatorismo scettico che tuttovuol conservare, per la convinzione che il mutamento èvano, sono le due conseguenze opposte, ma in fondoidentiche, dell'estremo relativismo storico.

Se lo storicismo vien preso in questo secondo senso,si spiega che la visione storica della vita che il Troeltschvagheggia prenda per sua insegna il «superamento» del-lo storicismo e che essa faccia bersaglio costante dellesue critiche la degradazione relativistica dei valori dellastoria. Ora, è accaduto appunto questo, negli ultimianni: che lo storicismo, nel primo senso da noi spiegato,come oggetto di operosità scientifica e criterio di disci-plina spirituale di una ristrettissima aristocrazia intellet-tuale, è stato segregato, ed anzi in parte si è segregato dase stesso, dagl'interessi pandemici della comune cultura;sì che quel che circola nel mondo sotto il suo mentitonome e nelle sue mentite spoglie, non è che la sua con-traffazione pseudo-dottrinale. Per limitarci alla Germa-

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nia, lo storicismo contro il quale il Troeltsch implicita-mente (e talvolta anche esplicitamente) polemizza, èquello che ha trovato, nel passato decennio, la suaespressione più rumorosa nella filosofia dello Spengler.Non mette conto dar di quest'ultima una esposizioneparticolareggiata; basta, per intenderne il principio ge-neratore, considerare in essa la sistematica alterazionedei concetti della filosofia idealistica, cioè il loro sposta-mento sopra un piano mentale molto diverso da quello acui erano appropriati. Anche per lo Spengler, come peimaestri dello spiritualismo contemporaneo, la realtà èstoria, processo, divenire, e il mondo della storia si op-pone al mondo della natura, come ciò che diviene a ciòche è divenuto257, come l'interiorità temporale alla este-riorità spaziale258. Anche per lui, lo studio della storia èfilosofia, perché non v'è pensiero che non spazi in unorizzonte storico determinato, né problema che non siasimbolo ed esponente di vita259. Ed egli si crede perfinoil nuovo Kant del nuovo storicismo, perché, non diver-samente dal suo predecessore, anche lui ha un coperni-canismo da far valere contro la storiografia tolemaicadel passato, che poneva l'uomo occidentale al centrodella visione storica del mondo, trascurando le forma-zioni planetarie delle rimanenti culture260. Ma se si scro-sta un po' di questa vernice filosofica, si resta stupiti nel

257 SPENGLER, Der Untergang des Abendlandes, München, 1923, p. 6.258 Ibid., pp. 154-58.259 Ibid., p. 54.260 Ibid., p. 23.

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nia, lo storicismo contro il quale il Troeltsch implicita-mente (e talvolta anche esplicitamente) polemizza, èquello che ha trovato, nel passato decennio, la suaespressione più rumorosa nella filosofia dello Spengler.Non mette conto dar di quest'ultima una esposizioneparticolareggiata; basta, per intenderne il principio ge-neratore, considerare in essa la sistematica alterazionedei concetti della filosofia idealistica, cioè il loro sposta-mento sopra un piano mentale molto diverso da quello acui erano appropriati. Anche per lo Spengler, come peimaestri dello spiritualismo contemporaneo, la realtà èstoria, processo, divenire, e il mondo della storia si op-pone al mondo della natura, come ciò che diviene a ciòche è divenuto257, come l'interiorità temporale alla este-riorità spaziale258. Anche per lui, lo studio della storia èfilosofia, perché non v'è pensiero che non spazi in unorizzonte storico determinato, né problema che non siasimbolo ed esponente di vita259. Ed egli si crede perfinoil nuovo Kant del nuovo storicismo, perché, non diver-samente dal suo predecessore, anche lui ha un coperni-canismo da far valere contro la storiografia tolemaicadel passato, che poneva l'uomo occidentale al centrodella visione storica del mondo, trascurando le forma-zioni planetarie delle rimanenti culture260. Ma se si scro-sta un po' di questa vernice filosofica, si resta stupiti nel

257 SPENGLER, Der Untergang des Abendlandes, München, 1923, p. 6.258 Ibid., pp. 154-58.259 Ibid., p. 54.260 Ibid., p. 23.

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vedere a nudo il materiale che essa ricopriva. Se la real-tà è storia, sarebbe lecito argomentare che essa non è unlavoro vano che ricomincia sempre daccapo, ma èun'opera che ha un proprio senso e valore, che s'accre-sce e si arricchisce mediante nuove esperienze di vita, lequali si innestano alle precedenti, conservate nel vivo ri-cordo delle generazioni che vi collaborano. E inveceleggiamo che «l'umanità non ha nessun fine, nessunaidea, nessun piano, come le specie delle farfalle e delleorchidee. L'umanità o è un concetto zoologico o è unavuota parola». «Se si lascia scomparire questo fantasmadalla cerchia dei problemi storici, allora si scopreun'esuberante ricchezza di forme reali, una molteplicitàdi potenti culture... Vi sono culture, popoli, lingue, veri-tà, dèi, paesaggi, che fioriscono e invecchiano comequerce e pini; vi sono molte e diverse plastiche, pitture,matematiche, fisiche, di durata limitata, ognuna chiusain sé, come ogni specie vegetale ha i suoi propri fiori efrutti, il suo proprio tipo, dalla crescenza al tramonto.Queste culture, esseri viventi di ordine più alto, cresco-no in una meravigliosa noncuranza dei fini, come i fiorinel campo. Esse appartengono, come le piante e gli ani-mali, alla natura vivente di Goethe e non alla naturamorta di Newton»261.

È facile immaginare che cosa possa venir fuori daqueste premesse: una morfologia, o secondo il termineusato dallo stesso Spengler, una «fisiognomica» del di-

261 Ibid., pp. 27-28.

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vedere a nudo il materiale che essa ricopriva. Se la real-tà è storia, sarebbe lecito argomentare che essa non è unlavoro vano che ricomincia sempre daccapo, ma èun'opera che ha un proprio senso e valore, che s'accre-sce e si arricchisce mediante nuove esperienze di vita, lequali si innestano alle precedenti, conservate nel vivo ri-cordo delle generazioni che vi collaborano. E inveceleggiamo che «l'umanità non ha nessun fine, nessunaidea, nessun piano, come le specie delle farfalle e delleorchidee. L'umanità o è un concetto zoologico o è unavuota parola». «Se si lascia scomparire questo fantasmadalla cerchia dei problemi storici, allora si scopreun'esuberante ricchezza di forme reali, una molteplicitàdi potenti culture... Vi sono culture, popoli, lingue, veri-tà, dèi, paesaggi, che fioriscono e invecchiano comequerce e pini; vi sono molte e diverse plastiche, pitture,matematiche, fisiche, di durata limitata, ognuna chiusain sé, come ogni specie vegetale ha i suoi propri fiori efrutti, il suo proprio tipo, dalla crescenza al tramonto.Queste culture, esseri viventi di ordine più alto, cresco-no in una meravigliosa noncuranza dei fini, come i fiorinel campo. Esse appartengono, come le piante e gli ani-mali, alla natura vivente di Goethe e non alla naturamorta di Newton»261.

È facile immaginare che cosa possa venir fuori daqueste premesse: una morfologia, o secondo il termineusato dallo stesso Spengler, una «fisiognomica» del di-

261 Ibid., pp. 27-28.

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venire, truccata in forme storiche. E la pretesa identitàtra la storiografia e la filosofia, a sua volta, non vuol si-gnificare altro se non un riaccostamento del relativismospeculativo, a fondo scettico, col relativismo dei fatti edei valori storici. Infine, il punto di vista copernicanodel nuovo storicismo non consiste in altro che in unacomparazione estrinseca dei diversi tipi organici, posti,al pari dei generi aristotelici, come indipendenti l'unodall'altro. In altri termini, la nuova e più alta storiografiadovrebbe ridursi al livello di una morfologia comparata,invecchiata di almeno un secolo; perché mentre nellostudio delle piante e degli animali l'evoluzionismo bio-logico ha dato un nuovo senso e valore ai rapporti e alleanalogie strutturali delle varie specie, la sola umanità in-vece sarebbe irrimediabilmente divisa in forme impene-trabili e irriducibili. Lo spirito umano, che, col sussidiodell'imitazione, della coscienza, del linguaggio, della ri-flessione e di mille altri mezzi di comunicazione, do-vrebbe avere la possibilità di vincere, o almeno di allon-tanare molte delle barriere della natura, si troverebbe in-vece al di sotto degli organismi vegetali ed animali, che,pure con mezzi tanto minori, riescono lentamente a cor-rodere il ferreo meccanismo della loro natura e delleloro abitudini! Caratterizzare come naturalistica questafilosofia sarebbe un far torto alla natura, la quale è ri-spettosissima delle sue gerarchie organiche e non pone,per esempio, i vertebrati al di sotto dei protozoi.

Nel compilare le sue storie, lo Spengler si avvale, ol-

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venire, truccata in forme storiche. E la pretesa identitàtra la storiografia e la filosofia, a sua volta, non vuol si-gnificare altro se non un riaccostamento del relativismospeculativo, a fondo scettico, col relativismo dei fatti edei valori storici. Infine, il punto di vista copernicanodel nuovo storicismo non consiste in altro che in unacomparazione estrinseca dei diversi tipi organici, posti,al pari dei generi aristotelici, come indipendenti l'unodall'altro. In altri termini, la nuova e più alta storiografiadovrebbe ridursi al livello di una morfologia comparata,invecchiata di almeno un secolo; perché mentre nellostudio delle piante e degli animali l'evoluzionismo bio-logico ha dato un nuovo senso e valore ai rapporti e alleanalogie strutturali delle varie specie, la sola umanità in-vece sarebbe irrimediabilmente divisa in forme impene-trabili e irriducibili. Lo spirito umano, che, col sussidiodell'imitazione, della coscienza, del linguaggio, della ri-flessione e di mille altri mezzi di comunicazione, do-vrebbe avere la possibilità di vincere, o almeno di allon-tanare molte delle barriere della natura, si troverebbe in-vece al di sotto degli organismi vegetali ed animali, che,pure con mezzi tanto minori, riescono lentamente a cor-rodere il ferreo meccanismo della loro natura e delleloro abitudini! Caratterizzare come naturalistica questafilosofia sarebbe un far torto alla natura, la quale è ri-spettosissima delle sue gerarchie organiche e non pone,per esempio, i vertebrati al di sotto dei protozoi.

Nel compilare le sue storie, lo Spengler si avvale, ol-

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tre che del criterio già accennato della divisione dei ge-neri, valido nella delimitazione estensiva delle famigliezoologiche in cui si compendia l'umanità, anche di unaltro criterio che, nell'ordine intensivo e dinamico, com-pleta il precedente. Non si dà storia senza successione,anzi senza un nesso nella successione. Ed anche qui,conforme alla distinzione già posta tra storia e natura,egli è costretto ad escogitare per la prima una maniera diconnessione analoga a quella che, nello storicismo veroe proprio, era la sintesi dialettica per Hegel o la causali-tà individuale per il Rickert. Per lui invece è il «desti-no», che lega tra loro i fatti storici, come la causalitàlega tra loro gli oggetti naturali262. Si può pensare quantaluce sia in grado di gettare sulla trama degli avvenimen-ti umani questo criterio ermeneutico.

Ma l'idea di una storia zoologica e quella del destino,da sole, non sarebbero bastate ad assicurare un durevolesuccesso allo Spengler, senza una terza idea direttiva,che compendia i pregi dell'una e dell'altra: quelladell'anticipazione storica dell'avvenire, che ha consenti-to all'autore di decretare la decadenza dell'occidente. Ein realtà, se le forme storiche dell'attività umana sonochiuse e impenetrabili l'una all'altra, sì che nessunoscambio e sostegno e soccorso è possibile dall'unaall'altra; se nell'interno di ciascuna forma la sola leggeche vige è quella di un destino cieco e inesorabile chenessuno sforzo umano può mutare, è legittimo inferire

262 Ibid., pp. 153 sgg.

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tre che del criterio già accennato della divisione dei ge-neri, valido nella delimitazione estensiva delle famigliezoologiche in cui si compendia l'umanità, anche di unaltro criterio che, nell'ordine intensivo e dinamico, com-pleta il precedente. Non si dà storia senza successione,anzi senza un nesso nella successione. Ed anche qui,conforme alla distinzione già posta tra storia e natura,egli è costretto ad escogitare per la prima una maniera diconnessione analoga a quella che, nello storicismo veroe proprio, era la sintesi dialettica per Hegel o la causali-tà individuale per il Rickert. Per lui invece è il «desti-no», che lega tra loro i fatti storici, come la causalitàlega tra loro gli oggetti naturali262. Si può pensare quantaluce sia in grado di gettare sulla trama degli avvenimen-ti umani questo criterio ermeneutico.

Ma l'idea di una storia zoologica e quella del destino,da sole, non sarebbero bastate ad assicurare un durevolesuccesso allo Spengler, senza una terza idea direttiva,che compendia i pregi dell'una e dell'altra: quelladell'anticipazione storica dell'avvenire, che ha consenti-to all'autore di decretare la decadenza dell'occidente. Ein realtà, se le forme storiche dell'attività umana sonochiuse e impenetrabili l'una all'altra, sì che nessunoscambio e sostegno e soccorso è possibile dall'unaall'altra; se nell'interno di ciascuna forma la sola leggeche vige è quella di un destino cieco e inesorabile chenessuno sforzo umano può mutare, è legittimo inferire

262 Ibid., pp. 153 sgg.

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che il futuro, non meno del passato, è già tutto racchiusonel presente, o meglio nello schema naturale che tra-scende egualmente tutti i tempi. A che darsi la pena percreare, con l'azione consapevole, il materiale della nuo-va storia? Questa storia è già fatta e narrata, perfino neisuoi particolari, con apocalittica certezza. Basta leggerele opere dello Spengler per apprendere, non solo il vati-cinio della decadenza dell'occidente, ma anche la rasse-gna delle forme storiche che questa decadenza andrà as-sumendo263.

Giunti a questo punto non crediamo utile proseguirel'esame dello scritto spengleriano, perché manca ognicriterio scientifico per giudicare il valore delle costru-zioni che vi son contenute. L'ingegnosità di alcune diesse è innegabile; ma l'arbitrarietà di tutto l'insieme ènon meno patente. Per gustare questo tipo di letteratura,bisogna congedare le categorie del giudizio storico edentrare in un ordine mentale del tutto diverso.

263 Pare tuttavia che l'idea di una decadenza fatale dell'occidente sia stata ab-bandonata dallo Spengler nella sua produzione più recente e che egli au-spichi l'inizio di un nuovo ciclo storico.

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che il futuro, non meno del passato, è già tutto racchiusonel presente, o meglio nello schema naturale che tra-scende egualmente tutti i tempi. A che darsi la pena percreare, con l'azione consapevole, il materiale della nuo-va storia? Questa storia è già fatta e narrata, perfino neisuoi particolari, con apocalittica certezza. Basta leggerele opere dello Spengler per apprendere, non solo il vati-cinio della decadenza dell'occidente, ma anche la rasse-gna delle forme storiche che questa decadenza andrà as-sumendo263.

Giunti a questo punto non crediamo utile proseguirel'esame dello scritto spengleriano, perché manca ognicriterio scientifico per giudicare il valore delle costru-zioni che vi son contenute. L'ingegnosità di alcune diesse è innegabile; ma l'arbitrarietà di tutto l'insieme ènon meno patente. Per gustare questo tipo di letteratura,bisogna congedare le categorie del giudizio storico edentrare in un ordine mentale del tutto diverso.

263 Pare tuttavia che l'idea di una decadenza fatale dell'occidente sia stata ab-bandonata dallo Spengler nella sua produzione più recente e che egli au-spichi l'inizio di un nuovo ciclo storico.

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HUSSERL E LA «FENOMENOLOGIA»

Se qualcuno ci domandasse: che cosa ha prodotto fi-losoficamente la Germania nell'ultimo ventennio? noisaremmo alquanto imbarazzati nel rispondere. Per fortu-na, in filosofia c'è sempre a disposizione un «distinguo»,che aiuta a trarsi d'impaccio. Così, noi potremmo ri-spondere distinguendo tra una produzione filosofica inun senso stretto, di quella che, per intenderci, forniscenuove Weltanschauungen, destinate a fecondare e ad ali-mentare la cultura di un'età storica, e una produzione fi-losoficamente indirizzata (gesinnte, si direbbe con untermine tedesco a cui non sappiamo sostituire un equi-valente italiano), che rappresenta appunto il frutto diquella fecondazione. E mentre la prima fa difetto o si af-fievolisce, della seconda possiamo dire che la Germaniad'oggi è ancora ricca abbastanza. Mi limito qui a ricor-dare l'attività storiografica del Troeltsch, del Vossler,dello Jaeger, del Meinecke, del Cassirer; e, in altri ordinidi studi, sarebbe facile porre accanto a questi nomi altridi pari importanza. E, poiché la cultura di un'età non si

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HUSSERL E LA «FENOMENOLOGIA»

Se qualcuno ci domandasse: che cosa ha prodotto fi-losoficamente la Germania nell'ultimo ventennio? noisaremmo alquanto imbarazzati nel rispondere. Per fortu-na, in filosofia c'è sempre a disposizione un «distinguo»,che aiuta a trarsi d'impaccio. Così, noi potremmo ri-spondere distinguendo tra una produzione filosofica inun senso stretto, di quella che, per intenderci, forniscenuove Weltanschauungen, destinate a fecondare e ad ali-mentare la cultura di un'età storica, e una produzione fi-losoficamente indirizzata (gesinnte, si direbbe con untermine tedesco a cui non sappiamo sostituire un equi-valente italiano), che rappresenta appunto il frutto diquella fecondazione. E mentre la prima fa difetto o si af-fievolisce, della seconda possiamo dire che la Germaniad'oggi è ancora ricca abbastanza. Mi limito qui a ricor-dare l'attività storiografica del Troeltsch, del Vossler,dello Jaeger, del Meinecke, del Cassirer; e, in altri ordinidi studi, sarebbe facile porre accanto a questi nomi altridi pari importanza. E, poiché la cultura di un'età non si

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misura soltanto dalle cime, se noi scendiamo a un livellomedio, ritroviamo negli scolari la solidità e la serietà dipreparazione dei loro maestri. Cito un esempio per tutti:i Beihefte der historischen Zeitschrift. Sono una ventinadi pubblicazioni venute fuori negli ultimi cinque o seianni, talune delle quali costituiscono dei veri modelli dimetodo o di abito filosofico nella ricerca storica264.

Questa ricchezza non dovrebbe far troppo rimpiange-re la povertà di pensiero sistematico o di nuoveWeltanschauungen. Non abbiamo ormai congedato datempo la pura filosofia e sostituito ad essa un'unità sin-tetica di filosofia e storia? Ma un momento strettamentefilosofico di questa sintesi deve pur esservi, sotto penache la stessa sintesi sfumi nel vuoto. Così, se noi consi-deriamo l'attività storiografica degli scrittori tedeschi te-sté citati, non tardiamo ad accorgerci che essa ha attintole «categorie», o quella che con un termine oggi in vogain Germania vien chiamata la «problematica» della ri-cerca e della costruzione storica, dal pensiero speculati-vo fiorito nel secolo XIX. Ora, se la tradizione di questopensiero dovesse estinguersi e al posto di essa dovessesubentrare la filosofia implicita negli scritti del Ludwigo dello Spengler, l'identità formale di filosofia e storiapotrebbe restare immutata; ma quale sostanziale impo-

264 Ricordiamo, per esempio, gli scritti sul Mazzini e sullo Jefferson di O.Vossler junior; quello del Simon su Ranke ed Hegel ecc. Insieme con que-sta collezione va segnalata l'altra, diretta dal Rickert, HeidelbergerAbhandlungen zur Philosophie und ihrer Geschichte (Tübingen, edit.Mohr).

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misura soltanto dalle cime, se noi scendiamo a un livellomedio, ritroviamo negli scolari la solidità e la serietà dipreparazione dei loro maestri. Cito un esempio per tutti:i Beihefte der historischen Zeitschrift. Sono una ventinadi pubblicazioni venute fuori negli ultimi cinque o seianni, talune delle quali costituiscono dei veri modelli dimetodo o di abito filosofico nella ricerca storica264.

Questa ricchezza non dovrebbe far troppo rimpiange-re la povertà di pensiero sistematico o di nuoveWeltanschauungen. Non abbiamo ormai congedato datempo la pura filosofia e sostituito ad essa un'unità sin-tetica di filosofia e storia? Ma un momento strettamentefilosofico di questa sintesi deve pur esservi, sotto penache la stessa sintesi sfumi nel vuoto. Così, se noi consi-deriamo l'attività storiografica degli scrittori tedeschi te-sté citati, non tardiamo ad accorgerci che essa ha attintole «categorie», o quella che con un termine oggi in vogain Germania vien chiamata la «problematica» della ri-cerca e della costruzione storica, dal pensiero speculati-vo fiorito nel secolo XIX. Ora, se la tradizione di questopensiero dovesse estinguersi e al posto di essa dovessesubentrare la filosofia implicita negli scritti del Ludwigo dello Spengler, l'identità formale di filosofia e storiapotrebbe restare immutata; ma quale sostanziale impo-

264 Ricordiamo, per esempio, gli scritti sul Mazzini e sullo Jefferson di O.Vossler junior; quello del Simon su Ranke ed Hegel ecc. Insieme con que-sta collezione va segnalata l'altra, diretta dal Rickert, HeidelbergerAbhandlungen zur Philosophie und ihrer Geschichte (Tübingen, edit.Mohr).

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verimento e imbastardimento ne risulterebbe per l'una eper l'altra! Appunto per ciò non possiamo considerarecon indifferenza la lenta degradazione del pensiero spe-culativo tedesco, ma dobbiamo vedere in essa una seriaminaccia per la cultura di domani, che vien già intaccataalla propria radice. Il fatto è anche più grave, perché nonriguarda soltanto la Germania, della quale occasional-mente ci vien fatto di parlare, ma tutto il nostro mondocontemporaneo.

Chiudendo questa digressione, cerchiamo di rispon-dere alla precedente domanda, circoscritta al primo ter-mine della distinzione che la chiarisce e la precisa: checosa ha prodotto speculativamente la Germania nell'ulti-mo ventennio? Abbiamo esposto in un altro capitolo ladottrina del Dilthey, ma essa si è formata in un periodoanteriore e in un diverso clima intellettuale. Apparten-gono invece all'età che noi consideriamo gli ulterioristudi sui problemi dello storicismo, in seno alla scuoladel Dilthey e ad altri indirizzi affini. Ma son poca cosa.Così, nell'opera dello Spranger265 la dottrina diltheyanadelle categorie è decaduta al livello di una tipologia(Typenlehre), cioè di una descrizione psicologica di for-me della vita (economica, politica, religiosa, ecc.). E,come suole avvenire, la decadenza che è appariscentenello scolaro non fa che accentuare una deficienza giàlatente nel maestro. Se poi passiamo agli altri corifeidello storicismo, il Rickert da molto tempo ha esaurito

265 SPRANGER, Lebensformen, Halle, 1921.

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verimento e imbastardimento ne risulterebbe per l'una eper l'altra! Appunto per ciò non possiamo considerarecon indifferenza la lenta degradazione del pensiero spe-culativo tedesco, ma dobbiamo vedere in essa una seriaminaccia per la cultura di domani, che vien già intaccataalla propria radice. Il fatto è anche più grave, perché nonriguarda soltanto la Germania, della quale occasional-mente ci vien fatto di parlare, ma tutto il nostro mondocontemporaneo.

Chiudendo questa digressione, cerchiamo di rispon-dere alla precedente domanda, circoscritta al primo ter-mine della distinzione che la chiarisce e la precisa: checosa ha prodotto speculativamente la Germania nell'ulti-mo ventennio? Abbiamo esposto in un altro capitolo ladottrina del Dilthey, ma essa si è formata in un periodoanteriore e in un diverso clima intellettuale. Apparten-gono invece all'età che noi consideriamo gli ulterioristudi sui problemi dello storicismo, in seno alla scuoladel Dilthey e ad altri indirizzi affini. Ma son poca cosa.Così, nell'opera dello Spranger265 la dottrina diltheyanadelle categorie è decaduta al livello di una tipologia(Typenlehre), cioè di una descrizione psicologica di for-me della vita (economica, politica, religiosa, ecc.). E,come suole avvenire, la decadenza che è appariscentenello scolaro non fa che accentuare una deficienza giàlatente nel maestro. Se poi passiamo agli altri corifeidello storicismo, il Rickert da molto tempo ha esaurito

265 SPRANGER, Lebensformen, Halle, 1921.

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la sua vena; il Troeltsch, nei suoi ultimi saggi teoreti-ci266, non è stato pari alla fama che s'era procacciatocome storico; il Simmel, col suo ingegno versatile, havagato per tutti i campi della ricerca filosofica, senza la-sciare durevole impronta in nessuno ed ha conchiuso ilproprio lavoro con una rapsodia metafisica267, più riccadi colore che di sostanza.

Di altre scuole fiorite nella seconda metà del secoloXIX non restano quasi più tracce. Nuove personalitàtentano di volta in volta di farsi strada – e l'editore Mei-ner si prodiga a diffonderne i nomi e i libri per tutta larepubblica delle lettere –; ma si tratta in gran parte divalori professionali, che servono, nei casi migliori, a te-nere accese nelle accademie la fiaccola della filosofia.Pure, al termine di questa sommaria riduzione, ci restaun residuo: la scuola di Husserl, che non soltanto è so-pravvissuta a tutte le altre del suo tempo, ma ha ancheintensificato ai nostri giorni la propria attività ed è og-getto di studi e di fervide discussioni. Di questo interes-samento abbiamo un'indiretta prova in numerosi saggipubblicati intorno ad essa anche in Italia, e dovuti a gio-vani studiosi nostri, che avendo compiuto in Germaniala loro preparazione scientifica, hanno fatto risuonar tranoi l'eco dei dibattiti sorti in seno a quella cultura268.266 TROELTSCH, Der Historismus und seine Probleme, 1922 (Gesammelte

Schriften, Bd. III).267 SIMMEL, Weltanschauung, 1922.268 Vedi A. BANFI, La tendenza logistica nella filosofia tedesca contempora-

nea e le «Ricerche logiche» di Edmund Husserl (Rivista di filosofia,1923); G. GRASSELLI, La fenomenologia di Husserl e l'ontologia di Martin

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la sua vena; il Troeltsch, nei suoi ultimi saggi teoreti-ci266, non è stato pari alla fama che s'era procacciatocome storico; il Simmel, col suo ingegno versatile, havagato per tutti i campi della ricerca filosofica, senza la-sciare durevole impronta in nessuno ed ha conchiuso ilproprio lavoro con una rapsodia metafisica267, più riccadi colore che di sostanza.

Di altre scuole fiorite nella seconda metà del secoloXIX non restano quasi più tracce. Nuove personalitàtentano di volta in volta di farsi strada – e l'editore Mei-ner si prodiga a diffonderne i nomi e i libri per tutta larepubblica delle lettere –; ma si tratta in gran parte divalori professionali, che servono, nei casi migliori, a te-nere accese nelle accademie la fiaccola della filosofia.Pure, al termine di questa sommaria riduzione, ci restaun residuo: la scuola di Husserl, che non soltanto è so-pravvissuta a tutte le altre del suo tempo, ma ha ancheintensificato ai nostri giorni la propria attività ed è og-getto di studi e di fervide discussioni. Di questo interes-samento abbiamo un'indiretta prova in numerosi saggipubblicati intorno ad essa anche in Italia, e dovuti a gio-vani studiosi nostri, che avendo compiuto in Germaniala loro preparazione scientifica, hanno fatto risuonar tranoi l'eco dei dibattiti sorti in seno a quella cultura268.266 TROELTSCH, Der Historismus und seine Probleme, 1922 (Gesammelte

Schriften, Bd. III).267 SIMMEL, Weltanschauung, 1922.268 Vedi A. BANFI, La tendenza logistica nella filosofia tedesca contempora-

nea e le «Ricerche logiche» di Edmund Husserl (Rivista di filosofia,1923); G. GRASSELLI, La fenomenologia di Husserl e l'ontologia di Martin

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Confesso di aver tentato più di una volta di avvicinar-mi con mente aperta alla filosofia dello Husserl; ma mene son sempre tirato indietro con un senso d'impazienzae di fastidio. Ma alla fine, avendo sentito dire che daessa era venuto fuori un nescio quid maius, con l'operadi Martin Heidegger, Sein und Zeit, ho voluto, anche perdebito di coscienza, in vista del compito d'informatoreche mi ero assunto verso i lettori della Critica, andaresino in fondo. E il risultato di questo lavoro ha confer-mato le mie prevenzioni precedenti, rendendole più ra-gionate e consapevoli.

Tuttavia nella speranza che la fatica da me spesa pos-sa giovare al risparmio della fatica altrui, darò qualchecenno dei magri contributi di questa filosofia. EdmondoHusserl fu scolaro del Brentano, dal quale apprese unacerta arte di descrizione psicologica e una certa cautelanel caratterizzare gli atti della coscienza nella propriasfera, senza farli deviare né in basso né in alto, né versoil materialismo biologico, né verso la metafisica ideali-stica. Ma, a differenza del Brentano che, ponendosi sulterreno della psicologia empirica, non era in grado di di-stinguere adeguatamente quel che di effimero e di mute-vole c'è nella coscienza individuale e quel che di perma-nente e di universale si manifesta per mezzo di essa, loHusserl intese l'esigenza di tale distinzione, senza la

Heidegger (Riv. di filos., 1928); E. GRASSI, Empirismo e naturalismo nellafilosofia tedesca contemporanea (ibid., 1929); lo stesso: Sviluppo e signi-ficato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea(ibid., 1929).

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Confesso di aver tentato più di una volta di avvicinar-mi con mente aperta alla filosofia dello Husserl; ma mene son sempre tirato indietro con un senso d'impazienzae di fastidio. Ma alla fine, avendo sentito dire che daessa era venuto fuori un nescio quid maius, con l'operadi Martin Heidegger, Sein und Zeit, ho voluto, anche perdebito di coscienza, in vista del compito d'informatoreche mi ero assunto verso i lettori della Critica, andaresino in fondo. E il risultato di questo lavoro ha confer-mato le mie prevenzioni precedenti, rendendole più ra-gionate e consapevoli.

Tuttavia nella speranza che la fatica da me spesa pos-sa giovare al risparmio della fatica altrui, darò qualchecenno dei magri contributi di questa filosofia. EdmondoHusserl fu scolaro del Brentano, dal quale apprese unacerta arte di descrizione psicologica e una certa cautelanel caratterizzare gli atti della coscienza nella propriasfera, senza farli deviare né in basso né in alto, né versoil materialismo biologico, né verso la metafisica ideali-stica. Ma, a differenza del Brentano che, ponendosi sulterreno della psicologia empirica, non era in grado di di-stinguere adeguatamente quel che di effimero e di mute-vole c'è nella coscienza individuale e quel che di perma-nente e di universale si manifesta per mezzo di essa, loHusserl intese l'esigenza di tale distinzione, senza la

Heidegger (Riv. di filos., 1928); E. GRASSI, Empirismo e naturalismo nellafilosofia tedesca contemporanea (ibid., 1929); lo stesso: Sviluppo e signi-ficato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea(ibid., 1929).

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quale ogni possibilità di una vera conoscenza scientificaci è preclusa. Erano ancora i tempi (sul finire del secoloscorso) in cui si discuteva delle origini psicologiche, oaddirittura biologiche, delle categorie mentali, e si con-fondevano nell'oscurità delle medesime fonti sensibili lerappresentazioni e i concetti, senza intendere che, co-munque si risolvesse il problema così detto delle origini,quello della validità oggettiva della conoscenza dovevaesser posto sopra un diverso piano mentale. Lo Husserlfu tra coloro che diedero opera a ripristinare il sensodell'oscurata distinzione. Le sue LogischeUntersuchungen intesero a fissare le differenze tra ilcontingente ordine psichico delle connessioni degli ele-menti rappresentativi, e l'ordine logico assoluto dellesintesi che si compiono nella coscienza tra i contenutioggettivi del sapere. Quelle ricerche logiche, malgradola loro mole farraginosa, che ne sminuì l'efficacia, inconfronto, per esempio, degli analoghi lavori che veni-vano nel frattempo pubblicando i seguaci della filosofiadei valori e della scuola di Marburgo, costituiscono ilmaggior titolo storico di benemerenza dello Husserl.

Si trattava però di un servigio del tutto transitorio, cheegli rendeva al pensiero contemporaneo: quasi del sem-plice rinvio a una dottrina – quella del Kant – in cui ladistinzione dei due ordini era stata chiaramente formula-ta e che su di essa aveva fondato una imponente dottrinadella scienza. Lo Husserl invece volle farne il punto dipartenza di una propria dottrina, volta a determinare in

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quale ogni possibilità di una vera conoscenza scientificaci è preclusa. Erano ancora i tempi (sul finire del secoloscorso) in cui si discuteva delle origini psicologiche, oaddirittura biologiche, delle categorie mentali, e si con-fondevano nell'oscurità delle medesime fonti sensibili lerappresentazioni e i concetti, senza intendere che, co-munque si risolvesse il problema così detto delle origini,quello della validità oggettiva della conoscenza dovevaesser posto sopra un diverso piano mentale. Lo Husserlfu tra coloro che diedero opera a ripristinare il sensodell'oscurata distinzione. Le sue LogischeUntersuchungen intesero a fissare le differenze tra ilcontingente ordine psichico delle connessioni degli ele-menti rappresentativi, e l'ordine logico assoluto dellesintesi che si compiono nella coscienza tra i contenutioggettivi del sapere. Quelle ricerche logiche, malgradola loro mole farraginosa, che ne sminuì l'efficacia, inconfronto, per esempio, degli analoghi lavori che veni-vano nel frattempo pubblicando i seguaci della filosofiadei valori e della scuola di Marburgo, costituiscono ilmaggior titolo storico di benemerenza dello Husserl.

Si trattava però di un servigio del tutto transitorio, cheegli rendeva al pensiero contemporaneo: quasi del sem-plice rinvio a una dottrina – quella del Kant – in cui ladistinzione dei due ordini era stata chiaramente formula-ta e che su di essa aveva fondato una imponente dottrinadella scienza. Lo Husserl invece volle farne il punto dipartenza di una propria dottrina, volta a determinare in

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modo indipendente, non solo dalla genesi soggettiva,ma anche dalla realtà degli oggetti esterni che si offronoalla conoscenza, la struttura di quei rapporti logici. Nevenne fuori una natura ibrida, tra le formule della logi-stica e le categorie kantiane, e forse, più che ad altri, vi-cina alle intentiones logiche della scolastica. Egli chia-mò questa dottrina, o meglio, il metodo che conduce adessa, col nome di fenomenologia: un nome che, nellastoria del pensiero, si era caricato di ben altro senso eche invece, nel suo metodo, adombra una mera descri-zione e connessione strutturale di contenuti di coscien-za.

Bisogna tuttavia riconoscere che, nella esecuzione diquesto piano, lo Husserl e una vasta schiera di scolari alsuo seguito, sono stati di una minuziosità implacabile.Nulla di ciò che vegeta sotto il sole si è sottratto alla «ri-duzione fenomenologica» della scuola, tanto più chequesta, dal 1912, ha avuto a sua disposizione una rivista,appositamente fondata, il Jahrbuch für Philosophie undphänomenologische Forschung, diretto dallo Husserl, incollaborazione col Geiger, lo Pfänder, il Reinach e loScheler. Qualche scolaro intelligente ha finito, lungo lavia, per stancarsi del gioco: tale per esempio lo Scheler,che è passato, per ragione di contrari, dalla fenomenolo-gia all'ontologismo realistico, e di qui ancora al pantei-smo schellinghiano. Altri invece si son trincerati nellaroccaforte; ed altri, come lo Heidegger, per una sottiledialettica di contrari, sono passati all'esistenzialismo.

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modo indipendente, non solo dalla genesi soggettiva,ma anche dalla realtà degli oggetti esterni che si offronoalla conoscenza, la struttura di quei rapporti logici. Nevenne fuori una natura ibrida, tra le formule della logi-stica e le categorie kantiane, e forse, più che ad altri, vi-cina alle intentiones logiche della scolastica. Egli chia-mò questa dottrina, o meglio, il metodo che conduce adessa, col nome di fenomenologia: un nome che, nellastoria del pensiero, si era caricato di ben altro senso eche invece, nel suo metodo, adombra una mera descri-zione e connessione strutturale di contenuti di coscien-za.

Bisogna tuttavia riconoscere che, nella esecuzione diquesto piano, lo Husserl e una vasta schiera di scolari alsuo seguito, sono stati di una minuziosità implacabile.Nulla di ciò che vegeta sotto il sole si è sottratto alla «ri-duzione fenomenologica» della scuola, tanto più chequesta, dal 1912, ha avuto a sua disposizione una rivista,appositamente fondata, il Jahrbuch für Philosophie undphänomenologische Forschung, diretto dallo Husserl, incollaborazione col Geiger, lo Pfänder, il Reinach e loScheler. Qualche scolaro intelligente ha finito, lungo lavia, per stancarsi del gioco: tale per esempio lo Scheler,che è passato, per ragione di contrari, dalla fenomenolo-gia all'ontologismo realistico, e di qui ancora al pantei-smo schellinghiano. Altri invece si son trincerati nellaroccaforte; ed altri, come lo Heidegger, per una sottiledialettica di contrari, sono passati all'esistenzialismo.

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In un libro recente: Ideen zu einer reinenPhänomenologie und phänomenologische Philosophie(Halle, 19283), lo Husserl ha voluto dare un'esposizioneriassuntiva, ma abbastanza particolareggiata, del suometodo e dei risultati raggiunti. Su di esso principal-mente fonderemo la nostra breve esposizione. Egli co-mincia col distinguere la psicologia dalla fenomenolo-gia, la prima come scienza di fatti, la seconda comescienza eidetica (da eidos = forma o essenza). Mentre ifatti hanno realtà empirica, le essenze sono irreali, nelsenso che hanno un carattere trascendentale e astratto.Ma a loro volta esse sono, a differenza dei primi, uni-versali e necessarie; e il loro tessuto costituisce il fonda-mento della realtà empirica dell'esperienza. Con esse siviene in contatto mercé un'intuizione originaria, cheporta con sé i segni di una immediata evidenza269. Di quigià si vede che la loro natura è più affine a quella degliassiomi matematici o alle essenze intelligibili del plato-nismo, che non alle categorie kantiane. Tuttavia non ba-sta dire che sono intuite; l'intuizione è piuttosto un pun-to di arrivo che di partenza. Ad essa infatti si giunge at-traverso un processo, che Husserl chiama riduzione fe-nomenologica, o, con un termine greco, epoché, me-diante il quale noi escludiamo (o mettiamo tra parentesi= ausschalten) tutto ciò che nel contenuto della coscien-za ha riferimento col soggetto psicologico e con l'esi-stenza oggettiva, in modo che resta la schietta essenza

269 HUSSERL, Ideen zu einer reinen Phänom., ecc., pp. 3, 4, 17, 18.

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In un libro recente: Ideen zu einer reinenPhänomenologie und phänomenologische Philosophie(Halle, 19283), lo Husserl ha voluto dare un'esposizioneriassuntiva, ma abbastanza particolareggiata, del suometodo e dei risultati raggiunti. Su di esso principal-mente fonderemo la nostra breve esposizione. Egli co-mincia col distinguere la psicologia dalla fenomenolo-gia, la prima come scienza di fatti, la seconda comescienza eidetica (da eidos = forma o essenza). Mentre ifatti hanno realtà empirica, le essenze sono irreali, nelsenso che hanno un carattere trascendentale e astratto.Ma a loro volta esse sono, a differenza dei primi, uni-versali e necessarie; e il loro tessuto costituisce il fonda-mento della realtà empirica dell'esperienza. Con esse siviene in contatto mercé un'intuizione originaria, cheporta con sé i segni di una immediata evidenza269. Di quigià si vede che la loro natura è più affine a quella degliassiomi matematici o alle essenze intelligibili del plato-nismo, che non alle categorie kantiane. Tuttavia non ba-sta dire che sono intuite; l'intuizione è piuttosto un pun-to di arrivo che di partenza. Ad essa infatti si giunge at-traverso un processo, che Husserl chiama riduzione fe-nomenologica, o, con un termine greco, epoché, me-diante il quale noi escludiamo (o mettiamo tra parentesi= ausschalten) tutto ciò che nel contenuto della coscien-za ha riferimento col soggetto psicologico e con l'esi-stenza oggettiva, in modo che resta la schietta essenza

269 HUSSERL, Ideen zu einer reinen Phänom., ecc., pp. 3, 4, 17, 18.

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logica da intuire270. E a chi dubita che in questo modopossa non rimaner nulla, lo Husserl risponde che «la co-scienza ha una proprietà che, nella sua essenza propria,non è intaccata dalla eliminazione fenomenologica. Re-sta così un residuo fenomenologico, come una specialeregione dell'essere, che di fatto può divenire il campo diuna nuova scienza, la fenomenologia». E soggiunge che,finché la possibilità di questa astrazione non era ancoraconosciuta, il mondo fenomenologico doveva essere ne-cessariamente ignoto o poco noto.

Egli sarebbe così il Colombo di questo nuovo mondo.E, a sua volta, ha avuto il proprio Toscanelli in Cartesio,che col Cogito emergente dal dubbio per il fatto stessodel dubitare, ha aperto la via della ricerca fenomenolo-gica, cioè della pura immanenza del pensiero. Ma im-manenza a che cosa? Al seguito del Cogito cartesianoc'è un sum, che vuol essere una realtà senz'altro, unaconquista reale del pensiero; lo Husserl invece, con lasua riduzione fenomenologica, si dà cura di chaponnerquel cogito, in modo che non ne risulta nulla di nuovo, omeglio ne risulta un sum cogitans, dove l'essere-reale èdecurtato a essere-copula. Il metodo dello Husserl è tut-to qui. Da qualunque problema, che concerna un che disussistente, lo Husserl spunterà (o porrà tra parentesi)tutto ciò che è riferimento concreto della coscienza aqualche cosa e si fermerà a registrare il modo di riferirsi270 Questa riduzione, malgrado il termine usato (ἐποχὴ) che ricorda lo scettici-

smo antico, non ha nessun significato scettico: tutto quel ch'è messo tra pa-rentesi resta valido a titolo di realtà cosciente.

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logica da intuire270. E a chi dubita che in questo modopossa non rimaner nulla, lo Husserl risponde che «la co-scienza ha una proprietà che, nella sua essenza propria,non è intaccata dalla eliminazione fenomenologica. Re-sta così un residuo fenomenologico, come una specialeregione dell'essere, che di fatto può divenire il campo diuna nuova scienza, la fenomenologia». E soggiunge che,finché la possibilità di questa astrazione non era ancoraconosciuta, il mondo fenomenologico doveva essere ne-cessariamente ignoto o poco noto.

Egli sarebbe così il Colombo di questo nuovo mondo.E, a sua volta, ha avuto il proprio Toscanelli in Cartesio,che col Cogito emergente dal dubbio per il fatto stessodel dubitare, ha aperto la via della ricerca fenomenolo-gica, cioè della pura immanenza del pensiero. Ma im-manenza a che cosa? Al seguito del Cogito cartesianoc'è un sum, che vuol essere una realtà senz'altro, unaconquista reale del pensiero; lo Husserl invece, con lasua riduzione fenomenologica, si dà cura di chaponnerquel cogito, in modo che non ne risulta nulla di nuovo, omeglio ne risulta un sum cogitans, dove l'essere-reale èdecurtato a essere-copula. Il metodo dello Husserl è tut-to qui. Da qualunque problema, che concerna un che disussistente, lo Husserl spunterà (o porrà tra parentesi)tutto ciò che è riferimento concreto della coscienza aqualche cosa e si fermerà a registrare il modo di riferirsi270 Questa riduzione, malgrado il termine usato (ἐποχὴ) che ricorda lo scettici-

smo antico, non ha nessun significato scettico: tutto quel ch'è messo tra pa-rentesi resta valido a titolo di realtà cosciente.

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della coscienza, o, con un termine attinto alla filosofiamedievale, l'intenzionalità di essa. Si tratti, per esempio,di risolvere il tormentoso problema della realtà della na-tura fisica: lo Husserl ha pronta la sua risposta, quasiprima di averla formulata: essa non è che l'intenzionalecorrelato del pensiero in una sua logica determinazio-ne271. Sì, ma è tutta qui la natura? o c'è qualche altracosa che con questa pretesa immanenza non riusciamoad afferrare? Lo Husserl risponderà che ciò non l'inte-ressa, fenomenologicamente, perché l'ha messo già traparentesi. In questo modo, mi par che si metta tra paren-tesi tutto ciò che c'interessa della filosofia: di quello cheresta gli facciamo dono volentieri.

Il più sconcertante è che la dottrina, o meglio il meto-do dello Husserl, è assolutamente incriticabile nel suoprincipio, e non può essere confutato che per via indiret-ta, dalla sterilità dei suoi risultati. Immaginiamo un indi-viduo dall'umore malinconico (come si diceva una vol-ta; oggi forse si direbbe un paranoico) che si chiuda inuna stanza e pretenda farsi un'idea del mondo dalle om-bre delle cose che si disegnano sulla parete. L'esempioha qualche analogia con quello dell'uomo della cavernaplatonica, con la differenza però che costui non avevaaltra alternativa, mentre l'individuo di cui parliamo s'èrinchiuso da sé, nella pretesa di veder meglio. Ed inol-tre, egli ha tanta consapevolezza del suo procedere chesi guarda bene dal confondere le ombre con le cose, e

271 Op. cit., p. 101.

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della coscienza, o, con un termine attinto alla filosofiamedievale, l'intenzionalità di essa. Si tratti, per esempio,di risolvere il tormentoso problema della realtà della na-tura fisica: lo Husserl ha pronta la sua risposta, quasiprima di averla formulata: essa non è che l'intenzionalecorrelato del pensiero in una sua logica determinazio-ne271. Sì, ma è tutta qui la natura? o c'è qualche altracosa che con questa pretesa immanenza non riusciamoad afferrare? Lo Husserl risponderà che ciò non l'inte-ressa, fenomenologicamente, perché l'ha messo già traparentesi. In questo modo, mi par che si metta tra paren-tesi tutto ciò che c'interessa della filosofia: di quello cheresta gli facciamo dono volentieri.

Il più sconcertante è che la dottrina, o meglio il meto-do dello Husserl, è assolutamente incriticabile nel suoprincipio, e non può essere confutato che per via indiret-ta, dalla sterilità dei suoi risultati. Immaginiamo un indi-viduo dall'umore malinconico (come si diceva una vol-ta; oggi forse si direbbe un paranoico) che si chiuda inuna stanza e pretenda farsi un'idea del mondo dalle om-bre delle cose che si disegnano sulla parete. L'esempioha qualche analogia con quello dell'uomo della cavernaplatonica, con la differenza però che costui non avevaaltra alternativa, mentre l'individuo di cui parliamo s'èrinchiuso da sé, nella pretesa di veder meglio. Ed inol-tre, egli ha tanta consapevolezza del suo procedere chesi guarda bene dal confondere le ombre con le cose, e

271 Op. cit., p. 101.

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alla propria scienza attribuisce il nome che le compete,di una scienza d'ombre. Il suo assunto è inconfutabile;contro di esso non v'è che la saggezza dell'adagio: chi sicontenta gode. E lo Husserl, in verità, si contenta dipoco, di uno schema senza rilievo, che adombra appenail contorno delle cose.

Veniamo a qualche esemplificazione. E cominciamocol distinguere due significati del termine coscienza:psicologico l'uno, che concerne l'atto appercettivo conriferimento di un contenuto consapevole a un individuo,fenomenologico l'altro, che prescinde da queste condi-zioni, di uomo, di corpo, ecc., e che concerne le condi-zioni universali della pensabilità. In questo secondo sen-so, la coscienza è unità primaria, al di là di ogni diffe-renza, di ciò che chiamiamo psichico e fisico272. Essa sisdoppia in un aspetto soggettivo e in un aspetto oggetti-vo, in una noesi e in un noema, cioè in un'attività inten-zionale e in un contenuto mentale, che ha relazioni strut-turali intrinseche, in virtù della coerenza logica che necollega le parti costitutive. Ogni conoscenza si compen-dia pertanto in un rapporto noetico-noematico.

Ora è chiaro che proprio qui comincia a svegliarsi ilnostro interesse filosofico. Qual è la natura di questorapporto? Platonismo, kantismo, hegelismo sono legrandi scelte che si offrono alla riflessione, e, qualunquesia il loro risultato, sono sforzi potenti per veder chiaronel fondo stesso delle cose. Invece l'interesse del feno-272 Ibid., pp. 103-104.

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alla propria scienza attribuisce il nome che le compete,di una scienza d'ombre. Il suo assunto è inconfutabile;contro di esso non v'è che la saggezza dell'adagio: chi sicontenta gode. E lo Husserl, in verità, si contenta dipoco, di uno schema senza rilievo, che adombra appenail contorno delle cose.

Veniamo a qualche esemplificazione. E cominciamocol distinguere due significati del termine coscienza:psicologico l'uno, che concerne l'atto appercettivo conriferimento di un contenuto consapevole a un individuo,fenomenologico l'altro, che prescinde da queste condi-zioni, di uomo, di corpo, ecc., e che concerne le condi-zioni universali della pensabilità. In questo secondo sen-so, la coscienza è unità primaria, al di là di ogni diffe-renza, di ciò che chiamiamo psichico e fisico272. Essa sisdoppia in un aspetto soggettivo e in un aspetto oggetti-vo, in una noesi e in un noema, cioè in un'attività inten-zionale e in un contenuto mentale, che ha relazioni strut-turali intrinseche, in virtù della coerenza logica che necollega le parti costitutive. Ogni conoscenza si compen-dia pertanto in un rapporto noetico-noematico.

Ora è chiaro che proprio qui comincia a svegliarsi ilnostro interesse filosofico. Qual è la natura di questorapporto? Platonismo, kantismo, hegelismo sono legrandi scelte che si offrono alla riflessione, e, qualunquesia il loro risultato, sono sforzi potenti per veder chiaronel fondo stesso delle cose. Invece l'interesse del feno-272 Ibid., pp. 103-104.

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menologo si volge a tutt'altro segno. Scoperto il nucleoinattaccabile della coscienza, constatata la corrisponden-za tra la noesi e il noema, si tratta per lui di descrivereempiricamente i contenuti mentali e i loro rapporti in-tenzionali, senza scrutare oltre di essi. Egli forma cosìdei gruppi, delle regioni, dei tipi di fatti di coscienza edindaga la loro interna struttura e le loro connessioni congli altri gruppi, differenziandosi dal mero psicologo,perché non descrive la genesi soggettiva di essi, ma iloro nessi intenzionali in una coscienza in genere. Stu-diando per esempio la religione, egli si troverà di frontea elementi rappresentativi, noematici, come l'«anima»,1'«immortalità», la «paura del nume», la «morte», la«retribuzione», la «fede», ecc., e, senza chiedersi a qualiforme o modi della realtà vera e propria essi si riferisco-no, descrive la loro struttura e i loro rapporti «intenzio-nali» nella coscienza del credente.

Può essere soddisfatto Husserl di questa sistemazio-ne? si chiede lo Stefanini, e risponde che «dovrebbe, manon può. Non può, perché la legittimazione di ogni for-ma di esistenza, per il solo fatto di essere compresa nelcontenuto noematico della coscienza, si riduce a un po-sitivismo grossolano, che pretende trovare la norma in-trinseca nell'accadimento, e l'accadimento valido di persé, indipendentemente da ogni valutazione unitaria... Mal'esserci di un accadimento nell'orbita della coscienzavale così poco a determinare il suo esserci di diritto,quanto poco l'esserci di un tumore maligno nell'organi-

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menologo si volge a tutt'altro segno. Scoperto il nucleoinattaccabile della coscienza, constatata la corrisponden-za tra la noesi e il noema, si tratta per lui di descrivereempiricamente i contenuti mentali e i loro rapporti in-tenzionali, senza scrutare oltre di essi. Egli forma cosìdei gruppi, delle regioni, dei tipi di fatti di coscienza edindaga la loro interna struttura e le loro connessioni congli altri gruppi, differenziandosi dal mero psicologo,perché non descrive la genesi soggettiva di essi, ma iloro nessi intenzionali in una coscienza in genere. Stu-diando per esempio la religione, egli si troverà di frontea elementi rappresentativi, noematici, come l'«anima»,1'«immortalità», la «paura del nume», la «morte», la«retribuzione», la «fede», ecc., e, senza chiedersi a qualiforme o modi della realtà vera e propria essi si riferisco-no, descrive la loro struttura e i loro rapporti «intenzio-nali» nella coscienza del credente.

Può essere soddisfatto Husserl di questa sistemazio-ne? si chiede lo Stefanini, e risponde che «dovrebbe, manon può. Non può, perché la legittimazione di ogni for-ma di esistenza, per il solo fatto di essere compresa nelcontenuto noematico della coscienza, si riduce a un po-sitivismo grossolano, che pretende trovare la norma in-trinseca nell'accadimento, e l'accadimento valido di persé, indipendentemente da ogni valutazione unitaria... Mal'esserci di un accadimento nell'orbita della coscienzavale così poco a determinare il suo esserci di diritto,quanto poco l'esserci di un tumore maligno nell'organi-

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smo a dimostrare la sua utilità nel complesso delle fun-zioni vitali»273.

Si spiega così che la ricerca fenomenologica sia potu-ta in poco tempo dilagare a tal segno, da coprire, comeuna sterminata fungaia, tutto il terreno della filosofia.Non c'è problema o gruppo di problemi che non sia su-scettivo di una facile riduzione di tal genere e che, reci-so il nesso con la realtà profonda delle cose, non possaessere interpretato per quel che significa per una co-scienza in genere. Noi vedremo i frutti di questa inter-pretazione nell'esistenzialismo che, sorto originariamen-te con un motivo antitetico di contrapporre l'esistenzaalla mera costruzione concettuale, ha trovato facile e co-modo, nel corso del suo sviluppo, di sottoporre alla ri-duzione fenomenologica la stessa esistenza, facendonequalcosa di meramente «intenzionale».

273 L. STEFANINI, Il momento dell'educazione, 1938, pp. 41-42.

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smo a dimostrare la sua utilità nel complesso delle fun-zioni vitali»273.

Si spiega così che la ricerca fenomenologica sia potu-ta in poco tempo dilagare a tal segno, da coprire, comeuna sterminata fungaia, tutto il terreno della filosofia.Non c'è problema o gruppo di problemi che non sia su-scettivo di una facile riduzione di tal genere e che, reci-so il nesso con la realtà profonda delle cose, non possaessere interpretato per quel che significa per una co-scienza in genere. Noi vedremo i frutti di questa inter-pretazione nell'esistenzialismo che, sorto originariamen-te con un motivo antitetico di contrapporre l'esistenzaalla mera costruzione concettuale, ha trovato facile e co-modo, nel corso del suo sviluppo, di sottoporre alla ri-duzione fenomenologica la stessa esistenza, facendonequalcosa di meramente «intenzionale».

273 L. STEFANINI, Il momento dell'educazione, 1938, pp. 41-42.

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XVI

LA FILOSOFIA DELL'ESISTENZA

Sulla così detta filosofia dell'esistenza io credo siagiunto il tempo di formulare un giudizio molto limitati-vo, che la riconduce nei confini della sua realtà di fatto(o del suo Dasein, come si direbbe nel nuovo gergo), ol-tre i quali è venuta rapidamente dilagando. C'è da resta-re a prima vista sorpresi nel constatare che una filosofia,la cui intima essenza si compendia in una specie di rivo-luzione filosofica del nihilismo, abbia potuto avere unadiffusione così rapida e un'adesione così clamorosa neisettori più disparati della cultura, tra la gioventù scapi-gliata non meno che nel sedentario mondo professorale.È la filosofia della crisi, si sente dire tutt'intorno. È vero,ma questo non basta a giustificarne il successo. Poichéessa è non un'espressione generica della crisi spiritualeche attraversiamo, ma una soluzione nihilista della crisistessa, bisognerebbe notare nei suoi fautori un sensocupo di tormento e di angoscia; invece si osserva un'ariacompiaciuta e soddisfatta, e quasi un gusto di crogiolar-si nel fondo limaccioso della vita che i fondatori della

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LA FILOSOFIA DELL'ESISTENZA

Sulla così detta filosofia dell'esistenza io credo siagiunto il tempo di formulare un giudizio molto limitati-vo, che la riconduce nei confini della sua realtà di fatto(o del suo Dasein, come si direbbe nel nuovo gergo), ol-tre i quali è venuta rapidamente dilagando. C'è da resta-re a prima vista sorpresi nel constatare che una filosofia,la cui intima essenza si compendia in una specie di rivo-luzione filosofica del nihilismo, abbia potuto avere unadiffusione così rapida e un'adesione così clamorosa neisettori più disparati della cultura, tra la gioventù scapi-gliata non meno che nel sedentario mondo professorale.È la filosofia della crisi, si sente dire tutt'intorno. È vero,ma questo non basta a giustificarne il successo. Poichéessa è non un'espressione generica della crisi spiritualeche attraversiamo, ma una soluzione nihilista della crisistessa, bisognerebbe notare nei suoi fautori un sensocupo di tormento e di angoscia; invece si osserva un'ariacompiaciuta e soddisfatta, e quasi un gusto di crogiolar-si nel fondo limaccioso della vita che i fondatori della

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nuova filosofia si son dati a sommovere. Nei giovaniquesto atteggiamento è spiegabile: essi fanno come ibambini che amano voltolarsi nella fanghiglia senza co-scienza d'imbrattarsi: omnia munda mundis. C'è di piùnell'esistenzialismo qualcosa che eccita la fantasia conla curiosità morbosa di un romanzo giallo. Alle gravi esonnolente categorie della filosofia tradizionale, essosostituisce nuovi e immaginosi simboli: l'incarnazione,l'offerta, la preoccupazione, l'angoscia, il salto, il nau-fragio, ecc., che dànno alle vicende del mondo e dellavita un torbido senso romanzesco, che attira e ripugnanel medesimo tempo. L'analogia col romanzo giallo sipuò spingere anche oltre: nell'un caso e nell'altro si dàun intreccio di elementi, che nel giro del racconto si vacomplicando e arruffando e che crea nell'animo del let-tore un senso di tensione spasmodica sempre crescente;ma poi all'improvviso tutto s'affloscia, come una grossavescica quand'è punta da uno spillo, e l'inanità dell'epi-logo vanifica la precedente tensione. L'esistenzialismo èun po' il romanzo giallo dell'esistenza.

Come si spiega allora il suo successo tra i professoridi filosofia, ai quali non vorremmo certo fare il torto dicollocarli sul piano degli autori o dei lettori assidui deiromanzi gialli? C'è un altro aspetto dell'esistenzialismoda considerare. Esso ha origini remote e prossime: re-mote, nel solitario tormento di un'anima religiosa, delloscrittore danese Soren Kierkegaard, in cui la reazionepassionale contro il razionalismo hegeliano assunse, cir-

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nuova filosofia si son dati a sommovere. Nei giovaniquesto atteggiamento è spiegabile: essi fanno come ibambini che amano voltolarsi nella fanghiglia senza co-scienza d'imbrattarsi: omnia munda mundis. C'è di piùnell'esistenzialismo qualcosa che eccita la fantasia conla curiosità morbosa di un romanzo giallo. Alle gravi esonnolente categorie della filosofia tradizionale, essosostituisce nuovi e immaginosi simboli: l'incarnazione,l'offerta, la preoccupazione, l'angoscia, il salto, il nau-fragio, ecc., che dànno alle vicende del mondo e dellavita un torbido senso romanzesco, che attira e ripugnanel medesimo tempo. L'analogia col romanzo giallo sipuò spingere anche oltre: nell'un caso e nell'altro si dàun intreccio di elementi, che nel giro del racconto si vacomplicando e arruffando e che crea nell'animo del let-tore un senso di tensione spasmodica sempre crescente;ma poi all'improvviso tutto s'affloscia, come una grossavescica quand'è punta da uno spillo, e l'inanità dell'epi-logo vanifica la precedente tensione. L'esistenzialismo èun po' il romanzo giallo dell'esistenza.

Come si spiega allora il suo successo tra i professoridi filosofia, ai quali non vorremmo certo fare il torto dicollocarli sul piano degli autori o dei lettori assidui deiromanzi gialli? C'è un altro aspetto dell'esistenzialismoda considerare. Esso ha origini remote e prossime: re-mote, nel solitario tormento di un'anima religiosa, delloscrittore danese Soren Kierkegaard, in cui la reazionepassionale contro il razionalismo hegeliano assunse, cir-

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ca un secolo fa, forme contorte e passionali, ma non pri-ve di autentica grandezza e potenza, che si espressero inun linguaggio inusitato, ma efficace nel ritrarre il dram-ma di un'anima assetata di Dio, che dagli abissi della di-sperazione riesce a momenti a placarsi in una certezzarasserenatrice. Questo dramma, vuotato del suo conte-nuto religioso e del suo accento personalissimo e irripe-tibile, è stato ripreso, tipizzato e quasi standardizzato daalcuni professori tedeschi contemporanei, i quali, sul ca-novaccio di un dramma di un'esistenza, hanno intessutoil dramma dell'esistenza. Certo, il rifacimento non è sta-to del tutto arbitrario: scomparso l'antico contenuto reli-gioso, ma permanendo intatti i nomi e i simboli, s'è insi-nuato in essi un contenuto nuovo, attinto al torbido pro-cesso di fermentazione dello spirito contemporaneo; el'accento di un'esasperata religiosità è servito anch'essoa coprire e a dissimulare un'irreligiosità egualmente esa-sperata. Si aggiunga che quei professori, nell'effettuareil rifacimento, hanno portato con sé un abito dottrinale esistematico acquisito nelle scuole tradizionali della filo-sofia, per mezzo del quale sono riusciti a dare un'appa-renza così astrusa ed ermetica al loro effettivo lavoro,che i tecnici della speculazione filosofica ne son rimastimeravigliati e commossi, come se si fossero trovati difronte a un'autentica rivelazione di un pensiero nuovo eprofondo. La gioia di riuscire a capirli, e più spesso losgomento di non averli capiti, hanno sopraffatto ognivalutazione di quel che effettivamente fosse l'oggettodella loro comprensione o incomprensione. È accaduto

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ca un secolo fa, forme contorte e passionali, ma non pri-ve di autentica grandezza e potenza, che si espressero inun linguaggio inusitato, ma efficace nel ritrarre il dram-ma di un'anima assetata di Dio, che dagli abissi della di-sperazione riesce a momenti a placarsi in una certezzarasserenatrice. Questo dramma, vuotato del suo conte-nuto religioso e del suo accento personalissimo e irripe-tibile, è stato ripreso, tipizzato e quasi standardizzato daalcuni professori tedeschi contemporanei, i quali, sul ca-novaccio di un dramma di un'esistenza, hanno intessutoil dramma dell'esistenza. Certo, il rifacimento non è sta-to del tutto arbitrario: scomparso l'antico contenuto reli-gioso, ma permanendo intatti i nomi e i simboli, s'è insi-nuato in essi un contenuto nuovo, attinto al torbido pro-cesso di fermentazione dello spirito contemporaneo; el'accento di un'esasperata religiosità è servito anch'essoa coprire e a dissimulare un'irreligiosità egualmente esa-sperata. Si aggiunga che quei professori, nell'effettuareil rifacimento, hanno portato con sé un abito dottrinale esistematico acquisito nelle scuole tradizionali della filo-sofia, per mezzo del quale sono riusciti a dare un'appa-renza così astrusa ed ermetica al loro effettivo lavoro,che i tecnici della speculazione filosofica ne son rimastimeravigliati e commossi, come se si fossero trovati difronte a un'autentica rivelazione di un pensiero nuovo eprofondo. La gioia di riuscire a capirli, e più spesso losgomento di non averli capiti, hanno sopraffatto ognivalutazione di quel che effettivamente fosse l'oggettodella loro comprensione o incomprensione. È accaduto

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ad essi come a chi traduce un brano molto intricato dallatino o dal greco, che resta talmente soddisfatto se rie-sce a intenderne il senso, che non gli viene neppure ildubbio sull'intrinseco valore di ciò che è espresso inquel brano. L'ammirazione di molti professori per l'esi-stenzialismo non ha spesso questa inconfessata ragione?

Ma veniamo alle cose. Abbiamo detto che nell'esi-stenzialismo confluiscono l'esperienza personale diKierkegaard (si potrebbe aggiungere anche, più limitata-mente, di Nietzsche) e la generalizzazione o la tipizza-zione di quell'esperienza. Quanto al primo elemento,non si tratta di una riesumazione meramente filologica,senza addentellati nella realtà dello spirito contempora-neo. L'esperienza di Kierkegaard è una rivendicazioneassidua dell'irrazionale e dell'immediato, come esisten-za, come vita, come fede, come personalità, contro i va-lori universali della ragione, che nella loro pretesa di va-lere per tutti, assorbono e annullano quel che è singolarein ciascuno. Ciò che l'individuo è nella sua realtà effet-tuale, le sue ansie e le sue speranze, il suo sentimentodella vita e della morte, la sua personale salvezza o lasua perdizione, tutto è neutralizzato nell'impassibilità diuno spirito impersonale che divora i suoi figli, incurantedel loro particolare destino. Ora, questo tema irraziona-listico che, come vedremo, il Kierkegaard svolse passio-natamente in antitesi col razionalismo hegeliano, è an-che il tema più insistente e persistente della filosofiacontemporanea. Muta spesso il termine dell'antitesi,

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ad essi come a chi traduce un brano molto intricato dallatino o dal greco, che resta talmente soddisfatto se rie-sce a intenderne il senso, che non gli viene neppure ildubbio sull'intrinseco valore di ciò che è espresso inquel brano. L'ammirazione di molti professori per l'esi-stenzialismo non ha spesso questa inconfessata ragione?

Ma veniamo alle cose. Abbiamo detto che nell'esi-stenzialismo confluiscono l'esperienza personale diKierkegaard (si potrebbe aggiungere anche, più limitata-mente, di Nietzsche) e la generalizzazione o la tipizza-zione di quell'esperienza. Quanto al primo elemento,non si tratta di una riesumazione meramente filologica,senza addentellati nella realtà dello spirito contempora-neo. L'esperienza di Kierkegaard è una rivendicazioneassidua dell'irrazionale e dell'immediato, come esisten-za, come vita, come fede, come personalità, contro i va-lori universali della ragione, che nella loro pretesa di va-lere per tutti, assorbono e annullano quel che è singolarein ciascuno. Ciò che l'individuo è nella sua realtà effet-tuale, le sue ansie e le sue speranze, il suo sentimentodella vita e della morte, la sua personale salvezza o lasua perdizione, tutto è neutralizzato nell'impassibilità diuno spirito impersonale che divora i suoi figli, incurantedel loro particolare destino. Ora, questo tema irraziona-listico che, come vedremo, il Kierkegaard svolse passio-natamente in antitesi col razionalismo hegeliano, è an-che il tema più insistente e persistente della filosofiacontemporanea. Muta spesso il termine dell'antitesi,

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muta spesso l'accento; ma sono sempre l'immediato, lavita vissuta, l'intuizione, la «fede animale», la contin-genza, la credenza, ecc., che vengono contrapposti allalegge scientifica o all'impersonale natura o allo spiritouniversale o alla razionalità della storia. Naturalmente,l'insistenza del tema si fa più esasperata nei momenti dicrisi, quando l'individuo perde fiducia nell'ordinamentocollettivo che lo sorregge, e più si fa acuta l'ansia di eva-dere e di salvare se stesso. Questo ci spiega perché oggil'esistenzialismo ricorra a Kierkegaard, nel quale il biso-gno di evasione è più morboso, piuttosto che ad altri piùmoderati esponenti della stessa tendenza.

Mentre il primo elemento ci dà il tema esistenzialisti-co, il secondo ce ne dà l'orchestrazione. Se il drammadell'esistenza fosse rimasto conchiuso nei limiti di unasingola personalità, Kierkegaard o Nietzsche, essoavrebbe potuto suscitare altri drammi isolati, sporadici,senza connessione tra loro, ma non un movimento col-lettivo d'idee, e tanto meno un'interpretazione universaledell'esistenza. Il tessuto connettivo è stato dato dalla fe-nomenologia husserliana, con la sua analisi dei contenu-ti di coscienza e con la sua rappresentazione di «regio-ni» spirituali, costituite da elementi psichici collegati traloro e sottratti così alle fluttuazioni arbitrarie della vitaindividuale. Si è potuto così dal singolo esistente passa-re all'esistenza, dalle sue particolari ansietà e preoccupa-zioni passare all'Ansietà, alla Preoccupazione come pre-dicati del nuovo soggetto, ed estendendo la generalizza-

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muta spesso l'accento; ma sono sempre l'immediato, lavita vissuta, l'intuizione, la «fede animale», la contin-genza, la credenza, ecc., che vengono contrapposti allalegge scientifica o all'impersonale natura o allo spiritouniversale o alla razionalità della storia. Naturalmente,l'insistenza del tema si fa più esasperata nei momenti dicrisi, quando l'individuo perde fiducia nell'ordinamentocollettivo che lo sorregge, e più si fa acuta l'ansia di eva-dere e di salvare se stesso. Questo ci spiega perché oggil'esistenzialismo ricorra a Kierkegaard, nel quale il biso-gno di evasione è più morboso, piuttosto che ad altri piùmoderati esponenti della stessa tendenza.

Mentre il primo elemento ci dà il tema esistenzialisti-co, il secondo ce ne dà l'orchestrazione. Se il drammadell'esistenza fosse rimasto conchiuso nei limiti di unasingola personalità, Kierkegaard o Nietzsche, essoavrebbe potuto suscitare altri drammi isolati, sporadici,senza connessione tra loro, ma non un movimento col-lettivo d'idee, e tanto meno un'interpretazione universaledell'esistenza. Il tessuto connettivo è stato dato dalla fe-nomenologia husserliana, con la sua analisi dei contenu-ti di coscienza e con la sua rappresentazione di «regio-ni» spirituali, costituite da elementi psichici collegati traloro e sottratti così alle fluttuazioni arbitrarie della vitaindividuale. Si è potuto così dal singolo esistente passa-re all'esistenza, dalle sue particolari ansietà e preoccupa-zioni passare all'Ansietà, alla Preoccupazione come pre-dicati del nuovo soggetto, ed estendendo la generalizza-

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zione, si son potute formulare nuove determinazioni, dinumero sempre crescente, a misura che il pensiero esi-stenzialistico veniva scoprendo nuovi rapporti tra il suosoggetto e altri dati o elementi o valori della vita psichi-ca. Il tempo, lo spazio, la nascita, la morte, il finito,l'infinito, la libertà, il destino, l'immanenza, la trascen-denza, ecc. hanno formato un corteo sempre più ricco alseguito dell'esistenza; finché si è compreso che tutti iproblemi della filosofia tradizionale potevano esserereinterpretati alla luce del nuovo criterio esistenziale erifusi nel sistema dell'esistenza. È caratteristico notareche questa filosofia, sorta inizialmente come una prote-sta contro lo spirito di sistema, in nome della contingen-za, dell'hic et nunc, della singolarità personale, si sia an-data grado a grado sistematizzando, fino a convertire lasua originaria protesta contro le chiese filosofiche in unanuova chiesa, anche più dommatica e rigida di quelleche pretendeva scalzare. Così essa è passata dalle fram-mentarie e tormentate notazioni del Kierkegaard, allapiù vasta compagine, sempre però limitata, dell'operadell'Heidegger, fino alla corpulenta e appesantita siste-mazione del Jaspers. Quest'ultimo, non pago dei tregrossi volumi della sua Philosophie, minaccia ora dipropinarci una logica esistenzialistica, e la fecondità deiprofessori tedeschi non tarderà a darci un'estetica, unafilosofia della natura, una pedagogia, ecc., tutte beninte-so esistenzializzate. Com'è naturale, in questo straripa-mento esistenzialistico, ciò ch'è andato perduto, e più siandrà perdendo, è il mordente dell'esistenza, è quella

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zione, si son potute formulare nuove determinazioni, dinumero sempre crescente, a misura che il pensiero esi-stenzialistico veniva scoprendo nuovi rapporti tra il suosoggetto e altri dati o elementi o valori della vita psichi-ca. Il tempo, lo spazio, la nascita, la morte, il finito,l'infinito, la libertà, il destino, l'immanenza, la trascen-denza, ecc. hanno formato un corteo sempre più ricco alseguito dell'esistenza; finché si è compreso che tutti iproblemi della filosofia tradizionale potevano esserereinterpretati alla luce del nuovo criterio esistenziale erifusi nel sistema dell'esistenza. È caratteristico notareche questa filosofia, sorta inizialmente come una prote-sta contro lo spirito di sistema, in nome della contingen-za, dell'hic et nunc, della singolarità personale, si sia an-data grado a grado sistematizzando, fino a convertire lasua originaria protesta contro le chiese filosofiche in unanuova chiesa, anche più dommatica e rigida di quelleche pretendeva scalzare. Così essa è passata dalle fram-mentarie e tormentate notazioni del Kierkegaard, allapiù vasta compagine, sempre però limitata, dell'operadell'Heidegger, fino alla corpulenta e appesantita siste-mazione del Jaspers. Quest'ultimo, non pago dei tregrossi volumi della sua Philosophie, minaccia ora dipropinarci una logica esistenzialistica, e la fecondità deiprofessori tedeschi non tarderà a darci un'estetica, unafilosofia della natura, una pedagogia, ecc., tutte beninte-so esistenzializzate. Com'è naturale, in questo straripa-mento esistenzialistico, ciò ch'è andato perduto, e più siandrà perdendo, è il mordente dell'esistenza, è quella

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forza insita in essa, che ci attanaglia alla realtà, che ci dàil sapore acre di quel che è, in contrasto con l'insipidez-za delle astrazioni concettuali. Una esistenza generaliz-zata, vuotata del suo particolare contenuto volitivo e af-fettivo, rischia di diventare uno dei più astratti predicatilogici e di barattare ancora una volta, all'inverso, gli«onesti» cento talleri di Kant. È noto, infatti che, innome di questi ultimi, Kierkegaard protestava contro lalogica di Hegel; ma pare che ora l'esistenzialismo riper-corra a ritroso il proprio cammino, relegando l'esistenza,col generalizzarla, nel limbo delle astrazioni. Non dicoche esso abbia raggiunto la deprecata meta; qua e là sipossono ancora riconoscere veteris vestigia flammae;ma è sulla via.

A taluno parrà che in questa mia preliminare caratte-rizzazione dell'esistenzialismo io abbia dato troppo rilie-vo all'orchestrazione fenomenologica, a scapito del temaesistenziale. È stato notato274 che, dei fautori del nuovoindirizzo, il solo Heidegger proviene dalla scuola diHusserl. Ma l'obiezione che mi si potrebbe opporre nonè concludente. La tendenza a tipizzare e a standardizzarele forme, o meglio le regioni dell'esperienza spirituale,non è una prerogativa esclusiva della scuola di Husserl,anche se questa se n'è fatta un'esplicita insegna. Si puòanzi dire che uno dei due poli del mondo filosofico con-temporaneo è la fenomenologia; l'altro è l'irrazionalismo(in tutte le forme, sensistiche, intuizionistiche, pramma-

274 PAREYSON, La filosofia dell'esistenza e Carlo Jaspers, 1940, p. XVIII.

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forza insita in essa, che ci attanaglia alla realtà, che ci dàil sapore acre di quel che è, in contrasto con l'insipidez-za delle astrazioni concettuali. Una esistenza generaliz-zata, vuotata del suo particolare contenuto volitivo e af-fettivo, rischia di diventare uno dei più astratti predicatilogici e di barattare ancora una volta, all'inverso, gli«onesti» cento talleri di Kant. È noto, infatti che, innome di questi ultimi, Kierkegaard protestava contro lalogica di Hegel; ma pare che ora l'esistenzialismo riper-corra a ritroso il proprio cammino, relegando l'esistenza,col generalizzarla, nel limbo delle astrazioni. Non dicoche esso abbia raggiunto la deprecata meta; qua e là sipossono ancora riconoscere veteris vestigia flammae;ma è sulla via.

A taluno parrà che in questa mia preliminare caratte-rizzazione dell'esistenzialismo io abbia dato troppo rilie-vo all'orchestrazione fenomenologica, a scapito del temaesistenziale. È stato notato274 che, dei fautori del nuovoindirizzo, il solo Heidegger proviene dalla scuola diHusserl. Ma l'obiezione che mi si potrebbe opporre nonè concludente. La tendenza a tipizzare e a standardizzarele forme, o meglio le regioni dell'esperienza spirituale,non è una prerogativa esclusiva della scuola di Husserl,anche se questa se n'è fatta un'esplicita insegna. Si puòanzi dire che uno dei due poli del mondo filosofico con-temporaneo è la fenomenologia; l'altro è l'irrazionalismo(in tutte le forme, sensistiche, intuizionistiche, pramma-

274 PAREYSON, La filosofia dell'esistenza e Carlo Jaspers, 1940, p. XVIII.

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tistiche, ecc.). Dilthey, Scheler, Spranger, Alexander,Whitehead, Santayana, ecc., tutti per vie diverse giungo-no a una tipologia di «forme di vita», di «eterni ogget-ti», di «regioni eidetiche», che fa da contrappesoall'estrema immediatezza dell'Erlebnis, del feeling, della«fede animale». C'è come una specie di legge di com-penso, per cui la trama del lavoro razionale, non poten-do incorporarsi nel dato bruto dell'esperienza immedia-ta, si solleva al di sopra di esso come un sottile velo diconcetti o come atmosfera rarefatta. E i due estremi sirichiamano a vicenda, s'influenzano o s'impediscono,senza riuscire veramente a fondersi insieme, come laterra e il cielo dell'intuizione medievale. L'esistenziali-smo ci darà uno degli esempi più cospicui di questo me-diato gioco d'influenze e d'impedimenti.

Concludendo questo già troppo lungo preambolo, iomi propongo di dare una esposizione sommaria della fi-losofia esistenzialistica, sotto due aspetti diversi, che ri-spondono rispettivamente alle domande: quid facti equid iuris. Sotto il primo aspetto, esaminerò le dottrinedel Kierkegaard, dello Heidegger, del Jaspers, del Mar-cel, tralasciando una folla di altri esponenti minori, ilcui contributo non è essenziale all'individuazione delladottrina. Dei pensatori citati, Kierkegaard ci dà, per sta-re all'immagine di cui mi son già servito, il tema; Hei-degger e Jaspers ci dànno l'orchestrazione. Ad essi hovoluto aggiungere un sottile e tormentato scrittore fran-cese, il Marcel, che rappresenta una caratteristica varia-

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tistiche, ecc.). Dilthey, Scheler, Spranger, Alexander,Whitehead, Santayana, ecc., tutti per vie diverse giungo-no a una tipologia di «forme di vita», di «eterni ogget-ti», di «regioni eidetiche», che fa da contrappesoall'estrema immediatezza dell'Erlebnis, del feeling, della«fede animale». C'è come una specie di legge di com-penso, per cui la trama del lavoro razionale, non poten-do incorporarsi nel dato bruto dell'esperienza immedia-ta, si solleva al di sopra di esso come un sottile velo diconcetti o come atmosfera rarefatta. E i due estremi sirichiamano a vicenda, s'influenzano o s'impediscono,senza riuscire veramente a fondersi insieme, come laterra e il cielo dell'intuizione medievale. L'esistenziali-smo ci darà uno degli esempi più cospicui di questo me-diato gioco d'influenze e d'impedimenti.

Concludendo questo già troppo lungo preambolo, iomi propongo di dare una esposizione sommaria della fi-losofia esistenzialistica, sotto due aspetti diversi, che ri-spondono rispettivamente alle domande: quid facti equid iuris. Sotto il primo aspetto, esaminerò le dottrinedel Kierkegaard, dello Heidegger, del Jaspers, del Mar-cel, tralasciando una folla di altri esponenti minori, ilcui contributo non è essenziale all'individuazione delladottrina. Dei pensatori citati, Kierkegaard ci dà, per sta-re all'immagine di cui mi son già servito, il tema; Hei-degger e Jaspers ci dànno l'orchestrazione. Ad essi hovoluto aggiungere un sottile e tormentato scrittore fran-cese, il Marcel, che rappresenta una caratteristica varia-

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zione nel tema fondamentale. Cercherò poi di affrontarel'altra e più ardua quistione del quid iuris, cioè della va-lutazione del contributo effettivo che questa scuola, omeglio (poiché di scuola in senso stretto non si può par-lare) questa famiglia di pensatori ha dato alla specula-zione filosofica, a quella filosofia senza aggettivi nellaquale il problema dell'esistenza è incluso, contro la pre-tesa dei nuovi scolarchi d'includere essa in esso.

Kierkegaard non è un filosofo nel senso tradizionaledella parola; ma è un'anima religiosa che, lottando con-tro la filosofia, ha filosofato suo malgrado. Il suo dram-ma rassomiglia a quello di Lutero e a quello di Pascalfusi insieme. Come Lutero egli ha subìto una crisi spiri-tuale che lo ha spinto fino all'abisso della disperazione,sotto l'assillo di una tormentata coscienza del peccato,legata al fatto stesso della sua esistenza individuale; madalla disperazione egli ha sentito scaturire la salvezza,dall'incombente morte il tocco vivificante della grazia. Eal pari di Lutero, egli è stato portato a un'esaltazionequasi morbosa del peccato, e dell'esistenza individualeche ne era il veicolo, come condizione e preparazionedella fede e del riscatto. Ma mentre in Lutero, compiu-tosi il processo di rigenerazione, gli interessi pratici del-la Riforma hanno preso il sopravvento, distogliendolodalla tormentata esplorazione di se stesso; in Kierke-gaard, sul quale agiva un più acuto e assillante pungolointellettuale, la crisi non è stata veramente risolutiva, ma

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zione nel tema fondamentale. Cercherò poi di affrontarel'altra e più ardua quistione del quid iuris, cioè della va-lutazione del contributo effettivo che questa scuola, omeglio (poiché di scuola in senso stretto non si può par-lare) questa famiglia di pensatori ha dato alla specula-zione filosofica, a quella filosofia senza aggettivi nellaquale il problema dell'esistenza è incluso, contro la pre-tesa dei nuovi scolarchi d'includere essa in esso.

Kierkegaard non è un filosofo nel senso tradizionaledella parola; ma è un'anima religiosa che, lottando con-tro la filosofia, ha filosofato suo malgrado. Il suo dram-ma rassomiglia a quello di Lutero e a quello di Pascalfusi insieme. Come Lutero egli ha subìto una crisi spiri-tuale che lo ha spinto fino all'abisso della disperazione,sotto l'assillo di una tormentata coscienza del peccato,legata al fatto stesso della sua esistenza individuale; madalla disperazione egli ha sentito scaturire la salvezza,dall'incombente morte il tocco vivificante della grazia. Eal pari di Lutero, egli è stato portato a un'esaltazionequasi morbosa del peccato, e dell'esistenza individualeche ne era il veicolo, come condizione e preparazionedella fede e del riscatto. Ma mentre in Lutero, compiu-tosi il processo di rigenerazione, gli interessi pratici del-la Riforma hanno preso il sopravvento, distogliendolodalla tormentata esplorazione di se stesso; in Kierke-gaard, sul quale agiva un più acuto e assillante pungolointellettuale, la crisi non è stata veramente risolutiva, ma

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s'è protratta per tutta la sua vita, con continui ondeggia-menti di paura e di speranza, di dubbio e di fede, di apo-stasia e d'ortodossia. Sotto questo aspetto, il drammadella sua anima si avvicina a quello di Pascal. L'uno el'altro accentuano la tensione mentale tra gli opposti: trala miseria e la grandezza umana, tra il finito e l'infinito,tra l'istante e l'eternità; e, poiché i trapassi da estremo aestremo sono assai rapidi per lo spirito religioso che sidibatte nell'ansia della salvezza (mentre son cauti e lentiper lo spirito speculativo che cerca di mediarli in unasintesi superiore), essi suscitano l'idea di un'identità im-mediata, di una coincidentia oppositorum, che assumeun'apparenza paradossale e sconcertante per l'intelletto.Il nome stesso di «paradosso», che ricorre continuamen-te negli scritti di Kierkegaard, è strettamente legatoall'esperienza cristiana, che nel Dio-uomo unisce imme-diatamente il divino e l'umano, l'infinito e il finito,l'immortale e il mortale, e che nel simbolo della crocecompendia ciò ch'è follia pei gentili, scandalo pei giu-dei, saggezza e salute pei credenti.

Secondo queste premesse, per esporre il pensiero delKierkegaard bisognerebbe ripercorrere tutto il drammadella sua esistenza. Non è un compito che potremmo as-solvere in poche pagine; ma esso è già stato assolto daaltri, per esempio, dal Lombardi275 in forma più somma-ria, dal Wahl276 in forma molto analitica. Noi intendiamo

275 F. LOMBARDI, Kierkegaard, Firenze, 1936.276 J. WAHL, Études kierkegaardiennes, Paris, 1938.

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s'è protratta per tutta la sua vita, con continui ondeggia-menti di paura e di speranza, di dubbio e di fede, di apo-stasia e d'ortodossia. Sotto questo aspetto, il drammadella sua anima si avvicina a quello di Pascal. L'uno el'altro accentuano la tensione mentale tra gli opposti: trala miseria e la grandezza umana, tra il finito e l'infinito,tra l'istante e l'eternità; e, poiché i trapassi da estremo aestremo sono assai rapidi per lo spirito religioso che sidibatte nell'ansia della salvezza (mentre son cauti e lentiper lo spirito speculativo che cerca di mediarli in unasintesi superiore), essi suscitano l'idea di un'identità im-mediata, di una coincidentia oppositorum, che assumeun'apparenza paradossale e sconcertante per l'intelletto.Il nome stesso di «paradosso», che ricorre continuamen-te negli scritti di Kierkegaard, è strettamente legatoall'esperienza cristiana, che nel Dio-uomo unisce imme-diatamente il divino e l'umano, l'infinito e il finito,l'immortale e il mortale, e che nel simbolo della crocecompendia ciò ch'è follia pei gentili, scandalo pei giu-dei, saggezza e salute pei credenti.

Secondo queste premesse, per esporre il pensiero delKierkegaard bisognerebbe ripercorrere tutto il drammadella sua esistenza. Non è un compito che potremmo as-solvere in poche pagine; ma esso è già stato assolto daaltri, per esempio, dal Lombardi275 in forma più somma-ria, dal Wahl276 in forma molto analitica. Noi intendiamo

275 F. LOMBARDI, Kierkegaard, Firenze, 1936.276 J. WAHL, Études kierkegaardiennes, Paris, 1938.

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limitarci a illustrare un aspetto solo di quel pensiero, cheha più stretta attinenza coi problemi dell'esistenzialismo,e propriamente la polemica anti-hegeliana, contenuta innuce nella Postilla conclusiva non scientifica del Kier-kegaard, che però trabocca da tutti gli altri scritti delpensatore danese.

Il centro del bersaglio polemico è il concetto hegelia-no della mediazione o della sintesi degli opposti. Daessa scaturisce una visione unitaria, armonica ed ottimi-stica del reale, che ripugna profondamente al senso cheKierkegaard ha dell'irriducibilità dei contrasti immanen-ti alla vita umana. Egli non nega che alcune opposizionirelative possano essere mediate; «ma che delle opposi-zioni assolute possano essere mediate, la personalitàumana protesterà in eterno e ripeterà in eterno il suo di-lemma immortale: essere o non essere, ecco la questio-ne»277. La mediazione implica un'identità dell'interno edell'esterno, a cui il Kierkegaard oppone un sentimentodoloroso della differenza. Per Hegel l'idea di una forzache non si esprime, di un sentimento del tutto interno, èun idolo dell'immaginazione romantica. Per lui, tutto èaperto, tutto è pubblico, tutto è rivelato. Ma così dicen-do, egli contraddice all'esperienza intima della persona-lità, che sente in sé qualcosa d'incomunicabile e d'intra-ducibile. Deriva di qui un sovvertimento dei valorietico-religiosi: il senso del segreto è distrutto, l'interiori-tà perde rilievo, si spegne la fiamma della passione e

277 Extraits du Journal (ap. WAHL, op. cit., p. 589).

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limitarci a illustrare un aspetto solo di quel pensiero, cheha più stretta attinenza coi problemi dell'esistenzialismo,e propriamente la polemica anti-hegeliana, contenuta innuce nella Postilla conclusiva non scientifica del Kier-kegaard, che però trabocca da tutti gli altri scritti delpensatore danese.

Il centro del bersaglio polemico è il concetto hegelia-no della mediazione o della sintesi degli opposti. Daessa scaturisce una visione unitaria, armonica ed ottimi-stica del reale, che ripugna profondamente al senso cheKierkegaard ha dell'irriducibilità dei contrasti immanen-ti alla vita umana. Egli non nega che alcune opposizionirelative possano essere mediate; «ma che delle opposi-zioni assolute possano essere mediate, la personalitàumana protesterà in eterno e ripeterà in eterno il suo di-lemma immortale: essere o non essere, ecco la questio-ne»277. La mediazione implica un'identità dell'interno edell'esterno, a cui il Kierkegaard oppone un sentimentodoloroso della differenza. Per Hegel l'idea di una forzache non si esprime, di un sentimento del tutto interno, èun idolo dell'immaginazione romantica. Per lui, tutto èaperto, tutto è pubblico, tutto è rivelato. Ma così dicen-do, egli contraddice all'esperienza intima della persona-lità, che sente in sé qualcosa d'incomunicabile e d'intra-ducibile. Deriva di qui un sovvertimento dei valorietico-religiosi: il senso del segreto è distrutto, l'interiori-tà perde rilievo, si spegne la fiamma della passione e

277 Extraits du Journal (ap. WAHL, op. cit., p. 589).

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della credenza. Inoltre, la mediazione, superando il con-trasto, lo elimina (Aufhebung). Ma la coscienza umananon lo elimina, bensì lo assume in tutta la sua forza. Inuna tensione terribile, essa sceglie, non l'uno o l'altro deicontrari, ma l'uno e l'altro insieme nella loro contrarietàstessa, e li mantiene in sé in tutta la loro tensione. Il pec-cato e la salvezza, la morte e la vita sono egualmentepresenti nel processo della redenzione, e l'un termine sialimenta dell'altro. Nell'hegelismo invece non c'è postoper il peccato, perché il male appare sempre superato etrasfigurato nella coscienza del bene: il peccato è infattidi un ordine diverso dalla scienza; esso è una di quellecose che ci prendono per la gola, come dice Pascal; essoè tutt'uno con quell'individualità che l'hegelismo disco-nosce.

Infine la mediazione porta con sé lo spirito di sistema,perché tutti i contrasti per essa si compongono e si gra-duano in una totalità armonica, che dispone la mente auna contemplazione ottimistica del reale. Sistema vuoldire totalità chiusa e completa, immanenza, ottimismo;la vita invece implica frammentarietà, trascendenza, an-goscia. La filosofia deve accettare l'ottimismo o dispera-re; ma la vita non può accettare l'ottimismo; se il fattodel peccato è reale, l'uomo non può sperare in una com-posizione armonica dei contrasti. La croce è il tragicosimbolo da cui l'hegelianismo è messo in rotta. Questaantitesi tra il pensiero e la vita è scultoriamente compen-diata nel motto: che la filosofia, operando per mezzo

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della credenza. Inoltre, la mediazione, superando il con-trasto, lo elimina (Aufhebung). Ma la coscienza umananon lo elimina, bensì lo assume in tutta la sua forza. Inuna tensione terribile, essa sceglie, non l'uno o l'altro deicontrari, ma l'uno e l'altro insieme nella loro contrarietàstessa, e li mantiene in sé in tutta la loro tensione. Il pec-cato e la salvezza, la morte e la vita sono egualmentepresenti nel processo della redenzione, e l'un termine sialimenta dell'altro. Nell'hegelismo invece non c'è postoper il peccato, perché il male appare sempre superato etrasfigurato nella coscienza del bene: il peccato è infattidi un ordine diverso dalla scienza; esso è una di quellecose che ci prendono per la gola, come dice Pascal; essoè tutt'uno con quell'individualità che l'hegelismo disco-nosce.

Infine la mediazione porta con sé lo spirito di sistema,perché tutti i contrasti per essa si compongono e si gra-duano in una totalità armonica, che dispone la mente auna contemplazione ottimistica del reale. Sistema vuoldire totalità chiusa e completa, immanenza, ottimismo;la vita invece implica frammentarietà, trascendenza, an-goscia. La filosofia deve accettare l'ottimismo o dispera-re; ma la vita non può accettare l'ottimismo; se il fattodel peccato è reale, l'uomo non può sperare in una com-posizione armonica dei contrasti. La croce è il tragicosimbolo da cui l'hegelianismo è messo in rotta. Questaantitesi tra il pensiero e la vita è scultoriamente compen-diata nel motto: che la filosofia, operando per mezzo

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della riflessione, guarda soltanto all'indietro, mentre lavita è protesa in avanti. E all'indietro, nel passato, tuttosi neutralizza e s'include; ma verso il futuro, tutto sipuntualizza e si esclude; il concentrico si fa eccentrico,la comprensione cede alla decisione.

Espressione schietta di questa eccentricità, di questapunta acuta che rompe il chiuso involucro del cosmo in-tellettuale, è l'esistenza, che nel suo stesso significatoetimologico (ex-sistere) vuol dire «essere fuori di»,emergere, trascendere; come un disseminarsi e disinte-grarsi dell'essere (compatto nel suo alveo intellettuale),proiettandosi nello spazio e nella durata. L'esistenza èinfatti distanza, o meglio distacco tra gli istanti di tem-po, tra i punti dello spazio, tra il soggetto e l'oggetto, trail pensiero e l'essere. Più esattamente, essa accoglie insé, in una unità immediata, due elementi opposti. Innan-zi tutto, essa è legata alla finitezza e all'individualità:non si esiste che come individui, mai come esseri collet-tivi impersonali, che son frutti dell'astrazione intellettua-le. Sotto questo stesso aspetto, l'esistenza è connessa,anzi s'identifica col peccato, perché è il peccato che ci fafiniti, che ci chiude, ci isola nel nostro mondo interiore,e con la libertà, che ci rivela in questa nostra realtà pec-caminosa, ed anzi la costituisce e la fonda. Si dà così,col fatto della libertà e del peccato, una specie di deie-zione dell'esistenza nel mondo, che ha il suo simbolo neltempo, perché ogni vita individuale nella sua finitezza èimmersa nella temporalità, la quale col suo ritmo ne

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della riflessione, guarda soltanto all'indietro, mentre lavita è protesa in avanti. E all'indietro, nel passato, tuttosi neutralizza e s'include; ma verso il futuro, tutto sipuntualizza e si esclude; il concentrico si fa eccentrico,la comprensione cede alla decisione.

Espressione schietta di questa eccentricità, di questapunta acuta che rompe il chiuso involucro del cosmo in-tellettuale, è l'esistenza, che nel suo stesso significatoetimologico (ex-sistere) vuol dire «essere fuori di»,emergere, trascendere; come un disseminarsi e disinte-grarsi dell'essere (compatto nel suo alveo intellettuale),proiettandosi nello spazio e nella durata. L'esistenza èinfatti distanza, o meglio distacco tra gli istanti di tem-po, tra i punti dello spazio, tra il soggetto e l'oggetto, trail pensiero e l'essere. Più esattamente, essa accoglie insé, in una unità immediata, due elementi opposti. Innan-zi tutto, essa è legata alla finitezza e all'individualità:non si esiste che come individui, mai come esseri collet-tivi impersonali, che son frutti dell'astrazione intellettua-le. Sotto questo stesso aspetto, l'esistenza è connessa,anzi s'identifica col peccato, perché è il peccato che ci fafiniti, che ci chiude, ci isola nel nostro mondo interiore,e con la libertà, che ci rivela in questa nostra realtà pec-caminosa, ed anzi la costituisce e la fonda. Si dà così,col fatto della libertà e del peccato, una specie di deie-zione dell'esistenza nel mondo, che ha il suo simbolo neltempo, perché ogni vita individuale nella sua finitezza èimmersa nella temporalità, la quale col suo ritmo ne

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scandisce i momenti, li puntualizza e li esteriorizza l'unoall'altro.

Ma l'esistenza non è soltanto questo che abbiamo det-to, seppure esso ne costituisce l'aspetto più individualiz-zato e soggettivo. C'è in essa anche un aspetto opposto,richiamato dal precedente, in virtù dell'unità immediatadegli opposti. Il peccato infatti richiama la redenzione, ilfinito l'infinito, il tempo l'eterno, l'esistere l'essere. Que-sti valori antitetici sono anche essi compresi nell'esisten-za e parte integrante della sua vita; essi son come il lie-vito o il fermento che la sommuove dall'interno e laspinge a uscire dall'inerzia. Il tempo si arresterebbe sen-za quell'ansia di eternità che urge e preme in esso; lagrazia divina cesserebbe dal prodigarsi senza l'assillocontinuo del peccato che la sollecita e la rivela. Quindil'esistenza è nel medesimo tempo la ferita e la cicatriz-zazione benefica della ferita, è il chiudersi dell'indivi-dualità in se stessa e lo schiudersi all'azione divina vivi-ficante, è la stessa finitezza dell'uomo nel suo immerger-si nell'infinità dell'essere.

Nell'interpretare queste espressioni del Kierkegaardnon bisogna cedere alla suggestione dialettica, dando adesse il senso di una mediazione di sapore hegeliano deicontrasti. È vero che anche il Kierkegaard, imbevutocom'è di hegelismo, cede a volte a quella suggestioneaccogliendo in sé il suo nemico; ma vi resiste per quantopuò, e si sforza di dare all'unità dei contrari il significatodi una unità immediata, come un gioco mutevole di luce

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scandisce i momenti, li puntualizza e li esteriorizza l'unoall'altro.

Ma l'esistenza non è soltanto questo che abbiamo det-to, seppure esso ne costituisce l'aspetto più individualiz-zato e soggettivo. C'è in essa anche un aspetto opposto,richiamato dal precedente, in virtù dell'unità immediatadegli opposti. Il peccato infatti richiama la redenzione, ilfinito l'infinito, il tempo l'eterno, l'esistere l'essere. Que-sti valori antitetici sono anche essi compresi nell'esisten-za e parte integrante della sua vita; essi son come il lie-vito o il fermento che la sommuove dall'interno e laspinge a uscire dall'inerzia. Il tempo si arresterebbe sen-za quell'ansia di eternità che urge e preme in esso; lagrazia divina cesserebbe dal prodigarsi senza l'assillocontinuo del peccato che la sollecita e la rivela. Quindil'esistenza è nel medesimo tempo la ferita e la cicatriz-zazione benefica della ferita, è il chiudersi dell'indivi-dualità in se stessa e lo schiudersi all'azione divina vivi-ficante, è la stessa finitezza dell'uomo nel suo immerger-si nell'infinità dell'essere.

Nell'interpretare queste espressioni del Kierkegaardnon bisogna cedere alla suggestione dialettica, dando adesse il senso di una mediazione di sapore hegeliano deicontrasti. È vero che anche il Kierkegaard, imbevutocom'è di hegelismo, cede a volte a quella suggestioneaccogliendo in sé il suo nemico; ma vi resiste per quantopuò, e si sforza di dare all'unità dei contrari il significatodi una unità immediata, come un gioco mutevole di luce

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e d'ombra in un cielo annuvolato, dove la luce trapassasubitaneamente nell'ombra e viceversa. Per lui insommal'esistenza non vuol essere un'unità sintetica dei contra-sti, ma un'unità ambigua, paradossale, più facile ad in-tendersi in termini di vita vissuta che di riflessione intel-lettuale, alla quale ripugna. C'è infatti una tonalità affet-tiva dello spirito che giova a ritrarre quest'ambiguità, omeglio quest'ambivalenza dei contrari, ed è l'angoscia.

L'angoscia è il leit-motiv dello spirito kierkegaardia-no. Egli vi torna sopra con insistenza, accentuandonepiù spesso il momento negativo, per cui essa confina colnulla, ma senza perderne di vista il momento positivo,che l'avvicina all'essere. L'angoscia si differenzia dallapaura per l'indeterminatezza del proprio oggetto; essa ècome la vertigine che ci assale di fronte a un precipizio,ed è a sua volta una vertigine del nulla che nel tempostesso ci respinge e ci attira. È una simpatia antipatica eun'antipatia simpatica; un desiderio diretto verso qualco-sa che si teme, una unità dialettica, ma immediata, dicontrari. L'angoscia è il tono vitale dell'esistenza: cometale, è legata al sentimento della temporalità e protesaverso il futuro, dove i possibili si biforcano e si ramifi-cano, e ciascuno di essi, premendo sull'anima non menocon la sua positività che con la sua negatività, cioè conl'annullamento e la morte degli altri, genera quella so-spensione angosciosa che rivela il pieno e il vuotodell'anima. Ma come l'esistenza è nel tempo, ma è piùche mero tempo, perché ha un sentore d'eternità, così

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e d'ombra in un cielo annuvolato, dove la luce trapassasubitaneamente nell'ombra e viceversa. Per lui insommal'esistenza non vuol essere un'unità sintetica dei contra-sti, ma un'unità ambigua, paradossale, più facile ad in-tendersi in termini di vita vissuta che di riflessione intel-lettuale, alla quale ripugna. C'è infatti una tonalità affet-tiva dello spirito che giova a ritrarre quest'ambiguità, omeglio quest'ambivalenza dei contrari, ed è l'angoscia.

L'angoscia è il leit-motiv dello spirito kierkegaardia-no. Egli vi torna sopra con insistenza, accentuandonepiù spesso il momento negativo, per cui essa confina colnulla, ma senza perderne di vista il momento positivo,che l'avvicina all'essere. L'angoscia si differenzia dallapaura per l'indeterminatezza del proprio oggetto; essa ècome la vertigine che ci assale di fronte a un precipizio,ed è a sua volta una vertigine del nulla che nel tempostesso ci respinge e ci attira. È una simpatia antipatica eun'antipatia simpatica; un desiderio diretto verso qualco-sa che si teme, una unità dialettica, ma immediata, dicontrari. L'angoscia è il tono vitale dell'esistenza: cometale, è legata al sentimento della temporalità e protesaverso il futuro, dove i possibili si biforcano e si ramifi-cano, e ciascuno di essi, premendo sull'anima non menocon la sua positività che con la sua negatività, cioè conl'annullamento e la morte degli altri, genera quella so-spensione angosciosa che rivela il pieno e il vuotodell'anima. Ma come l'esistenza è nel tempo, ma è piùche mero tempo, perché ha un sentore d'eternità, così

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l'angoscia, bilanciata tra il passato e il futuro, si realizzanell'attimo, che non è momento del tempo, bensìdell'eternità, perché sospende per così dire la durata nel-la sua momentanea e interminabile vertigine. Quindil'angoscia è immediato e misterioso contatto del tempo edell'eternità, del finito e dell'infinito: è la scintilla guiz-zante dall'urto di due ignoti, dell'individuo e di Dio.

Si rivela in questo modo la primaria funzione religio-sa che attribuisce il Kierkegaard all'angoscia. Essa è ilpeccato e il riscatto; pertanto essa compendia tutto ilprocesso, tutto il divenire dell'anima. La stessa ambiva-lenza del positivo e del negativo si dà in tutti gli altri va-lori dell'esperienza religiosa, e principalmente nellafede. Questa fu definita da Lutero una certezza combat-tente, che è come dire una certezza dell'incerto. Essa èuna oscillazione dialettica che, tra il tremore e la paura,tuttavia non dispera: è una preoccupazione infinita di sestesso, di sapere se si ha la fede, una preoccupazioneche è la stessa fede. L'intelletto non la tocca; essa è lafacoltà dell'assurdo, del paradosso, è l'assunzione para-dossale di ciò che contrasta con l'evidenza. E al paridell'esistenza e dell'angoscia, vivendo nel tempo, lo neu-tralizza, sia per quella contemporaneità con cui ci fapartecipi del dramma di Cristo, sia per quella prospetti-va dell'eterno che fa balenare nell'istante. In conclusio-ne, la fede non si può dire né immediata, né mediata, maun'immediatezza mediata, che ha della passione e della

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l'angoscia, bilanciata tra il passato e il futuro, si realizzanell'attimo, che non è momento del tempo, bensìdell'eternità, perché sospende per così dire la durata nel-la sua momentanea e interminabile vertigine. Quindil'angoscia è immediato e misterioso contatto del tempo edell'eternità, del finito e dell'infinito: è la scintilla guiz-zante dall'urto di due ignoti, dell'individuo e di Dio.

Si rivela in questo modo la primaria funzione religio-sa che attribuisce il Kierkegaard all'angoscia. Essa è ilpeccato e il riscatto; pertanto essa compendia tutto ilprocesso, tutto il divenire dell'anima. La stessa ambiva-lenza del positivo e del negativo si dà in tutti gli altri va-lori dell'esperienza religiosa, e principalmente nellafede. Questa fu definita da Lutero una certezza combat-tente, che è come dire una certezza dell'incerto. Essa èuna oscillazione dialettica che, tra il tremore e la paura,tuttavia non dispera: è una preoccupazione infinita di sestesso, di sapere se si ha la fede, una preoccupazioneche è la stessa fede. L'intelletto non la tocca; essa è lafacoltà dell'assurdo, del paradosso, è l'assunzione para-dossale di ciò che contrasta con l'evidenza. E al paridell'esistenza e dell'angoscia, vivendo nel tempo, lo neu-tralizza, sia per quella contemporaneità con cui ci fapartecipi del dramma di Cristo, sia per quella prospetti-va dell'eterno che fa balenare nell'istante. In conclusio-ne, la fede non si può dire né immediata, né mediata, maun'immediatezza mediata, che ha della passione e della

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tensione, dell'angoscia e del trionfo278.Attraverso l'analisi della fede e degli altri valori

dell'esperienza religiosa, noi siamo ricondotti alla ideadel paradosso con la quale avevamo esordito nell'espor-re la polemica di Kierkegaard contro Hegel e la filosofiain genere. È venuto il momento ora di chiederci: qual èil valore di questa polemica? quali elementi nuovi divita e di pensiero emergono da essa? Poiché il nucleoessenziale dell'esistenzialismo è tutto qui, la risposta alladomanda che abbiamo formulata anticipa e coinvolgetutta la valutazione della filosofia dell'esistenza.

Bisogna innanzi tutto riconoscere senza attenuazioniche le idee del finito, del tempo, del peccato, dell'ango-scia, della personalità sono fuse insieme con rara poten-za nell'intuizione kierkegaardiana, e così unite fannobreccia con impeto nella compatta volta dell'intellettua-lismo. Un sentimento esasperato dell'immediatezza edell'individualità vibra negli scritti del Kierkegaard,dando l'impressione di una reazione vitale di una poten-te personalità contro una forza impersonale e anonimache vorrebbe assorbirla e annullarla. Ma quando la rea-zione vuol mutarsi in azione, quando l'eccezionale pro-testa vuol convertirsi in legge comune, o il sentimentoex lege vuole imporre la sua legge al pensiero, si puòdire che conservi la stessa efficacia? Kierkegaard pre-tende sconfessare la mediazione dialettica dei contrari,per affermare l'unità immediata dei contrari stessi, la278 WAHL, Études, cit., p. 195 e passim.

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tensione, dell'angoscia e del trionfo278.Attraverso l'analisi della fede e degli altri valori

dell'esperienza religiosa, noi siamo ricondotti alla ideadel paradosso con la quale avevamo esordito nell'espor-re la polemica di Kierkegaard contro Hegel e la filosofiain genere. È venuto il momento ora di chiederci: qual èil valore di questa polemica? quali elementi nuovi divita e di pensiero emergono da essa? Poiché il nucleoessenziale dell'esistenzialismo è tutto qui, la risposta alladomanda che abbiamo formulata anticipa e coinvolgetutta la valutazione della filosofia dell'esistenza.

Bisogna innanzi tutto riconoscere senza attenuazioniche le idee del finito, del tempo, del peccato, dell'ango-scia, della personalità sono fuse insieme con rara poten-za nell'intuizione kierkegaardiana, e così unite fannobreccia con impeto nella compatta volta dell'intellettua-lismo. Un sentimento esasperato dell'immediatezza edell'individualità vibra negli scritti del Kierkegaard,dando l'impressione di una reazione vitale di una poten-te personalità contro una forza impersonale e anonimache vorrebbe assorbirla e annullarla. Ma quando la rea-zione vuol mutarsi in azione, quando l'eccezionale pro-testa vuol convertirsi in legge comune, o il sentimentoex lege vuole imporre la sua legge al pensiero, si puòdire che conservi la stessa efficacia? Kierkegaard pre-tende sconfessare la mediazione dialettica dei contrari,per affermare l'unità immediata dei contrari stessi, la278 WAHL, Études, cit., p. 195 e passim.

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coincidentia oppositorum, il paradosso. Ma s'impiglia,così facendo, in difficoltà inestricabili. Egli cominciacol trovarsi in conflitto con la stessa esperienza cristia-na, tutta permeata dell'idea della mediazione e del divi-no mediatore. Ma crede di poter sormontare la difficol-tà, vagheggiando l'idea di una mediazione per così direimmediata, che si effettua non per mezzo d'idee, ma permezzo di una personalità divina. Così nella fede non sidà un rapporto puramente intellettuale: è la realtà, èl'esempio del maestro, non la sua dottrina, che formal'oggetto della credenza. Ma Kierkegaard non si appog-gia troppo su questo tenue e debole spunto apologetico;se no, non so come avrebbe potuto sensatamente disso-ciare la personalità di Cristo dal contenuto della sua ri-velazione, facendo di quest'ultima un appannaggio irri-levante.

Invece, l'idea sulla quale a preferenza si sofferma èquella della coincidenza immediata degli opposti: vita emorte, tempo ed eternità, finito e infinito, ecc. Ma pos-sono gli opposti considerarsi come meramente identici?Anche Pascal, nelle effusioni del suo animo ha credutodi poterlo affermare, considerando l'uomo come un ato-mo e come l'infinito, come piccolo e grande a un tempo.Ma le effusioni del cuore dissimulano col loro fervore lepecche della logica: quando lo stesso Pascal vuol giusti-ficare intellettualmente l'asserita identità dei contrari, ècostretto suo malgrado a distinguere: l'uomo è piccolo egrande, miserabile e potente sotto due aspetti diversi. Si-

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coincidentia oppositorum, il paradosso. Ma s'impiglia,così facendo, in difficoltà inestricabili. Egli cominciacol trovarsi in conflitto con la stessa esperienza cristia-na, tutta permeata dell'idea della mediazione e del divi-no mediatore. Ma crede di poter sormontare la difficol-tà, vagheggiando l'idea di una mediazione per così direimmediata, che si effettua non per mezzo d'idee, ma permezzo di una personalità divina. Così nella fede non sidà un rapporto puramente intellettuale: è la realtà, èl'esempio del maestro, non la sua dottrina, che formal'oggetto della credenza. Ma Kierkegaard non si appog-gia troppo su questo tenue e debole spunto apologetico;se no, non so come avrebbe potuto sensatamente disso-ciare la personalità di Cristo dal contenuto della sua ri-velazione, facendo di quest'ultima un appannaggio irri-levante.

Invece, l'idea sulla quale a preferenza si sofferma èquella della coincidenza immediata degli opposti: vita emorte, tempo ed eternità, finito e infinito, ecc. Ma pos-sono gli opposti considerarsi come meramente identici?Anche Pascal, nelle effusioni del suo animo ha credutodi poterlo affermare, considerando l'uomo come un ato-mo e come l'infinito, come piccolo e grande a un tempo.Ma le effusioni del cuore dissimulano col loro fervore lepecche della logica: quando lo stesso Pascal vuol giusti-ficare intellettualmente l'asserita identità dei contrari, ècostretto suo malgrado a distinguere: l'uomo è piccolo egrande, miserabile e potente sotto due aspetti diversi. Si-

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milmente per Lutero, l'uomo è schiavo ed è libero, maschiavo quando è asservito al peccato e alla carne, liberoquando è trasumanato dalla fede. E in modo non diversoè implicito in tutti i paradossi di Kierkegaard un «distin-guo», la cui esigenza si fa più imperiosa, non appenaegli abbandona le sabbie mobili del sentimento per toc-care la terra ferma della spiegazione razionale. Egli puòilludersi di disprezzare questa terra e di potersene tenerlontano; ma, in quanto polemizza con Hegel, in quantovuol sostituire la propria dialettica a quella dell'avversa-rio, si pone inconsapevolmente sullo stesso terreno, e ri-vela in ultima istanza le deficienze della propria logica.La presunta indifferenza dei contrari dissimula un'illu-sione, o meglio una serie di illusioni a cui egli va incon-tro. Finito e infinito, peccato e salvezza, tempo ed eter-nità non s'identificano immediatamente, ma presi nellaloro immediatezza si neutralizzano e si elidono. E di ciòsembra conscio lo stesso Kierkegaard, quando a volte,dimentico della sua logica del paradosso, concepisce gliopposti come un'alternativa che s'impone alla decisionee alla scelta. Allora egli parla di una logica dilemmaticae la sovrappone alla logica dell'identificazione, senzacapire che la decisione non ha a che vedere con la logi-ca, ma esprime tutt'altro processo dello spirito.

L'unità dei contrari non può essere che mediata, e me-diatore è lo stesso spirito umano in quanto si tende traessi e vince con la sua forza sintetica la loro opposizio-ne. Prendere il finito e l'infinito fuori della tensione

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milmente per Lutero, l'uomo è schiavo ed è libero, maschiavo quando è asservito al peccato e alla carne, liberoquando è trasumanato dalla fede. E in modo non diversoè implicito in tutti i paradossi di Kierkegaard un «distin-guo», la cui esigenza si fa più imperiosa, non appenaegli abbandona le sabbie mobili del sentimento per toc-care la terra ferma della spiegazione razionale. Egli puòilludersi di disprezzare questa terra e di potersene tenerlontano; ma, in quanto polemizza con Hegel, in quantovuol sostituire la propria dialettica a quella dell'avversa-rio, si pone inconsapevolmente sullo stesso terreno, e ri-vela in ultima istanza le deficienze della propria logica.La presunta indifferenza dei contrari dissimula un'illu-sione, o meglio una serie di illusioni a cui egli va incon-tro. Finito e infinito, peccato e salvezza, tempo ed eter-nità non s'identificano immediatamente, ma presi nellaloro immediatezza si neutralizzano e si elidono. E di ciòsembra conscio lo stesso Kierkegaard, quando a volte,dimentico della sua logica del paradosso, concepisce gliopposti come un'alternativa che s'impone alla decisionee alla scelta. Allora egli parla di una logica dilemmaticae la sovrappone alla logica dell'identificazione, senzacapire che la decisione non ha a che vedere con la logi-ca, ma esprime tutt'altro processo dello spirito.

L'unità dei contrari non può essere che mediata, e me-diatore è lo stesso spirito umano in quanto si tende traessi e vince con la sua forza sintetica la loro opposizio-ne. Prendere il finito e l'infinito fuori della tensione

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dell'esperienza spirituale, che col porsi dei confini conl'atto stesso li trascende, rivelando l'impulso infinito chela sospinge, e che nel sentirsi infinita sente il bisogno didefinirsi e di limitarsi, significa assumere una finitezzainerte, propria delle cose rigide e morte, e una infinitàvuota, che si neutralizzano a vicenda. Qualche presenti-mento di quella unità sintetica noi avvertiamo in Kierke-gaard, quando per esempio ci ritrae la vita cristianacome una vita che si afferma per mezzo della morte, oquando concepisce l'eternità come concentrata nell'atti-mo. Ma sono visioni fuggitive da cui più spesso rifugge,perché la mediazione dialettica gli appare nelle formemeccanicizzate e ripugnanti della logica hegeliana, chealla viva attività dello spirito sostituisce come mediatri-ce l'Idea spersonalizzata e oggettivata. Non già che He-gel ignori quel più vero, anzi quel solo vero protagonistadella dialettica, ma, per elevarlo a una formula cosmicauniversale, lo corrompe e lo deforma. Kierkegaard per-cepisce acutamente la deformazione, ma non il motivooriginario di verità insito al procedimento hegeliano, ecrede anche di salvarsi dal pericolo, mantenendo tra gliopposti una tensione spasmodica e non risolutiva. In talmodo, la sua dialettica appare arrestata e spezzata: essaè un travaglio doloroso, senza una finale liberazione, èla doglia del parto, senza la creatura viva; in una parola,è una dialettica abortiva. Perciò la tonalità passionaleche l'accompagna e la sottolinea è l'angoscia, una ten-sione a vuoto, in cui la nota negativa, dolorosa, prevalesulla nota positiva che pur vorrebbe essere presente e

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dell'esperienza spirituale, che col porsi dei confini conl'atto stesso li trascende, rivelando l'impulso infinito chela sospinge, e che nel sentirsi infinita sente il bisogno didefinirsi e di limitarsi, significa assumere una finitezzainerte, propria delle cose rigide e morte, e una infinitàvuota, che si neutralizzano a vicenda. Qualche presenti-mento di quella unità sintetica noi avvertiamo in Kierke-gaard, quando per esempio ci ritrae la vita cristianacome una vita che si afferma per mezzo della morte, oquando concepisce l'eternità come concentrata nell'atti-mo. Ma sono visioni fuggitive da cui più spesso rifugge,perché la mediazione dialettica gli appare nelle formemeccanicizzate e ripugnanti della logica hegeliana, chealla viva attività dello spirito sostituisce come mediatri-ce l'Idea spersonalizzata e oggettivata. Non già che He-gel ignori quel più vero, anzi quel solo vero protagonistadella dialettica, ma, per elevarlo a una formula cosmicauniversale, lo corrompe e lo deforma. Kierkegaard per-cepisce acutamente la deformazione, ma non il motivooriginario di verità insito al procedimento hegeliano, ecrede anche di salvarsi dal pericolo, mantenendo tra gliopposti una tensione spasmodica e non risolutiva. In talmodo, la sua dialettica appare arrestata e spezzata: essaè un travaglio doloroso, senza una finale liberazione, èla doglia del parto, senza la creatura viva; in una parola,è una dialettica abortiva. Perciò la tonalità passionaleche l'accompagna e la sottolinea è l'angoscia, una ten-sione a vuoto, in cui la nota negativa, dolorosa, prevalesulla nota positiva che pur vorrebbe essere presente e

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non può, perché la gioia della liberazione le è preclusa.E l'esistenza che viene alla luce dall'angoscia enell'angoscia è appunto una creatura abortiva a cui è ne-gata la gioia della luce, della quale portava con sé il pre-sentimento oscuro e tormentato.

Questo tema negativo, nihilistico, che, insito al proce-dimento kierkegaardiano, è ancora però, nell'uomo Kier-kegaard, compresso e represso da un bisogno prepotentedi positività, si affermerà in pieno, senza contrasto,nell'esistenzialismo posteriore.

A quasi un secolo di distanza i motivi del pensierokierkegaardiano ritornano nella filosofia di Martino Hei-degger, ma ritornano spersonalizzati e vuotati del lorocontenuto religioso e, connessi insieme più strettamente,ci danno una specie di parabola dell'esistenza, in atto diemergere dal nulla e, dopo un effimero percorso, d'ina-bissarsi nuovamente nel nulla. Di veramente nuovo nonc'è che un virtuosismo formale, una tecnica verbalecomplicata, che con la sua apparente impassibilità scien-tifica dissimula la desolazione del paesaggio che la pel-legrinante esistenza è costretta dal destino che la sospin-ge ad attraversare.

Invece di seguire l'apparente via dimostrativa del filo-sofo e d'intricarci nella sua astrusa terminologia, cer-chiamo di seguire le tappe di quel pellegrinaggio e ditracciarne rapidamente l'itinerario. Il senso o il non sen-

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non può, perché la gioia della liberazione le è preclusa.E l'esistenza che viene alla luce dall'angoscia enell'angoscia è appunto una creatura abortiva a cui è ne-gata la gioia della luce, della quale portava con sé il pre-sentimento oscuro e tormentato.

Questo tema negativo, nihilistico, che, insito al proce-dimento kierkegaardiano, è ancora però, nell'uomo Kier-kegaard, compresso e represso da un bisogno prepotentedi positività, si affermerà in pieno, senza contrasto,nell'esistenzialismo posteriore.

A quasi un secolo di distanza i motivi del pensierokierkegaardiano ritornano nella filosofia di Martino Hei-degger, ma ritornano spersonalizzati e vuotati del lorocontenuto religioso e, connessi insieme più strettamente,ci danno una specie di parabola dell'esistenza, in atto diemergere dal nulla e, dopo un effimero percorso, d'ina-bissarsi nuovamente nel nulla. Di veramente nuovo nonc'è che un virtuosismo formale, una tecnica verbalecomplicata, che con la sua apparente impassibilità scien-tifica dissimula la desolazione del paesaggio che la pel-legrinante esistenza è costretta dal destino che la sospin-ge ad attraversare.

Invece di seguire l'apparente via dimostrativa del filo-sofo e d'intricarci nella sua astrusa terminologia, cer-chiamo di seguire le tappe di quel pellegrinaggio e ditracciarne rapidamente l'itinerario. Il senso o il non sen-

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so dell'esistenza ci apparirà nella più trasparente chia-rezza.

Sulla soglia dell'essere ci si fa incontro l'abisso beantedel nulla. Noi ci chiediamo perplessi: è la nostra nega-zione dell'essere quella da cui scaturisce il nulla? o ilnulla è originariamente anteriore alla negazione e la su-scita? Può sembrare che la domanda varchi i limiti diogni pensabilità e perciò annaspi essa stessa nel vuoto.Ma, dove non giunge il pensiero, giunge il sentimento.C'è infatti un sentimento che ci pone in presenza delnulla originario, ed è 1'angoscia. Con questo nome Hei-degger, non diversamente da Kierkegaard, designaun'ansietà ben diversa dalla paura. Noi proviamo paurasempre innanzi a un esistente determinato, che ci minac-cia sotto un aspetto determinato e ci fa perdere il con-trollo di noi stessi. Nell'angoscia invece noi ci sentiamosmarriti, ma avvertiamo un senso di calma singolare.Certo, anche l'angoscia è sempre «angoscia innanzi a»,o «angoscia per», ma non per questo o per quello. Tutta-via, l'indeterminazione dell'oggetto non è mancanzapura e semplice di determinazione; ma è l'impossibilitàessenziale di ricevere qualunque determinazione. Noi cisentiamo oppressi, senza poter dire perché e da che. Tut-te le cose e noi stessi ci inabissiamo in una specie di in-differenza; il che non vuol dire che tutto si annulla, mache tutto indietreggia innanzi a noi. Questo indietreggia-re dell'esistenza nel suo insieme che ci opprimenell'angoscia è ciò che ci annienta. Pare che nello slitta-

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so dell'esistenza ci apparirà nella più trasparente chia-rezza.

Sulla soglia dell'essere ci si fa incontro l'abisso beantedel nulla. Noi ci chiediamo perplessi: è la nostra nega-zione dell'essere quella da cui scaturisce il nulla? o ilnulla è originariamente anteriore alla negazione e la su-scita? Può sembrare che la domanda varchi i limiti diogni pensabilità e perciò annaspi essa stessa nel vuoto.Ma, dove non giunge il pensiero, giunge il sentimento.C'è infatti un sentimento che ci pone in presenza delnulla originario, ed è 1'angoscia. Con questo nome Hei-degger, non diversamente da Kierkegaard, designaun'ansietà ben diversa dalla paura. Noi proviamo paurasempre innanzi a un esistente determinato, che ci minac-cia sotto un aspetto determinato e ci fa perdere il con-trollo di noi stessi. Nell'angoscia invece noi ci sentiamosmarriti, ma avvertiamo un senso di calma singolare.Certo, anche l'angoscia è sempre «angoscia innanzi a»,o «angoscia per», ma non per questo o per quello. Tutta-via, l'indeterminazione dell'oggetto non è mancanzapura e semplice di determinazione; ma è l'impossibilitàessenziale di ricevere qualunque determinazione. Noi cisentiamo oppressi, senza poter dire perché e da che. Tut-te le cose e noi stessi ci inabissiamo in una specie di in-differenza; il che non vuol dire che tutto si annulla, mache tutto indietreggia innanzi a noi. Questo indietreggia-re dell'esistenza nel suo insieme che ci opprimenell'angoscia è ciò che ci annienta. Pare che nello slitta-

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mento dell'esistenza non ci resti nessun appoggio, o me-glio, che ci resti il niente come appoggio. L'angoscia èappunto rivelatrice del niente: ivi il niente si palesa conl'esistente e nell'esistente, come quello che sfugge e sci-vola in tutto il suo insieme279.

Così la risposta alla domanda testé formulata è chenon la negazione genera il niente, ma il niente la nega-zione. Il problema posto da Hegel nelle tre prime cate-gorie della Logica (essere-nulla-divenire) si trova inver-tito; è l'ontologia che precede la logica, e non viceversa.Quindi le manifestazioni dell'essere (il divenire) sonorealmente un impasto di essere e di nulla, e se in talunedi esse, nell'essere umano, l'angoscia rivelatrice è com-presa, resta tuttavia presente di nascosto e in agguato:l'uomo stesso diviene «la sentinella del nulla»280.

Per spiegare come qualcosa emerga dal nulla, Hei-degger distingue idealmente l'esistenza vera e propriadall'«esserci», l'essere qui ed ora, il Dasein. L'esistenzaè per lui, come per Kierkegaard, ma più distintamente,qualcosa di complesso, che vuole abbracciare insieme ilnegativo e il positivo, il «che» e il «cos'è», l'esserci el'essere o l'essenza. Il Dasein non è che l'esistenza fuga-ce e momentanea, la presenza immediata, il dato chenon si spiega e non si giustifica, fasciato com'è di nien-te. E questa sua irrazionalità è espressa da Heidegger col

279 HEIDEGGER, Qu'est-ce que la métaphisique?, tr. Corbin, 1938, pp. 27, 37;Sein und Zeit, p. 300.

280 Op. cit., p. 38.

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mento dell'esistenza non ci resti nessun appoggio, o me-glio, che ci resti il niente come appoggio. L'angoscia èappunto rivelatrice del niente: ivi il niente si palesa conl'esistente e nell'esistente, come quello che sfugge e sci-vola in tutto il suo insieme279.

Così la risposta alla domanda testé formulata è chenon la negazione genera il niente, ma il niente la nega-zione. Il problema posto da Hegel nelle tre prime cate-gorie della Logica (essere-nulla-divenire) si trova inver-tito; è l'ontologia che precede la logica, e non viceversa.Quindi le manifestazioni dell'essere (il divenire) sonorealmente un impasto di essere e di nulla, e se in talunedi esse, nell'essere umano, l'angoscia rivelatrice è com-presa, resta tuttavia presente di nascosto e in agguato:l'uomo stesso diviene «la sentinella del nulla»280.

Per spiegare come qualcosa emerga dal nulla, Hei-degger distingue idealmente l'esistenza vera e propriadall'«esserci», l'essere qui ed ora, il Dasein. L'esistenzaè per lui, come per Kierkegaard, ma più distintamente,qualcosa di complesso, che vuole abbracciare insieme ilnegativo e il positivo, il «che» e il «cos'è», l'esserci el'essere o l'essenza. Il Dasein non è che l'esistenza fuga-ce e momentanea, la presenza immediata, il dato chenon si spiega e non si giustifica, fasciato com'è di nien-te. E questa sua irrazionalità è espressa da Heidegger col

279 HEIDEGGER, Qu'est-ce que la métaphisique?, tr. Corbin, 1938, pp. 27, 37;Sein und Zeit, p. 300.

280 Op. cit., p. 38.

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dire che esso è come gettato, deietto (geworfen), e quin-di trovato come un relitto. Per una così angusta imme-diatezza, per una immanenza così limitata al «qui» eall'«ora», ogni atto con cui essa si pone in rapporto conaltri e si colloca nel mondo, è un atto di trascendimento,una «trascendenza». E la prima trascendenza è appuntol'essere nel mondo, il venire in rapporto con altri Daseine con la totalità stessa del Dasein. Ma, poiché questa to-talità non è e non può essere a sua volta data, essa non èche abbozzata, progettata, anticipata (Entwurf)nell'interno del singolo Dasein. L'essere nel mondo nonsignifica pertanto nulla di totale, di compiuto, ma è unaproiezione continuamente mutevole, un abbozzo che simodifica col fatto stesso che la sua esistenza implicauna modificazione del Dasein che lo proietta. E questoprocesso, questo essere nel mondo, che meglio potrebbechiamarsi un divenire del mondo, non è né soggettivo néoggettivo, ma al di là della biforcazione dei due termini,alla loro comune radice281. Siamo così all'esordiodell'esistente o dell'esistenza. «L'esistente, diciamo laNatura nel senso più largo, non potrebbe in alcun modomanifestarsi, se non entrasse in un mondo. L'entrata nelmondo non è un accidente che si aggiunga all'esistente,ma la sua propria realtà storica. E questo divenire è l'ex-sistere della realtà umana, che, in quanto ex-sistens, tra-scende»282. La trascendenza è dunque l'aprirsi dell'oriz-

281 Questa distinzione sorge più tardi, come una modalità e un complesso dimodi dell'essere nel mondo.

282 Vom Wesen des Grundes (la trad. francese di questo scritto è nel vol. cit.:

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dire che esso è come gettato, deietto (geworfen), e quin-di trovato come un relitto. Per una così angusta imme-diatezza, per una immanenza così limitata al «qui» eall'«ora», ogni atto con cui essa si pone in rapporto conaltri e si colloca nel mondo, è un atto di trascendimento,una «trascendenza». E la prima trascendenza è appuntol'essere nel mondo, il venire in rapporto con altri Daseine con la totalità stessa del Dasein. Ma, poiché questa to-talità non è e non può essere a sua volta data, essa non èche abbozzata, progettata, anticipata (Entwurf)nell'interno del singolo Dasein. L'essere nel mondo nonsignifica pertanto nulla di totale, di compiuto, ma è unaproiezione continuamente mutevole, un abbozzo che simodifica col fatto stesso che la sua esistenza implicauna modificazione del Dasein che lo proietta. E questoprocesso, questo essere nel mondo, che meglio potrebbechiamarsi un divenire del mondo, non è né soggettivo néoggettivo, ma al di là della biforcazione dei due termini,alla loro comune radice281. Siamo così all'esordiodell'esistente o dell'esistenza. «L'esistente, diciamo laNatura nel senso più largo, non potrebbe in alcun modomanifestarsi, se non entrasse in un mondo. L'entrata nelmondo non è un accidente che si aggiunga all'esistente,ma la sua propria realtà storica. E questo divenire è l'ex-sistere della realtà umana, che, in quanto ex-sistens, tra-scende»282. La trascendenza è dunque l'aprirsi dell'oriz-

281 Questa distinzione sorge più tardi, come una modalità e un complesso dimodi dell'essere nel mondo.

282 Vom Wesen des Grundes (la trad. francese di questo scritto è nel vol. cit.:

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zonte nel quale l'essere si manifesta a se stesso.Come procedente da una caduta, da una deiezione,

l'esistenza è colpa, è finitezza, è incompiutezza; comeimpulso continuo a trascendersi, è libertà. Perciò il suoessere è individuato dal tempo, anzi coincide col tempo.Il suo presente emerge da un passato, dallo stato di ab-bandono da cui deriva, dalla legge fatale della colpa chela sospinge, e si appunta verso un futuro, per la forzadella libertà che prospetta nuovi piani e anticipa possibi-lità nuove. Il seguirsi dei momenti del tempo simboleg-gia il continuo spostarsi del Dasein innanzi a sé, il suorincorrersi senza raggiungersi mai. E il riflesso senti-mentale di questa mobile temporalità è la preoccupazio-ne, la sollecitudine (Sorge, Besorgen), che fa del conti-nuo trascendersi un compito, anzi il compito di tutti igiorni.

Questa vicenda del divenire, della temporalità, è chia-mata anche storia, quasi per segnalare che non si trattasolo di un divenire psicologico, ma di un divenire co-smico, dove non soltanto gli stati d'anima si schiudonoper così dire l'uno dall'altro, ma gli oggetti e gli esseristessi della natura si svolgono in una catena strumentale,che implica una serie di rinvii dell'uno all'altro. Nellamonotonia di questo corso, dove tutto si succede senzasenso, dove ognuno agisce tamquam nihil agens, si dàun'inesplicabile cesura, che inverte la direzione delmoto. Come un Giano bifronte, l'esistente è volto verso

Qu'est-ce que la métaphisique?, p. 90).

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zonte nel quale l'essere si manifesta a se stesso.Come procedente da una caduta, da una deiezione,

l'esistenza è colpa, è finitezza, è incompiutezza; comeimpulso continuo a trascendersi, è libertà. Perciò il suoessere è individuato dal tempo, anzi coincide col tempo.Il suo presente emerge da un passato, dallo stato di ab-bandono da cui deriva, dalla legge fatale della colpa chela sospinge, e si appunta verso un futuro, per la forzadella libertà che prospetta nuovi piani e anticipa possibi-lità nuove. Il seguirsi dei momenti del tempo simboleg-gia il continuo spostarsi del Dasein innanzi a sé, il suorincorrersi senza raggiungersi mai. E il riflesso senti-mentale di questa mobile temporalità è la preoccupazio-ne, la sollecitudine (Sorge, Besorgen), che fa del conti-nuo trascendersi un compito, anzi il compito di tutti igiorni.

Questa vicenda del divenire, della temporalità, è chia-mata anche storia, quasi per segnalare che non si trattasolo di un divenire psicologico, ma di un divenire co-smico, dove non soltanto gli stati d'anima si schiudonoper così dire l'uno dall'altro, ma gli oggetti e gli esseristessi della natura si svolgono in una catena strumentale,che implica una serie di rinvii dell'uno all'altro. Nellamonotonia di questo corso, dove tutto si succede senzasenso, dove ognuno agisce tamquam nihil agens, si dàun'inesplicabile cesura, che inverte la direzione delmoto. Come un Giano bifronte, l'esistente è volto verso

Qu'est-ce que la métaphisique?, p. 90).

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il passato e verso il futuro, verso la colpa che lo disse-mina nel tempo e assoggetta la sua vita alla legge di uncontinuo morire, e verso il riscatto per mezzo della deci-sione della libertà. Il primo aspetto, per sé preso, ci dà lamediocrità della vita quotidiana, spersonalizzatanell'anonimo si (si fa, si dice, ecc.), assillata continua-mente dalla preoccupazione di un non-ancora che sarà,destinato a riprodursi indefinitamente, o meglio a spo-starsi come l'acqua dalle labbra dell'assetato Tantalo. «Inquanto essere che si degrada, l'essere per la morte, nellamediocrità quotidiana, è una perpetua fuga innanzi allamorte.» Dalla degradazione di questa fuga l'uomo liberosi riscatta con lo slancio anticipatore della libertà. Par-rebbe che questo slancio dovesse essere apportatore diun messaggio di vita, e invece è anch'esso foriero dimorte, se pure di una diversa morte. Liberamente assun-ta (nella sua idea anticipatrice, non già nell'atto del sui-cidio), la morte pone l'uomo nella possibilità di essere sestesso, libero dalla preoccupazione quotidiana che lo faschiavo. La libertà-per-la-morte dà all'uomo quella com-piutezza che invano inseguiva nel mobile miraggio deltempo. E anche qui, al limite dell'esistenza, ritroviamola sentinella del nulla, l'angoscia per la morte, simile aun memento homo che ci consente di ripercorrere tutto ilcammino già fatto e di svelarne a noi stessi l'intimo si-gnificato283.

283 In Sein und Zeit (§ 50) Heidegger ci dà una descrizione «esistenziale» del-la morte, distinguendo dalla constatazione impersonale della morte comeun fenomeno oggettivo, il sentimento personale di essa, cioè l'angoscia an-

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il passato e verso il futuro, verso la colpa che lo disse-mina nel tempo e assoggetta la sua vita alla legge di uncontinuo morire, e verso il riscatto per mezzo della deci-sione della libertà. Il primo aspetto, per sé preso, ci dà lamediocrità della vita quotidiana, spersonalizzatanell'anonimo si (si fa, si dice, ecc.), assillata continua-mente dalla preoccupazione di un non-ancora che sarà,destinato a riprodursi indefinitamente, o meglio a spo-starsi come l'acqua dalle labbra dell'assetato Tantalo. «Inquanto essere che si degrada, l'essere per la morte, nellamediocrità quotidiana, è una perpetua fuga innanzi allamorte.» Dalla degradazione di questa fuga l'uomo liberosi riscatta con lo slancio anticipatore della libertà. Par-rebbe che questo slancio dovesse essere apportatore diun messaggio di vita, e invece è anch'esso foriero dimorte, se pure di una diversa morte. Liberamente assun-ta (nella sua idea anticipatrice, non già nell'atto del sui-cidio), la morte pone l'uomo nella possibilità di essere sestesso, libero dalla preoccupazione quotidiana che lo faschiavo. La libertà-per-la-morte dà all'uomo quella com-piutezza che invano inseguiva nel mobile miraggio deltempo. E anche qui, al limite dell'esistenza, ritroviamola sentinella del nulla, l'angoscia per la morte, simile aun memento homo che ci consente di ripercorrere tutto ilcammino già fatto e di svelarne a noi stessi l'intimo si-gnificato283.

283 In Sein und Zeit (§ 50) Heidegger ci dà una descrizione «esistenziale» del-la morte, distinguendo dalla constatazione impersonale della morte comeun fenomeno oggettivo, il sentimento personale di essa, cioè l'angoscia an-

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Io credo che mai un nullismo così radicale sia statoprofessato nella storia del pensiero, e per giunta con taleimpassibilità e distacco. È una filosofia dell'esistenza(lucus a non lucendo) dove, tra due niente, si dà una pa-rentesi di vita e di mondo, che non è vita e non è mon-do, ma un miraggio di apparenze che si rincorrono in unbrivido di ansietà, dove la parola più alta di liberazioneè nel riconoscimento che il miraggio non è che miraggiodel nulla. Se la paragoniamo con quella di Kierkegaard,troviamo la conferma di ciò che avevamo detto in anti-cipo: che quasi niente vi è formalmente mutato, ma cheè avvenuto uno svuotamento dall'interno. V'è la stessaassunzione dell'immediato, del trascendimento, dell'uni-tà degli opposti nell'esistenza; la stessa interpretazionedella storia, del tempo, della finitezza, della colpa, dellalibertà, dell'angoscia. Ma non c'è più l'anima di Kierke-gaard, non c'è più il dramma della sua personalità. Hei-degger ripete anche lui che l'esistenza è persona; maquesta persona non è che una maschera del teatro hus-serliano. E la sua angoscia davanti al nulla non è l'ango-scia del peccatore che si annulla davanti a Dio. E la ten-sione drammatica tra i contrari nel divenire umano comela concepisce Kierkegaard è tutt'altro della ridda dei fo-cherelli fatui che si accendono nel cimitero284 di Heideg-ger. Senza un forte interesse religioso, tutte le categoriedell'esistenzialismo sembrano spostate in un mondo ir-

ticipatrice del nulla.284 Mi pare che questa sia la più rassomigliante immagine dell'«In der Welt

sein», del mondo heideggeriano.

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Io credo che mai un nullismo così radicale sia statoprofessato nella storia del pensiero, e per giunta con taleimpassibilità e distacco. È una filosofia dell'esistenza(lucus a non lucendo) dove, tra due niente, si dà una pa-rentesi di vita e di mondo, che non è vita e non è mon-do, ma un miraggio di apparenze che si rincorrono in unbrivido di ansietà, dove la parola più alta di liberazioneè nel riconoscimento che il miraggio non è che miraggiodel nulla. Se la paragoniamo con quella di Kierkegaard,troviamo la conferma di ciò che avevamo detto in anti-cipo: che quasi niente vi è formalmente mutato, ma cheè avvenuto uno svuotamento dall'interno. V'è la stessaassunzione dell'immediato, del trascendimento, dell'uni-tà degli opposti nell'esistenza; la stessa interpretazionedella storia, del tempo, della finitezza, della colpa, dellalibertà, dell'angoscia. Ma non c'è più l'anima di Kierke-gaard, non c'è più il dramma della sua personalità. Hei-degger ripete anche lui che l'esistenza è persona; maquesta persona non è che una maschera del teatro hus-serliano. E la sua angoscia davanti al nulla non è l'ango-scia del peccatore che si annulla davanti a Dio. E la ten-sione drammatica tra i contrari nel divenire umano comela concepisce Kierkegaard è tutt'altro della ridda dei fo-cherelli fatui che si accendono nel cimitero284 di Heideg-ger. Senza un forte interesse religioso, tutte le categoriedell'esistenzialismo sembrano spostate in un mondo ir-

ticipatrice del nulla.284 Mi pare che questa sia la più rassomigliante immagine dell'«In der Welt

sein», del mondo heideggeriano.

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reale e prendono la consistenza di fantasmi.Eppure, anche così inconsistenti, esse esercitano una

suggestione strana e paurosa. Quell'angoscia all'agguatosulla soglia dell'essere, al confine del nulla, quella pre-occupazione che c'insegue in tutti gli istanti della banalevita quotidiana, quella fuga dalla morte che c'illudiamodi chiamare vita, quel raccoglimento di noi stessi innan-zi alla morte, liberamente e coraggiosamente prospetta-ta, che merita più dell'altra il nome di vita, quel sentirsisempre in ritardo o in anticipo su se stessi, secondo chesi guarda il passato o il futuro; son tutti motivi che han-no risonanza nell'anima nostra. Ma vorrei aggiungere,che hanno tanto più risonanza, quanto più ci vuotiamodi contenuto mentale, affettivo, volitivo, e lasciamo, percosì dire, girare a vuoto il nostro interno ingranaggio.Chi non ha provato nell'insonnia, e anche nel sogno,l'incubo della morte? Ma la veglia operosa cancellaquelle vane immagini, e noi agiamo come se non doves-simo morire, anzi, nei momenti di più fervida creazione,agiamo con un senso d'immortalità e di eternità. Simil-mente, quante volte ci lasciamo attanagliare dalla preoc-cupazione pei compiti più futili dell'esistenza quotidia-na; ma sappiamo anche liberarcene e vincere la logoran-te routine della vita di ogni giorno, proponendoci la rea-lizzazione di ideali che impegnano tutta la nostra perso-nalità. L'esistenzialismo, malgrado la sua assunzionedella trascendenza, non riesce a concepire questa distin-zione di piani dell'esistenza, che ci riscatta dalla servitù

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reale e prendono la consistenza di fantasmi.Eppure, anche così inconsistenti, esse esercitano una

suggestione strana e paurosa. Quell'angoscia all'agguatosulla soglia dell'essere, al confine del nulla, quella pre-occupazione che c'insegue in tutti gli istanti della banalevita quotidiana, quella fuga dalla morte che c'illudiamodi chiamare vita, quel raccoglimento di noi stessi innan-zi alla morte, liberamente e coraggiosamente prospetta-ta, che merita più dell'altra il nome di vita, quel sentirsisempre in ritardo o in anticipo su se stessi, secondo chesi guarda il passato o il futuro; son tutti motivi che han-no risonanza nell'anima nostra. Ma vorrei aggiungere,che hanno tanto più risonanza, quanto più ci vuotiamodi contenuto mentale, affettivo, volitivo, e lasciamo, percosì dire, girare a vuoto il nostro interno ingranaggio.Chi non ha provato nell'insonnia, e anche nel sogno,l'incubo della morte? Ma la veglia operosa cancellaquelle vane immagini, e noi agiamo come se non doves-simo morire, anzi, nei momenti di più fervida creazione,agiamo con un senso d'immortalità e di eternità. Simil-mente, quante volte ci lasciamo attanagliare dalla preoc-cupazione pei compiti più futili dell'esistenza quotidia-na; ma sappiamo anche liberarcene e vincere la logoran-te routine della vita di ogni giorno, proponendoci la rea-lizzazione di ideali che impegnano tutta la nostra perso-nalità. L'esistenzialismo, malgrado la sua assunzionedella trascendenza, non riesce a concepire questa distin-zione di piani dell'esistenza, che ci riscatta dalla servitù

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del tempo, perché la sua trascendenza è troppo miope,troppo strettamente impegnata nell'ingranaggio del tem-po. Esso ignora i valori spirituali, quindi ignora le tona-lità sentimentali più positive, come la gioia, l'entusia-smo, la dedizione, che potrebbero vincere la preoccupa-zione e l'angoscia. La sua sola forza di fronte al tempo eal destino è la libertà per la morte, cioè una forza corro-siva, che conferma la vanità dell'esistenza nell'atto stes-so in cui vuol riscattarla.

Ma col dire che la suggestione della visione heideg-geriana ci prende solo nei momenti di ozio e che siamoin grado di vincerla con un'operosità rivolta ai valoripermanenti dell'esistenza, noi ci riferiamo all'esperienzadegli individui più eletti, che sanno effettuare in sé que-sta discriminazione. La maggior parte degli uomini, in-vece, pone la propria vita tutta sullo stesso piano, si la-scia travolgere dalla ruota del tempo, vive insomma pervivere, senza neppure chiedersene il perché. Per questaparte, l'operosità stessa è ozio, svolgendosi in un vuotospirituale che le toglie ogni significato; l'azione anchepiù febbrile è una vana dispersione di energia; l'esisten-za è qualcosa che si consuma senza recupero. Ora Hei-degger senza volerlo, ed anzi con l'intento opposto didare una visione della personalità, ci ha dato la filosofiadi questa massa anonima, immersa nella «banalità» quo-tidiana, ha svelato l'agendo nihil agere della sua azione,la vanità del suo durare. Il suo esistenzialismo è la dot-trina dell'esistenza mancata, il commento metafisico al

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del tempo, perché la sua trascendenza è troppo miope,troppo strettamente impegnata nell'ingranaggio del tem-po. Esso ignora i valori spirituali, quindi ignora le tona-lità sentimentali più positive, come la gioia, l'entusia-smo, la dedizione, che potrebbero vincere la preoccupa-zione e l'angoscia. La sua sola forza di fronte al tempo eal destino è la libertà per la morte, cioè una forza corro-siva, che conferma la vanità dell'esistenza nell'atto stes-so in cui vuol riscattarla.

Ma col dire che la suggestione della visione heideg-geriana ci prende solo nei momenti di ozio e che siamoin grado di vincerla con un'operosità rivolta ai valoripermanenti dell'esistenza, noi ci riferiamo all'esperienzadegli individui più eletti, che sanno effettuare in sé que-sta discriminazione. La maggior parte degli uomini, in-vece, pone la propria vita tutta sullo stesso piano, si la-scia travolgere dalla ruota del tempo, vive insomma pervivere, senza neppure chiedersene il perché. Per questaparte, l'operosità stessa è ozio, svolgendosi in un vuotospirituale che le toglie ogni significato; l'azione anchepiù febbrile è una vana dispersione di energia; l'esisten-za è qualcosa che si consuma senza recupero. Ora Hei-degger senza volerlo, ed anzi con l'intento opposto didare una visione della personalità, ci ha dato la filosofiadi questa massa anonima, immersa nella «banalità» quo-tidiana, ha svelato l'agendo nihil agere della sua azione,la vanità del suo durare. Il suo esistenzialismo è la dot-trina dell'esistenza mancata, il commento metafisico al

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propter vitam vivendi perdere causas. E la stessa riscos-sa finale della libertà per la morte, nella sua apparenzadi tragica grandezza, non è che il finale bilancio falli-mentare di un'esistenza che, dopo essersi invano logora-ta, sente, nell'angoscia del nulla che le incombe, com-pendiarsi e concentrarsi in un attimo il nulla che ha dis-seminato lungo il suo stesso corso285.

La filosofia di Carlo Jaspers non differisce essenzial-mente da quella di Heidegger, ma è più diluita, più ab-bondante, più incline a estendere la sfera dell'esperienzaesistenziale. La struttura delle due filosofie è identica: lastessa distinzione tra l'esserci o la «situazione» e l'esi-stenza, la stessa valutazione della temporalità, della sto-ricità, della trascendenza, della libertà, lo stesso epilogofinale, a cui il Jaspers dà l'immaginoso nome di «naufra-gio». Si può notare tuttavia, in confronto di Heidegger,un'accentuazione più forte della tensione tra gli opposti,quindi una tendenza a sforzare le antinomie insite al di-venire e a dare un più apparente rilievo drammatico allastoricità. In questo senso si può dire, ed è stato detto,che la filosofia di Jaspers è più fedele all'originaria ispi-razione kierkegaardiana.

L'esserci, il Dasein, è una situazione particolare e de-

285 Per un'esposizione più particolareggiata, ma chiara e aderente della filoso-fia di Heidegger, v. STEFANINI, Il momento dell'educazione, Padova, 1938.Buone anche le pagine che vi dedica il WAHL, in Études kierkegaardiennes,cit.

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propter vitam vivendi perdere causas. E la stessa riscos-sa finale della libertà per la morte, nella sua apparenzadi tragica grandezza, non è che il finale bilancio falli-mentare di un'esistenza che, dopo essersi invano logora-ta, sente, nell'angoscia del nulla che le incombe, com-pendiarsi e concentrarsi in un attimo il nulla che ha dis-seminato lungo il suo stesso corso285.

La filosofia di Carlo Jaspers non differisce essenzial-mente da quella di Heidegger, ma è più diluita, più ab-bondante, più incline a estendere la sfera dell'esperienzaesistenziale. La struttura delle due filosofie è identica: lastessa distinzione tra l'esserci o la «situazione» e l'esi-stenza, la stessa valutazione della temporalità, della sto-ricità, della trascendenza, della libertà, lo stesso epilogofinale, a cui il Jaspers dà l'immaginoso nome di «naufra-gio». Si può notare tuttavia, in confronto di Heidegger,un'accentuazione più forte della tensione tra gli opposti,quindi una tendenza a sforzare le antinomie insite al di-venire e a dare un più apparente rilievo drammatico allastoricità. In questo senso si può dire, ed è stato detto,che la filosofia di Jaspers è più fedele all'originaria ispi-razione kierkegaardiana.

L'esserci, il Dasein, è una situazione particolare e de-

285 Per un'esposizione più particolareggiata, ma chiara e aderente della filoso-fia di Heidegger, v. STEFANINI, Il momento dell'educazione, Padova, 1938.Buone anche le pagine che vi dedica il WAHL, in Études kierkegaardiennes,cit.

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terminata, circoscritta nel tempo e nello spazio; l'esi-stenza è il trascendimento della situazione, è nel tempociò che sorpassa il tempo, è la libertà come impulso asorpassare il dato di fatto e a inserirlo così nel mondo. Ela personalità (Selbstein) è l'unione dell'uno e dell'altra,dello stare a sé e del darsi al mondo e alla trascenden-za286. Non può esserci perciò una personalità isolata: ap-partiene alla natura mondana di essa entrare in comuni-cazione con altre, pur avvertendo il limite interno diquesta reciproca comunicabilità287. E il mobile rapportodelle persone fonda la storicità, che realizza la vera uni-tà tra l'esserci e l'esistenza, tra il temporale e l'eterno:solo nella coscienza storica io avverto insieme ciò ch'èfenomenico e transeunte e ciò che di eterno si attua inquesto passaggio288.

Ma il divenire storico non è per il Jaspers che l'effettodella tensione antinomica dell'esistente. Noi chiamiamoantinomia, egli dice, delle impossibilità di unirsi, dellecontradizioni che non si risolvono, delle opposizioni chenon possono essere integrate. E in effetti, è questo chetroviamo al fondo dell'esistenza: la libertà unita alla di-pendenza, la comunicazione legata alla solitudine, l'ine-stricabilità dei contrari. È la tragedia della vita, ma an-che la salutare tragedia: se le opposizioni svaniscono,l'esistenza stessa svapora nel nulla. Hegel, che pur ha in-teso l'antinomicità del reale, s'è illuso di comporla, e ci286 K. JASPERS, Philosophie, II, pp. 2, 48.287 Ibid., II, pp. 49, 61.288 Ibid., II, pp. 122, 126.

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terminata, circoscritta nel tempo e nello spazio; l'esi-stenza è il trascendimento della situazione, è nel tempociò che sorpassa il tempo, è la libertà come impulso asorpassare il dato di fatto e a inserirlo così nel mondo. Ela personalità (Selbstein) è l'unione dell'uno e dell'altra,dello stare a sé e del darsi al mondo e alla trascenden-za286. Non può esserci perciò una personalità isolata: ap-partiene alla natura mondana di essa entrare in comuni-cazione con altre, pur avvertendo il limite interno diquesta reciproca comunicabilità287. E il mobile rapportodelle persone fonda la storicità, che realizza la vera uni-tà tra l'esserci e l'esistenza, tra il temporale e l'eterno:solo nella coscienza storica io avverto insieme ciò ch'èfenomenico e transeunte e ciò che di eterno si attua inquesto passaggio288.

Ma il divenire storico non è per il Jaspers che l'effettodella tensione antinomica dell'esistente. Noi chiamiamoantinomia, egli dice, delle impossibilità di unirsi, dellecontradizioni che non si risolvono, delle opposizioni chenon possono essere integrate. E in effetti, è questo chetroviamo al fondo dell'esistenza: la libertà unita alla di-pendenza, la comunicazione legata alla solitudine, l'ine-stricabilità dei contrari. È la tragedia della vita, ma an-che la salutare tragedia: se le opposizioni svaniscono,l'esistenza stessa svapora nel nulla. Hegel, che pur ha in-teso l'antinomicità del reale, s'è illuso di comporla, e ci286 K. JASPERS, Philosophie, II, pp. 2, 48.287 Ibid., II, pp. 49, 61.288 Ibid., II, pp. 122, 126.

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ha dato la visione di un mondo chiuso e arrotondito,dove non c'è più nessun problema, nessun rischio, nes-suna possibilità di nuova creazione, nessun dover esse-re, ma solo un trasparente sapere. Qui tutte le opposizio-ni sono soppresse, e noi diventiamo degli specchi, dovesi dipinge l'immagine completa e oggettiva del mon-do289.

Invece vi sono, nella realtà esistenziale, sempre squi-librio e rischio, possibilità aperte e problemi che urgono,insufficienze feconde per l'azione. D'altra parte non v'èun movimento unico e lineare, come quello che conce-piva la dialettica hegeliana, risultante dalla lottadell'essere col non essere, del vero col falso, del benecol male. Invece, dalla molteplicità delle esistenze sca-turiscono lotte ben altrimenti drammatiche, del positivocol positivo, dell'essere con l'essere, che complicano erendono sinuose le vie della storia. E infine non v'è unmondo compiuto, che comprende in sé tutte le cose neu-tralizzandone le differenze, ma vi sono mobili e variabiliprospettive di mondi in scorcio, sempre in via di farsi esempre in conflitto tra loro.

Anima di questo molteplice divenire è la libertà, checoincide con l'esistenza stessa, e che, come impulso atrascendere il dato, la situazione di fatto, crea il vitalesquilibrio che rende possibile il movimento. Da qui sivede che c'è nel Jaspers una embrionale dialettica cheravviva qua e là la sua visione. Ma, non diversamente289 Ibid., II, p. 161.

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ha dato la visione di un mondo chiuso e arrotondito,dove non c'è più nessun problema, nessun rischio, nes-suna possibilità di nuova creazione, nessun dover esse-re, ma solo un trasparente sapere. Qui tutte le opposizio-ni sono soppresse, e noi diventiamo degli specchi, dovesi dipinge l'immagine completa e oggettiva del mon-do289.

Invece vi sono, nella realtà esistenziale, sempre squi-librio e rischio, possibilità aperte e problemi che urgono,insufficienze feconde per l'azione. D'altra parte non v'èun movimento unico e lineare, come quello che conce-piva la dialettica hegeliana, risultante dalla lottadell'essere col non essere, del vero col falso, del benecol male. Invece, dalla molteplicità delle esistenze sca-turiscono lotte ben altrimenti drammatiche, del positivocol positivo, dell'essere con l'essere, che complicano erendono sinuose le vie della storia. E infine non v'è unmondo compiuto, che comprende in sé tutte le cose neu-tralizzandone le differenze, ma vi sono mobili e variabiliprospettive di mondi in scorcio, sempre in via di farsi esempre in conflitto tra loro.

Anima di questo molteplice divenire è la libertà, checoincide con l'esistenza stessa, e che, come impulso atrascendere il dato, la situazione di fatto, crea il vitalesquilibrio che rende possibile il movimento. Da qui sivede che c'è nel Jaspers una embrionale dialettica cheravviva qua e là la sua visione. Ma, non diversamente289 Ibid., II, p. 161.

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che in Kierkegaard, questa dialettica è stroncata da unradicale antinomismo, che impedisce di conquistareun'unità sintetica degli opposti. Con una ingenua illusio-ne, crede il Jaspers che sintetizzarli significhi conciliarlie quasi far la parte del bénisseur; ma, se anche Hegel ècaduto a volte nella stessa illusione, non è questo certa-mente il senso più profondo della sua dialettica. Nonmeno illusoria è l'idea, che egli vorrebbe sostituirvi, diuna tensione esasperata e irriducibile dei contrasti: quasiche la tensione fosse sinonimo di attività e di movimen-to, o non invece l'opposto, cioè un'attività impedita, neu-tralizzata, quindi incapace di produrre il movimento.

Avviene così che tutte le forze della dinamica jasper-siana subiscano, per usare il suo linguaggio, uno scacco,e restino paralizzate, immobili, vanamente protese versouna meta che non possono raggiungere. Come osservagiustamente il Pareyson, la ricerca, l'eros, è figlia di pe-nia e di poros, e sarebbe negata se penia e poros, invecedi essere coniugati, fossero identificati senza residuo,come nella filosofia di Jaspers290. Potrebbe sembrare aprima vista contradittorio assumere una tensione esaspe-rata degli opposti e nel tempo stesso la loro identità; in-vece è appunto quest'identità che mantiene quella ten-sione irrisolutiva, come in una specie di accoppiamentolesbico. Per conseguenza, tutta la dottrina assume unaforma allucinatoria, di un fare che è un disfare, di un'esi-stenza che si conquista col perderla, di un finale naufra-

290 L. PAREYSON, La filosofia dell'esistenza e Carlo Jaspers, 1940, p. 289.

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che in Kierkegaard, questa dialettica è stroncata da unradicale antinomismo, che impedisce di conquistareun'unità sintetica degli opposti. Con una ingenua illusio-ne, crede il Jaspers che sintetizzarli significhi conciliarlie quasi far la parte del bénisseur; ma, se anche Hegel ècaduto a volte nella stessa illusione, non è questo certa-mente il senso più profondo della sua dialettica. Nonmeno illusoria è l'idea, che egli vorrebbe sostituirvi, diuna tensione esasperata e irriducibile dei contrasti: quasiche la tensione fosse sinonimo di attività e di movimen-to, o non invece l'opposto, cioè un'attività impedita, neu-tralizzata, quindi incapace di produrre il movimento.

Avviene così che tutte le forze della dinamica jasper-siana subiscano, per usare il suo linguaggio, uno scacco,e restino paralizzate, immobili, vanamente protese versouna meta che non possono raggiungere. Come osservagiustamente il Pareyson, la ricerca, l'eros, è figlia di pe-nia e di poros, e sarebbe negata se penia e poros, invecedi essere coniugati, fossero identificati senza residuo,come nella filosofia di Jaspers290. Potrebbe sembrare aprima vista contradittorio assumere una tensione esaspe-rata degli opposti e nel tempo stesso la loro identità; in-vece è appunto quest'identità che mantiene quella ten-sione irrisolutiva, come in una specie di accoppiamentolesbico. Per conseguenza, tutta la dottrina assume unaforma allucinatoria, di un fare che è un disfare, di un'esi-stenza che si conquista col perderla, di un finale naufra-

290 L. PAREYSON, La filosofia dell'esistenza e Carlo Jaspers, 1940, p. 289.

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gio che è un finale successo. E la libertà, che do-vrebb'essere l'anima del divenire, è concepita nella stes-sa ambiguità sconcertante: essa è una decisione tra icontrari, ma poiché i contrari sono identici, è una deci-sione che non decide, ma assume il già deciso, quindicoincide col fato, o meglio col nietzschiano amor fati291.

Noi non seguiremo il Jaspers nelle esercitazioni delsuo vano funambolismo. In fondo, egli perviene a unnullismo non meno desolante di quello di Heidegger,sebbene, col suo falso antinomismo, gli dia l'apparenzadi un miscuglio di luce e di ombra. Ma, per l'indifferen-za dei contrari, la luce è ombra e l'ombra è luce. La fina-le antinomia dell'esistenza, in cui gli opposti si confon-dono, è da lui adombrata dalle due leggi del giorno edella notte. La legge del giorno dà un orientamento allanostra vita, esige chiarezza, coerenza, fedeltà, ragione.Essa esige di realizzare qualcosa nel mondo, di costruirenel tempo, di dare un compimento al Dasein per una viainfinita. Ma la passione per la notte rompe ogni ordine,ci sprofonda nell'abisso del nulla, che tutto attrae nel suovortice. La legge del giorno conosce la notte solo comelimite, ma non crede in fondo ad essa: agendo penso allavita, non alla morte. Ma la passione per la notte ha unamoroso e spaventoso rapporto con la morte come suaamica e nemica292. Noi siamo venuti fuori dalla notte. Illegame alla terra, la parentela di sangue, la razza, sono il

291 Philos., II, pp. 180 sgg.292 Op. cit., III, p. 102.

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gio che è un finale successo. E la libertà, che do-vrebb'essere l'anima del divenire, è concepita nella stes-sa ambiguità sconcertante: essa è una decisione tra icontrari, ma poiché i contrari sono identici, è una deci-sione che non decide, ma assume il già deciso, quindicoincide col fato, o meglio col nietzschiano amor fati291.

Noi non seguiremo il Jaspers nelle esercitazioni delsuo vano funambolismo. In fondo, egli perviene a unnullismo non meno desolante di quello di Heidegger,sebbene, col suo falso antinomismo, gli dia l'apparenzadi un miscuglio di luce e di ombra. Ma, per l'indifferen-za dei contrari, la luce è ombra e l'ombra è luce. La fina-le antinomia dell'esistenza, in cui gli opposti si confon-dono, è da lui adombrata dalle due leggi del giorno edella notte. La legge del giorno dà un orientamento allanostra vita, esige chiarezza, coerenza, fedeltà, ragione.Essa esige di realizzare qualcosa nel mondo, di costruirenel tempo, di dare un compimento al Dasein per una viainfinita. Ma la passione per la notte rompe ogni ordine,ci sprofonda nell'abisso del nulla, che tutto attrae nel suovortice. La legge del giorno conosce la notte solo comelimite, ma non crede in fondo ad essa: agendo penso allavita, non alla morte. Ma la passione per la notte ha unamoroso e spaventoso rapporto con la morte come suaamica e nemica292. Noi siamo venuti fuori dalla notte. Illegame alla terra, la parentela di sangue, la razza, sono il

291 Philos., II, pp. 180 sgg.292 Op. cit., III, p. 102.

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fondo di un'oscurità che ci circonda e che la chiarità delgiorno acuisce293. «Nella volontà degli uomini che agi-scono nella politica si fa manifesto quanto spazio inclu-da la pretesa della notte»294. Ma il giorno è legato allanotte, e ciò ch'è apparso nell'uno si converte nell'abissodell'altra. Contro l'idea, che appartiene al giorno, del po-sitivo costruire nel divenire storico, la notte ammonisceche tutto quel che diviene deve essere distrutto. Sopraogni essere vivente viene la morte. Le realizzazioni so-ciali si annullano, le possibilità mentali si esauriscono, imodi della vita spirituale si spengono. La storia, con lasua tecnica e con la sua razionalizzazione, dà il senso diun progresso; ma nell'intimo dell'umanità, questo pro-gresso è anche la via del trionfo di forze distruttive. «Sevi fosse la possibilità che lo sviluppo della tecnica por-tasse alla distruzione di tutta l'esistenza umana, non v'èdubbio che anche questa meta sarebbe raggiunta.» Ilnaufragio è l'ultima meta. Naufraga nella rivelazionedell'esistenza l'essere in sé dell'esistenza; naufraga nellatrascendenza il pensiero. Ogni positivo è legato al nega-tivo. Non c'è nessun bene senza male, nessuna veritàsenza falsità, nessuna vita senza morte; ogni felicità èlegata al dolore. La profondità dell'uomo, che porta lasua esistenza a rivelarsi, è realmente legata al distrutti-vo, al malato, allo stravagante; e questo legame, nellasua estrema molteplicità, non è univoco295.

293 Ibid., III, p. 105.294 Ibid., III, p. 107.295 Ibid., III, pp. 110, 113, 219, 220 sgg.

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fondo di un'oscurità che ci circonda e che la chiarità delgiorno acuisce293. «Nella volontà degli uomini che agi-scono nella politica si fa manifesto quanto spazio inclu-da la pretesa della notte»294. Ma il giorno è legato allanotte, e ciò ch'è apparso nell'uno si converte nell'abissodell'altra. Contro l'idea, che appartiene al giorno, del po-sitivo costruire nel divenire storico, la notte ammonisceche tutto quel che diviene deve essere distrutto. Sopraogni essere vivente viene la morte. Le realizzazioni so-ciali si annullano, le possibilità mentali si esauriscono, imodi della vita spirituale si spengono. La storia, con lasua tecnica e con la sua razionalizzazione, dà il senso diun progresso; ma nell'intimo dell'umanità, questo pro-gresso è anche la via del trionfo di forze distruttive. «Sevi fosse la possibilità che lo sviluppo della tecnica por-tasse alla distruzione di tutta l'esistenza umana, non v'èdubbio che anche questa meta sarebbe raggiunta.» Ilnaufragio è l'ultima meta. Naufraga nella rivelazionedell'esistenza l'essere in sé dell'esistenza; naufraga nellatrascendenza il pensiero. Ogni positivo è legato al nega-tivo. Non c'è nessun bene senza male, nessuna veritàsenza falsità, nessuna vita senza morte; ogni felicità èlegata al dolore. La profondità dell'uomo, che porta lasua esistenza a rivelarsi, è realmente legata al distrutti-vo, al malato, allo stravagante; e questo legame, nellasua estrema molteplicità, non è univoco295.

293 Ibid., III, p. 105.294 Ibid., III, p. 107.295 Ibid., III, pp. 110, 113, 219, 220 sgg.

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E, tuttavia, per la convertibilità del positivo e del ne-gativo, del giorno e della notte, questo finale naufragio ènel tempo stesso un trionfo. Esso infatti è un privilegioumano: gli esseri inferiori sono soggetti a un passato og-gettivo che si prolunga in un immobile presente; solol'uomo è aperto alla libertà, alla possibilità, alla trascen-denza, quindi al naufragio296. E assumendo con libertà econ amore il suo fato, accettando la prospettiva dellamorte come l'adempimento vero del suo essere, egli ce-lebra il suo ultimo trionfo297.

Ai due filosofi tedeschi già studiati, i quali svolgonoil loro pensiero sopra un piano abbastanza omogeneo diproblemi, aggreghiamo uno scrittore francese, GabrielMarcel, filosofo e drammaturgo che ci rivela una ten-denza alquanto diversa dell'esistenzialismo contempora-neo, orientata verso una interpretazione religiosa e cat-tolica della trascendenza. I suoi scritti, Journalmétaphysique, Être et avoir, Position et approchesconcrètes du Mystère ontologique, ecc. hanno la formadi confessioni intime, propria di chi sembra cercare atentoni la sua via, e dice e si disdice, e sente rampollarea piè del vero il dubbio. Pure, si ha l'impressione che inquesti ondeggiamenti si riveli piuttosto l'abilità consu-mata di un esperto direttore di scena, che non un sincerotravaglio mentale, il quale è per sua natura troppo pudi-

296 Ibid., p. 220.297 Sul Jaspers si veda il cit. libro del PAREYSON; inoltre il saggio del WAHL nel-

le Études kierkegaardiennes e un articolo del CARDONA, Un filosofodell'esistenza (in Studi germanici, 1942).

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E, tuttavia, per la convertibilità del positivo e del ne-gativo, del giorno e della notte, questo finale naufragio ènel tempo stesso un trionfo. Esso infatti è un privilegioumano: gli esseri inferiori sono soggetti a un passato og-gettivo che si prolunga in un immobile presente; solol'uomo è aperto alla libertà, alla possibilità, alla trascen-denza, quindi al naufragio296. E assumendo con libertà econ amore il suo fato, accettando la prospettiva dellamorte come l'adempimento vero del suo essere, egli ce-lebra il suo ultimo trionfo297.

Ai due filosofi tedeschi già studiati, i quali svolgonoil loro pensiero sopra un piano abbastanza omogeneo diproblemi, aggreghiamo uno scrittore francese, GabrielMarcel, filosofo e drammaturgo che ci rivela una ten-denza alquanto diversa dell'esistenzialismo contempora-neo, orientata verso una interpretazione religiosa e cat-tolica della trascendenza. I suoi scritti, Journalmétaphysique, Être et avoir, Position et approchesconcrètes du Mystère ontologique, ecc. hanno la formadi confessioni intime, propria di chi sembra cercare atentoni la sua via, e dice e si disdice, e sente rampollarea piè del vero il dubbio. Pure, si ha l'impressione che inquesti ondeggiamenti si riveli piuttosto l'abilità consu-mata di un esperto direttore di scena, che non un sincerotravaglio mentale, il quale è per sua natura troppo pudi-

296 Ibid., p. 220.297 Sul Jaspers si veda il cit. libro del PAREYSON; inoltre il saggio del WAHL nel-

le Études kierkegaardiennes e un articolo del CARDONA, Un filosofodell'esistenza (in Studi germanici, 1942).

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co per esibirsi in tutta la sua nudità. In fondo, il Marcelsa fin da principio dove vuole arrivare, ed ha l'aria dicercare, avendo già trovato.

Il problema dell'esistenza s'innesta per lui a una spe-cie di empirismo mistico, nato dalla dissoluzione di unprecedente idealismo d'ispirazione neo-hegeliana. Con-tro la mediazione dialettica, alla quale sembra indicareancora nella prima parte del suo Journal, egli rivendicauna restaurazione dell'immediatezza, ma di una imme-diatezza sui generis, che, per una specie di contatto mi-stico, vuole includere in sé tutti i valori trascendentidell'esperienza religiosa. Questo contatto si dà, fin daglialbori della vita psichica, nella sensazione, che èun'affezione, una partecipazione immediata, e nonun'informazione o un messaggio. Sentire non è decifra-re, ma è partecipare immediatamente, è divenire in qual-che modo la cosa sentita, al di là di ogni distinzione trail qui e il là, tra il soggetto e l'oggetto298.

Da questo tenue spunto, il Marcel è tratto a capovol-gere il compito che prima aveva attribuito alla filosofia,che consiste non più in uno sforzo per trascenderel'immediato, ma in uno sforzo per ritrovare col pensieroe al di là del pensiero una nuova infallibilità, un nuovoimmediato. Il sogno del metafisico è di riconquistare ilparadiso che era stato perduto con la riflessione, peraver mangiato il frutto dell'albero del vero e del falso299.

298 Journal métaphysique, 1927, p. 250.299 WAHL, Le Journal métaphysique de G. M. (in Vers le concret, 1932), p.

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co per esibirsi in tutta la sua nudità. In fondo, il Marcelsa fin da principio dove vuole arrivare, ed ha l'aria dicercare, avendo già trovato.

Il problema dell'esistenza s'innesta per lui a una spe-cie di empirismo mistico, nato dalla dissoluzione di unprecedente idealismo d'ispirazione neo-hegeliana. Con-tro la mediazione dialettica, alla quale sembra indicareancora nella prima parte del suo Journal, egli rivendicauna restaurazione dell'immediatezza, ma di una imme-diatezza sui generis, che, per una specie di contatto mi-stico, vuole includere in sé tutti i valori trascendentidell'esperienza religiosa. Questo contatto si dà, fin daglialbori della vita psichica, nella sensazione, che èun'affezione, una partecipazione immediata, e nonun'informazione o un messaggio. Sentire non è decifra-re, ma è partecipare immediatamente, è divenire in qual-che modo la cosa sentita, al di là di ogni distinzione trail qui e il là, tra il soggetto e l'oggetto298.

Da questo tenue spunto, il Marcel è tratto a capovol-gere il compito che prima aveva attribuito alla filosofia,che consiste non più in uno sforzo per trascenderel'immediato, ma in uno sforzo per ritrovare col pensieroe al di là del pensiero una nuova infallibilità, un nuovoimmediato. Il sogno del metafisico è di riconquistare ilparadiso che era stato perduto con la riflessione, peraver mangiato il frutto dell'albero del vero e del falso299.

298 Journal métaphysique, 1927, p. 250.299 WAHL, Le Journal métaphysique de G. M. (in Vers le concret, 1932), p.

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Della stessa natura dell'esperienza sensibile è l'espe-rienza del proprio corpo. Come la sensazione non è unmessaggio, così il proprio corpo non è uno strumento oun oggetto. È vero che per mezzo del mio corpo io entroin rapporto col mondo circostante; ma questa mediazio-ne non ha un carattere strumentale, e si può chiamarpiuttosto una mediazione simpatica, perché io, attraver-so di essa, mi pongo in rapporto di simpatia con le coseche mi circondano300.

Tuttavia io non coincido col mio corpo; esso non èoggettivabile, ma nel tempo stesso non è un soggetto;esso non s'identifica col mio essere soggettivo, e noncade nella sfera oggettiva del mio avere; ma è qualcosatra l'essere e l'avere: il primo esempio di una partecipa-zione immediata di me all'altro, di una incarnazione, diuna trascendenza immanente. L'esperienza del corpo midà insomma la prima intuizione esistenziale: l'esistenzanon è che partecipazione e incarnazione, è la trascen-denza assunta nell'immanenza, la misteriosa inserzionedell'essere nell'esserci.

Lo sviluppo dell'esistenza è a sua volta l'implicazioneprogressiva di nuovi elementi, che ne ampliano la sferainiziale; è la graduale partecipazione dell'esistente a tut-to l'universo. Al di sopra della comunione immediatacon gli altri corpi mediante il mio corpo, si dà, per unnuovo slancio verso la trascendenza, la comunione con

235.300 Journal, p. 305.

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Della stessa natura dell'esperienza sensibile è l'espe-rienza del proprio corpo. Come la sensazione non è unmessaggio, così il proprio corpo non è uno strumento oun oggetto. È vero che per mezzo del mio corpo io entroin rapporto col mondo circostante; ma questa mediazio-ne non ha un carattere strumentale, e si può chiamarpiuttosto una mediazione simpatica, perché io, attraver-so di essa, mi pongo in rapporto di simpatia con le coseche mi circondano300.

Tuttavia io non coincido col mio corpo; esso non èoggettivabile, ma nel tempo stesso non è un soggetto;esso non s'identifica col mio essere soggettivo, e noncade nella sfera oggettiva del mio avere; ma è qualcosatra l'essere e l'avere: il primo esempio di una partecipa-zione immediata di me all'altro, di una incarnazione, diuna trascendenza immanente. L'esperienza del corpo midà insomma la prima intuizione esistenziale: l'esistenzanon è che partecipazione e incarnazione, è la trascen-denza assunta nell'immanenza, la misteriosa inserzionedell'essere nell'esserci.

Lo sviluppo dell'esistenza è a sua volta l'implicazioneprogressiva di nuovi elementi, che ne ampliano la sferainiziale; è la graduale partecipazione dell'esistente a tut-to l'universo. Al di sopra della comunione immediatacon gli altri corpi mediante il mio corpo, si dà, per unnuovo slancio verso la trascendenza, la comunione con

235.300 Journal, p. 305.

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gli altri esseri simili a me. L'io e il tu nascono anch'essiper una sorta di mediatezza immediata, d'intimo contattosimpatico, che rompe in modo misterioso l'isolamento incui ciascuna individualità è chiusa. È ciò che si rivelaper esempio nello slancio di amore che rompe le barrie-re tra due anime, facendo del tu un io.

Un ultimo slancio, nel progresso dell'esistenza, ciporta sulla soglia stessa dell'Essere, alla presenza di Dio.Tramiti di questa, come di tutte le precedenti forme dicomunione mistica, sono le tre virtù teologali, la fede, lasperanza, la carità, sottilmente interpretate dal Marcel,in modo da togliere ad esse quel certo odore d'incensoche la tradizione religiosa vi ha diffuso tutt'intorno. Lafede che, nei gradi inferiori prende il nome di fedeltà, èimplicita in ogni giudizio di esistenza, che è sempreun'assunzione la quale trascende il qui e l'ora della realtàimmediata. La stessa esistenza dei corpi esterni è affer-mata come un prolungamento di quella certezza che ac-compagna l'esperienza del mio corpo; essa risulta dun-que da un atto di fiducia e quasi di credito di cui io inve-sto la mia certificazione interiore. E la fedeltà si corro-bora nei rapporti tra l'io e il tu; si rivela trionfatrice deltempo, dello spazio, e così si prepara alla sua finale tra-sformazione nella fede, in senso assoluto, che ha per og-getto la suprema trascendenza.

Similmente, la speranza è un mistico avvicinamentodel proprio oggetto, che contiene sempre in sé, quando èvera speranza, qualcosa di profetico. E a sua volta

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gli altri esseri simili a me. L'io e il tu nascono anch'essiper una sorta di mediatezza immediata, d'intimo contattosimpatico, che rompe in modo misterioso l'isolamento incui ciascuna individualità è chiusa. È ciò che si rivelaper esempio nello slancio di amore che rompe le barrie-re tra due anime, facendo del tu un io.

Un ultimo slancio, nel progresso dell'esistenza, ciporta sulla soglia stessa dell'Essere, alla presenza di Dio.Tramiti di questa, come di tutte le precedenti forme dicomunione mistica, sono le tre virtù teologali, la fede, lasperanza, la carità, sottilmente interpretate dal Marcel,in modo da togliere ad esse quel certo odore d'incensoche la tradizione religiosa vi ha diffuso tutt'intorno. Lafede che, nei gradi inferiori prende il nome di fedeltà, èimplicita in ogni giudizio di esistenza, che è sempreun'assunzione la quale trascende il qui e l'ora della realtàimmediata. La stessa esistenza dei corpi esterni è affer-mata come un prolungamento di quella certezza che ac-compagna l'esperienza del mio corpo; essa risulta dun-que da un atto di fiducia e quasi di credito di cui io inve-sto la mia certificazione interiore. E la fedeltà si corro-bora nei rapporti tra l'io e il tu; si rivela trionfatrice deltempo, dello spazio, e così si prepara alla sua finale tra-sformazione nella fede, in senso assoluto, che ha per og-getto la suprema trascendenza.

Similmente, la speranza è un mistico avvicinamentodel proprio oggetto, che contiene sempre in sé, quando èvera speranza, qualcosa di profetico. E a sua volta

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l'amore (charitas) è una presenza di cui io non dispongocome di oggetto, e che perciò non rientra nell'avere, manell'essere. Le tre virtù sono in stretto rapporto l'una conl'altra: la presenza che si rivela nella speranza non è tale,se io non sono con essa in un rapporto di amore, e lafede è ciò che regge la trama sottile e tenace di questorapporto.

Lungo il cammino esistenziale che si distendedall'uomo a Dio, l'incarnazione e la partecipazione checaratterizzano l'esistenza si trasformano grado a gradoin un'invocazione e in un appello. Il giudizio in «tu» ègià un appello a un essere al quale siamo uniti per unapresenza spirituale; il giudizio in «noi» è una sublima-zione di esso in un dominio superiore, a cui si accedecon l'invocazione e con la preghiera301. Si giunge cosìfino a Dio, inteso come un «tu» assoluto, che a differen-za del «tu» empirico non può essere convertito in un«lui».

Non bisogna raffigurarsi questo cammino esistenzialecome una via piana e continua; esso è fatto a gradi e asalti, in ognuno dei quali noi ci troviamo di fronte a unairriducibile trascendenza. Ma in un certo senso noi sia-mo o ci facciamo immanenti a quel che ci trascende,partecipando ad esso in un modo ineffabile e misterioso.La realtà ontologica è un mistero e non un problema: unmistero si rivela per via immediata, un problema si ri-solve con la forza dell'intelletto. Ora, nessuno dei gradi301 Op. cit., pp. 262, 275.

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l'amore (charitas) è una presenza di cui io non dispongocome di oggetto, e che perciò non rientra nell'avere, manell'essere. Le tre virtù sono in stretto rapporto l'una conl'altra: la presenza che si rivela nella speranza non è tale,se io non sono con essa in un rapporto di amore, e lafede è ciò che regge la trama sottile e tenace di questorapporto.

Lungo il cammino esistenziale che si distendedall'uomo a Dio, l'incarnazione e la partecipazione checaratterizzano l'esistenza si trasformano grado a gradoin un'invocazione e in un appello. Il giudizio in «tu» ègià un appello a un essere al quale siamo uniti per unapresenza spirituale; il giudizio in «noi» è una sublima-zione di esso in un dominio superiore, a cui si accedecon l'invocazione e con la preghiera301. Si giunge cosìfino a Dio, inteso come un «tu» assoluto, che a differen-za del «tu» empirico non può essere convertito in un«lui».

Non bisogna raffigurarsi questo cammino esistenzialecome una via piana e continua; esso è fatto a gradi e asalti, in ognuno dei quali noi ci troviamo di fronte a unairriducibile trascendenza. Ma in un certo senso noi sia-mo o ci facciamo immanenti a quel che ci trascende,partecipando ad esso in un modo ineffabile e misterioso.La realtà ontologica è un mistero e non un problema: unmistero si rivela per via immediata, un problema si ri-solve con la forza dell'intelletto. Ora, nessuno dei gradi301 Op. cit., pp. 262, 275.

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dell'ontologia esistenziale è dimostrabile razionalmente;né l'esistenza dei corpi, né quella di esseri simili a noi,né quella di Dio. Ognuno di essi ci s'illumina improvvi-samente con una partecipazione che è preclusa all'intel-letto.

Più precisamente: il problema è una difficoltà che puòessere risolta, perché colui che vuol sormontarla non viè egli stesso implicato, ed è pertanto in grado di oggetti-varla innanzi a sé e di farne materia di una riflessioneintellettuale. Il mistero invece è una quistione in cui ilsoggetto che vorrebbe scioglierla è impegnato in esso, enon può districarsene per oggettivarla. Di qui la defini-zione data dal Marcel del mistero, come di un problemache invade e soverchia i propri dati e, come tale, non èrisolubile. Di questa natura è il problema ontologicodell'esistenza in tutti i suoi momenti, perché io che inda-go l'essere sono io stesso impegnato nell'essere e nonposso distaccarlo da me come qualcosa di oggettivo e dicontemplabile. A ogni sforzo per oggettivarlo, l'esseresfugge e si cela; e non può rivelarsi che restando immer-si nella sua corrente vitale, secondo i modi già descritti.

Correlativa alla distinzione tra il mistero e il proble-ma è quella tra l'essere e l'avere. L'avere implica un pos-sesso oggettivabile, ma insieme col possedere, un esserposseduto, cioè un essere aggravato da un peso e da unimpedimento. L'essere invece è libertà da ogni ingom-bro, disponibilità assoluta di se stesso. Di qui il valorereligioso della povertà e dell'ascetismo. Perciò il pro-

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dell'ontologia esistenziale è dimostrabile razionalmente;né l'esistenza dei corpi, né quella di esseri simili a noi,né quella di Dio. Ognuno di essi ci s'illumina improvvi-samente con una partecipazione che è preclusa all'intel-letto.

Più precisamente: il problema è una difficoltà che puòessere risolta, perché colui che vuol sormontarla non viè egli stesso implicato, ed è pertanto in grado di oggetti-varla innanzi a sé e di farne materia di una riflessioneintellettuale. Il mistero invece è una quistione in cui ilsoggetto che vorrebbe scioglierla è impegnato in esso, enon può districarsene per oggettivarla. Di qui la defini-zione data dal Marcel del mistero, come di un problemache invade e soverchia i propri dati e, come tale, non èrisolubile. Di questa natura è il problema ontologicodell'esistenza in tutti i suoi momenti, perché io che inda-go l'essere sono io stesso impegnato nell'essere e nonposso distaccarlo da me come qualcosa di oggettivo e dicontemplabile. A ogni sforzo per oggettivarlo, l'esseresfugge e si cela; e non può rivelarsi che restando immer-si nella sua corrente vitale, secondo i modi già descritti.

Correlativa alla distinzione tra il mistero e il proble-ma è quella tra l'essere e l'avere. L'avere implica un pos-sesso oggettivabile, ma insieme col possedere, un esserposseduto, cioè un essere aggravato da un peso e da unimpedimento. L'essere invece è libertà da ogni ingom-bro, disponibilità assoluta di se stesso. Di qui il valorereligioso della povertà e dell'ascetismo. Perciò il pro-

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gresso ontologico è un progresso nella via dell'umiltà,dove il soggetto converte l'avere nell'essere, e, scevro daingombri, è in grado di raggiungere la piena disponibili-tà di se stesso innanzi alla morte, che, per lo scrittorecattolico, a differenza degli esistenzialisti tedeschi, nonè la prospettiva d'inabissarsi nel nulla, ma è un trampoli-no sull'eternità.

La dottrina del Marcel è incriticabile, perché consape-volmente si pone al di fuori del terreno critico, in quellazona di penombra delle presenze ineffabili e dei contattimistici, che richiedono un sesto senso ignoto ai comunimortali. Chi lo possiede se lo goda. Ma che il godimentonon sia troppo invidiabile e che le sue presunte rivela-zioni non creino un tipo di umanità veramente superio-re, ci è indirettamente suggerito dalla conoscenza deidrammi del Marcel, che vorrebbero essere una specie diesemplificazione della sua ontologia. In essi si muovonodelle larve umane, delle figure allucinate, che parlanosenza intendersi, e a un certo momento vibrano per queltale contatto misterioso, e vanno per lo più a finire in unconvento302. Se son questi i vasi di elezione esistenziale,non ci rincresce di essere impastati di tutt'altra pasta e dinon avere altro mezzo per comunicare con l'invisibileche le vie ordinarie dell'intelligenza303.

302 Per esempio in Le monde cassé e in La soif.303 Sul Marcel si vedano lo scritto cit. del WAHL e uno studio di G. OLIVIERI,

La filosofia di G. M. (in Saggi filosofici di vari autori, a cura dell'Istituto distudi filosofici di Torino).

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gresso ontologico è un progresso nella via dell'umiltà,dove il soggetto converte l'avere nell'essere, e, scevro daingombri, è in grado di raggiungere la piena disponibili-tà di se stesso innanzi alla morte, che, per lo scrittorecattolico, a differenza degli esistenzialisti tedeschi, nonè la prospettiva d'inabissarsi nel nulla, ma è un trampoli-no sull'eternità.

La dottrina del Marcel è incriticabile, perché consape-volmente si pone al di fuori del terreno critico, in quellazona di penombra delle presenze ineffabili e dei contattimistici, che richiedono un sesto senso ignoto ai comunimortali. Chi lo possiede se lo goda. Ma che il godimentonon sia troppo invidiabile e che le sue presunte rivela-zioni non creino un tipo di umanità veramente superio-re, ci è indirettamente suggerito dalla conoscenza deidrammi del Marcel, che vorrebbero essere una specie diesemplificazione della sua ontologia. In essi si muovonodelle larve umane, delle figure allucinate, che parlanosenza intendersi, e a un certo momento vibrano per queltale contatto misterioso, e vanno per lo più a finire in unconvento302. Se son questi i vasi di elezione esistenziale,non ci rincresce di essere impastati di tutt'altra pasta e dinon avere altro mezzo per comunicare con l'invisibileche le vie ordinarie dell'intelligenza303.

302 Per esempio in Le monde cassé e in La soif.303 Sul Marcel si vedano lo scritto cit. del WAHL e uno studio di G. OLIVIERI,

La filosofia di G. M. (in Saggi filosofici di vari autori, a cura dell'Istituto distudi filosofici di Torino).

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Esaurita la rapida rassegna delle forme principalidell'esistenzialismo, ci resta ora a considerare l'altra qui-stione sul valore di esso e sul contributo effettivo che haportato alla storia del pensiero. Gli storici del nuovomovimento304 hanno posto in rilievo l'antitesi in cui essoè concepito verso il panlogismo hegeliano e verso gli in-dirizzi idealistici che ne sono scaturiti. L'esistenza nellasua irrazionalità, nel suo slancio verso il trascendente,nella sua individuazione personale, è un'istanza vivacontro le astrazioni concettuali dell'idealismo, e la riven-dicazione passionata di essa non può che portare unvivo e salutare fermento nel pensiero filosofico.

Bisogna dare atto all'esistenzialismo di questa suafunzione di «reagente»; ma bisogna nel tempo stesso ri-conoscere che la reazione, nel suo intrinseco significato,non è affatto nuova. Essa anzi attraversa, come una vivi-ficante corrente, tutta la storia del pensiero, fin dai pri-mordi. L'antitesi tra la possibilità concettuale e l'atto, tral'essenza e l'esistenza, è stata intesa nella sua pienezzadal pensiero greco, e lo stesso Aristotele ha recisamenteaffermato 1'irriducibilità del secondo termine al primo.Un esistente in atto, un uomo, si genera da un altrouomo e non dall'essenza umana; ma l'essenza non è resaperciò superflua, come una vana astrazione: essa agisceper il tramite degli individui che l'incarnano, e la sua in-visibile presenza assicura la permanenza dei caratteri304 Si vedano gli artt. del Banfi, del Paci, del Pareyson e di altri nel numero

unico della rivista Studi filosofici del giugno 1941 dedicato all'esistenziali-smo.

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Esaurita la rapida rassegna delle forme principalidell'esistenzialismo, ci resta ora a considerare l'altra qui-stione sul valore di esso e sul contributo effettivo che haportato alla storia del pensiero. Gli storici del nuovomovimento304 hanno posto in rilievo l'antitesi in cui essoè concepito verso il panlogismo hegeliano e verso gli in-dirizzi idealistici che ne sono scaturiti. L'esistenza nellasua irrazionalità, nel suo slancio verso il trascendente,nella sua individuazione personale, è un'istanza vivacontro le astrazioni concettuali dell'idealismo, e la riven-dicazione passionata di essa non può che portare unvivo e salutare fermento nel pensiero filosofico.

Bisogna dare atto all'esistenzialismo di questa suafunzione di «reagente»; ma bisogna nel tempo stesso ri-conoscere che la reazione, nel suo intrinseco significato,non è affatto nuova. Essa anzi attraversa, come una vivi-ficante corrente, tutta la storia del pensiero, fin dai pri-mordi. L'antitesi tra la possibilità concettuale e l'atto, tral'essenza e l'esistenza, è stata intesa nella sua pienezzadal pensiero greco, e lo stesso Aristotele ha recisamenteaffermato 1'irriducibilità del secondo termine al primo.Un esistente in atto, un uomo, si genera da un altrouomo e non dall'essenza umana; ma l'essenza non è resaperciò superflua, come una vana astrazione: essa agisceper il tramite degli individui che l'incarnano, e la sua in-visibile presenza assicura la permanenza dei caratteri304 Si vedano gli artt. del Banfi, del Paci, del Pareyson e di altri nel numero

unico della rivista Studi filosofici del giugno 1941 dedicato all'esistenziali-smo.

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fondamentali della specie nel succedersi delle genera-zioni. Essenza ed esistenza coincidono soltanto in Dio;al di sotto di Dio invece bisogna ammettere un principiospecifico d'individuazione, senza il quale tutte le creatu-re tenderebbero a confondersi in un essere solo.

Sarebbe superfluo indagare quali forme ha assuntonel corso della storia questa esigenza d'individuare l'uni-versale; tanto varrebbe scrivere daccapo tutta la storiadella filosofia. Basti soltanto notare che in ogni tempo, aqualunque tentativo di accentuare soverchiamente iltema universalistico, ha fatto riscontro una vivace rea-zione in nome dell'irrazionalità, dell'esperienza empiri-ca, dell'individualità, dell'esistenza, della contingenza,ecc. Spesso la reazione è avvenuta nello stesso pensato-re, come è dato notare in Leibniz, che ha nettamente di-stinto due princìpi, d'identità e di ragion sufficiente, ap-propriati l'uno alle essenze, l'altro alle esistenze; e men-tre, in sede logica, s'è sforzato di identificarli, in sedemetafisica li ha di nuovo separati per salvare l'individua-lità delle monadi. In lui si può dire che i due interessimentali tendono ad equilibrarsi; ma si dissociano e sioppongono nella sua scuola, con una decisa prevalenzadel razionalismo astratto in Wolff e con una non menodecisa reazione esistenzialistica in Crusius e in Kantprecritico. Nella Critica della ragion pura si dà un pri-mo tentativo di delimitazione precisa delle due sfere, at-tribuendo alla ragione un compito di unificazione for-male, che presuppone e non crea il dato di fatto su cui si

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fondamentali della specie nel succedersi delle genera-zioni. Essenza ed esistenza coincidono soltanto in Dio;al di sotto di Dio invece bisogna ammettere un principiospecifico d'individuazione, senza il quale tutte le creatu-re tenderebbero a confondersi in un essere solo.

Sarebbe superfluo indagare quali forme ha assuntonel corso della storia questa esigenza d'individuare l'uni-versale; tanto varrebbe scrivere daccapo tutta la storiadella filosofia. Basti soltanto notare che in ogni tempo, aqualunque tentativo di accentuare soverchiamente iltema universalistico, ha fatto riscontro una vivace rea-zione in nome dell'irrazionalità, dell'esperienza empiri-ca, dell'individualità, dell'esistenza, della contingenza,ecc. Spesso la reazione è avvenuta nello stesso pensato-re, come è dato notare in Leibniz, che ha nettamente di-stinto due princìpi, d'identità e di ragion sufficiente, ap-propriati l'uno alle essenze, l'altro alle esistenze; e men-tre, in sede logica, s'è sforzato di identificarli, in sedemetafisica li ha di nuovo separati per salvare l'individua-lità delle monadi. In lui si può dire che i due interessimentali tendono ad equilibrarsi; ma si dissociano e sioppongono nella sua scuola, con una decisa prevalenzadel razionalismo astratto in Wolff e con una non menodecisa reazione esistenzialistica in Crusius e in Kantprecritico. Nella Critica della ragion pura si dà un pri-mo tentativo di delimitazione precisa delle due sfere, at-tribuendo alla ragione un compito di unificazione for-male, che presuppone e non crea il dato di fatto su cui si

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esercita. L'esistenza non è un predicato logico, ma una«posizione» estranea, carica del mistero della cosa in sé,e quindi un'entità ambigua, a cui il pensiero speculativonon può arrestarsi. Si riproduce pertanto nella filosofiapostkantiana quella biforcazione delle vie che, sopra unpiano diverso, si era già prodotta in seno alla scuola diLeibniz. Hamann e Jacobi accentuano l'irrazionalità diquella «posizione», facendone l'oggetto di una rivelazio-ne e di una fede immediata; gli idealisti si sforzano dirazionalizzarla, risolvendola nell'attività che la pone, eche coincide con la stessa attività razionale dello spirito.Ma la «posizione» è forte e resiste, sì che non sarebbedifficile rintracciare i segni della sua resistenza nelledottrine dei corifei dell'idealismo. Ci limiteremo soltan-to a ricordare lo Schelling, nel quale i residui irraziona-listici irriducibili alla soluzione logica precipitano in untorbido conglomerato dottrinale, che ha non poche affi-nità con l'esistenzialismo contemporaneo.

I due scritti schellinghiani nei quali il problemadell'esistenza passa al primo piano sono Filosofia e reli-gione del 1804 e Ricerche filosofiche sull'essenza dellalibertà umana del 1809, che seguono, com'è noto, le si-stemazioni dell'idealismo trascendentale e della filosofiadell'entità, e segnano una reazione contro l'indirizzo ra-zionalistico di esse. Il primo scritto afferma esplicita-mente che dall'assoluto all'esistenza reale e contingentenon c'è passaggio continuo, e che l'origine del mondosensibile è pensabile solo come una completa rottura

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esercita. L'esistenza non è un predicato logico, ma una«posizione» estranea, carica del mistero della cosa in sé,e quindi un'entità ambigua, a cui il pensiero speculativonon può arrestarsi. Si riproduce pertanto nella filosofiapostkantiana quella biforcazione delle vie che, sopra unpiano diverso, si era già prodotta in seno alla scuola diLeibniz. Hamann e Jacobi accentuano l'irrazionalità diquella «posizione», facendone l'oggetto di una rivelazio-ne e di una fede immediata; gli idealisti si sforzano dirazionalizzarla, risolvendola nell'attività che la pone, eche coincide con la stessa attività razionale dello spirito.Ma la «posizione» è forte e resiste, sì che non sarebbedifficile rintracciare i segni della sua resistenza nelledottrine dei corifei dell'idealismo. Ci limiteremo soltan-to a ricordare lo Schelling, nel quale i residui irraziona-listici irriducibili alla soluzione logica precipitano in untorbido conglomerato dottrinale, che ha non poche affi-nità con l'esistenzialismo contemporaneo.

I due scritti schellinghiani nei quali il problemadell'esistenza passa al primo piano sono Filosofia e reli-gione del 1804 e Ricerche filosofiche sull'essenza dellalibertà umana del 1809, che seguono, com'è noto, le si-stemazioni dell'idealismo trascendentale e della filosofiadell'entità, e segnano una reazione contro l'indirizzo ra-zionalistico di esse. Il primo scritto afferma esplicita-mente che dall'assoluto all'esistenza reale e contingentenon c'è passaggio continuo, e che l'origine del mondosensibile è pensabile solo come una completa rottura

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dall'assoluto (abbrechen von Absolutheit), mediante unsalto (Sprung). Se la filosofia volesse derivare positiva-mente il sorgere delle cose empiriche dall'assoluto, do-vrebbe poter trovare in esso il loro fondamento positivo;ma in Dio non vi è che il fondamento delle idee, le qualinon sono immediatamente produttive che di altre idee, emai di esistenze305. Come spiegare allora la rottura e lacaduta nella finitezza? La libertà e la necessità sonocongiunte nell'assoluto; ma la libertà, nel suo sciogliersidalla necessità, non è che un nulla, e non può perciòprodurre che immagini della propria nullità, cioè le cosesensibili della realtà empirica. Il fondamento della pos-sibilità della caduta è pertanto nella libertà, avulsadall'assoluto e immessa nel mondo della finitezza306. Mala libertà così intesa è l'atto originario che fonda il regnodella soggettività; quindi si può dire che l'anima che,chiudendosi nell'egoismo, subordina l'infinito alla fini-tezza, cade dal mondo ideale dell'assoluto e non puòprodurre se non cose relative e temporali307. A parte losfondo dell'assoluto, l'affinità di questa dottrina conquella contenuta nello scritto di Heidegger: Vom Wesendes Grundes308 è patente.

La monografia sull'Essenza della libertà umana, pub-blicata a cinque anni di distanza, trasferisce in Dio stes-

305 SCHELLING, Philosophie und Religion (W. 6), p. 38.306 Op. cit., p. 40.307 Ibid., pp. 42, 52.308 Ivi il principio leibniziano di ragion sufficiente vien ricondotto a quello

della libertà, nel senso schellinghiano.

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dall'assoluto (abbrechen von Absolutheit), mediante unsalto (Sprung). Se la filosofia volesse derivare positiva-mente il sorgere delle cose empiriche dall'assoluto, do-vrebbe poter trovare in esso il loro fondamento positivo;ma in Dio non vi è che il fondamento delle idee, le qualinon sono immediatamente produttive che di altre idee, emai di esistenze305. Come spiegare allora la rottura e lacaduta nella finitezza? La libertà e la necessità sonocongiunte nell'assoluto; ma la libertà, nel suo sciogliersidalla necessità, non è che un nulla, e non può perciòprodurre che immagini della propria nullità, cioè le cosesensibili della realtà empirica. Il fondamento della pos-sibilità della caduta è pertanto nella libertà, avulsadall'assoluto e immessa nel mondo della finitezza306. Mala libertà così intesa è l'atto originario che fonda il regnodella soggettività; quindi si può dire che l'anima che,chiudendosi nell'egoismo, subordina l'infinito alla fini-tezza, cade dal mondo ideale dell'assoluto e non puòprodurre se non cose relative e temporali307. A parte losfondo dell'assoluto, l'affinità di questa dottrina conquella contenuta nello scritto di Heidegger: Vom Wesendes Grundes308 è patente.

La monografia sull'Essenza della libertà umana, pub-blicata a cinque anni di distanza, trasferisce in Dio stes-

305 SCHELLING, Philosophie und Religion (W. 6), p. 38.306 Op. cit., p. 40.307 Ibid., pp. 42, 52.308 Ivi il principio leibniziano di ragion sufficiente vien ricondotto a quello

della libertà, nel senso schellinghiano.

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so l'origine del dramma che prima si svolgeva sul pianocosmico. Schelling attribuisce a Dio una natura, un fon-damento oscuro, abissale, della sua esistenza. Di questofondamento, solo l'analogia con l'uomo e con la naturamondana può suggerirci una vaga idea. Come in noi, aldi sotto dell'intelligenza e del volere permeato di ragio-ne, v'è la torbida forza del desiderio incosciente e dellavolontà irrazionale, così dobbiamo porre anche in Diouna simile aspirazione e un simile volere. Le querelefemminili, che in questo modo l'irrazionale è posto allaradice del razionale, l'abisso tenebroso alla fonte dellaluce, riposano sopra un fraintendimento. Ogni nascita ènascita dall'oscurità alla luce; il seme deve essere sepol-to nella terra e deve morire nelle tenebre, perché si elevialla più bella forma luminosa e si sviluppi nel sole. Nondiversamente dall'oscurità dell'irrazionale si sveglianonello spirito i luminosi pensieri.

Bisogna dunque porre un divenire di Dio, come ditutte le cose. Ma ogni divenire implica due termini: ogniente non può manifestarsi che nel suo contrario. Il primoprincipio in Dio è quello che ne fa un essere individuale,e che possiamo chiamare il principio dell'egoismo(Selbstheit, Egoität). L'altro è quello dell'intelligenza,della volontà razionale, dell'amore. In tal modo, l'auto-genesi divina avviene secondo la legge universale dellapersonalità, che è un processo di sistole e diastole, diconcentrazione e di espansione. Dio non potrebbe sussi-stere come puro amore, perché, essendo l'amore per sua

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so l'origine del dramma che prima si svolgeva sul pianocosmico. Schelling attribuisce a Dio una natura, un fon-damento oscuro, abissale, della sua esistenza. Di questofondamento, solo l'analogia con l'uomo e con la naturamondana può suggerirci una vaga idea. Come in noi, aldi sotto dell'intelligenza e del volere permeato di ragio-ne, v'è la torbida forza del desiderio incosciente e dellavolontà irrazionale, così dobbiamo porre anche in Diouna simile aspirazione e un simile volere. Le querelefemminili, che in questo modo l'irrazionale è posto allaradice del razionale, l'abisso tenebroso alla fonte dellaluce, riposano sopra un fraintendimento. Ogni nascita ènascita dall'oscurità alla luce; il seme deve essere sepol-to nella terra e deve morire nelle tenebre, perché si elevialla più bella forma luminosa e si sviluppi nel sole. Nondiversamente dall'oscurità dell'irrazionale si sveglianonello spirito i luminosi pensieri.

Bisogna dunque porre un divenire di Dio, come ditutte le cose. Ma ogni divenire implica due termini: ogniente non può manifestarsi che nel suo contrario. Il primoprincipio in Dio è quello che ne fa un essere individuale,e che possiamo chiamare il principio dell'egoismo(Selbstheit, Egoität). L'altro è quello dell'intelligenza,della volontà razionale, dell'amore. In tal modo, l'auto-genesi divina avviene secondo la legge universale dellapersonalità, che è un processo di sistole e diastole, diconcentrazione e di espansione. Dio non potrebbe sussi-stere come puro amore, perché, essendo l'amore per sua

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natura espansivo e infinitamente partecipabile, si effon-derebbe e si disperderebbe senza una apposita forza dicontrazione. Se vi è amore in Dio, dev'esservi anche ira;l'uno è il termine ideale, l'altro il termine reale. E il divi-no egoismo è la forza per il cui mezzo l'amore, cioè ilvero Dio, si manifesta309. Senza bisogno di citare altribrani, è facile riconoscere nel testo schellinghiano ilmodello della legge del giorno e della notte di Jaspers ela fonte della concezione esistenziale della personalità.

Questa indagine sulle fonti dell'esistenzialismo si po-trebbe facilmente estendere; ma noi preferiamo arrestar-la, per proporci una domanda, che crediamo più impor-tante. Ammessa una generica affinità tra alcune tenden-ze dello spirito romantico e l'esistenzialismo, che èanch'esso una forma di romanticismo, quali sono i trattidifferenziali dell'uno e dell'altro? in che consiste pro-priamente l'originalità dei pensatori contemporanei difronte ai loro predecessori? qual è il loro particolarecontributo alla storia del pensiero? La risposta a questadomanda importa un'analisi approfondita dei punti es-senziali della loro dottrina.

L'esistenzialismo esordisce, come abbiamo visto, conuna distinzione fondamentale dell'«esserci» (dato di fat-to, o Dasein, o situazione) dall'esistenza vera e propria.E i caratteri dell'«esserci» sono l'irrazionalità, la finitez-za, la temporalità, la colpa. Sull'irrazionalità bisogna in-

309 Queste citazioni sono attinte alle Stuttgarter Privatvorlesungen, che svi-luppano gli stessi concetti del saggio sulla libertà.

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natura espansivo e infinitamente partecipabile, si effon-derebbe e si disperderebbe senza una apposita forza dicontrazione. Se vi è amore in Dio, dev'esservi anche ira;l'uno è il termine ideale, l'altro il termine reale. E il divi-no egoismo è la forza per il cui mezzo l'amore, cioè ilvero Dio, si manifesta309. Senza bisogno di citare altribrani, è facile riconoscere nel testo schellinghiano ilmodello della legge del giorno e della notte di Jaspers ela fonte della concezione esistenziale della personalità.

Questa indagine sulle fonti dell'esistenzialismo si po-trebbe facilmente estendere; ma noi preferiamo arrestar-la, per proporci una domanda, che crediamo più impor-tante. Ammessa una generica affinità tra alcune tenden-ze dello spirito romantico e l'esistenzialismo, che èanch'esso una forma di romanticismo, quali sono i trattidifferenziali dell'uno e dell'altro? in che consiste pro-priamente l'originalità dei pensatori contemporanei difronte ai loro predecessori? qual è il loro particolarecontributo alla storia del pensiero? La risposta a questadomanda importa un'analisi approfondita dei punti es-senziali della loro dottrina.

L'esistenzialismo esordisce, come abbiamo visto, conuna distinzione fondamentale dell'«esserci» (dato di fat-to, o Dasein, o situazione) dall'esistenza vera e propria.E i caratteri dell'«esserci» sono l'irrazionalità, la finitez-za, la temporalità, la colpa. Sull'irrazionalità bisogna in-

309 Queste citazioni sono attinte alle Stuttgarter Privatvorlesungen, che svi-luppano gli stessi concetti del saggio sulla libertà.

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tendersi. C'è indubbiamente un'irrazionalità del dato inquanto è dato: in un certo senso, io sono dato a me stes-so; la mia nascita, la mia morte, il mio «qui», il mio«ora» non dipendono in gran parte da me, e son fuoridel mio potere. Ma questa irrazionalità non è così radi-cale e irriducibile, come pretende asserire l'esistenziali-smo. Essa è soggetta, o può essere assoggettata a una ra-zionalizzazione, che in qualche misura la riscatta. Leib-niz ha mostrato che, in virtù del principio di ragion suf-ficiente, le verità di fatto, senza perdere la loro contin-genza, sono suscettive di una spiegazione causale che,estendendosi progressivamente nel tempo e nello spa-zio, le avvicina indefinitamente alle verità di ragione.Tutto lo sviluppo delle scienze è affidato alla possibilitàdi collegare i «dati» empirici in una rete sempre più fittae più salda che neutralizza in parte la loro individualecontingenza. Ma c'è ancora una razionalizzazione piùintima e profonda, che ci verrà incontro in una fase ulte-riore del divenire spirituale.

Sulla finitezza e sulla temporalità dell'«esserci» nonv'è luogo a contestazioni: per esempio l'analisi del tem-po, fatta da Heidegger, è qualcosa di molto acuto, e re-sterà durevolmente acquisita alla filosofia, non meno diquella del Bergson, a cui si contrappone. Invece l'idea di«colpa», legata alla temporalità e alla finitezza, è un ele-mento mitico, che poteva giustificarsi nella concezionereligiosa di Kierkegaard, ma che, nella visione laica deisuoi successori, appare come un relitto trascinato dalla

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tendersi. C'è indubbiamente un'irrazionalità del dato inquanto è dato: in un certo senso, io sono dato a me stes-so; la mia nascita, la mia morte, il mio «qui», il mio«ora» non dipendono in gran parte da me, e son fuoridel mio potere. Ma questa irrazionalità non è così radi-cale e irriducibile, come pretende asserire l'esistenziali-smo. Essa è soggetta, o può essere assoggettata a una ra-zionalizzazione, che in qualche misura la riscatta. Leib-niz ha mostrato che, in virtù del principio di ragion suf-ficiente, le verità di fatto, senza perdere la loro contin-genza, sono suscettive di una spiegazione causale che,estendendosi progressivamente nel tempo e nello spa-zio, le avvicina indefinitamente alle verità di ragione.Tutto lo sviluppo delle scienze è affidato alla possibilitàdi collegare i «dati» empirici in una rete sempre più fittae più salda che neutralizza in parte la loro individualecontingenza. Ma c'è ancora una razionalizzazione piùintima e profonda, che ci verrà incontro in una fase ulte-riore del divenire spirituale.

Sulla finitezza e sulla temporalità dell'«esserci» nonv'è luogo a contestazioni: per esempio l'analisi del tem-po, fatta da Heidegger, è qualcosa di molto acuto, e re-sterà durevolmente acquisita alla filosofia, non meno diquella del Bergson, a cui si contrappone. Invece l'idea di«colpa», legata alla temporalità e alla finitezza, è un ele-mento mitico, che poteva giustificarsi nella concezionereligiosa di Kierkegaard, ma che, nella visione laica deisuoi successori, appare come un relitto trascinato dalla

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corrente. Anche qui tuttavia una giustificazione dellacolpa potrebbe darsi in una fase ulteriore del processo,come tra breve vedremo.

E passiamo al concetto di esistenza che costituisce ilcentro della dottrina. L'esistenza è spiegata da tutti gliesistenzialisti come un'emergenza, come un venire fuoridell'essere dall'essere, quindi come un trascendere ildato originario, in modo che essa compendia il «sé» el'«altro», il tempo e l'eterno, il finito e l'infinito. Questaemergenza è per l'esistenzialismo non meno inesplicabi-le del dato originario. L'analisi del dato, infatti, non cioffre nulla che giustifichi che cosa venga fuori, né chi latragga fuori. Invano ho ricercato nei testi di Heidegger edi Jaspers una, se pur vaga, identificazione del protago-nista di quella Existenzerhellung, che essi ci descrivonocon tanta abbondanza. L'esistenza spunta come un fungodal piatto terreno del Dasein, o meglio, per ritorcere unparagone usato a torto dagli esistenzialisti contro l'idea-lismo, essa emerge come il barone di Münchhausen che,con la forza del braccio, si tira pei capelli dal pantano incui era affondato. Ci si dice, è vero, che l'esistenza non èmai predicato, ma soggetto; però si scambia con troppadisinvoltura «esistenza» con «esistente», per dare unconcreto protagonista a tutto il divenire. Ma, affinché loscambio fosse lecito, bisognerebbe che la forza che faemergere l'esistente fosse appunto l'esistenza; la verità èche invece l'esistente emerge all'esistenza in virtù diqualche altra cosa che viene dissimulata e nascosta.

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corrente. Anche qui tuttavia una giustificazione dellacolpa potrebbe darsi in una fase ulteriore del processo,come tra breve vedremo.

E passiamo al concetto di esistenza che costituisce ilcentro della dottrina. L'esistenza è spiegata da tutti gliesistenzialisti come un'emergenza, come un venire fuoridell'essere dall'essere, quindi come un trascendere ildato originario, in modo che essa compendia il «sé» el'«altro», il tempo e l'eterno, il finito e l'infinito. Questaemergenza è per l'esistenzialismo non meno inesplicabi-le del dato originario. L'analisi del dato, infatti, non cioffre nulla che giustifichi che cosa venga fuori, né chi latragga fuori. Invano ho ricercato nei testi di Heidegger edi Jaspers una, se pur vaga, identificazione del protago-nista di quella Existenzerhellung, che essi ci descrivonocon tanta abbondanza. L'esistenza spunta come un fungodal piatto terreno del Dasein, o meglio, per ritorcere unparagone usato a torto dagli esistenzialisti contro l'idea-lismo, essa emerge come il barone di Münchhausen che,con la forza del braccio, si tira pei capelli dal pantano incui era affondato. Ci si dice, è vero, che l'esistenza non èmai predicato, ma soggetto; però si scambia con troppadisinvoltura «esistenza» con «esistente», per dare unconcreto protagonista a tutto il divenire. Ma, affinché loscambio fosse lecito, bisognerebbe che la forza che faemergere l'esistente fosse appunto l'esistenza; la verità èche invece l'esistente emerge all'esistenza in virtù diqualche altra cosa che viene dissimulata e nascosta.

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Tutto l'equivoco nasce dal dare all'esistenza un signi-ficato dinamico di «emergenza», di «venir fuori »,mentr'essa è qualche cosa d'invincibilmente statico e se-dentario. Esistere significa, come l'etimologia del verboci suggerisce (ex-sistere) star fuori, seder fuori o sopra;essa non esprime l'atto dell'emergere, ma il fattodell'emersione avvenuta. Questo è stato bene inteso daKant quando, pur negando che l'esistenza possa essereun predicato logico, si è ben guardato dal farne un sog-getto, ma l'ha collocata in una specie di limbo, facendo-ne una «posizione», cioè qualcosa di statico. Ed Hegel,pur considerandola come unità immediata della rifles-sione in sé e della riflessione in altro, ne ha fatto un rap-porto di esseri finiti verso una molteplicità di altri esserifiniti e ha identificato il singolo esistente con la «cosa».

Ora se esistere è uno «star fuori», bisogna assumerealcunché di molto diverso per trarre fuori: cioè un'attivi-tà vera e propria (una forza, un'appetizione, una volontà,uno spirito), di cui l'esistenza non è che la manifestazio-ne o il fenomeno. Far dell'esistenza la protagonista deldivenire, significa scambiare l'effetto con la causa, ilcammino con la tappa; significa, in ultima istanza, con-cepire un divenire acefalo, senza soggetto. Ed è questala enorme illusione dell'esistenzialismo, che ha credutodi poter fare a meno degli «agenti» della filosofia tradi-zionale, e invece, o li ha implicitamente presupposti, o,volendo restare fedele al suo assunto, ha fatto del dive-nire una scena di apparenze fuggevoli, prive di consi-

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Tutto l'equivoco nasce dal dare all'esistenza un signi-ficato dinamico di «emergenza», di «venir fuori »,mentr'essa è qualche cosa d'invincibilmente statico e se-dentario. Esistere significa, come l'etimologia del verboci suggerisce (ex-sistere) star fuori, seder fuori o sopra;essa non esprime l'atto dell'emergere, ma il fattodell'emersione avvenuta. Questo è stato bene inteso daKant quando, pur negando che l'esistenza possa essereun predicato logico, si è ben guardato dal farne un sog-getto, ma l'ha collocata in una specie di limbo, facendo-ne una «posizione», cioè qualcosa di statico. Ed Hegel,pur considerandola come unità immediata della rifles-sione in sé e della riflessione in altro, ne ha fatto un rap-porto di esseri finiti verso una molteplicità di altri esserifiniti e ha identificato il singolo esistente con la «cosa».

Ora se esistere è uno «star fuori», bisogna assumerealcunché di molto diverso per trarre fuori: cioè un'attivi-tà vera e propria (una forza, un'appetizione, una volontà,uno spirito), di cui l'esistenza non è che la manifestazio-ne o il fenomeno. Far dell'esistenza la protagonista deldivenire, significa scambiare l'effetto con la causa, ilcammino con la tappa; significa, in ultima istanza, con-cepire un divenire acefalo, senza soggetto. Ed è questala enorme illusione dell'esistenzialismo, che ha credutodi poter fare a meno degli «agenti» della filosofia tradi-zionale, e invece, o li ha implicitamente presupposti, o,volendo restare fedele al suo assunto, ha fatto del dive-nire una scena di apparenze fuggevoli, prive di consi-

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stenza.Ponendo un'attività alla fonte del divenire, non solo

gli si dà un vero protagonista, ma si spiega anche il li-vellamento che l'esistenza assume lungo le varie tappedi questo cammino. Poiché l'esistenza è uno star fuori, sipuò a buon diritto parlare di gradi diversi dello «starfuori», cioè di livelli dell'esistenza. Noi diciamo, peresempio, che altra cosa è l'esistenza fisica, altra l'esi-stenza psichica, altra l'esistenza ideale (quella dei valoridello spirito): in ognuno di questi gradi, c'è sempre unriferimento a sé e ad altro, ma diverso nel suo significa-to intrinseco; e la moltiplicazione dei piani, e l'attivitàdel protagonista che non si appaga mai delle singoletappe raggiunte, ma continuamente le sorpassa, creanonel loro intreccio dialettico la verità e la ricchezza dellavita spirituale. Nell'esistenzialismo al contrario tuttoquesto rilievo scompare, e non si dà che un processoprivo di significato e valore, che si apre e si chiude tradue niente. Tolto ogni intrinseco differenziamentodell'esistenza, tolta ogni idea di mete ideali da raggiun-gere, la vita si configura come una vana corsa alla mor-te, e tutta la consapevolezza di sé che l'individuo puòraggiungere si riduce ad anticiparne l'idea e a superarnel'angoscia col senso della necessità ineluttabile di essa.Questo è, come abbiamo già detto in precedenza,l'esempio tipico del propter vitam (seu existentiam) vi-vendi perdere causas.

La mancanza di un protagonista, di un artefice del di-

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stenza.Ponendo un'attività alla fonte del divenire, non solo

gli si dà un vero protagonista, ma si spiega anche il li-vellamento che l'esistenza assume lungo le varie tappedi questo cammino. Poiché l'esistenza è uno star fuori, sipuò a buon diritto parlare di gradi diversi dello «starfuori», cioè di livelli dell'esistenza. Noi diciamo, peresempio, che altra cosa è l'esistenza fisica, altra l'esi-stenza psichica, altra l'esistenza ideale (quella dei valoridello spirito): in ognuno di questi gradi, c'è sempre unriferimento a sé e ad altro, ma diverso nel suo significa-to intrinseco; e la moltiplicazione dei piani, e l'attivitàdel protagonista che non si appaga mai delle singoletappe raggiunte, ma continuamente le sorpassa, creanonel loro intreccio dialettico la verità e la ricchezza dellavita spirituale. Nell'esistenzialismo al contrario tuttoquesto rilievo scompare, e non si dà che un processoprivo di significato e valore, che si apre e si chiude tradue niente. Tolto ogni intrinseco differenziamentodell'esistenza, tolta ogni idea di mete ideali da raggiun-gere, la vita si configura come una vana corsa alla mor-te, e tutta la consapevolezza di sé che l'individuo puòraggiungere si riduce ad anticiparne l'idea e a superarnel'angoscia col senso della necessità ineluttabile di essa.Questo è, come abbiamo già detto in precedenza,l'esempio tipico del propter vitam (seu existentiam) vi-vendi perdere causas.

La mancanza di un protagonista, di un artefice del di-

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venire, giova anche a spiegarci tutta una serie di defi-cienze speculative dell'esistenzialismo. Ci spiega innan-zi tutto la sua falsa interpretazione di ogni espansioneesistenziale come una trascendenza, di ogni passo comeun salto, di ogni problema come un mistero. Trascen-denza, salto, mistero, dipendono tutti egualmentedall'assenza di ogni continuità nella trama del divenire,che potrebb'esser data solo dalla presenza di un identicosoggetto nei vari momenti di esso. Nello stesso modo sispiega l'incomprensione dei «valori» che l'esistenziali-smo ci rivela: l'idea di valore infatti acquista un signifi-cato solo nella concezione di piani diversi dell'esistenza,e tale diversità non può sussistere che di fronte a un sog-getto che è in grado di differenziarli e quindi saliredall'uno all'altro; ma, posta l'esistenza stessa come sog-getto, ogni differenziamento è reso impossibile e tutto sispiana e si livella.

L'incomprensione dell'esistenzialismo è massima peril massimo artefice dei valori umani: la ragione. L'esi-genza polemica contro alcune forme storiche di raziona-lismo ha avuto per esso l'effetto di puntualizzare inun'opposizione irriducibile il rapporto tra esistenza e ra-gione. Non è mancato qualche tentativo di riesaminareex novo il problema: il Jaspers, per esempio, in alcuneconferenze310, si è sforzato di reintrodurre la ragione nel-la trama della sua dottrina; ma, poiché la posizione del

310 Existenz-philosophie, tr. ital. (K. JASPERS, Filosofia dell'esistenza, Milano,1940).

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venire, giova anche a spiegarci tutta una serie di defi-cienze speculative dell'esistenzialismo. Ci spiega innan-zi tutto la sua falsa interpretazione di ogni espansioneesistenziale come una trascendenza, di ogni passo comeun salto, di ogni problema come un mistero. Trascen-denza, salto, mistero, dipendono tutti egualmentedall'assenza di ogni continuità nella trama del divenire,che potrebb'esser data solo dalla presenza di un identicosoggetto nei vari momenti di esso. Nello stesso modo sispiega l'incomprensione dei «valori» che l'esistenziali-smo ci rivela: l'idea di valore infatti acquista un signifi-cato solo nella concezione di piani diversi dell'esistenza,e tale diversità non può sussistere che di fronte a un sog-getto che è in grado di differenziarli e quindi saliredall'uno all'altro; ma, posta l'esistenza stessa come sog-getto, ogni differenziamento è reso impossibile e tutto sispiana e si livella.

L'incomprensione dell'esistenzialismo è massima peril massimo artefice dei valori umani: la ragione. L'esi-genza polemica contro alcune forme storiche di raziona-lismo ha avuto per esso l'effetto di puntualizzare inun'opposizione irriducibile il rapporto tra esistenza e ra-gione. Non è mancato qualche tentativo di riesaminareex novo il problema: il Jaspers, per esempio, in alcuneconferenze310, si è sforzato di reintrodurre la ragione nel-la trama della sua dottrina; ma, poiché la posizione del

310 Existenz-philosophie, tr. ital. (K. JASPERS, Filosofia dell'esistenza, Milano,1940).

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problema era irrimediabilmente pregiudicata, i risultatidel suo sforzo sono stati di una nullità completa. Comee a che pro introdurre la ragione in una filosofia che nonriconosce la funzione del razionalizzare, e dove tuttoprocede a slanci e a salti arbitrari, in una vana corsa sen-za senso e senza meta? Spiegando il suo breve volo inun crepuscolo molto diverso di quello hegeliano, la ra-gione si riduce a dire che è ragionevole che tutto sia ir-razionale e che questa irrazionalità sia irriducibile. Ep-pure, il fatto stesso dell'emergenza dal Dasein, se riferi-to a un vero soggetto, poteva suggerire considerazioniben altrimenti feconde sull'uso della ragione: poteva peresempio esprimere la vitale insoddisfazione dello spiritodi star fermo al dato dell'esperienza bruta; poteva spie-gare come sul piano più alto dell'esistenza razionale ildato perde quel che di statico e irrevocabile vi è nellasua natura ed acquista la problematicità stessa della ra-gione nella cui sfera è assunto; poteva mostrare comenell'elevarsi del dato a una forma di esistenza consape-vole e superiore esso si riscatta dalla sua «colpa» origi-naria, che consiste nella sua passività e inerzia. Così sisarebbe giustificata la misteriosa identificazione della fi-nitezza e della colpa nel senso che non il finito cometale è colpevole, ma colpevole si rivela lo spirito che sene sta al finito, che si appaga delle sue parziali realizza-zioni, venendo meno agli scopi più alti della sua vita.Però, per intendere razionalmente questa e molte altrecose, occorreva all'esistenzialismo il soggetto dell'esi-stenza!

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problema era irrimediabilmente pregiudicata, i risultatidel suo sforzo sono stati di una nullità completa. Comee a che pro introdurre la ragione in una filosofia che nonriconosce la funzione del razionalizzare, e dove tuttoprocede a slanci e a salti arbitrari, in una vana corsa sen-za senso e senza meta? Spiegando il suo breve volo inun crepuscolo molto diverso di quello hegeliano, la ra-gione si riduce a dire che è ragionevole che tutto sia ir-razionale e che questa irrazionalità sia irriducibile. Ep-pure, il fatto stesso dell'emergenza dal Dasein, se riferi-to a un vero soggetto, poteva suggerire considerazioniben altrimenti feconde sull'uso della ragione: poteva peresempio esprimere la vitale insoddisfazione dello spiritodi star fermo al dato dell'esperienza bruta; poteva spie-gare come sul piano più alto dell'esistenza razionale ildato perde quel che di statico e irrevocabile vi è nellasua natura ed acquista la problematicità stessa della ra-gione nella cui sfera è assunto; poteva mostrare comenell'elevarsi del dato a una forma di esistenza consape-vole e superiore esso si riscatta dalla sua «colpa» origi-naria, che consiste nella sua passività e inerzia. Così sisarebbe giustificata la misteriosa identificazione della fi-nitezza e della colpa nel senso che non il finito cometale è colpevole, ma colpevole si rivela lo spirito che sene sta al finito, che si appaga delle sue parziali realizza-zioni, venendo meno agli scopi più alti della sua vita.Però, per intendere razionalmente questa e molte altrecose, occorreva all'esistenzialismo il soggetto dell'esi-stenza!

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Compendio di tutte le deficienze già ricordate è laconcezione esistenzialistica della personalità. Anche quinon mancano degli spunti vivaci e degni di miglior sor-te. Rivendicare l'individualità della persona contro lasommersione di essa nell'Assoluto della filosofia ideali-stica è stato un notevole assunto dell'esistenzialismo.Considerare la genesi della personalità come un proces-so di sistole e di diastole, di riferimenti «a sé» e «ad al-tro», in modo che l'individuazione è nel tempo stessouna universalizzazione, e che al termine del processonon si dà una personalità angusta, che si isola dal mon-do, ma una personalità che accoglie in sé tutta la vita delmondo, e insieme diffonde su di essa la sua forza indivi-duatrice311: anche questo è stato un felice inizio di lavo-ro. Ma l'adempimento del compito appare troncato findal suo esordio. Il moto espansivo della personalità siimpiglia fin dai primi passi negli ostacoli della trascen-denza, perde respiro per la mancanza di una forza cen-trale che si tenda attraverso di esso, smarrisce ogni sen-so della meta per la negazione della razionalità e dei va-lori. E non resta che l'altra parte del movimento da cui lapersonalità si genera: il moto involutivo, la concentra-zione in sé, che, avulsa dall'espansione nell'«altro», fini-sce per essere una concentrazione nel vuoto. È proprioquesta la nota che l'esistenzialismo ha fatto più acuta-mente risonare. La persona non si esprime in esso che

311 Sul concetto della personalità, v. il mio saggio: L'antinomia della persona-lità moderna, conferenza tenuta al Circolo filosofico di Perugia e pubbl. in«Archivio della cultura italiana», 1941, fasc. I.

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Compendio di tutte le deficienze già ricordate è laconcezione esistenzialistica della personalità. Anche quinon mancano degli spunti vivaci e degni di miglior sor-te. Rivendicare l'individualità della persona contro lasommersione di essa nell'Assoluto della filosofia ideali-stica è stato un notevole assunto dell'esistenzialismo.Considerare la genesi della personalità come un proces-so di sistole e di diastole, di riferimenti «a sé» e «ad al-tro», in modo che l'individuazione è nel tempo stessouna universalizzazione, e che al termine del processonon si dà una personalità angusta, che si isola dal mon-do, ma una personalità che accoglie in sé tutta la vita delmondo, e insieme diffonde su di essa la sua forza indivi-duatrice311: anche questo è stato un felice inizio di lavo-ro. Ma l'adempimento del compito appare troncato findal suo esordio. Il moto espansivo della personalità siimpiglia fin dai primi passi negli ostacoli della trascen-denza, perde respiro per la mancanza di una forza cen-trale che si tenda attraverso di esso, smarrisce ogni sen-so della meta per la negazione della razionalità e dei va-lori. E non resta che l'altra parte del movimento da cui lapersonalità si genera: il moto involutivo, la concentra-zione in sé, che, avulsa dall'espansione nell'«altro», fini-sce per essere una concentrazione nel vuoto. È proprioquesta la nota che l'esistenzialismo ha fatto più acuta-mente risonare. La persona non si esprime in esso che

311 Sul concetto della personalità, v. il mio saggio: L'antinomia della persona-lità moderna, conferenza tenuta al Circolo filosofico di Perugia e pubbl. in«Archivio della cultura italiana», 1941, fasc. I.

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con la preoccupazione del vivere, con l'angoscia dellamorte, talvolta con la speranza dell'al di là. Venuta almondo per non concluder nulla, essa non sembra ansio-sa di altro che del suo meschino egoismo, della sua mi-seria e della sua possibile salvezza; la sua aspirazionepiù alta è una specie di narcisismo, che ha, in comunecon quello freudiano, la soddisfazione di rispecchiaresoltanto meschinità e brutture.

Per questi suoi risultati, l'esistenzialismo si pone mol-to al di sotto di quell'idealismo contro cui ha voluto ap-puntare i suoi strali. L'idealismo almeno ha cercato disalvare, della personalità, i frutti più duraturi; esso l'harifusa nell'opera di cui è stata artefice e le ha attribuito ilvalore di quest'opera, trascurando, o ponendo al secondopiano, le tonalità affettive tra cui questa si è svolta312.L'esistenzialismo invece ignora o annulla l'opera perporre in esclusivo rilievo le contrazioni della mascheraumana. Esso sembra bene appropriato a un'età che,avendo smarrito il senso più profondo dell'esistenza eprendendo l'esistenza stessa come unico valore, si pre-occupa, si angustia e si attrista del vano dispendio diquel suo presunto tesoro.

312 Questa diversità di atteggiamenti è gustosamente ritratta in un episodionarrato da Gaston Fessard, in un articolo: Théâtre et Mystère (pubblicatocome introduzione al dramma del Marcel, La soif). In un congresso di filo-sofia, Leone Brunschwicg, polemizzando col Marcel, obiettava alle preoc-cupazioni esistenziali dell'avversario: «La morte di Leone Brunschwicg in-teressa molto meno Leone Brunschwicg, che la morte di Gabriel Marcelinteressi Gabriel Marcel».

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con la preoccupazione del vivere, con l'angoscia dellamorte, talvolta con la speranza dell'al di là. Venuta almondo per non concluder nulla, essa non sembra ansio-sa di altro che del suo meschino egoismo, della sua mi-seria e della sua possibile salvezza; la sua aspirazionepiù alta è una specie di narcisismo, che ha, in comunecon quello freudiano, la soddisfazione di rispecchiaresoltanto meschinità e brutture.

Per questi suoi risultati, l'esistenzialismo si pone mol-to al di sotto di quell'idealismo contro cui ha voluto ap-puntare i suoi strali. L'idealismo almeno ha cercato disalvare, della personalità, i frutti più duraturi; esso l'harifusa nell'opera di cui è stata artefice e le ha attribuito ilvalore di quest'opera, trascurando, o ponendo al secondopiano, le tonalità affettive tra cui questa si è svolta312.L'esistenzialismo invece ignora o annulla l'opera perporre in esclusivo rilievo le contrazioni della mascheraumana. Esso sembra bene appropriato a un'età che,avendo smarrito il senso più profondo dell'esistenza eprendendo l'esistenza stessa come unico valore, si pre-occupa, si angustia e si attrista del vano dispendio diquel suo presunto tesoro.

312 Questa diversità di atteggiamenti è gustosamente ritratta in un episodionarrato da Gaston Fessard, in un articolo: Théâtre et Mystère (pubblicatocome introduzione al dramma del Marcel, La soif). In un congresso di filo-sofia, Leone Brunschwicg, polemizzando col Marcel, obiettava alle preoc-cupazioni esistenziali dell'avversario: «La morte di Leone Brunschwicg in-teressa molto meno Leone Brunschwicg, che la morte di Gabriel Marcelinteressi Gabriel Marcel».

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APPENDICE

I

FREUD E LA PSICANALISI

Anche per la psicanalisi – come per tante novità deldemi-monde scientifico e letterario – l'ora di voga è pas-sata. E, al tirar delle somme, c'è da stupirsi principal-mente di due cose: come mai si sia potuto architettareuna letteratura sterminata sopra un piccolo pugno di ba-nalità e d'immaginazioni grossolane, e come mai il pub-blico di due continenti si sia sentito attratto verso unadottrina, che non solo era priva di ogni grazia di sedu-zione, ma si presentava anzi in forme ributtanti e osce-ne, tali da suscitare una legittima reazione del pudore edel buon senso.

Ma lasciamo la cura di risolvere questi dubbi a qual-che sagace psicologo che voglia sondare gli abissi spiri-tuali del nostro bel Novecento e passiamo a indagare ciòche di fatto ci viene offerto sotto il pomposo nome dipsicanalisi. In mezzo a molto ciarpame si può individua-re una verità, o una mezza verità, nota già prima del

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APPENDICE

I

FREUD E LA PSICANALISI

Anche per la psicanalisi – come per tante novità deldemi-monde scientifico e letterario – l'ora di voga è pas-sata. E, al tirar delle somme, c'è da stupirsi principal-mente di due cose: come mai si sia potuto architettareuna letteratura sterminata sopra un piccolo pugno di ba-nalità e d'immaginazioni grossolane, e come mai il pub-blico di due continenti si sia sentito attratto verso unadottrina, che non solo era priva di ogni grazia di sedu-zione, ma si presentava anzi in forme ributtanti e osce-ne, tali da suscitare una legittima reazione del pudore edel buon senso.

Ma lasciamo la cura di risolvere questi dubbi a qual-che sagace psicologo che voglia sondare gli abissi spiri-tuali del nostro bel Novecento e passiamo a indagare ciòche di fatto ci viene offerto sotto il pomposo nome dipsicanalisi. In mezzo a molto ciarpame si può individua-re una verità, o una mezza verità, nota già prima del

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Freud, ma che il Freud ha riaffermato contro i cultori dimedicina suoi colleghi. Per lo psichiatra, ogni malattiapsichica si risolve, o deve risolversi, in un'alterazionenervosa o comunque somatica; la manifestazione psichi-ca non ha valore che di un sintomo; e la cura, come sisa, non consiste nel modificare i sintomi, ma nell'elimi-nare le alterazioni organiche da cui i sintomi scaturisco-no. Tutto ciò è perfettamente consono a quel materiali-smo ch'è ormai da tempo connaturato alla mentalità deimedici, e che priva i fatti psichici di ogni autonomia, ri-tenendo di averli compresi e spiegati solo quando riescea ricondurli a un livello inferiore. Ma vi sono malattiepsichiche le quali non portano con sé lesioni, almenoapparenti, di organi, e la cui terapia si effettua senza bi-sogno di recedere al livello fisico, ma restando nell'ordi-ne stesso dei fatti psichici. Chi non ha letto, almeno inqualche novella, il caso di un Tizio impazzito per un su-bitaneo spavento o un'altra violenta emozione, che poi èrinsavito, in seguito a una ricostruzione del fatto stessoche gli aveva sconvolto la ragione? Qui non v'è che laespressione, un po' tipizzata e limitata, d'una verità piùgenerale: che ogni ordine di esistenza ha, entro certi li-miti, una propria autonomia, e che, come per studiarel'anima la via migliore non è di uscire dalla sfera degliatti animati, così per curare l'anima vi son mezzi edespedienti specificamente appropriati all'ordine psichi-co.

La psicanalisi nella sua forma originaria, come tera-

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Freud, ma che il Freud ha riaffermato contro i cultori dimedicina suoi colleghi. Per lo psichiatra, ogni malattiapsichica si risolve, o deve risolversi, in un'alterazionenervosa o comunque somatica; la manifestazione psichi-ca non ha valore che di un sintomo; e la cura, come sisa, non consiste nel modificare i sintomi, ma nell'elimi-nare le alterazioni organiche da cui i sintomi scaturisco-no. Tutto ciò è perfettamente consono a quel materiali-smo ch'è ormai da tempo connaturato alla mentalità deimedici, e che priva i fatti psichici di ogni autonomia, ri-tenendo di averli compresi e spiegati solo quando riescea ricondurli a un livello inferiore. Ma vi sono malattiepsichiche le quali non portano con sé lesioni, almenoapparenti, di organi, e la cui terapia si effettua senza bi-sogno di recedere al livello fisico, ma restando nell'ordi-ne stesso dei fatti psichici. Chi non ha letto, almeno inqualche novella, il caso di un Tizio impazzito per un su-bitaneo spavento o un'altra violenta emozione, che poi èrinsavito, in seguito a una ricostruzione del fatto stessoche gli aveva sconvolto la ragione? Qui non v'è che laespressione, un po' tipizzata e limitata, d'una verità piùgenerale: che ogni ordine di esistenza ha, entro certi li-miti, una propria autonomia, e che, come per studiarel'anima la via migliore non è di uscire dalla sfera degliatti animati, così per curare l'anima vi son mezzi edespedienti specificamente appropriati all'ordine psichi-co.

La psicanalisi nella sua forma originaria, come tera-

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pia delle nevrosi, si fonda appunto sull'esposto princi-pio. Essa vuol rintracciare l'origine psichica delle malat-tie psichiche, e, attraverso un'analisi del processo lungoil quale la nevrosi s'è formata, giungere all'escogitazionedel rimedio più adatto. Solo che questo rimedio non ècosì sottomano – anche se la sua efficacia sia alquantodiscutibile – come nell'esempio da noi precedentementecitato. Non tutte, e neppure una buona parte delle malat-tie psichiche si originano da fatti appariscenti e clamo-rosi, al pari di un forte spavento o di una violenta emo-zione; il maggior numero di esse, anzi, ha esordi quasiinsensibili, ricacciati nel fondo incosciente della nostranatura, sì ch'è molto difficile rintracciarli e ricostruire lelente deformazioni a cui hanno dato luogo. Ora la psica-nalisi vuole creare una perizia di tal genere nei suoi cul-tori, e crede di potere offrire ad essi, come si suol dire, ilbandolo della matassa, con una dottrina della comuneorigine – sessuale – di tutti i disturbi psichici, in modoche il medico, nella ricostruzione psicologica del casoclinico, sappia fin da principio in qual senso deve orien-tare la sua inchiesta. Lasciamo per un momento da partequesto sedicente criterio semeiotico, e per dare atto allapsicanalisi di quel po' di buono che le si può attribuire,cominciamo col riconoscere la giustezza del suo assuntodi volere studiare la malattia nel suo processo formati-vo, o meglio, degenerativo. Non basta fermarsi, per co-noscerla, all'ultimo stadio di essa, dove la deformazionesi è già diffusa, interessando altre parti dell'organismofisico e psichico; ma bisogna seguirla nella sua genesi

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pia delle nevrosi, si fonda appunto sull'esposto princi-pio. Essa vuol rintracciare l'origine psichica delle malat-tie psichiche, e, attraverso un'analisi del processo lungoil quale la nevrosi s'è formata, giungere all'escogitazionedel rimedio più adatto. Solo che questo rimedio non ècosì sottomano – anche se la sua efficacia sia alquantodiscutibile – come nell'esempio da noi precedentementecitato. Non tutte, e neppure una buona parte delle malat-tie psichiche si originano da fatti appariscenti e clamo-rosi, al pari di un forte spavento o di una violenta emo-zione; il maggior numero di esse, anzi, ha esordi quasiinsensibili, ricacciati nel fondo incosciente della nostranatura, sì ch'è molto difficile rintracciarli e ricostruire lelente deformazioni a cui hanno dato luogo. Ora la psica-nalisi vuole creare una perizia di tal genere nei suoi cul-tori, e crede di potere offrire ad essi, come si suol dire, ilbandolo della matassa, con una dottrina della comuneorigine – sessuale – di tutti i disturbi psichici, in modoche il medico, nella ricostruzione psicologica del casoclinico, sappia fin da principio in qual senso deve orien-tare la sua inchiesta. Lasciamo per un momento da partequesto sedicente criterio semeiotico, e per dare atto allapsicanalisi di quel po' di buono che le si può attribuire,cominciamo col riconoscere la giustezza del suo assuntodi volere studiare la malattia nel suo processo formati-vo, o meglio, degenerativo. Non basta fermarsi, per co-noscerla, all'ultimo stadio di essa, dove la deformazionesi è già diffusa, interessando altre parti dell'organismofisico e psichico; ma bisogna seguirla nella sua genesi

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per coglierne il nucleo originario e il modo proprio diestendersi e di propagarsi. Anche questa verità, del re-sto, non è una scoperta della psicanalisi; ogni buon cli-nico ne fa continua esperienza.

Per compiere la sua indagine genetica, la psicanalisidivide la vita spirituale in varie zone. La zona cosciente,che rappresenta la parte propriamente storica dell'attivitàpsichica, è l'ultima e più circoscritta; è come una piccolazona luminosa circondata da larghe zone di penombra,sconfinanti verso un'ombra sempre più densa. Alla pe-nombra corrisponde ciò che, in termini psicologici, sichiama precosciente; all'ombra l'incosciente. Dall'inco-sciente, al precosciente, al cosciente, v'è continuità inin-terrotta, non solo nel senso spaziale di stati contigui icui confini si toccano, ma anche nel senso temporale, diun passaggio senza tregua di elementi da una zonaall'altra. Anzi, il processo normale dello sviluppo psichi-co consiste in questo passaggio dall'incosciente al pre-cosciente e infine al cosciente; la degenerazione patolo-gica consiste nel movimento inverso. I modi di siffattainvoluzione sono vari: c'è fissazione, quando una ten-denza si attarda a una fase anteriore; c'è regresso, quan-do degli elementi psichici più avanzati ritornano, per unmoto retrogrado, a uno stadio precedente; v'èVerdrängung, quando un atto suscettibile di divenir co-sciente, cioè a dire facente parte della precoscienza, di-viene incosciente, o anche quando un atto psichico inco-sciente non viene neppure ammesso nel sistema preco-

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per coglierne il nucleo originario e il modo proprio diestendersi e di propagarsi. Anche questa verità, del re-sto, non è una scoperta della psicanalisi; ogni buon cli-nico ne fa continua esperienza.

Per compiere la sua indagine genetica, la psicanalisidivide la vita spirituale in varie zone. La zona cosciente,che rappresenta la parte propriamente storica dell'attivitàpsichica, è l'ultima e più circoscritta; è come una piccolazona luminosa circondata da larghe zone di penombra,sconfinanti verso un'ombra sempre più densa. Alla pe-nombra corrisponde ciò che, in termini psicologici, sichiama precosciente; all'ombra l'incosciente. Dall'inco-sciente, al precosciente, al cosciente, v'è continuità inin-terrotta, non solo nel senso spaziale di stati contigui icui confini si toccano, ma anche nel senso temporale, diun passaggio senza tregua di elementi da una zonaall'altra. Anzi, il processo normale dello sviluppo psichi-co consiste in questo passaggio dall'incosciente al pre-cosciente e infine al cosciente; la degenerazione patolo-gica consiste nel movimento inverso. I modi di siffattainvoluzione sono vari: c'è fissazione, quando una ten-denza si attarda a una fase anteriore; c'è regresso, quan-do degli elementi psichici più avanzati ritornano, per unmoto retrogrado, a uno stadio precedente; v'èVerdrängung, quando un atto suscettibile di divenir co-sciente, cioè a dire facente parte della precoscienza, di-viene incosciente, o anche quando un atto psichico inco-sciente non viene neppure ammesso nel sistema preco-

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sciente contiguo, perché la censura lo arresta al passag-gio e lo fa tornare indietro313.

Date queste definizioni della sanità e della malattiapsichica, la terapia non può consistere che nel restaurarela consapevolezza impedita o arrestata. A dire del Freud,l'esperienza mostra che nelle nevrosi i sintomi patologi-ci scompaiono quando i processi incoscienti diventanocoscienti; si tratta dunque, per il medico psicanalitico, diagire in modo da trasformare l'incosciente in cosciente.«La nevrosi sarebbe così la conseguenza di una specied'ignoranza, di non-conoscenza di processi psichici dicui si dovrebbe aver conoscenza. Questa proposizionerichiama molto da vicino la dottrina socratica, secondola quale il vizio sarebbe un effetto dell'ignoranza»314.

Anche questo riconoscimento della funzione catarticadella coscienza costituisce uno dei tratti apprezzabili,ma non specificamente propri e distintivi della psicana-lisi. Esso non è che una generica cornice entro cui sicolloca il quadro vero e proprio, di schietta ispirazionepsicanalitica. E aggiungiamo subito che è un quadro deltutto degno dell'arte contemporanea. Per il Freud e peisuoi seguaci, il fondo incosciente della natura umana ètutto riempito da un'unica e fondamentale energia, a cuiessi danno il nome di libidine. Questa libidine è qualco-sa di più elementare di ciò che noi siamo soliti di pensa-

313 FREUD, Introduction à la psychoanalise, tr. fr., Paris, Payot, 1926 (19211),pp. 367-68.

314 Op. cit., p. 303.

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sciente contiguo, perché la censura lo arresta al passag-gio e lo fa tornare indietro313.

Date queste definizioni della sanità e della malattiapsichica, la terapia non può consistere che nel restaurarela consapevolezza impedita o arrestata. A dire del Freud,l'esperienza mostra che nelle nevrosi i sintomi patologi-ci scompaiono quando i processi incoscienti diventanocoscienti; si tratta dunque, per il medico psicanalitico, diagire in modo da trasformare l'incosciente in cosciente.«La nevrosi sarebbe così la conseguenza di una specied'ignoranza, di non-conoscenza di processi psichici dicui si dovrebbe aver conoscenza. Questa proposizionerichiama molto da vicino la dottrina socratica, secondola quale il vizio sarebbe un effetto dell'ignoranza»314.

Anche questo riconoscimento della funzione catarticadella coscienza costituisce uno dei tratti apprezzabili,ma non specificamente propri e distintivi della psicana-lisi. Esso non è che una generica cornice entro cui sicolloca il quadro vero e proprio, di schietta ispirazionepsicanalitica. E aggiungiamo subito che è un quadro deltutto degno dell'arte contemporanea. Per il Freud e peisuoi seguaci, il fondo incosciente della natura umana ètutto riempito da un'unica e fondamentale energia, a cuiessi danno il nome di libidine. Questa libidine è qualco-sa di più elementare di ciò che noi siamo soliti di pensa-

313 FREUD, Introduction à la psychoanalise, tr. fr., Paris, Payot, 1926 (19211),pp. 367-68.

314 Op. cit., p. 303.

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re sotto il nome d'istinto sessuale. L'istinto sessuale ten-de verso un complemento, un oggetto; mentre la libidinefreudiana è ancora al di qua di questa specificazione, econtiene in sé ancora indifferenziate, tanto la tendenzaverso l'accoppiamento, quanto la tendenza verso atti diauto-erotismo: ciò che con termine psicanalitico vienchiamato narcisismo315. Per quella mania di parodiare(inconsapevolmente) i concetti filosofici, che sembraconnaturata al Freud e ai suoi seguaci, l'idea della libidi-ne vien messa a raffronto con quella dell'Eros platonico.E Platone si può dire fortunato al paragone di Kant, ilcui primato della ragion pratica si converte in un «pri-mato di genitali»316.

Da questo punto di vista, le malattie psichiche – lenevrosi – che abbiamo già visto risultare da un arresto oda un regresso nel cammino dall'incosciente al coscien-te, possono essere caratterizzate come espressioni diconflitti tra le tendenze libidinose da una parte e le forzenormali dell'io o della coscienza dall'altra. E la terapiadel medico psicanalitico si precisa e si concretizza a suavolta nel modo seguente. Si tratta innanzi tutto d'indivi-duare l'elemento libidinoso della nevrosi, che spessonon è appariscente o è camuffato sotto altra veste. E quiil medico si giova della conoscenza dei valori simboliciin cui suole tradursi la libidine. Sono specialmente i so-gni che, come espressioni più genuine del fondo inco-

315 Ibid., p. 444.316 Ibid., p. 369.

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re sotto il nome d'istinto sessuale. L'istinto sessuale ten-de verso un complemento, un oggetto; mentre la libidinefreudiana è ancora al di qua di questa specificazione, econtiene in sé ancora indifferenziate, tanto la tendenzaverso l'accoppiamento, quanto la tendenza verso atti diauto-erotismo: ciò che con termine psicanalitico vienchiamato narcisismo315. Per quella mania di parodiare(inconsapevolmente) i concetti filosofici, che sembraconnaturata al Freud e ai suoi seguaci, l'idea della libidi-ne vien messa a raffronto con quella dell'Eros platonico.E Platone si può dire fortunato al paragone di Kant, ilcui primato della ragion pratica si converte in un «pri-mato di genitali»316.

Da questo punto di vista, le malattie psichiche – lenevrosi – che abbiamo già visto risultare da un arresto oda un regresso nel cammino dall'incosciente al coscien-te, possono essere caratterizzate come espressioni diconflitti tra le tendenze libidinose da una parte e le forzenormali dell'io o della coscienza dall'altra. E la terapiadel medico psicanalitico si precisa e si concretizza a suavolta nel modo seguente. Si tratta innanzi tutto d'indivi-duare l'elemento libidinoso della nevrosi, che spessonon è appariscente o è camuffato sotto altra veste. E quiil medico si giova della conoscenza dei valori simboliciin cui suole tradursi la libidine. Sono specialmente i so-gni che, come espressioni più genuine del fondo inco-

315 Ibid., p. 444.316 Ibid., p. 369.

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sciente e non represso della natura umana, offrono lachiave di questo linguaggio. E bisogna anche dire cheFreud e i suoi seguaci rivelano nelle loro interpretazioniuna finezza e un gusto non maggiori di quelli che si pa-lesano nelle compilazioni delle così dette «smorfie» aduso dei fedeli al gioco del lotto. Con la sola differenza,che le «smorfie» traducono tutto nel linguaggio mate-matico dei numeri, e la scienza psicanalitica traduce tut-to in linguaggio... pornografico. Ci risparmiamo la penadi dare esemplificazioni lessicali; non c'è ragazzo scal-trito che non possegga la chiave del simbolismo freudia-no. Ma ciò che nessun ragazzo, per quanto scaltrito, so-spetta, è che quel suo corredo di nozioni giova più diqualunque studio filologico e storico per ricostruire lavita dell'umanità e delle grandi figure della storia. Per-ché non si creda che scherziamo, ricorderemo che ilFreud ha scritto un intero volume su Leonardo da Vinci,per dimostrare che la psicologia, l'arte e le vicende dellavita del grande pittore si spiegano interpretando psica-naliticamente un sogno che Leonardo racconta di averfatto da fanciullo, in cui un nibbio con la coda si sforza-va di aprirgli la bocca. «Coda è il simbolo più conosciu-to del membro virile, e la situazione che il fantasma rap-presenta, un nibbio che apre la bocca del fanciullo conla coda, corrisponde all'idea di un fellatio...» Di qui ilFreud argomenta le tendenze omosessuali di Leonardo;di qui, e insieme dall'inserzione dell'immancabile «com-plesso edipico» del quale parleremo tra breve, egli con-tinua ad argomentare che Leonardo fu un bastardo, che

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sciente e non represso della natura umana, offrono lachiave di questo linguaggio. E bisogna anche dire cheFreud e i suoi seguaci rivelano nelle loro interpretazioniuna finezza e un gusto non maggiori di quelli che si pa-lesano nelle compilazioni delle così dette «smorfie» aduso dei fedeli al gioco del lotto. Con la sola differenza,che le «smorfie» traducono tutto nel linguaggio mate-matico dei numeri, e la scienza psicanalitica traduce tut-to in linguaggio... pornografico. Ci risparmiamo la penadi dare esemplificazioni lessicali; non c'è ragazzo scal-trito che non possegga la chiave del simbolismo freudia-no. Ma ciò che nessun ragazzo, per quanto scaltrito, so-spetta, è che quel suo corredo di nozioni giova più diqualunque studio filologico e storico per ricostruire lavita dell'umanità e delle grandi figure della storia. Per-ché non si creda che scherziamo, ricorderemo che ilFreud ha scritto un intero volume su Leonardo da Vinci,per dimostrare che la psicologia, l'arte e le vicende dellavita del grande pittore si spiegano interpretando psica-naliticamente un sogno che Leonardo racconta di averfatto da fanciullo, in cui un nibbio con la coda si sforza-va di aprirgli la bocca. «Coda è il simbolo più conosciu-to del membro virile, e la situazione che il fantasma rap-presenta, un nibbio che apre la bocca del fanciullo conla coda, corrisponde all'idea di un fellatio...» Di qui ilFreud argomenta le tendenze omosessuali di Leonardo;di qui, e insieme dall'inserzione dell'immancabile «com-plesso edipico» del quale parleremo tra breve, egli con-tinua ad argomentare che Leonardo fu un bastardo, che

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mancò il padre alla sua giovinezza, e via via, attraversouna catena di deduzioni, «che la Verdrängung dell'amo-re infantile di Leonardo per la madre costrinse la deboleenergia della sua libido a prendere forma omosessuale ead esteriorizzarsi nella gioventù in amor platonico», eancora, che, con l'infiacchimento sessuale, «l'attività elo spirito di decisione cominciarono ad esser colpiti daparalisi. La tendenza all'indecisione si fa sentire già nel-la Cena e segna, con la sua influenza disastrosa sullatecnica, il destino dell'opera grandiosa. E a poco a pocosi compie in Leonardo una evoluzione che non si puòparagonare che al regresso dei nevrotici. L'artista, ches'era sviluppato in lui con la pubertà, s'è rattrappito, èsorpassato dall'investigatore della prima infanzia»317.Cosicché il risveglio dell'interesse scientifico di Leonar-do sarebbe un regresso verso l'infantilismo! E facciamograzia al lettore della deduzione del sorriso di MonnaLisa, sempre dal sogno su mentovato. Basterebbe questoesempio per squalificare la psicanalisi dinanzi a qualun-que persona seria.

Ma continuiamo a studiare il procedimento del medi-co psicanalitico. Una volta individuato l'elemento libidi-noso della nevrosi coi mezzi descritti, egli deve, per li-berarne il paziente, portarlo al foco catartico della co-scienza. Ma in che modo? Mediante un atto di «trasferi-mento», accentrando in sé la libidine del malato, in

317 FREUD, Un souvenir d'enfance de Leonard de Vinci, Paris, 1927, pp. 74,177, 202, 204.

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mancò il padre alla sua giovinezza, e via via, attraversouna catena di deduzioni, «che la Verdrängung dell'amo-re infantile di Leonardo per la madre costrinse la deboleenergia della sua libido a prendere forma omosessuale ead esteriorizzarsi nella gioventù in amor platonico», eancora, che, con l'infiacchimento sessuale, «l'attività elo spirito di decisione cominciarono ad esser colpiti daparalisi. La tendenza all'indecisione si fa sentire già nel-la Cena e segna, con la sua influenza disastrosa sullatecnica, il destino dell'opera grandiosa. E a poco a pocosi compie in Leonardo una evoluzione che non si puòparagonare che al regresso dei nevrotici. L'artista, ches'era sviluppato in lui con la pubertà, s'è rattrappito, èsorpassato dall'investigatore della prima infanzia»317.Cosicché il risveglio dell'interesse scientifico di Leonar-do sarebbe un regresso verso l'infantilismo! E facciamograzia al lettore della deduzione del sorriso di MonnaLisa, sempre dal sogno su mentovato. Basterebbe questoesempio per squalificare la psicanalisi dinanzi a qualun-que persona seria.

Ma continuiamo a studiare il procedimento del medi-co psicanalitico. Una volta individuato l'elemento libidi-noso della nevrosi coi mezzi descritti, egli deve, per li-berarne il paziente, portarlo al foco catartico della co-scienza. Ma in che modo? Mediante un atto di «trasferi-mento», accentrando in sé la libidine del malato, in

317 FREUD, Un souvenir d'enfance de Leonard de Vinci, Paris, 1927, pp. 74,177, 202, 204.

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modo che questi, infine, ne risulta liberato affatto.Da questo accenno ci si può fare già un'idea di quel

che possono essere i gabinetti di consultazione psicana-litica, dove il medico assume la poco edificante funzio-ne di vas libidinis318. E, sudiceria a parte, questa opera-zione del «trasferimento» non ha una validità scientificadiversa dall'atto dello stregone, che espelle il diavolo dalcorpo dell'ossesso, per ricacciarlo in quello, poniamo, diun maiale. A tanto si riduce l'opera purificatrice dellacoscienza, che pareva invitarci a considerazioni e a ri-cordi d'ordine idealistico.

In tutta la dottrina della sessualità del Freud, il trattoche più colpisce per la sua fondamentale stortura stanell'invertire il rapporto che qualunque persona equili-brata è portata a istituire tra ciò ch'è normale e ciò che èanormale, tra il sano e il malato. Per lui sono l'anormale,il malato, il degenerato, che non soltanto spiegano i va-lori opposti, ma li precedono e li condizionano come de-gli apriori metafisici. Noi saremmo anche disposti a ri-conoscere la grande influenza che l'attività sessualeesercita su tutta la vita dell'uomo. Ma la sessualità freu-diana nasce pervertita già nel seno stesso dell'incoscien-te, come, a dire del Freud, testimoniano i sogni (masono sogni di pervertiti quelli ch'egli osserva, o li per-verte lui stesso con le sue interpretazioni). Dall'inco-sciente essa emerge, coi segni di un'indelebile degenera-zione, già nei primi istanti della vita del bambino. «Fin318 FREUD, Introduction, cit., pp. 480, 486.

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modo che questi, infine, ne risulta liberato affatto.Da questo accenno ci si può fare già un'idea di quel

che possono essere i gabinetti di consultazione psicana-litica, dove il medico assume la poco edificante funzio-ne di vas libidinis318. E, sudiceria a parte, questa opera-zione del «trasferimento» non ha una validità scientificadiversa dall'atto dello stregone, che espelle il diavolo dalcorpo dell'ossesso, per ricacciarlo in quello, poniamo, diun maiale. A tanto si riduce l'opera purificatrice dellacoscienza, che pareva invitarci a considerazioni e a ri-cordi d'ordine idealistico.

In tutta la dottrina della sessualità del Freud, il trattoche più colpisce per la sua fondamentale stortura stanell'invertire il rapporto che qualunque persona equili-brata è portata a istituire tra ciò ch'è normale e ciò che èanormale, tra il sano e il malato. Per lui sono l'anormale,il malato, il degenerato, che non soltanto spiegano i va-lori opposti, ma li precedono e li condizionano come de-gli apriori metafisici. Noi saremmo anche disposti a ri-conoscere la grande influenza che l'attività sessualeesercita su tutta la vita dell'uomo. Ma la sessualità freu-diana nasce pervertita già nel seno stesso dell'incoscien-te, come, a dire del Freud, testimoniano i sogni (masono sogni di pervertiti quelli ch'egli osserva, o li per-verte lui stesso con le sue interpretazioni). Dall'inco-sciente essa emerge, coi segni di un'indelebile degenera-zione, già nei primi istanti della vita del bambino. «Fin318 FREUD, Introduction, cit., pp. 480, 486.

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dal tempo dell'allattamento egli prova una soddisfazionedi ordine sessuale, che in seguito egli cercherà di ritro-vare nell'atto del succione»319. Più tardi, il primo deside-rio sessuale cosciente del bambino è un desiderio ince-stuoso. Entriamo qui in quel famoso «complesso edipi-co», che è il vero cavallo di Troia della psicanalisi. Ilnome di «complesso edipico» è suggerito al Freud dallaleggenda greca immortalata da Sofocle, di Edipo cheuccide il padre e sposa la madre, per indicare la tenden-za ingenita del bambino a un accoppiamento incestuosocon la propria madre e la sua tendenza ostile verso il pa-dre, che, nel tempo stesso, egli vuole emulare e in cuivede un rivale. In verità, la leggenda greca non è re-sponsabile di questo mostro di psicologia freudiana:Edipo uccide il padre e sposa la madre, essendo ignarodell'esser vero dell'uno e dell'altra, per una contingenzafatale e non per un congenito pervertimento della suanatura. Non defraudiamo perciò il nostro Novecentodella piena paternità di una dottrina che c'introduce ailari della nuova «sacra famiglia»!

Tuttavia è mirabile vedere qual partito il Freud abbiasaputo trarre dal suo «complesso edipico». Non v'èramo dello scibile, dall'etnologia, alla psicologia asso-ciata, alla dottrina della religione, dell'arte, ecc., che eglinon abbia trasformato o immaginato di trasformare conuno strumento che, pure, non parrebbe tanto ricco di ri-

319 FREUD, Trois essais sur la théorie de la sexualité, Paris, N. R. F., 1929, p.166.

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dal tempo dell'allattamento egli prova una soddisfazionedi ordine sessuale, che in seguito egli cercherà di ritro-vare nell'atto del succione»319. Più tardi, il primo deside-rio sessuale cosciente del bambino è un desiderio ince-stuoso. Entriamo qui in quel famoso «complesso edipi-co», che è il vero cavallo di Troia della psicanalisi. Ilnome di «complesso edipico» è suggerito al Freud dallaleggenda greca immortalata da Sofocle, di Edipo cheuccide il padre e sposa la madre, per indicare la tenden-za ingenita del bambino a un accoppiamento incestuosocon la propria madre e la sua tendenza ostile verso il pa-dre, che, nel tempo stesso, egli vuole emulare e in cuivede un rivale. In verità, la leggenda greca non è re-sponsabile di questo mostro di psicologia freudiana:Edipo uccide il padre e sposa la madre, essendo ignarodell'esser vero dell'uno e dell'altra, per una contingenzafatale e non per un congenito pervertimento della suanatura. Non defraudiamo perciò il nostro Novecentodella piena paternità di una dottrina che c'introduce ailari della nuova «sacra famiglia»!

Tuttavia è mirabile vedere qual partito il Freud abbiasaputo trarre dal suo «complesso edipico». Non v'èramo dello scibile, dall'etnologia, alla psicologia asso-ciata, alla dottrina della religione, dell'arte, ecc., che eglinon abbia trasformato o immaginato di trasformare conuno strumento che, pure, non parrebbe tanto ricco di ri-

319 FREUD, Trois essais sur la théorie de la sexualité, Paris, N. R. F., 1929, p.166.

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sorse. È così che una originaria dottrina delle nevrosi siè venuta passo per passo trasformando in una visionegenerale della vita e del sapere. Noi seguiremo qualcunadi queste interpretazioni estensive non per altro che persaggiare la bontà del metodo.

L'inversione segnalata del rapporto tra il normale el'anormale ha portato, come s'è visto, a una prima identi-ficazione del bambino col nevrotico. Spostandosi, sulleorme dell'evoluzionismo, dal campo ontogenetico inquello filogenetico, il Freud ha potuto compiere un'altraidentificazione non meno mirabolante, quella dell'uomoprimitivo col nevrotico. Così l'esperienza che egli ha ac-quistato dai suoi contemporanei degenerati, è stata dalui travasata in blocco nella ricostruzione delle formeprimitive della vita umana. È stato questo l'assunto dellasua opera Totem e tabu, che ha avuto l'onore di moltetraduzioni, tra le quali una in italiano320, dove racimo-lando un po' di letteratura dai vasti repertori del Wester-marck, del Frazer e di altri, ha potuto imbastire una cer-vellotica costruzione. Nella quale, innanzi tutto, vengo-no posti sullo stesso piano gli usi tabuici e i sintomi del-la nevrosi ossessiva; e perché la stortura sia completa,vien rintracciata nel tabu (al quale, si badi, lo stessoFreud attribuisce un'essenziale mancanza di motivazio-ne dei divieti) la vera fonte dell'imperativo categoricokantiano. Quanto poi al totemismo, i suoi principali pre-

320 FREUD, Totem e tabu. Concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei ne-vrotici, Bari, Laterza, 1930.

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sorse. È così che una originaria dottrina delle nevrosi siè venuta passo per passo trasformando in una visionegenerale della vita e del sapere. Noi seguiremo qualcunadi queste interpretazioni estensive non per altro che persaggiare la bontà del metodo.

L'inversione segnalata del rapporto tra il normale el'anormale ha portato, come s'è visto, a una prima identi-ficazione del bambino col nevrotico. Spostandosi, sulleorme dell'evoluzionismo, dal campo ontogenetico inquello filogenetico, il Freud ha potuto compiere un'altraidentificazione non meno mirabolante, quella dell'uomoprimitivo col nevrotico. Così l'esperienza che egli ha ac-quistato dai suoi contemporanei degenerati, è stata dalui travasata in blocco nella ricostruzione delle formeprimitive della vita umana. È stato questo l'assunto dellasua opera Totem e tabu, che ha avuto l'onore di moltetraduzioni, tra le quali una in italiano320, dove racimo-lando un po' di letteratura dai vasti repertori del Wester-marck, del Frazer e di altri, ha potuto imbastire una cer-vellotica costruzione. Nella quale, innanzi tutto, vengo-no posti sullo stesso piano gli usi tabuici e i sintomi del-la nevrosi ossessiva; e perché la stortura sia completa,vien rintracciata nel tabu (al quale, si badi, lo stessoFreud attribuisce un'essenziale mancanza di motivazio-ne dei divieti) la vera fonte dell'imperativo categoricokantiano. Quanto poi al totemismo, i suoi principali pre-

320 FREUD, Totem e tabu. Concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei ne-vrotici, Bari, Laterza, 1930.

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cetti, quello di non uccidere il totem e di non usufruiresessualmente di alcuna donna dello stesso totem, vengo-no fatti «coincidere in sostanza coi due crimini di Edipo,che uccise suo padre e sposò sua madre, e coi desideriprimitivi del bambino; desideri la cui rimozione insuffi-ciente o il cui risveglio costituiscono forse il nocciolo ditutte le psiconevrosi. Se questa analogia non è un sem-plice gioco del caso, essa viene a gettare una lucesull'origine remotissima del totemismo. In altre parole,saremo in grado di dimostrare che il sistema totemicosia derivato dalle premesse del complesso edipico»321. Insostanza, il Freud sostiene col Darwin l'esistenza diun'orda primitiva, dove – egli aggiunge di proprio – «ifigli odiavano il padre, che tanto intralciava loro la vitanel bisogno di potenza e nelle esigenze sessuali, e d'altraparte lo amavano e lo ammiravano. Dopo averlo elimi-nato, dopo aver placato il loro odio e soddisfatto il lorodesiderio d'identificarsi con lui, dovettero dar sfogo aimotivi affettuosi che erano stati sopraffatti. E ciò accad-de in forma di pentimento; sorse un sentimento di colpa,che in questo caso coincide col rimorso sentito colletti-vamente»322. Di qui il totemismo, dove l'animale totemche viene adorato simboleggia – per una delle tante leg-gi d'identificazione e di sostituzione di cui è prodiga lapsicanalisi – il padre ucciso.

Di questa costruzione freudiana gli etnologi hanno

321 Op. cit., p. 146.322 Ibid., p. 158.

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cetti, quello di non uccidere il totem e di non usufruiresessualmente di alcuna donna dello stesso totem, vengo-no fatti «coincidere in sostanza coi due crimini di Edipo,che uccise suo padre e sposò sua madre, e coi desideriprimitivi del bambino; desideri la cui rimozione insuffi-ciente o il cui risveglio costituiscono forse il nocciolo ditutte le psiconevrosi. Se questa analogia non è un sem-plice gioco del caso, essa viene a gettare una lucesull'origine remotissima del totemismo. In altre parole,saremo in grado di dimostrare che il sistema totemicosia derivato dalle premesse del complesso edipico»321. Insostanza, il Freud sostiene col Darwin l'esistenza diun'orda primitiva, dove – egli aggiunge di proprio – «ifigli odiavano il padre, che tanto intralciava loro la vitanel bisogno di potenza e nelle esigenze sessuali, e d'altraparte lo amavano e lo ammiravano. Dopo averlo elimi-nato, dopo aver placato il loro odio e soddisfatto il lorodesiderio d'identificarsi con lui, dovettero dar sfogo aimotivi affettuosi che erano stati sopraffatti. E ciò accad-de in forma di pentimento; sorse un sentimento di colpa,che in questo caso coincide col rimorso sentito colletti-vamente»322. Di qui il totemismo, dove l'animale totemche viene adorato simboleggia – per una delle tante leg-gi d'identificazione e di sostituzione di cui è prodiga lapsicanalisi – il padre ucciso.

Di questa costruzione freudiana gli etnologi hanno

321 Op. cit., p. 146.322 Ibid., p. 158.

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fatto facile e sommaria giustizia. A parte l'assurdità delcomplesso edipico e di tutti i suoi annessi, essa riposatotalmente sull'ipotesi darwinistica dell'esistenza origi-naria di famiglie ciclopiche, in cui tutti i diritti sessualierano monopolizzati dagli anziani, mentre i loro giovanifigli erano tiranneggiati. Ora, come osserva il Thurn-wald, questa ipotesi è smentita dalla conoscenza che ab-biamo dei popoli primitivi, le cui famiglie sono piccolee isolate. L'organizzazione della famiglia ciclopica cor-risponde a uno stadio molto più progredito di sviluppo edi civiltà, in cui non ci sono più tracce di totemismo323.

Facciamo grazia al lettore di tutti gli sviluppi filosofi-ci del freudismo. Ma vogliamo spendere qualche parolaper esporre la dottrina psicanalitica dell'arte, perché inquesto campo, non meno che nella psichiatria, la scuolafreudiana ha fatto grande rumore. La poesia è – natural-mente! – narcisismo. Il poeta non trasferisce la sua libi-dine negli oggetti, ma la custodisce in sé, nei suoi desi-

323 V. l'art. del Thurnwald nella raccolta che ha per titolo: Krisis derPsychoanalyse. Systematische Diskussion der Lehre Freudsherausgegeben von HANS PRINZHORN und KUNO MITTENZWEY. I. Band:Auswirkungen der Psychoanalyse in Wissenschaft und Leben, Leipzig, DerNeue Geist Verlag, 1928. Il volume consta di varie decine di articoli, do-vuti a collaboratori diversi, dove la dottrina psicanalitica è considerata, conintenti critici, sotto tutti i suoi aspetti. Ma, a parte l'articolo del Thurnwalde qualche altro, la raccolta rivela tale ottusità professorale e pesantezza te-desca, che riesce quasi del tutto inutile sotto l'aspetto non solo critico, maanche informativo. Il tono di essa è dato dall'articolo introduttivo dell'edi-tore, il Prinzhorn, che con tutta serietà, prendendo lo spunto dai riferimentidel Freud a Platone e a Kant, esamina ordinatamente tutti i precedenti sto-rici della psicanalisi cominciando da Talete per finire a Nietzsche, senzatrascurar neppure i Santi Padri e gli Scolastici.

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fatto facile e sommaria giustizia. A parte l'assurdità delcomplesso edipico e di tutti i suoi annessi, essa riposatotalmente sull'ipotesi darwinistica dell'esistenza origi-naria di famiglie ciclopiche, in cui tutti i diritti sessualierano monopolizzati dagli anziani, mentre i loro giovanifigli erano tiranneggiati. Ora, come osserva il Thurn-wald, questa ipotesi è smentita dalla conoscenza che ab-biamo dei popoli primitivi, le cui famiglie sono piccolee isolate. L'organizzazione della famiglia ciclopica cor-risponde a uno stadio molto più progredito di sviluppo edi civiltà, in cui non ci sono più tracce di totemismo323.

Facciamo grazia al lettore di tutti gli sviluppi filosofi-ci del freudismo. Ma vogliamo spendere qualche parolaper esporre la dottrina psicanalitica dell'arte, perché inquesto campo, non meno che nella psichiatria, la scuolafreudiana ha fatto grande rumore. La poesia è – natural-mente! – narcisismo. Il poeta non trasferisce la sua libi-dine negli oggetti, ma la custodisce in sé, nei suoi desi-

323 V. l'art. del Thurnwald nella raccolta che ha per titolo: Krisis derPsychoanalyse. Systematische Diskussion der Lehre Freudsherausgegeben von HANS PRINZHORN und KUNO MITTENZWEY. I. Band:Auswirkungen der Psychoanalyse in Wissenschaft und Leben, Leipzig, DerNeue Geist Verlag, 1928. Il volume consta di varie decine di articoli, do-vuti a collaboratori diversi, dove la dottrina psicanalitica è considerata, conintenti critici, sotto tutti i suoi aspetti. Ma, a parte l'articolo del Thurnwalde qualche altro, la raccolta rivela tale ottusità professorale e pesantezza te-desca, che riesce quasi del tutto inutile sotto l'aspetto non solo critico, maanche informativo. Il tono di essa è dato dall'articolo introduttivo dell'edi-tore, il Prinzhorn, che con tutta serietà, prendendo lo spunto dai riferimentidel Freud a Platone e a Kant, esamina ordinatamente tutti i precedenti sto-rici della psicanalisi cominciando da Talete per finire a Nietzsche, senzatrascurar neppure i Santi Padri e gli Scolastici.

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deri e nei suoi sogni. Il Rank, che ha dedicato all'esteticaun intero volume324, che quasi gareggia per numero diedizioni con l'Estetica del Croce, considera l'opera d'artenon come una creazione spontanea e originale, ma comeun compromesso tra le tendenze contradittoriedegl'impulsi sessuali e culturali. Questo conflitto nonappartiene solo all'artista, ma è comune a tutti gli uomi-ni, ed ha due soluzioni possibili: la perversione nevroti-ca da una parte, la sublimazione artistica dall'altra. Lacreazione dell'opera d'arte è considerata pertanto comeun Ersatz della soddisfazione della libidine. Se ancoraqui si nota qualche barlume di una verità, per altri culto-ri della psicanalisi, invece, anche l'alternativa intravvistadal Rank scompare e dà luogo a una identificazione.Così per lo Stekel non v'è più differenza tra poesia e ne-vrosi: certo, non ogni nevrotico è poeta, ma ogni poeta ènevrotico.

Ma la nota più grossolana, in questa sinfonia, l'hamessa proprio il Freud. Questi s'è dovuto sentire sfavo-revolmente colpito da quel certo che d'irreale e di fanta-stico che la sua scuola attribuiva alle creature dell'arte es'è chiesto se non si offrisse una via di sbocco verso unarealtà più corpulenta. I sogni sono per l'artista un Ersatzdella libidine; ma non vi sarebbe forse una «via di ritor-no», capace di convertire l'Ersatz in merce genuina, inlibidine... di marca? Cito testualmente la risposta delFreud, perché non si sospetti che io carichi le tinte.

324 O. RANK, Der Künstler, 1907, (19254).

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deri e nei suoi sogni. Il Rank, che ha dedicato all'esteticaun intero volume324, che quasi gareggia per numero diedizioni con l'Estetica del Croce, considera l'opera d'artenon come una creazione spontanea e originale, ma comeun compromesso tra le tendenze contradittoriedegl'impulsi sessuali e culturali. Questo conflitto nonappartiene solo all'artista, ma è comune a tutti gli uomi-ni, ed ha due soluzioni possibili: la perversione nevroti-ca da una parte, la sublimazione artistica dall'altra. Lacreazione dell'opera d'arte è considerata pertanto comeun Ersatz della soddisfazione della libidine. Se ancoraqui si nota qualche barlume di una verità, per altri culto-ri della psicanalisi, invece, anche l'alternativa intravvistadal Rank scompare e dà luogo a una identificazione.Così per lo Stekel non v'è più differenza tra poesia e ne-vrosi: certo, non ogni nevrotico è poeta, ma ogni poeta ènevrotico.

Ma la nota più grossolana, in questa sinfonia, l'hamessa proprio il Freud. Questi s'è dovuto sentire sfavo-revolmente colpito da quel certo che d'irreale e di fanta-stico che la sua scuola attribuiva alle creature dell'arte es'è chiesto se non si offrisse una via di sbocco verso unarealtà più corpulenta. I sogni sono per l'artista un Ersatzdella libidine; ma non vi sarebbe forse una «via di ritor-no», capace di convertire l'Ersatz in merce genuina, inlibidine... di marca? Cito testualmente la risposta delFreud, perché non si sospetti che io carichi le tinte.

324 O. RANK, Der Künstler, 1907, (19254).

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«L'artista, egli dice, è un uomo fantastico, animato daimpulsi e da tendenze estremamente forti. Egli vorrebbeconquistare onori, potenze, ricchezze, amore delle don-ne, ma i mezzi gli mancano. È perciò che, come ogniuomo insoddisfatto, egli si distoglie dalla realtà e con-centra tutto il suo interesse, e insieme tutta la sua libidi-ne, sui desideri creati dalla sua vita immaginativa, ciòche può condurlo facilmente alla nevrosi. Ma, mentre iprofani non ritraggono dalle fonti della fantasia che unpiacere limitato, il vero artista sa dare ai suoi sogni unaforma tale, che essi perdono ogni carattere personale edivengono una fonte di godimento per gli altri. Quandoè riuscito a realizzare tutto questo, egli s'attira la ricono-scenza e l'ammirazione altrui, e finalmente conquistacon la sua fantasia ciò che prima non esisteva che nellasua fantasia: onori, potenza e amore delle donne»325. Hotacciato di grossolano questo quadro. Pure, non è deltutto falso: l'arte, beninteso, non v'entra affatto, maquanti dei nostri sedicenti artisti non vi si riconoscereb-bero?

Questa grossolanità psicologica è stata uno dei coeffi-cienti dell'enorme successo di Freud sul pubblico con-temporaneo. Ma il coefficiente di gran lunga più impor-tante è dato dall'insistenza con cui egli ha trattato il temadella perversione e della degradazione umana. Si pren-dano i nove decimi della produzione letteraria odierna:non si troveranno che casi freudiani, esibizioni patologi-

325 FREUD, Introduction, cit., p. 403.

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«L'artista, egli dice, è un uomo fantastico, animato daimpulsi e da tendenze estremamente forti. Egli vorrebbeconquistare onori, potenze, ricchezze, amore delle don-ne, ma i mezzi gli mancano. È perciò che, come ogniuomo insoddisfatto, egli si distoglie dalla realtà e con-centra tutto il suo interesse, e insieme tutta la sua libidi-ne, sui desideri creati dalla sua vita immaginativa, ciòche può condurlo facilmente alla nevrosi. Ma, mentre iprofani non ritraggono dalle fonti della fantasia che unpiacere limitato, il vero artista sa dare ai suoi sogni unaforma tale, che essi perdono ogni carattere personale edivengono una fonte di godimento per gli altri. Quandoè riuscito a realizzare tutto questo, egli s'attira la ricono-scenza e l'ammirazione altrui, e finalmente conquistacon la sua fantasia ciò che prima non esisteva che nellasua fantasia: onori, potenza e amore delle donne»325. Hotacciato di grossolano questo quadro. Pure, non è deltutto falso: l'arte, beninteso, non v'entra affatto, maquanti dei nostri sedicenti artisti non vi si riconoscereb-bero?

Questa grossolanità psicologica è stata uno dei coeffi-cienti dell'enorme successo di Freud sul pubblico con-temporaneo. Ma il coefficiente di gran lunga più impor-tante è dato dall'insistenza con cui egli ha trattato il temadella perversione e della degradazione umana. Si pren-dano i nove decimi della produzione letteraria odierna:non si troveranno che casi freudiani, esibizioni patologi-

325 FREUD, Introduction, cit., p. 403.

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che elevate a manifestazioni tipiche della psicologiaumana. La dottrina del Freud si può definire come ilmuseo degli orrori delle lettere contemporanee. Nondico che la letteratura corrente sia tutta di ispirazioneconsapevolmente freudiana, ma l'una e l'altra sonoegualmente figlie del tempo, di un tempo che ha smarri-to il senso della misura, dell'equilibrio, della sanità, chescambia le complicazioni di un meccanismo artificialecon la profondità dell'anima, la foia con l'impeto delsentimento, gli spasimi di un sistema nervoso logoratocon la composta forza virile.

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che elevate a manifestazioni tipiche della psicologiaumana. La dottrina del Freud si può definire come ilmuseo degli orrori delle lettere contemporanee. Nondico che la letteratura corrente sia tutta di ispirazioneconsapevolmente freudiana, ma l'una e l'altra sonoegualmente figlie del tempo, di un tempo che ha smarri-to il senso della misura, dell'equilibrio, della sanità, chescambia le complicazioni di un meccanismo artificialecon la profondità dell'anima, la foia con l'impeto delsentimento, gli spasimi di un sistema nervoso logoratocon la composta forza virile.

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II

FREUDIANA

Un mio articolo sul Freud «filosofico», pubblicato neLa Critica326, ha sollevato, come io ben prevedevo, ungran numero di proteste. Benché io mi indirizzassi alpubblico de La Critica, era inevitabile che m'imbattessi,dato l'argomento semi-mondano, in un pubblico in partediverso, al quale dovevano apparire come enormitàquelle cose stesse che a menti educate appaiono ormaicome truismi. Così, se io, indirizzandomi a studiosi distoria, dico che l'interpretazione della storia in base alsolo «fattore economico» è insufficiente, credo che nes-suno trovi nulla a ridire. Ma se io mi rivolgo a letteratiin foia o a medici di umor metafisico, dicendo che spie-gar tutte le manifestazioni della vita e della storia umanacon l'istinto sessuale è per lo meno eccessivo, costorogridano allo scandalo. Similmente io posso, ragionandocon un cultore di filosofia, revocare in dubbio la consi-stenza logica dell'«incosciente» di Hartmann; ma nonposso, agli individui precitati, osare, senza rischio

326 Riprodotto nel capitolo precedente di questo volume (Appendice I).

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II

FREUDIANA

Un mio articolo sul Freud «filosofico», pubblicato neLa Critica326, ha sollevato, come io ben prevedevo, ungran numero di proteste. Benché io mi indirizzassi alpubblico de La Critica, era inevitabile che m'imbattessi,dato l'argomento semi-mondano, in un pubblico in partediverso, al quale dovevano apparire come enormitàquelle cose stesse che a menti educate appaiono ormaicome truismi. Così, se io, indirizzandomi a studiosi distoria, dico che l'interpretazione della storia in base alsolo «fattore economico» è insufficiente, credo che nes-suno trovi nulla a ridire. Ma se io mi rivolgo a letteratiin foia o a medici di umor metafisico, dicendo che spie-gar tutte le manifestazioni della vita e della storia umanacon l'istinto sessuale è per lo meno eccessivo, costorogridano allo scandalo. Similmente io posso, ragionandocon un cultore di filosofia, revocare in dubbio la consi-stenza logica dell'«incosciente» di Hartmann; ma nonposso, agli individui precitati, osare, senza rischio

326 Riprodotto nel capitolo precedente di questo volume (Appendice I).

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dell'integrità personale, di segnalare il ridicolo in cuicade il Freud, quando fa l'inventario dell'incoscientecome dei mobili di casa sua. E così via. Mi spiego per-ciò perfettamente il carattere e la «levatura» della rea-zione polemica che mi sono tirata addosso. E non me nedolgo, perché ne ho tratto una prova di più della separa-zione della nostra cultura in tanti compartimenti-stagno,del tutto impermeabili l'uno all'altro.

Quanto alla sostanza delle cose, non credo di dovernulla ritrattare o modificare del mio articolo, salvo unpunto solo, dove ho attribuito al metodo del Freud lacura delle psicosi oltre che delle nevrosi. Ma è un parti-colare che m'interessa molto mediocremente, perchénon ho nessuna difficoltà a dichiarare la mia completaincompetenza in materia di psichiatria. Io ho criticato ilfreudismo non come scienza delle nevrosi327, ma inquanto si atteggia e pretende a interpretazione dell'arte,della religione, della storia, della spiritualità dell'uomo.E qui ho trovato molto semplicismo e molta grossolanitàdi concetti, che mi hanno convinto che non c'era da trar-re dal freudismo nessun partito per la cultura filosofica eche anzi esso ci darà il fastidio di dover più volte notare,

327 Anche su questa presunta scienza e sulle sue virtù terapeutiche, il pareredei competenti pare tutt'altro che favorevole. Per es., in una recensione delSeillière, apparsa nel Figaro del 10 marzo 1932, del libro del Salewski,Die Psychoanalyse Freuds, Stuttgart, 1931, si legge che il metodo psicana-litico può aver guarito qualche nevrastenia, ma quante, in compenso, ne haprovocate con le sue inquisizioni ossessionanti! - [nota per l’edizione elet-tronica Manuzio]: il titolo corretto dalla copertina del testo risulta essereDie Psychoanalyse Sigmund Freud's.

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dell'integrità personale, di segnalare il ridicolo in cuicade il Freud, quando fa l'inventario dell'incoscientecome dei mobili di casa sua. E così via. Mi spiego per-ciò perfettamente il carattere e la «levatura» della rea-zione polemica che mi sono tirata addosso. E non me nedolgo, perché ne ho tratto una prova di più della separa-zione della nostra cultura in tanti compartimenti-stagno,del tutto impermeabili l'uno all'altro.

Quanto alla sostanza delle cose, non credo di dovernulla ritrattare o modificare del mio articolo, salvo unpunto solo, dove ho attribuito al metodo del Freud lacura delle psicosi oltre che delle nevrosi. Ma è un parti-colare che m'interessa molto mediocremente, perchénon ho nessuna difficoltà a dichiarare la mia completaincompetenza in materia di psichiatria. Io ho criticato ilfreudismo non come scienza delle nevrosi327, ma inquanto si atteggia e pretende a interpretazione dell'arte,della religione, della storia, della spiritualità dell'uomo.E qui ho trovato molto semplicismo e molta grossolanitàdi concetti, che mi hanno convinto che non c'era da trar-re dal freudismo nessun partito per la cultura filosofica eche anzi esso ci darà il fastidio di dover più volte notare,

327 Anche su questa presunta scienza e sulle sue virtù terapeutiche, il pareredei competenti pare tutt'altro che favorevole. Per es., in una recensione delSeillière, apparsa nel Figaro del 10 marzo 1932, del libro del Salewski,Die Psychoanalyse Freuds, Stuttgart, 1931, si legge che il metodo psicana-litico può aver guarito qualche nevrastenia, ma quante, in compenso, ne haprovocate con le sue inquisizioni ossessionanti! - [nota per l’edizione elet-tronica Manuzio]: il titolo corretto dalla copertina del testo risulta essereDie Psychoanalyse Sigmund Freud's.

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per discacciarle, le stupidità e le sconcezze che introdu-ce nelle menti328. Una dottrina che avvicina l'infanzia ela nevrosi, che pone a base della famiglia il complessoedipico, cioè una tendenza incestuosa, che interpreta isentimenti umani più elevati come sublimazioni (corri-spondenti agli epifenomeni del materialismo e alle so-prastrutture del marxismo) della sessualità, non ha nullada dire al mio spirito. I critici mi rimproverano di nonaver letto tutti i libri del Freud: ma ne avevo già abba-stanza dei cinque o sei che ho letti; non occorre saggiartutta l'acqua del mare per accorgersi che è salata.

Ma, a proposito dei critici, essi si guardano benedall'entrare nel merito delle quistioni da me poste, cioèdal convalidare l'analisi freudiana dell'incosciente, dalgiustificare la profondità delle interpretazioni storichefondate sopra un sol fattore, dal sondare le profonditàmetafisiche a me ignote del complesso edipico. È moltopiù comodo e di effetto più sicuro tentar di gettare loscredito sul censore, col porre in evidenza «errori colos-sali» d'interpretazione, e deviare così l'attenzione del

328 Se ne veda un saggio nel libro del Bergmann, recensito dal Croce ne LaCritica del 20 marzo 1932. In uno scritto di F. STROWSKI, L'hommemoderne, Paris, Grasset, 1931, si attribuiscono al freudismo responsabilitàmolto gravi nella diagnosi delle malattie spirituali dell'uomo moderno.«L'obsession freudienne dans le monde actuel est à la fois uneconséquence et une cause des troubles. Les suggestions ne sont plusarrétées par la pudeur, par la fierté, par le bon sens, par le sentiment de laclaire responsabilité. Voila ce qui donne à l'homme moderne letremblement, l'hésitation, la peur, la stupeur» (p. 159). - [nota per l’edizio-ne elettronica Manuzio]: nel testo di riferimento si trova “actuelle” invecedi “actuel”.

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per discacciarle, le stupidità e le sconcezze che introdu-ce nelle menti328. Una dottrina che avvicina l'infanzia ela nevrosi, che pone a base della famiglia il complessoedipico, cioè una tendenza incestuosa, che interpreta isentimenti umani più elevati come sublimazioni (corri-spondenti agli epifenomeni del materialismo e alle so-prastrutture del marxismo) della sessualità, non ha nullada dire al mio spirito. I critici mi rimproverano di nonaver letto tutti i libri del Freud: ma ne avevo già abba-stanza dei cinque o sei che ho letti; non occorre saggiartutta l'acqua del mare per accorgersi che è salata.

Ma, a proposito dei critici, essi si guardano benedall'entrare nel merito delle quistioni da me poste, cioèdal convalidare l'analisi freudiana dell'incosciente, dalgiustificare la profondità delle interpretazioni storichefondate sopra un sol fattore, dal sondare le profonditàmetafisiche a me ignote del complesso edipico. È moltopiù comodo e di effetto più sicuro tentar di gettare loscredito sul censore, col porre in evidenza «errori colos-sali» d'interpretazione, e deviare così l'attenzione del

328 Se ne veda un saggio nel libro del Bergmann, recensito dal Croce ne LaCritica del 20 marzo 1932. In uno scritto di F. STROWSKI, L'hommemoderne, Paris, Grasset, 1931, si attribuiscono al freudismo responsabilitàmolto gravi nella diagnosi delle malattie spirituali dell'uomo moderno.«L'obsession freudienne dans le monde actuel est à la fois uneconséquence et une cause des troubles. Les suggestions ne sont plusarrétées par la pudeur, par la fierté, par le bon sens, par le sentiment de laclaire responsabilité. Voila ce qui donne à l'homme moderne letremblement, l'hésitation, la peur, la stupeur» (p. 159). - [nota per l’edizio-ne elettronica Manuzio]: nel testo di riferimento si trova “actuelle” invecedi “actuel”.

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pubblico dalla sostanza delle cose. Le critiche che m'èaccaduto di leggere sembrano fabbricate in serie, tutte aquesto modo, come i comunicati di un ufficio stampa diun sindacato psicanalitico. Volendo spigolarne qualcuna,risalgo senz'altro alla fonte, all'articolo di un signor E.Weiss, che mi ha l'aria di una specie di procuratore lega-le del freudismo in Italia329. Dopo avermi impartito unalezione di psichiatria, che gli restituisco tal quale per leragioni innanzi dette, egli aggiunge di rincalzo: «Lacosa diventa grave allorché il d. R. cade in due errori:per il Freud e pei suoi seguaci, egli scrive, il fondo inco-sciente della natura umana è tutto riempito da un'unica efondamentale energia, a cui danno essi il nome di libidi-ne. Il termine di libidine è usato qui e nel seguitodell'articolo a posto di quello latino, adoperato dalFreud, di libido». Ora, a parte che io soggiungevo im-mediatamente dopo, a chiarimento: «questa libidine èqualcosa di più elementare di ciò che noi siamo soliti dipensare sotto il nome d'istinto sessuale», come diversa-

329 V. L'Italia letteraria del 7 febbraio 1932. Subito dopo, nel fascicolo di feb-braio del Saggiatore, ho trovato con sorpresa una riproduzione, in formapiù calligrafica, e con firma diversa, dello stesso articolo del Weiss. Disuo, il secondo paladino aggiunge una singolare sfida. Io scrivevo: «Chinon ha letto, almeno in qualche novella, il caso di un Tizio impazzito persubitaneo spavento o un'altra violenta emozione, che poi è rinsavito, in se-guito a una ricostruzione del fatto...». E il censore: «Tutto questo per con-testare alla psico-analisi il merito della priorità nella teoria psicogena dellanevrosi. ʻChi non ha letto...ʼ occorrerebbe documentare, e noi non voglia-mo mettere il d. R. in imbarazzo chiedendogli una documentazione di que-sta priorità». Ma io l'accontento subito: mi riferivo a una novella del DeAmicis che ai miei tempi anche i ragazzi delle scuole elementari conosce-vano.

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pubblico dalla sostanza delle cose. Le critiche che m'èaccaduto di leggere sembrano fabbricate in serie, tutte aquesto modo, come i comunicati di un ufficio stampa diun sindacato psicanalitico. Volendo spigolarne qualcuna,risalgo senz'altro alla fonte, all'articolo di un signor E.Weiss, che mi ha l'aria di una specie di procuratore lega-le del freudismo in Italia329. Dopo avermi impartito unalezione di psichiatria, che gli restituisco tal quale per leragioni innanzi dette, egli aggiunge di rincalzo: «Lacosa diventa grave allorché il d. R. cade in due errori:per il Freud e pei suoi seguaci, egli scrive, il fondo inco-sciente della natura umana è tutto riempito da un'unica efondamentale energia, a cui danno essi il nome di libidi-ne. Il termine di libidine è usato qui e nel seguitodell'articolo a posto di quello latino, adoperato dalFreud, di libido». Ora, a parte che io soggiungevo im-mediatamente dopo, a chiarimento: «questa libidine èqualcosa di più elementare di ciò che noi siamo soliti dipensare sotto il nome d'istinto sessuale», come diversa-

329 V. L'Italia letteraria del 7 febbraio 1932. Subito dopo, nel fascicolo di feb-braio del Saggiatore, ho trovato con sorpresa una riproduzione, in formapiù calligrafica, e con firma diversa, dello stesso articolo del Weiss. Disuo, il secondo paladino aggiunge una singolare sfida. Io scrivevo: «Chinon ha letto, almeno in qualche novella, il caso di un Tizio impazzito persubitaneo spavento o un'altra violenta emozione, che poi è rinsavito, in se-guito a una ricostruzione del fatto...». E il censore: «Tutto questo per con-testare alla psico-analisi il merito della priorità nella teoria psicogena dellanevrosi. ʻChi non ha letto...ʼ occorrerebbe documentare, e noi non voglia-mo mettere il d. R. in imbarazzo chiedendogli una documentazione di que-sta priorità». Ma io l'accontento subito: mi riferivo a una novella del DeAmicis che ai miei tempi anche i ragazzi delle scuole elementari conosce-vano.

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mente potevo tradurre libido? O che il signor Weiss cre-de che libido suoni diversamente da «libidine»? Forse laparola saucisson gli pare più esotica della volgare «sal-ciccia»? L'altro errore che io avrei commesso nelle po-che righe incriminate è di aver dimenticato che accantoall'istinto sessuale il Freud pone un'altra forza, in con-flitto con esso, cioè quella dell'Io. Ma ne ho parlato asuo luogo, quando ho descritto il processo pseudo-catar-tico della coscienza; ed era giusto che ne parlassi in sedediversa, perché le forze dell'io intervengono in un mo-mento successivo: – ciò che conferma il carattere prima-rio e fondamentale delle altre330. Dopo aver qualificata«incredibile» la mia omissione, il Weiss soggiunge che èegualmente incredibile che io scriva che «il primato del-la ragion pratica si converte per Freud in un primato deigenitali». E si affanna il poveretto a mostrare che nelbrano del Freud la citazione kantiana non c'è. E c'eraproprio bisogno che ci fosse, perché la reminiscenza pa-rodistica saltasse agli occhi? Passando al simbolismofreudiano, il Weiss fa una lunga filastrocca per contesta-

330 Più appresso il W. mostra di accorgersi che ne ho parlato – ma per impu-tarmi una contradizione con ciò che avevo detto prima. Anche un panegiri-sta del Freud, S. Zweig (Freud, Stock, Paris, 1932), dopo aver detto cheteoricamente, il F. oppone alla libidine l'istinto dell'Io, soggiunge: «Ma – esotto questo rapporto solo gli avversari non hanno completamento torto –il F. non è riuscito a rappresentare questo istinto contrario così nettamente,e con forza così persuasiva, come l'istinto sessuale... Dove gli manca lapercezione precisa, cioè in tutto il dominio puramente speculativo, glimanca anche la plasticità magnifica del suo senso del limite» (p. 154).Che, ciò malgrado, il Freud si sia negli ultimi anni lanciato sempre più neivoli della metafisica, riconosce lo stesso Zweig a pp. 161-62.

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mente potevo tradurre libido? O che il signor Weiss cre-de che libido suoni diversamente da «libidine»? Forse laparola saucisson gli pare più esotica della volgare «sal-ciccia»? L'altro errore che io avrei commesso nelle po-che righe incriminate è di aver dimenticato che accantoall'istinto sessuale il Freud pone un'altra forza, in con-flitto con esso, cioè quella dell'Io. Ma ne ho parlato asuo luogo, quando ho descritto il processo pseudo-catar-tico della coscienza; ed era giusto che ne parlassi in sedediversa, perché le forze dell'io intervengono in un mo-mento successivo: – ciò che conferma il carattere prima-rio e fondamentale delle altre330. Dopo aver qualificata«incredibile» la mia omissione, il Weiss soggiunge che èegualmente incredibile che io scriva che «il primato del-la ragion pratica si converte per Freud in un primato deigenitali». E si affanna il poveretto a mostrare che nelbrano del Freud la citazione kantiana non c'è. E c'eraproprio bisogno che ci fosse, perché la reminiscenza pa-rodistica saltasse agli occhi? Passando al simbolismofreudiano, il Weiss fa una lunga filastrocca per contesta-

330 Più appresso il W. mostra di accorgersi che ne ho parlato – ma per impu-tarmi una contradizione con ciò che avevo detto prima. Anche un panegiri-sta del Freud, S. Zweig (Freud, Stock, Paris, 1932), dopo aver detto cheteoricamente, il F. oppone alla libidine l'istinto dell'Io, soggiunge: «Ma – esotto questo rapporto solo gli avversari non hanno completamento torto –il F. non è riuscito a rappresentare questo istinto contrario così nettamente,e con forza così persuasiva, come l'istinto sessuale... Dove gli manca lapercezione precisa, cioè in tutto il dominio puramente speculativo, glimanca anche la plasticità magnifica del suo senso del limite» (p. 154).Che, ciò malgrado, il Freud si sia negli ultimi anni lanciato sempre più neivoli della metafisica, riconosce lo stesso Zweig a pp. 161-62.

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re la mia affermazione che «la scienza psicoanaliticatraduce tutto in linguaggio pornografico». Per rispetto ailettori mi astengo dall'esemplificare: basta leggere qua-lunque interpretazione psicanalitica dei sogni, comequella che ho citata nel mio articolo del sogno di Leo-nardo. E a proposito della ricostruzione freudiana dellavita di Leonardo, il Weiss sentenzia, con comica gravità:«Questo saggio richiede, per poter essere compreso, uncorredo non indifferente di cognizioni psicanalitiche».Sì, credo anch'io che ci voglia alta scienza per intenderela ricostruzione della vita di Leonardo fondata sull'inter-pretazione pornografica di un sogno della fanciullezza.

Sorvolo sull'appunto che il censore mi fa per aver tra-dotto «transfert» con «trasferimento» invece di «trasla-zione» (questa «traslazione» puzza di cadavere, e per-ciò, forse, è meglio appropriata), e passo alla sostanzadella cosa. Il Weiss mi cita un'autorità psicanalitica perspiegarmi che il medico «compie la funzione di unoschermo per ricevere le ombre del passato»: io l'avevo,più realisticamente, e non senza ironia, chiamato un vaslibidinis. Non voglio entrar nel vivo di questa nobilefunzione; ma non venga il censore a dirmi che la stessacosa si verifica «nella vita quotidiana tra scolari e mae-stri, tra superiori e inferiori». Non è l'ignoranza degliscolari che si travasa, e neppure, del resto, la scienza deimaestri. I processi spirituali hanno qualcosa di più per-sonale e intimo, che non è il caso di spiegare a un psica-nalista, il quale è rimasto, nell'ipotesi più benevola, allo

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re la mia affermazione che «la scienza psicoanaliticatraduce tutto in linguaggio pornografico». Per rispetto ailettori mi astengo dall'esemplificare: basta leggere qua-lunque interpretazione psicanalitica dei sogni, comequella che ho citata nel mio articolo del sogno di Leo-nardo. E a proposito della ricostruzione freudiana dellavita di Leonardo, il Weiss sentenzia, con comica gravità:«Questo saggio richiede, per poter essere compreso, uncorredo non indifferente di cognizioni psicanalitiche».Sì, credo anch'io che ci voglia alta scienza per intenderela ricostruzione della vita di Leonardo fondata sull'inter-pretazione pornografica di un sogno della fanciullezza.

Sorvolo sull'appunto che il censore mi fa per aver tra-dotto «transfert» con «trasferimento» invece di «trasla-zione» (questa «traslazione» puzza di cadavere, e per-ciò, forse, è meglio appropriata), e passo alla sostanzadella cosa. Il Weiss mi cita un'autorità psicanalitica perspiegarmi che il medico «compie la funzione di unoschermo per ricevere le ombre del passato»: io l'avevo,più realisticamente, e non senza ironia, chiamato un vaslibidinis. Non voglio entrar nel vivo di questa nobilefunzione; ma non venga il censore a dirmi che la stessacosa si verifica «nella vita quotidiana tra scolari e mae-stri, tra superiori e inferiori». Non è l'ignoranza degliscolari che si travasa, e neppure, del resto, la scienza deimaestri. I processi spirituali hanno qualcosa di più per-sonale e intimo, che non è il caso di spiegare a un psica-nalista, il quale è rimasto, nell'ipotesi più benevola, allo

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stadio da me descritto dello stregone che esorcizzal'ossesso.

Quanto alla mia asserzione che «la sessualità freudia-na nasce pervertita già dal seno stesso dell'incosciente»,sarebbe essa pure uno sproposito. Lascio al lettore ilgiudicare se un bambino, che nasce con la tendenzaall'incesto e con un sentimento di ostilità verso il padre,si possa chiamare normale secondo l'uso comune dellaparola. Ma dov'è andato a scovarli, il Freud, questi mo-stri di bambini? Nella nostra esperienza fortunatamentenon ne conosciamo. Siamo al famigerato «complessoedipico», a proposito del quale il Weiss non mi vuolpassar per buona nemmeno la discordanza che io avevonotata tra la leggenda greca e il mostro freudiano, cheper lui sono sullo stesso piano. Ma Edipo che per decre-to di un maligno fato sposa, inconsapevole, la madre euccide il padre, ci fa pietà; il fanciullo freudiano, chenasce con l'istinto dell'incesto, ci fa schifo.

Sull'identificazione del primitivo e del nevrotico ilWeiss, a corto di argomenti, non sa far di meglio chescandalizzarsi per un errore di stampa che m'è sfuggitonel trascrivere il titolo di un libro del Freud: «Concor-danze della vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici»,invece che «nella vita psichica ecc.» (!!). E fa insinua-zioni sulla mia buona fede e sul modo come si scrivonole storie: ma che crede, questo signore, che io voglia im-piantare qualche gabinetto di consultazione in concor-renza col suo? «Per finire, conclude l'articolista, il d. R.

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stadio da me descritto dello stregone che esorcizzal'ossesso.

Quanto alla mia asserzione che «la sessualità freudia-na nasce pervertita già dal seno stesso dell'incosciente»,sarebbe essa pure uno sproposito. Lascio al lettore ilgiudicare se un bambino, che nasce con la tendenzaall'incesto e con un sentimento di ostilità verso il padre,si possa chiamare normale secondo l'uso comune dellaparola. Ma dov'è andato a scovarli, il Freud, questi mo-stri di bambini? Nella nostra esperienza fortunatamentenon ne conosciamo. Siamo al famigerato «complessoedipico», a proposito del quale il Weiss non mi vuolpassar per buona nemmeno la discordanza che io avevonotata tra la leggenda greca e il mostro freudiano, cheper lui sono sullo stesso piano. Ma Edipo che per decre-to di un maligno fato sposa, inconsapevole, la madre euccide il padre, ci fa pietà; il fanciullo freudiano, chenasce con l'istinto dell'incesto, ci fa schifo.

Sull'identificazione del primitivo e del nevrotico ilWeiss, a corto di argomenti, non sa far di meglio chescandalizzarsi per un errore di stampa che m'è sfuggitonel trascrivere il titolo di un libro del Freud: «Concor-danze della vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici»,invece che «nella vita psichica ecc.» (!!). E fa insinua-zioni sulla mia buona fede e sul modo come si scrivonole storie: ma che crede, questo signore, che io voglia im-piantare qualche gabinetto di consultazione in concor-renza col suo? «Per finire, conclude l'articolista, il d. R.

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si rivolge alla dottrina psicoanalitica dell'arte ed enunciauna serie di affermazioni una più erronea dell'altra.»Sentiamo: «La poesia, egli scrive, è narcisismo: nessu-no, s'intende, ha mai detto questo: il Freud potrà osser-vare, tutt'al più, che l'artista è un narcisista». Ma nontorna qui opportuno, press'a poco, l'esempio della zuppae del pan bagnato? E via di questo passo. Quel che peròil Weiss non s'è attentato di giustificare è quel vero gio-iello di estetica freudiana che io ho messo in luce nelmio articolo – dove l'artista è considerato come un donGiovanni in immaginazione, che poi, col successo libra-rio, ottiene le donne e le ricchezze che aveva sognate.Per me la volgarità di quel brano (che ho citato testual-mente) è stata rivelatrice di tutta la mentalità del Freud.

Son questi, uno per uno, i mostruosi errori che ilWeiss ha saputo contestarmi. E dopo un simile saggio,egli si dà perfino l'aria di rammaricarsi che una rivistacome La Critica abbia ospitato un articolo come il mio.Un individuo che dichiara di aver passato ventidue annia meditare i testi del Freud (del che sinceramente locompiango), quale ragione ha mai di prendere a cuore lesorti della Critica? Misteri dell'incoscienza psicanaliti-ca. Invece io ho motivo di essergli grato per avere invo-lontariamente convalidato, coi suoi ventidue anni diesperienze freudiane, le impressioni dei sette giorni (nonpiù, ché non mi reggeva la nausea!) che ho passato tra ilibri a lui diletti.

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si rivolge alla dottrina psicoanalitica dell'arte ed enunciauna serie di affermazioni una più erronea dell'altra.»Sentiamo: «La poesia, egli scrive, è narcisismo: nessu-no, s'intende, ha mai detto questo: il Freud potrà osser-vare, tutt'al più, che l'artista è un narcisista». Ma nontorna qui opportuno, press'a poco, l'esempio della zuppae del pan bagnato? E via di questo passo. Quel che peròil Weiss non s'è attentato di giustificare è quel vero gio-iello di estetica freudiana che io ho messo in luce nelmio articolo – dove l'artista è considerato come un donGiovanni in immaginazione, che poi, col successo libra-rio, ottiene le donne e le ricchezze che aveva sognate.Per me la volgarità di quel brano (che ho citato testual-mente) è stata rivelatrice di tutta la mentalità del Freud.

Son questi, uno per uno, i mostruosi errori che ilWeiss ha saputo contestarmi. E dopo un simile saggio,egli si dà perfino l'aria di rammaricarsi che una rivistacome La Critica abbia ospitato un articolo come il mio.Un individuo che dichiara di aver passato ventidue annia meditare i testi del Freud (del che sinceramente locompiango), quale ragione ha mai di prendere a cuore lesorti della Critica? Misteri dell'incoscienza psicanaliti-ca. Invece io ho motivo di essergli grato per avere invo-lontariamente convalidato, coi suoi ventidue anni diesperienze freudiane, le impressioni dei sette giorni (nonpiù, ché non mi reggeva la nausea!) che ho passato tra ilibri a lui diletti.

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INDICE DEI NOMI

AlexanderAristotele

BaillieBanfiBatesonBergmannBergsonBohrBoutrouxBradleyBrentanoBroadBrocaBrunschvicgButler

CairdCampanellaCardonaCarlyleCartesioCarnot

CassirerChamberlainChauffardChevalierClausiusColeridgeCollingwoodColomboComptonCopeCroceCrusiusCuvier

D'AbroDarbonDarwinDawes HicksDe AmicisDe BroglieDescartesDe Vries

DeweyDiltheyDrieschDuhemDurkheim

EddingtonEimerEinsteinEpicuroErodotoEucken

FaradayFessardFitzGeraldFoucaultFrazerFresnelFreudFriedellFurlani

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INDICE DEI NOMI

AlexanderAristotele

BaillieBanfiBatesonBergmannBergsonBohrBoutrouxBradleyBrentanoBroadBrocaBrunschvicgButler

CairdCampanellaCardonaCarlyleCartesioCarnot

CassirerChamberlainChauffardChevalierClausiusColeridgeCollingwoodColomboComptonCopeCroceCrusiusCuvier

D'AbroDarbonDarwinDawes HicksDe AmicisDe BroglieDescartesDe Vries

DeweyDiltheyDrieschDuhemDurkheim

EddingtonEimerEinsteinEpicuroErodotoEucken

FaradayFessardFitzGeraldFoucaultFrazerFresnelFreudFriedellFurlani

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GalileiGaussGeigerGentileGeulinxGoetheGrasselliGrassiGreenGroethuysenGuicciardini

HaeckelHamannHamelinHartmannHarwardHegelHeideggerHeinichenHeisenbergHerderHertzHockingHoltHume

HusserlHuxleyHuygens

Ipparco

JacobiJaegerJamesJannanJaspersJeansJeffersonJhering

KantKemp SmithKeyserlingKierkegaardKorschinski

LachelierLalandeLamarckLangevinLeibnizLeonardo

Le RoyLewesLloyd Mor-ganLockeLohrLombardiLombardo RadiceLorentzLudwigLutero

MachMachiavelliMaierMalebrancheMalthusMarcelMarcolongoMaxwellMazziniMcTaggartMeineckeMeyersonMichelson

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GalileiGaussGeigerGentileGeulinxGoetheGrasselliGrassiGreenGroethuysenGuicciardini

HaeckelHamannHamelinHartmannHarwardHegelHeideggerHeinichenHeisenbergHerderHertzHockingHoltHume

HusserlHuxleyHuygens

Ipparco

JacobiJaegerJamesJannanJaspersJeansJeffersonJhering

KantKemp SmithKeyserlingKierkegaardKorschinski

LachelierLalandeLamarckLangevinLeibnizLeonardo

Le RoyLewesLloyd Mor-ganLockeLohrLombardiLombardo RadiceLorentzLudwigLutero

MachMachiavelliMaierMalebrancheMalthusMarcelMarcolongoMaxwellMazziniMcTaggartMeineckeMeyersonMichelson

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MilhaudMill (St.)MinkowskiMischMittenzweyMontaigneMontessoriMooreMorleyMöserMunro

NaumannNeumannNewtonNietzsche

OlivieriOstwaldOwen

PaciPareysonParodiPascalPaulyPerrin

PerryPfänderPlanckPlatonePoincaréPolibioPrinzhorn

RadlRankRankeRavaissonReinachRémacleRenouvierRicci-Curba-stroRickertRiemannRobinRousseauRouxRussellRutherford

Salewski

SannaSantayanaSchelerSchellingSchlippSchneiderSchrödingerSeillièreSergiSimmelSimonSofocleSpaventaSpenglerSpinozaSprangerStefanStefaniniStekelStoutStrowski

TaleteThomasThomsonThurnwald

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MilhaudMill (St.)MinkowskiMischMittenzweyMontaigneMontessoriMooreMorleyMöserMunro

NaumannNeumannNewtonNietzsche

OlivieriOstwaldOwen

PaciPareysonParodiPascalPaulyPerrin

PerryPfänderPlanckPlatonePoincaréPolibioPrinzhorn

RadlRankRankeRavaissonReinachRémacleRenouvierRicci-Curba-stroRickertRiemannRobinRousseauRouxRussellRutherford

Salewski

SannaSantayanaSchelerSchellingSchlippSchneiderSchrödingerSeillièreSergiSimmelSimonSofocleSpaventaSpenglerSpinozaSprangerStefanStefaniniStekelStoutStrowski

TaleteThomasThomsonThurnwald

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ToscanelliTroeltschTucidide

VialletonVoltaireVon BaerVossler

Vossler (jun.)

WahlWatsonWeber (Max)WeismannWeissWestermarck

WeylWhiteheadWienWindelbandWolff

Zweig

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ToscanelliTroeltschTucidide

VialletonVoltaireVon BaerVossler

Vossler (jun.)

WahlWatsonWeber (Max)WeismannWeissWestermarck

WeylWhiteheadWienWindelbandWolff

Zweig

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