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Percorsi e networks, 4 OttocentoDuemila Governare insieme: autonomie e partecipazione Fiorella Imprenti e Francesco Samorè (a cura di) BraDypUS.net COMMUNICATING CULTURAL HERITAGE 2017 Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento

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Percorsi e networks, 4OttocentoDuemila

Governare insieme: autonomie e partecipazione

Fiorella Imprenti e Francesco Samorè(a cura di)

BraDypUS.netCOMMUNICATING

CULTURAL HERITAGE

2017

Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento

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OttocentoDuemila, collana di studi storici e sul tempo presentedell’Associazione Clionet, diretta da Carlo De Maria

Percorsi e networks, 4

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In copertina:

Aldo Aniasi, anni Cinquanta. Archivio Storico Fondazione Aldo Aniasi

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Fiorella Imprenti e Francesco Samorè(a cura di)

Governare insieme: autonomie e partecipazioneAldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento

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CULTURAL HERITAGE

Roma 2017

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Progetto grafico BraDypUS

ISSN: 2284-4368ISBN: 978-88-98392-66-7

Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0.

2017 BraDypUS Editorevia Oderisi Da Gubbio, 25400146 RomaCF e P.IVA 14142141002http://bradypus.nethttp://[email protected]

Progetto di Fondazione Aldo Aniasi e F.I.A.P., Fe-derazione Italiana Associazioni PartigianeCon il contributo di Fondazione CariploSi ringrazia della collaborazione Fondazione La Triennale di Milano,Andrea Cancellato, Direttore GeneraleTommaso Tofanetti, Responsabile Biblioteca del Progetto e Archivio Storico

Editing: Federica Artali, Marina CavalliniRicerca iconografica: Teresa Oliva, Marina Barello

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Governare insieme: autonomie e partecipazione. Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento

INDICE GENERALE

PrefazioneMario Artali

IntroduzioneFiorella Imprenti, Francesco Samorè

1943-1945. Aldo Aniasi: il Comandante “Iso”Alberto Di Maria

Aniasi sindaco e le autonomie locali: “dalla crisi dello Stato al suo rimodellamento” (1968-1976)Mattia Granata

Educazione sanitaria, prevenzione e decentramento. Aldo Aniasi ministro della Sanità (1980-1981)Roberta Cairoli

Rapporto sullo Stato delle autonomie. Aldo Aniasi ministro degli Affari Regionali (1981-1982)Fiorella Imprenti

Appendice

Le tappe di una vita di impegno politico

L’archivio fotografico di Aniasi in mostra presso La Triennale di Milano

Indice dei nomi

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Governare insieme: autonomie e partecipazione Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento

A cura di Fiorella Imprenti e Francesco SamorèRoma (BraDypUS) 2017

ISBN 978-88-98392-66-7p. 5-6

I miei rapporti di giovane socialista con l’allora Assessore ai Lavori Pubblici del Comune di Milano Aldo Aniasi ebbero una svolta ed una intensificazione non prevedibile in occasione di uno degli eventi più drammatici della storia del PSI: la notte tra il 16 ed il 17 giugno del 1963 (la “notte di San Gregorio”). In quella notte Riccardo Lombardi impedì a Pietro Nenni di concordare con Aldo Moro la costituzione del primo governo organico di centro sinistra.

Per i più giovani, che non ne hanno mai sentito parlare, ricorderò che nella “notte di S. Gregorio” si incrinò fortemente – anche se fortunatamente non si ruppe del tutto – l’unità della maggioranza autonomista del PSI ed il rapporto personale tra molti dirigenti e quadri, a tutti i livelli del Partito.

A Milano nell’esecutivo giovanile ci ritrovammo in due sulle posizioni di Ric-cardo Lombardi: Tebaldo Zirulia (che sarà poi segretario dei tranvieri della CGIL) ed io. La maggioranza (Gangi, allora segretario dei giovani, Carlo Tognoli, poi Sindaco di Milano e molti altri) si schierarono con Bettino Craxi, che a sua volta sosteneva le posizioni di Pietro Nenni.

Così come con Nenni – e con un più stretto rapporto con Francesco De Marti-no – restò l’area della corrente autonomista guidata da Giovanni Mosca.

Così ci ritrovammo, senza nessuna intesa preventiva, sulla stessa posizione politica nel Partito: negli anni di cui parliamo, quelli che hanno visto Aniasi affer-marsi prima come Assessore e poi come Sindaco (viene eletto per la prima volta il 19 dicembre 1967) e quelli immediatamente seguenti, abbiamo lavorato insie-me nel sociale (l’Anea – Associazione nazionale enti di assistenza – e “Solidarietà Umana”) nel Consiglio Comunale di Milano ed in generale nel Partito.

Un rapporto sempre franco ma non sempre con identità di posizioni e che è ripreso con forza nel momento più difficile, quello della crisi e del declino del PSI. Abbiamo condiviso una convinzione: che anche se si era chiusa la fase di una

Prefazione

MARIO ARTALI

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significativa presenza del Partito socialista, il ruolo delle culture del socialismo non si era esaurito, anzi erano le culture del socialismo riformista nella libertà che avevano qualcosa da dire mentre tramontavano in un clamoroso fallimento storico quelle dei socialismi autoritari.

Non a caso dobbiamo proprio ad Aniasi, da uomo politico e da amministrato-re, la concreta introduzione di una novità assoluta nel panorama amministrativo e istituzionale dell’Italia repubblicana e cioè la messa in opera di una demo-crazia partecipata, una democrazia degli enti locali, all’interno di uno sforzo di rinnovamento delle istituzioni.

Chi è stato davvero Aldo Aniasi? Innanzitutto si è parlato di “Iso” come di un socialista riformista. È vero, ma sul significato del termine occorre intendersi, perché “riformista” non si sa bene cosa significhi oggi: per molti basta un po’ di olio santo, un po’ di carità e di socialità non ben definite per essere riformista. Iso – e chi lo conosceva bene lo sa – in questo senso riformista non è mai stato. Iso era semmai un massimalista delle riforme. Uno che accettava pienamente e senza riserve di sorta il metodo democratico, ma intendeva utilizzarlo fino in fondo per creare condizioni migliori per quelle che allora chiamavamo le classi subalterne.

Questo spiega perché decenni dopo ai suoi funerali vennero gli uomini delle periferie, anche quelli che allora pensavano non si facesse abbastanza, e perché anche oggi molti lo ricordano, magari per quello che i padri hanno raccontato.

Aniasi era un uomo dell’azione. Lo è stato nella lotta partigiana, in cui ha ri-schiato la pelle ed esercitato il difficile ruolo del comando, lo è stato nell’ammi-nistrazione pubblica, soprattutto nei lunghi anni da Assessore prima e da Sinda-co poi di Milano. Un uomo dell’azione e quindi della realizzazione. Ma sarebbe un grave errore non cogliere che quella azione, quel modo di essere uomo della realizzazione e della concretezza, era esattamente l’opposto del pragmatismo minimalista.

L’azione non nasceva dal calcolo ragionieristico del dare e dell’avere, della pratica senza sogni e senza speranze, anzi era l’opposto: il sogno, la speranza, il progetto che diventa realtà, almeno nella misura del possibile. Questa era – ed è sempre rimasta per Iso – la differenza rispetto al massimalismo dei sogni che restano tali, o al più vengono raccontati in un bel libro.

Di questo narrano i documenti che stiamo recuperando ed organizzando come Fondazione creata nel suo nome, di questo parlano relazioni ed immagini di “Governare Insieme. Autonomie e Partecipazione: Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento” resa possibile dal contributo della Fondazione Cariplo, dal concor-so della Fiap e dalla consolidata collaborazione tra Fondazione La Triennale di Milano e Fondazione Aldo Aniasi.

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Governare insieme: autonomie e partecipazione Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento

A cura di Fiorella Imprenti e Francesco SamorèRoma (BraDypUS) 2017

ISBN 978-88-98392-66-7p. 7-18

La tenacia con cui Aldo Aniasi affermò le proprie idee appare enorme oggi, quando il tempo trascorso consente di scandagliarne l’archivio personale: così nascono i saggi di questo libro, che ripercorrono il corpo a corpo di «Iso» con le fasi più dure del Novecento italiano. Lo sguardo costantemente rivolto alle forme di governo e alle autonomie dei poteri e dei territori fu senza dubbio una delle costanti dell’azione e del pensiero politico di Aldo Aniasi. Autonomia intesa sia come partecipazione sia come responsabilità e possibilità di rispondere ai cittadini delle scelte fatte e dei servizi creati. Fu un convincimento che si radicò in un Aniasi di poco più di venti anni, comandante di una brigata partigiana che liberò e poi difese con le armi la Repubblica dell’Ossola strappata all’occupazio-ne tedesca nell’estate del 1944.

Drammatico fu l’indomani dell’8 settembre 1943, quando – ventiduenne ge-ometra che respirava politica nell’unico modo possibile durante il ventennio (le parole del padre socialista e quelle d’una insegnante coraggiosa che non sfuggì agli occhi del regime) – scelse di combattere in montagna.

Gelida la Valsesia in cui la notte del 31 dicembre 1943 ebbe il battesimo del fuoco, insieme agli altri lodigiani del Battaglione Fanfulla di cui divenne coman-dante e che – ricorda Alberto Di Maria in queste pagine – entrò nell’orbita delle formazioni partigiane garibaldine comuniste.

Sanguinoso il 1944, quando il battaglione spostò il raggio d’azione nel Cusio-Verbano-Ossola insieme a formazioni di militari cattolici o monarchici. I nazisti reagivano alle insurrezioni dell’inverno precedente con feroci rappresaglie sui civili, e il migliaio di effettivi della II Divisione Garibaldi, di cui Iso divenne vice-comandante, dovettero fronteggiare la furia dell’esercito nemico.

Imprevedibile lo scenario dell’estate del 1944, quando le certezze dell’occu-pante cominciavano a incrinarsi e un’offensiva partigiana culminò nella libera-

Introduzione

FIORELLA IMPRENTI, FRANCESCO SAMORÈ

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zione del territorio in cui nacque la Repubblica dell’Ossola. Esperienza emble-matica, molto studiata, sulla quale Di Maria si sofferma facendo parlare Aniasi attraverso i rapporti redatti nei mesi della difesa; perchè si trattava di difendere il corridoio dal quale transitavano le merci che, dalla Germania, giungevano in Italia attraverso la Svizzera.

Abbiamo esordito con la formula del corpo a corpo, certo comprensibile nel fuoco di una guerra; ma più precisamente è con la difficoltà delle scelte che Iso dovette confrontarsi fin da allora; e non si sarebbe sottratto in tempo di pace. Nell’Ossola liberata egli era contrario – insieme agli altri garibaldini – all’insedia-mento di un vero proprio governo, che imponeva di passare dalla guerriglia alla di-fesa statica di un’area estesa (1.600 chilometri quadrati, 85 mila persone). Eppure partecipò – nel ruolo militare assegnato alla sua II Divisione Garibaldi – all’espe-rienza «di un’intensa attività amministrativa, all’organizzazione dei rifornimenti essenziali per la popolazione, dell’assistenza, della polizia, della difesa militare, dell’impiego, delle finanze, della giustizia, della scuola e della vita culturale».

Sulla situazione dopo la riconquista nazifascista dell’Ossola si riflette nel sag-gio, rievocandone i contorni con le parole di Aniasi:

Ci ritrovammo da soli, a millecinquecento metri d’altezza. Molti erano saliti in monta-gna con i calzoni corti, con scarpe scalcagnate. Non pensavo che ce l’avremmo fatta. Leggevamo “La Stampa” che ci mandava messaggi tremendi, «finirete braccati di balza in balza con le barbe bianche». Ma ero il comandante, e ai miei uomini dovevo dire l’esatto contrario. Che avremmo vinto, e vinto in fretta.

Sarebbero seguiti altri mesi di fuoco e sofferenze – Iso, ormai ufficialmente co-mandante militare della Divisione Redi, dovette sopportare il rapimento del fra-tello – fino alle giornate della Liberazione: il 6 maggio, con le altre formazioni dell’Ossola, sfilò a Milano insieme a tutti i partigiani dell’Italia settentrionale. Fu questo uno solo degli episodi che affrontò tenendo in mente un motto che aveva mutuato da Ferruccio Parri, secco quanto il suo proprietario e così imme-diato, “Cammini dritto chi non è gobbo”: gli servì per darsi coraggio nelle marce in montagna così come – anni dopo – nella costante attenzione a rifiutare ogni compromesso al ribasso nell’azione politica.

Alberto Di Maria ci ricorda che la memoria della Resistenza rimase viva in Aniasi fino alla fine, riletta pubblicamente in un volume firmato nel 1997 (Ne va-leva la pena. Dalla “Repubblica” dell’Ossola alla Costituzione repubblicana); qui interessa piuttosto riflettere sull’eredità che la guerra di liberazione, e in partico-lare l’isola di ritrovata libertà dell’organizzazione repubblicana fino all’ottobre 1944, lasciò a Aldo nella vita civile. Egli stesso avrebbe ricordato che i quaranta giorni in cui si era cercato di restaurare, per quanto possibile, i principi dello sta-to di diritto, della civiltà giuridica e della partecipazione democratica gli diedero

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Fiorella Imprenti, Francesco Samorè, Introduzione 9

coscienza delle funzioni elementari che consentono a una comunità di convive-re: trasporti, approvvigionamento, reperimento delle risorse e loro distribuzione, finanche l’informazione (che in guerra era soprattutto intelligence).

Non è forzato, quindi, proiettare quegli insegnamenti sulle caratteristiche «concrete» e durevoli di una passione che Aniasi espresse sempre: quella per il concetto di autonomia, affermato da sindaco di Milano (1967-1976), da deputato per cinque legislature, da ministro della Sanità (1980-1981) e agli Affari Regiona-li (1981-1982); e ancora al vertice delle istituzioni, vicepresidente della Camera dei deputati.

La Milano che Aniasi trovò nel dopoguerra non era quella che aveva lascia-to, ricordò anni dopo la sua esperienza all’ECA, l’Ente comunale di assistenza, guidato da Ezio Vigorelli, avvocato socialista conosciuto durante l’estate della libertà ossolana. Vigorelli, che perse entrambi i suoi figli uccisi dai nazifascisti, fu per Aniasi quasi un padre, che guidò il giovane nella sua «offensiva contro la miseria» in una Milano distrutta dai bombardamenti:

Avevamo alle spalle la liberazione del paese dai tedeschi e dai fascisti. Era ancora viva e sofferta in noi la terribile esperienza della guerra con i suoi lutti, le sue distruzioni. Erano anni di diffusa miseria. A decine di migliaia si contavano coloro che erano senza casa, che vivevano in coabitazione, nelle baracche, nelle cantine. I reduci, i disoccupati, gli ammalati: una povertà che condizionava la vita della città, che si sentiva e si vedeva ogni giorno anche nel difficile rientro dei reduci dalla prigionia. Mancava tutto: il cibo, la legna per scaldarsi, le medicine per curarsi. Ma nella realtà tragica del presente si viveva il ritorno alla democrazia anche come impegno concreto per il futuro. Erano momento di tensione ideale, civile e sociale1.

Attorno a Vigorelli, ricordò, un gruppo di giovani che guardavano al lavoro so-ciale e politico, con un metodo di lavoro basato sull’indagine, sulla conoscenza della realtà per poter progettare e governare i cambiamenti.

Il passaggio alla politica fu quindi naturale. Aldo venne eletto consigliere comunale a Milano nel 1951 e la prima esperienza amministrativa la fece dal 1954 al 1959 come assessore all’economato, dopo di che, divenne assessore ai lavori pubblici sia nella giunta Cassinis che in quella di Pietro Bucalossi ai lavori pubblici. Il suo primo impegno fu per conoscere ed affrontare l’emergenza abi-tativa in una città che ancora pagava il prezzo dei bombardamenti e delle case distrutte o rese inagibili, mentre già si intuiva la capacità di attrazione che la città pronta a decollare avrebbe esercitato su centinaia di migliaia di persone in arrivo da tutta Italia. Aniasi da consigliere denunciò in aula che nel 1950 viveva-

1  Fu in questo contesto che si costituì l’ANEA, l’Associazione nazionale degli enti di assistenza, con il suo organo “Solidarietà Umana”. Aldo Aniasi, L’impegno politico e sociale di Angelo Pagani, in “Giornale degli economisti e annali di economia”, novembre-dicembre 1984, pp. 795-796.

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no a Milano circa 11 mila persone in situazione di degrado abitativo, in cantine, solai, baracche o nei ruderi degli edifici bombardati, chiedendo di insistere su un programma di edilizia popolare. Si fece anche agente propulsore per la creazio-ne di scuole speciali per ragazzi con difficoltà motoria o cognitiva. Da assessore all’economato collaborò a migliorare e innovare la refezione scolastica intesa non solo come sostegno alle famiglie ma anche come momento educativo per i bambini e di creazione di una comunità. Una comunità affollata che doveva spesso contendersi anche la sedia in classe, poiché la carenza di strutture e l’in-cremento demografico portarono le classi a dover gestire i doppi e tripli tur-ni nell’accesso alle aule. Da Assessore ai lavori pubblici, tra 1961 e 1967 Aniasi lanciò quindi un piano di emergenza per la costruzione di scuole che portò alla realizzazione di oltre 100 edifici in quattro anni, il che gli valse la medaglia d’oro di benemerenza per la scuola, la cultura e l’arte da parte del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat2.

Come assessore ai lavori pubblici fece realizzare due inchieste sulla situa-zione delle periferie che ebbero anche il merito di favorire la costituzione di Comitati di quartiere, avviando la riforma sul decentramento che nel 1969, da Sindaco, avrebbe portato a compimento con l’istituzione delle zone e della cari-ca di “aggiunto sindaco”.

Nel suo mandato da sindaco non ebbe la strada spianata, chiarisce Mattia Granata nelle prime parti del saggio Aniasi sindaco e le autonomie locali: dalla crisi dello Stato al suo rimodellamento, descrivendo come alla crisi economica e alla cupa stagione terrorista si sommassero gli effetti di una pressione demogra-fica senza pari: la popolazione crebbe del trenta percento in quindici anni. Fame di abitazioni, infrastrutture insufficienti, carenza di asili, scuole e servizi:

dopo che il censimento del 1971 aveva contato gli abitanti in città in oltre 1,7 milioni, e quelli dell’hinterland in quasi 4 milioni, era evidente a tutti che Milano non si limitava ai propri confini amministrativi, ma si estendeva sui “cento comuni” circostanti, in un mutato rapporto istituzionale con il nuovo Ente Regione Lombardia, retto dal primo presidente Piero Bassetti, democristiano a sua volta eletto nelle prime elezioni ammi-nistrative regionali del 1970.

Due temi coesistono in queste righe di Granata: l’estensione metropolitana del-la città e il rapporto con la neonata Regione, frutto storico di uno spirito delle autonomie scritto in Costituzione ma non tradotto, fino ad allora, nei fatti (e l’im-pulso di Bassetti aveva contribuito, dal versante delle culture cattoliche e della

2  Fu iniziativa di Aniasi anche prevedere dal 1962 l’inserimento in organico in ogni complesso scolastico di un medico preposto alla prevenzione e alla cura. Enrico Landoni, Ricordo di Aniasi, l’amministratore e il politico, in G. Scirocco, G. Morrone (a cura di), Grazie, Iso, cit., p. 35.

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Fiorella Imprenti, Francesco Samorè, Introduzione 11

sinistra democristiana negli anni sessanta, al raggiungimento dell’obiettivo). Se il «progetto socialista» aveva a sua volta messo a fuoco la tensione cui l’orga-nizzazione statale italiana era progressivamente sottoposta fino a scricchiolare, sul decentramento le sinistre avevano puntato per ricomporre una società che appariva loro frantumata da una miriade di interessi particolari.

Lo sguardo di Aniasi, sindaco di Milano e rappresentante lombardo dell’Anci (l’associazione nazionale dei Comuni), si concentrava – scrive Granata – sulla «convinta volontà di tutela e promozione delle autonomie locali». Durante la co-siddetta prima fase del regionalismo (definizione di deleghe, funzioni, personale da trasferire al nuovo ente) l’amministrazione centrale resisteva alla prospettiva di spogliarsi delle proprie prerogative e Aniasi non mancò di denunciarlo. Allo stesso tempo, egli affermava l’esigenza di un riordino complessivo del quadro istituzionale italiano secondo diversi livelli di autonomia; pena il rischio che i comuni cadessero vittima delle neonate regioni (che stavano redigendo i propri statuti) in materia di finanza locale e servizi pubblici. La Costituzione – ricordava infatti Aniasi – assegnava pari dignità a comuni e regioni, e dunque si sarebbe dovuta evitare la subordinazione dei primi alle seconde.

Questa prima fase andava esaurendosi alla metà degli anni Settanta, quando però fu chiaro che le debolezze riguardavano soprattutto i trasferimenti di dele-ghe dallo Stato alle regioni, spesso non accompagnate da adeguata dotazione di fondi e personale. Si operava nel quadro delle politiche nazionali di program-mazione e la tutela del livello comunale significava in realtà affermazione di un ruolo attivo (non di burocratica esecuzione) per le grandi città: si affermava cioè – usando le parole di Aniasi – «il problema politico delle aree metropolitane».

Per il sindaco si trattava di un pensiero lungo, perchè già da tempo egli pre-figurava una città che, avendo assorbito anche sessantamila immigrati all’anno a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, si sarebbe affacciata con coraggio – nel nuovo decennio – sui mondi della scienza, della tecnica, della ricerca, acquisen-do ruolo e dimensione europea:

Si dovrà chiarire cosa si intende per Milano. Milano non dovrà più essere considerata nel suo ristretto ambito amministrativo territoriale […], sarà indispensabile valutare e determinare l’area metropolitana [per] risolvere problemi di dimensione e importan-za assai notevole, che sono i problemi dell’urbanistica, i problemi dell’idraulica, della viabilità e dei trasporti.

Ciò sarebbe accaduto se avesse trovato spazio l’idea di una normativa differen-ziata tra comuni di diverse dimensioni, con conseguenti attribuzioni di risorse; una nuova legislazione sugli enti locali che prevedesse forme di governo me-tropolitano e il coinvolgimento delle stesse – a livello di consiglio dei ministri – nelle decisioni nazionali, politiche e tecniche.

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Governare insieme: autonomie e partecipazione12

Non si trattava solo di una ripensata architettura dei poteri. Per Aniasi, la cultura istituzionale italiana, filtrata dalla storia, cementata nella Resistenza e tradotta nella Costituzione, aveva nelle autonomie locali il proprio raccordo de-mocratico; esse tutelavano la vitalità della democrazia. Autonomia, affermava Aniasi nel 1975, significava che lo Stato riconosce come sua parte integrante, dotata di poteri originari riconducibili alle collettività locali e alle loro tradizioni di autogoverno, l’ente locale; e che esso ha quindi pari dignità istituzionale della struttura centrale di governo.

La battaglia condotta contro la riforma tributaria – che, come spiega Granata, vide in Aniasi un punto di riferimento per il fronte di quanti volevano scongiu-rarne l’adozione – aveva questo significato: difendere le autonomie locali da chi «senza aver ancora riformato strutture, competenze e procedure pubbliche, e senza aver assicurato l’individuazione e il rispetto delle scelte di priorità econo-miche, comincia con il congelare nelle casse dello Stato tutte le risorse dispo-nibili». Il provvedimento, discusso tra Camera e Senato nel 1971, sopprimeva le due maggiori fonti di entrata dei Comuni (imposta di famiglia e sui consumi), pre-vedendo l’accentramento statale e il trasferimento pro quota, successivamente, all’ente locale.

Il respiro delle autonomie frustrato dalla riforma tributaria tornava a sentirsi – almeno questo era il punto di vista di Aniasi – con i risultati delle elezioni am-ministrative del 1975. Completato lo spoglio, il sessanta per cento della popola-zione italiana – e così fu per i milanesi – si rivelava retto da amministrazioni di sinistra. Questa fase di potenziale rilancio autonomistico doveva coincidere con lo strumento della partecipazione.

Per un verso, le città intendevano partecipare (non essere semplicemente con-sultate) alle decisioni che sempre di più erano imperniate sul livello regionale; per un altro, in particolare nella grande Milano, i cittadini sarebbero stati dotati di un nuovo momento di protagonismo con l’introduzione dei Consigli di zona, sor-ti nel 1968-69 dall’evoluzione dei comitati di quartiere. Ora essi erano diventati elettivi, aprendo – secondo Aniasi – a «un’esperienza profondamente innovativa di trasformazione del governo». La partecipazione dei cittadini al rinnovamento delle strutture dello Stato – a partire da un moto ascendente che cominciava nel-le città – era insomma la chiave di volta di tutto il discorso sulle autonomie.

C’era dell’altro: se le città metropolitane, nella lettura che Aniasi offriva del rapporto tra i livelli istituzionali, erano attori di primo rilievo, allora esse poteva-no legittimamente parlare direttamente tra loro, nel mondo. Ecco nascere, su ini-ziativa dell’amministrazione comunale, gli Incontri dei Sindaci delle grandi città del mondo ospitati a Milano dal 1972, per diversi anni e sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica. Le risultanze finali meriterebbero una pubblicazio-ne a sé stante, naturalmente redatta a partire dai materiali a stampa già pubbli-cati e conservati anch’essi nell’archivio di via De Amicis. Basti qui esemplificare il

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Fiorella Imprenti, Francesco Samorè, Introduzione 13

tipo di analisi sviluppate allora, per riflettere sull’attualità dei temi trattati dalle grandi metropoli del pianeta riunite a Milano per volontà di Aniasi.

Alla fine del primo incontro, nell’aprile 1972, i partecipanti – alla presenza del segretario generale delle Nazioni Unite – convenivano sui seguenti punti:

1. la tendenza inarrestabile all’urbanizzazione, frutto del progresso econo-mico e tecnologico, fa delle città il vero fulcro della vita moderna. Di con-seguenza, i problemi del loro sviluppo o decadimento trascendono ormai l’ambito locale e assumono le caratteristiche di una sfida globale;

2. la città è il centro insostituibile di vita culturale, di pacifici scambi e di comprensione fra i popoli. Difendere la qualità della vita urbana è lottare concretamente per il miglioramento del mondo;

3. l’eccessiva dimensione dei centri urbani costituisce tuttavia un ostacolo alla qualità della vita. Non esiste quindi un futuro delle grandi città che non tenga conto di un’armonica integrazione con il territorio, da realiz-zarsi anche attraverso un’attenta identificazione dei diversi livelli di com-petenza amministrativa;

4. lo sviluppo delle città è fortemente condizionato da scelte di politica eco-nomica generale che si situano a monte delle amministrazioni civiche. Queste si trovano quindi in condizione di non poter svolgere in modo ade-guato i propri compiti se non trovano un punto organico di connessione con le istanze decisionali dello sviluppo;

5. le grandi città hanno problemi largamente simili, determinati dalla loro stessa dimensione, indipendentemente dal grado di sviluppo del paese nel quale sono inseriti. Essi sono in particolare problemi determinati dalla convivenza di grandi masse umane, in primo luogo l’igiene pubblica, la casa, i trasporti e la qualità della vita.

Per molti anni i convegni delle città del mondo diedero luogo a un lavoro pre-paratorio e di discussione (raccolto in studi e ricerche) anche molto concreto e finalizzato: ad esempio, nel 1981 ne sortì il libro Le persone handicappate nel-le città, mentre nel 1982 fu presentato un rapporto sulla base di analisi svolte a Birmingham, Caracas, Milano e Toronto, intitolato Partecipazione popolare e gestione delle città.

Un esempio su tutti che vale a testimoniare questo sguardo ampio ma sempre rivolto alla partecipazione popolare, a tutti i livelli, lo si rintraccia nel sodalizio che da Sindaco lo legò a Paolo Grassi, il fondatore assieme al Giorgio Strehler del Piccolo Teatro, e dal quale nacque l’idea del “decentramento teatrale” con il progetto Teatro Quartiere, con spettacoli realizzati sotto un tendone che girava tra via Padova e Gratosoglio, Lorenteggio e Corvetto, Quarto Oggiaro e Comasi-na. Le città, gli uomini non potevano fare a meno della cultura nella sua visione e senza cultura e conoscenza non poteva esserci reale partecipazione.

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Governare insieme: autonomie e partecipazione14

Fu questo che lo spinse a fondare il Circolo de Amicis e ad animarlo per oltre 35 anni, con una riflessione continua sul socialismo, sulla cultura, sulla centralità dell’essere umano, con uno sguardo internazionale ed europeista. La parteci-pazione, intesa come valore, in un approccio insieme liberale e libertario tra la centralità dei diritti individuali e la solidarietà e la giustizia come collanti di un mondo e di un’Europa in cammino comune; un socialismo inteso non «come re-gno idilliaco che sorgerà un giorno ma come il continuo mutamento di equilibri e di strutture a favore dell’uomo e della qualità della vita».

Con questa cifra cercò e lottò per un’«Europa dei popoli». Nel 1969, all’indo-mani della grande manifestazione europeista tenutasi a Milano per celebrare la felice conclusione della campagna per raccogliere le firme da presentare alle Camere per l’elezione a suffragio diretto del Parlamento europeo, Aniasi definì Milano un centro di europeismo:

Si inizia una grande battaglia: la nostra è una bandiera di grande lotta democratica, L’Europa che noi vogliamo, l’Europa dei popoli, pur protesa in una permanente inizia-tiva di distensione fra le grandi potenze, non può rassegnarsi alla funzione di passiva mediatrice fra le parti, ma deve divenire forza creatrice, interprete nuova delle pro-fonde modificazioni economiche e sociali e dei fermenti che ancora caoticamente si agitano nel suo seno e nel mondo3.

E vennero gli anni da parlamentare e delle responsabilità di governo: Ministro della Sanità nel secondo mandato di Cossiga (1980) e nel governo Forlani (fino al giugno 1981). In questo libro, il saggio di Roberta Cairoli mette a fuoco il compito complesso che Aldo dovette ricoprire, gestendo la complessa fase di attuazione della legge di Riforma sanitaria (L. 833/1978) che aveva introdotto il Servizio sanitario nazionale.

Se il tratto caratteristico del precedente sistema mutualistico-contributivo era la sua verticalità, ora globalità, generalizzazione ed eguaglianza delle pre-stazioni richiedevano una dimensione orizzontale delle strutture sanitarie, esal-tando l’apporto delle regioni e degli enti locali.

Cairoli evidenzia subito due approcci che caratterizzarono Aniasi anche in questo frangente: la consapevolezza di dover suscitare un’istanza partecipati-va che non muovesse unicamente dall’alto, poiché – affermava – «l’esito di tale

3  L’occasione vedeva riunito per la prima volta a Milano il Comitato direttivo del Movimento Fede-ralista Europeo e seguiva l’iniziativa presa da Nenni in sede di UEO (Unione Europea Occidentale) in Lussemburgo per auspicare l’inserimento dell’Inghilterra del Mercato comune e superare la fase di stallo nel processo di unione europea. La raccolta di firme per l’elezione diretta del Parlamento europeo era stata lanciata proprio da Milano, dove le autorità cittadine, Aniasi in testa, avevano «dato vita ed incoraggiato, per prime, una campagna popolare, legata alla diffusione dell’ideale europeo». Walter Tobagi, L’Unificazione dell’Europa è una battaglia democratica, “L’Avanti della domenica”, 16 febbraio 1969.

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Fiorella Imprenti, Francesco Samorè, Introduzione 15

processo sarà frutto in buona misura della capacità di coinvolgere, in un ruolo di protagonisti, gli operatori e gli utenti»; e il convincimento che non ci fosse livello istituzionale, «centrale o locale, regionale o comunale», che non fosse diretta-mente coinvolto nel decidere le sorti della riforma. La costituzione delle Unità sanitarie locali (Usl), espressione dell’articolazione di base del Servizio sanitario, gli appariva dunque uno snodo decisivo per la gestione democratica del servizio. Di più, essa era agli occhi di Aniasi determinante per influire sul più generale riordino dei poteri locali: «l’attuazione della riforma sanitaria è una parte della riforma del governo locale».

I livelli decisionali per il funzionamento del Servizio sanitario nazionale erano quindi tre: quello centrale, con compiti di indirizzo, coordinamento e direzione; quello regionale, con compiti legislativi e programmatici; quello sub-regionale, attraverso le Unità sanitarie locali con una dimensione compresa tra i 50.000 e i 200.000 abitanti. Aniasi ministro della Sanità operò per cercare di ridurre al minimo i ritardi nell’applicazione della legge, intervenendo sul piano nazionale e sulla promozione delle iniziative regionali, e fece passi importanti come l’e-manazione dei decreti delegati (luglio 1980) – che istituivano, tra l’altro, l’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro – e la trasformazione della Croce rossa.

La difesa della legge 194 – per un verso dal Referendum voluto dal Movimen-to per la vita (se fosse passato, affermava Aniasi, l’aborto sarebbe tornato ad es-sere nella maggior parte dei casi un reato perseguibile penalmente, con il rischio del ritorno diffuso all’aborto clandestino) – e per l’altro da quello promosso dai Radicali (con l’aborto completamente liberalizzato le leggi del mercato avreb-bero prevalso sulla scelta delle donne) fu per Aniasi un esercizio di equilibrio. Egli voleva che si proseguisse nell’applicazione della legge promulgata da pochi anni: il tema era farla funzionare, non modificarla.

La Carta dei diritti del cittadino malato fu inclusa tra gli obiettivi del Piano sanitario nazionale per il triennio 1981-1983 allo scopo di migliorare le condi-zioni della persona ospedalizzata. Nel piano erano ricompresi progetti-obiettivo per la lotta alla mortalità infantile, per la tutela della salute degli anziani e dei lavoratori. Si interveniva sulla corretta informazione in merito all’educazione sanitaria e alla contraccezione, sul ricorso all’interruzione volontaria di gravi-danza e sulla prevenzione delle tossicomanie (Aniasi presentò al Parlamento la Relazione sul fenomeno e la diffusione della tossicodipendenza in Italia negli anni 1979-1980), sull’assistenza oncologica e le disabilità. L’educazione sanitaria – sottolinea Cairoli nel saggio – non si esauriva per Aniasi nella relazione (pur necessaria) tra provvedimenti legislativi ed evoluzione degli stili di vita; piutto-sto, viveva nel coinvolgimento responsabile del cittadino nella gestione sociale dei servizi.

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Governare insieme: autonomie e partecipazione16

Questa cifra – il protagonismo di ciascuno, reso possibile da nuovi strumenti per l’esercizio della democrazia a livello locale, inverato nel rapporto tra i po-teri dall’esercizio delle autonomie – consente oggi una lettura complessiva (non esaurita certo in questo volume, ma arricchita dall’accesso diretto all’archivio) dell’azione di Aniasi e del suo movente.

Proprio sulle autonomie si concentra nel suo saggio Fiorella Imprenti, ricor-dando come, nei due esecutivi Spadolini in cui fu Ministro per gli Affari regio-nali (tra il giugno 1981 e il dicembre 1982), Aniasi entrasse con tre decenni di riflessioni sul tema. Tutto il governo si proponeva, richiamandosi all’epoca della Costituente, l’uscita dalle fasi più aspre della crisi economica e del terrorismo, dando respiro alla richiesta di rinnovamento che veniva dal Paese.

Gli obiettivi della presenza socialista nel governo dovevano concretizzarsi in tre riforme – quella della finanza locale e regionale, quella dei poteri locali, l’isti-tuzione della Conferenza Stato Regioni – funzionali alla nascita della auspicata Repubblica delle Autonomie così immaginata dallo stesso Aniasi:

Significa che l’Amministrazione centrale, il governo, debbono assumersi la responsabi-lità di indirizzare, di orientare, di programmare e le regioni, nell’ambito dei loro terri-tori, di legiferare, di programmare, per consentire poi ai comuni di gestire sul territorio tutto quanto attiene ai servizi pubblici e ai servizi sociali. Ecco tutto questo comporta un modo diverso di governare da quello tradizionale, che io ho riassunto in una for-mula, “governare insieme”; il che significa che le decisioni devono essere assunte in comune accordo, di concerto: regioni, comuni (il sistema delle autonomie che debbono però essere sentite prima che le decisioni vengono assunte in tutta la fase istruttoria). Questo è stato il comportamento di questi ultimi mesi che ha segnato una inversione di tendenza rispetto a un clima che si era instaurato, per cui negli ultimi anni era calata la tensione che fu del periodo iniziale con il quale erano sorte le regioni e poi successi-vamente le regioni avevano visto assegnare loro poteri trasferiti dall’amministrazione centrale.

Il Rapporto sullo Stato delle Autonomie presentato da Aniasi nel 1982 fotografa-va dieci anni di vita delle Regioni e sottolineava le inadempienze costituzionali, la conflittualità patologica tra i livelli di governo; solo tre leggi quadro avevano visto la luce e i nuovi enti si trovavano nell’impossibilità di legiferare. Il progetto di legge sull’istituzione della Conferenza Stato-Regioni si proponeva di contri-buire ad ovviare a questa situazione: viaggiò attraverso le Camere nel corso dei due governi Spadolini e del governo Fanfani, per poi arrivare a compimento con il primo governo Craxi (decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 12 ottobre 1983).

La rilevanza che ebbe il Rapporto sullo Stato delle Autonomie ci consente di introdurre un altro tema, tra i molti che non riusciremo ad affrontare, ed è l’at-tenzione che Aniasi sempre ebbe rispetto alle pratiche di inchiesta, informazio-ne e comunicazione, momenti strettamente correlati poiché tutti indispensabili

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Fiorella Imprenti, Francesco Samorè, Introduzione 17

al processo decisionale. Fu un metodo che imparò da ragazzo partecipando ai lavori delle tre commissioni parlamentari di inchiesta sulla miseria, sulla disoc-cupazione e sulla condizione dei lavoratori e che sempre lo accompagnò. L’in-formazione intesa come possibilità di scegliere, discernere e decidere, sia per i politici e gli amministratori sia per i cittadini, fu un convincimento che ancora oggi può vedersi rappresentato nel suo vecchio studio, diventato archivio sto-rico, in via De Amicis e che raccoglie una grande quantità di studi di settore, sottolineati, appuntati, commentati dallo stesso Aniasi. Anche quando arrivò alla vice presidenza della Camera dei deputati ebbe questo come primo pensiero, facendosi interprete di un malessere diffuso tra gli abitanti di Montecitorio, che lamentavano di doversi districare in temi complessi e disparati, senza avere le competenze per valutare in modo appropriato. Inoltre si unì alla presidente Iotti nella denuncia, sollevata dall’allora responsabile della comunicazione del Pci Walter Veltroni, alla stampa “di regime”, parlando di vischiosità tra informazione e politica. Fu quindi iniziativa di Aniasi quello di istituire nel corso del 1988 un Ufficio Immagine della Camera che insistette sulla necessità di favorire la com-prensione dei meccanismi parlamentari4.

Lo stesso convincimento lo avrebbe spinto, pochi anni dopo, avendo ereditato da Ferruccio Parri la presidenza della FIAP, la Federazione Italiana delle Asso-ciazioni Partigiane, a promuovere una inchiesta su “I siti della vergogna”, con una capacità immutata di leggere i cambiamenti della società e di interpretarne i fermenti.

Conservò il metodo e conservò la capacità di indignarsi. Pochi mesi prima di andarsene, nell’estate del 2005, reagì con forza alla sentenza su Piazza Fonta-na, quella ferita che aveva segnato la “sua” città. Di fronte all’assoluzione dei responsabili, Aniasi negò che la verità giudiziaria potesse sovrapporsi o essere sufficiente alla verità storica, che chiamava in causa la responsabilità dei neofa-scisti e i depistaggi dello Stato:

La sentenza della Cassazione è assurda: dice che la strage di piazza Fontana non c’ è mai stata, che il 12 dicembre non è successo niente. Sarà anche una verità giudiziaria [però] io non la accetto, perché contrasta con la verità storica. Gli esecutori materiali sono stati i neofascisti. I mandanti e responsabili dei depistaggi i servizi segreti italiani e stranieri. Questo è innegabile, non c’ è Cassazione che tenga. Del resto non è la prima volta che vengono assolti dei colpevoli5.

4  Per un’onesta informazione, “Galassia”, maggio 1988.5  Rodolfo Sala, intervista ad Aldo Aniasi, Aniasi: non posso accettare una sentenza che ci umilia, “La Repubblica”, 4 maggio 2005.

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Governare insieme: autonomie e partecipazione Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento

A cura di Fiorella Imprenti e Francesco SamorèRoma (BraDypUS) 2017

ISBN 978-88-98392-66-7p. 19-52

Il saggio qui proposto è dedicato a quella parte della vita di Aldo Aniasi durante la quale fu partigiano della II Divisione Garibaldi-Redi e tra i protagonisti della celebre esperienza della “Repubblica dell’Ossola”, e si fonda, principalmente, sullo studio delle sue carte personali relative al periodo tra il 1943 e il 1945.

Tra le pubblicazioni dedicate ad “Iso”, come veniva chiamato Aniasi durante la Resistenza, risale al 2007, a due anni dalla sua morte, Grazie, Iso. Atti della giornata di studio su Aldo Aniasi: il partigiano, l’amministratore, il politico1. Lo stesso Aniasi nel 1997 ha curato il volume Ne valeva la pena. Dalla Repubblica dell’Ossola alla Costituzione repubblicana2, contenente un personale bilancio sulla guerra di Liberazione. Nessuno, tuttavia, si è servito del suo archivio per sviluppare un lavoro storiografico-biografico sulla sua figura che oggi è quanto mai necessario.

Da diversi anni una nuova generazione di storici politici, a partire dal son-daggio di archivi personali, ha orientato il proprio interesse verso lo studio delle biografie dei militanti politici. Si cercano nuove prospettive per quella branca della storiografia che fino a qualche decennio fa aveva privilegiato la storia del-le ideologie, dei partiti, dei movimenti collettivi. Come ha sottolineato Leonardo Rapone infatti, in Italia, durante gli anni della «repubblica dei partiti», si è fatta, prevalentemente, la «storia dei partiti antifascisti». Solamente dopo lo snodo de-cisivo rappresentato dagli anni Novanta e il crollo del sistema che ha governato

1 Gino Morrone, Giovanni Scirocco e Antonella Carenzi (a cura di), Grazie, Iso. Dall’Ossola a Palazzo Marino a Montecitorio, Atti della giornata di studio su Aldo Aniasi: il partigiano, l’amministratore, il politico, Milano, M&B Publishing, 2007.2 Aldo Aniasi (a cura di), Ne valeva la pena. Dalla Repubblica dell’Ossola alla Costituzione repub-blicana, Milano, M&B Publishing, 1997.

1943-1945. Aldo Aniasi: il Comandante “Iso”ALBERTO DI MARIA

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la repubblica nei suoi primi quarantacinque anni di vita, venuta meno la spinta a cercare nella storia dell’antifascismo la legittimazione dei partiti, si è sentita più forte l’esigenza di un rinnovamento degli studi storico-politici che prestasse più attenzione alle storie personali3. Era una necessità già avvertita nei primi anni Ottanta da un storico come Alceo Riosa che aveva insistito sulla necessità di stu-diare, in particolare, la storia del socialismo riscoprendo i percorsi di militanza4.

Questo saggio vuole essere uno spunto in quella direzione. Nel dopoguerra infatti Aldo Aniasi è stato un militante politico socialista e uomo delle istituzioni – tra le altre cose sindaco di Milano, deputato e ministro – e non sarebbe possi-bile ricostruire la storia e le ragioni del suo impegno pubblico – profondamente influenzato dalla sua esperienza nella Resistenza – senza analizzare nel detta-glio il periodo della sua vita in cui fu partigiano.

Le carte appartenute ad Aldo Aniasi sono oggi conservate dalla fondazione eponima costituita nel 2009 con sede a Milano presso i locali del Circolo di via De Amicis 17, associazione politica e culturale fondata dallo stesso Aniasi nella seconda metà degli anni Sessanta, quando era sindaco della città. I documenti coprono un arco temporale di oltre cinquanta anni, dalla Resistenza all’avvento della “Seconda repubblica”, e riflettono l’intera biografia dell’uomo. La porzione di archivio utilizzata per la realizzazione di questo saggio è quella delle carte relative alle esperienze della repubblica dell’Ossola e della II Divisione Gari-baldi-Redi (d’ora in poi Fondo Ossola-Garibaldi Redi). Si tratta di dodici cartelle contenenti: la documentazione prodotta dalla giunta provvisoria di governo del-la Repubblica partigiana dell’Ossola e dal Comando unico militare zona Ossola (Cmzo), disposizioni, circolari, corrispondenza privata tra queste due istituzioni e il Comitato di liberazione nazionale alta Italia (Clnai), i Comitati di liberazione nazionale territoriali (Cln) e le formazioni partigiane; la documentazione relati-va alla fondazione, all’organizzazione e alle attività della II Divisione Garibaldi-Redi. Sono carte dalle quali emerge in particolare l’organizzazione interna della formazione di cui Aniasi fu dapprima il vicecomandante poi il comandante: la logistica, i servizi d’informazione e sanitari, l’attività di propaganda, la gestione della disciplina interna e dei rapporti con le altre formazioni partigiane. All’inter-no del Fondo Ossola-Garibaldi Redi sono poi conservate: le circolari e i bollettini di informazione del Clnai; e le pubblicazioni a stampa uscite durante il periodo della Repubblica dell’Ossola, ovvero i giornali organi della giunta provvisoria di Governo, dei partiti antifascisti e i fogli delle formazioni partigiane. Infine, nel

3 Leonardo Rapone (a cura di), Antifascismo e società italiana (1926-1949), Milano, Edizioni Unico-pli, 1999, pp. 8-9.4 Sono riflessioni ricorrenti nel volume di Alceo Riosa (a cura di), Biografia e storiografia, Milano, Franco Angeli, 1983.

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fondo è presente un’ampia documentazione fotografica e audiovisiva su quel periodo di storia patria.

Da tutta questa documentazione ho estrapolato – principalmente ma non esclusivamente – i documenti nei quali è Aldo Aniasi in prima persona a parlare. Sono, fondamentalmente, diverse relazioni in cui si affrontano questioni relative all’organizzazione interna della II Divisione Garibaldi-Redi, altre relative ai rap-porti tra la formazione garibaldina e le formazioni autonome operanti nell’Osso-la, e corrispondenza varia tra lui e gli altri ufficiali partigiani.

Naturalmente nello svolgimento di questo saggio non ho potuto trascurare i ricordi di Aniasi – che abbiamo tratto da due scritti in cui prende la parola e da una intervista rilasciata a “la Repubblica”5 – e la dimensione storica d’insieme6.

Per questo motivo, riorganizzato il materiale, ho deciso di articolare il lavoro su tre piani sovrapponibili – la vicenda personale di Aniasi partigiano, la micro-storia della II Divisione Garibaldi-Redi nella guerra di Liberazione e riferimenti al più ampio contesto macrostorico di quel periodo della storia del Novecento – e di svolgerlo in quattro parti.

Nella prima parte ho ricostruito il primo periodo di Aniasi partigiano in Val-sesia e Val d’Ossola, non senza avere fatto breve accenno agli anni della sua formazione, per capire quali furono le ragioni che lo spinsero a prendere le armi contro i fascisti e i nazisti invasori.

Nella seconda parte è inevitabile concentrarsi brevemente sulla vicenda dell’Ossola: come si giunse alla liberazione del territorio, come nacque questa particolare repubblica e quale era la sua organizzazione interna; quali i rapporti tra le formazioni partigiane che contribuirono alla sua esistenza e quali le cau-se della sua fine. Nello svolgimento di questa parte del saggio, mi sono basato principalmente su una selezione dell’ampia bibliografia dedicata all’Ossola e alle zone liberate7.

Nella terza parte, torno sulle tracce di Iso che dopo la caduta della repubbli-ca si impegnò in prima persona nel lavoro di riorganizzazione della sua forma-

5 Il già citato Aniasi, Ne valeva la pena, cit.; la Prefazione di Aldo Aniasi in Marco Fini, Franco Gian-nantoni, Roberto Pesenti et al. (a cura di), Guerriglia nell’Ossola. Diari, documenti, testimonianze garibaldini, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 7-23; e le dichiarazioni di Aniasi in Luca Fazzo, Aniasi: il mio no alla pacificazione si chiama capitano Finestra, in “la Repubblica”, 24 aprile 2003.6 Tra i vari studi sulla Resistenza italiana non è superfluo ricordare qui almeno: Santo Peli, La Resi-stenza in Italia. Storia e critica, Torino, Einaudi, 2004; Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio sto-rico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2013; e Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, Torino, Einaudi, 2006.7 Su tutti Carlo Vallauri (a cura di), Le Repubbliche partigiane. Esperienze di autogoverno demo-cratico, Roma-Bari, Laterza, 2013; ma anche le riflessioni di Santo Peli tratte da una video intervista rilasciata a “E-Review”, rivista degli istituti storici dell’Emilia-Romagna, Roberta Mira e Toni Rovatti, Un crocevia di problemi. Intervista a Santo Peli sulle zone libere nella Resistenza, in “E-Review”, 2015, n. 3, DOI: 10.12977/ereview79.

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zione uscita malmessa dalla caduta dell’Ossola. Ho riportato dettagli delle sue relazioni tecniche, della corrispondenza tenuta con gli altri ufficiali partigiani della sua formazione e ho ripercorso la vicenda della II Divisione Garibaldi-Redi fino ai giorni della vittoria.

La quarta e ultima parte di questo saggio è infine dedicata alle riflessioni che Aniasi ha continuato a dedicare alla Resistenza a partire dal dopoguerra. Dal 1945 si giunge così agli anni Ottanta e Novanta, e ai primi anni del nuovo secolo, nei quali Aniasi fu presidente della Federazione Italiana Associazioni Partigiane (Fiap) e promotore di giornate di studio, convegni e pubblicazioni sulla guerra di Liberazione, rivelandosi come uno dei più tenaci difensori della memoria della Resistenza.

1.1 Iso e la guerra di liberazione tra la Valsesia e l’Ossola

La guerra di Liberazione, è noto, ebbe inizio nel nord Italia all’indomani dell’8 settembre 1943, quando il disfacimento dello Stato e dell’esercito regio, spinse soldati sbandati, civili e vecchi antifascisti a formare le prime bande di ribelli. Si cercava di reagire all’occupazione armata di gran parte del territorio italiano da parte dell’esercito nazista e all’instaurazione del governo collaborazionista del-la Repubblica sociale italiana (Rsi). In molti presero la via della montagna, ab-bandonando la casa, la famiglia, gli affetti. Si trattava sicuramente di una scelta dettata da ragioni di ordine morale ma, allo stesso tempo, non c’erano alternati-ve per chi non voleva subire la chiamata di leva nell’esercito di Salò, sede della Rsi, o correre il rischio di essere vittima dei rastrellamenti dell’esercito nazista, alla ricerca di manodopera da deportare in Germania.

Fu in quel periodo che anche il giovane Aldo Aniasi, appena ventiduenne, decise di schierarsi contro i nazifascisti. La sua scelta fu la logica conseguenza della sua formazione giovanile. Pertanto è necessario fare un passo indietro e ripercorrere alcuni snodi importanti della sua biografia8.

Aldo Aniasi nacque a Palmanova – la “città stellata” in provincia di Udine – il 31 maggio del 1921, da padre piemontese, originario della Valsesia, e madre origi-naria del modenese. Aldo era il maggiore di quattro fratelli maschi. Gli altri erano Guido, che lo seguirà nell’avventura partigiana, Mario e Ugo. A causa del lavoro

8 Le informazioni per la ricostruzione biografica della prima parte della vita di Aniasi sono tratte da Francesco Omodeo Zorini, «Cammini dritto chi non è gobbo». Omaggio a Iso, in “I Sentieri della Ricerca”, 2006, n. 3, pp. 13-24.

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del padre, era un funzionario di Stato, la famiglia fu costretta a frequenti sposta-menti e l’infanzia di Aldo si svolse tra Udine, Rapallo, Mirandola, Rho, Legnano, Desio, Codogno e Magenta. Nel 1938 gli Aniasi si stabilirono definitivamente a Milano, dove Aldo frequentò l’Istituto tecnico Cattaneo di piazza della Vetra.

Come ha messo in luce Giovanni De Luna, scrivendo a proposito del «famili-smo antifascista», durante gli anni della dittatura fu nella famiglia che si svolse l’apprendistato alla politica e il percorso di approdo all’antifascismo di tantissi-mi giovani nati sotto il fascismo, che grazie a queste vere e proprie zone fran-che riuscirono a formarsi una coscienza critica e d’opposizione9. E fu così anche per il giovane Aldo che antifascista diventò grazie agli insegnamenti del padre, vecchio socialista anteguerra. Ma anche grazie alla professoressa Romano, che insegnava italiano e storia al Cattaneo e cercava di trasmettere agli alunni la passione per la conoscenza e per la libertà, insegnando loro le basi di tutte le ideologie politiche, e per questo fu denunciata per attività antifascista, per avere parlato in classe anche di Marx e Lenin.

Nel giugno 1940, il mese dell’ingresso italiano nella seconda guerra mondia-le, Aniasi ottenne il diploma di geometra e si barcamenava tra un lavoro e l’al-tro. Conseguita, da privatista, anche la maturità scientifica, Aldo si iscrisse alla facoltà di Ingegneria presso il Politecnico di Milano, sostenendo con profitto i primi esami. Gli anni dell’università furono anche quelli in cui, insieme ad alcuni colleghi, si dedicò ad una intensa attività politica clandestina, tenendo incontri e riunioni, attivandosi nella propaganda politica e nella diffusione di testi e pub-blicazioni considerate sovversive e, pertanto, proibite dal regime.

Nel periodo decisivo che va dal 25 luglio – il giorno dell’arresto di Mussolini per ordine di Vittorio Emanuele III – all’8 settembre del 1943, Aldo si trovava sfollato con la famiglia a Codogno, in provincia di Lodi. Come si evince dal breve profilo biografico fin qui stilato, Aldo arrivò all’appuntamento con la Storia aven-do già maturato ideali antifascisti. Non restava altro che passare all’azione e così fece, partecipando ad assalti di massa contro treni merci tedeschi – carichi di generi alimentari di prima necessità – e procedendo alla distribuzione di derrate alla popolazione civile, di abiti ai militari sbandati e al recupero di armi.

Poco tempo dopo, Aldo salì in montagna. Lasciata Codogno, si spostò in Val-sesia – frequentata in gioventù durante le vacanze estive – insieme a una ventina di compagni lodigiani. Furono questi stessi uomini che, procuratisi le armi disar-mando alcuni nuclei della Guardia forestale e della Guardia nazionale repub-blicana (Gnr), formarono il Battaglione Fanfulla, nome del celebre condottiero simbolo di Lodi. Il Fanfulla entrò rapidamente nell’orbita delle formazioni parti-

9 Giovanni De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana. 1922-1939, Torino, Bol-lati Boringhieri, 1995, pp. 181-185.

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giane garibaldine comuniste guidate da Vincenzo “Cino” Moscatelli e acquartie-rate sui monti della Valsesia.

Aldo e compagni erano tutti ragazzi di città, con una scarsa conoscenza della tecnica militare e dei territori in cui si sarebbe svolta la guerriglia – un profilo che accomunò la grande maggioranza dei combattenti della Resistenza – e per loro i primi giorni in alta montagna furono durissimi: difficile trovare cibo per nutrirsi e legna per scaldarsi. Gli abiti in lana non bastavano per tutti. Qualcuno ebbe un ripensamento e tornò a casa.

Non Aniasi, che in quelle prime settimane da partigiano, lui studente univer-sitario, imparò a vivere da guerrigliero, a usare il mitragliatore, a vincere il fred-do, a dormire per terra, a eseguire i compiti più umili, come segare gli alberi, spaccare la legna, uccidere animali per sfamarsi. Fu allora che prese il nome di battaglia “Iso”, da “Iso Danali” anagramma imperfetto del suo nome e cognome.

Il battesimo del fuoco di Iso fu il 31 dicembre del 1943, sulla strada che da Varallo Sesia porta a Camasco, durante un agguato teso dai partigiani ai militi fascisti del Battaglione Tagliamento che lasciarono sul campo diversi morti e feriti. Il 16 gennaio del 1944 poi, prese parte alla battaglia in difesa degli accam-pamenti garibaldini sopra Borgosesia.

Del Fanfulla, Aniasi divenne presto il comandante, affiancato dal commissa-rio Giuseppe “Pippo” Coppo, un operaio falegname della Cobianchi di Omegna, comunista dal 1931 e quadro del partito nell’alto novarese. Pippo fu una figura fondamentale per Iso, per la sua crescita come uomo e come partigiano.

È all’Alpe Sacchi che incontro il commissario politico Pippo, cioè Pippo Coppo, un fa-legname della Cobianchi di Omegna. Pippo è un autodidatta, instancabile, coraggioso. Ha tredici anni più di me e mi sembra quasi vecchio. È un macigno. Mi fa da maestro, mi considera un fratello minore. Tra di noi nasce un’amicizia ed una stima profonda che si consolida e cresce sino al momento in cui torneremo alle nostre case, a Liberazione avvenuta10.

Tra la primavera e l’estate del 1944, la riorganizzazione dei reparti garibaldini in Valsesia, significò per Iso e il Fanfulla spostare il raggio d’azione nel Cusio-Verbano-Ossola dove, sin dall’autunno 1943, si registrava la presenza di altre for-mazioni dette “autonome”, senza colore politico, composte da militari cattolici o monarchici: la Valstrona guidata da Filippo Beltrami, la Valtoce di Alfredo Di Dio e la Valdossola di Dionigi Superti.

In Val d’Ossola la prima insurrezione contro i nazifascisti scoppiò nel novem-bre del 1943, nel contesto delle agitazioni operaie che in quello stesso mese coinvolsero l’intero nord Italia e si sarebbero prolungate per tutto l’inverno. Epi-

10 Aniasi, Prefazione, in Fini, Giannantoni, Pesenti et al. (a cura di), Guerriglia nell’Ossola, cit., p. 15.

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centro fu Villadossola che l’8 novembre 1943 insorse contro i nazifascisti. Questi tuttavia, dopo due giorni di scontri, ripresero il controllo della città. Nondimeno l’insurrezione galvanizzò le forze partigiane che sentivano forte il consenso po-polare. Per questo i nazifascisti intensificarono l’attività repressiva che ebbe il suo culmine in due grandi operazioni repressive.

La prima, in pieno inverno, fu messa in atto il 13 febbraio del 1944. Quel gior-no, alle prime luci dell’alba, i nazisti calarono su Megolo e diedero alle fiamme il paese per poi puntare verso i boschi dove erano acquartierate le truppe della Valstrona che, accerchiate e isolate, furono annientate. Cadde l’intero comando della formazione autonoma formato tra gli altri dal comandante Filippo Bel-trami e da Gianni Citterio “Redi”. I superstiti si riunirono poco tempo dopo nella Divisione alpina d’assalto Beltrami sotto il comando di Bruno Rutto.

La seconda, tra la primavera e l’estate del 1944, fu un feroce rastrellamento condotto nella zona della Val Grande che ebbe inizio il 12 giugno e si prolun-gò per diversi giorni. Fu una rappresaglia contro il colpo di mano effettuato dai garibaldini di Cino Moscatelli che, appena due giorni prima, avevano liberato la Valsesia e l’avrebbero tenuta sotto controllo per circa un mese. Anche in questa occasione il prezzo pagato fu altissimo: tra partigiani e civili caddero in più di 300, tantissimi furono fatti prigionieri e deportati in Germania, mentre i nazifa-scisti si abbandonarono a ruberie e saccheggi, devastando e dando alle fiamme numerose abitazioni. In questa operazione di particolare efferatezza fu quanto avvenne il 20 giugno del 1944. Quel giorno, in località Fondotoce, i nazifascisti fecero prigionieri quarantatré ribelli. Dopo che furono umiliati e derisi – il tenen-te Rizzato della formazione Valdossola, immortalato in una tristemente celebre fotografia, fu costretto a portare un cartello con su scritto «sono questi i libera-tori d’Italia o sono banditi?» – furono sommariamente giustiziati.

Fu in quegli stessi giorni che l’arrivo di Iso e del Fanfulla in Ossola sembrò potesse risollevare il morale e ridare vigore all’azione dei partigiani, attraverso la costituzione di una divisione garibaldina che avrebbe assorbito le formazioni autonome. Scriveva Iso in una relazione nel luglio 1944:

in seguito al nostro arrivo nell’Ossola, il gruppo di Di Dio, per spirito di emulazione, in-cominciò ad agire, svegliandosi dal torpore in cui aveva sempre vissuto. Grazie al tatto politico di Pippo, abbiamo raggiunto un accordo di completa collaborazione; i nostri rapporti sono cordiali e gli aiuti sono reciproci. […] data la enorme influenza politica esercitata dalla nostra Brigata sulle popolazioni e sulle altre formazioni partigiane, è probabile si possa addivenire alla costituzione di una 2a Divisione non essendo i vari Comandanti contrari a ciò11.

11 Rapporto di Iso al comando della I Divisione d’assalto Garibaldi, 16 luglio 1944, in Archivio Fon-dazione Aniasi (d’ora in poi AFA), Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 4.

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In realtà prevalsero le diffidenze reciproche e la nascita della II Divisione d’as-salto Garibaldi – la I Divisione era quella operativa in Valsesia agli ordini di Mo-scatelli – fu il risultato di una fusione interna allo schieramento garibaldino tra il Fanfulla e altri distaccamenti e successivamente alimentata da sbandati e re-nitenti alla leva intenzionati a prendere le armi a fianco dei partigiani. Dei circa 1.000 effettivi della II Divisione Garibaldi, il cui comando fu stabilito a Villadosso-la e la zona operativa nel Cusio-Verbano-Ossola, Iso divenne il vicecomandante e Pippo il commissario politico12. Non fu invece assegnato il ruolo di comandan-te: la volontà era ancora quella di assorbire le formazioni autonome, pertanto si pensava di offrirlo a chi, tra i comandanti delle varie formazioni autonome, avesse accettato di unirsi alla nuova formazione.

Ma la cosa si rivelò più difficile del previsto. Scriveva Iso il 12 agosto, neanche un mese dopo le sue prime impressioni, ottimistiche, sulla possibilità di giungere a una fusione delle forze attive in Ossola:

La situazione dell’Ossola è alquanto precaria. I vari gruppi di partigiani ci sono sola-mente quando non ci sono forze nemiche. Al primo sentore di esse scompaiono. Di Dio, col quale avevamo stretto un patto di collaborazione, col suo comportamento non collabora in nulla […]. Superti sembra lieto di poter aderire alla 2a Divisione, però insiste affinché vi entrino pure contemporaneamente Rutto e Di Dio [...]. Il lavoro in seno a questi gruppi è faticoso e mi pare sarà molto lungo. Siamo aiutati in questo dal Capitano Mario, l’aiutante di Superti, il quale vorrebbe che si venisse alla fusione immediatamente13.

L’aiutante di Superti, il sopracitato «capitano Mario», era Mario Muneghina14, un vecchio partigiano dell’Ossola – volontario durante la prima guerra mondiale, legionario fiumano, comunista della prima ora e volontario nelle Brigate inter-nazionali in Spagna – che a fine settembre 1944 accettò di diventare il coman-dante della II Divisione Garibaldi, lasciando la divisione Valdossola.

I rapporti fra le formazioni partigiane del Cusio-Verbano-Ossola si rivelarono per un lungo periodo dominati da sospetti reciproci e da divergenze. In particola-re, le formazioni autonome non provavano simpatia per le formazioni garibaldine per il loro radicalismo ideologico comunista e perché sospettate di volere egemo-

12 Rapporto del comando della II Divisione d’assalto Garibaldi al Comando generale dell’Italia oc-cupata, 18 agosto 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 9.13 Relazione di Iso, 12 agosto 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 9.14 ACS, Casellario Politico Centrale, b. 3457, Muneghina Mario Giovanni.

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nizzare il movimento; mentre, secondo i garibaldini, i militari che comandavano le formazioni autonome non erano interessati alla normale dialettica politica15.

Mentre le forze dell’Ossola cercavano di raggiungere una qualche forma di collaborazione, il 4 di agosto 1944, i nazifascisti attaccarono i partigiani di stanza sul monte Massone. Questi, nonostante le numerose perdite inflitte ai nazifascisti, furono costretti ad abbandonare le posizioni e riparare in Val Grande. Nella batta-glia si distinsero gli uomini della XV Brigata della II Divisione Garibaldi, alle dirette dipendenze di Iso, che con queste parole commentava i fatti di quel giorno:

Nel mattino del giorno 4 c.m., i nazi-fascisti tentarono di passare nel versante dell’Os-sola attraverso la Bocchetta del Monte Massone. […] La battaglia durò sino alle sei di sera, ora in cui io diedi ordine di ritirata. Ritirata che si svolse perfettamente come il previsto e che permise alle nostre formazioni di perdere il contatto con i nemici senza perdite di uomini e di armi. Avremmo potuto anche contrattaccare con successo, ma la nebbia persistente e fitta ce lo ha impedito16.

Per Iso erano diversi i motivi per il quale ritenersi soddisfatto:

È la prima volta che le formazioni della 15a Brigata si trovano ad affrontare un com-battimento di massa. I distaccamenti che vi hanno partecipato hanno dimostrato di essere dotati di spirito combattivo. Ci sono stati degli errori; verranno senz’altro eli-minati. Manca una certa preparazione militare specialmente nei giovani. Ho disposto affinché si proceda a ritmo accelerato nell’istruzione tattica e nella preparazione al combattimento; in questo insisterò. In ogni modo la Brigata sarà presto in grado di portare a termine i compiti che le verranno affidati; in complesso però sono contento del comportamento di tutti17.

1.2 La repubblica dell’Ossola

L’estate del 1944 viene ricordata come la “grande estate partigiana” perché le continue incursioni dei partigiani, in tutto il settentrione d’Italia, cominciarono a minare la sicurezza dei nazifascisti. Nel Cusio-Verbano-Ossola, in particolare, le

15 Aldo Aniasi, Dai contrasti delle bande all’unità nel CVL, in Id. (a cura di), Ne valeva la pena, cit., p. 194.16 Relazione di Iso, 12 agosto 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 9.17 Ibid.

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azioni dei ribelli tra agosto e settembre portarono alla liberazione temporanea di numerosi territori in un clima di esaltazione che trovava giustificazione nelle notizie che giungevano dall’estero: lo sbarco in Normandia, il 6 giugno 1944, l’a-vanzata degli alleati verso est e l’imminente offensiva dell’Armata rossa sull’Eu-ropa orientale. Si diffuse il dubbio sul fatto che Hitler avrebbe vinto la guerra e le truppe naziste cominciarono a negoziare la resa separata o disertarono pas-sando con i partigiani.

Questo momento di sbandamento favorì un’offensiva che culminò nella li-berazione integrale del territorio dell’Ossola, impresa risultato di una intensa operazione di guerriglia condotta dalle forze partigiane che erano entrate in possesso di un documento segreto del nemico «nel quale si rivelava la preca-ria situazione delle forze nazifasciste»18. L’informazione fu la spinta decisiva che convinse i diversi gruppi partigiani – la Brigata Piave, la Valtoce, la Valdossola e la II Divisione Garibaldi – a forzare la mano.

Nella notte tra l’8 e il 9 settembre i partigiani, dopo diversi giorni di assedio, conquistarono Domodossola. A fare il primo ingresso in città furono le divisio-ni Valdossola e Valtoce. I comandanti Dionigi Superti e Alfredo Di Dio, con la mediazione delle autorità ecclesiastiche, avviarono negoziati con i nazifascisti concedendo loro di lasciare la valle in armi. Tra i vertici garibaldini profondo fu il malcontento.

L’affare di Domodossola è semplicemente scandaloso [...]. Bisogna lottare contro tutte le manifestazioni di compromesso [...] i tedeschi che si trovano in difficoltà sempre maggiori hanno la tendenza a cercare questa strada per salvare delle forze e per ri-servarsi dei transiti liberi offrendo talvolta delle condizioni apparentemente vantag-giosissime, proprio per questo la nostra posizione deve essere più che mai questa: col nemico non si discute, si combatte19.

L’accordo inoltre – che nelle intenzioni dichiarate da Superti e Di Dio serviva a scongiurare uno scontro dagli esiti incerti con i nazifascisti – fu la causa del mancato successo della contemporanea offensiva garibaldina su Fondotoce e Gravellona. Gravellona in particolare era città nota ai partigiani, sono parole di Iso, per essere «una roccaforte inespugnabile […] covo di tutti i fascisti e di tutte le spie dell’Ossola». Lo stesso Iso ricordava come durante un attacco alla città, condotto dal suo battaglione, il Fanfulla, il 25 luglio del 1944, «rispondevano al fuoco pure i civili, donne comprese, barricatesi nelle case. La popolazione era

18 Relazione intitolata “L’esperienza dell’Ossola liberata”, ottobre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Ga-ribaldi Redi, b. 3.19 Lettera della delegazione lombarda del comando generale Brigate Garibaldi al comando della II Divisione d’assalto Garibaldi, 18 agosto 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 3.

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pure essa armata di armi automatiche». Ecco perché era di fondamentale impor-tanza espugnare quella roccaforte ma, dopo tre giorni di assedio alle due città, la II Divisone Garibaldi fu costretta a ritirarsi, sia per l’arrivo dei tedeschi in armi da Domodossola, che per la insufficiente collaborazione delle divisioni Valtoce e Valdossola.

L’attacco contro Domodossola, terminato con il deprecato accordo delle formazio-ni Valtoce e Valdossola col nemico, permise alla guarnigione assediata di evacuare indisturbata la città e di ritirarsi con l’onore delle armi (!!!) verso Fondotoce. Ciò ha indubbiamente compromesso l’azione della nostra Divisione, sia contro Gravellona che contro Fondotoce stessa in quanto, le forze ritirate da Domodossola, affluirono appunto nei due predetti caposaldi nemici rafforzandoli […] ciò provocò il fallimento della nostra azione sulla città stessa fallimento imputabile anche al mancato interven-to delle forze della formazione Valtoce e dal tardivo afflusso di forze dal Valdossola20.

Le conseguenze della mancata conquista di Gravellona furono evidenti appena un mese dopo, perché proprio da quella città ebbe inizio la controffensiva nazi-fascista sull’Ossola.

Le polemiche tra le formazioni partigiane si fecero ancora più aspre in segui-to alla nascita ufficiale della Repubblica dell’Ossola, proclamata il 10 settembre del 1944 con un manifesto, firmato da Superti, nel quale si annunciava la costitu-zione di una «giunta provvisoria di governo». Motivo del dissidio fu l’insediamen-to per iniziativa militare di un solo comandante, senza la mediazione del Cln21.

All’insediamento della giunta, secondo quanto riferisce Aniasi, i garibaldini erano contrari, principalmente perché lo ritenevano un errore tattico: per loro era meglio continuare la guerriglia dalle montagne, piuttosto che impegnarsi nell’occupazione stabile del territorio e difendere la repubblica in condizioni di oggettiva debolezza rispetto al nemico22. La difesa di un territorio comunque esteso come quello dell’Ossola infatti avrebbe comportato per le bande parti-giane il passaggio dalla guerra di guerriglia – fatta di sabotaggi, agguati, attacchi di tipo “mordi e fuggi” – a un assetto difensivo statico, così come lo avrebbe mes-so in atto un vero esercito, cui i partigiani non erano pronti, perché impreparati militarmente e insufficientemente equipaggiati. Mancava infatti il materiale per realizzare una linea difensiva. Era facilmente immaginabile che i nazifascisti sa-rebbero presto tornati all’attacco per riprendere il controllo di un territorio nel

20 Relazione di Mario e Pippo sull’occupazione dell’Ossola, 1 gennaio 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 5.21 Relazione intitolata “L’esperienza dell’Ossola liberata”, ottobre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Ga-ribaldi Redi, b. 3.22 Aniasi, Dai contrasti delle bande all’unità nel CVL, in Aniasi (a cura di), Ne valeva la pena, cit., pp. 197 e sgg.

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quale transitavano le merci che dalla Germania giungevano in Italia attraverso la Svizzera. L’Ossola infatti confinava con la Confederazione elvetica alla quale era collegata da un’articolata rete stradale e da quell’importante nodo infra-strutturale rappresentato dalla ferrovia del Sempione e dalla sua galleria. Inol-tre era facile prevedere che per l’imminenza dell’inverno gli alleati non avrebbe-ro inviato gli aiuti promessi. Era evidente infine che esistevano grosse divergenze fra i partigiani e non sarebbe stato facile coordinare la difesa della repubblica.

Tuttavia, la Repubblica dell’Ossola mosse rapidamente i suoi primi passi. A formare la giunta, presieduta dal socialista Ettore Tibaldi, primario dell’ospe-dale di Domodossola, furono richiamate prestigiose personalità politiche e in-tellettuali che si trovavano internate o rifugiate in Svizzera. A caldo, da parte garibaldina, furono numerosi i dubbi sui nomi chiamati per i compiti di gover-no, perché scelti senza interpretare la volontà popolare, senza «prendere dei contatti in merito con i responsabili del Comando della II Divisione», e perché uomini che non avevano preso «nessuna parte alla lotta in atto per la liberazio-ne della Patria»23. Solo successivamente anche i garibaldini indicarono dei nomi per la giunta e fu grazie a questo che per la prima volta nella storia d’Italia una donna, “Amelia Valli”, pseudonimo di Gisella Floreanini, fu chiamata ad un posto di responsabilità governativa.

I garibaldini inoltre, non solo denunciavano il tentativo dei comandanti le formazioni autonome di escluderli dalle questioni relative al governo politico dell’Ossola, ma anche quello di tenerli fuori dalle decisioni militari, di impedire la partecipazione nei consigli di guerra a determinati comandanti e di essere esclusi dalla distribuzione degli scarsissimi approvvigionamenti di armi e generi di prima necessità recuperati attraverso i prelievi negli ex presidi nazifascisti. Secondo le impressioni di Mario e Pippo, scritte qualche tempo dopo la conclu-sione dell’esperienza ossolana, «sembrava quasi che la maggiore, se non unica, preoccupazione delle formazioni Valtoce e Valdossola, fosse quella di evitare ogni ingerenza Garibaldina nell’occupazione dell’Ossola»24.

Nel clima di diffidenza tra le formazioni partigiane, la giunta s’impegnò sin da subito in una intensa attività amministrativa e di governo volta all’organizzazio-ne dei rifornimenti essenziali per la popolazione, dell’assistenza, della polizia, della difesa militare, dell’impiego, delle finanze, della giustizia, della scuola e della vita culturale.

23 Lettera del comando unificato Divisioni d’assalto Garibaldi della Valsesia e del Cusio-Verbano-Ossola alla delegazione lombarda del comando generale delle Brigate e distaccamenti d’assalto Garibaldi, 21 settembre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 3.24 Relazione di Mario e Pippo sull’occupazione dell’Ossola, 1 gennaio 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 5.

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Furono avviati negoziati con la Svizzera, dalla quale si sperava di ricevere aiuti alimentari, essendo l’Ossola un territorio prevalentemente montano dalle scarse risorse agricole. Giunsero più che altro manifestazioni spontanee di soli-darietà, nelle quali si distinsero le popolazioni del Canton Ticino. Fu istituita una Guardia nazionale mentre alle brigate partigiane fu dato il compito di difendere i confini del territorio liberato: 1.600 chilometri quadrati che includevano sei val-late, 32 comuni (tra i quali due importanti centri come Domodossola e Villados-sola, abitati da circa 10.000 abitanti ciascuno) e un insieme totale di circa 85.000 abitanti. La II Divisione Garibaldi di Iso presidiava le valli Anzasca, Divedro, An-trona e Formazza, la zona di Miazzina, alcune infrastrutture nel Cusio e parte del lago d’Orta. Si cercò di rilanciare l’economia e l’occupazione a partire dalle industrie chimiche e meccaniche presenti a Domodossola e Villadossola. Allo stesso tempo la giunta favorì la ricostituzione dei sindacati, delle commissioni interne e delle Camere del lavoro. Nel campo della giustizia, processi e sanzioni furono rimandati alle determinazioni che sarebbero finalmente state prese dal futuro governo dell’Italia libera, riunificata e democratica. In territorio svizze-ro fu insediato il campo di concentramento di Druogno dove furono internati e vigilati i prigionieri nazifascisti per sottrarli all’arbitrio dei capi delle formazio-ni partigiane e alle ritorsioni della popolazione. Un giudice straordinario e una commissione si occuparono dello scottante tema delle epurazioni dai posti di lavoro di fascisti, collaborazionisti e simpatizzanti del vecchio governo.

Certo quelle riguardanti la giustizia e le epurazioni erano decisioni che – nel contesto di una guerra ancora in atto, in un paese appena uscito da vent’anni di dittatura – non potevano non lasciare strascichi polemici, basti leggere quanto scrivevano i garibaldini poco dopo la fine dell’esperienza ossolana:

Epurazione e giustizia furono preoccupazioni essenziali, ma mancò una realizzazione sufficiente. Furono arrestate centinaia di persone […]. Ma furono prima lasciati andare molti dei principali responsabili […]. Si istituì un pletorico campo di concentramento. Appare chiaro che la giustizia non funzionò, non si costituì né tribunale popolare, né corte marziale. Non si fucilò in un mese un solo traditore dei numerosi arrestati25.

Ma in realtà la prima preoccupazione della giunta fu quella di ripristinare la le-galità democratica: per questo ai detenuti fu assicurato il massimo rispetto della dignità personale.

Altri provvedimenti importanti furono la riapertura delle scuole e l’abolizione dei libri di testo incompatibili con la libertà e la democrazia. Per quanto riguarda

25 Relazione intitolata “L’esperienza dell’Ossola liberata”, ottobre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Ga-ribaldi Redi, b. 3.

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la vita culturale, fu abolita la censura, furono promosse conferenze e incontri a tema storico e politico, e fu incoraggiata la diffusione della stampa libera26.

Nei suoi circa quaranta giorni di vita insomma (dal 9 settembre al 23 ottobre 1944), il governo dell’Ossola cercò di restaurare, per quanto possibile, i principi dello stato di diritto, della civiltà giuridica e della partecipazione democratica. Pertanto la sua stessa esistenza rimetteva in discussione l’ordine nazifascista e non poteva essere tollerata, a maggior ragione, in seguito all’ordine emanato l’1 ottobre 1944 direttamente dal generale Albert Kesselring a tutte le forze della Wermacht e delle SS di condurre una lotta spietata contro le bande partigiane.

Di lì a poco, il 10 ottobre, ebbe inizio la controffensiva dei nazifascisti che concentrarono sull’Ossola circa 12.000 uomini. Le formazioni partigiane, che non riuscirono ad elaborare un piano di difesa comune, furono travolte.

Solo pochi giorni prima la caduta della repubblica, a fine settembre 1944, si era giunti alla formazione di un Comando unico militare della zona Ossola (Cmzo), presieduto dal comandante Giovanni Battista Stucchi detto “Marco Fe-derici”. L’accordo fu raggiunto grazie al patrocinio del Comando generale per l’Italia occupata del Corpo volontari della libertà (Cvl) che aveva inviato in Os-sola una commissione incaricata di «dirimere le controversie» tra le formazioni27. Ma in realtà non si addivenne a una piena collaborazione, notavano ancora una volta i garibaldini, a causa delle solite diffidenze:

Il piano di difesa non fu elaborato dal Comando Unico, ma presentato da Federici ad una riunione dei Comandanti. In generale prevalse la pratica del consiglio di guerra, e i consigli se si escludono le questioni operative per la difesa furono tenuti in un’atmo-sfera di poco benevola collaborazione28.

L’ultimo consiglio di guerra, nelle stesse ore in cui i tedeschi riconquistavano Do-modossola, si rivelò drammatico, con i comandanti le formazioni partigiane che svincolarono da qualunque decisione del Cmzo, rivendicando la piena libertà d’azione. Questo il ricordo di quella riunione in una relazione scritta a quattro mani da Mario e Pippo:

Il giorno successivo all’evacuazione di Domodossola vi fu l’ultimo Consiglio di Guerra del Comando Unico a Preglia. Superti dichiarò subito che non intendeva difendere al-

26 La collezione integrale dei giornali che circolarono nel territorio liberato dell’Ossola, tra i quali “Unità e Libertà” organo delle Divisioni d’assalto Garibaldi, è presente nel Fondo Ossola-Garibaldi-Redi conservato presso l’AFA.27 Comunicazione inviata dal Comando generale per l’Italia occupata al Comando unico militare della zona Ossola, 4 ottobre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 3.28 Relazione intitolata “L’esperienza dell’Ossola liberata”, ottobre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Ga-ribaldi Redi, b. 3.

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cuna valle e che ritornava in montagna. Alberto che in assenza di Marco Di Dio aveva assunto il Comando della Valtoce, si associò a Superti dichiarando che, tutto al più, avrebbe difeso l’alta Val Formazza all’altezza dei “tourniquet”, mentre il grosso del-le sue forze avrebbero ripreso la montagna. La Piave, rappresentata dal Cap. Nemo, dichiarava per bocca dello stesso, che non essendo più in condizioni di combattere si associava alla decisione (notasi: Decisione e non proposta di Superti)29.

Il 12 ottobre, i nazifascisti, che circondavano quasi per intero il territorio ossola-no, grazie ad una manovra a tenaglia sfondarono in Val Cannobina. Due giorni dopo cadde Domodossola, e l’intera valle fu attraversata dai rastrellamenti delle truppe nazifasciste. Molti partigiani, civili e feriti ripiegarono in Svizzera. Altri ripresero la via delle montagne per organizzare la resistenza. La gran parte della II Divisione Garibaldi rifiutò di sconfinare e riparò nella zona del lago d’Orta.

Di lì a qualche giorno sarebbe giunto il celebre proclama del plenipoten-ziario degli Alleati, il generale Harold Alexander, che annunciava, con l’arrivo dell’inverno, la diminuzione degli aiuti alleati alle forze partigiane e invitava i «patrioti» a deporre momentaneamente le armi, a «cessare le operazioni su larga scala», a «stare in difesa» e ad attendere la primavera per riprendere le iniziative armate. Si chiedeva sostanzialmente la smobilitazione delle forze par-tigiane. Ha scritto Iso, ricordando quei giorni:

Ci ritrovammo da soli, a millecinquecento metri d’altezza. Molti erano saliti in monta-gna con i calzoni corti, con scarpe scalcagnate. Non pensavo che ce l’avremmo fatta. Leggevamo “la Stampa” che ci mandava messaggi tremendi, «finirete braccati di balza in balza con le barbe bianche». Ma ero il comandante, e ai miei uomini dovevo dire l’esatto contrario. Che avremmo vinto, e vinto in fretta30.

1.3 Dalla caduta dell’Ossola alla Liberazione

Nonostante il triste epilogo, l’avventura ossolana non fu vana. Certo fu una breve esperienza e, dal punto di vista militare, controproducente perché ebbe l’effet-to di scatenare una controffensiva nazifascista che ridusse ai minimi termini la capacità di azione delle bande partigiane, fino all’alba della primavera del 1945

29 Relazione di Mario e Pippo sull’occupazione dell’Ossola, 1 gennaio 1944 , in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 5.30 Fazzo, Aniasi: il mio no alla pacificazione si chiama capitano Finestra, cit.

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almeno. Ma si trattò anche di un innegabile successo politico che ebbe risonanza in tutto il mondo libero. Ha scritto lo storico Santo Peli:

Aldo Aniasi, che direttamente partecipò alla breve quanto intensa vicenda della repub-blica dell’Ossola, condivise con buona parte dei partigiani garibaldini forti perplessità sull’opportunità di occupare militarmente l’Ossola; solamente spostando il giudizio dalle dinamiche e dagli effetti immediati e concreti della vicenda della repubblica al suo valore di esperienza intensamente formativa e dal grande significato simbolico il suo giudizio, inizialmente molto critico, sarebbe giunto alla convinta asserzione, ap-punto che «ne valeva la pena»31.

Aldo Aniasi, che da garibaldino fu contrario all’occupazione dell’Ossola, riconob-be presto il valore di quella esperienza. Più avanti vedremo che, nel dopoguerra, fu tra i principali sostenitori dell’idea della Repubblica dell’Ossola come prefigu-razione dello stato democratico italiano. Nell’immediato rilevò che tra i risultati maggiori ottenuti vi furono quello di entusiasmare la popolazione e demoraliz-zare i fascisti. La stessa esistenza della repubblica infatti, in una Europa ancora sotto il giogo dell’oppressione nazifascista, aveva rappresentato un’alternativa concreta e ispirata da principi saldamente democratici che spinse numerose per-sone a unirsi alla Resistenza per dare il proprio contributo alla liberazione del paese. L’Ossola aveva poi dimostrato che il nazifascismo non era invincibile e che si poteva insorgere e liberare intere zone, come di fatto avvenne varie volte in diverse parti d’Italia durante i 20 mesi della Resistenza antifascista.

Dopo la caduta dell’Ossola, il comandante della II Divisione Garibaldi, Ma-rio Muneghina, si trasferì nel Verbano per gestire la difficile situazione dell’85a Brigata, la Valgrande martire, decimata e rimasta senza comandante. Fu allora che le redini della II Divisione furono nuovamente affidate al vicecomandante Iso, che si impegnò subito nella riorganizzazione delle formazioni garibaldine, tenendo contatti frequentissimi con i comandanti dei reparti sopravvissuti.

Abbiamo visto come la caduta dell’Ossola avesse provocato lo sbandamen-to delle forze partigiane della zona. Furono in molti tra i ribelli a riparare in Svizzera, quasi tutti gli elementi delle formazioni Valdossola, Valtoce e Piave. Lo sconfinamento in Svizzera fu motivo di ulteriori polemiche tra le formazioni partigiane. Ecco cosa scriveva Mario a proposito delle formazioni autonome pas-sate in terra elvetica:

Prova indiscussa della nostra vitalità, fede, volontà e fermezza è data dal fatto che, mentre altre Formazioni sono “sfumate” davanti all’attacco nemico e alla prospettiva di trascorrere un secondo inverno in montagna (che per molti sarebbe stato il primo),

31 Santo Peli, La repubblica dell’Ossola, in Morrone, Scirocco e Carenzi (a cura di), Grazie, Iso, cit., p. 19.

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le Brigate Garibaldine, anche se decimate, rimangono tutt’ora una forza non trascura-bile nei loro monti bianchi di neve chiazzata qua e là dal sangue rosso, come il loro fazzoletto, dei commilitoni caduti32.

Certo – lo riporta Iso in una sua relazione – anche diversi garibaldini apparte-nenti a brigate completamente sfaldate, in questo caso il Battaglione Torino, passarono il confine, dopo giorni di tragico sbandamento:

I superstiti vagarono sulla montagna per alcuni giorni braccati come lupi affamati e fra la tormenta. Le condizioni di salute di alcuni la cui resistenza fisica non aveva potuto sopportare tali sforzi li costrinsero a sconfinare. I resti di questo Btg. successivamente attaccati sopra Pestarena dopo un’ora di fuoco furono costretti a ritirarsi e nuovamen-te furono spinti alla vita randagia fra la fame ed il freddo, in condizioni di equipaggia-mento veramente pietose33.

Nella neutrale Svizzera il trattamento riservato ai partigiani non fu impeccabile, come si evince dalle parole del partigiano Elso, tra coloro che furono lì internati:

Il vitto era appena bastante per stare in piedi sempre patate e carote essendo i pasti, quasi tutti erano decisi di far domanda di tornare in Italia alla prima occasione, questi buoni propositi si affievolirono man mano che la propaganda Svizzera ci diceva che le nostre gloriose formazioni erano state distrutte in seguito alla ritirata avvenuta, che era futile tornare in Italia34.

Ma tutto sommato constatava, con soddisfazione, ancora Iso:

appare chiaro come tutte le Brigate abbiano continuato a lottare anche dopo l’occupa-zione dell’Ossola e di tutte le valli laterali. Gli sconfinamenti che si sono avuti durante le operazioni di occupazione sono minimi ed in gran parte sono di disarmati. Infatti i 400 disarmati di questa Divisione era impossibile pretendere che non espatriassero, trovandosi indifesi di fronte ai continui rastrellamenti e puntate nemiche35.

Secondo Iso non c’era da essere ottimisti solamente per le capacità di resistenza dimostrate dai garibaldini, ma anche perché il nemico, i fascisti in particolare, nonostante fosse riuscito a porre fine all’esperienza dell’Ossola, appariva stanco e demotivato:

32 Comunicazione segreta di Mario al Cln di Verbania, 23 novembre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 5.33 Rapporto di Iso al Cmzo, 17 dicembre 1944 , in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 5.34 Impressioni del partigiano Elso sul trattamento dei garibaldini passati in suolo elvetico dopo la ritirata della Valdossola, 28 gennaio 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 2.35 Rapporto di Iso al Cmzo, 17 dicembre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 5.

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Governare insieme: autonomie e partecipazione36

A Novara, nei circoli fascisti, si è soddisfatti delle operazioni nell’Ossola avendo co-stretto (così si dice colà) la maggior parte delle forze partigiane a rifugiarsi in Svizzera. Ora sono decisi di finirla (dicono loro), con i partigiani del Mottarone, del Cusio e della pianura novarese, che ormai sono diventati insopportabili e sono sempre numerosissi-mi. La maggiore preoccupazione loro è che si tratta di Garibaldini. La brigata nera che si trova a Omegna è composta nella maggior parte da ex funzionari pubblici anche di alto rango […] rimasti a spasso dopo l’occupazione dell’Italia meridionale. In genere perciò tutti vecchioni, praticamente incapaci di combattere, demoralizzatissimi. Tutti sono stanchi e non aspettano altro che di finirla. Esempio: la maggior parte è da oltre un mese che non si cambia biancheria, tutti vestiti di divise usate e sgualcite, mangiano male, sottoposti a fatiche che non possono sopportare, quali quelle di salire ai 2.000 per non trovare partigiani. Se tali truppe ricevessero un paio di scoppole come si deve, incomincerebbero a disertare, disgregarsi36.

Un’altra ragione per guardare con fiducia al futuro era la consapevolezza che il lavoro svolto fino a quel momento non aveva mancato di dare frutti, in termini di sostegno della popolazione. «I partigiani garibaldini godono generalmente le simpatie della popolazione e sono da esse aiutati in tutti i modi. In queste valli in cui il lavoro politico precedentemente e durante l’occupazione nostra fu buona, da ora i suoi frutti»37, scriveva Iso dopo una ispezione alla X Brigata, stanziata a ridosso delle valli Formazza e Divedro, zone che durante la Repubblica dell’Os-sola, abbiamo visto, erano presidiate dalla II Garibaldi.

Tra novembre e dicembre 1944 – il periodo «più critico nella vita della 2a

Divisione»38 – numerose furono le ispezioni effettuate da Iso presso i reparti di-pendenti, sui quali stendeva precise relazioni tecniche che avevano lo scopo di individuarne, scrive lui stesso, «pregi e difetti e le soluzioni consigliabili per un migliore funzionamento»39. Il suo lavoro era incessante e animato dalla consa-pevolezza di trovarsi di fronte al compito di «dover prendere delle decisioni di capitale importanza» e di doverlo fare «con la massima sollecitudine», perché la «crisi di sfaldamento» subita dopo la caduta dell’Ossola non doveva ripetersi, altrimenti l’esito sarebbe stato «fatale»40.

Durante le ispezioni Iso si rese conto che il morale delle formazioni era basso e per questo riteneva necessario doverle dotare dei migliori commissari politici

36 Lettera di Iso a Pippo e Mario, 1 novembre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 7.37 Relazione di Iso sulla X Brigata Gastaldi, 27 novembre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 4.38 Relazione di Iso e Pippo sull’efficienza organizzativa della II Divisione Garibaldi, 10 marzo 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 8.39 Lettera di Iso a Pippo e Mario, 27 novembre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 4.40 Ibid.

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a disposizione. Così, per esempio, scriveva dopo una ispezione effettuata presso i reparti della XV Brigata:

Il lavoro politico e di educazione morale è alquanto difficile e scabroso, data la totale mancanza di Comm. di Btg. e di Plot. [...]. In un periodo come l’attuale, in cui il morale degli uomini ha un’influenza importantissima nella compattezza e nel funzionamento della formazione, rende quindi necessario di uomini politicamente maturi e scevri di settarismo di sorta41.

Tra le esigenze raccolte da Iso presso i comandanti di Brigata c’era quella di un comando di divisione più presente «che dia loro precise direttive, disposizioni ed ordini»42, e l’istituzione di «servizi di collegamento, intendenza, informazioni e polizia» da affidare ad «elementi capaci, seri ed intelligenti»43.

Per far sentire alla brigate dipendenti la presenza del comando di divisione, Iso propose di istituire una sede «in una zona nota a sole poche staffette fidatis-sime» dal quale potere «curare l’efficienza e la riorganizzazione» delle brigate dipendenti e garantire loro tutti gli aiuti «materiali ma anche morali» necessari44. Ristabiliti contatti continui con le brigate dipendenti, Iso, che tornò ad essere affiancato da Pippo, pretendeva di ricevere dai comandi carte periodiche: men-silmente relazioni dettagliate sull’efficienza delle brigate, in particolare infor-mazioni sugli inquadrati, sul loro armamento, vestiario ed equipaggiamento, sul morale e la disciplina dei reparti, sui loro rapporti con la popolazione locale, sul-le requisizioni effettuate e sulla cassa di cui disponevano; giornalmente rappor-tini sulle operazioni militari condotte. Significativo in merito, quanto scrivevano Iso e Pippo, nel marzo del 1945, a Edoardo, commissario della 83a Brigata Como-li, relativamente alle informazioni che volevano ricevere su quella formazione:

Tienici aggiornato circa gli effetti che ordini ed istruzioni nostre creano nella forma-zione. Attiva tutti quei servizi che non funzionano; riscontra tutte le mancanze, segnala tutto ciò che non va, fa proposte ed obiezioni. Riferisci sull’armamento, sui deposi-ti eventuali, sull’equipaggiamento degli uomini, sul rifornimento viveri e circa tutto quanto tu sai ci possa interessare45.

41 Relazione di Iso sulla XV Brigata, 27 novembre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 4.42 Lettera di Iso a Pippo e Mario, 27 novembre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 4.43 Ibid.44 Ibid.45 Comunicazione di Iso e Pippo a Edoardo, 12 marzo 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 8.

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Governare insieme: autonomie e partecipazione38

Iso e Pippo cercavano di non farsi sfuggire nulla. Rintuzzavano i comandanti del-le brigate circa i frequenti casi di abbandono delle armi «che costino tanti sacri-fici di sangue e di cui ne abbiamo tanto bisogno»46, ricordando loro come ogni inadempienza era duramente giudicata dal tribunale partigiano di brigata. Si premuravano affinché ogni comando di brigata fosse perfettamente a conoscen-za delle forze che gestiva: «le ispezioni frequenti, il pretendere rapportini gior-nalieri e le relazioni settimanali» scrivevano al comando della XV Brigata nel di-cembre 1944, «vi permetteranno di essere a conoscenza delle loro attività, della loro efficienza, dei loro bisogni, delle difficoltà che incontrano e del morale degli uomini e vi permetteranno quindi di poter impartire loro disposizioni, consigli e direttive»47. E ancora, non mancavano di inorgoglire i comandanti delle brigate in seguito ad azioni vincenti («Caro Redi, mi vorrai scusare se non mi sono subito congratulato con te per la riuscita scoppola data ai nazi e soci»48); scrivevano ai feriti e ai prigionieri, inviando contributi in denaro («Caro Emilio, abbiamo appre-so con profondo dolore del tuo ferimento e della tua cattura […]. Alleghiamo solo L. 1.000 nel timore che non ti lascino tenere molto denaro»49); si occupavano di recuperare equipaggiamento, vestiario e rifornimenti; realizzavano un servizio sanitario di Divisione e lo affidavano senza esitazioni ai Gruppi di difesa delle Donne; impartivano istruzioni sulle modalità di scambio di prigionieri («Respin-gere senz’altro proposte di accordi, tregue, zone neutre, ecc., e ricordarsi del Motto: Col nemico non si discute, si Combatte»50); allo stesso tempo ordinavano di fucilare i prigionieri in ogni momento si rendesse necessario («Qualora il ne-mico usasse misure di rappresaglia, voi adotterete la controrappresaglia»51).

Particolare valore Iso attribuiva poi alla creazione di un servizio di informazio-ne e controspionaggio che operasse nelle zone controllate dalla Garibaldi-Redi:

La ns. Divisione non ha mai avuto un servizio di spionaggio e di contro spionaggio indi-spensabile in tutti gli eserciti ma di vitale importanza nelle ns. formazioni nelle quali

46 Minuta di Iso e Pippo al comando della X Brigata Rocco, 10 febbraio 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 2.47 Comunicazione di Iso al comando della XV Brigata, 14 dicembre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 5.48 Minuta urgente di Pippo a Redi, 10 febbraio 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 2.49 Minuta di Pippo e Iso a Emilio, 10 febbraio 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 2.50 Informativa del comando della II Divisione Garibaldi al comando dell’85a Brigata d’assalto Gari-baldi-Valgrande martire, 4 gennaio 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 2.51 Minuta di Iso al comando della 85a Brigata Valgrande martire, 27 gennaio 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 2.

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l’informazione tempestiva, lo smascheramento dell’agente nemico che si infiltra tra noi, l’eliminazione delle spie fasciste, possono essere la salvezza di interi ns. reparti52.

Iso aveva anche idee precise su come questo servizio doveva essere organizzato: «Tale servizio deve essere posto su basi scientifiche servendoci di una folta rete di informatori sicuri e fidati e deve perciò poter contare su un vero e proprio corpo di polizia che abbia le ramificazioni in tutte le zone da noi controllate»53. E, proprio perché lo riteneva di fondamentale importanza, Iso non mancava di strigliare gli incaricati di tale servizio esortandoli ad essere più solerti, pignoli, puntuali nello svolgimento del proprio compito:

Caro Gino, mando mille ringraziamenti per il tabacco che gentilmente mia hai inviato […]. Per quanto riguarda il servizio di informazioni devo constatare che esso non fun-ziona come eravamo d’accordo [...]. Tu avresti dovuto creare un servizio informazioni di settore scegliendoti i tuoi informatori ed inviando giornalmente […] un rapportino giornaliero informativo [...]. Ora se non sai come organizzare questo servizio nel set-tore Verbano ti converrà venire presso il nostro Comando, fermarti qui una decina di giorni […] e vedrai così come deve funzionare e come si deve organizzare il servizio informazioni54.

Fu merito del servizio informazioni la scoperta del tradimento di “Taras”, gari-baldino della prima ora. Nel dicembre del 1944 Iso scriveva a “Vespa”, atten-dente della Brigata Volante azzurra formazione dipendente dalla II Divisione Garibaldi: «A mezzo dei nostri informatori della nostra polizia siamo venuti a conoscenza di cose che voi non ci avete comunicato. Cos’è questo parlamentare con il nemico?»55. I risvolti di questa vicenda sono sorpendenti. Taras Liebknecht – nome di battaglia di Nello Sartoris, comandante della Volante azzurra – aveva stipulato un compromesso con i fascisti della X Flottiglia Mas nel quale impe-gnava la sua formazione a prendere parte ad operazioni di sabotaggio a fianco dei fascisti nei territori controllati dagli anglo-americani56. Ma la scoperta del tradimento gli fu fatale: Taras fu giustiziato dal tribunale divisionale della II Di-visione Garibaldi mediante fucilazione alla schiena, la Volante azzurra epurata. Le motivazioni che spinsero Taras a concludere questo accordo, come accertato in sede di ricostruzione storica, sono da ricercare nel carattere di un uomo en-

52 Lettera di Iso a Pippo e Mario, 27 novembre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 4.53 Ibid.54 Minuta di Iso a Gino, 27 gennaio 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 2.55 Lettera di Iso a Vespa, 19 dicembre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 5.56 Relazione di Vespa sull’incontro tra Taras e Spadoni della X MAS, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 4.

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Governare insieme: autonomie e partecipazione40

trato nella Resistenza per spirito di avventura e per la volontà di vivere da pro-tagonista gli eventi nel loro svolgimento, mettendosi a capo di una formazione composta, per lo più, da opportunisti, spesso delinquenti che si macchiarono di soprusi e rapine57. Fatto di cui Iso non aveva mancato di fare rapporto già nelle settimane precedenti la scoperta del tradimento, quando nel novembre del 1944 scriveva: «La Volante Azzurra continua a combinare guai di ogni genere in tutti i luoghi dove opera suscitando lo sdegno della popolazione. Parecchi suoi uomini sono veri banditi; è quindi necessaria una epurazione»58.

La condanna di Taras, e più in generale la giustizia partigiana che prevedeva la pena di morte, va compresa alla luce del contesto storico, sociale e territoriale nel quale si trovavano ad operare le forze partigiane. Il nemico non si poteva affrontare solo militarmente. Era fondamentale il coinvolgimento totale della popolazione la cui fiducia andava conquistata mantenendo un comportamen-to disciplinato e coerente, soprattutto nell’applicazione rigorosa della giustizia contro traditori, collaborazionisti e autori di soprusi. Anche in altre occasioni preoccupazione di Iso e Pippo fu che la giustizia partigiana operasse per il bene comune e che questo fosse compreso dalla popolazione. Inviando a Mirco, co-mandante della 83a Brigata Comoli, l’ordine di eseguire la sentenza di morte comminata al bandito Maruzzi, Pippo e Iso scrivevano infatti che «nelle zone controllate dai Garibaldini non debbono tollerarsi gruppi di sbandati o autono-misti, i quali il più delle volte si riducono a fare i banditi»59. La gente era infatti disposta a supportare i partigiani solo se essi fossero stati capaci di garantire loro protezione. Né i partigiani potevano permettersi di lasciare in vita traditori e spie, come Taras, in particolare per la conoscenza che questi avevano dei luoghi e delle persone attive nella guerriglia60.

Frattanto, nel gennaio del 1945, con il ritorno delle altre formazioni riparate in Svizzera, rinasceva il Cmzo sotto il comando di Giuseppe Curreno di Santa Maddalena, noto nelle file della Resistenza con lo pseudonimo di “Colonnello Delle Torri”. Dopo la disfatta, era ormai evidente a tutti che per un’azione mili-tare efficace era necessario superare ogni riserva reciproca e collaborare. Certo non cessarono del tutto le polemiche tra le formazioni partigiane. Uno dei motivi di discordia era il reclutamento coatto, e non coordinato con le altre formazioni,

57 La vicenda di Taras è stata oggetto dell’interessante volume di Cesare Bermani, Il tradimento di Taras Liebknecht. Comandante della Volante Azzurra, Roma, Sapere 2000, 2007.58 Relazione di Iso a Pippo e Mario, 17 novembre 1944, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 5.59 Minuta di Pippo e Iso a Mirco, 15 febbraio 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 2.60 Per approfondire il tema della giustizia partigiana e la questione della disciplina della violenza per il rapporto con le popolazioni dei territori dove operavano i partigiani cfr. il già citato Pavone, Una guerra civile, cit.; ma anche i saggi di Santo Peli, Rendere il colpo e Violenza e comunità locali, in Santo Peli, La Resistenza difficile, Milano, Franco Angeli, 1999.

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messo in atto dalla Divisione Beltrami che, scriveva Iso, era un metodo «con-trario ad ogni spirito democratico non permettendo ai chiamati la scelta della formazione nella quale essi desiderano militare» e che avrebbe messo i partigia-ni nella scomoda posizione di non potere «dichiarare di combatter il nazifasci-smo sin quando useremo metodi coercitivi fascisti che limitano l’autodecisione popolare»61. Ma nonostante tutto, in questa seconda incarnazione il comando unificato si dimostrò in grado di gestire la dialettica tra le formazioni.

Le forze partigiane aspettarono pazientemente l’inizio della primavera per sferrare l’offensiva finale sui nazifascisti, che in zona Ossola cominciavano a mostrare il fianco e impiegavano nelle operazioni militari reparti composti da anziani e giovanissimi, male armati e peggio equipaggiati, con il morale sotto i tacchi. Scrivevano Iso e Pippo in merito ad un rastrellamento effettuato dai nazi-fascisti in febbraio nella zona del Cusio:

È certo che il nemico opera con una lentezza estrema. Le truppe nemiche sono for-mate da reparti della S.S. italiana e della Brigata Resega, quest’ultima giunta in zona all’inizio del rastrellamento proveniente da Milano. In prevalenza sono formati da gio-vanissimi e da vecchi. Il loro morale è basso. Il nutrimento è scarso. L’equipaggiamento deficiente. Concludendo il risultato finora ottenuto dal nemico è nullo62.

E ancora, il comando della 85a Garibaldi, riguardo a un rastrellamento in gennaio:

Tedeschi, ottimi soldati, ma stanchi, quindi deficienti nel mordente d’attacco. Brigata Nera, di formazione, tutti richiamati da due mesi, nella maggior parte cinquantenni, in-tercalati da qualche giovane di diciotto anni. Morale bassissimo, pervasi dalla preoccu-pazione di perdere la vita; non atti alla montagna e pieni di paura (non equipaggiati)63.

Infine l’83a Brigata Comoli:

Da informazioni raccolte sul posto risulta che il morale del nemico è piuttosto basso: dei tedeschi più volte hanno chiesto indicazioni sull’ubicazione del confine con la Sviz-zera; inoltre a più riprese si sono dichiarati stanchi della guerra e desiderosi solo di ritornare in patria il più presto possibile64.

61 Minuta di Iso al Cmzo, 27 gennaio 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 2.62 Minuta di Iso e Pippo al Cmzo e altri, 10 febbraio 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 2.63 Rapporto del comando dell’85a Brigata Garibaldi al comando della II Divisione Garibaldi, 17 gen-naio 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 2.64 Rapporto del comando della 83a Brigata Comoli al comando della II Divisione Garibaldi, 6 feb-braio 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 2.

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Governare insieme: autonomie e partecipazione42

Tra il marzo e l’aprile del 1945, terminati i rigori invernali, di giorno in giorno si intensificarono gli attacchi partigiani alle colonne nemiche, i sabotaggi, gli assalti alle caserme e agli arsenali. Iso e il comando della II Divisione Garibaldi mutarono tattica e decisero di passare «dall’azione di guerriglia alla guerra aperta»65.

La popolazione era più che mai dalla parte dei partigiani e si accavallavano le manifestazioni di sostegno, le collette e le iniziative di solidarietà. In partico-lare si distinsero i Gruppi di difesa delle donne i cui aiuti i partigiani mostravano di apprezzare molto perché, scriveva Pippo:

le lirette da voi raccolte per soddisfare le nostre necessità sono molto più gradite che non le grandi somme che ci pervengono alle volte forzatamente. Sono molto più ben accette, perché le sappiamo tolte da uno stipendio o salario che non vi può permettere di soddisfare le necessità vostre e delle vostre famiglie66.

Tra i nemici, alcuni cercavano di salvare la pelle come potevano, disertando, con-segnandosi e chiedendo di passare con i partigiani. Nel merito, le disposizioni di Pippo e Iso, mostrano, allo stesso tempo, la severità, la giustezza e la prudenza, nel trattamento che il comando della II Divisione Garibaldi riservava ai nemici:

Taluni reparti hanno chiesto chiarimenti in merito al trattamento da usarsi ai nazi fa-scisti che si presentassero volontariamente ai reparti stessi. In proposito questo C.do non ha che a ribadire quanto già in precedenza comunicato e precisamente che: a) essi devono essere concentrati in appositi campi e sottoposti immediatamente agli accertamenti del caso a loro riguardo; b) quelli risultanti criminali di guerra o comun-que accaniti seviziatori di Partigiani devono essere passati senz’altro per le armi; c) sia facilitato per contro l’esodo in Svizzera a quelli che lo desiderassero ed a carico dei quali non risultasse alcuna imputazione; d) sia concesso di passare nelle file nostre a quegli elementi che lo richiedessero sempre però dopo di avere accuratamente vaglia-to i loro precedenti e la sincerità delle loro intenzioni, ad essi però in un primo tempo non dovranno essere consegnate le armi ma impiegati soltanto in servizi secondari ed in località arretrate tenendoli sempre sotto accurata sorveglianza e sparpagliandoli in mezzo alle formazioni; e) soltanto in secondo tempo questi potranno essere armati e regolarmente inquadrati nei reparti. Si raccomanda la massima oculatezza per evitare che delle spie vengono ad infiltrarsi nelle nostre formazioni67.

65 Comunicazione di Iso e Pippo al comando della 119a Brigata Castaldi, 17 marzo 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 8.66 Lettera di Pippo ai Gruppi difesa delle donne, 21 febbraio 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 2.67 Circolare del comando della II Divisione d’assalto Garibaldi, 19 marzo 1945, in AFA, Fondo Osso-la-Garibaldi Redi, b. 8.

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Altri, tra i nemici, si fecero ancora più cattivi. Il 24 marzo del 1945, a Solcio di Lesa, i nazifascisti fucilarono 10 giovani tra i 17 e i 31 anni, prelevati fra i partigiani dete-nuti nell’albergo Bellavista di Baveno, quartier generale delle truppe del colonnel-lo Stamm. Tre dei partigiani giustiziati appartenevano alla II Divisione Garibaldi.

Il giorno successivo, il 25 marzo, a Forno i militi della famigerata Legione au-tonoma mobile Ettore Muti, sulle tracce di un partigiano garibaldino ferito, in-cendiarono diverse case, minacciarono, spararono e torturarono diversi cittadini, come rappresaglia nei confronti dell’intero paese che si rifiutò di fornire infor-mazioni su dove si trovasse l’uomo (nascosto all’interno di un’abitazione civile). La popolazione tenne duro e fascisti abbandonarono il paese68.

Questi gli episodi più famosi, senza tenere conto degli innumerevoli rastrella-menti e saccheggi che, riportava il comando della Brigata Carlo Rosselli, genera-vano nella popolazione «un odio tremendo nei confronti dei militi delle brigate nere, militi che sono di questi stessi paesi e che approfittano della situazione per soddisfare le loro vendette e la loro sete di rapina»69.

In aprile i tempi divennero maturi per sferrare l’attacco decisivo. L’obiettivo dei partigiani di tutto il nord Italia era quello di giungere a liberare il paese prima dell’arrivo delle truppe alleate da sud. Le forze del Cusio-Verbano-Ossola fecero il loro. Non prima tuttavia di essersi uniformate alle direttive ricevute dal Cln che, insistendo sulla necessaria unità delle forze, chiedevano la trasformazione formale delle formazioni partigiane in parti integranti dell’esercito del Cvl. Le formazioni erano inoltre invitate a prendere il nome di un caduto nella guerra di liberazione, pertanto la II Divisione Garibaldi, a partire del 9 aprile 1945, divenne semplicemente la Divisione Redi – in onore del partigiano Redi caduto a Megolo – di cui Iso divenne ufficialmente comandante militare anche se, di fatto, come abbiamo visto, aveva esercitato gran parte di questo ruolo sin dagli albori della Divisione. Si legga l’incipit di una lettera del 15 aprile successivo inviata ad Iso da Pino, a nome del Cln di Omegna: «Caro Iso, a nome mio e del C.L.N. ti esprimo il mio compiacimento per la tua nomina a Comandante militare della 2° Divisione, in fondo la cosa è più formale che altro perché tale mansione esercitavi già»70.

Intanto in marzo, poche settimane prima della liberazione, cadde prigioniero dei nazifascisti Guido Aniasi, fratello di Iso, comandante del battaglione guasta-tori della Divisione Redi. Fu intavolata una trattativa per uno scambio di prigio-nieri, ma Iso sentiva forte il disagio perché posto di fronte al «conflitto fra l’uomo

68 Rapporto del comando del Btg. Brunetto al comando della 119a Brigata, 18 aprile 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 8.69 Rapporto del comando della 125a Brigata Garibaldi C. Rosselli al comando della II Divisione Ga-ribaldi, 2 aprile 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 8.70 Lettera di Pino del Cln di Omegna a Iso, 15 aprile 1945, in AFA, Fondo Ossola-Garibaldi Redi, b. 9.

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Governare insieme: autonomie e partecipazione44

che deve salvare il fratello e i compagni, e il comandante che ha il dovere di non piegarsi a nessun ricatto e a nessuna indulgenza sentimentale»71. Alla fine si de-cise per l’azione di forza e grazie a un blitz Guido fu liberato.

In aprile gli eventi si susseguirono freneticamente. Nella notte tra il 21 e il 22 i partigiani della Divisione Redi, salvarono il traforo del Sempione e impedirono il sabotaggio delle centrali elettriche nelle alte valli dell’Ossola, che i tedeschi in fuga intendevano far saltare in aria col tritolo; il 24 aprile venne liberata Do-modossola e successivamente le città di Villadossola, Pallanza, Intra, Cannobbio, Stresa, Baveno, Gravellona e i presidi della bassa Val d’Ossola; distaccamenti della Divisione Redi entrarono in Omegna fino ad allora occupata dal Battaglio-ne Venezia-Giulia del tenente Aimone Finestra.

Dopo la liberazione dell’Ossola le colonne del Cvl si diressero verso Milano dove il 25 aprile aveva avuto inizio l’insurrezione generale di tutto il nord Italia.

Nella marcia ormai inarrestabile delle forze partigiane verso il capoluogo, alla Divisione Redi si arresero i tedeschi del campo di aviazione di Lonate Poz-zuolo e Gallarate e gli aviatori dell’aeronautica militare della RSI. Tutte le for-mazioni dell’Ossola si ricongiunsero poi a Milano tra il 27 e il 28 aprile. La città era già liberata mentre Benito Mussolini veniva catturato dai partigiani a Dongo, fucilato e successivamente esposto – insieme ai cadaveri dell’amante Claretta Petacci e di altri gerarchi fascisti – a piazzale Loreto, a Milano, dove gli alleati giunsero tra il 29 e il 30 aprile. Il 6 maggio la Divisione Redi e le altre formazioni dell’Ossola sfilarono a Milano insieme a tutti i partigiani dell’Italia settentriona-le. Il giorno dopo, con il rientro nei centri del Cusio, del Verbano e dell’Ossola, ebbe inizio la smobilitazione.

4. «Ne valeva la pena?»

Nell’immediato dopoguerra Aniasi lasciò il Partito comunista per aderire pri-ma al Partito socialista italiano d’unità proletaria (Psiup) e poi nel 1947, in segui-to alla scissione di Palazzo Barberini, al Partito socialista democratico italiano (Psdi) di Saragat. Intanto dopo la rottura dell’unità resistenziale e la scissione dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi) di parte delle associazioni partigiane, Aniasi fu uno dei primi comandanti partigiani ad aderire alla Fiap,

71 Queste parole di Aniasi sono riportate da Gino Morrone, L’esperienza partigiana, in Id., Scirocco e Carenzi (a cura di), Grazie, Iso, cit., p. 32.

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fondata nell’agosto del 1949 da Ferruccio Parri, con l’intento di rappresentare le forze partigiane giellliste, laiche, socialiste e anarchiche.

Nel giugno del 1959 Aniasi aderì al Partito socialista (Psi) per il quale ricoprirà la carica di sindaco di Milano tra il 1967 e il 1976. A partire dal 1976 fu poi eletto deputato per cinque legislature, fino al 1994. Tra il 1980 e il 1981 fu ministro della Sanità nel governo Cossiga II e nel governo Forlani. Tra il 1981 e il 1982 fu ministro senza portafoglio con delega agli Affari Regionali nei governi Spadolini I e II. Nel dicembre del 1982 assunse la prestigiosa carica di vicepresidente della Camera dei deputati.

Non occorre soffermarsi oltre sulla carriera di Aniasi politico, amministratore e uomo di partito perché questi aspetti della sua vita saranno oggetto degli altri saggi presenti in questo lavoro monografico. Bisogna tuttavia sottolineare come l’esperienza da partigiano influenzò profondamente il suo impegno pubblico. A partire dal 1986 – quando successe a Ferruccio Parri nella presidenza Fiap, che mantenne fino alla morte sopraggiunta nel 2005 – Aniasi si rivelò il più tenace difensore della memoria della Resistenza. Ancora deputato, nel febbraio 1989 fu autore di una proposta di legge per la «riapertura dei termini per la concessione di medaglie d’oro al valore militare alle province di Milano e Pavia per i meriti acquisiti durante la Resistenza». Nel 1994, giunto al termine della sua carriera istituzionale, Aniasi aderì ai Democratici di sinistra (Ds) e si fece animatore di convegni e giornate di studio – in particolare nella storica sede milanese del cir-colo De Amicis, da lui fondato e inaugurato da Pietro Nenni nel 1968 – e fautore di numerose pubblicazioni sulla Resistenza. Diresse la rivista “Lettera ai compa-gni” e si adoperò nel tentativo di riunire le associazioni partigiane la Fiap, l’Anpi e la Federazione italiana volontari della libertà (Fivl)72.

Nel 1997, nel già citato saggio contenuto nel volume da lui stesso curato dal titolo Ne valeva la pena. Dalla “Repubblica” dell’Ossola alla Costituzione repubbli-cana, Aniasi tracciò un bilancio complessivo della guerra di liberazione, così come l’avevano vissuta molti dei partigiani che ne furono i protagonisti. Le sue riflessioni sull’eredità della vicenda resistenziale avevano un retrogusto amaro perché con-siderava disattese le aspettative di radicale rinnovamento maturate nei venti mesi, in cui i partigiani si erano assunti gravi rischi e importanti responsabilità.

Ne valeva la pena è stata la domanda che ci siamo posti infinite volte in questi 52 anni per quanto riguarda la “Resistenza” che è costata al popolo italiano tanti sacrifici e lutti in quei venti drammatici mesi. Quante volte abbiamo paragonato le nostre speranze, forse meglio dire le nostre illusioni, alla realtà quale essa ci è parsa dopo il 25 aprile.

72 Riguardo l’attività politica di Aniasi nel dopoguerra, oltre i saggi contenuti in questo volume, cfr. anche le informazioni – in particolare una lunga biografia cronologica – raccolte nel sito della Fondazione Aldo Aniasi, www.fondazionealdoaniasi.it.

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Siamo stati mortificati pochi giorni dopo la Liberazione dall’ordine di consegnare quel-le armi che avevamo conquistato con enorme rischio e che avevano rappresentato le speranze di salvezza e lo strumento della guerriglia. Un congedo senza preceden-ti. Nessun esercito fu congedato con identica immediatezza […]. Migliaia di criminali fascisti tornarono in libertà: condannati a morte o a pesanti pene detentive furono liberati grazie all’amnistia “Togliatti” votata dal governo ed applicata a tutti coloro che avevano commesso delitti efferati purché – così diceva la legge – non fossero stati particolarmente efferati73.

Sono questioni note che è necessario ripercorrere brevemente. Alla fine della guerra – facendo nostre le parole che lo storico Mark Mazower ha utilizzato riferendosi al più generale contesto europeo – «era difficile immaginare che una vera democrazia potesse tornare a fiorire senza che ai suoi nemici venisse com-minata una degna punizione»74. In tutta Europa, nel clima di diffusa assenza di legalità dei primissimi giorni dopo la Liberazione, questa volontà di punizione si tradusse in vere e proprie vendette, improvvisati processi di piazza, esecuzioni, linciaggi e pubbliche umiliazioni con le quali in molti intesero regolare i conti con i precedenti vent’anni di regime fascista. Furono allora l’arbitrarietà e bru-talità di queste punizioni che spinsero i movimenti resistenziali al governo ad intervenire riaffermando la propria autorità75. Ed è nella stessa ottica che va in-terpretata la scelta, nel giugno del 1946, del segretario del Partito comunista italiano Palmiro Togliatti, in qualità di ministro di Grazia e Giustizia del gover-no di unità nazionale presieduto dal leader democristiano Alcide De Gasperi, di proporre un provvedimento, poi emanato con decreto presidenziale, di amnistia per reati comuni e politici, compreso quello di collaborazionismo con il nemico. Di questo decreto, ricorda Aniasi, usufruirono anche due nemici giurati dei par-tigiani dell’Ossola: il comandante del Battaglione camicie nere Venezia-Giulia, Aimone Finestra, feroce rastrellatore – e per questo proposto dal pubblico mi-nistero della Corte di assise di Novara per la condanna a morte mediante fuci-lazione alla schiena – e successivamente per ben due volte senatore e sindaco di Latina; e il seniore Merico Zuccari, comandante del battaglione Tagliamento responsabile di crimini di ogni genere – fucilazioni, torture, deportazioni e in-cendi – in Valsesia come nell’Ossola. L’impunità di cui godettero questi criminali fascisti, unitamente ai processi che venivano imbastiti contro i partigiani chia-mati a giustificare nei tribunali comportamenti tenuti in azioni di guerra, ama-

73 Aniasi (a cura di), Ne valeva la pena, cit., p. 132.74 Mark Mazower, Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Milano, Garzan-ti, 1998, p. 229.75 Sulle violenze che accompagnarono la transizione dal fascismo alla democrazia cfr. Mirco Don-di, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 2004.

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reggiò profondamente i partigiani che avvertivano il montare di un sentimento “antiresistenziale” che ebbe il suo culmine, secondo Aniasi, negli anni Novanta, quando il particolare clima politico determinatosi nel paese scatenò un «acuirsi dell’offensiva contro la memoria della Resistenza». Si paventò allora, da parte di personalità di governo o vicine al governo, l’abolizione della festa del 25 aprile, o di una nuova costituente che agisse con il preciso scopo, sempre secondo Ania-si, «di stravolgere la Costituzione e di recidere le radici della Resistenza». Più in generale sembrava che ci fosse la volontà da parte di alcuni uomini di governo di ridimensionare la portata storica della Resistenza di «rivalutare» il fascismo a partire da alcuni aspetti particolari della sua azione di governo. Culmine di que-sta offensiva fu il tentativo di fare passare l’idea della necessità di una «pacifica-zione» fra vinti e vincitori, fondata sul rispetto reciproco per i morti di entrambe le parti, che «subdolamente» cercava di «porre sullo stesso piano nella valuta-zione etica chi ha combattuto per la libertà e per la democrazia e chi contro»76.

Quando sento il nostro presidente del Consiglio [Aniasi si riferiva all’allora capo del governo Silvio Berlusconi, NdA] dire che abbiamo una Costituzione di stampo sovietico mi viene in mente un solo pensiero: quest’uomo non sa di cosa sta parlando. E poi me ne viene un altro: è valsa la pena di combattere quella guerra per arrivare all’oggi, per conquistare una libertà che garantisse ai tanti capitani Finestra, ai loro figliocci e nipotini, di insultare i morti? [...] Mi rispondo che ne è valsa la pena. Nonostante tutto. Ne è valsa la pena anche se oggi vengono a parlare di pacificazione avendo in mente e progettando una cosa ben diversa. Che è la parificazione: scrivere una storia dove i tor-ti e le ragioni erano uguali, da una parte e dall’altra. Dove chi combatteva per liberare il paese finisce sullo stesso piano degli alleati dei nazisti77.

In questo clima percepito di messa in discussione del valore dell’esperienza resi-stenziale, in molti tra i partigiani di un tempo consideravano, comprensibilmen-te, inaccettabile quella che in realtà è stata una importante conquista storio-grafica dei primi anni Novanta – si pensi all’opera di Claudio Pavone – ovvero il fatto che la guerra che si combatté in Italia tra il 1943 e il 1945, potesse essere considerata una «guerra civile»78. Per Aniasi era inaccettabile perché il termine

76 Aniasi (a cura di), Ne valeva la pena, cit., pp. 132-137. Sulle cause giudiziarie intentate ai partigia-ni cfr. Michela Ponzani, L’offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana (1945-1960), Roma, Aracne, 2008.77 Fazzo, Aniasi: il mio no alla pacificazione si chiama capitano Finestra, cit.78 Non è superfluo proporre una breve sintesi di quanto sostenuto dallo storico ed ex partigiano Claudio Pavone nel fondamentale saggio dal titolo Una guerra civile. Pavone inseriva la Resistenza italiana nel contesto di una più generale Resistenza europea e ne proponeva una triplice interpre-tazione: come guerra di liberazione, contro l’invasore straniero che unì comunisti, socialisti, liberali, azionisti, democratici cristiani e monarchici; come tentativo di rivoluzione sociale messo in atto dal-la maggioranza dei combattenti nelle forze partigiane socialiste e comuniste; come guerra civile,

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dava l’impressione di volere stabilire una parificazione tra le due parti in lotta, di volere fare passare l’idea che i vinti avessero la stessa dignità dei vincitori. Era-no osservazioni opportune e lo storico Gaetano Arfè – in un articolo pubblicato su “Il Manifesto” pochi giorni dopo la scomparsa di Aniasi – riconobbe che l’ex comandante partigiano aveva colto con assoluto tempismo gli effetti collaterali della definitiva accettazione storiografica della formula Resistenza come «guer-ra civile», riconoscendogli il merito di avere alimentato sul tema una polemica profondamente costruttiva79.

Per Aniasi, questo clima antiresistenziale determinatosi nel lungo periodo, dal dopoguerra in poi, era frutto dell’opera di precisi ispiratori, ovvero «la buro-crazia e la borghesia capitalistica che aveva convissuto e colluso con il regime dal quale aveva tratto vantaggi e privilegi» e che «rappresentava un elemento di freno ad un ordine veramente democratico e avrebbe influito sul futuro del paese». Fu proprio per l’influenza di questi «poteri forti» che, secondo Aniasi, l’epurazione degli apparati burocratici dello Stato, finì per essere ridotta ad una «vicenda da operetta» quando piuttosto rappresentava «l’unico modo per abbat-tere quei legami con l’essenza vera del fascismo e con la pratica deteriore del potere». Oltre al mancato, necessario, ricambio della classe dirigente del paese, sottolineava ancora Aniasi, a determinare un clima di abbandono dei valori della Resistenza, fu l’incapacità dei partiti politici protagonisti della resistenza antifa-scista che, «prigionieri di pratiche compromissorie» – degenerate in «compor-tamenti biasimevoli» che hanno determinato nella popolazione una diffusa sfi-ducia nella democrazia – non esercitarono «quella forza morale necessaria per avviare un processo di rigenerazione capace di trasmettere ai cittadini, principi, ideali, valori in grado di creare gli anticorpi contro i nemici della democrazia»80. La Resistenza finì con l’essere ignorata, seppure celebrata, perché svuotata dei suoi contenuti «rivoluzionari» – nel senso di una rivoluzione che facesse dell’Ita-lia un paese pienamente e finalmente democratico – e diffusa finì con l’essere, tra gli ex combattenti, la sensazione di un “tradimento della Resistenza”.

Aniasi non parlò mai apertamente di tradimento. Ma, senza dubbio, conside-rava la Resistenza un fatto incompiuto, perché incompiuta era rimasta l’applica-zione della legge costituzionale repubblicana che della Resistenza, e della Re-

parte della «guerra civile europea», perché combattuta tra italiani animati da tensioni ideologiche contrapposte di carattere sovranazionale riconducibili allo scontro tra nazismo e fascismo, da una parte, e democrazia e comunismo dall’altra. Pavone, Una guerra civile, cit.79 Gaetano Arfè, Grazie, Iso, in “il Manifesto”, 31 agosto 2005.80 Aniasi (a cura di), Ne valeva la pena, cit., pp. 135-136.

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pubblica dell’Ossola, considerava la più importante eredità. «La Resistenza non è fallita, è incompiuta. La Costituzione non è stata attuata», scriveva nel 197581.

Sul legame diretto tra l’esperienza dell’Ossola e la costituzione repubblicana gli storici si sono soffermati più volte. L’esperienza delle repubbliche partigiane si sviluppò in un contesto storico nel quale la resistenza non è solo lotta armata contro ciò che resta del regime fascista e contro gli occupatori nazisti, ma anche volontà di affermare, non senza sostanziali differenze tra le forze politiche che presero parte alla lotta di liberazione, un ordine sociale diverso e mai realizzato in Italia fino a quel momento. Come ha evidenziato lo storico Carlo Vallauri, «nacquero in quelle singolari esperienze una serie di ristretti ma concreti ordina-menti democratici che, per varie caratteristiche, anticipano idee e procedimenti che poi troveranno significativa affermazione nel testo stesso della Costituzione repubblicana», in particolare perché rovesciavano, finalmente, «il primato della forza, tanto a lungo esaltata dal fascismo, a favore dell’eguaglianza e del prima-to dei diritti», della democrazia e della giustizia sociale82.

Tutti principi realizzati nella concreta esperienza della Repubblica dell’Os-sola, e non a caso testimoni, protagonisti dell’epoca e storici – basti consulta-re un qualunque manuale di storia dell’Italia contemporanea – sono concordi nell’affermare che tra le vicende delle repubbliche partigiane quella dell’Ossola fu una delle esperienze più significative. I documenti di volta in volta emana-ti dalla giunta ossolana su temi quali l’autogoverno, il lavoro, la solidarietà, i diritti, l’istruzione, la giustizia affermano dei principi e mostrano come quella fu un’esperienza anticipatrice di quei principi e valori che furono poi messi per iscritto nella costituzione repubblicana. La stessa composizione della giunta in cui erano rappresentati tutti i partiti antifascisti, in un certo senso rappresentò una prefigurazione di quella che fu la composizione dell’Assemblea costituente chiamata nel 1946 a scrivere le regole del futuro assetto democratico e repub-blicano. Un legame, una continuità di cui Aniasi, come abbiamo visto – a dispetto della sostanziale contrarietà che aveva manifestato durante lo svolgimento de-gli eventi – era profondamente convinto.

La elezione della Assemblea Costituente prima e la promulgazione della Costituzione poi sono il risultato della vicenda resistenziale e delle culture dei partiti politici del Co-mitato di Liberazione Nazionale. Una Costituzione fra le più moderne e civili d’Europa sintesi della cultura cattolica, laica, socialista, azionista, liberale. Una Costituzione che in ogni suo articolo richiama ideali e valori di grande civiltà, di eguaglianza, solidarietà e giustizia. Una Costituzione che si richiama agli stessi principi e valori che ispirarono i

81 Aniasi, Prefazione, in Fini, Giannantoni, Pesenti et al. (a cura di), Guerriglia nell’Ossola, cit., p. 8.82 Carlo Vallauri, Introduzione, in Id. (a cura di), Le Repubbliche partigiane, cit., p. 3.

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civili ordinamenti della “Repubblica dell’Ossola”. Una Costituzione programmatica che Calamandrei definì «presbite» perché guardava lontano83.

I valori dell’eguaglianza, della solidarietà e della giustizia erano, secondo Aniasi, la più importante eredità della Resistenza e continuò a ribadirlo fino alla fine, che sopraggiunse il 27 agosto del 2005, quando furono in migliaia i cittadini milanesi a rendergli omaggio nella camera ardente allestita a Palazzo Marino. Oggi il comandante Iso riposa al Cimitero Monumentale di Milano, nel famedio dedicato ai milanesi illustri.

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83 Aniasi (a cura di), Ne valeva la pena, cit., p. 139.

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Governare insieme: autonomie e partecipazione Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento

A cura di Fiorella Imprenti e Francesco SamorèRoma (BraDypUS) 2017

ISBN 978-88-98392-66-7p. 53-82

Aldo Aniasi rivestì l’incarico di sindaco di Milano in un periodo per molti ver-si eccezionale e carico di contraddizioni; la sua permanenza al seggio più alto di Palazzo Marino, infatti, fu stretta tra i movimenti sociali degli anni Sessanta, con tutta la positiva pressione verso un rinnovamento sociale ma pure le derive eversive emerse in Italia, e la crisi degli anni Settanta, con il manifestarsi delle contraddizioni di un paese restio alla modernizzazione.

La golden age precedente, pur affermando processi di cambiamento irrever-sibili, non era eterna; e infatti, sul finire del decennio, terminata la fase della rico-struzione della città e dell’assunzione di un ruolo protagonista nella promozio-ne dell’economia nazionale, si apriva una fase di stagnazione e crisi economica connessa ai cicli dell’economia internazionale e ai ritardi italiani in rapporto agli altri Paesi1. In questo contesto, Milano pareva fermarsi in attesa a ragionare sul proprio ruolo; conclusa la tradizione dei sindaci notabili socialisti del dopoguer-ra, i medici Virginio Ferrari e Bucalossi e il Rettore del Politecnico Gino Cassinis, anche l’esperienza del centrosinistra2 pareva avere bisogno di una revisione da quando, alla fine del 1967, in seguito alla crisi provocata dalle dimissioni del pre-cedente sindaco Bucalossi, entrava in carica Aldo Aniasi, che formava una nuova

1  Cfr. M. Granata, Smart Milan. Innovations from Expo to Expo (1906-2015), Berlino, Springer, 2015. 2  Cfr. M. Punzo, Amministrazione e politica a Palazzo Marino, in G. Petrillo, A. Scalpelli (a cura di), Milano. Anni Cinquanta, Milano, Franco Angeli, 1986, pp. 624- 653; C.G. Lacaita, M. Punzo (a cura di), Milano. Anni Sessanta. Dagli esordi del centro-sinistra alla contestazione, Manduria, Lacaita, 2008.

Aniasi sindaco e le autonomie locali: “dalla crisi dello Stato al suo rimodellamento” (1968-1976)MATTIA GRANATA

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giunta al principio del 19683, e nel volgere di un biennio veniva poi confermato alla guida della città con le elezioni amministrative del giugno 1970.

Diplomato geometra presso l’Istituto Cattaneo, era stato partigiano nella vicina valle piemontese dell’Ossola con il nome di battaglia di “Iso”, e poi nel dopoguerra aveva ricoperto il ruolo di segretario dell’Eca di Vigorelli4, prima di diventare più volte assessore ai servizi e lavori pubblici; anch’egli era socialista ma soprattutto, a differenza dei precedenti sindaci, era considerato un “uomo medio” da alcuni addirittura definito “grigio”, che in modo popolare si poneva l’obiettivo di interpretare la difficile fase che Milano si apprestava ad affrontare. Dalla seconda metà degli anni Sessanta, infatti, e poi più decisamente in seguito, tutto il paese veniva attraversato da fenomeni drammatici e destabilizzanti. Da un lato, l’economia attraversava una lunga e complessa fase negativa; dall’altro lato, però, il paese era sottoposto a eccezionali tensioni sociali. Oltre alla diffusa contestazione giovanile, che di per sé mirava ad un rinnovamento della società e rappresentava una conseguenza per molti versi positiva dello sviluppo economi-co precedente, infatti, in Italia si manifestarono fenomeni di ben altra portata. Le tensioni sociali interne, anche per il ruolo che il paese rivestiva nello scenario ge-opolitico mondiale, venivano moltiplicate e diventavano dirompenti, diffondendo un terrorismo sia di destra sia di sinistra in grado di destabilizzare la Repubblica.

Milano, in questo quadro, rappresentava l’epicentro di fenomeni decisamente terribili. Il più eccezionale e tragico di questi avvenimenti accadeva certamente il 12 dicembre 1969, quando nella Banca nazionale dell’agricoltura di Piazza Fontana, a pochi passi dal Duomo, esplodeva una bomba che causava 17 morti e 88 feriti. Il drammatico attentato avviava la cosiddetta “strategia della tensio-ne”, ossia un periodo di attentati realizzati da gruppi armati di estrema destra, di estrema sinistra, e da settori deviati delle forze militari, che avevano lo scopo di indebolire le istituzioni democratiche italiane. A questo avvenimento seguiva una lunga scia di sangue versato inutilmente e dal 1970, inoltre, faceva la sua comparsa in città, con attentati incendiari presso la azienda Siemens, la sigla del gruppo terroristico delle Brigate rosse.

Per tutto il decennio, Milano era teatro dello scontro fra fazioni opposte di destra e sinistra, e di entrambe con le forze dell’ordine, in un delirio di violenza che provocava morti innocenti in tutti i settori e per motivi non solo politici. Su tutt’altro versante, nello stesso periodo, Milano diventava pure lo scenario di

3  Cfr. E. Landoni, L’attività dell’amministrazione comunale da Cassinis ad Aniasi, in Lacaita, Punzo (a cura di), Milano. Anni Sessanta, cit., pp. 243-286; M. Emanuelli, Accadde a Milano. Notizie, perso-naggi e sindaci dal dopoguerra ad oggi. 1945-2002, Milano, Greco & Greco, 2002.4  M. Granata, Politiche e imprese assistenziali nel dopoguerra. Ezio Vigorelli e L’Ente comunale di assistenza di Milano (1945-1957), in “Bollettino per la storia del movimento sociale cattolico in Italia”, maggio-agosto 2003.

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Mattia Granata, Aniasi sindaco e le autonomie locali: “dalla crisi dello Stato al suo rimodellamento” (1968-1976) 55

azione di bande della criminalità organizzata guidate da temibili figure come Francis Turatello, Renato Vallanzasca e Angelo Epaminonda.

In un paese segnato da fenomeni di forte crisi economica, sociale e morale, e in questa città che una volta ancora era teatro di drammatiche contraddizioni, Aldo Aniasi diventava il “sindaco della contestazione”, e gestiva una situazione di forte tensione sociale diffusa. L’ex partigiano teneva rapporti costantemen-te aperti con la società e le solide espressioni associative, politiche, civili della comunità milanese, cercando in ogni modo di non esasperare i conflitti sociali con la compressione ulteriore degli spazi di espressione del malcontento. Il suo orientamento politico, inoltre, si piegava progressivamente, e non senza traumi, a sinistra, e infatti durante la sua gestione si verificava un’apertura nei confronti del Partito comunista che per la prima volta entrava nel governo della città dan-do avvio, dopo le elezioni amministrative del giugno 1975, alle “giunte rosse” che nel periodo successivo avrebbero retto l’Amministrazione cittadina5.

Oltre alla gestione degli straordinari problemi di quella fase, nel corso degli anni Settanta il municipio tentava di dare risposta ai temi sollevati dallo svilup-po urbano, quali inquinamento o ampliamento degli spazi di verde pubblico. Il fenomeno di gran lunga più rilevante, tuttavia, e alla base degli squilibri emersi dagli anni Sessanta, era quello demografico. Per tutto il dopoguerra, Milano era stata sottoposta ad una forte pressione di crescita per i movimenti migratori che l’avevano interessata in quanto capitale del “miracolo economico”. Per avere un’idea delle dimensioni del fenomeno, si pensi che dal 1951 al 1961 la popola-zione era passata da 1,2 a 1,5 milioni di abitanti; e dal 1958 al 1963, durante gli anni del boom economico, l’immigrazione aveva raggiunto un picco: la città nel giro di 15 anni era cresciuta di 400mila persone, ossia circa il 30%. Sempre nel corso del decennio, inoltre, la popolazione residente in provincia era aumentata da 2,4 a 3,2 milioni. Se in città questo fenomeno era marcato, occorre pensare che in alcune zone periferiche e nell’hinterland in particolare a nord, dove erano concentrate le maggiori industrie, per l’afflusso di nuovi arrivati alcune aree e comuni avevano visto quintuplicare la propria popolazione6.

In questo contesto, e per la forte attrattività che soprattutto sul piano occu-pazionale la metropoli esprimeva nei confronti del resto del paese, le grandi in-dustrie reperivano attivamente nelle province meridionali manodopera a buon mercato sovente ignara delle reali situazioni che la attendevano: «un posto va bene – affermava proprio Aniasi in questi anni –, ma a causa di abitazioni care e lontane dai luoghi di lavoro, infrastrutture impreparate a ricevere d’improvviso tanta nuova gente, il sogno di pervenire alla “città mitica”, era un’illusione»; que-

5  Cfr. Emanuelli, Accadde a Milano, cit., p. 232.6  Cfr. Granata, Smart Milan, cit.

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sti fenomeni, infatti, alimentavano sottoccupazione e tensioni sociali provocate dal costo e dalla scarsità delle abitazioni, dalla carenza di asili, scuole e servizi necessari. Nel 1970, di fronte all’imminente arrivo di circa 7.000 nuovi assunti nelle fabbriche milanesi, il Sindaco paventava il connesso afflusso di 30/40 mila nuovi abitanti per un costo di molte decine di miliardi a carico dell’amministra-zione, e tempi tecnici per approntare case, scuole, strade e servizi, e per non alimentare quartieri dormitorio7. A questo punto, inoltre, dopo che il censimento del 1971 aveva contato gli abitanti in città in oltre 1,7 milioni, e quelli dell’hin-terland in quasi 4 milioni, era evidente a tutti che Milano non si limitava ai propri confini amministrativi, ma si estendeva sui “cento comuni” circostanti, in un mu-tato rapporto istituzionale con il nuovo Ente Regione Lombardia, retto dal primo presidente Piero Bassetti, democristiano a sua volta eletto nelle prime elezioni amministrative regionali del 1970.

La metropoli cresciuta in fretta, e attraversata dalle contraddizioni citate, al principio del decennio si collocava inoltre nel panorama di un paese scosso da una crisi generalizzata che ne faceva in breve tempo emergere diffuse tensioni strutturali.

Dallo scorcio degli anni Sessanta il sistema economico italiano si era collo-cato in una fase depressa, l’apparato produttivo pareva vulnerabile e precario rispetto al livello competitivo internazionale, la produttività era stagnante8 e il paese aveva mostrato di non operare ai livelli di efficienza richiesti dalla compe-tizione economica transnazionale. In questo quadro persisteva, e anzi si accen-tuava sempre più, il problema di un saggio di investimenti e di un livello occupa-zionale inadeguati ad un paese altamente sviluppato; si aggravava, inoltre, il mai affrontato tema della scarsa efficienza del settore pubblico, progressivamente cresciuto di dimensioni negli anni senza avere assunto comportamenti, strumen-ti e procedure di controllo in funzione della produttività9.

Il culmine della preoccupazione si toccava con la crisi petrolifera e l’avviarsi di un processo inflazionistico di grandi proporzioni rafforzato durante la successiva recessione. Uno dei sintomi di questa crisi acuta, era certamente l’emergere alla ribalta della discussione pubblica della cosiddetta “malattia delle partecipazioni statali”10. Il vasto sistema dell’impresa pubblica, infatti, era segnato da inefficienze e improduttività, e sotto lo scudiscio della crisi economica, risultava evidente che,

7  Cfr. Testo dell’intervista di Giacomo De Antonellis al Sindaco Aldo Aniasi trasmessa nella seconda edizione del “Gazzettino padano” - 2 settembre 1970, in Archivio Fondazione Aniasi (d’ora in poi, AFA), Fondo amministrazione di Milano (Am5), Faldone 1 (F1), Autonomie locali.8  Cfr. M. Salvati, Alle origini dell’inflazione italiana, Bologna, Mulino, 1978, p. 130.9  P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, vol. II, Torino, Einaudi, 1989, p. 387; cfr. M. Salva-ti, Il sistema economico italiano: analisi di una crisi, Bologna, Mulino, 1975, pp. 99 sg.10  Cfr. G. Amato, Economia, politica e istituzioni in Italia, Bologna, Mulino, 1976, p. 90.

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a dieci anni dalla promulgazione della programmazione, i tentativi fino a quel momento condotti al fine di rendere coordinati e rispondenti ad una politica di sviluppo unitaria gli strumenti di intervento nell’economia erano falliti11.

Il manifestarsi di problemi economici così gravi, direttamente connessi alle prospettive future del paese, contribuiva all’emersione pure di temi altrettanto decisivi per la crisi italiana e relativi alle strutture e all’organizzazione della de-mocrazia e dello Stato. L’analisi delle ripercussioni sociali e politiche della crisi economica, infatti, evidenziava quello che era considerato come l’inevitabile in-crinarsi del «blocco storico a direzione piccolo- borghese […] formato […] su una continuata appropriazione della ricchezza pubblica da parte dei gruppi sociali diventati padroni dello Stato e soprattutto del parastato»12. A prescindere dal fon-damento o meno delle letture che supponevano in quegli anni la destrutturazione del “blocco di potere” del maggiore partito di governo della storia repubblicana, e la conseguente trasformazione del blocco sociale che gli corrispondeva nella società italiana, è certo che la crisi economica e i suoi riflessi contribuirono a fissare l’attenzione sulle caratteristiche strutturali della gestione delle istituzioni.

Collocato in questo quadro era il tema delle autonomie locali per come nello stesso torno di tempo emergeva al dibattito, prima, degli addetti ai lavori e, poi, dell’opinione pubblica, a mano a mano che il problema si faceva più acuto. Nello scenario di progressiva diminuzione delle risorse e rapido manifestarsi di ineffi-cienze e disfunzioni del sistema paese, infatti, la stessa articolazione dell’orga-nizzazione statale cominciava ben presto a risultare esposta e senza veli. Con precisione, in questi anni, proprio dalla parte politica di Aniasi, Giuliano Amato, nel famoso “progetto socialista” che avrebbe ispirato la successiva fase del so-cialismo di governo, metteva a fuoco i termini del problema. L’analisi richiamava la cultura istituzionale e politica della sinistra italiana, profondamente avversa al «centralismo» che aveva segnato l’agire delle classi dirigenti liberale, fascista e democristiana per conservare allo «Stato una base sociale ristretta e tenerlo così al riparo da alterazioni degli equilibri di classe»13. Su queste basi le sinistre avevano sempre individuato nel decentramento istituzionale uno strumento an-che politico utile a tentare di modificare gli equilibri di potere all’interno delle istituzioni. Nel redigere un «progetto socialista» per gli anni seguenti, tuttavia, ci si chiedeva se questa visione, alla luce dello stato dei fatti, potesse essere ripro-posta indistintamente, poiché era inevitabile constatare come i moduli propri

11  M. Granata, Cultura della crisi. La politica e il declino dello stato imprenditore (1972-1992), So-veria Mannelli, Rubbettino, 2012.12  Cfr. E. Scalfari, G. Turani, Razza padrona. Storia della borghesia di stato, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 408.13  Cfr. G. Amato, La strategia istituzionale nella transizione al socialismo, in Aa.Vv., Progetto socia-lista, Bari, Laterza, 1976, p. 100.

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del «potere democristiano» avevano condotto ad una situazione che osservata dall’alto delle istituzioni italiane evidenziava un sistema che pareva aver inter-pretato i principi di autonomia e di decentramento pure in una «logica perversa e deformante»14.

Da questo punto di osservazione, infatti, si contemplava una «società fran-tumata» per la presenza di autonomie prodotte dalla proiezione verso lo Stato di una miriade di interessi particolari; le stesse autonomie territoriali parevano inserite in tale sistema frammentato come singole «stazioni di negoziazione», in cui le funzioni ad esse conferite erano sovente parziali, interferivano con funzio-ni di enti di livello superiore, ed erano dotate di risorse incerte e acquisite trami-te continue negoziazioni; negoziazioni condotte, peraltro, in presenza di ulterio-ri e più decisivi centri di potere costituiti da «potentati economico-finanziari e da soci politici di questi»15.

In tale complesso e disordinato scenario, si collocava l’esperienza ammini-strativa di Aldo Aniasi, che permette a ritroso di constatare l’insorgere e il mani-festarsi di un momento di profonda crisi delle istituzioni, osservato da un punto di vista privilegiato – quello della metropoli italiana più avanzata –, e secondo uno specifico punto di vista: ossia la convinta volontà di tutela e promozione delle autonomie locali.

Il punto di rottura rispetto al periodo precedente, e l’insorgere della cita-ta crisi istituzionale, coincideva evidentemente con la riforma dell’assetto che aveva retto l’ordinamento repubblicano nel primo ventennio del dopoguerra, avvenuta in virtù della istituzione degli enti regionali. Questi, dopo oltre venti anni dall’inserimento nel testo della Costituzione, entravano nell’ordinamento italiano dal maggio del 1970 con la pubblicazione della cosiddetta Legge finan-ziaria per le regioni a statuto ordinario16. La legge, per altro, nonostante le pres-sioni delle forze politiche progressiste, adottava una interpretazione riduttiva del testo costituzionale, con il prevedere una serie di restrizioni, in particolare in materia di risorse, che di fatto limitava l’azione dei neocostituiti enti. Con l’ele-zione dei Consigli regionali, avvenuta di lì a poco nelle elezioni amministrative, in ogni caso, le regioni entravano in funzione e avviavano una controversa fase costituente segnata dalla redazione degli statuti promulgati l’anno successivo. La cosiddetta “prima fase del regionalismo”, doveva realizzarsi con la definizio-ne delle deleghe, delle funzioni, e l’individuazione degli uffici e del personale da trasferire ai nuovi Enti, secondo disposizioni che impegnavano il governo ad

14  Ibidem.15  Ivi, pp. 101-102.16  Cfr. Legge n. 281, 16 maggio 1970 (Provvedimento finanziari per l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario).

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emanare, entro due anni, decreti per trasferire alle regioni le funzioni previste dall’art. 117 della Costituzione17.

Questa prima fase, tuttavia, era pure contrassegnata dalla convinta resistenza che le amministrazioni centrali mostravano verso la prospettiva di spogliarsi di prerogative acquisite, e, dopo lunghi processi di consultazione, mediazioni, e pure aperte violazioni del testo legislativo, si produceva una situazione a tal punto con-troversa da richiedere ripetuti interventi di riordino del complesso della materia, a conferma della filosofia originaria e in sostegno dell’autonomia regionale18.

Il passaggio alla regionalizzazione, del resto, si connotava come un «fatto dina-mico di estrema importanza» e metteva in crisi la struttura centralistica dello Sta-to, provocando una reazione nel «centralismo dei politici e dell’apparato burocra-tico» che, secondo Aniasi, rispondevano «rabbiosamente, negando il più possibile soldi e competenze»19. Le regioni nascevano evidentemente in una fase di tensione e sofferenza sia sociale sia economica e minacciavano l’interesse del ceto politico di concentrare la gestione delle risorse e gli strumenti di una programmazione economica peraltro «già logorata prima ancora di avere mai funzionato»20.

La crisi dello Stato, di conseguenza, si manifestava proprio a partire dalla costituzione delle regioni per cui l’apparato centrale, i ministeri, la burocrazia, perfino i giuristi, erano stati «disorientati» da questo fatto che volevano ancora meno dei «politici conservatori». La resistenza, gli ostacoli, le inadempienze si erano moltiplicate come la mancanza di leggi quadro, il ritardo nella formazio-ne dei tribunali amministrativi regionali, il mancato finanziamento delle regioni, che dovevano assolvere a molti compiti prima prerogativa del livello centrale e oltretutto inserirsi in campi di attività nuovi21.

Poiché questo sorgere del nuovo ente modificava in modo radicale l’ordine precedente, inoltre, era evidente che alla luce della mutata situazione occorreva individuare un nuovo rapporto con gli enti locali esistenti e, eventualmente, ide-

17  Come stabilito dall’art. 17 della Legge n. 281; il successivo Dl. n. 1121, 28 dicembre 1971, stabiliva che i decreti avrebbero avuto effetto, per quanto riguardava «il trasferimento delle funzioni ammi-nistrative», dal 1° aprile 1972, precisando che dalla stessa data sarebbe iniziato l’esercizio da parte delle regioni delle funzioni trasferite. I decreti delegati erano emanati nel gennaio 1972.18  Nel luglio 1975, con la Legge n. 382, e nel 1977 con il DPR n. 616, si affermava un indirizzo le-gislativo e giurisprudenziale più favorevole all’autonomia regionale; cfr. A. Barbera, C. De Caro, A. Agosta, L’attuazione dell’ordinamento regionale, in Il Parlamento Italiano, vol. XX, Milano, Nuova CEI Ed., 1989; S. Bartole, Le Regioni, in S. Bartole, F. Mastragostino, L. Vandelli (a cura di), Le autono-mie territoriali, Bologna, Il Mulino, 1991; F. Bassanini, L’attuazione dell’ordinamento regionale: tra centralismo e principi costituzionali, Firenze, La nuova Italia, 1970.19  Cfr. A. Aniasi, Intervento del sindaco di Milano Aldo Aniasi al Centro italiano di studi amministra-tivi (Cisa) su “Autonomie locali e Costituzione” - Milano 15 marzo 1975 - Bozza, in AFA, Am5, F2, p. 7.20  Ivi, p. 8.21  Ivi, p. 14.

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are nuovi tipi di enti locali e di suddivisioni subregionali adatti all’impostazione e alla gestione dei piani e dei servizi pubblici di scala regionale22.

Riflessioni in tal senso, ovviamente, i comuni le conducevano da diversi anni, e Aniasi in prima persona, pure dal suo ruolo di rappresentante della sezione lombarda dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci), aveva promos-so nel corso del biennio precedente analisi in proposito23. Nell’aprile del 1970, per esempio, alla periodica conferenza del Centro italiano di studi amministrati-vi (Cisa) che si teneva alla vigilia delle storiche trasformazioni, interveniva sulla posizione dei comuni in rapporto alla futura legislazione regionale; naturalmen-te, a quel punto, la materia era ancora tutta politica, poiché il processo legislati-vo e regolativo si trovava ad uno stadio prematuro, ed egli, per questo, avanzava una «serie di preoccupazioni» relative alla necessaria tutela delle autonomie territoriali24. L’imminente costituzione dei consigli regionali nelle regioni a sta-tuto ordinario, infatti, e la entrata in funzione del decentramento amministrativo regionale, ponevano ovviamente il problema della collocazione dei comuni nel nuovo ordinamento istituzionale italiano.

La legge prevedeva che le regioni emanassero provvedimenti di diretta in-fluenza su materie di autonomia comunale, e rendeva di conseguenza urgente identificare con precisione il ruolo di quest’ultima in campo tributario, di servizi pubblici, di programmazione economica, e, in generale, precisare prerogative e autonomie per gli enti substatali.

Questa fase preparatoria, inoltre, doveva necessariamente tenere conto del fatto che i comuni, preesistenti e tutelati costituzionalmente nella loro autono-mia, pur essendo sottoposti alla regione, mantenevano un senso e una tradizione molto radicata. La nascita del nuovo livello istituzionale, quindi, per non costituire una minaccia verso gli enti sottoposti doveva essere interpretata come un’occa-sione di riordino complessivo del quadro istituzionale italiano: «la nascita dell’or-dinamento regionale – si interrogava Aniasi – non può essere l’occasione per una contestuale definizione, o ridefinizione, normativa, dei compiti amministrativi che spettano ai diversi livelli di autonomia operanti sotto l’ordinamento statale?».

La ragionevole richiesta, di conseguenza, era che lo Stato centrale, alla luce della nuova situazione, intervenisse per riorganizzare e standardizzare le prero-gative dei vari livelli, piuttosto che lasciare che i singoli enti regionali nella fase

22  Ivi, pp. 15- 16.23  Cfr. Discorso del Sindaco Aldo Aniasi, “Programmazione economica nazionale a Milano”, 1968 (bozza dattiloscritta), in AFA, Am5, F1; e Resoconto della relazione del sindaco di Milano Aldo Aniasi, “Attribuzioni dello Stato, dei Comuni, delle Province e delle Regioni in materia di realizzazioni nelle aree metropolitane”, tenuta alla XXVI Conferenza del traffico e della circolazione, Stresa, 25-28 settembre 1969, in AFA, Am5, F1.24  Cfr. Comuni e Regioni, Cisa, aprile 1970, in AFA, Am5, F1.

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di elaborazione dei propri statuti, regolassero in assenza di orientamenti comuni i propri ambiti di competenze e di funzionamento rispetto a comuni e province. In questa fase iniziale, infatti, non era nemmeno ben chiaro se le costituende regioni si predisponevano allo svolgimento “in proprio” di attività amministrati-ve e investimenti verso territorio e infrastrutture, fatto che ovviamente avrebbe influenzato decisamente l’operato dei livelli inferiori, e, soprattutto, se per svol-gere i nuovi compiti avrebbero attinto le risorse dalla periferia o dal centro.

L’inserimento della regione, inoltre, influenzava la attività dei livelli sottoposti anche indirettamente; la sua relazione con la Provincia, infatti, finiva per riguarda-re i singoli comuni, poiché se la prima era destinata a svolgere un ruolo attivo nella realizzazione dei piani di programmazione economica su scala sovracomunale, i secondi avrebbero avuto fatalmente diminuita la propria autonomia.

I dubbi, insomma, si diffondevano a tutto campo e si fissavano sulle prospet-tive della finanza locale, dei servizi pubblici, nel quale la regione poteva avere competenze dirette e poteri amministrativi e legislativi25; e, soprattutto, in rela-zione al prospettato controllo tutorio affidato alle regioni.

In particolare su quest’ultimo punto, gli amministratori comunali insistevano nella fase precedente all’istituzione delle regioni e, subito dopo, al momento di redigere gli statuti e di avviarne il funzionamento. Tutti, infatti, chiedevano che da subito e senza il passaggio dalla promulgazione di una legge regionale ad hoc, il controllo sugli atti comunali passasse, in ossequio al dettato costituziona-le, da prefetti e giunte provinciali amministrative, a organi regionali, considerati più rispettosi delle autonomie territoriali26. Il più sensibile punto di confronto, tuttavia, ben presto verteva su natura e modalità di questi controlli; i comuni, infatti, auspicavano la costituzione di nuovi organismi di verifica sugli atti ma, naturalmente, ne vedevano l’attività limitata ad un formale controllo tecnico e di conformità. I primi progetti regionali, al contrario, prevedendo un collega-mento tra i costituendi organismi e la giunta, piuttosto che il consiglio, e inseren-do riferimenti diretti alla programmazione economica, ossia a eventuali scelte politiche di merito, facevano paventare il rischio di un controllo politico, ossia discrezionale se non «arbitrario»:

Le commissioni di controllo – concludeva Aniasi in sede Anci – servirebbero cioè non tanto a controllare gli atti dei comuni prevalentemente per la legittimità, ma a far da

25  Cfr. Resoconto della relazione, cit.26  Cfr. Conclusioni del Sindaco di Milano sui controlli, settembre 1971, in AFA, Am5, F1; vi era un ritardo perché la regione sosteneva che per costituire le nuove commissioni di controllo, decentrate per provincia, lo statuto prevedeva una legge regionale; predisposto il progetto di legge si organiz-zarono ampie consultazioni, prima che si costituissero senza legge le commissioni per farle entrare in attività dall’ottobre 1971.

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canale di trasmissione dall’alto in basso di sovranità regionale e di scelte politiche regionali verso i comuni. Si configura cioè un rapporto politico-gerarchico tra regione e comuni, cioè tra due enti substatali che invece la costituzione vuole dotati di pari dignità istituzionale autonoma. Ora noi volevamo fuggire dal centralismo di Roma, ma non per cadere nel centralismo di Milano27.

Un ulteriore delicato punto di confronto emergeva, nel corso dei complessi pro-cessi di redazione e promulgazione degli statuti, attorno al problema delle fun-zioni amministrative. Durante la fase di consultazione degli enti locali e delle forze sociali, infatti, l’Anci richiedeva che nel processo di attuazione dei nuovi enti, si prescrivesse che le deleghe dalla regione agli enti locali fossero conside-rate il «modo normale» di svolgimento delle funzioni regionali, e che avvenissero per materie e tempi indefiniti e non per singoli oggetti o atti; si auspicava, inoltre, che alle deleghe di funzioni corrispondessero risorse appostate a seconda delle disponibilità effettive della regione; infine, si chiedeva che tra uffici dei diversi enti non esistessero gerarchie ma rapporti «tecnici» definiti28.

Questo tipo di discussione, naturalmente, si svolgeva in tutte le regioni a sta-tuto ordinario cointeressate al processo di rinnovamento; in Lombardia, anche a causa delle incertezze legislative e dell’instabilità della fase costitutiva delle regioni, oltreché per l’ovvia esigenza delle stesse regioni di mantenere la più ampia quota dei poteri attribuiti loro dallo Stato, la soddisfazione dei comuni alla fine del processo fu solamente parziale. L’articolo 69 dello statuto regiona-le, infatti, che regolava tale fondamentale questione, infine assumeva una for-mulazione «riduttiva e più vaga» rispetto ad altri statuti; prevedeva, infatti, che «la regione [era] impegnata ad esercitare mediante delega [...] le funzioni con l’ulteriore limitazione che si tratt[asse] di funzioni che po[teva]no essere svolte in forma decentrata»; altre regioni, come ad esempio il Piemonte, diversamente, avevano previsto l’utilizzo di deleghe, «normalmente».

La maggior parte dei problemi, tuttavia, ben presto si manifestava non tanto e non solo nei rapporti tra i due enti territoriali, quanto soprattutto per le con-seguenze del rapporto tra regione e Stato, e a cascata sugli enti inferiori, in par-ticolare in relazione ad ampiezza delle deleghe e disponibilità di risorse: «oggi siamo [...] al punto che si delegano funzioni agli enti locali senza che sia stata fatta la tanto dibattuta definizione di competenze dei comuni e delle province», lamentava Aniasi.

27  Ivi, p. 6.28  Cfr. Intervento del Sindaco di Milano Aldo Aniasi, al convegno di studio: “Problemi di attuazione dell’articolo 69 dello statuto regionale lombardo (delega delle funzioni amministrative agli enti locali e utilizzazione dei loro uffici)”, Milano, 25 marzo 1972, in AFA, Am5, F1.

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Qualcuno potrebbe temere – concludeva il rappresentante Anci – che si riproduca tra regione e comune quanto avviene tra Stato e regioni. Il passaggio di compiti dallo Stato alle regioni è sembrato spesso, sotto la vernice dell’adempimento costituzionale e del venir incontro alle istanze regionalistiche, un modo per lo Stato di spogliarsi di competenze imbarazzanti delegando le regioni a sbrogliarsela come meglio sapranno. O almeno ciò è apparso tutte le volte che la delega è accompagnata da mancato tra-sferimento di personale, da confusioni, da scarsa dotazione di fondi, e da forti residui di competenze ministeriali29.

Questo genere di problemi accompagnava la cosiddetta “prima fase della regio-nalizzazione”, e segnava, tra l’altro, non solamente il rapporto tra il nuovo ente e quelli precedentemente esistenti, ma pure ovviamente la vita dell’ente in se stes-so; ancora nel 1974 il presidente regionale lombardo Piero Bassetti dichiarava la «crescente preoccupazione [perché si giungesse] a qualche risultato concreto» in materia di attribuzione delle risorse necessarie per esercitare le peraltro non certe deleghe attribuite e, inoltre, denunciava l’assenza di «rapporti chiari tra Stato e regione in rapporto alla finanza pubblica», con l’auspicare la formazione di una sede in cui governo e regioni si potessero confrontare stabilmente30. Era nella seconda metà degli anni Settanta che, alla luce di queste palesi disfunzioni e anche di interventi delle autorità ai vari livelli, si realizzava sul piano delle ri-forme legislative, la cosiddetta seconda fase della “regionalizzazione”31.

Le conseguenze dell’inserimento di un nuovo livello istituzionale, in particolare nel contesto della programmazione economica che pur posta in discussione per-maneva in vigore ed anzi incideva significativamente sulle funzioni regionali, non influivano solamente sugli enti esistenti ma pure su quelli non ancora esistenti.

Le modalità di ricaduta dei Piani economici dal livello centrale verso i ter-ritori, infatti, erano state attentamente valutate dagli enti locali anche negli anni precedenti, quando la prospettiva programmatoria godeva ancora di am-pia condivisione. Nondimeno, enti delle dimensioni del Comune di Milano, nel consesso degli enti locali avevano già sollevato temi e valutazioni relativi alla progettazione, realizzazione e gestione del «piano» su ambiti territoriali minori rispetto alle regioni ma non certo «minimi», come nel caso delle maggiori me-tropoli32. Pur dando per scontata l’adesione politica e amministrativa ai metodi della programmazione, infatti, si richiamava l’esistenza di nodi di particolare

29  Ibidem.30  Cfr. Piero Bassetti, Il Comune democratico, 3, marzo 1974, in AFA, Am5, F1.31  Cfr. DPR n. 616, 24 luglio 1977; F. Bassanini, Il disegno di legge sul riordinamento della pubblica amministrazione ed il “secondo tempo” del trasferimento delle funzioni dello Stato alle Regioni, in “Le Regioni”, 2/1974.32  Cfr. Discorso del Sindaco Aldo Aniasi, “Programmazione economica nazionale a Milano”, cit.

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«delicatezza e difficoltà» per individuare la «strumentazione» del piano e ren-derne tecnicamente realizzabile il funzionamento. Il sottotraccia di queste ana-lisi, evidentemente, verteva sul timore, dopo avere condotto in fronte unico la lunga pressione per l’affermazione delle autonomie locali, di vedere compresse le autonomie subregionali dalla preponderanza del nuovo ente33.

L’esigenza posta ben prima della costituzione delle regioni, infatti, era di tu-telare e valorizzare il livello comunale attribuendo ad esso non solamente un ruolo esecutivo e burocratico di decisioni assunte a livello superiore, ma anche proattivo per l’individuazione di scelte, ubicazioni e tempi realizzativi della pia-nificazione dello sviluppo del territorio34. Questo tema era tanto più significativo per «certi problemi pressanti che trascendono di molto i confini delle circoscri-zioni comunali delle grandi città», ossia per il progressivo affermarsi del «pro-blema politico delle aree metropolitane»35 che, a Milano, aveva certamente un significato preminente pure rispetto alle maggiori città italiane.

Sul tavolo dai tempi del miracolo economico e della nascita del primo centro sinistra, tale argomento era stato risollevato al dibattito dallo stesso Aniasi alla fine degli anni Sessanta, quando le trasformazioni urbane e sociali della città erano manifeste e indicavano esplicitamente le questioni da affrontare:

Milano si avvia ad essere e certamente lo sarà negli anni 70 – prevedeva il Sindaco – una città della scienza, della tecnica, della ricerca, una città quindi che avrà ruolo e di-mensione europea [...] una città in via di trasformazione deve ritrovare il suo equilibrio [...] La nostra è una città che ha dovuto subire per alcuni anni masse ingenti di immigrati [...] a cinquanta, sessanta mila all’anno ed alle quali occorreva provvedere innanzitutto con l’alloggio, con gli altri servizi necessari, la scuola, l’assistenza, gli ospedali. È stato un compito notevole, una difficoltà notevole, ma che non ha permesso evidentemen-te di assolvere a tutte quelle che sono le esigenze di una città moderna nel senso più completo del termine [...] una città umana [...] Per gli anni Settanta – concludeva, quindi – si dovrà chiarire che cosa si intende per Milano. Milano non dovrà più essere considerata nel suo ristretto ambito amministrativo territoriale [...] sarà indispensabile valutare e determinare la area metropolitana [per] risolvere problemi di dimensione e di importanza assai notevole che sono i problemi dell’urbanistica i problemi dell’idrau-lica, della viabilità e dei trasporti36.

Attorno a questo tema, evidentemente connesso in modo stretto alle modifica-zioni istituzionali in corso, all’indomani della creazione delle regioni si afferma-

33  Ivi, p. 4.34  Ivi, pp. 5- 7.35  Ivi, p. 10.36  Cfr. Intervista al Sindaco Aldo Aniasi - 11 dicembre 1969 di Domenico Alessi della Rai, in AFA, Am5, F1.

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va un dibattito anche all’interno dell’Anci. Il confronto, certamente, non era pri-vo di rischi per il potenziale frazionamento delle posizioni in campo, dato che, l’associazione componeva interessi variegati e storicamente sbilanciati verso il grande numero di comuni piccoli e molto piccoli contenuti al suo interno.

Un momento significativo, in proposito, si teneva proprio a Milano nell’otto-bre del 1971, quando i maggiori sindaci delle grandi città italiane si riunivano per sollevare il problema e condividere orientamenti di massima; ovviamente, tra mille cautele, si specificava l’assenza di ogni eventuale «antiregionalismo» nelle posizioni espresse che, anzi, erano ricondotte all’esigenza di rafforzare e non indebolire l’azione delle autonomie e si improntavano alla costruzione di un «fronte unico» rispetto allo Stato37.

La volontà di non «frantumare» l’Anci , in ogni caso, non poteva prescindere dall’individuare le sfere di competenza di regioni e comuni, e dal valutare le richieste dello 0,12% dei sindaci italiani che, peraltro, amministravano in quel momento il 20% della popolazione nazionale38. Pur non richiedendo «assoluta-mente» una preminenza del comune capoluogo nei confronti dei comuni limi-trofi, si affermava il diritto di avanzare esigenze specifiche che esulavano dalle necessità del «comune medio», e di promuovere legislazioni «differenziate» in base alle specificità delle grandi città. La distinzione era evidentemente motiva-ta dalla grande pressione che su tali entità metropolitane si esercitava per il bi-sogno crescente di servizi da parte di vecchi e nuovi cittadini immigrati in mate-ria di trasporti, istruzione, salute, ambiente, abitazioni, e per i crescenti fenomeni di congestione urbana verificati in quegli anni39. «L’amministrazione della vita quotidiana di milioni di cittadini addensati in poco spazio – sintetizzava Aniasi – sta diventando il problema centrale della nostra vita politica»40 e, proprio per evitare il «gigantismo spontaneo» del capoluogo che produceva una irrazionale distribuzione delle risorse sul territorio e una inevitabile prevaricazione rispetto ai comuni di minori dimensioni, la situazione richiedeva nuove modalità di coor-dinamento intercomunale o sovracomunale41.

La scala ottimale di molti necessari interventi e servizi pubblici, infatti, già in quel momento era certamente modificata e accresciuta, e per non sovraccari-

37  Cfr. A. Aniasi, I problemi delle grandi città, in Id., Più libertà ai comuni. Scritti, discorsi, interventi sul tema delle autonomie locali - settembre novembre 1971, Milano, Poggi, 1972, pp. 11 sg.38  Ivi, p. 13.39  Cfr. Resoconto della relazione, cit., p. 14; dove introducendo al tema affermava che sarebbe stato meglio parlare di «organizzazione dei trasporti nelle aree metropolitane in rapporto alle at-tribuzioni degli altri livelli istituzionali». 40  Cfr. Aniasi, I problemi delle grandi città, cit., p. 20.41  Ivi, p. 16.

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care il capoluogo di pressioni eccessive, e che necessariamente i piccoli comuni non erano a loro volta in grado di compensare per assenza di risorse e stru-mentazioni, era necessario adattare il funzionamento della programmazione nazionale e regionale anche a questa scala; oppure occorreva prevedere, in su-bordine, una normativa differenziata tra comuni di diverse dimensioni, con con-seguenti attribuzioni di risorse, tramite una nuova legislazione sugli enti locali che adottasse forme di governo metropolitano e un coinvolgimento delle grandi città nelle decisioni politiche (al livello del Consiglio dei ministri) e tecniche (con il collegamento al Cipe)42.

Il tema, irrisolto e periodicamente riemerso, in seguito sarebbe tornato di at-tualità in Lombardia, quando la Regione progettava raggruppamenti comunali – definiti “comprensori” – quali propri livelli sottoposti ed escludeva di attribuire una diversità istituzionale nel caso della maggiore area metropolitana43.

Gli avvenimenti che segnavano il paese nei primi anni Settanta, e in partico-lare le conseguenze della “crisi” dell’ordinamento della Repubblica contestuale alla formazione dei nuovi istituti regionali, contribuivano pure all’emergere di un tema, relativo alla vita e al funzionamento dei comuni, che animava l’attività di Aniasi sia dal punto di vista amministrativo, per il suo compito di guida della maggiore metropoli italiana, sia sotto il profilo politico, quale rappresentante dei comuni italiani.

Per ruolo e formazione culturale e politica, Aniasi era notoriamente un con-vinto sostenitore del tema delle autonomie locali che, dal suo punto di vista, erano la quintessenza della cultura istituzionale italiana idealmente penetrate nella storia repubblicana attraverso lotte resistenziali e principi costituzionali44.

Gli enti locali, infatti, nodo vitale dello Stato democratico, erano istituti pre-visti e tutelati dalla Costituzione che, tramite la difesa e promozione della auto-nomia, garantiva la vitalità democratica del sistema politico e sociale italiano. Negli articoli relativi alla ripartizione di funzioni, poteri e competenze (ossia dal 114 al 128), il ruolo della Regione era espressamente fissato, ma il discorso ri-sultava meno esplicito in relazione agli istituti cosiddetti minori, quali comuni e province, per cui, pur nel riconoscimento di autonomia, il dettato costituzionale

42  Ivi, pp. 20- 21.43  Cfr. La partecipazione degli enti locali e delle formazioni sociali alla programmazione regiona-le - 2-3 aprile 1976, in AFA, Am5, F2; dove affermava: «in tendenza, Milano potrà diventare non più un comprensorio gigante fatto di un comune centrale predominante, ma neppure dovrà essere un comprensorio come tutti gli altri. Dei problemi di coordinamento operativo esistono [...] potrà in tendenza diventare, l’area milanese, un comprensorio fatto con 105 comuni più il comune di Milano alla pari, il che è assurdo, né di 105 comuni più il comune di Milano che domina e accentra tutto, il che è altrettanto assurdo» (ivi, p. 58).44  Cfr. A. Aniasi, Intervento del sindaco di Milano Aldo Aniasi al Centro italiano di studi ammini-strativi (Cisa) su “Autonomie locali e Costituzione” - Milano 15 marzo 1975 - Bozza, in AFA, Am5, F2.

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aveva rimandato a successive leggi dello Stato. Lungi dal rappresentare una sot-tovalutazione, secondo il parere di Aniasi, al contrario, tale fatto si spiegava alla luce della «tradizione autonomistica italiana»:

Nessuno di noi che ha vissuto la vita degli enti locali ha mai avuto dubbi, in questi anni, che autonomia, per avere un senso nella Costituzione, dovesse significare che lo Stato – e prima ancora, la società – riconosceva come sua propria parte integrante, dotata di poteri originari che si riallocavano alle collettività locali e alle loro tradizioni di autogoverno, e cioè alla pari rispetto alla struttura centrale del governo almeno come dignità istituzionale pur con i dovuti coordinamenti, l’Ente locale45.

Era quindi chiaro, e implicitamente dato per scontato, che lo Stato come com-plesso apparato pubblico di governo della comunità nazionale, si componeva della sua parte centrale, articolata al suo interno nei vari «poteri dello Stato», e di strutture non centrali, diffuse sul territorio, e dotate di poteri decisionali e di-sponibilità finanziaria per fronteggiare le funzioni più direttamente riguardanti le collettività su di esse insediate. Allo stesso modo, era scontato che gli obiettivi sociali ed economici previsti dalla Costituzione erano prodotto del concorso di attività di autorità centrali ed enti locali.

Questo punto di vista era certamente differente da quello dei «conservatori e dei centralisti» che, individuando nel «pluralismo democratico» conseguenza del decentramento dei poteri un «pericolo», avevano rallentato, se non apertamente osteggiato, la realizzazione delle regioni e, dopo la loro formazione, ne avevano complicato l’esistenza; «no alle regioni – asseriva Aniasi sintetizzando il clima amministrativo del dopoguerra – controlli incostituzionali sugli atti degli enti lo-cali, controllo politico sulla formazione delle maggioranze, ingerenze del gover-no centrale attraverso i prefetti, controllo centralista sui bilanci e sulle disponibi-lità finanziarie, espropri dei poteri locali in materia urbanistica, accollo ai comuni di funzioni statali senza fondi corrispettivi. Questo per una ventina d’anni»46.

La vera e propria «trama antiautonomistica, chiaramente anticostituzionale»47 che aveva segnato tutto quel periodo, risultava dall’azione pervicace di un com-plesso regime di forze conservatrici in cui Aniasi iscriveva non solamente il par-tito di maggioranza relativa ma pure un’ampia parte della classe politica e so-prattutto nei ceti dirigenti del paese e dell’apparato burocratico; quest’ultimo, rappresentava un «fattore di eversione silenziosa o addirittura di “reazione”» in

45  Ivi, p. 4.46  Ivi, p. 5.47  Ibidem.

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cui il potere politico aveva trovato un ottimo alleato per mantenere intatto l’as-setto centralistico dello Stato48.

La radicata cultura che aveva segnato il periodo della ricostruzione indiriz-zando le scelte in funzione degli interessi dominanti, con l’emergere degli orien-tamenti programmatori, si era a sua volta riorientata adattando l’ottica centra-lista a discapito delle autonomie territoriali; «se pensiamo che oggi nella mente dei governanti predominano le seguenti preoccupazioni: finanza, ordine pubbli-co, schieramenti politici, investimenti pubblici, vediamo subito la convenienza dell’antiautonomismo [...] i soldi sono pochi, bisogna controllarne rigidamente l’erogazione. Il disordine sociale diffuso si controlla dal centro, mai dalla perife-ria, secondo il punto di vista dello statalista accanito»49.

Era in questo quadro che al principio del decennio emergeva il maggiore punto di crisi nel rapporto tra Stato e comuni, interpretato come un vero e proprio assalto all’autonomia dei territori e, in quanto tale, duramente contestato e combattuto.

La cosiddetta “riforma tributaria”, da lungo tempo in gestazione, era in di-scussione ormai da diversi anni e aveva visto modificati i propri orientamenti, in particolare, in seguito all’affermazione della programmazione economica.

Questa riforma, infatti, era coerentemente ideata come uno dei cardini del-le politiche economiche, in un quadro di collegamento istituzionale e ammini-strativo stringente tra riordinamento delle finanza statali, politica di piano, rior-ganizzazione dell’amministrazione statale, riallocazione di funzioni tra i livelli istituzionali, e così via. In tale scenario, l’inserimento delle regioni aveva rappre-sentato per certi versi un elemento in controtendenza rispetto all’ideale accen-tramento di coordinamento e risorse50.

Naturalmente, lungo tutto il decennio precedente, l’Anci aveva seguito con apprensione l’evoluzione di questi processi di rilievo nazionale con molteplici ricadute fino al livello comunale. Già dall’assemblea di Venezia, nel 1961, la di-scussione si era incentrata sulla politica di sviluppo, e un quinquennio dopo, nel 1966 a Salerno, si erano approfondite le prospettive della politica di piano; in questa sede, a proposito della finanza locale e pur con una cautela generalizza-ta e confidente nell’esperimento di pianificazione, l’Anci aveva posto attenzione sull’esigenza di riordinare il sistema della finanza pubblica «come via maestra per la soluzione dei problemi della finanza locale»; e, in ogni caso, aveva indi-cato nel «dialogo costruttivo» la modalità di eventuale attuazione delle innova-zioni insite nella programmazione per tutelare quale «irrinunciabile una stretta

48  Ivi, p. 6.49  Ivi, p. 8.50  Cfr. A. Aniasi, Politica finanziaria nazionale e amministrazione autonoma delle comunità locali. relazione di Aldo Aniasi Sindaco di Milano, in “Nuova rassegna”, 1972, n. 19-22, pp. 229- 253.

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connessione tra finanza locale, finanza centrale, programmazione economica, pianificazione territoriale e gestione dei servizi pubblici»51.

Dopo che nel 1967 la riforma aveva compiuto alcuni passi avanti, il Consiglio nazionale dell’Anci, riunito a Viareggio, nell’ottobre dello stesso anno aveva de-nunciato nei progetti di legge avanzati «una limitazione dei poteri e delle funzio-ni degli enti locali» e una compressione delle autonomie, per altro non avanzan-do che timidi rilievi rispetto a una già evidente «impostazione centralizzatrice»52; tali orientamenti erano stati condivisi e ribaditi ripetutamente l’anno successivo, per esempio nella ulteriore riunione a Viareggio di tutti gli assessori finanziari.

L’argomento, poi, rimasto sottotraccia nonostante le critiche espresse, tor-nava «di attualità scottante» verso la fine del 1970, alla vigilia della discussione della riforma fiscale, per poi permanere al centro del dibattito relativo agli enti locali negli anni successivi.

Già dal settembre, infatti, in diverse occasioni pubbliche ufficiali, Aniasi espri-meva preoccupazione per la «seria imminente minaccia» incombente sui comu-ni53, e in poche settimane, anche in sede di fondazione della sezione lombarda dell’Anci, i lavori si fissavano sulla riforma tributaria e le ricadute sugli enti locali, sollevando «vigorose, precise e talora drammatiche» riaffermazioni di autono-mia. In quella fase, la stessa Giunta di Milano, in appoggio alle posizioni emerse nell’Anci, definiva il progetto di legge come gravemente lesivo degli interessi dei comuni, posizione ribadita nel dicembre del 1970 quando alla vigilia della discus-sione parlamentare sul testo della riforma, l’Anci confermava il più fermo giudizio negativo e ne chiedeva la modifica in rispetto dell’articolazione autonomistica.

In coincidenza di tale picco di tensione, Aldo Aniasi diveniva uno dei punti di riferimento della vana opposizione all’imminente riforma tributaria54. All’inizio del nuovo anno, per esempio, guidava una delegazione del Consiglio comunale e dei sindaci lombardi, in visita a Roma dai Presidenti di Camera e Commissione Finanze e Tesoro, e dai capogruppo a Montecitorio, per chiarire la posizione di contrasto alla legge55. Particolarmente aspro risultava poco dopo l’incontro con

51  Ivi, p. 241.52  Ivi, p. 242.53  Cfr. 30 gennaio 1971, Saluto al convegno della Lega per le autonomie locali sulla riforma tribu-taria, in AFA, Am5, F1.54  Cfr. Dichiarazioni del Sindaco di Milano a La Stampa di Torino 2 dicembre 1970 - bozza; Ai comuni un’effettiva autonomia finanziaria, “Avanti!”, 28 agosto 1971; I sindaci di Milano e Torino sollecitano dal governo una legge per le metropoli, “La Stampa”, 11 settembre 1971; I problemi che assillano le grandi città. Un’intervista al sindaco di Milano, “La Stampa”, 28 febbraio 1971; A. Papuzzi, Le grandi città contro lo Stato?, “La Stampa”, 27 agosto 1971; V. Emiliani, Una legge non per Milano ma per l’area metropolitana, “Il Giorno”, 30 agosto 1971, in AFA, Am5, F1.55  Cfr. Intervista del Sindaco per Il Giorno, 6 febbraio 1971, in AFA, Am5, F1.

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il Ministro delle Finanze Bruno Visentini che in seguito avrebbe denunciato un «attacco dei comuni contro lo Stato»56. Certamente non meno ruvido, il Sindaco di Milano si stupiva della «parzialità» e «virulenza» di tale reazione ministeriale, e la attribuiva alla «stizza e impazienza perché alla furia realizzatrice e tecno-cratica di una politica per tanto tempo predicata», si erano frapposte richieste di cautela57. «Solo così infatti – denunciava Aniasi, che quantificava in 15 miliardi all’anno le perdite del solo Comune di Milano alla luce del nuovo sistema tribu-tario – si può parlare dei comuni alla stessa stregua di diocesi o di associazioni calcistiche, quasi i comuni fossero uno tra i tanti enti o associazioni che chiedono qualche contributo per il loro funzionamento, e che minacciano la disgregazio-ne dello Stato con le loro richieste»58.

Su quello che, dopo la riforma tributaria sarà [...] il cadavere delle autonomie locali – continuava Aniasi – un’intera classe di presuntuosi razionalizzatori capaci di sacrifi-care le tensioni sociali, la storia e le esigenze delle collettività locali alle scadenze dei modelli econometrici di astratto sviluppo, sovente d’importazione [...] metteranno in scena soddisfatti la macabra sarabanda di chi, senza aver ancora riformato strutture, competenze e procedure pubbliche, e senza aver assicurato l’individuazione e il rispet-to delle scelte e di priorità economiche, comincia con il congelare nelle casse dello Stato tutte le risorse disponibili59.

La dura posizione elaborata da Aniasi in sede Anci, in sostanza, denunciava un «vero e proprio attacco» da parte dello Stato alle autonomie dei comuni60. L’at-tacco avveniva tramite la elaborazione del progetto di riforma tributaria, sorta nel quadro della strumentazione funzionale alla realizzazione delle politiche programmatorie, e tuttavia in un momento in cui tali politiche erano fortemente messe in discussione se non addirittura tacciate di «fallimento».

Il Piano – commentava – non funzionò, ma la riforma tributaria, che tanto doveva in-teressare i comuni privandoli della autonomia, andò avanti, pur sfornita così dei suoi presupposti e dei suoi obiettivi. Tanto che viene da concludere che la classe politica di governo, ben consapevole delle caratteristiche dell’Amministrazione italiana e delle tradizioni politiche, sapesse in anticipo che il modello di piano non avrebbe funzionato [...] e che quindi, se il governo voleva riservarsi in ogni modo qualche potere di inter-

56  Ibidem.57  Cfr. Intervista Sindaco all’Espresso, febbraio 1971, in AFA, Am5, F1.58  Ibidem.59  Ibidem.60  Cfr. Aniasi, Politica finanziaria nazionale, cit., p. 245.

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vento, avrebbe dovuto farlo mettendo le mani sulle cose più governabili, cioè l’ammi-nistrazione pubblica e le risorse61.

L’accusa diretta, quindi, era quella di approfittare della riforma fiscale per det-tare norme in materia di competenze dei comuni con disposizioni deleganti sui compiti, le funzioni e l’organizzazione degli enti locali e, soprattutto, tramite la creazione di una situazione di fatto. Le norme contenute nel testo in discussione in materia di finanza comunale, infatti, prevedevano la scomparsa della auto-nomia finanziaria dei comuni confermando tutte le competenze ma contraendo fortemente le risorse connesse62.

Il testo che delegava il governo a scrivere la riforma, in transito tra Senato e Camera nel corso del 1971, infatti, istituiva nuovi tributi, quali l’imposta di reddi-to sulle persone fisiche e giuridiche, l’imposta locale sui redditi patrimoniali pro-fessionali e d’impresa, l’imposta comunale sull’incremento dei valori degli im-mobili, l’imposta sul valore aggiunto; e contestualmente, tuttavia, sopprimeva la vecchia strumentazione impositiva, in larga misura appunto delegata ai comuni, quali Ige, Icap, complementare, e le imposte di ricchezza mobile, di famiglia, sui consumi, e così via, lasciando all’ente territoriale solo alcune tasse secondarie su insegne, cani, occupazione spazi pubblici, rifiuti solidi urbani, compartecipazio-ne tasse automobilistiche.

Il provvedimento, in sintesi, sopprimeva le due maggiori fonti di entrata au-tonoma dei comuni, ossia l’imposta di famiglia e sui consumi, e ne sottraeva ad essi l’esazione, poiché i nuovi gettiti erano comunali quanto a determinazione ma prevedevano l’accertamento statale e il successivo trasferimento pro quo-ta all’ente locale. Valutando i provvedimenti, lo stesso Presidente della Regio-ne Lombardia Bassetti, aveva definito la legge in valutazione una «autentica controriforma»63.

Sotto il velo delle riforme funzionali alla programmazione economica, quindi, Aniasi indicava i tratti della tradizionale «battaglia politica centralista» che, que-sta volta, muoveva verso l’obiettivo primario del «controllo della spesa locale», ossia della limitazione di fatto dei poteri e delle autonomie comunali ottenuta tramite la sottrazione del controllo sulle entrate64.

61  Ivi, p. 236.62  Ivi, p. 237.63  Oltre a una forma di spalmatura sul primo quadriennio, si ottenne anche come contropartita alla soppressione dell’autonomia finanziaria dei comuni, una sorta di “cogestione” negli accertamenti (ivi, p. 239).64  Ivi, p. 235.

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Naturalmente, almeno dalla seconda metà degli anni Sessanta, la questione della finanza locale era divenuta un problema noto e dibattuto, in un contesto in cui il generalizzato dissesto delle casse degli enti territoriali era frequentemente posto all’ordine del giorno fra i principali problemi del paese65. L’allarme provo-cato dalla crisi dei bilanci comunali, tuttavia, aveva trovato spiegazione anche in sede di analisi pubblica specialmente, anche se non solamente, nella repen-tina evoluzione delle città che, in virtù dei citati fenomeni aveva posto in forte tensione i bilanci delle amministrazioni. Questa lettura era stata formalizzata dall’Anci e ripetutamente suffragata da dati e analisi che, pur non escludendo possibili distorsioni nella gestione delle risorse pubbliche, attribuivano le cause prevalenti del dissesto a tali motivazioni.

Nel pieno della tensione alimentata dalla discussione del disegno di legge sulla riforma tributaria, proprio Aniasi, nell’assemblea dell’Anci tenuta a Bordighera sul finire del 1971, analizzava dettagliatamente la situazione pregressa delle finanze comunali per come era stata ricostruita, su fonti pur non omogenee e nella gene-ralizzata confusione in materia, dagli assessori alle finanze nel corso degli anni.

Il punto di partenza era l’esigenza di «sdrammatizzare in gran parte, non cer-to lo stato di bisogno in cui versa[va]no gli enti locali, ma senz’altro la preoccu-pazione per il costante aumento della spesa locale» che, agli occhi dell’opinione pubblica, era sempre presentata con allarmismo e clamore attraverso cifre ag-gregate e discutibili66.

Attingendo a fonti pubbliche e autorevoli, quali dati in possesso della Pre-sidenza del Consiglio dei Ministri, diversamente, Aniasi sollecitava a disaggre-gare correttamente, e non pretestuosamente, le cifre disponibili attorno al di-savanzo dei comuni, nelle sezioni di «competenza», «cassa», «parte corrente» e «investimenti»67. Riportando alla reale natura contabile le uscite, per esempio, reinseriva nell’analisi il dato del conto capitale, e lamentava che il valore degli investimenti eseguiti continuasse ad essere computato e propagandato come spesa – «e cioè un male» – e non quale arricchimento della comunità eventual-mente ispirato dall’esigenza di soddisfacimento di bisogni crescenti68. Per dimo-strare la insussistenza, almeno in termini generalizzati, di spese immotivate o addirittura dissennate, inoltre, Aniasi raffrontava i dati di previsione e di succes-siva ed effettiva assunzione d’impegni nel campo delle opere pubbliche, eviden-

65  Ivi, p. 244; cfr. V. Colombo, Riforma tributaria ed enti locali: un primo tentativo di interpretazione, “Città e società”, 1971, n. 3.66  Aniasi, Politica finanziaria nazionale, cit., p. 230.67  Con riferimento all’ultimo anno accertato, quindi, Aniasi ridimensionava il disavanzo in parte corrente per i comuni in 285 miliardi (nella differenza tra pagamenti e riscossioni). Ivi, p. 230.68  Riteneva che, secondo i dati Istat per lo stesso anno, le entrate superassero le uscite producendo un avanzo di oltre 400 miliardi (rapporto impegni-accertamenti). Ivi, p. 231.

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ziando un differenziale superiore al 50%, che mostrava la frequente dismissione di progetti già assunti per soddisfare reale fabbisogno.

In ogni caso, constatando che il tasso di indebitamento degli enti locali (per far fronte a disavanzi propri o delle municipalizzate, e a investimenti in conto capitale) in genere era decisamente alto, e in parte sproporzionato alla reale sostenibilità, Aniasi quantificava tale ammontare, al 1970, in 4.590 miliardi (com-prese le province), e non negli 8000 miliardi, di cui «sovente si parlava con cla-more», che invece costituivano l’indebitamento complessivo di tutti gli enti ter-ritoriali per le più varie cause (non solo quindi per la copertura dei disavanzi)69.

Ridimensionati i dati agitati per sostenere quella che Aniasi considerava una guerra alle autonomie locali, poi, il Sindaco proseguiva nel disaggregare le di-mensioni del disavanzo (di parte corrente), dimostrando che meno della metà ri-guardava i comuni superiori ai 500mila abitanti, ossia i comuni di Roma, Milano, Torino, Genova, Napoli e Palermo, e che le perdite delle municipalizzate costi-tuivano oltre un terzo sul disavanzo di tutti i comuni e oltre il 90% del disavanzo dei maggiori comuni, dove si erano decuplicate nel decennio 1960-1969.

Il disavanzo delle grandi città, in sostanza, nella tesi di Aniasi era riferibile pressoché esclusivamente alla esigenza di somministrare servizi pubblici che certamente potevano comportare un tasso variabile di inefficienza e sprechi, ma agivano in contesti in cui i mutamenti di natura sociale ed economica avevano comportato una forte pressione che solamente l’ente di prossimità aveva avuto facoltà di affrontare, spesso in solitudine70. Anche perché, proseguiva il Presiden-te, al 1970 l’amministrazione centrale presentava un avanzo di parte corrente di 578 miliardi, le regioni di 245 miliardi e gli enti di previdenza di 122 miliardi:

A questo punto, davanti ai dati così ridimensionati (metà del disavanzo corrente ha cause ben specifiche e circoscritte, in buona parte dovuto al servizio pubblico di tra-sporto nelle grandi città; i disavanzi sono calcolati su impegni e accertamenti, dati in parte teorici; i debiti sono considerati come patologici anche quando, per circa la metà del totale, non servono a coprire i disavanzi ma a fare altre cose; le spese in conto capi-tale previste e impegnate restano spesso irrealizzate; l’indebitamento vuol dire anche capacità di indebitamento, cioè un dato positivo; il valore delle opere costruite non vie-ne mai messo nel conto positivo; le spese dei comuni comprendono anche forti somme erogate allo Stato o impiegate per opere attinenti a funzioni di competenza statale), viene da chiedersi come mai si continui a parlare della necessità di risanamento della finanza locale quando in realtà [...] si potrebbe al massimo parlare di una sistemazione contabile diversa di una spesa che è comunque pubblica e che ha le sue ragioni71.

69  Ivi, p. 232; P. Giarda, Finanza locale: gli errori del Libro Bianco, “Economia Pubblica”, 1/1971.70  Ivi, p. 233.71  Ibidem.

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La tesi era chiara, quindi: non esisteva per definizione una finanza sana, quella centrale, e una finanza disorganizzata, quella locale; ma imperfette allocazioni di competenze e di relative risorse tra livelli istituzionali. E, dal momento che le spese sostenute dai comuni erano finalizzate al bisogno dei cittadini, se non le avessero sostenute i comuni (e al netto di sprechi comunque non contabilizzati), i disavanzi sarebbero saliti a carico di Stato e regioni, poiché, del resto, le «cause sociali» che avevano contribuito ad incrementare le spese degli enti locali erano ben note e studiate72.

L’aura vessatoria che Aniasi rilevava nei confronti delle autonomie locali, e constatava nei vari provvedimenti in definizione, costituiva una vera e propria guerra tra centro e periferia della Repubblica per il controllo della facoltà di spe-sa attraverso «ampie contrattazioni e concerti politici che poco si discosta[va]no dalla tradizione politica degli anni precedenti»73.

A fronte di queste analisi, in conclusione, ovviamente i comuni chiedevano che i tributi sostituiti a quelli soppressi rimanessero sul territorio; che l’accer-tamento e la gestione di quelli condivisi con lo Stato avvenisse in concorso e con pari poteri; soprattutto, che la destinazione delle quote spettanti ai comuni avvenisse immediatamente e senza passare da Roma; infine, l’Anci auspicava la promulgazione di precise norme relative al risanamento dei deficit, ad interessi sui mutui pubblici, e così via.

L’approdo cui si perveniva dopo una generalizzata mobilitazione e diversi incontri istituzionali negoziali, tuttavia, era di tutt’altro tipo e non fermava la eliminazione dell’autonomia finanziaria, poiché la riforma proseguiva, sebbene rinviando di quattro anni l’attuazione dei provvedimenti di interesse comunale, congelando le entrate ai livelli del 1971, e assicurando una futura cogestione degli accertamenti74. I «magri risultati», a parere di Aniasi, non erano stati frut-to della «scarsa combattività» dell’Anci, quanto della «pervicacia ministeriale e parlamentare» nel perseguire una riforma che costituiva il punto più alto del disegno centralistico75.

L’evoluzione di tali decisioni e il progressivo peggioramento dello scenario descritto, dalla primavera 1974 acutizzavano la crisi della finanza locale, mette-vano in stato di agitazione le amministrazioni comunali, e diffondevano la discus-sione su questi problemi ben oltre la ristretta cerchia degli amministratori loca-

72  Ivi, p. 235; Cnel, IV Rapporto sulla situazione sociale del paese, Milano, Censis, 1971.73  Ibidem; G. Mazzocchi, I rapporti economici e finanziari tra i diversi livelli di governo, in La riforma fiscale in Italia, Milano, Franco Angeli, 1967.74  Ivi, p. 243; con successiva legge del 1972 gli effetti slittavano dal 1975 al 1977.75  Cfr. Aldo Aniasi, “La riforma tributaria ed i suoi riflessi sull’azione amministrativa e sociale e sull’autonomia dei comuni”, conferenza al Cisa, giugno 1973, in AFA, Am5, F1.

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li76. In quel momento, infatti, cominciavano a combinarsi gli effetti della riforma tributaria e delle scelte di politica economica conseguenti al manifestarsi della crisi degli anni Settanta77. La prima, oltre ad avere spogliato i comuni dell’auto-nomia finanziaria, aveva congelato le entrate di competenza, scollegandole da aumento di popolazione, spese, capacità contributiva locale, costo del denaro, costi per opere e servizi, e così via; evidentemente, poi, i comuni erano tutt’altro che soddisfatti del tempismo con cui l’amministrazione centrale faceva fronte alle entrate compensative delle soppresse entrate tributarie autonome. Le po-litiche economiche restrittive, inoltre, giungevano a privare gli enti dell’ultima possibilità che avevano in caso di insolvenza dello Stato nei pagamenti; l’acces-so al credito, infatti, era impedito perché gli enti locali non potevano più offrire garanzie proprie ma solo crediti statali; in altre parole, non potevano «offrire in ipoteca altro che i bisogni delle loro popolazioni»78.

Il «serio allarme» riguardava in prima persona Aniasi, in questa fase molto attivo su tale fronte, e le conseguenze della situazione colpivano direttamen-te l’Amministrazione milanese che nel corso di aprile del 1974 denunciava con energia e ripetutamente il «mancato rispetto dei patti» da parte della Banca d’Italia che, improvvisamente, negava un ingente prestito già autorizzato dal Mi-nistero dell’Interno, dal Ministero del Tesoro e dalla stessa Banca d’Italia, e in attesa solamente di prezzo e data di emissione79.

In conseguenza dei disagi denunciati per anni dagli enti locali, e ora aggra-vati, in quel periodo si costituiva addirittura un comitato d’intesa tra gli enti lo-cali di tutti i livelli, un «fronte unico delle autonomie», per promuovere soluzioni alla situazione denunciata come drammatica. Il Comitato fissava per il 18 otto-bre una manifestazione delle autonomie locali convocata a Roma in piazza del Campidoglio, manifestazione che però l’insorgere di una crisi di governo sugge-riva in seguito di modificare con l’indire, sul finire dell’anno, una «giornata delle autonomie locali»; nel corso di quest’ultima i consigli degli enti locali riuniti in sedute pubbliche approvavano documenti comuni, illustrando all’opinione pub-blica ed al governo proposte sullo sviluppo locale e delle autonomie80.

76  Cfr. Intervento di apertura del Sindaco di Milano all’incontro di sindaci della provincia - lunedì 15 luglio 1974 sulle finanze locali, in AFA, Am5, F1.77  Ivi, p. 2; cfr. G.T., Aldo Aniasi: e intanto i comuni muoiono di debiti, “L’Espresso”, 2 giugno 1974.78  Cfr. Intervento di apertura del Sindaco di Milano, cit., p. 4; Consegnato a Panin del Corriere d’in-formazione il 9 novembre 1974, in AFA, Am5, F1.79  Cfr. Intervista per Corriere della sera - bozza - 8 aprile 1974; Panorama 30 aprile 1974, in AFA, Am5, F1.80  Cfr. Intervento del Sindaco di Milano Aldo Aniasi in Consiglio comunale per la “giornata delle autonomie”, il 12 novembre 1974, in AFA, Am5, F1, pp. 1 e 7.

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Governare insieme: autonomie e partecipazione76

Oltre a chiedere una ulteriore riforma della finanza locale, il consolidamento del debito, il ripianamento dei disavanzi e il riavvio di anticipazioni bancarie, in queste sedi si formulavano richieste aggiuntive a carattere immediato quali l’assicurazione circa il finanziamento dei maggiori oneri delle opere in corso di esecuzione o appaltate; il coordinamento tra enti locali della stessa provincia per opere indispensabili nei campi di sanità e istruzione; si avanzava, inoltre, la minaccia di sospensione dei servizi che i comuni prestavano in vece dello Stato, e che, solo a Milano, ammontavano a oltre 70 miliardi di lire annui81.

La situazione, del resto, non era destinata a mutare e mentre le entrate erano ferme ai livelli del 1973, le spese affrontate dai comuni nelle condizioni di crisi de-scritte e nella generalizzata confusione gestionale, crescevano «in modo sfrena-to» provocando un impressionante incremento dei debiti complessivamente saliti a 18mila miliardi nel 1974, a 25mila miliardi nel 1976, fino a lambire i 44mila mi-liardi nelle previsioni per il 197782. In questa situazione, denunciava Aniasi, «ogni amministrazione si era arrangiata come aveva potuto [...] costretta a fare debiti per rimborsare quelli precedenti»83; e questi dati, indicati come segno di malage-stione e sperpero, erano in realtà «indice di una situazione insostenibile»84.

La situazione, peraltro, non era in seguito destinata a mutare e diveniva il segno di una nuova normalità in un processo di progressivo adattamento alle condizioni date. Assenza di fondi, sovrapposizioni con le regioni, sofferenza bu-rocratica della pubblica amministrazione, immobilismo, inefficienza, peggiora-mento costante delle finanze sia dei comuni di piccole dimensioni sia di quelli maggiori, infatti, divenivano la norma; e lo «stato disastroso dell’apparato dello Stato e delle pubbliche amministrazioni pone[va] agli amministratori locali tutti – agli occhi di Aniasi – una grande responsabilità [...] di creare un’alternativa alla situazione d’una prassi di continui rinvii»85.

Un elemento di discontinuità, infine, o per lo meno l’irrompere di avvenimen-ti che potevano contribuire a modificare gli assetti fortemente penalizzanti ai danni dei comuni, nella visione di Aniasi pareva giungere con le elezioni ammi-nistrative del 15-16 giugno 1975. Queste, infatti, costituivano una rilevante affer-mazione del Partito comunista e del Partito socialista, e parevano rappresentare un segnale dei forti cambiamento strutturali avvenuti nel paese, testimoniati

81  Cfr. Intervento di apertura del Sindaco di Milano, cit.82  Cfr. G.T., Aldo Aniasi: e intanto i comuni muoiono di debiti, “L’Espresso”, 2 giugno 1974; Le tasse dei comuni - “Stampa Sera” - 10 aprile 1976, in AFA, Am5, F1.83  Cfr. G.T., Aldo Aniasi: e intanto i comuni muoiono di debiti, cit.84  Cfr. Le tasse dei comuni - “Stampa Sera” - 10 aprile 1976, in AFA, Am5, F1.85  Cfr. Saluto del Sindaco di Milano al convegno nazionale della Lega delle autonomie e dei poteri locali, Milano, venerdi 9 aprile 1976, in AFA, Am5, F2, p. 2.

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dalla formazione della prima giunta di sinistra a Milano86. Da quel momento il 60% della popolazione italiana era retta da amministrazioni di sinistra, e Aniasi riteneva necessaria e conseguente la riaffermazione del valore delle autonomie concepite come una realtà istituzionale e politica «dotata di segno altamente progressivo»; la forza che derivava agli enti locali dal rappresentare valori di segno politico differente tra loro e da quello che a lungo aveva diretto lo Sta-to, favoriva un momento «esaltante» per le autonomie che dovevano diventare punto di riferimento per le «masse popolari» e il «mondo del lavoro», in grado di assorbire e rappresentare le istanze derivanti dai settori in sofferenza nella società italiana.

Queste sfide aprivano per Aniasi una fase nuova, sul piano politico e istituzio-nale, fase di potenziale rilancio autonomistico che trovava nella «partecipazio-ne» lo strumento principale. Questa era concepita come un atteggiamento nuo-vo da parte delle istituzioni locali e delle loro strutture, che dovevano mostrarsi in grado di instaurare un rapporto continuativo e non burocratico con le istanze sociali, ossia con i cittadini, per i comuni, e con i livelli istituzionali sottoposti, nel caso di province e regioni.

In questa fase, quindi, si assisteva all’ulteriore evoluzione dei rapporti tra comuni e regioni; fino a quel momento, infatti, nel periodo di creazione e poi durante il percorso realizzazione della regionalizzazione, Aniasi da rappresen-tante dell’Anci, aveva sempre anteposto l’esigenza di sostenere l’affermazione del nuovo ente in una logica di alleanza territoriale nei confronti dello Stato e di difesa dalle minacce di spogliazione che ne venivano nei confronti dei territori. In seguito, pur con il ribadire un convinto sostegno, crescevano pure ferme richieste di tutela delle autonomie minori, insidiate da procedure di pianificazione, sistema dei controlli, e dalla strisciante gerarchia di fatto tra regioni, province e comuni.

Nel volgere di alcuni anni, infatti, nonostante l’antipatia da parte dello Stato e la diffidenza che ne aveva accompagnato il sorgere, la Regione diveniva «cardi-ne» del sistema delle autonomie locali e perno per il riordino dell’intero sistema di poteri pubblici87. In assenza di indirizzi precisi e non contradditori da parte dello Stato, l’attivismo su base locale aveva favorito il manifestarsi di un «plura-lismo normativo» e di una differenziazione tra le varie regioni che non avevano contribuito alla razionalizzazione del sistema pubblico88.

86  Cfr. E. Landoni, Il comune riformista. Le giunte di sinistra al governo di Milano, 1975/1985, Mila-no, Mb, 2005, pp. 22 e sg.87  Cfr. Lezione del Sindaco di Milano A. Aniasi al Cisa su: l’ente regione: rapporto con i comuni e le province, comprensori e consorzi - bozza - 7 aprile 1976, in AFA, Am5, F2, p. 9.88  Ivi, p. 4.

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L’affermazione di tale livello istituzionale, di conseguenza, specialmente per i comuni non aveva conseguito solo risultati positivi; i neocostituiti enti, con il loro nuovo ceto politico, infatti, trovando difficoltà a ritagliarsi spazi di manovra nell’ambito dei poteri istituzionali loro spettanti, a causa dell’ostilità dell’ammi-nistrazione centrale, avevano finito per erodere funzioni a danno di enti dotati di minore capacità di resistenza. Le regioni, inoltre, dotate di scarse risorse e personale, in un quadro normativo incerto, avevano delegato alle province una serie di attività sovracomunali, avallando una sovraordinazione di questo ente ai comuni senza che fossero chiariti i confini dei rispettivi rapporti89.

Oltreché in materie specifiche, quali governo del territorio e trasporti, gli at-triti si erano verificati, per esempio, nel corso dell’elaborazione dei cosiddetti “comprensori”, organismi sovracomunali che, rischiando di inserirsi quale livello ulteriore, con poteri reali dubbi e difficoltà di coordinamento con le partizioni territoriali orizzontali esistenti (bacini di traffico, consorzi, comunità montane, e così via), suscitavano avversione nelle province e nei comuni90.

Tensioni tra regione e comuni, in particolare quelli di maggiori dimensioni, poi, si manifestavano sul tema della cosiddetta “consultazione” degli enti locali che nei primi anni di vita del nuovo ente aveva registrato tentativi «poco brillan-ti», e un bilancio «certamente non positivo»91.

Le carenze della programmazione regionale, e il suo frazionamento per sfere amministrative (sanità, istruzione, e così via), derivato dalla logica delle funzio-ni statali e ministeriali92, aveva reso episodico e frammentario il coinvolgimen-to degli enti territoriali nella elaborazione delle politiche regionali, il più delle volte riducendo tali processi a momenti meramente informativi, e soprattutto posteriori alla definizione dei provvedimenti adottati. Per Aniasi, viceversa, la «consultazione», erroneamente intesa come noioso intralcio alle procedure e al potere degli amministratori regionali, doveva avere vieppiù il senso della «parte-cipazione» alle varie decisioni di cittadini, forze politiche e sociali, e soprattutto enti locali, come previsto in diversi articoli dello statuto regionale che toglieva-

89  A suo dire, le regioni, cominciando a legiferare in materie rilevanti quali l’urbanistica, nel qua-dro normativo incerto, affrontavano in modo separato e scollegato questioni che invece andavano affrontate in modo organico (piano territoriale regionale, legge urbanistica, circoscrizioni ammi-nistrative subregionali per settore, comprensori, bacini di traffico), sempre a discapito dei comuni (ivi, p. 6).90  Legge regionale, n. 52, 15 aprile 1975 (“Disposizioni sugli ambiti territoriali comprensoriali”).91  Cfr. La partecipazione degli enti locali e delle formazioni sociali alla programmazione regiona-le, 2-3 aprile 1976, in AFA, Am5, F2, p. 51.92  Ivi, p. 55.

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no ogni spazio per i «nemici del decentramento come pratica di governo o per gli avversari della partecipazione dei cittadini»93.

La partecipazione dei comuni, e specialmente delle aree metropolitane e fra queste in particolare della “grande Milano”, secondo tale visione doveva tradur-si in meccanismi ben più pregnanti della semplice consultazione, e realizzarsi tramite decentramento di decisioni e delega di funzioni94. A loro volta, i comuni dovevano interpretare il mutamento dei tempi ampliando la partecipazione ver-so la propria base sociale, ossia i cittadini, precipuamente, secondo la visione di Aniasi, tramite lo strumento dei consigli di zona95.

A Milano, l’esperimento dei consigli di zona era sorto nel 1968-69 dall’evolu-zione dei vecchi “comitati di quartiere”; questi, nominati dal Consiglio comunale, avevano supportato richieste di pareri, consultazioni dei quartieri, raccolta di segnalazioni e proteste, attuando una partecipazione informale ampliata poi in senso più stringente per alcuni atti e delibere di particolare interesse per il ter-ritorio, quali le varianti al piano regolatore96. In seguito, interventi legislativi di livello nazionale che tra l’altro aprivano alla elezione diretta dei consiglieri di zona, attribuivano ai comuni interessati la possibilità di emanare appositi rego-lamenti per decentrare alle zone poteri deliberativi su specifiche tematiche di loro interesse97.

Questa facoltà di aprire alla diretta partecipazione nei quartieri, per giunta tramite l’elezione diretta dei cittadini, per Aniasi costituiva un «nuovo modo di governare la città» che richiedeva nuove strutture e culture direzionali, e proce-dure che assicurassero un rapporto sistematico e dialettico con associazioni, co-mitati, organismi politici periferici, organizzazioni scolastiche, e singoli cittadini.

Attraverso i controversi passaggi che portavano all’impostazione e al funzio-namento di tali nuove strutture, che avevano un momento di accelerazione alla

93  Agli articoli 45, 46, 53 dello Statuto regionale.94  La partecipazione degli enti locali e delle formazioni sociali alla programmazione regionale, cit., p. 52.95  Cfr. Saluto del Sindaco di Milano Aldo Aniasi all’incontro con i consiglieri di zona: “linee di svilup-po e misure concrete per attuare il decentramento” - Milano, venerdì 2 aprile 1976, in AFA, Am5, F2.96  Ivi, p. 4.97  Il 17 marzo 1976 il Senato approvava un ddl sul decentramento che prevedeva: l’elezione diretta dei consiglieri di zona per città sopra i 40 mila abitanti che volessero attuare il decentramento; la possibilità per il Comune di approntare apposito regolamento – secondo una potestà statutaria riconosciuta al Comune come ente autonomo – di attribuire ai consigli di zona poteri deliberativi relativi (dall’art. 13 del progetto di legge) a «materie attinenti ai lavori pubblici e servizi comunali che si svolgono nelle rispettive zone» in particolare sull’urbanizzazione, e servizi quali sanità, assi-stenza, scuola, cultura, sport, ricreazione (ivi, p. 5).

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vigilia delle elezioni del 1975, e poi nel corso dell’anno successivo98, il Sindaco intendeva realizzare effettive deleghe di potere decisionale e diffusione di infor-mazioni, promuovendo tramite il superamento di una mentalità gerarchica e del metodo accentrato un’«esperienza profondamente innovativa di trasformazione del governo» da cui attendeva un rapporto vivificato tra amministrazione comu-nale e città99.

L’attuazione del decentramento e la riorganizzazione delle strutture burocratiche co-munali – asseriva il Sindaco – sono in realtà due aspetti di un unico problema: crea-re un governo urbano nel quale le decisioni rispecchino un processo di maturazione collettiva e democratica interpretando le aspettative e le esigenze dei cittadini [...] la democrazia non è un gioco. È sostanza della vita politica, e qualunque forma di am-pliamento della rappresentanza, di cosciente diffusione della delega politica, di avvi-cinamento del potere di decidere alla situazione locale, è realizzazione più compiuta della stessa democrazia rappresentativa100.

In questa sintesi, infine, risiedeva il punto di vista di Aniasi sulla fase di trasfor-mazione che l’organizzazione della Repubblica stava subendo in quegli anni per i processi di riordino avviati dalle forze politiche e per gli effetti dei mutamenti politici e sociali in corso101. In questa temperie, un punto di vista progressista e autonomista doveva assecondare le spinte provenienti dalla società e dai citta-dini, senza i timori di perdita di potere, funzioni e risorse propri di visioni centrali-stiche. A tal fine, auspicava si potesse discutere «spregiudicatamente» i problemi di aggiornamento della carta amministrativa italiana non solamente riguardo a prerogative e risorse, ma pure alla ristrutturazione dei livelli istituzionali e del numero di enti, una sorta di «tabù» politico e amministrativo:

non dovrebbe essere considerato strano o impolitico – asseriva Aniasi – che ci si chieda, alla luce di quelli che sono oggi gli insediamenti reali della popolazione italiana, se il numero, l’estensione, i poteri e le capacità dei diversi comuni sono adeguati alla realtà, se occorre fare norme diverse per tipi di comuni diversi, se occorre disporre per i casi di maggiori agglomerazioni urbane di qualche forma specifica di governo locale, se la programmazione economica e territoriale regionale abbisogna di forme di aggrega-zione dei comuni, se le forme oggi disponibili per legge sono adeguate, se il numero di

98  Anno in cui si avviava il dibattito sul quadro regolamentare alla luce della legislazione naziona-le (l. 278, 8 aprile 1976; cfr. Emanuelli, Accadde a Milano, cit., p. 229; Landoni, Il comune riformista, cit., pp. 51 sg.99  Cfr. Saluto del Sindaco di Milano Aldo Aniasi all’incontro con i consiglieri di zona, cit., p. 3.100  Ivi, pp. 3 e 9.101  Cfr. A. Aniasi, Intervento del Sindaco di Milano Aldo Aniasi al Centro italiano di studi ammini-strativi (Cisa) su “Autonomie locali e Costituzione” - Milano 15 marzo 1975 - Bozza, in AFA, Am5, F2.

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livelli di effettivo governo locale è quello giusto [...] un aperto dibattito politico e una franca ricognizione della situazione sono indispensabili102.

Per queste analisi, alla luce della palese disfunzionalità della pubblica ammi-nistrazione, si doveva muovere «dalla crisi dello Stato al suo rimodellamento», ovviamente valorizzando le «forme nuove di democrazia e di gestione locale e settoriale» emerse specialmente nei comuni, vero punto di connessione tra pub-blica amministrazione e istanze dei cittadini.

Qui terminava il ragionamento di Aniasi, che ne aveva ispirato la permanenza a Palazzo Marino e l’attività a favore della città, e individuava il punto di forza di «tutto il discorso innovativo sulle autonomie», proprio nella partecipazione dei cittadini al rinnovamento, dal basso, delle sclerotiche strutture dello Stato: «un modo nuovo e diverso di presentarsi delle autonomie nel loro complesso». Così concludeva il Sindaco:

La vita economica del nostro paese, a trenta anni dalla Resistenza, è oggi tante volte stanca, disfatta, ridotta a routine o rinchiusa in pratiche politiche e amministrative so-vente indecorose. E non era a caso che i giovani e le masse popolari e i lavoratori in questi ultimi anni chiedevano allo Stato e ai partiti un soffio nuovo di vitalità democra-tica, un modo nuovo di governare [...] tutti gli spunti di nuova partecipazione, di nuova democrazia, di varietà di forme di autogoverno anche parziale, [possono] battere for-se chi vuole conservare, reprimere, ridurre, addormentare, mantenere ormai superati meccanismi di formazione della volontà politica103.

102  Ibidem.103  Ibidem. Ovviamente l’impegno di Aniasi su questi temi proseguiva negli incarichi governativi ricoperti negli anni successivi; quanto alla crisi degli enti locali, il superamento dell’«emergenza economica» si aveva dal 1977 attraverso provvedimenti annuali tesi al risanamento della finanza locale oberata dall’ormai insostenibile situazione debitoria. Questi comportavano essenzialmente il trasferimento dei debiti a carico del bilancio dello Stato, e alimentavano sperequazioni tra gli enti virtuosi, che nella fase precedente avevano qualificato la spesa pubblica, e gli enti «grandi spenditori» (cfr. Rapporto 1982 sullo Stato delle autonomie del Ministro per gli Affari Regionali Aldo Aniasi, Roma 1982, pp. 148 sg.).

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Governare insieme: autonomie e partecipazione Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento

A cura di Fiorella Imprenti e Francesco SamorèRoma (BraDypUS) 2017

ISBN 978-88-98392-66-7p. 83-116

Aldo Aniasi venne chiamato a ricoprire l’incarico di Ministro della Sanità nel se-condo governo Cossiga (5.4.1980-18.10.1980) e nel governo Forlani (18.10.1980-28.6.1981)1. In tale veste, si era trovato a gestire la complessa fase di attuazione della legge di Riforma sanitaria (L. 833/1978) che aveva introdotto il Servizio sanitario nazionale. Nel corso di un’intervista realizzata per “Sanità/Telex”, l’8 aprile del 1980, tre giorni dopo la sua nomina, il ministro stesso ne sottolineava inadempienze e criticità:

L’immagine della riforma risulta ancora quella della legge quadro da riempire di conte-nuti, da rendere operativa con il varo di adempimenti ancora sulla carta e la cui mancata attuazione oltre a determinare sfiducia negli assistiti ha offerto a iosa argomenti ai ne-mici della riforma. Le responsabilità per i ritardi e le inadempienze non possono essere ricercate in una sola direzione. Se il governo non ha infatti presentato in tempo il piano sanitario nazionale azzerando di fatto ogni possibilità di programmazione sanitaria a livello locale, è altrettanto vero che un lotto di regioni non ha risposto adeguatamente rispetto agli impegni fissati, alimentando così gli indici di malcontento sui quali prospera ogni forma di privatizzazione dell’assistenza. Sull’agenda delle scadenze da affrontare quella il cui pieno riscontro potrà far fare il salto di qualità all’assistenza pubblica è legata alla prevenzione. In sostanza, come hanno soprattutto posto in risalto i convegni del Psi, che è stato tra le forze trainanti della riforma, l’avvio del nuovo servizio sanitario

1  Il ministro Aniasi presentò, come primo firmatario, 10 disegni di legge, tra i quali: “Conversione in legge del decreto-legge 28 febbraio 1981, n. 37, recante misure urgenti in materia di assistenza sanitaria” (2 marzo 1981); “Abrogazione dell’obbligo della vaccinazione antivaiolosa” (25 marzo 1981); “Conversione in legge del decreto-legge 28 maggio 1981, n. 247, concernente il blocco degli organici delle Unità sanitarie” (30 maggio 1981); “Conversione in legge del decreto-legge 29 maggio 1981, n. 252, concernente le prestazioni di cura erogate dal Servizio sanitario nazionale” (30 maggio 1981); e, ancora, la “Conversione in legge del decreto legge 28 maggio 1981, concernente la parte-cipazione degli assistiti alla spesa per l’assistenza farmaceutica”.

Educazione sanitaria, prevenzione e decentramento. Aldo Aniasi ministro della Sanità (1980-1981)ROBERTA CAIROLI

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nazionale deve arrivare finalmente a privilegiare la lotta al rischio piuttosto che conti-nuare a limitarsi, come sta ancora verificandosi, a curare il danno2.

Per Aniasi cogliere la portata e l’importanza della posta in gioco significava compiere un primo e significativo passo. Oltre al dato politico generale, l’attua-zione della riforma sanitaria veniva ad incidere profondamente su due versanti. Il primo rappresentato dall’ambito strettamente sociale, poiché «l’esito di tale processo sarà frutto in buona misura della capacità di coinvolgere, in un ruolo di protagonisti, gli operatori e gli utenti»3. Gli era chiaro che “il diritto alla salute” dei cittadini si legava a doppio filo con le modalità organizzative del Servizio sanitario nazionale, in modo tale che «i caratteri e il funzionamento di questo disegneranno la misura del diritto (alla salute) e alla libertà di quelli»4. A ciò si aggiungeva il richiamo di Aniasi alla partecipazione e al suo primo ineliminabile presupposto, il diritto all’informazione, senza le quali il nuovo sistema sarebbe stato privo «oltre che di legittimità e di consenso, della forza di affrontare i suoi problemi anche più specifici»5.

L’ordinamento istituzionale, e le sue «profonde modificazioni qualitative», rappresentava l’altro versante, «non c’è livello, centrale o locale, regionale o co-munale, che non sia direttamente coinvolto»6. Ne erano la prova la riforma del Ministero della Sanità prevista dalla legge e soprattutto il processo di costituzio-ne delle Unità sanitarie locali (Usl). L’articolazione di base del Servizio sanitario doveva poggiare sugli enti territoriali come elemento decisivo per la gestione democratica di tutto il servizio7. Pertanto, le fasi di avvio delle Usl, la loro rego-lamentazione, la definizione del corrispondente ambito territoriale, la disciplina dei loro rapporti con i comuni o con la collettività avrebbero innescato dinamiche che per il ministro andavano al di là dello specifico settore sanitario finendo per incidere in modo determinante sul processo di riordino dei poteri locali: «l’attua-zione della riforma sanitaria è una parte della riforma del governo locale»8. Ai

2  Garantire una vera assistenza sanitaria, in “Sanità/telex”, 8 aprile 1980, in Archivio Fondazione Aniasi (d’ora in poi AFA), Fondo Ministero della Sanità (MS), 1980-1981, Riforma sanitaria, b. 1, fasc. 1.3  Il sistema democratico alla prova: l’attuazione della riforma sanitaria, Relazione di Aldo Aniasi, agosto 1980, in AFA, MS, 1980-1981, Riforma sanitaria, b. 1, fasc. 1. 4  Ibid.5  Ibid.6  Ibid.7  Cfr. Alessandro Seppilli, Maurizio Mori, Maria Antonia Modolo, Significato di una riforma. Moti-vazioni e finalità della riforma sanitaria, Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, 1976, in particolare pp. 53-64.8  Il sistema democratico alla prova: l’attuazione della riforma sanitaria, agosto 1980 in AFA, MS, 1980-1981, Riforma sanitaria, b. 1, fasc. 1.

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Roberta Cairoli, Educazione sanitaria, prevenzione e decentramento. Aldo Aniasi ministro della Sanità 85

ritardi nell’attuazione della riforma sanitaria andava in parte attribuita, secondo Aniasi, anche la difficoltà di mettere a punto un’efficace strategia di intervento in materia di tossicodipendenza, che costituiva tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, un fenomeno sociale di estrema gravità. In una relazione tenuta alla Commissione Igiene e Sanità della Camera dei Deputati, come vedremo, ana-lizzava la complessa problematicità relativa al fenomeno dell’abuso farmaco-logico, evidenziando le responsabilità a livello sia centrale che periferico per la mancata adozione di misure idonee ad affrontarlo, e indicava le principali diret-trici programmatiche che avrebbe seguito il suo ministero: revisione della Legge n. 685 del 19759 – in particolare per quanto riguardava il concetto di modica dose, i provvedimenti a carico dei piccoli spacciatori consumatori, l’inserimento degli interventi assistenziali nel quadro del Servizio sanitario nazionale –; adeguamen-to dei decreti ministeriali per la regolamentazione dei trattamenti con farmaci sostitutivi; depenalizzazione delle droghe leggere; azioni di educazione sanitaria, promozione di interventi di riabilitazione e reinserimento sociale; norme per la cura dei tossicodipendenti detenuti e formazione professionale10. I provvedimenti adottati da Aniasi incontrarono l’ostilità di una parte dell’opinione pubblica, so-prattutto in merito alla depenalizzazione delle droghe leggere e alla sommini-strazione controllata di metadone, sulla base di una campagna di stampa «dai toni scandalistici» che Aniasi non esitò a definire «infamante» – i giornali finirono per battezzarlo “ministro della droga”11 – e «costruita tutta su una nozione superficiale e approssimativa quando non addirittura sulla assoluta ignoranza dei problemi»12. Gli anni del suo ministero furono, inoltre, segnati, dalla battaglia sul referendum abrogativo della Legge 19413, nel corso della quale non gli furono risparmiati duri

9  Legge 22 dicembre 1975, n. 685, Disciplina dei stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.10  Relazione del ministro Aldo Aniasi alla Commissione Igiene e Sanità della Camera, 3 luglio 1980, in AFA, MS, 1980-1981, Dipendenze, b. 2, fasc. 2.11  Per citare alcuni articoli tra i tanti: Si vuole che il drogato non possa più guarire, in “Avvenire”, 9 luglio 1980; Aniasi criticato in Commissione per le proposte sugli stupefacenti, in “Il Tempo”, 11 luglio 1980; Reazioni alle proposte di liberalizzare la droga, in “L’Osservatore romano”, 12 luglio 1980; Inaccettabile la proposta di Aniasi, in “Avvenire”, 16 luglio 1980; Droga. Acceso dibattito. La DC attacca le proposte Aniasi, in “Il Messaggero”, 16 luglio 1980; Aniasi: sono contro la droga, non voglio lo spinello libero, in “Corriere della Sera”, 17 luglio 1980; Guai a chi fuma lo spinello. La de-mocristiana Tina Anselmi contro Aniasi, in “La Repubblica”, 18 luglio 1980; Aniasi lei non sa quello che dice, in “Gente”, 18 luglio 1980; Lo spinello del compagno, in “Il Borghese”, 20 luglio 1980; Arti-colo DC: spinello libero? Ci mancherebbe altro, in “Il Giorno”, 26 luglio 1980; Spinello libero significa libertà per gli spacciatori, “Il Tempo”, 6 agosto 1980.12  Replica del ministro Aniasi alla Commissione Igiene e Sanità della Camera, 24 settembre 1980, in AFA, MS, 1980-1981, Dipendenze, b. 2, fasc. 2.13  Legge 22 maggio 1978, n. 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza.

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attacchi dalle forze politiche e dalla stampa più conservatrice14. Il referendum pre-sentava due richieste opposte: i radicali richiedevano un ulteriore ampliamento della legge 194, per esempio eliminando la condanna a tre anni di reclusione per chi abortiva o faceva abortire dopo i 90 giorni di gravidanza, o il divieto di aborto per le minorenni. Il Movimento per la Vita mirava, invece, ad una restrizione, fa-cendo abrogare altre parti di legge per rendere l’aborto meno praticabile15.

Mi auguro – dichiarava Aniasi – che le donne sappiano difendere la legge 194. Se infatti passasse il referendum del Movimento per la Vita le conseguenze sarebbero dramma-tiche perché l’aborto, nella maggior parte dei casi, tornerebbe ad essere considerato un reato perseguibile penalmente e quindi si tornerebbe all’aborto clandestino di mas-sa. Se vincesse invece il referendum proposto dai radicali, l’aborto sarebbe completa-mente liberalizzato, ma le donne sarebbero lasciate, per così dire, alle leggi del libero mercato. In mancanza di una legge che riconosca il diritto delle donne ad abortire nelle strutture pubbliche – nelle quali in ogni caso sopravvivrebbe il diritto dei sanitari all’obiezione di coscienza che il referendum radicale mette in discussione – fenomeni di speculazione credo sarebbero inevitabili. Io difendo questa legge: i risultati di questi primi faticosi anni di applicazione non debbono essere sottovalutati. Il problema più urgente non è quello di modificare la legge ma di far funzionare quella che esiste16.

La particolare attenzione del ministro al rapporto tra cittadini e istituzioni che si occupano della loro salute si era poi concretizzata nell’impegno di includere tra gli obiettivi previsti dal Piano sanitario nazionale per il triennio 1981-1983 l’ado-zione e l’applicazione della Carta dei diritti del cittadino malato17, allo scopo di cambiare la condizione del malato in ospedale. «Con l’iniziativa di Aniasi – scrive Giulio Pierallini – la sanità italiana arriva a una svolta storica: il malato cessa di essere un caso, un letto, un numero e torna a essere una persona»18.

14  Si vedano, per esempio, Rosa Jervolino Russo, La legge ha aumentato gli aborti, in “Avvenire”, 30 aprile 1981; Si mobilitano i cattolici contro l’aborto legalizzato, in “Il Tempo”, 26 aprile 1981; Per il referendum sull’aborto i radicali attaccano sia comunisti che cattolici, in “Il Tempo”, 26 aprile 1981; Una legge super assediata. La legge sull’aborto e la sua applicazione in un colloquio con Aldo Ania-si di Rosa Giannetta Trevico, in “Critica sociale”, febbraio 1981.15  Pieghevole per il “No” al Referendum a cura del Comitato d Roma e provincia per la difesa e pie-na applicazione della legge 194, “Le ragioni del no ai due referendum contro la legge 194”, maggio 1980, in AFA, MS, 1980-1981, Legge 194, b. 4, fasc. 5.16  Intervista ad Aldo Aniasi per “L’Europeo”, 5 marzo 1981, in AFA, MS, 1980-1981, Legge 194, b. 4, fasc. 5.17  Nella primavera del 1980 viene istituito a Roma per iniziativa del Movimento federativo demo-cratico, il Tribunale per i diritti del malato, con l’obiettivo di ristabilire condizioni e rapporti umani all’interno delle cliniche e degli ospedali, sulla base delle denunce e deposizioni dei cittadini e formulando opportune proposte di riforma.18  Chi soffre non sarà più un numero, in “La Domenica del Corriere”, 17 gennaio 1981.

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Attraverso la lettura incrociata della ricchissima documentazione conservata presso l’archivio della fondazione Aniasi (discorsi pubblici, relazioni parlamen-tari, rassegna stampa, studi di settore), ora disponibile alla consultazione, il se-guente saggio si propone di cogliere i principi ispiratori e gli obiettivi della poli-tica di Aniasi, e quanto di fatto sia stato realizzato nei 14 mesi del suo ministero. Vuole essere, dunque, una prima ricognizione interna alle carte, con l’obiettivo di fornire spunti di riflessione e possibili piste di ricerca nell’ambito più generale degli studi sul Welfare State, che consentano, in futuro, di approfondire il qua-dro della situazione sanitaria e sociale nel nostro paese, gli interessi e le forze che hanno creato le condizioni politiche della riforma e le risposte istituzionali ai problemi posti dalla carenza dei servizi e delle risorse nel periodo preso in considerazione.

1. Verso la legge 833

La situazione dell’Italia prima dell’entrata in vigore della legge 23 dicembre 1978 n. 833 si presentava caratterizzata da alti tassi di mortalità prenatale e infantile, dalla diffusione di malattie infettive e da condizioni igieniche precarie. La cosiddetta «patologia dello sviluppo» trovava la sua manifestazione nell’alta incidenza delle malattie infettive e degli infortuni sul lavoro, nella diffusione delle malattie degenerative e croniche, delle affezioni cardio-circolatorie, dei tumori e delle malattie nervose. Tutto ciò si accompagnava a un progressivo de-terioramento delle condizioni dell’ambiente naturale di vita e di lavoro19.

Nonostante le condizioni sanitarie, rispetto al periodo precedente alla guer-ra, fossero migliorate si osservavano nel paese situazioni di criticità come nel Mezzogiorno, dove gli acquedotti fornivano il 50% della popolazione e solo il 30% della popolazione era raggiunta dalla rete fognaria.

19  Disegno di legge sulla “istituzione del servizio sanitario nazionale” presentato dal Ministro della Sanità On.le Vittorino Colombo, Camera dei Deputati – atto n. 3207-12 agosto 1974, Relazione, in L’Istituzione del servizio sanitario nazionale, a cura del Centro studi Ministero della Sanità/rapporti, Roma, 1977, pp. 1-60. Sull’attività di Colombo, ministro della Sanità, si veda Alberto Cova, Vittorino Colombo ministro della Sanità (marzo-novembre 1944), in “Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia”, 2014, pp. 101-132. Si vedano, anche, Giovanni Berlinguer, Ferdinando Terranova, La strage degli innocenti. Indagine sulla mortalità infantile in Italia, Firenze, La Nuova Italia, 1972, e Indagine statistica sulle condizioni di salute della popolazione e sul ricorso di servizi sanitari, in “Supplemento al Bollettino mensile di statistica”, 1982, n. 12.

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Lo stato delle strutture e dell’organizzazione sanitaria era precaria, carat-terizzata dalla carenza di presidi di sanità pubblica, al centro e in periferia, de-ficienze quantitative e qualitative della rete ospedaliera, nell’organizzazione della medicina di primo intervento e di quella specialistica. Si era, ormai, giunti a constatare che gli enti mutualistici rappresentassero un sistema ormai superato e affossato dalle difficoltà economiche-finanziare tanto da indurre il governo a intervenire con un decreto legge, n. 264 del 8 luglio 1974, per estinguere i debiti di questi enti. Erano ormai maturi i tempi per l’introduzione di una riforma del sistema sanitario; prime iniziative, in tal senso, si ebbero con la definizione del primo programma economico nazionale (quinquennio 1966-70) per l’armonizza-zione dei settori previdenziale, sanitario e assistenziale. In materia sanitaria, si trattava del primo tentativo di ridefinizione delle strutture e di indicazione degli obiettivi, sottraendo il sistema dallo sviluppo spontaneo e preferendo, quindi, i consumi pubblici rispetto a quelli individuali. Tale programma fu in gran par-te disatteso e incompiuto a causa della mancanza di coordinamento tra le va-rie riforme che rimasero per lo più settoriali, come quella ospedaliera (legge 12 febbraio 1968, n.132) che ebbe il merito, però, di conferire tipicità agli enti ospedalieri, legandoli maggiormente alla realtà territoriale, così come quella sull’assistenza psichiatrica (legge 18 marzo 1968, n. 431) che aveva sanzionato il superamento di difesa sociale nei confronti degli alienati20.

Si attuarono, poi, altri provvedimenti, come l’impegno da parte dello Sta-to dell’onere delle provvidenze per i mutilati e gli invalidi civili e l’estensione dell’assistenza sanitaria da parte dell’Inam ai ciechi, sordomuti e invalidi civili. In presenza di tale situazione l’intervento dei sindacati aveva avuto un peso deter-minante nell’introdurre nei dialoghi tra governo e sindacati anche la questione della politica sociale. Le prime risultanze di tali confronti si ebbero tra il 1970 e il 1971 quando fu raggiunta, in sede politica, un’intesa formale circa la definizione del superamento del sistema mutualistico e la sua sostituzione con il servizio sanitario in grado di tenere conto della unitarietà delle prestazioni mediche e di nuovi schemi di organizzazione e di gestione dei presidi sanitari a livello lo-cale, grazie anche al decentramento delle funzioni amministrative statali alle regioni. Pur in assenza di una legge di riforma si ebbero esempi di iniziative re-gionali, come in Lombardia, con la «istituzione e regolamentazione dei comitati sanitari di zona, finanziamento delle iniziative di medicina preventiva, sociale

20  Ivi, pp. 3-4. Nel 1974, su pressione dei partiti si sinistra, dei sindacati e delle regioni venne varata la legge n. 386 che sanciva il trasferimento di competenze in materia di assistenza ospedaliera alle regioni e fissava un termine (giugno 1977) per la definitiva liquidazione delle mutue. Si veda, an-che, Giovanni Berlinguer, La sanità pubblica nella programmazione economica (1964-1978), Roma, Leonardo Edizioni Scientifiche, 1964; Id, Una riforma per la salute, Bari, De Donato, 1979; Giancarlo Bruni et al., Per una moderna politica sanitaria. La programmazione sanitaria nello sviluppo econo-mico dei prossimi quindici anni: 1965-1979, Roma, CIRSS, 1964.

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e di educazione sanitaria»21. Molte regioni avevano, inoltre, esteso l’assistenza farmaceutica ai coltivatori diretti, commercianti e artigiani e anche ai mutilati e invalidi di guerra disoccupati e rispettivi familiari, conviventi, vedove, orfani di guerra, minori inabili22.

In un tale contesto l’intervento riformatore appariva pienamente giustificato, in modo da affrontare il problema della salute non più prevalentemente sul piano della cura della malattia ma attraverso l’azione di mantenimento dello stato di benessere psico-fisico. I principi prioritari delle riforma riguardavano innanzitutto la globalità degli interventi che comportavano il collegamento dei servizi sanitari di prevenzione, cura e riabilitazione ma fondamentalmente il più importante era l’estensione delle prestazioni all’intera popolazione, introducendo il criterio del diritto del cittadino alla tutela della salute indipendentemente dal censo e dalla classe sociale, dando applicazione al principio di eguaglianza in quanto le presta-zioni divenivano uguali nella qualità e nella quantità per tutti i cittadini, ai quali veniva riconosciuta la libertà di scelta del medico e del luogo di cura.

Globalità, generalizzazione ed eguaglianza delle prestazioni richiedevano non più la verticalizzazione del sistema sanitario, caratteristico del sistema mutualisti-co-contributivo ma una dimensione orizzontale delle strutture sanitarie in modo da unificare tutti i servizi, esaltando il ruolo delle regioni e degli enti locali minori23.

Il Servizio sanitario nazionale si doveva basare su tre livelli di autorità: il livel-lo centrale, con compiti di indirizzo, coordinamento e direzione; il livello regio-nale, con compiti legislativi e programmatici; il livello sub-regionale, attraverso le Unità sanitarie locali come strumento operativo fondamentale, con una di-mensione compresa tra i 50.000 e i 200.000 abitanti. Per esigenze di tempesti-vità e immediatezza dell’erogazione delle prestazioni venivano previsti anche distretti sanitari di base, per una popolazione intorno ai 10.000 abitanti.

Un ulteriore aspetto della riforma sanitaria era la rilevanza dell’attività di prevenzione, rispetto al sistema mutualistico che si basava sulla funzione ripara-toria dei danni alla salute, in quanto l’obiettivo principale e irrinunciabile della politica sanitaria era un’attività programmatoria diretta a modificare gli ambien-ti e le condizioni di vita e di lavoro per salvaguardare l’integrità fisica e psichi-

21  Legge regionale 5 dicembre 1972, n. 37. Si veda, anche, Giancarlo Bruni, Un piano sanitario per la Lombardia, Milano, Etas Kompass, 1969.22  Disegno di legge sulla “istituzione del servizio sanitario nazionale” presentato dal Ministro della Sanità On.le Vittorino Colombo, Camera dei Deputati, cit., pp. 13-14. Su questo si veda anche Sep-pilli, Assistenza mutualistica e Servizio Sanitario Nazionale, in Seppilli, Mori, Modolo, Significato di una riforma, cit., in particolare pp. 22-25.23  Cfr. Michele La Rosa et al., I servizi sociali tra programmazione e partecipazione, Milano, Franco Angeli, 1978; Donatello Serrani, Il potere per enti: enti pubblici e sistema politico in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978; Carlo Trevisan, Per una politica locale dei servizi sociali, Bologna, Il Mulino, 1978.

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ca della popolazione. La quasi totalità della spesa sanitaria, in Italia, era carat-terizzata da una sperequazione tra le risorse impiegate nelle attività definibili come curative rispetto a quelle preventive, dato quasi ingiustificato in seguito all’evoluzione del quadro epidemiologico che permetteva di affrontare disor-dini fisici e psichici combattendone le cause. Lo sviluppo della mutualità, con le sue connotazioni assicurative e curative, aveva generato quella che si definisce una “mentalità consumistica”, generando processi di domande delle prestazioni sanitarie alle quali corrispondevano i produttori di tali prestazioni. Prevenire, invece, non comportava azioni di consumo e produzione. La cura costituiva una buona attività economica per tanti individui, ma molto spesso una perdita per la collettività, la prevenzione tornava esclusivamente a vantaggio della collettività e delle parti di essa più esposte al rischio di malattia, potendo rappresentare un onere per i privati. In ultima analisi, l’attività curativa del sistema mutualistico trovava facilmente modalità di finanziamento, a differenza dell’attività preven-tiva che gravava esclusivamente sugli enti locali e si sorreggeva esclusivamente attraverso il sistema fiscale24.

Tutelare la salute significava incidere sull’ambiente in cui si svolgeva la vita della popolazione e, avendo carattere generale, l’onere del finanziamento do-veva ricadere sulla collettività nel suo complesso attraverso la fiscalizzazione degli oneri sociali. Il disegno di legge della riforma sanitaria poneva l’accen-to anche su una importante questione riguardante la possibilità di disporre di personale sufficientemente qualificato a ogni livello di interventi e servizi. Per ottenere questo risultato era necessario una profonda interrelazione tra riforma sanitaria e facoltà di Medicina e più in generale il mondo dell’istruzione per la formazione non solo di medici ma anche e soprattutto di quadri e personale in-fermieristico e sanitario non medico25.

La riforma sanitaria poteva costituire un fallimento se non fosse stata in gra-do di attenuare il saggio di incremento della spesa complessiva e a renderla più produttiva, aumentando i benefici sociali ad essa connessi. Infatti, nell’ultimo decennio, si era assistito a un incremento della spesa sanitaria sul Pil ma tale aumento non era stato accompagnato da un miglioramento sensibile dello stato sanitario della popolazione. Le cause di tale situazione potevano ricercarsi nella dilatazione dei costi unitari, dovuta sia all’inefficiente organizzazione dei servizi,

24  Disegno di legge sulla “istituzione del Servizio sanitario nazionale” presentato dal Ministro della Sanità On.le Vittorino Colombo, Camera dei Deputati, cit., pp. 20-23. Cfr. su questi diversi aspetti, Severino Delogu, Sanità pubblica, sicurezza sociale e programmazione economica, Torino, Einaudi, 1967; si veda anche Istituto di Studi per la Politica Economica (ISPE), La spesa sanitaria in Italia dal 1964 al 1977, in “ISPE Quaderni”, n. 11/12, 1978.25  Cfr. Saverio Caruso, Il medico della corporazione, Milano, Feltrinelli, 1977; Ferdinando Terrano-va, Il potere assistenziale, Roma, Editori Riuniti, 1975.

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sia al consolidarsi di posizioni di rendita e dall’esasperazione di alcuni consu-mi sanitari26. Questo fenomeno di iperconsumo di alcune prestazioni sanitarie doveva essere combattuto, non attraverso controlli burocratici ma attraverso il miglioramento dell’organizzazione del sistema ed evitando i consumi superflui e al limite dannosi, come avveniva nel settore farmaceutico. Esso si presentava ca-ratterizzato da una notevole frammentarietà, sia in termini di aziende (per lo più medio-piccole), sia in termini di prodotti anche se la maggior parte del fatturato era concentrato nelle mani di poche aziende. L’aumento dei consumi mutuali-stici aveva determinato un aumento del prezzo medio dei prodotti farmaceutici e l’assenza di protezione brevettale aveva scoraggiato la ricerca. Dunque, com-pito della riforma era quello di limitare la spesa pubblica (cioè il finanziamen-to pubblico della produzione di medicinali) sia di garantire ai cittadini italiani livelli assistenziali via via più elevati dal punto di vista qualitativo. Per ottenere questi risultati, la riforma si proponeva di incentivare la ricerca, di qualificare la produzione e di contenere i prezzi. Per il raggiungimento di tali finalità si preve-deva la costituzione di un’impresa finanziaria pubblica. Inoltre ci si proponeva di indirizzare i consumi verso fini sociali e di contenere la spesa farmaceutica e il consumismo farmaceutico mediante l’introduzione di un elenco selezionato di farmaci da ammettere alla distribuzione gratuita, salvo una modesta comparte-cipazione dell’assistito, come avveniva in altri paesi27.

L’attuazione di un programma così ambizioso di riforma sanitaria si poteva prospettare in tempi medio-lunghi, ma tali risultati sarebbero dipesi da profonde modifiche organizzative, strutturali e di comportamento. Nel breve periodo, l’uti-lizzazione dell’apparato organizzativo e strutturale esistente per l’estensione e il miglioramento dei livelli assistenziali comporta una maggior spesa, alla quale dovevano essere affiancati una serie di provvedimenti tesi a ottenere possibili fonti di risparmio, come il rifinanziamento degli ospedali, attuato con il decreto legge 8 luglio 1974, n. 264, che annullava l’onere degli interessi passivi; oppure l’introduzione della compartecipazione da parte dell’assistito alle prestazioni farmaceutiche28.

26  Cfr. Antonio Brenna (a cura di), Il governo della spesa sanitaria, Roma, Servizio italiano pubbli-cazioni internazionali, 1984.27  Disegno di legge sulla “istituzione del servizio sanitario nazionale” presentato dal Ministro della Sanità On.le Vittorino Colombo, Camera dei Deputati, cit. pp. 26-48.28  Ivi, pp. 48-60.

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1.1 Il “fronte riformista”: la proposta politica del Pci e del Psi

Il Pci e il Psi, in particolare, in un documento congiunto dell’11 dicembre 197529, avevano ravvisato l’urgenza di dar corso all’approvazione di una legge per l’isti-tuzione del Servizio sanitario nazionale. Un’ urgenza che si basava sulla consi-derazione che la lievitazione della spesa sanitaria, nella maggior parte in spesa mutualistica, aveva superato i livelli di guardia, introducendo gravi deformazioni nel meccanismo di sviluppo e determinando un peggioramento delle condizioni di salute che si manifestavano in tutti i settori dal quadro della patologia infet-tiva alla crescita delle malattie degenerative, all’aumento degli stati invalidanti e di disadattamento.

Il fenomeno che si stava generando dimostrava che al paese costava mag-giormente, in termini economici e di salute, il rinvio della riforma. I due partiti ritenevano che servisse il loro impegno politico per giungere all’approvazione di una legge-quadro, capace di assicurare il passaggio dal vecchio ordine a un sistema sanitario riformato. Un’attenzione particolare veniva posta sugli even-tuali problemi delle fasi di transizione. Dichiaravano con forza che «il caratte-re mercantile e consumistico degli standard di consumi sanitari» determinato dal regime mutualistico non poteva essere trasferito nel Servizio sanitario ma andava introdotta un’opera di conversione del modello di protezione sanitaria. In questo modo si poteva garantire che l’avvio della riforma sanitaria non com-portasse un balzo in avanti della spesa, non sostenibile con le attuali condizioni della finanza pubblica.

Per l’avvio di tale processo si potevano prendere in considerazione alcune misure, come la razionalizzazione delle prestazioni di medicina generica, attra-verso l’introduzione di precisi caratteri di servizio nell’erogazione degli interven-ti medici di base, con l’assicurazione della presenza medica notturna e festiva e con una razionale distribuzione territoriale dei medici; l’unificazione del sistema retributivo dei medici generici e limite massimo invalicabile di 1500 assistiti per ogni medico, con l’obbligo per ogni sanitario di un unico rapporto di lavoro con enti pubblici.

29  Documento congiunto Pci-Psi, in L’istituzione del Servizio sanitario nazionale, cit., pp. 358-362. Sui profili ideologici-programmatici dei partiti italiani in tema di politica sociale e sulle diverse fasi che segnano la storia del riformismo sanitario si veda Maurizio Ferrera, Il Welfare State in Italia. Svi-luppo e crisi in prospettiva comparata, Bologna, Il Mulino, 1984, in particolare, pp. 213-234. Già nel 1965, il Pci presentò in Parlamento la propria proposta di istituzione del Servizio sanitario nazionale e nello stesso anno il Parlamento approvò un piano quinquennale in cui era esplicitato l’impegno ad attuare la riforma sanitaria; il ministro socialista Mariotti preparò a sua volta una proposta con-creta. Tuttavia sia il piano sia la proposta Mariotti furono oggetto di aspre critiche, soprattutto da parte del “fronte mutualistico”, per la cui difesa era schierata la Dc.

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Per contenere le spese era necessario anche la riduzione e la riqualificazione dei consumi farmaceutici mediante la riduzione del numero dei farmaci regi-strati, la revisione del prontuario e una revisione dei prezzi dei medicinali, con l’introduzione di una metodologia corretta nella valutazione dei costi. Sempre in quest’ottica si doveva operare anche sul fronte delle prestazioni ospedaliere mediante la riduzione del numero dei ricoveri attraverso l’istituzione, in ogni ospedale, del dipartimento-filtro di accettazione dotato di servizi diagnostici pre-ricovero; la riduzione della durata della degenza media, mediante la defini-zione di standard ottimali e inoltre il riesame degli orari di lavoro prestati dagli operatori medici e non medici, al fine di garantire il massimo della produttivi-tà del lavoro ospedaliero; il divieto parziale o totale dell’attività professionale esterna dei medici dal 1° gennaio 1976, col rispetto di quanto previsto dalla leg-ge n. 132 del 1968.

Infine, per contemperare le spese, i due partiti puntavano anche sulla ricon-versione professionale di parte di personale non sanitario da trasferire dalle mu-tue o dagli ospedali ad altri settori della pubblica amministrazione.

1.2. Il progetto di riforma sanitaria

Il Sistema sanitario nazionale (Ssn) è il frutto di una serie di cambiamenti che sono intercorsi nella storia delle società contemporanee, passando da un con-cetto di carità e assistenza tipico del sistema liberale sino al moderno diritto alla salute (sancito anche dalla nostra Costituzione all’art. 32) che caratteriz-za lo stato sociale, impegnandosi a realizzare politiche adeguate a garantire cure gratuite ai bisognosi e a tutelare la salute dei singoli e della collettività30. Tale obiettivo troverà la sua formulazione giuridica con la legge 833/1978, in particolare all’ art. 1, che considera «la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» , in applicazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione, nei confronti non solo dei cittadini italiani ma anche degli

30  Cfr. Franco Della Peruta (a cura di), Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina, Torino, Einau-di, 1984; Ferrera, Il Welfare State in Italia, cit.; M. Ferrera e Giovanna Zincone (a cura di), La salute che noi pensiamo. Domanda sanitaria e politiche pubbliche in Italia¸ Bologna, Il Mulino, 1986; M. Ferrera, Valeria Fargion, Matteo Jessoula, Alle radici del Welfare all’italiana. Origini e futuro di un modello sociale squilibrato, Marsilio, Venezia, 2012; Stefano Sepe, Le amministrazioni della sicurez-za sociale nell’Italia unita (1861-1998), Milano, Giuffrè Editore, 1999; Gianni Silei, Lo stato sociale in Italia. Storia e documenti. Vol. II – Dalla caduta del fascismo ad oggi (1943-2004), Manduria-Bari, Lacaita Editore, 2004.

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stranieri, «senza distinzione di categorie, condizioni personali e sociali, con ri-guardo alla prevenzione, riabilitazione e cura delle malattie mediante interventi di igiene e sanità pubblica»31.

La tutela della salute doveva più in generale realizzarsi attraverso la salva-guardia della salubrità dell’ambiente, dell’igiene, del controllo degli alimenti, dei luoghi di lavoro e in generale degli insediamenti urbani e su iniziative di proposta di indagini scientifiche, inchieste su determinati avvenimenti di rile-vante interesse igienico e sanitario e sullo studio di problemi afferenti la sanità. Inoltre il Comitato sanitario nazionale doveva essere sentito dal Ministero della Sanità per la determinazione dei livelli assistenziali, sul diniego e la revoca della registrazione di nuovi farmaci e sulla prescrivibilità dei tipi e della confezioni dei prodotti farmaceutici.

Secondo il progetto di riforma, la pianificazione degli interventi si realizzava a livello statale, in quanto era lo Stato a coordinare le attività del servizio sani-tario nazionale, a livello regionale, su delega diretta dello Stato, in quanto era compito delle regioni, nell’ambito del loro territorio di competenza, indirizzare e coordinare i servizi sanitari, secondo quanto previsto dalle leggi regionali e dai principi stabiliti dalle leggi dello Stato, e a livello comunale, con l’effettiva erogazione dei servizi attraverso l’istituzione delle Usl. In riferimento al coordi-namento delle attività dei servizi sanitari, l’art. 2 del progetto prevedeva scenari differenti a seconda in cui si poteva attuare un’azione combinata tra Stato e Re-gione; in cui vi era una rivendicazione solo delle regioni; e azioni di indirizzo e coordinamento distinte da parte dello Stato e delle regioni senza specificare gli ambiti di applicazione.

Compito del Ministero della Sanità, oltre a esercitare le funzioni che la legge non attribuiva alle regioni, era quello di elaborare e proporre gli indirizzi gene-rali della politica sanitaria nazionale attraverso anche la formulazione di propo-ste rivolte alle regioni in quelle attività a loro attribuite e impartire istruzioni su quelle a esse delegate. Presso il Ministero della Sanità si costituiva il Comitato sanitario nazionale, il quale aveva il compito di esaminare ogni questione rela-tiva alla salute pubblica su richiesta del Ministro della Sanità o di propria inizia-tiva, con l’intento di formulare pareri o voti. Esso era composto da un rappre-sentante di ciascuna regione; 15 esperti designati dalle organizzazioni sindacali nazionali più rappresentative dei lavoratori nei settori privati e pubblici e da due

31  Legge n.833 del 23 dicembre 1978: “Istituzione del Servizio sanitario nazionale”. Ho fatto rife-rimento, in particolare, ai seguenti documenti: Documenti della riforma sanitaria, Roma, ed. Fiaro, 1974; Caratteri e modalità del Servizio sanitario nazionale. Documento base della Commissione per la riforma sanitaria, 1974; Ministero della Sanità, Comitato di studio per la riforma sanitaria di base. Documento, 1974; La riforma sanitaria nella normativa nazionale. Raccolta coordinata di testi, a cura del Servizio centrale della programmazione sanitaria, 1985.

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esperti appartenenti alle organizzazioni di categoria dei coltivatori diretti, degli artigiani, dei commercianti e dei liberi professionisti e artisti; tre funzionari del ministero scelti dal ministro; un rappresentante dell’Istituto Superiore di sanità, pure scelto dal ministro; nove esperti in materie sanitarie, di cui tre designati dalla Federazione nazionale ordine dei medici e uno designato dalla Federazio-ne nazionale ordine dei farmacisti; sei esperti in materie giuridiche, sociali ed economiche, nominati dalla Presidenza del Consiglio, dal Ministero del Lavoro e dal Ministero del Bilancio.

Per il finanziamento della spesa occorrente per il funzionamento del Ssn e per la costruzione, la trasformazione e l’ammodernamento degli ospedali, e di altri presidi sanitari e il rinnovo delle attrezzature sanitarie, era previsto la creazione di un Fondo sanitario nazionale con capitoli distinti di spesa corrente e di spesa in conto capitale, la cui dotazione dipendeva dai livelli delle prestazioni sanita-rie da assicurare, tenendo conto delle risorse finanziarie assegnate al settore dal programma economico nazionale. I trasferimenti prevedevano che le quote alle singole regioni pervenissero all’inizio di ciascun trimestre. In applicazione degli artt. 117 e 118 della Costituzione32 vennero trasferite alle regioni le funzioni am-ministrative in materia di assistenza medico-chirurgica, compresa quella psichia-trica, generica, specialistica e farmaceutica di tipo ambulatoriale, domiciliare e ospedaliera, di prestazioni preventive, riabilitative e di pronto soccorso.

Nel progetto di riforma sanitaria si prendeva in considerazione la situazione degli ospedali psichiatrici che, dipendenti dalle provincie e da istituzioni di as-sistenza e beneficenza, venivano trasferiti, con provvedimento della Regione a uno degli enti ospedalieri da cui dipendevano ospedali provinciali e regionali, oppure trasferiti direttamente alle regioni, che avevano il compito di annetterli agli ospedali generali33. Provvedimento principale incluso nel progetto di rifor-ma sanitaria era la costituzione dell’Usl, che doveva avere il compito di fornire, nell’ambito del proprio comprensorio, le prestazioni di tipo preventivo, curativo o riabilitativo e svolgere funzioni in materia d’igiene, sanità pubblica e veteri-naria. Sull’operato delle Usl era previsto il controllo della Regione secondo le norme dalla stessa stabilita, le quali potevano anche stabilire un controllo pre-ventivo su atti di particolare rilevanza.

Compito dell’Unità sanitaria locale era quello anche di provvedere alla di-stribuzione, direttamente o indirettamente attraverso le farmacie, dei preparati

32  Nel corso del 2001 è stato modificato il Titolo V della Costituzione, introducendo nuove norme che hanno determinato un sostanziale ampliamento dei compiti e della funzioni attribuite alle Re-gioni, Comuni e Enti locali.33  Successivamente la legge 180 o legge Basaglia ha abolito il manicomio. Nel 1996 il Governo Prodi dava attuazione al provvedimento inserito nella finanziaria del 1994 dal governo Berlusconi per la chiusura definitiva dei manicomi.

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farmaceutici sulla base di elenchi formulati e aggiornati annualmente dal Mi-nistero della Sanità, con esclusione dei prodotti di banco, attivatori fisiologici e altri preparati. I comuni potevano avere la possibilità di assumere la gestione di quelle farmacie che richiedevano di essere inserite nei ruoli regionali del Servi-zio sanitario oppure quelle di nuova istituzione. Presso le Usl e le regioni dove-vano essere costituiti Comitati consultivi, per la determinazione degli indirizzi in materia sanitaria a livello locale e regionale, con la possibilità di avere anche compiti di impulso e di iniziativa. Inoltre le Unità sanitarie locali dovevano avere autonomia amministrativa e di spesa nei limiti delle norme e degli stanziamenti stabiliti dalla Regione.

Infine, veniva prevista l’emanazione di una legge-quadro per un programma nazionale per l’industria farmaceutica teso a individuare gli indirizzi della ricer-ca farmacologica in relazione agli obiettivi di politica della salute e di prospet-tare una valutazione della situazione e della struttura del settore.

1.3. Lo stato d’attuazione della riforma sanitaria durante il mini-stero Aniasi in una relazione del Cnel (Consiglio nazionale dell’e-conomia e del lavoro)

Il Cnel fu chiamato ad esprimere un parere sull’attuazione della riforma sanita-ria, e a seguire la fase transitoria della riforma stessa34.

Le linee guida nella valutazione dello stato di attuazione della riforma erano basate sul convincimento che l’analisi sia degli aspetti positivi sia delle criticità fosse necessaria per creare un confronto costruttivo su questo tema, evitando in tal modo ogni tentativo di proposte di modifica della legge.

Le considerazioni conclusive evidenziavano la stagnazione in cui sembrava essere caduta la fase attuativa della legge 833 e i numerosi elementi di scolla-mento e di contraddizione che questa prima fase aveva messo in luce.

Il Cnel, durante la fase parlamentare di discussione della legge, si era pro-nunciato sul disegno di legge relativo alla riforma sanitaria, e molte indicazioni vennero recepite nel testo finale della legge, anche se alcune osservazioni non vennero prese in considerazione, come la mancata definizione delle Unità locali

34  Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, Osservazioni e proposte sullo stato di attuazio-ne della Riforma Sanitaria (Assemblea 20-21 maggio 1980, n. 176/123), Roma 1980.

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come Unità socio-sanitarie, determinando il mancato coinvolgimento primario delle Usl nella gestione dei servizi sociali.

Il ritardo nell’attuazione della riforma si doveva, in primo luogo, alla struttura su cui il Servizio sanitario nazionale si basava, vale a dire un’attribuzione di com-petenze suddivise tra il potere centrale (Stato) e poteri decentrati (Regione ed Enti locali), per la valorizzazione del ruolo e delle funzioni del decentramento e delle autonomie locali all’interno di una funzione unificatrice e di coordina-mento attribuita allo Stato. Uno dei principali inconvenienti si registrava nel-la lentezza di emanazione dei provvedimenti attuativi da parte dello Stato che impediva alle regioni di poter emanare provvedimenti di loro competenza ma che dovevano far riferimento a norme dello Stato. In quelle materie in cui non si richiedeva una determinazione statale, il Cnel, osservò anche un’inadempienza da parte delle regioni, soprattutto per quanto concerneva la zonizzazione. Era prevista anche una terza categoria di norme, per le quali l’inadempienza dello Stato, nelle sue articolazioni costituzionali, condizionava pesantemente le re-gioni, nonostante non fosse a loro preclusa l’iniziativa normativa, come nel caso dei piani sanitari regionali che avrebbero dovuto essere emanati dopo che si fosse deliberata l’approvazione del Piano nazionale, dando l’alibi alle regioni della mancata applicazione. La legge 833/1978, peraltro, non definiva gli ambiti dello Stato e quello delle regioni e degli Enti locali, affidando a successivi prov-vedimenti un chiarimento definitivo.

Il Cnel espresse molta preoccupazione anche sull’assenza di dibattito duran-te la fase di approvazione delle legge: in una materia come quella sanitaria la spinta propulsiva delle forze sociali, degli utenti del servizio e degli operatori sanitari, in sede centrale e periferica, rappresentava una garanzia per il supera-mento delle resistenze e delle insufficienze registrate. La separazione tra citta-dini e Servizio ritardava l’attuazione della riforma, che finiva per essere conside-rata solo come una pura riorganizzazione del sistema esistente. Era necessario, quindi, facendo leva sull’educazione sanitaria e l’informazione, creare un rap-porto tra cittadino e Servizio sanitario nazionale non più basato “sull’antago-nismo burocratico” tra uffici e utente. La formazione di una moderna coscienza sanitaria, primo fra gli obiettivi della riforma (art. 2), si acquisiva attraverso la diffusione degli elementi basilari dell’igiene e della sicurezza personale e am-bientale, l’educazione all’uso dei farmaci e il corretto accesso ai servizi sanitari. Per giungere alla completa attuazione della riforma serviva, dunque, un’azione convergente tra Stato, regioni ed Enti locali.

Si imponeva, inoltre, la revisione del ruolo del Consiglio sanitario naziona-le, che avrebbe dovuto essere il centro propulsore della riforma ma che non aveva raggiunto tale obiettivo, sia per un difetto nella sua composizione, non sufficientemente autonoma nelle decisioni politiche, sia per l’assenza di azio-ne di coordinamento, indirizzo e sollecitazione che il Consiglio avrebbe dovuto

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esercitare. Un altro problema era la mancata programmazione sanitaria a causa di una frammentaria e approssimativa disponibilità di dati per la rilevazione e la gestione delle informazioni epidemiologiche, statistiche e finanziarie occorren-ti per la programmazione sanitaria nazionale e regionale e per la gestione dei servizi sanitari.

La legge conteneva l’indicazione di numerose norme delegate la cui attua-zione era di estrema urgenza, di particolare importanza era la delega contenuta nell’art. 23 che riguardava l’istituzione dell’ Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (Ispsl), il quale costituiva il complemento della struttura tecnica a disposizione del Ministro della Sanità per una gestione adeguata del Servizio sanitario nazionale e che rappresentava la condizione necessaria per l’emanazione del testo unico previsto dall’art. 24 in materia di igiene e sicurezza del lavoro. Sarebbe stata poco funzionale l’emanazione di una normativa senza che ci fosse la garanzia che l’Ispsl fosse in grado di seguirne l’applicazione.

Urgente anche il riordinamento del Ministero della Sanità. Secondo il Cnel, alla luce della nuova organizzazione sanitaria, appariva contraddittorio la pre-senza di più organismi a carattere scientifico o consultivo con riferimento al Consiglio superiore di sanità che poteva divenire un’alternativa rispetto al Con-siglio sanitario nazionale e aprire momenti di scontro. Il Ministero della Sanità, dal canto suo, doveva costituire un centro di organizzazione funzionale capace di fornire risposte ai vari problemi della struttura sanitaria.

La legge sulla riforma sanitaria aveva affidato un ruolo decisivo alle regio-ni nel processo di attuazione del Servizio sanitario nazionale, demandandole la funzione legislativa, programmatoria e amministrativa per il funzionamento delle Unità sanitarie locali e se le regioni non avessero ottemperato alla loro funzione legislativa, sottolineava il Cnel, il processo di attuazione si sarebbe bloccato. Compito delle regioni era quello, in una prima fase, di emanare una se-rie di provvedimenti legislativi rivolti a creare le condizioni organizzative per la costruzione delle Usl; successivamente, in una seconda fase, dovevano approva-re il Piano sanitario regionale, valido per il triennio 1980-82; e infine, in una terza fase, l’emanazione di una legge regionale che trasferisse ai comuni le funzioni, i beni e le attrezzature degli enti che venivano sostituiti dalle Usl. Al 15 maggio 1980, solo 14 regioni su 20 avevano approvato le tre leggi-base – azzonamento, organizzazione e costituzione delle Usl – e soltanto 8 giunte regionali avevano proposto i piani sanitari triennali. Non tutto però era negativo in quanto, no-nostante i ritardi accumulati, nella quasi totalità delle leggi regionali era stato inserito il principio dell’unitarietà dei servizi, ribadendo l’autonomia funzionale delle diverse aree di servizio delle Usl, riconducendole, tra l’altro, a una gestio-ne integrata. Il Cnel rilevava, però, che all’interno di questa gestione integrata non avevano trovato adeguata attenzione due questioni centrali per una reale svolta nella qualità della tutela delle salute: la medicina di base e il rapporto

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tra l’ospedale e gli altri presidi e servizi sanitari. Infatti era sua opinione che la medicina di base fosse l’asse portante del Servizio sanitario a livello di distretto collegando i medici di base con altre figure professionali mediche e paramedi-che e incentivando l’uso dei servizi diagnostici dei vari poliambulatori sparsi sul territorio, in modo da evitare sovrapposizioni e sprechi e impedire l’intasamento delle strutture ospedaliere, imboccando, quindi, la strada per il day -hospital e dell’assistenza domiciliare.

Già nel “Parere” del 1977, il Cnel aveva individuato due obiettivi fondamentali della riforma sanitaria: la garanzia della prestazione per tutti i cittadini e l’uni-tarietà dell’intervento saldando prevenzione, cura e riabilitazione. La legge 833 e le leggi regionali avevano sviluppato correttamente questi due presupposti della riforma, e man mano che il processo riformatore avanzava, l’obiettivo del servizio pubblico doveva spostarsi verso la personalizzazione della prestazione. Questo riequilibrio della prestazione andava realizzato attraverso l’estensione quantitativa e qualitativa delle prestazione nei diversi ambiti ma lo stato di at-tuazione della riforma e il ritardo nei processi di investimento nei nuovi presidi e servizi compromettevano la realizzazione di tale fine.

Uno degli aspetti principali della riforma era quello del passaggio alla forma diretta per tutte le prestazioni relative all’assistenza ospedaliera e specialistica. Con l’emanazione della legge 33/198035 era stata ampliata la deroga che auto-rizzava le regioni ad attuare forme di assistenza specialistica indiretta col rischio di rilanciare i servizi privati a scapito di quelli pubblici. Il Cnel confermava che il miglior modo di garantire l’inserimento delle strutture private all’interno del Servizio sanitario nazionale era quello della convenzione e ribadiva che, nono-stante il servizio pubblico fosse fondato sul pluralismo istituzionale, era inaccet-tabile ogni tentativo di considerare l’assistenza privata come sostitutiva di quel-la pubblica. Il Cnel poneva attenzione anche all’estensione dei servizi preventivi e riabilitativi, rispondenti a due esigenze: l’attuazione di una reale promozione della salute e la realizzazione dell’economicità del servizio. Strettamente con-nesse alle questioni precedenti era l’assistenza farmaceutica, che rappresentava uno dei temi irrisolti all’interno della 833 che rinviava la soluzione (art. 29) a una legge apposita che regolasse l’autorizzazione alla produzione e all’immis-sione in commercio dei farmaci, la revisione programmata delle autorizzazioni già concesse, la disciplina dei prezzi, l’individuazione dei presidi autorizzati alla distribuzione e la brevettabilità. Si consigliava di affrettare i tempi poiché tale settore appariva di essenziale importanza non solo per la definizione della spe-

35  Decreto-legge 30 dicembre 1979 n. 663 convertito con modificazioni nella legge 29 febbraio 1980 n. 33: “Provvedimenti per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale, per la previdenza, per il contenimento del costo del lavoro e per la proroga dei contratti stipulati dalle pubbliche am-ministrazioni in base alla legge 1° giugno 1977, n. 285, sull’occupazione giovanile”.

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sa sanitaria ma anche per gli eventuali danni arrecati alla salute dei cittadini. All’interno del discorso sui farmaci si collocava anche la questione dei ticket, che secondo il Cnel, non giungeva al risultato sperato di ridurre la spesa come emergeva dall’esperienza di altri paesi esteri e, mancando stime attendibili, non si poteva procedere a una verifica, puntualizzando che esso rappresentava un aggravio per i più poveri e i più bisognosi di cure sanitarie. Il Cnel preferiva un’azione di contenimento del consumo e della relativa spesa capace di agire contemporaneamente su più punti: sulla qualificazione degli operatori e sul mi-glioramento generale delle capacità diagnostiche e terapeutiche; sull’educazio-ne sanitaria dei cittadini; sulle questioni relative al prontuario, alla pubblicità e l’informazione scientifica dei farmaci.

Per giungere a una completa rispondenza delle aspettative del cittadino e a un’assistenza qualitativamente migliore era necessario che il Servizio sanitario nazionale si basasse su un altissimo senso di serietà nella gestione, in un coinvol-gimento responsabilizzante di tutte le parti sociali interessate e delle categorie sanitarie (mediche e non mediche). «Non vi possono essere nuovi servizi senza nuovi operatori», quindi era necessario una migliore utilizzazione delle risorse umane disponibili, nel senso di una riqualificazione, di un aggiornamento e di una riconversione del personale attuale. Le leggi di riqualificazione professiona-le e straordinaria degli infermieri generici e psichiatrici vennero approvate con ritardo, creando seria preoccupazione in quanto una delle condizioni essenziali per la realizzazione del Servizio sanitario nazionale era l’adeguata preparazio-ne e capacità professionale degli operatori. Il Cnel faceva presente la necessità che le facoltà di Medicina fossero collegate con le linee di sviluppo del Ssn. Se-condo l’art.48 della legge 833 si stabiliva l’attuazione degli accordi nazionali con le categorie professionali mediche e non mediche a rapporto convenzionale. Si registrarono ritardi nei processi organizzativi, soprattutto per quanto concerne gli accordi relativi alla convenzione unica dei medici generici e pediatri.

In ultima analisi, il “Parere” fornito dal Cnel sul processo di attuazione della riforma sanitaria esortava il ministro della Sanità a sviluppare un’azione perché il suo dicastero esprimesse una volontà unificante e propulsiva della riforma, realizzando con le regioni un rapporto positivo e convergente e considerava di grande importanza la convocazione di periodici «incontri internazionali di stu-dio» sui problemi sanitari. L’insieme dei dati elencati dovevano indurre i centri decisionali a promuovere e favorire la ripresa e lo sviluppo di un reale interesse dei cittadini per il buon esito della riforma, la quale non si doveva esaurire in un provvedimento legislativo ma determinare un vasto movimento culturale.

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2. Il ministro Aniasi al lavoro

Se non era possibile attendere immediati risultati positivi, perché «la riforma interviene in profondità su di un sistema che ha sedimentato in decenni di esi-stenza strutture fortemente settorializzate, interessi particolari, mentalità e cul-ture profondamente radicate tra il personale»36, ciò nondimeno, secondo Ania-si, la riforma non era fallita al suo primo impatto con la realtà da trasformare. Con le leggi regionali, che avevano istituito ed organizzato le Unità sanitarie locali, trovava una prima applicazione in tutto il territorio nazionale il decen-tramento di poteri; attraverso le Usl avanzava pertanto quel processo di tra-sformazione democratica dello Stato che, sottolineava il ministro, «è punto di riferimento per tutti coloro che hanno voluto e vogliono la piena applicazione della Costituzione»37. Con l’avvio della riforma a livello centrale e periferico era stato bloccato il processo di degradazione del sistema sanitario che era fondato essenzialmente sulla cultura della settorialità e della frammentazione dei poteri e delle responsabilità. Sopprimendo, infatti, la pletora di enti e di mutue e costi-tuendo una nuova ed uniforme struttura per l’erogazione delle prestazioni, la riforma aveva aperto la strada ad un uso più efficiente e razionale delle risorse. Trasformando inoltre l’assistenza sanitaria da un diritto del lavoratore (e dei suoi famigliari) ad un diritto del cittadino, essa aveva universalizzato la copertura assicurativa a tutta la popolazione, colmando così i vuoti e abbattendo le discri-minazioni del sistema precedente38. Sui ritardi della riforma aveva certamente pesato una certa impreparazione del quadro amministrativo e burocratico sia delle regioni che dello Stato in relazione al nuovo ruolo ed ai nuovi compiti dei diversi livelli istituzionali. Inoltre non andavano sottovalutati i ritardi determina-ti dalla instabilità del quadro politico nazionale e regionale.

In nove mesi, da quando Aniasi era stato nominato ministro della Sanità, il governo aveva operato per cercare di ridurre al minimo possibile i ritardi, inter-venendo sia sul piano legislativo nazionale che sul piano della promozione delle iniziative regionali. In particolare, una tappa importante era stata segnata dall’e-manazione dei decreti delegati del 31 luglio 198039, con i quali si era proceduto,

36 Comunicazione del ministro Aniasi alla riunione della XIV Commissione permanente (Igiene e Sanità) della Camera sullo stato di attuazione della legge 23 dicembre 1978 n. 833, 14 gennaio 1981, in AFA, MS, 1980-1981, Riforma sanitaria, b. 2 fasc. 1.2.2.37  Ibid.38  Si veda in particolare, M. Ferrera, Assetti organizzativi e domanda sanitaria: il caso italiano, in Ferrera e Zincone (a cura di), La salute che noi pensiamo, cit., pp. 183-212.39  Decreto del Presidente della Repubblica 31 luglio 1980 n. 613: “Riordinamento della Croce Ros-sa italiana (articolo 70 della legge n. 833 del 1978)”; Decreto del Presidente della Repubblica 31

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tra l’altro, all’istituzione dell’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro – come caldeggiato dal Cnel – alla trasformazione della Croce rossa, alla ristrutturazione di funzioni non delegate alle Unità sanitarie locali. Era chia-ro che tali decreti esigevano, tuttavia, ulteriori atti per il loro completamento, già peraltro in fase di definizione. Positiva era risultata pure la scelta operata con decreto del 30 giugno 1980 di prorogare di sei mesi il termine dello sciogli-mento delle mutue per tutte quelle regioni che risultavano in ritardo rispetto ai tempi di attuazione delle Unità sanitarie locali. Nei sei mesi trascorsi molte re-gioni avevano di fatto proceduto a recuperare i ritardi e allo stato presente solo la Puglia, la Sardegna, la Sicilia e la Campagna non avevano ancora attivato il si-stema delle Usl; per le altre due regioni a statuto speciale (Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige) l’attivazione delle Usl registrava ritardi che, tuttavia, erano compensati dal preesistente funzionamento di un’organizzazione e gestione dei servizi fondata su basi consortili sovraccomunali. Con decreto del 31 dicembre 1980 era stata definitivamente sancita la liquidazione delle mutue, lasciando alle regioni in ritardo sui tempi di attuazione della riforma la facoltà di richie-dere al Ministero la gestione commissariale in sistema di transizione dell’orga-nizzazione mutualistica. In questo modo, osservava Aniasi, «non si sono creati vuoti nell’erogazione dell’assistenza sanitaria, senza interrompere per questo il processo di riforma»40. Sempre con il decreto del 31 dicembre 1980 era stato concesso alle regioni, che non avessero compiutamente realizzato la creazione dei presidi e dei servizi di assistenza psichiatrica e mentale territoriali alternativi al manicomio, di richiedere una proroga dei termini fissata dall’articolo 64 della riforma sanitaria. Il processo di riforma definiva, inoltre, con maggiore chiarezza gli obiettivi e gli strumenti attraverso l’approvazione del Consiglio dei ministri, degli emendamenti al Piano sanitario nazionale – approvato con ddl il 23 ot-

luglio 1980 n. 614: “Ristrutturazione e potenziamento degli uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera e degli uffici veterani di confine, di porto, di aeroporto e di dogana interna (articolo 7 della legge n. 833 del 1978)”; Decreto del Presidente della Repubblica 31 luglio 1980 n. 615: “Istituzione del ruolo speciale previsto dall’articolo 24 della legge 29 febbraio 1980, n. 33, presso il Ministero della sanità”; Decreto del Presidente della Repubblica 31 luglio 1980 n. 616: “Assistenza sanitaria ai cittadini del Comune di Campione d’Italia(articolo 37 della legge n. 833 del 1978)”; Decreto del Presidente della Repubblica 31 luglio 1980 n. 617: “Ordinamento, controllo e finanziamento degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (articolo 42 della legge n. 833 del 1978)”; Decreto del Presidente della Repubblica 31 luglio 1980 n. 618: “Assistenza sanitaria ai cittadini all’estero (articolo 37 della legge n. 833 del 1978)”; Decreto del Presidente della Repubblica 31 luglio 1980 n. 619: “Istituzione dell’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (articolo 23 della legge n. 833 del 1978)”; Decreto del Presidente della Repubblica 31 luglio 1980 n.620: “Disciplina dell’assistenza sanitaria al personale navigante, marittimo e dell’aviazione civile (articolo 37 della legge n. 833 del 1978)”.40  Comunicazione del ministro Aniasi alla riunione della XIV Commissione permanente (Igiene e Sanità) della Camera sullo stato di attuazione della legge 23 dicembre 1978 n. 833, 14 gennaio 1981, in AFA, MS, 1980-1981, Riforma sanitaria, b. 2 fasc. 1.2.2.

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tobre 1979 – consentendo di definire le procedure di attuazione del Piano ed i vincoli reciproci dello Stato e delle regioni. Si stabilì, per esempio, che il governo in caso di inerzia delle regioni potesse segnalare il fatto al Parlamento e, per contro, che 5 consigli regionali potessero attuare analoga procedura nell’ipo-tesi di inerzia dell’amministrazione centrale; vennero previste le incombenze e le responsabilità a carico delle regioni in caso di disavanzo delle Usl; si fissò il termine entro cui le regioni avrebbero dovuto approvare i piani regionali. Gli emendamenti al piano definivano inoltre i progetti-obiettivo e le azioni priori-tarie cui le regioni e le Usl dovevano riferirsi e a cui erano vincolate le risorse destinate agli investimenti. Sotto l’aspetto contenutistico, restavano confermate gli obiettivi strategici del piano. Ai dieci programmi di azione ne veniva aggiunto un altro relativo alla “Integrazione delle attività sociali a rilievo sanitario”. Ai progetti-obiettivo per la lotta alla mortalità infantile, per la tutela della salute degli anziani e per la tutela della salute dei lavoratori, gli emendamenti al piano, oltre ad arricchire le proposte precedenti, aggiungevano la tutela della mater-nità consapevole e le azioni per prevenire, attraverso una corretta informazio-ne, l’educazione sanitaria, la contraccezione e adeguate forme di assistenza, il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza; la prevenzione delle tossico-manie, assistenza e recupero dei tossicodipendenti; lotta ai tumori e assistenza oncologica; assistenza agli handicappati. Il piano sanitario individuava così nella formula dei progetti-obiettivo la modalità nuova per affrontare i problemi rite-nuti prioritari della tutela della salute, promuovendo nuove tipologie di relazio-ni intersettoriali nel contesto della programmazione economica e della politica sociale. Quanto all’aspetto finanziario del piano si rendeva indispensabile rive-dere le previsioni di spesa, considerando l’esercizio 1980 anno ponte e spostan-do il triennio di validità del piano agli anni 1981-198341. L’attuazione del piano passava infine anche attraverso una razionalizzazione della spesa farmaceutica, e per questo, sarebbe stato necessario affrontare globalmente una “politica del farmaco”. Punti essenziali dovevano essere a suo avviso, la ristrutturazione della politica tariffaria del ticket per renderlo proporzionale (almeno a fasce) con la spesa del medicinale, esentando nel contempo i titolari di modeste pensioni e gli anziani dal pagamento; la corretta informazione sull’efficacia dei farmaci; l’edu-cazione sanitaria e disciplina della pubblicità; la formulazione di un prontuario terapeutico che progressivamente escludesse le specialità di scarsa efficacia e i duplicati; la rigorosa politica delle registrazioni con conseguente incentivazione

41  Il disegno di legge 496 che approvava il piano sanitario nazionale per il triennio 1980-1982 ven-ne presentato alla presidenza del Senato il 22 novembre 1979: Memoria per il Consiglio dei ministri. Oggetto: Emendamenti al piano sanitario, 1981, s.d., in AFA, MS, 1980-1981, Riforma sanitaria 1980, b. 1, fasc. 1; Piano sanitario nazionale 1981-1983, a cura dell’Ufficio Centrale Programmazione Sani-taria, testo presentato al Senato, 10 dicembre 1980.

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della ricerca scientifica in ambito farmaceutico. Tra gli obiettivi del ministro vi era anche quello di definire una proposta circa la convenzione tipo Università-Regione e, in quel contesto, i problemi relativi alla formazione dei medici. Aniasi riteneva infatti che i rapporti tra Università e Servizio sanitario nazionale doves-sero garantire non solo le prestazioni dell’assistenza sanitaria ma anche forme di educazione scientifica e clinica anche in attesa della riforma della facoltà di Medicina. Per quanto riguarda le convenzioni mediche, infine, il ministro giudica-va rilevanti i risultati raggiunti con il rinnovo della convenzione della medicina generica e pediatrica. Alla definizione dell’accordo con i sindacati dei medici generici si era giunti grazie alla solidarietà e compattezza della parte pubblica regioni, Anci, rappresentanze dei Ministero del Tesoro, del Lavoro e della Sanità.

2.1 La lotta alla droga

Come abbiamo visto, uno dei progetti-obiettivo compresi nel nuovo Piano sani-tario riguardava la prevenzione delle tossicomanie e il recupero dei tossicodi-pendenti. A questo proposito il ministro Aniasi presentava una relazione al Par-lamento sul fenomeno e la diffusione della tossicodipendenza in Italia negli anni 1979-198042, riferendo in sintesi i provvedimenti adottati e le attività svolte dal Ministero e dalle regioni.

Il 7 agosto 1980 il Ministero della Sanità emanava il decreto ministeriale «Regolamentazione dell’impiego di farmaci ad azione analgesico-narcotica sul trattamento dei tossicodipendenti» che affidava alle Unità sanitarie locali e alle regioni di individuare i presidi socio-sanitari nel cui ambito venissero istituiti i servizi per l’accertamento degli stati di tossicodipendenza che avevano come compito quello di raccolta dei dati anamnestici, di effettuare l’esame obiettivo e la valutazione del grado di assuefazione ed, eventualmente, di rinvenire la presenza di oppiacei e dei loro metaboliti nei liquidi biologici. Accertato lo stato di tossicodipendenza, e su richiesta dello stesso tossicodipendente, veniva dato avvio al trattamento che doveva essere effettuato o dal servizio competente per territorio, o dal medico curante, secondo un piano terapeutico concordato, attra-

42  Relazione sull’andamento del fenomeno delle tossicodipendenze e sulla efficacia delle misure adottate negli anni 1979-1980 (art. 1 della legge 22 dicembre 1975, n. 685). Presentata al Parla-mento dal Ministro della Sanità pro tempore On.le Aldo Aniasi, Roma, 1982, in AFA, MS, 1980-1981, Dipendenze. Materiali di studio, Ministero della Sanità.

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verso la somministrazione di farmaci ad azione analgesico-narcotica con l’utiliz-zazione dei soli farmaci inseriti nel protocollo di registrazione.

La situazione precedente l’entrata in vigore di tale decreto era stata carat-terizzata da un’assoluta confusione per la mancanza di un chiaro riferimento normativo. Si assisteva, così, a una situazione di disomogeneità nelle condotte terapeutiche applicate nelle varie regioni che comportava gravi disagi sia per gli utenti, sia per gli operatori che, in alcune circostanze, erano oggetto anche di procedimenti penali per l’assenza di una certa definizione di legittimità di tali trattamenti. Con l’introduzione del decreto del 7 agosto 1980 si prevedeva, peraltro, il ripristino della vendita del metadone in sciroppo nelle farmacie per il trattamento di disassuefazione dei tossicodipendenti, creando, però, problema-tiche aggiuntive, in quanto era in atto in alcune regioni l’utilizzo della morfina. Si temeva che una interruzione brusca dei trattamenti morfinici potesse provo-care ulteriori conseguenze. Per correggere la situazione esistente, si provvide all’emanazione di un secondo decreto ministeriale, il 10 ottobre 1980 «Impiego di preparati a base di metadone e morfina per il trattamento di tossicodipenden-ti», che permise, solamente per uso sperimentale nei programmi esplicitamente autorizzati, l’utilizzo di preparati galenici di morfina cloridrato in luogo ai pre-parati galenici di metadone. Nel decreto si distinguevano differenti trattamenti a secondo che si trattasse di casi di intossicazione acuta, di trattamenti brevi di disassuefazione (per convenzione venivano considerati tali se condotti entro il termine di 21 giorni), di trattamenti protratti di disassuefazione (per convenzione al di sopra dei 21 giorni). Per quest’ultimi interventi, in quanto i soggetti sottopo-sti, di norma, risultavano i più gravemente compromessi da abuso degli oppiacei, si rendeva necessario anche l’ausilio di forme integrate di intervento psicologico e socio-riabilitativo.

Esaminando le modalità di attuazione e i tempi in cui furono realizzati dalle regioni gli interventi previsti dalla legge 685, Aniasi osservava come nelle regio-ni del centro-sud, il problema fosse stato affrontato con notevole ritardo rispetto a quelle del nord, e in regioni come la Calabria e la Sicilia, ove il fenomeno della tossicodipendenza si stava diffondendo in misura crescente, non era stata svolta un’adeguata attività di prevenzione. Nonostante in tutte le regioni si fosse prov-veduto a istituire i servizi per il trattamento (sia con cure farmacologiche ma an-che con interventi socio-psicologici, i quali «richiedono tempi di attuazione più lunghi»), l’azione preventiva fu trascurata, sia per quanto concerne la prevenzio-ne primaria (intendendo per essa la lotta alle cause di emarginazione e di disa-dattamento), sia per il reinserimento sociale e lavorativo dei tossicodipendenti.

I Comitati regionali per la prevenzione delle tossicodipendenze (Crpt) ven-nero istituiti in tutte le regioni anche se il loro grado di efficienza e operatività variava da regione a regione, palesando situazioni di criticità in molte regioni del sud, in cui, come in Basilicata e Calabria, non era ancora stato adottato il piano

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regionale di intervento previsto dall’art. 92 della legge n. 685. I Centri medici di assistenza (Cmas), previsti dall’art. 90 della suddetta legge, vennero istituiti in quasi tutte le regioni, e in alcune di esse si assistette all’utilizzazione di struttu-re già esistenti, creando servizi strettamente collegati, come previsto dagli artt. 90 e 92 che affidavano i Cmas alla competenze delle Usl per affrontare il tema della tossicodipendenza in termini complessivi rivolti alla prevenzione, alla cura e recupero degli stati di tossicodipendenza in una visione articolata di servizi socio-sanitari.

Negli anni presi in considerazione, solo poche regioni trasferirono alle Usl le competenze e le funzioni dei Cmas, evidenziando notevole disparità tra regione del nord e del centro-sud.

Nel 1979, in base all’elaborazione delle schede di rilevamento sull’andamen-to del fenomeno della tossicodipendenza, le quali fornivano notizie sull’età, il sesso, la situazione scolastica e lavorativa, i ricoveri, l’inizio del trattamento e il tipo di sostanza utilizzata, fu possibile avere un quadro d’insieme della tossicodi-pendenza in Italia. Va aggiunto, tuttavia, che tale quadro d’insieme era solo par-ziale e i dati emersi poco significativi, poiché solamente undici regioni avevano inviato dati completi, cioè riferiti all’intero anno; quattro regioni solo per il primo semestre; due regioni solo per il secondo semestre; e le rimanenti non avevano inviato nessuna comunicazione. Inoltre dai dati ottenuti non era stato possibile ricavare il numero totale dei soggetti tossicodipendenti, in quanto le cifre dispo-nibili erano riferite al numero totale di schede pervenute e non al numero dei soggetti, risultando impossibile evitare che uno stesso soggetto potesse venire registrato più volte, per la facoltà di compilazione di schede anonime. Le difficol-tà intervenute potevano fare riferimento a cause contingenti l’avvio del canale informativo ma era probabile che la principale motivazione si riconducesse alla difficoltà di stabilire un rapporto col tossicodipendente, che in uno studio epide-miologico rappresentava la fonte principale per indagare sia l’entità sia le cause del fenomeno nel loro complesso ed evitare che i dati raccolti avessero solo ca-rattere puramente descrittivo senza porre attenzione a meccanismi psicologici e sociali che erano alla base del fenomeno in esame.

I dati raccolti evidenziarono che la maggior parte delle segnalazioni proveni-vano, nel 1979, dalle regione del nord rispetto a centro-sud, sia per una migliore organizzazione strutturale ma anche per una caratteristica peculiare del feno-meno di tossicodipendenza, cioè la sua connessione col tessuto urbano della so-cietà industriale. Nel 1980 il numero delle segnalazioni era aumentato rispetto all’anno precedente ma tale dato non doveva far presagire una recrudescenza del fenomeno ma solo un aumento delle segnalazioni, specialmente nelle regio-ni meridionali, permettendo, però, di constatare un maggior contatto tra i tossi-codipendenti e le Istituzioni, riscontrabile anche nella diminuzione dei casi in cui si ricorreva al ricovero ospedaliero, utilizzando i servizi dislocati sul territorio. A

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livello statistico la maggior parte dei soggetti dediti all’uso di droghe era di sesso maschile e l’età media di prima assunzione cadeva nell’adolescenza. Per quanto concerne il livello culturale della maggior parte dei consumatori di stupefacenti si osservava una scolarità di tipo medio-alto, infatti il 70% possedeva un titolo di studio di scuola media inferiore e superiore, ma si riscontrava anche che la maggior parte dei tossicodipendenti aveva difficoltà di inserimento nel mondo lavorativo, poiché soltanto il 26% risultava occupato stabilmente. Nel 1980 si era verificato un aumento dei decessi dovuti essenzialmente a un maggior consumo di eroina rispetto ad altre sostanze, qualificando il fenomeno come problema clinico e sociale.

Tutto ciò spinse il Ministero della Sanità ad affidare, nel 1979, al Consiglio na-zionale per le ricerche e all’Istituto superiore di sanità un’indagine epidemiologi-ca che permettesse di quantificare e descrivere le caratteristiche del fenomeno della tossicodipendenza. Tale progetto prese il nome di Progetto TO.DI, artico-lato in due fasi: la prima, già terminata, si basava sul raggiungimento di alcuni obiettivi, quali l’identificazione dei dati per una valutazione epidemiologica a li-vello nazionale e regionale, utilizzando anche i rapporti della Direzione centrale antidroga del Ministero dell’Interno (Dad) e pubblicando i risultati ottenuti nel “ Rapporto droga Italia 1977-78-79”; la seconda fase consisteva in un’indagine trasversale a campione sull’assunzione di oppiacei tra i giovani iscritti alle leva militare del 1980 in sette città italiane (Torino, Milano, Genova, Bologna, Firenze, Roma e Palermo). Dalle rilevazioni nel 1980 si poté osservare un incremento del 5% del numero totale di assuntori di oppiacei, che mise in luce un peggioramen-to del fenomeno della tossicodipendenza.

Il Ministero della Sanità aveva promosso anche la ricerca scientifica che per-mettesse di affrontare i vari aspetti del fenomeno, da quello farmacologico a quello clinico, da quello epidemiologico a quello socio-psicologico. Tali inizia-tive vennero prese nell’ambito di un’attività di prevenzione coordinata con altri Ministeri, quali quello degli Affari Esteri, dell’Interno, della Difesa, di Grazia e Giustizia e della Pubblica Istruzione, diretta a garantire una corretta applicazio-ne dei decreti emanati e a rendere omogenei e uniformi l’assistenza e i tratta-menti di disintossicazione.

L’opera del Ministero degli Affari Esteri in materia di lotta contro l’abuso di stupefacenti si esplicava in due direzioni: una istituzionale con la partecipazione ai lavori della Commissione Stupefacenti dell’Onu e del Consiglio d’Europa, e una più pratica concernente l’assistenza agli italiani all’estero. Nel 1979 si tenne a Ginevra la 28° Sessione ordinaria della Commissione Stupefacenti che ebbe come temi precipui, l’andamento del traffico della droga, l’epidemiologia dell’a-buso e le linee per una strategia di azione. Si giunse alla conclusione, analizzan-do alcuni indicatori, di un aumento del volume di traffico delle droghe e delle sostanze sequestrate tali da suscitare preoccupazione nella comunità interna-

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zionale. Per quanto concerne l’assistenza agli italiani all’estero, sia espatriati temporaneamente come nel caso della maggior parte dei tossicodipendenti, sia stabilmente residenti in Paesi stranieri, essa doveva rientrare nelle funzioni con-solari, attraverso aiuti finanziari o rimpatri dopo aver vagliato attentamente il problema e nel limite dei fondi disponibili. In altri casi l’assistenza nei confronti di malati o detenuti poteva essere diretta (come visite consolari, consegna pac-chi) o indiretta, attraverso interventi presso personale sanitario, legali difensori, autorità locali giudiziarie e di polizia. Compito delle rappresentanze era anche quello di sostegno nei confronti dei detenuti per spaccio o uso di stupefacenti o sostanze psicotrope, cercando di migliorare le condizioni carcerarie o di svol-gere un’opera presso le autorità locali al fine di diminuire la pena detentiva e di agevolare il mantenimento dei contatti con i propri familiari. Particolare at-tenzione venne posta alla situazione esistente in India, Nepal e Thailandia, che rappresentavano le mete privilegiate dai giovani alla ricerca di esperienze misti-che, causando danni irreversibili sia fisici che psichici, determinando il ricovero in nosocomi per malattie mentali dovute ad abuso di sostanze stupefacenti o a decessi, talora non segnalati.

L’apporto che il Ministero dell’Interno alla lotta contro la tossicodipendenza si attuava con l’attività della Direzione centrale antidroga (Dad) che, elaboran-do i dati sulle attività dei tre corpi di polizia, forniva informazioni relative alla repressione del traffico illecito, ai detentori, ai consumatori di sostanze stupefa-centi e ai loro decessi. Nel 1979 l’opera del Dad, dei carabinieri e della Guardia di finanza, in cooperazione con l’amministrazione doganale e l’Interpool, por-tarono a un incremento della droga sequestrata e mantennero l’impegno prio-ritario alla lotta contro il traffico dell’eroina, che proveniva nella maggior parte dal Medio Oriente (soprattutto la Turchia via terra) e il rimanente dal sud-est asiatico (Thailandia). Particolarmente preoccupante fu anche l’aumento dei se-questri della morfina, sempre proveniente in massima parte dal Medio Oriente, ma transitante nei paesi europei, i quali rappresentavano la sede in cui veniva trasformata in eroina, come ne era prova la scoperta di due laboratori clandesti-ni di eroina a Milano e a San Remo nel novembre del 1979. In aumento anche il sequestro dell’oppio.

Il traffico internazionale dei derivati della cannabis restava, comunque, il più esteso; le fonti principali del traffico, per l’hashish era il Medio Oriente e il Nord Africa; per la marjuana i paesi africani siti a sud del Sahara. In aumento anche il sequestro della cocaina, sostanza proveniente, per la maggior parte, dal Sud-America, importata clandestinamente da connazionali collegati con ambienti delinquenziali dei grossi centri urbani. Non mancavano sequestri di sostanze psicotrope, quali anfetamine e Lsd.

Rispetto agli anni precedenti erano aumentate anche le persone denunciate per possesso di sostanze stupefacenti e la maggioranza di queste persone risul-

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tava avere un’età compresa tra i 18 e 25 anni per lo più di sesso maschile anche se il numero delle femmine risultava in costante incremento.

In controtendenza rispetto agli anni precedenti si osservò una diminuzione dei furti di stupefacenti a danno di farmacie, ospedali e di rapine. La spiegazione era data dalla maggiore disponibilità di eroina a causa del traffico illecito che aveva comportato anche un incremento dei decessi di assuntori di droghe, per lo più compresi nella fascia di età tra i 18 e 25 anni e tra i 26 ei 40 anni, con l’aumen-to del numero dei decessi femminili e per la prima volta la presenza di minori.

Nel 1980 la situazione si era acuita ulteriormente con un incremento dei se-questri di eroina, rispetto al 1979, del 130.87%. I dati riflettevano l’ulteriore ag-gravamento in Europa di oppiacei provenienti per lo più dalla zona del Medio Oriente. Aumenti si registrarono anche nel sequestro di tutte le altre sostanze, quali la morfina, la cocaina, le sostanze psicotrope e tutti i derivati della canna-bis. La situazione in Italia era peggiorata, in quanto erano cresciuti notevolmente i denunciati per reati in materia di stupefacenti e reati per l’acquisizione di dro-ghe, quali furti e rapine presso farmacie e ospedali. I decessi correlati all’uso di droghe, quasi tutti dovuti a incidenti di assunzione di eroina, si intensificarono, mantenendosi maggioritari nelle fasce di età 18 e 25 anni e 26 e 40 anni, con un aumento dei deceduti tra le donne e i minori.

La lotta contro la tossicodipendenza aveva interessato anche il Ministero della Difesa, il quale, nel biennio 1979-80, aveva attivato una campagna di sen-sibilizzazione sia dei quadri di comando sul problema della droga con la distri-buzione del volume Perché ci droghiamo - la scimmia in corpo del Gen. Med. Elvio Melorio, sia ai militari di leva con l’opuscolo «Informazioni sulla droga» che conteneva informazioni essenziali sui vari tipi di droga e sui loro pericoli. Venne istituito, a titolo sperimentale, un consultorio di psicologia nella regione militare di nordest con la funzione di dare ai giovani psicologicamente esposti alla tenta-zione della droga l’appoggio morale e la consulenza psicologica, con l’intento di creare nuovi consultori in altre zone del paese. Dai rapporti delle Forze Armate tra i militari di leva, nel 1980, emergeva che la maggioranza dei militari di leva dediti alla droga era presente entro il primo mese di servizio, con un trend che diminuiva con l’aumentare dell’anzianità.

L’aspetto principale che emergeva dalla relazione svolta dal Ministro Aniasi era la mancanza di prevenzione su questi temi. Per tale motivo si erano intrapre-se iniziative coordinate di prevenzione col Ministero di Grazia e Giustizia, ricono-scendo l’elevato numero di tossicodipendenti detenuti nelle carceri italiane, con l’intento di organizzare servizi di disintossicazione all’interno dei penitenziari.

Andava rivelato, che per quanto riguardava la cura e la riabilitazione dei sog-getti detenuti, non vi era omogeneità sul territorio nazionale. L’attuazione della legge 685/1975 e dei due decreti Aniasi era stata discontinua e frammentaria. Solo in poche regioni, per lo più nel centro-nord, si era potuto assistere all’inter-

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vento di organismi decentrati in molte realtà penitenziarie, attraverso la stipula di convenzioni tra le diverse Usl con i diversi istituiti penitenziari che garantisse-ro regolari forme di consulenza per il trattamento sanitario e psicoriabilitativo dei tossicodipendenti secondo le previsioni dell’art. 84 della legge 685/1975 e dei decreti ministeriali del 7 agosto e 10 ottobre del 1980. Gli istituti che si avva-levano di una regolare équipe esterna regolata da apposita convenzione erano quelli di Torino, Milano, Brescia, Como, Ferrara, Forlì, Ravenna, Rimini, Saliceta S. Giuliano, Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Montelupo F., Velletri, Viterbo- So-riano nel Cimino. Ad essi si aggiungevano istituti in cui di fatto si era instaurata da anni una buona collaborazione anche se non ancora formalizzata (Bologna, Firenze, Regina Coeli a Roma).

Anche il Ministero della Pubblica Istruzione, nel biennio 1979-80, aveva istitu-ito e finanziato corsi non residenziali, corsi semiresidenziali, residenziali, nazio-nali, itineranti, seminari e conferenze regionali allo scopo di offrire strumenti va-lidi per impostare il problema della prevenzione nel quadro di una responsabile educazione sanitaria, intesa come componente del processo educativo nella sua globalità. Furono proposte conferenze i cui argomenti delle relazioni erano «Condizione giovanile e droga», «Come la scuola può rispondere alle problema-tiche emergenti nel mondo giovanile», rivolti ai docenti. Nel 1980 si era infine costituito un gruppo di studio interministeriale (Ministeri della Pubblica Istru-zione e Sanità) per l’educazione sanitaria, con il fine di concretare un piano di aggiornamento dei programmi vigenti e di inserimento dell’educazione sanitaria nelle scuole per la diffusione di temi come la prevenzione dell’uso della droga.

2.2 La legge 194 e la sua applicazione: alcuni dati

Senza entrare nel merito del complesso dibattito politico e culturale che ruota intorno alla legge 194, le carte Aniasi ci consentono di fotografare lo stato di applicazione della legge nei tre anni successivi alla sua entrata in vigore, attra-verso l’analisi dei dati raccolti dall’Istat sulla base di un questionario, e di quelli comunicati dalle regioni alla Direzione generale di medicina sociale del Ministe-ro della Sanità relativi al primo semestre del 1980, efficacemente sintetizzati in

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una relazione che il ministro tenne in parlamento il 21 aprile 198143, alla vigilia del referendum sull’aborto.

Nel 1980 il numero degli aborti legali era aumentato sia in termini assoluti che in rapporto ai nati vivi: a fronte dei 93.917 interventi (pari al 275.7 per mille nati vivi) praticati nella prima metà del 1979 si era passati, nei primi sei mesi del 1980 a 113.345 interruzioni volontarie di gravidanza, pari a 352.4 per mille nati vivi. Si trattava, secondo il ministro, di un risultato positivo perché segna-lava, rispetto agli anni precedenti, un’ulteriore contrazione dell’area dell’abor-to clandestino e una maggiore capacità delle strutture sanitarie di rispondere alle esigenze delle donne. L’aumento del numero degli interventi si registrava su tutto il territorio nazionale anche se in misura assai differenziata da regione a regione. Questi diversi tassi di incremento indicavano che erano ancora lun-gi dall’essere superati gli squilibri tra le diverse aeree geografiche del paese: i maggiori aumenti, infatti, erano stati registrati nelle regioni che già negli anni precedenti avevano presentato un più alto tasso di abortività. Così, se era pur vero che, ad esempio, in Calabria, in Campania o in Basilicata, dove nel 1979 si erano registrati i tassi più bassi (rispettivamente 90,1%°, 104, 1%°, 137%°), si erano realizzati nel corso del 1980 incrementi compresi tra il 10%° e il 63%°, era altrettanto vero che in alcune regioni settentrionali, quali Lombardia, Emi-lia Romagna e Liguria – dove già nel 1979 il ricorso alla legge 194 era risultato assai ampio – si registrarono incrementi nettamente superiori, pari mediamente all’80%°. Dunque, non solo non erano stati superati gli squilibri denunciati negli anni scorsi ma, al contrario, se si osservavano i dati aggregati per grandi aree geografiche, si notava che essi tendevano ad accentuarsi: dal primo semestre del 1979 al primo semestre del 1980, infatti, era aumentato il differenziale tra centro nord e Mezzogiorno complessivamente considerati. Nelle regioni meri-dionali il ricorso all’aborto legale risultava molto più circoscritto rispetto alle altre zone del paese. Il fenomeno, tuttavia, non era riconducibile ad una mag-giore diffusione dei metodi contraccettivi sia per le resistenze culturali che il loro uso ancora incontrava, sia perché nel Mezzogiorno maggiori erano stati i ritardi nell’istituzione dei consultori. Certamente, sottolineava Aniasi, sul feno-meno poteva aver influito la maggiore disponibilità delle donne meridionali ad accettare gravidanze indesiderate (ne era una prova, tra l’altro, l’alto numero dei figli, oltre il 5°); ma, dai dati raccolti emergeva chiaramente che il fenomeno era riconducibile alla sopravvivenza soprattutto al sud dell’aborto clandestino. E d’altronde, tale ipotesi risultava confermata dal fatto che nel 1980 così come nei primi due anni di applicazione della legge 194, il più basso tasso di funzio-

43 Relazione del ministro della Sanità Aldo Aniasi al Parlamento sull’applicazione della legge 22 maggio 1978 n. 194, 21 aprile 1981, in AFA, MS, 1980-1981, Legge 194, b. 4, fasc. 5.

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nalità della legge stessa era strettamente legato alla minore funzionalità delle strutture ospedaliere e al maggior ricorso da parte del personale medico e pa-ramedico all’obiezione di coscienza. Nelle regioni meridionali e insulari, infatti, si registrava un più basso numero di posti letto delle specialità ostetrico-gineco-logiche e, nel contempo, un più alto numero di medici obiettori di coscienza. In alcune regioni, le medesime in cui si era verificato il minor numero di aborti, la percentuale dei medici obiettori aveva raggiunto punte abnormi (97% in Basili-cata, 92% in Trentino Alto Adige, 88,5% nel Molise, 79% in Campania) creando, di fatto, una situazione di paralisi e impedendo una corretta applicazione della legge. Tuttavia, anche con riguardo alle regioni in cui le interruzioni volontarie di gravidanza richieste e autorizzate – pur se tra notevoli difficoltà – erano state generalmente praticate i dati imponevano una riflessione: il fatto che anche nel centro nord il numero degli aborti, in termini assoluti e in rapporto ai nati vivi, tendesse ad un lento e costante incremento, nonostante fosse aumentato nel medesimo arco di tempo il numero dei consultori e si fosse registrata una certa diffusione all’uso dei metodi contraccettivi, confermava che l’aborto legale «non è che la punta dell’iceberg che ancora rimane in larga parte sommerso nell’om-bra della clandestinità». Esso, continuava Aniasi, «viene alla luce gradualmente, man mano che le donne acquistano consapevolezza dei propri diritti, si liberano di antichi condizionamenti culturali e sociali» e, nello stesso tempo, via via che «le strutture e i servizi pubblici divengono più accessibili, riescono a soddisfare le esigenze delle donne che vi si accostano in un momento difficile, senza sco-raggiarle con lentezze burocratiche o con comportamenti disumani»44. In base ai dati raccolti, era ipotizzabile che negli anni successivi si sarebbe registrato un ulteriore aumento del numero degli aborti, «fino a quando non si potranno avere finalmente concreti risultati da una politica di prevenzione e di educazione sa-nitaria, grazie alla quale l’aborto possa non essere utilizzato come strumento di contraccezione». In questo senso, una più attenta analisi dei tassi di abortività, considerati per fasce d’età e per stato civile, confermava come le donne fossero in molti casi costrette a ricorrere all’aborto per la mancanza di informazione e di pratica contraccettiva. Nelle due fasce estreme – al di sotto dei 18 anni e al di sopra dei 36 – i tassi di abortività erano in genere più alti di quelli per le donne in età compresa tra i 18 e i 36 anni, così come il tasso delle donne nubili era net-tamente superiore a quello fatto registrare dalle donne coniugate. Questi dati farebbero ritenere che sia per le giovanissime e per le donne non sposate che per le donne che, dopo i 36 anni, tendevano a considerare chiuso il numero delle gravidanze, l’aborto fosse utilizzato come metodo di contraccezione. La preven-zione, dunque, punto cardine della nuova politica sanitaria impostata dalle leg-

44  Ibid.

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ge di riforma, doveva diventare anche nel campo della procreazione il principale strumento di intervento affinché il concepimento fosse sempre il risultato di una scelta consapevole e responsabile della coppia. A tal fine andavano potenziati i consultori famigliari – la cui istituzione risaliva al 197545 – sollecitando le regioni, alcuni delle quali, soprattutto nel Mezzogiorno, avevano fatto registrare carenze assai gravi in questo settore. Basti pensare che su 1029 consultori funzionanti, solo 135 (il 13%) erano localizzati al Sud. Non era pertanto accettabile, sostene-va Aniasi, che «queste stesse donne, vittime delle carenze di una organizzazione sociale e sanitaria che solo di recente ha affrontato il problema complessivo del-la tutela della salute femminile, siano esposte ai rischi fisici e al dramma umano dell’aborto clandestino»46. L’impegno assunto dal governo doveva dunque essere rivolto a garantire l’attuazione integrale della legge, da una parte, intensifican-do, sia a livello centrale e locale, anche attraverso i mezzi di comunicazione di massa, l’attività di informazione e, dall’altra, potenziando, come si è detto, le strutture. Con l’istituzione delle Unità sanitarie locali era ormai possibile, infatti, utilizzare i presidi extra ospedalieri per praticare gli interventi di interruzione volontaria di gravidanza.

2.3 Le linee di azione

Le azioni proposte dal progetto-obiettivo “Tutela della maternità consapevole, la lotta alla mortalità infantile e la tutela della salute in età evolutiva”, inserito dal ministro nel nuovo Piano sanitario, prevedevano per il triennio 1981-83 una serie di interventi volti a stimolare le regioni ad una sollecita realizzazione dei servizi consultoriali, sì da costruire una rete che coprisse tutto il territorio nazio-nale ed a promuovere l’informazione e l’educazione sessuale con iniziative sia

45  Legge 405 del 29 luglio 1975, Istituzione dei consultori familiari. Si veda, per esempio, Silvia Cassamagnaghi, Educazione e prevenzione. La nascita e l’attività dei consultori laici a Milano negli anni del centro-sinistra, in Carlo G. Lacaita e Maurizio Punzo (a cura di), Milano. Anni Sessanta. Dagli esordi del centro-sinistra alla contestazione, Manduria, Piero Lacaita Editore, 2008, pp. 581-605.46  Relazione del ministro della Sanità Aldo Aniasi al Parlamento sull’applicazione della legge 22 maggio 1978 n. 194, 21 aprile 1981, in AFA, MS, 1980-1981, Legge 194, b. 4, fasc. 5. Le linee d’azione qui indicate erano state presentate dal ministro anche al Seminario organizzato dall’Aied (Associa-zione italiana per l’educazione demografica) il 20 novembre 1980. Relazione del ministro Aniasi al Seminario nazionale per operatori socio-sanitari su contraccezione, sessualità e aborto, Roma, 20 novembre 1980, in AFA, MS, 1980-1981, Legge 194, b. 4, fasc. 5. Si veda anche Aniasi: così farò funzio-nare la legge, in “L’Europeo”, n. 23, 3 giugno 1980.

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a livello nazionale, regionale e locale. Si trattava, innanzitutto, di far conoscere la legge 194; in questo senso, infatti, era mancata un’opera di informazione seria e diffusa che utilizzasse oltre alla rete sanitaria, i media. Stampa e televisione si erano limitati a privilegiare le polemiche politiche e la battaglia sul referendum, piuttosto che a far conoscere i termini precisi della legge, i suoi principi ispiratori e le modalità applicative, i diritti e i doveri dei medici e delle donne. A queste carenze intendeva porre rimedio il progetto-obiettivo sviluppando gli interven-ti di educazione alla procreazione responsabile e attraverso la diffusione della conoscenza dei mezzi contraccettivi. Parallelamente erano previste iniziative nel settore della ricerca sia nel campo delle metodiche di contraccezione sia per l’individuazione e prevenzione dei fattori di rischio in particolare di quelli genetici. Per le fasi successive al concepimento il progetto definiva gli interventi finalizzati all’assistenza delle gestanti e dei neonati. Il Piano, dunque, delineava una strategia complessiva dell’intervento per la tutela materno-infantile, speci-ficando e approfondendo le direttrici tracciate dalle leggi 405/1975 e 194/1978. Ma senza aspettare l’attuazione del Piano, le regioni si sarebbero dovute attiva-re per accelerare l’istituzione di nuovi consultori. In molti casi, infatti, l’inerzia delle regioni non era giustificata dalla mancanza di mezzi finanziari, le somme destinate ai consultori risultavano pressoché intatte. Senza sostituirsi alle regio-ni e nei limiti delle autonomie statali, il proposito di Aniasi era quello di emanare un atto di indirizzo indicando alle regioni le azioni prioritarie da svolgere e sug-gerendo gli strumenti per superare gli ostacoli che ancora si frapponevano alla piena attuazione della legge 194: utilizzazione dei fondi già disponibili per la realizzazione dei consultori; attività di prevenzione e di informazione sanitaria nell’ambito delle Usl; organizzazione delle strutture ambulatoriali tale da con-sentire gli interventi di interruzione volontaria di gravidanza anche al di fuori dell’ospedale e quindi di superare più agevolmente i problemi posti, in alcune situazioni, dal massiccio ricorso all’obiezione di coscienza. Era chiaro, tuttavia, che un’eventuale abrogazione della 194 avrebbe troncato di netto le azioni av-viate, vanificato gli sforzi e reso impraticabili alcune delle più qualificanti inizia-tive previste dal Piano.

3. La strada da percorrere

Valutando complessivamente il processo in atto, Aniasi affermava che la dire-zione impressa dalle scelte del governo e delle regioni appariva coerente con la riforma sanitaria. Tuttavia, l’esperienza del 1980 portava a rilevare che la tra-

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Roberta Cairoli, Educazione sanitaria, prevenzione e decentramento. Aldo Aniasi ministro della Sanità 115

sformazione del sistema nazionale si sarebbe completamente realizzata solo quando il Parlamento avrebbe approvato altre due leggi di riforma, e cioè la leg-ge quadro per l’assistenza sociale e la legge di riforma delle autonomie locali e della finanza locale, la quale «rappresenta lo strumento decisivo per risolvere le contraddizioni tra l’Unità sanitaria locale, comune e provincia»47. Segnalava inol-tre l’opportunità di procedere nella ricerca e nella definizione di standard che assicurassero uno sviluppo armonico e conforme del Servizio sanitario in tutte le regioni italiane, introducendo un nuovo sistema di indici e parametri, per garan-tire un sostanziale equilibrio nella spesa pro capite nelle varie regioni. Ma per-ché ciò accadesse occorreva contestualmente intervenire in termini significativi nel campo della formazione professionale, della riqualificazione del personale, ma soprattutto in quello dell’educazione sanitaria, tema particolarmente caro ad Aniasi. Le iniziative in tal senso dovevano essere rivolte al cambiamento del comportamento dei cittadini. L’educazione sanitaria, infatti, non si identificava solo «con l’attività che mira a fornire corrette informazioni ai cittadini per con-quistarne il consenso e ottenerne come riflesso comportamenti giovevoli alla propria e altrui salute (cambiamento di stile di vita)»48. Il concetto di educazione sanitaria comprendeva per Aniasi anche quello di azione per stimolare il coinvol-gimento responsabile del cittadino nella gestione sociale dei servizi. Il Ministero della sanità si prefiggeva dunque di partecipare attivamente a sviluppare questa dimensione del piano sanitario, facendosi promotore di campagne di educazio-ne sanitaria a carattere nazionale in accordo con le regioni e a sostegno delle iniziative che le stesse intendessero adottare. Ciò avrebbe spinto anche al poten-ziamento del ruolo della scuola nella formazione di base e nell’organizzazione generale della formazione permanente, facendo si che questi momenti educativi fossero legati alla correlazione fondamentale uomo-ambiente-società.

47  Comunicazione del ministro Aniasi alla riunione della XIV Commissione permanente (Igiene e Sanità) della Camera sullo stato di attuazione della legge 23 dicembre 1978 n. 833, 14 gennaio 1981, in AFA, MS, 1980-1981, Riforma sanitaria, b. 2, fasc. 1.2.2.48  Ibid.

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Governare insieme: autonomie e partecipazione Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento

A cura di Fiorella Imprenti e Francesco SamorèRoma (BraDypUS) 2017

ISBN 978-88-98392-66-7p. 117-142

L’inizio degli anni Ottanta vide l’aprirsi di una nuova fase politico istituzionale che, chiusa l’esperienza della solidarietà nazionale, sancì la nascita di una nuova maggioranza. Il pentapartito, che si inaugurava allora su un patto di pari dignità tra Democrazia cristiana e partiti minori (socialisti, socialdemocratici, repubbli-cani e liberali), si poneva gli obbiettivi della stabilità e della governabilità intesi come elementi indispensabili per affrontare una crisi complessiva, non solo di tipo congiunturale. La formazione del governo di Giovanni Spadolini ben rappre-sentò questo cambiamento; il primo governo, dopo l’esperienza di Ferruccio Par-ri, guidato da un esponente laico e non proveniente dalle fila della Democrazia cristiana, il maggiore partito della maggioranza.

Quello di Spadolini fu dunque un esecutivo che nacque con una forte ipotesi di riforma istituzionale e insieme di richiamo ai valori costituenti, al fine di libe-rare quelle energie che avrebbero consentito di superare le fasi più dure della congiuntura economica e del terrorismo e di rispondere all’aspirazione forte-mente sentita nel Paese di aprirsi ad una fase di rinnovamento. Il fuoco dell’asse politico-istituzionale si spostava dai partiti alle istituzioni e al governo, nel con-testo di un ampio dibattito volto a definire un generale riassetto del sistema: in discussione il bicameralismo, i poteri dell’esecutivo, la vocazione parlamentare o presidenziale dello Stato, la legge elettorale e l’articolazione dei poteri locali. In questo senso la scelta del nome di Aldo Aniasi fu la testimonianza dell’atten-zione riservata dall’esecutivo al tema del regionalismo e insieme fu l’opzione socialista per incidere nel senso del passaggio alla tanto auspicata Repubblica delle Autonomie.

Quando giunse a ricoprire il ruolo di Ministro per gli Affari regionali nei due governi Spadolini, tra giugno 1981 e dicembre 1982, Aldo Aniasi aveva alle spalle almeno tre decenni di riflessioni sul tema delle autonomie locali all’interno del

Rapporto sullo Stato delle autonomie. Aldo Aniasi ministro degli Affari Regionali (1981-1982)FIORELLA IMPRENTI

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Partito socialista. Assessore e Sindaco di Milano, dove aveva avviato l’esperienza delle giunte rosse, coinvolgendo il partito comunista nel governo della città, pro-motore del Centro di collaborazione tra i sindaci delle grandi città del mondo, era stato eletto parlamentare nel 1976 e contemporaneamente aveva assunto nel Psi la guida della sezione enti locali, da dove studiò e preparò numerosi pro-getti di legge sul tema della finanza locale e dell’ordinamento delle autonomie. Nel momento di apertura sul tema delle riforme istituzionali, anche la riflessio-ne sull’articolazione dei poteri locali riprendeva vigore sebbene lo stesso Aniasi rilevasse, in particolare tra i liberali e in larga parte della Democrazia cristiana, il tentativo di un’«offensiva neo-centralista». Di fronte a questa, occorreva a suo avviso dotarsi di ogni strumento conoscitivo e comunicativo per contrastare una sfiducia verso le autonomie che derivava in gran parte dalla delusione per l’e-sperienza dei primi dieci anni di vita delle regioni, segnate da difficoltà e ineffi-cienze; era però anche indispensabile tradurre le riflessioni in azioni e arrivare a tre riforme fondamentali per l’avvento della Repubblica delle Autonomie: la riforma della finanza locale e regionale, la riforma dei poteri locali, l’istituzione della Conferenza Stato Regioni. Questo fu in estrema sintesi il programma dei suoi mandati come ministro degli Affari regionali e che ne determinò gli obbiet-tivi, sia in direzione di un’indagine conoscitiva che facesse il punto sui primi dieci anni di vita delle regioni, sia nell’elaborazione di proposte di legge.

L’attuazione del dettato costituzionale in tema di autonomie

La storia delle regioni in Italia, che deve farsi risalire al dettato costituzionale, non originò tanto come in altri paesi dal riconoscimento di specificità e contrap-posizioni territoriali, culturali o linguistiche, quanto piuttosto dall’esigenza di pluralismo istituzionale, espressione e garanzia di libertà, maturata in polemica con l’assetto gerarchico e centralista dell’Italia liberale e in particolare dello Stato fascista1. In sede costituente si determinò una totale frattura tra il prece-dente regime statutario e la Repubblica che riconosceva le autonomie e nell’as-semblea costituente vi fu una sostanziale convergenza di tutte le forze politiche antifasciste sui temi dell’autonomia locale. In questo dibattito ebbe particolare

1  Fausto Cuocolo, Relazione introduttiva, in Fausto Cuocolo, Massimo Severo Giannini, Temistocle Martines, Giorgio Pastori, Aldo Bardusco, Elio Gizzi, Franco Bassanini, Pietro Virga, Serio Galeotti, Regioni e riforma istituzionale, Atti del convegno di Genova, Consiglio regionale della Liguria, 10-11 maggio 1984, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1985, pp. 14-15.

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rilevanza la posizione della Democrazia cristiana che, forte dell’eredità politi-ca di Sturzo, sollevò con maggiore vigore in sede costituente e nei primi anni Cinquanta la questione dei poteri locali, mentre le sinistre guardavano in modo privilegiato alle riforme “di struttura”, in particolare quella agraria, considerate possibili solo a seguito di un forte impulso centrale. L’affermazione autonomisti-ca fu comunque ampiamente riconosciuta nel testo della Costituzione, ponen-dola con l’art. 5 fra gli stessi principi fondamentali. La Regione, in particolare con l’art. 118 della Costituzione, veniva delineata inoltre come un ente politico, di indirizzo generale, lasciando gli aspetti amministrativi agli enti territoriali più prossimi ai cittadini, i comuni e le province, sull’ordinamento dei quali il costi-tuente riservava meno attenzione, rimandando alla legislazione corrente2.

Le posizioni politiche sul tema delle autonomie si capovolsero negli anni del centrismo, con la Democrazia cristiana solidamente alla guida del paese e con uno sguardo sempre più di carattere nazionale e centralista; per contrapposi-zione le sinistre furono pronte a sostenere fortemente l’ipotesi locale, recupe-rando anche le tradizioni delle giunte popolari e socialiste di inizio Novecento e radicandosi in solide esperienze amministrative, in parte con tratti anticipatori delle riforme che si prefiguravano per il livello nazionale, in parte sviluppando caratteristiche proprie. Il contesto iniziò a mutare negli anni Sessanta, in una fase economica e sociale espansiva e in coincidenza di un cambiamento culturale che investì la Chiesa, con il pontificato di Giovanni XXIII, come la società nel suo com-plesso e che pose le basi per l’allargamento della maggioranza al Partito sociali-sta, inaugurando la stagione del Centro-sinistra. Nel corso degli anni Sessanta si definì sia il contesto legislativo, in particolare con i provvedimenti sulla finanza locale e sulla legge elettorale regionale, sia il perimetro politico-ideale in cui calare l’assetto federale. Rispetto ai testi costituenti, in cui l’idea di autonomia locale si affermava come garanzia della comunità territoriale nei confronti del potere centrale, sempre di più la cultura delle autonomie veniva declinata nel senso di una più capillare possibilità partecipativa e di cittadinanza attiva. Pren-deva vigore inoltre il tema, o meglio l’idea della programmazione come metodo di governo, da declinare territorialmente e da costruire in modo partecipativo.

L’attuazione dell’ordinamento regionale, nel 1970, si ebbe sulla spinta dell’a-cuirsi delle lotte sociali e della contestazione operaia e studentesca. In quell’an-no giunsero in porto altre importanti riforme, dalla legge sul divorzio allo Statu-to dei lavoratori, che segnarono però la fine di un ciclo politico e il riemergere di squilibri strutturali e di nuovi problemi sociali, del terrorismo, della criminalità organizzata e di veri e propri processi di disgregazione, in una generale incapaci-

2  Piero Aimo, Stato e poteri locali in Italia. Dal 1848 a oggi, Carocci editore, Roma, 2012, pp. 121-130.

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tà delle istituzioni di fornire risposte se non di natura emergenziale, finendo per mettere in crisi l’idea stessa di programmazione3.

Fu questo contesto in cui si avviarono e si sperimentarono le prime legislature regionali, dedicate all’inizio alla scrittura degli statuti e all’elaborazione delle norme per il trasferimento delle competenze. La seconda fase, nella costruzio-ne dell’ente regione, si ebbe con la legge 382 del 1975 e il decreto attuativo della stessa, n. 616 del 1977, con il quale si attuò il completamento del passag-gio di funzioni alle regioni sulla base di materie di competenza: ordinamento e organizzazione amministrativa, servizi sociali, sviluppo economico, assetto e utilizzazione del territorio. Questo passaggio risentì del clima emergenziale in cui i governi si trovarono ad agire e, a differenza di quanto delineato nel testo costituzionale, la regione non si caratterizzò come un ente snello e con funzioni prevalentemente di indirizzo politico e di programmazione, ma come un organo amministrativo e burocratico, con la tendenza a riprodurre il centralismo sta-tale nei confronti di comuni e province attraverso una produzione legislativa settoriale minuziosa e in costante concorrenza con il livello parlamentare e di governo. Questi del resto, invece di adeguare la propria produzione legislativa alla forma delle leggi quadro o cornice, continuarono a produrre norme che an-davano a sottrarre competenze alle regioni, senza del resto arrivare alla defini-zione di una legge sulla finanza regionale che, restituendo capacità impositiva agli enti locali, avrebbe potuto intervenire a limitare questa tendenza4.

Alla fine degli anni Settanta, mentre il Partito socialista preparava convegni, studi e disegni di legge per l’autonomia finanziaria di regioni e comuni, le distor-sioni prodotte dal mancato completamento del nuovo assetto dei poteri locali e le inefficienze del sistema, portarono negli apparati centrali e in alcuni settori della Democrazia cristiana e del Partito liberale a coltivare una prassi antiregio-nalista. Inoltre, anche nei partiti più schierati per le autonomie si determinarono a volte delle frizioni tra i livelli centrali. Una delle resistenze che, in seno ai par-titi, si scontava rispetto alla piena attuazione dell’assetto regionale, al di là delle enunciazioni di principio, era la stessa articolazione interna dei partiti italiani che tradizionalmente, nei vari schieramenti, si era strutturata in base alle istitu-zioni esistenti alla loro nascita, quindi i comuni, le province e il livello nazionale. I nuovi gruppi di dirigenti politici legati all’amministrazione delle regioni, sebbe-ne rappresentarono in alcuni casi una classe politica nuova e fortemente propul-siva di idee e sperimentazioni, scontarono spesso una sorta di isolamento e una

3  Su questi passaggi mi limito a rinviare a Maurizio Ridolfi, Storia politica dell’Italia repubblicana, Bruno Mondadori, Milano 2010. Cfr. Guido Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 2003. 4  Maurizio Degl’Innocenti, L’avvento della Regione, 1970-1975. Problemi e materiali, Lacaita, Man-duria 2004.

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scarsa capacità di incidere sui livelli nazionali. È ad esempio quanto denunciò Lanfranco Turci, presidente comunista della regione Emilia Romagna tra il 1978 e il 1987, anche rispetto al suo partito, pure fortemente schierato in quegli anni sul tema delle autonomie ma nei fatti più portato a livello centrale a considerare l’ente regione non come soggetto legislativo ma come «una generica estensione delle tradizionali esperienze di amministrazione locale»5.

A questo sentimento diffuso nei settori istituzionali e politici si aggiunse la giusta rivendicazione da parte dell’opinione pubblica dell’efficienza della spesa in un momento di grave congiuntura e l’insofferenza verso l’emergere di feno-meni clientelari e di corruzione, favoriti dall’assetto burocratico-amministrativo che avevano assunto le regioni, cui non faceva da contrappeso né un efficiente sistema dei controlli formali né il più auspicabile ed efficace controllo determi-nato dalla partecipazione dei cittadini ai processi decisionali. Non tutte le regio-ni mostravano in realtà gli stessi livelli di efficienza. Venne diffuso alla fine degli anni Settanta uno studio del politologo americano Robert Putnam che metteva in risalto le migliori performace delle regioni del nord, in particolare di Lombar-dia e Emilia Romagna. Putnam, che ricevette grande riconoscimenti negli Stati Uniti per uno studio che poteva definirsi unico, esaminava i governi delle regioni italiane costituiti nel 1970 e ne valutava le performance nei vari settori e sotto differenti punti di vista, chiedendosi cosa in sostanza contribuisse al successo o al fallimento di un governo democratico. La risposta che si diede, confermato dal caso dei governi regionali italiani, fu che determinante era la presenza di un tessuto sociale attivo e coeso, di modelli associativi e cooperativi, nonché l’aver sperimentato forme di municipalismo socialista6.

5  Su questo si veda Carlo De Maria, La questione regionale tra anni Settanta e Ottanta dalla pro-spettiva dell’Emilia-Romagna. Lineamenti di un dibattito comparato, in Carlo De Maria, Mirco Car-rattieri (a cura di), La crisi dei partiti in Emilia-Romagna negli anni ’70/’80, dossier monografico di “E-Review. Rivista degli Istituti storici dell’Emilia-Romagna in rete”, 2013, n. 1, www.e-review.it. Cfr. Sabino Cassese, Centro e periferie in Italia. I grandi tornanti della loro storia, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, n. 2, 1986.6  Questa prima parte dello studio di Robert Putnam prese in considerazioni le regioni tra il 1970 e il 1977. Uno studio più completo uscì, come vedremo, agli inizi degli anni Ottanta. Nella prima ricerca Putnam ipotizzò un rapporto tra la maggiore capacità di organizzazione locale e regionale con la presenza di tradizioni socialiste. Nella seconda fase della ricerca insistette invece sulla presenza, anche in tradizioni politiche differenti, di radicate forme di solidarietà sociale.

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La posizione dei socialisti

Il Partito socialista fu fin dai primi anni ’60 il partito che maggiormente si espose sul tema delle autonomie locali, tanto da farne una bandiera e un discrimine in tema di alleanze e una pregiudiziale per la propria collaborazione al governo nel centro-sinistra. L’ipotesi locale, con le parole d’ordine di un “nuovo modo di governare” e delle “giunte aperte” si rivelò vincente in termini di voti e di realiz-zazioni per le sinistre che rivendicavano l’immagine del proprio “buon governo” partecipato e popolare nelle istituzioni locali e alla guida delle città. Così fu an-che per Aldo Aniasi che portava in eredità la sua esperienza da sindaco di Milano e la battaglia per una finanza locale che desse reale senso alla prospettiva delle autonomie. Su questi temi si assistette a un rinnovato protagonismo socialista, dopo la fase di arretramento seguita all’esaurirsi dell’esperienza dei governi di centro-sinistra. L’impulso a un cambio di passo fu evidente con la fase congres-suale del 1978, in cui ebbero spazio intellettuali di vecchia e nuova generazione, che avevano già aperto il dibattito in seno a riviste come “Mondoperaio”, intenti a individuare costanti e prospettive dell’azione e dell’identità socialista. Liberi dall’ormai scomoda alleanza con la Dc, i socialisti potevano riprendere la loro battaglia autonomista guardando all’alleanza con alcuni settori del partito co-munista, in particolare con i rappresentanti delle amministrazioni locali.

I socialisti nel centro-sinistra hanno visto fallire gli obbiettivi che si erano prefissi, e che non erano obbiettivi di quieto vivere, di immobilismo, ma che al contrario erano tesi a rinnovare il paese, a rinnovare le strutture, a rinnovare i costumi mediante la costruzio-ne di uno Stato delle autonomie […]. Ma è bene qui aggiungere che i centralisti esistono un po’ ovunque, anche nei partiti di sinistra; spesso sono i pianificatori, gli esperti di po-litica economica che in buona fede ritengono che il controllo dell’economia esiga una direzione accentrata. L’accentramento in fondo è un fatto congeniale alla natura uma-na e all’esercizio del potere. I nostri avversari lo sanno e difendono così i loro interessi. Ma come va combattuto il centralismo dello Stato, così va combattuto il centralismo regionale, e anche il centralismo comunale, quando le regioni trascurano i comuni e la periferia, e i comuni trascurano le circoscrizioni non delegando a esse alcun potere o pochi poteri, e le circoscrizioni quando ignorano i comitati spontanei di quartiere. Cre-do che per queste ragioni la battaglia che abbiamo combattuto per la 382, per la finan-za locale, sono state battaglie importanti, che hanno visto i socialisti e i comunisti in prima linea […]. C’erano e ci sono, certo, anche nella Dc dirigenti e settori autonomistici, gli amici illuminati che ci hanno aiutato, i laici, i progressisti. Ma costoro sono sempre stati in difficoltà nel loro partito, spesso sono stati posti sotto accusa dallo stesso stato maggiore della Dc […] Quell’incontro tra i cattolici, tra le masse cattoliche organizzate nella Dc, e le masse popolari laiche e socialiste che era alla base del centro-sinistra non ha prodotto i suoi effetti […] Il centro-sinistra è fallito perché la Dc nel suo com-

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plesso non è stata disponibile al disegno riformatore che fu alla base dell’accordo di centro-sinistra e che partì con una tensione che andò via via spegnendosi7.

Nella nuova fase politica rappresentata dal pentapartito e nell’enfasi posta sul momento delle riforme istituzionali, la partecipazione di Aniasi all’esecutivo Spadolini al dicastero degli Affari regionali fu una dichiarazione programma-tica. A testimoniare l’attenzione al tema regionale Spadolini creò allora per la prima volta anche un Dipartimento affari regionali nell’ambito della struttura-zione della Presidenza del Consiglio dei ministri in vista del progetto di legge di riforma della stessa. La nomina di Aniasi a Ministro arrivò il 28 giugno 19818 e nei giorni successivi sull’Avanti si susseguirono gli interventi a sostegno dell’azione socialista e delle riforme. Arturo Bianco, allora esponente della sezione centrale enti locali del Psi, sottolineava ad esempio come il partito avesse piena titolarità (e responsabilità) nel rilanciare la nuova fase di riforma delle autonomie locali, indicando i punti più salienti. In primo luogo la finanza locale, abbandonando la formula della decretazione annuale sui trasferimenti che rendeva impossi-bile ogni forma di programmazione. Il tema dell’autonomia finanziaria e della capacità impositiva degli enti locali e delle regioni era da tempo parte dell’e-laborazione socialista sul tema ed era divenuta centrale anche nei lavori della Commissione sulla riforma della finanza regionale, affidata al socialista Franco Bassanini e istituita presso il ministero per la funzione pubblica nel novembre 19809. Su questo punto si riportava anche il pieno appoggio del comunista Enzo Modica, presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali, secondo cui «l’autonomia regionale non deve essere creata dal legislatore na-zionale, ma riconosciuta»10.

Concordava pienamente con questa tesi Aniasi ricordando, nel corso della sua relazione al convegno socialista Per un nuovo ordinamento dei poteri locali, che si tenne a Roma nel settembre del 1978, che Salvemini scriveva sulla “Cri-tica Sociale” del giugno 1900 come il programma minimo dei socialisti avrebbe potuto ridursi ad una sola rivendicazione, quella dell’autonomia amministrati-

7  Aldo Aniasi, Programmazione, autonomie, partecipazione, Intervento al convegno di studi promos-so dal Centro studi e niziative per la riforma dello Stato e dall’Istituto Gramsci, Roma, 23-25 gennaio 1978, in Aldo Aniasi, I socialisti per gli enti locali, Edizioni delle autonomie, Roma 1979, pp. 88-90.8  Aldo Aniasi conservò la carica anche nel passaggio al II governo Spadolini, passato alla storia come governo fotocopia, restando quindi al Ministero degli Affari regionali fino al 1° dicembre 1982.9  Composta da una trentina di persone, quasi tutti docenti universitari, alti funzionari dell’ammini-strazione statale e magistrati, la Commissione Bassanini, avrebbe concluso i suoi lavori nel marzo del 1982.10  Arturo Bianco, Forte iniziativa dei socialisti. Per le autonomie locali è una fase importante, “Avanti!”, 28 luglio 1981; Giovanni Prepoli, Un’occasione per rilanciare il regionalismo, “Avanti!”, 2 agosto 1981.

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va e finanziaria ai comuni e alle regioni. Le riforme pensate dovevano avere la finalità di garantire la più ampia partecipazione ai cittadini, l’espressione del dissenso, la contrazione (fino all’estinzione) dei poteri delle prefetture, la piena responsabilità degli amministratori locali di fronte alle entrate e alle uscite dei propri bilanci e quindi rispetto alle scelte fatte, col dovere di rendicontarne gli esiti ai cittadini11.

Assumendo l’incarico di ministro degli Affari regionali Aniasi portava con sé l’elaborazione degli anni precedenti, ma anche la più recente elaborazione isti-tuzionale sul tema. Aniasi era infatti consapevole di inserirsi in un percorso lun-go e complesso, che si intrecciava al lavoro di diverse commissioni parlamentari e che sarebbe continuato dopo di lui, ma esprimeva l’ambizione a imprimere una accelerata al processo e di apportare quante più riflessioni e azioni poteva in materia. Punto di partenza a livello istituzionale erano la relazione dell’uscente ministro per gli Affari regionali, il democristiano Roberto Mazzotta e soprattutto il Rapporto Giannini (1979) che nel suo insieme prospettò linee di riorganizza-zione della macchina pubblica. Massimo Severo Giannini, insigne giurista socia-lista che dagli anni Cinquanta rifletteva sull’articolazione delle autonomie locali in rapporto all’assetto istituzionale dello Stato, aveva nel suo Rapporto parlato del “torso” regionale, ammonendo che dopo la legge delega 616 del 1977 che aveva stabilito la parziale regionalizzazione dei pubblici poteri nessun provve-dimento aveva rivisto di conseguenza l’organizzazione dello Stato, «come se in uno schizzo di figura umana, solo una parte del torso risultasse definita, così nel disegno organizzativo solo quanto riguarda le regioni è definito». Il punto de-bole, continuava Giannini, non erano quindi le regioni, che basavano la propria azione su una legge anche imperfetta e a tratti contraddittoria ma che vedevano innestato un processo definitorio; ciò che occorreva adeguare alla legge 616 era l’organizzazione generale dello Stato e soprattutto l’ordinamento degli enti in-fraregionali e in particolare dei comuni. Altro punto di riferimento istituzionale erano i lavori della Commissione parlamentare per le questioni regionali, che nel corso dell’VIII Legislatura, tra 1979 e 1983 fu presieduta dal comunista Enzo Modica e della quale fece parte lo stesso Aniasi fino al giugno del 1980, quando venne chiamato al governo lasciando il suo posto al compagno di partito Franco Bassanini. In questa sede era emersa l’esigenza di dare rappresentanza delle istanze delle diverse regioni presso gli organi centrali dello Stato e «per una partecipazione delle regioni all’elaborazione delle linee di politica generale di tutto lo Stato-ordinamento». Tale funzione, svolta in via transitoria dalla stes-sa Commissione, prefigurava l’istituzione di una Conferenza permanente Stato-

11  Aldo Aniasi La battaglia dei socialisti per un nuovo ordinamento dei poteri locali, relazione al convegno socialista “Per un nuovo ordinamento dei poteri locali”, Roma, 19-20 settembre del 1978, in Aniasi, I socialisti per gli enti locali, cit., pp. 11-50.

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Fiorella Imprenti, Rapporto sullo Stato delle autonomie. Aldo Aniasi ministro degli Affari Regionali 125

Regioni, che fu uno dei punti principali di azione di Aniasi nell’ambito del suo incarico da ministro12.

I rapporti di Aniasi all’interno del Partito socialista guardavano anche costan-temente alle esperienze internazionali per averne spunti e contatti. Fu questo uno dei motivi che lo spinsero a fondare da sindaco il Centro di collaborazione tra i sindaci delle grandi città del mondo e fu lo stesso motivo per cui, nel corso del suo incarico da ministro, intrattenne stretti rapporti con i socialisti francesi. La situazione francese camminava in un certo senso di pari passo con quella italiana. La Francia, emblema dello stato centrale e unitario dalla rivoluzione in poi, aveva introdotto in questo assetto una discontinuità a partire dal 1972, sotto la presidenza di Pompidou, rafforzando le prerogative delle regioni che però venivano affidate alla direzione dei prefetti, solo affiancati da consigli regionali composti da deputati e senatori eletti nelle circoscrizioni di riferimento e da un numero equivalente di amministratori locali. Fu nel corso degli anni Settanta, con gli effetti più gravi della crisi economica, che le strutture regionali iniziarono a domandare con forza maggiore autonomia in particolare per il sostegno alle attività produttive. La svolta arrivò con l’elezione alla presidenza della Repubbli-ca di François Mitterrand nel maggio 1981, che chiamò al ministero dell’Interno e del decentramento l’ex partigiano e Sindaco di Marsiglia, il socialista europei-sta Gaston Defferre, che già nel 1969 aveva partecipato con Aniasi al grande convegno internazionale europeista di Milano, prefigurando la «rivoluzione» rappresentata dal sogno federale degli Stati Uniti d’Europa. Questi nel corso del luglio del 1981 presentò all’Assemblea nazionale un progetto di legge sui di-ritti e le libertà dei comuni, dei dipartimenti e delle regioni, che divenne legge nell’anno successivo come legge Mitterrand-Defferre. Poco dopo l’approvazione della legge francese, Aniasi volle confermare la vicinanza con i socialisti d’oltral-pe recandosi in visita a Marsiglia per uno scambio di esperienze con Defferre che rimarcò come la strada era ancora lunga anche per la Francia, poiché solo una delle 14 leggi ritenute necessarie per garantire una reale partecipazione istitu-zionale alle autonomie locali era stata approvata dal Parlamento13.

12  Aldo Aniasi, Intervento alla Commissione interparlamentare sulle Regioni, 22 settembre 1981, in Archivio Fondazione Aniasi (d’ora in poi, AFA), rassegna stampa.13  Visita di Aldo Aniasi a Marsiglia, 13 maggio 1982, in AFA.

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La fase di consultazione e la finanza regionale e comunale

Nel delineare le linee del suo intervento come ministro degli Affari regionali, Aniasi dovette non solo immaginare le modalità di giungere alle riforme strut-turali adeguate a portare a compimento lo Stato delle autonomie, ma dovette anche confrontarsi con la gestione corrente dei trasferimenti e dei rapporti tra governo e rappresentanti delle autonomie. In questo volle segnare un cambio di passo nel tenere costantemente aperto il dialogo e iniziò quindi una lunga fase di consultazione sia sulle riforme sia, in particolare, sul tema dei trasferimenti per l’anno 1982. Spadolini aveva su questo fatto appello a tutto l’arco politico e a tutti i livelli istituzionali per il contenimento della spesa, trovando la dispo-nibilità di massima dei rappresentanti delle autonomie, anche se poi l’accordo concreto dovette maturare nel corso di alcuni mesi di trattative continue14.

Il dialogo, a volte acceso, ma sempre aperto e costante, con i rappresentanti delle autonomie locali, iniziò da parte del governo il 12 settembre 1981 quando Spadolini incontrò i rappresentanti dell’Anci per una informazione sui provve-dimenti di finanza pubblica che erano allo studio del governo. In quel contesto Spadolini individuò la prioritaria esigenza di uno sforzo congiunto di tutte le isti-tuzioni per frenare l’inflazione (individuando un tetto massimo del 16%) e per contenere le spese efficientando i sistemi e liberando risorse per gli investimenti. In quella sede, per la prima volta il governo annunciò l’intenzione di procedere nel senso di una riforma che restituisse autonomia impositiva ai comuni, da una parte svincolandoli dalla logica dei trasferimenti annuali, sempre da contrat-tare, che rendevano impossibile la programmazione; dall’altra rendere gli enti pienamente responsabili dei propri bilanci, della loro tenuta, dell’efficacia degli investimenti e delle scelte fatte. Questi obbiettivi di fondo vennero condivisi dai rappresentanti degli enti locali ma si aprì il tema di come arrivarvi garantendo il pareggio di bilancio di comuni, province e regioni. Questa posizione venne confermata nel successivo convegno dell’Anci a Viareggio svoltosi tra il 30 set-tembre e il 3 ottobre 1981 quando, in attesa del disegno di legge complessivo sulla riforma della finanza locale, si chiese al governo un provvedimento tran-sitorio che aumentasse le risorse finanziarie per il 1982, sviluppando il processo di riequilibro e perequazione. Lo stesso impianto di accordo venne ribadito nel convegno nazionale dell’Anci a Palermo il 3-4 dicembre 1981. Ne nacque da par-te del governo il decreto legge 22 dicembre 1981 n. 786, poi convertito in legge all’inizio del 1982, che garantiva ai comuni l’attività gestionale e finanziaria per

14  Marco Bernabei, Aniasi: «Con Spadolini è cambiato il metodo. Ora si decide insieme», in “L’Italia delle Regioni”, 12 settembre 1981.

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il 1982. Le voci più critiche nel corso della trattativa erano emerse dal campo comunista, come quella del sindaco di Torino Novelli, mentre tra i presidenti di regione più presenti al tavolo delle trattative vi furono Lanfranco Turci per l’Emi-lia Romagna, il socialista Giulio Santarelli per la regione Lazio e il democristiano Giuseppe Guzzetti per la Lombardia15.

Le preoccupazioni maggiori riguardavano la copertura del fabbisogno sanita-rio, condivise da Aniasi, deciso a difendere la sostenibilità della riforma sanitaria che lui stesso aveva contribuito a sviluppare. I momenti di maggiore tensione si ebbero nell’autunno del 1981: dalla Conferenza dei presidenti di Regione, orga-nizzata in vista dell’appuntamento di Viareggio, uscì un documento comune che da una parte poneva una linea non valicabile in termini di contenimento della spesa, dall’altra chiedeva ad Aniasi impegni precisi in tema di riforme strutturali e in particolare della già annunciata istituzione della Conferenza Stato-Regioni. Sul tema dell’autonomia impositiva le voci furono tutte concordi nell’accettare la proposta, ancora in fase di studio, di pervenire a nuovi tributi, in particolare ad una tassa sugli immobili, pensando poi all’istituzione di una cassa di solidarietà per sostenere i comuni con minore capacità impositiva16.

Il confronto, per quanto serrato, non venne mai meno e Aniasi tenne fermo l’orizzonte ideale nel quale si muoveva, pur nella contingenza della legge di bi-lancio, chiarendo cosa fosse per lui la Repubblica delle autonomie:

Significa che l’Amministrazione centrale, il governo, debbono assumersi la responsabili-tà di indirizzare, di orientare, di programmare e le regioni, nell’ambito dei loro territori, di legiferare, di programmare, per consentire poi ai comuni di gestire sul territorio tut-to quanto attiene ai servizi pubblici e ai servizi sociali. Ecco tutto questo comporta un modo diverso di governare da quello tradizionale, che io ho riassunto in una formula, “governare insieme”; il che significa che le decisioni devono essere assunte in comune accordo, di concerto: regioni, comuni (il sistema delle autonomie che debbono però es-sere sentite prima che le decisioni vengono assunte in tutta la fase istruttoria). Questo è stato il comportamento di questi ultimi mesi che ha segnato una inversione di tendenza rispetto a un clima che si era instaurato, per cui negli ultimi anni era calata la tensione che fu del periodo iniziale con il quale erano sorte le regioni e poi successivamente le regioni avevano visto assegnare loro poteri trasferiti dall’amministrazione centrale17.

15  Aniasi: le Regioni avranno i fondi dell’81 aumentati del 16%, “La Stampa”, 17 settembre 1981. 16  Ecco la nostra “Linea Piave”, in “L’Italia delle Regioni”, ottobre 1981; Luisa Lanzara, Con la rifor-ma finanziaria i Comuni non chiederanno più soldi allo stato, “L’informatore del lunedì”, 19 ottobre 1981; Regioni e Comuni ai sindacati: non faremo investimenti, “Il Sole 24 Ore”, 16 settembre 1981.17  Intervista ad Aldo Aniasi per il programma GR3 “Succede in Italia”, 28 settembre 1981, in ASA, rassegna stampa.

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La fase di trattativa sui trasferimenti per il 1982 venne superata con un sostan-ziale accordo che fissava l’incremento a copertura dell’inflazione concordata al 16%. Un incontro risolutivo si ebbe il 3 febbraio 1982 in fase di discussione alla Camera degli emendamenti al decreto sulla finanza locale: in quell’occasione una delegazione dei presidenti di regione, guidata dal presidente della Lombar-dia Giuseppe Guzzetti e dai presidenti di Piemonte, Emilia Romagna, Veneto, Campania, Basilicata, Molise e Sardegna, il governo aprì alla possibilità di favo-rire incrementi di spesa per l’agricoltura, anche in relazione alla utilizzazione dei fondi comunitari. Inoltre si indicò una strada per favorire la partecipazione delle regioni alla utilizzazione del fondo di investimento per l’occupazione e a tal fine le regioni venivano invitate a presentare i progetti immediatamente at-tuabili. Alla fine dell’incontro le regioni potevano annunciare di aver “riportato a casa” 600 miliardi rispetto al decreto sulla finanza locale presentato dal go-verno e in discussione alla Camera. In sintesi anche le regioni avrebbero potuto ottenere una quota dei finanziamenti messi a disposizione per gli investimenti, presentando progetti finalizzati ad esempio al risparmio energetico, al rimbo-schimento, alla difesa idrogeologica, al piano casa e alla difesa ambientale18. Sui progetti da presentare al governo, il gruppo dei socialisti lombardi, al governo della Regione Lombardia nella giunta di Giuseppe Guzzetti (DC, PSDI, PSI, PRI) aveva ad esempio già pronto il proprio dossier, tutto incentrato sulla possibili-tà per la Lombardia di intervenire sulle politiche del lavoro e della formazione professionale, mettendo in piedi alcune sperimentazioni da portare poi sul piano nazionale, andando a esprimere l’ambizione di proporre come gruppo lombardo il manifesto economico socialista per gli anni Ottanta19.

Messa da parte la fase più serrata di trattativa sui trasferimenti per l’anno in corso, Aniasi poté passare a presentare l’esito del suo percorso di indagine e l’avvio dei progetti di riforma sul sistema delle autonomie. L’annuncio venne fat-to in una conferenza svoltasi il 18 febbraio 1982 presso la sede della presidenza del consiglio dei ministri in piazza della Minerva a Roma: in questa sede Aniasi comunicava la presentazione del disegno di legge sulla Conferenza Stato-Re-gioni e la presentazione del Rapporto sullo Stato delle autonomie. Rendeva poi nota la pubblicazione della seconda parte di uno studio coordinato da Robert Putnam, che anticipava l’uscita del Rapporto e che confermava l’esito della sua precedente indagine nella quale si evidenziavano sostanziali differenza tra le Regioni in termini di efficienza e di erogazione dei servizi, a tutto vantaggio delle

18  Luciano Pizzo, Torneranno a casa 600 miliardi, “Il Giorno”, 5 febbraio 1982.19  Andrea Marini, Iniziativa socialista per affrontare la crisi economica: «Ultimatum: poteri ampi alla Regione», “Il Giorno, 18 febbraio 1982.

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regioni del nord20. L’indagine negava però che le regioni fossero poco gradite agli italiani: da un sondaggio fatto tra “osservatori” attenti come sindaci, dirigenti sindacali e tra le parti datoriali, industriali, artigiane e agricole, rappresentanti del sistema bancario, emergeva che il 94% degli intervistati non reputava che le regioni fossero state uno sbaglio. La fiducia era inoltre in leggera crescita para-gonando i dati del 1981 con quelli di un analogo sondaggio del 1977, sebbene il miglioramento nelle performance come nel gradimento si polarizzava in modo ancora più netto nel centro nord. Le ricerche evidenziavano inoltre come, rispet-to alla prima parte degli anni ’70, la classe politica regionale poneva a inizio anni ’80 meno enfasi sul momento ideologico-politico nella definizione delle proprio scelte ammnistrative, congiuntamente ad un progressivo spostamento del bari-centro politico verso il centro. In sintesi «l’aspetto più negativo delle regioni è quello amministrativo, dell’attuazione dei programmi. Ma l’italiano medio non è pentito delle regioni, quando pensa che l’alternativa è il vecchio stato centra-lizzato: meglio avere la pratica a Potenza che nei ministeri romani. Però, certo, vuole di più dalle Regioni»21.

Rapporto sullo Stato delle Autonomie

Nel 1982 altri due documenti andavano ad arricchire il dibattito in corso, in par-ticolare in termini di finanza regionale. Uscì infatti il Rapporto sulla riforma della finanza regionale della Commissione istituita presso il ministero per la funzione pubblica nel novembre 1980 (cosiddetta commissione Bassanini); e venne pre-sentato un documento dei presidenti di regione, approvato il 5 marzo 1982, che conteneva le linee guida per la riforma della finanza regionale. La Commissione Bassanini era composta da una trentina di persone, quasi tutti docenti univer-sitari, alti funzionari dell’amministrazione statale e magistrati, con quasi nulla rappresentanza da parte regionale che, oltre a indicare soluzioni tecniche in ma-teria di trasferimenti e nella creazione di un nuovo fondo speciale per i progetti di sviluppo, indicava come strada da perseguire quella del potenziamento della quota di finanziamento regionale derivante da autonomia impositiva. Con an-

20  Emilia e Lombardia le più efficienti, “Il Giorno”, 19 febbraio 1982.21  Nando Tasciotti, intervista a Robert Putnam, Avanti adagio, “Il Messaggero”, 16 aprile 1982.

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cora più forza la rivendicazione dell’autonomia finanziaria venne posta dal do-cumento dei Presidenti di regione, fino a farne l’insegna di tutto il documento22.

Il Rapporto sullo Stato delle Autonomie consentì ad Aniasi di definire ancora meglio la materia e di corredarla di dati e statistiche, con l’intenzione «di fare il punto sugli anni più intensi e difficili del governo locale». Venne presentato in anteprima a Pertini e Spadolini all’inizio di aprile 1982, frutto del lavoro per sette mesi dello stesso Ministro, di giuristi, economisti, docenti di scienza delle finanze, funzionari dello Stato e delle regioni, coordinati da Luciano Vandelli23. 17 pagine di testo e 800 pagine di tabelle e statistiche con l’obbiettivo di fotografare la si-tuazione dei rapporti tra organi centrali dello stato e autonomie locali, individua-re le cause delle disfunzioni, le linee di intervento per «aggiustare il treno mentre è in corsa». I tre dati fondamentali che per Aniasi emergevano da rapporto era-no: le inadempienze costituzionali e la mancanza di una legislazione di principio (leggi quadro o leggi cornice); la conflittualità patologica tra i livelli di governo; l’ingovernabilità del sistema delle autonomie. Mancavano praticamente tutte le leggi quadro che avrebbero dovuto essere fatte dal 1970 (solo 3 avevano visto la luce) lasciando le regioni nell’impossibilità di legiferare. In Costituzione per ovviare alla possibile inerzia parlamentare era stata prevista la possibilità per le regioni di presentare proposte di legge alla Camera dei Deputati, ma a fronte di 121 leggi presentate, solo due videro la luce e su materie di natura strettamente locale. Lo stesso per i voti al parlamento: furono oltre 170 quelli inviati nelle ulti-me tre legislature e nessuno di questi era stato preso in considerazione. A questo si aggiungeva la scarsa udienza che le regioni avevano presso il Parlamento e le sue commissioni. Compresse a questo modo le regioni mostrarono la tendenza a interpretare il proprio ruolo più come ente gestore che come ente di programma-zione e governo, riproducendo al proprio livello nei confronti dei poteri locali il doppio fenomeno del centralismo e della conflittualità24.

22  Dal documento dei Presidenti di regione scaturì un anno dopo una «Proposta di disegno di legge di riforma della finanza regionale», scritto tecnicamente da un gruppo di lavoro costituito dagli as-sessori delle finanze delle regioni Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Abbruz-zo e Puglia. Aldo Bardusco, L’autonomia finanziaria regionale, in Regioni e riforma istituzionale, cit., pp. 55-75.23  Docente di diritto e amministratore comunale e Bologna (in seguito assessore della Regione Emilia Romagna), Luciano Vandelli, insieme a Augusto Barbera, fondò a Bologna nel 1980 la rivista “Regione e governo locale”, sull’onda del rinnovato slancio sviluppatosi intorno all’idea di una terza fase costituente dell’ente regione.24  Angelo Landi, Rapporto sullo Stato delle Autonomie, intervista al Ministro Aldo Aniasi, “La Re-gione”, Mensile del Consiglio regionale della Liguria, a. x, n.1-2, gennaio-febbraio 1982. Il rapporto sullo Stato delle Autonomie rispondeva alla consolidata pratica di inchiesta che contraddistinse Aniasi fin dai suoi primi incarichi in consiglio comunale a Milano, convinto che spesso le decisioni venissero prese al buio o che non venissero prese per mancanza di elementi. In questo Aniasi si ri-

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Dopo le presentazioni istituzionali il Rapporto venne presentato martedì 20 aprile anche alla stampa, il cui interesse si incentrò in gran parte sulle differenti performance delle Regioni, sui mancati adempimenti (in dodici anni la Calabria spiccava per non aver approvato nemmeno un consuntivo, uno soltanto la Sar-degna), sulle prolungate crisi nei governi locali (in Abruzzo 210 giorni di crisi nella prima legislatura e 338 nella seconda, in Campania 360 giorni nella prima e 461 nella seconda, in Piemonte 215 giorni nella prima e 35 nella seconda), sulle differenze nella spesa sanitaria (34 mila lire per abitante in Lombardia contro 79 mila in Sicilia), in un contesto di generale contrazione delle risorse destinate alle spese sanitarie ma di lievitazione dei costi per il personale sanitario25. Il Rap-porto Aniasi assumeva così i connotati di una denuncia, una requisitoria, un atto di accusa che chiamava in causa tutti i livelli istituzionali: «molti enti continua-no a legiferare come se le regioni non esistessero affatto, e tra questi lo stesso Parlamento»; delle quasi 700 leggi emanate dalle Regioni, più del 25% era stato rinviato ai consigli regionali, di queste il 20% erano state impugnate dalla Corte costituzionale senza però arrivare a sentenza se non in pochi casi, determinan-do una sostanziale paralisi della pubblica amministrazione e della stessa corte costituzionale. Qualche malumore sui «toni drammatici» del Rapporto risuonò in casa Dc, notando che «nel J’accuse del rapporto […] alla requisitoria intorno ai nodi non risolti, si accompagna l’accusa, esplicita o implicita, al maggior partito di», ma a parte poche voci isolate tutti concordarono nel ritenere il Rapporto Aniasi una solida base di lavoro per procedere alle riforme necessarie26.

La conferenza Stato Regioni

Il momento della presentazione del Rapporto fu infatti anche l’occasione per le parti politiche per chiedere conto al governo delle reali intenzioni di riforma. Erano ormai passati due mesi dalla presentazione del progetto di legge di Aniasi sull’istituzione della Conferenza Stato-Regioni al Consiglio dei ministri e, dopo una promessa di presentarla rapidamente al Parlamento, nulla si era mosso.

faceva alla tradizione di indagine sociale del riformismo di inizio Novecento. Cfr. M. Degl’Innocenti, La cultura delle riforme tra Otto e Novecento, Lacaita, Manduria 2003.25  Molte regioni autonome solo sulla carta. Tre leggi per farle funzionare meglio, “La Nazione”, 21 aprile 1982.26  Paola Berardi, Continuare la riforma, “Il Popolo”, 4 maggio 1982.

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In sintesi il disegno di legge preparato da Aniasi rispondeva a due finalità. Consentire alle regioni di dare il loro contributo all’elaborazione ed attuazione degli indirizzi di politica generale del governo e armonizzare gli orientamenti delle regioni e delle province autonome a quelli dello Stato:

A tal fine vengono sotto posti all’esame della conferenza gli schemi degli atti di indiriz-zo e coordinamento e delle direttive, gli schemi dei bilanci annuali e pluriennali dello stato, lo schema di legge finanziaria […] Componenti della Conferenza sono il presi-dente del consiglio che la presiede, il Ministro per gli Affari regionali (vice presidente), i Ministri del Tesoro e del Bilancio, i Presidenti delle Regioni e delle Province autonome e i Ministri che lo richiedano o vi vengano invitati dal Presidente del Consiglio in base agli argomenti iscritti all’ordine del giorno. Nell’ambito della struttura è prevista: la costituzione di due commissioni permanenti (per gli affari istituzionali e per gli affari economici) presiedute rispettivamente dal Ministro per gli affari Regionali e dal Mini-stro per il bilancio (con possibilità di delega a sottosegretario di stato) e la formazione di gruppi di lavoro finalizzati e a carattere temporaneo27.

Nel disegno di legge i poteri di convocazione (da rispettare comunque almeno la periodicità minima di una volta ogni tre mesi), stavano in capo al Presidente del Consiglio o alla richiesta congiunta di almeno sei presidenti. La conferenza avrebbe avuto anche una segreteria di supporto il cui numero di addetti sarebbe stato fissato da un successivo decreto del consiglio dei ministri, al quale si riman-dava anche per riordinare e sopprimere i numerosi organismi a composizione mista stato regioni. La Conferenza non doveva quindi essere né organo dello Stato né delle regioni ma una sorta di stanza di compensazione per lo scambio di informazioni e per il raggiungimento di accordi, utile a rendere più efficiente l’in-tera macchina dello Stato. Come prima cosa si attendeva che con la Conferenza si sarebbe riportata la conflittualità Stato Regioni a un livello fisiologico insito nel rapporto dialettico fra organi costituzionali dello Stato, liberando da una parte la Corte costituzionale dall’intasamento dei ricorsi e sbloccando dall’altro il potere delle regioni di legiferare28.

Una prima difficoltà nell’iter del disegno di legge si era avuta in sede di Com-missione interparlamentare sulle questioni regionali, presieduta dal comunista Enzo Modica. Questa all’inizio di marzo 1982 aveva sollevato tre ordini di obbie-zioni, che vennero in parte utilizzate per rallentare l’iter del progetto di legge. La prima questione era di natura costituzionale e giuridica e prefigurava il rischio di annullare la distinzione tra Stato e Regioni arrivando a un regime di codecisione se si fosse data alla Conferenza, così come era previsto nel progetto di legge, la

27  Aldo Aniasi, Statuto regionale dieci anni dopo. Una risposta per cambiare: creare la Repubblica delle Autonomie, “Regione Abruzzo”, a. XI, marzo 1982.28  Ibidem.

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configurazione di un organo misto dello Stato (Stato-Regioni); la seconda segna-lazione, meno cogente, riguardava l’opportunità di coordinarsi con la riforma della presidenza del consiglio allo studio in quegli stessi mesi; la terza riportava la contrarietà dei presidenti dei consigli regionali che negavano la possibilità per i presidenti delle giunte regionali di rappresentare nella loro interezza in sede di Conferenza gli interessi regionali.

La posizione della Commissione interparlamentare indusse Spadolini a scri-vere il 10 marzo ad Aniasi una lettera nella quale sembrava abbandonare la riforma, comunicando al ministro che avrebbe inserito il suo testo nello schema di riforma della presidenza del consiglio, con nessuna certezza né sui tempi né sui contenuti finali. Tale presa di posizione di Spadolini dipendeva dal fatto che il Presidente del consiglio aveva da tempo legato la riforma sull’istituzione della Conferenza Stato Regioni ad un momento di avvicinamento con l’opposizione comunista e il fatto che proprio la commissione presieduta da Modica, voce au-torevole all’interno del partito, avesse espresso delle riserve, aveva portato Spa-dolini a una brusca frenata. Fu a questo punto lo stesso Aniasi a sollecitare una presa di posizione dei rappresentanti comunisti delle regioni, che non si fece at-tendere. Durante il comitato centrale del Partito comunista del 13-14 aprile 1982 i rappresentanti comunisti nelle giunte e nei consigli regionali concordarono la stesura di un documento unitario, a firma di Barbera, a sostegno del progetto di legge Aniasi. Il documento unitario venne anticipato da alcune dichiarazioni del presidente della Regione Emilia Romagna, il comunista Lamberto Turci, che denunciava le manovre di «insabbiamento» del progetto di legge e richiamava Spadolini agli impegni presi:

Sulla Conferenza […] il progetto del ministro Aniasi è apprezzabile. Occorre vincere le resistenze che in modo più o meno palese si sono già messe in moto, sia sul terreno politico sia su quello burocratico. Chiediamo che il presidente Spadolini, mantenendo l’impegno assunto con le Regioni, porti il progetto all’approvazione del governo. Tale progetto è peraltro coerente con l’esigenza da tempo avvertita di rafforzare il ruolo di coordinamento della Presidenza del Consiglio all’interno dell’esecutivo e nel rapporto con le Regioni e il sistema delle autonomie locali. Noi concepiamo questa conferen-za all’interno del disegno di programmazione definito dall’art. 11 del D.P.R. 616 e ciò comporta per noi il rifiuto di ogni visione di separatezza delle Regioni e degli enti locali dallo stato centrale, sia di tentazioni cogestionali fra i vari livelli di governo29.

Turci evidenziava il pericolo di un rinvio a oltranza del provvedimento nel caso fosse stato inserito nello schema di riforma della Presidenza del consiglio e sug-geriva di inserire in quel contesto solo il principio, il «titolo», della creazione

29  Lamberto Turci, Battere chi resiste ancora alla riforma, “Il Globo”, 15 aprile 1982.

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della Conferenza, anche in omaggio alla forma della legge quadro, dando invece il via libera alla legge Aniasi, pur con tutti i miglioramenti necessari. Sulla code-cisione Turci non ravvisava i rischi espressi dalla Commissione Modica, ritenendo sufficiente rimarcare che la Conferenza sarebbe stata un organo tipicamente consultivo, lasciando intatti i rispettivi poteri di Stato e regioni e votando solo sulle materie di competenza regionale, pareri che del resto venivano già espres-si, «sia pur frammentando questi voti in 99 organismi diversi»30.

Altre autorevoli voci si levarono a difesa del progetto di legge Aniasi in seno alla Con-ferenza dei presidenti di regione, dove il presidente lombardo Guzzetti cedeva il turno come capofila del consesso al socialista Emidio Massi, presidente delle Marche. Segui-rono le prese di posizione di Anci e di Upi. Il senatore democristiano Riccardo Triglia, presidente dell’Anci, faceva riferimento all’uscita del Rapporto sullo Stato delle Auto-nomie che nel frattempo aveva riaperto il dibattito: «Il recente rapporto del ministro Aniasi ha senza dubbio un merito: quello di fotografare, in maniera organica, la realtà dei rapporti tra Stato, Regioni e Comuni, sia sotto il profilo politico-istituzionale che sotto quello finanziario. Non è un merito da poco, se si pensa che la frammentarietà e la incompletezza delle informazioni costituisce un ostacolo serio nella costruzione delle scelte politiche. Con questo documento, in effetti, si è sulla base di operare su di un comune terreno di riferimento, almeno per quel che riguarda la conoscenza dei dati. Certo, tutto ciò non basta a far compiere passi in avanti, se manca una precisa volontà di ordine politico […] segno forse che, al di là delle enunciazioni, rimangono contrasti di un certo rilievo»31.

Prendendo spunto dalla presentazione del Rapporto sullo Stato delle autonomie tornava sul tema anche l’Unità, che definiva quella di Aniasi non solo un rapporto ma una vera e propria requisitoria, un «atto di accusa contro la politica degli ulti-mi governi nei confronti degli enti locali e dell’intero sistema delle autonomie», non solo, anche l’attuale governo restava senza alibi di fronte a quella mole di lavoro e di dati nel non affrontare le grandi riforme del sistema autonomistico e nel tenere ferma la legge sulla Conferenza Stato Regioni, confermando i dubbi sull’esistenza di un non espresso ostruzionismo da parte di qualche componente

30  Sul tema della tensione tra presidenti di giunta e presidenti dei Consigli regionali il documento unitario comunista suggeriva che su alcuni grossi temi annuali della Conferenza i Consigli in ogni regione venissero convocati preventivamente per discuterne; ancora, che ai Consigli fossero tra-smessi di volta in volta le modalità di lavoro e gli ordini del giorno della Conferenza, come aveva richiesto la Commissione Modica. Marco Bernabei, Cordiali siluri, Spadolini, “L’Italia delle Regioni”, maggio 1982. 31  Riccardo Triglia, Comuni. Se non si cambia sempre più squilibri, in Regioni punto e a capo. Gli enti locali dicono…, “Il Globo”, 24 aprile 1982.

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della coalizione di governo32. Rincarava la dose il socialista Mario Leone, presi-dente della Regione Toscana:

Non si tratta oggi tanto di giudicare la riconosciuta, apprezzata sensibilità del ministro Aniasi, quanto invece di esprimere un preoccupato giudizio sui comportamenti delle istanze centrali che mettono in discussione il ruolo delle autonomie con tagli finanziari contraddittori e con l’opera sotterranea di rastrellamento delle competenze regionali da parte dell’arcipelago dei ministeri. Se nel Paese, nel particolare momento che viviamo, occorre senso di responsabilità, misura negli atteggiamenti, negli atti e nelle scelte, è certo che le regioni e i poteri locali dovranno svolgere il ruolo che istituzionalmente loro compete. Ma tutto ciò non può bastare: la stessa chiarezza e coerenza occorre a livello governativo senza strumentalizzazione della difficile congiuntura che il Paese vive33.

All’interno del governo le voci contrarie erano essenzialmente quelle dei mini-stri Rognoni e La Malfa. La prima reazione frenante era stata espressa dall’inqui-lino del Viminale, il democristiano Virginio Rognoni, che lamentava l’assenza del Ministro degli interni tra i membri permanenti della Conferenza e soprattutto riprendeva il senso delle obbiezioni della Commissione Modica, insistendo sul fatto che un organo misto Stato Regioni così concepito avrebbe potuto stravol-gere il quadro dei rapporti istituzionali sottoponendo le decisioni del governo al vaglio della Conferenza che, seppur senza potere di veto, avrebbe rappresentato un ostacolo all’indipendenza del governo stesso e un aggravamento procedu-rale. Rognoni non si diceva comunque contrario a priori e affermava di porre alcune questioni in ottica collaborativa. La posizione più contraria all’interno del governo fu quella del ministro del bilancio e della programmazione, il re-pubblicano Giorgio La Malfa, che guardava con sfiducia all’apparato regionale in particolare nei confronti del Mezzogiorno e che si rifiutò di firmare la legge. Sollecitato da più parti, Spadolini riaffermò infine il suo appoggio al progetto di legge e la volontà di arrivare in breve tempo alle riforme; Aniasi ebbe modo di annunciarlo a fine aprile in occasione della presentazione del Rapporto presso la sede regionale lombarda, mentre arrivava anche il via libera di Rognoni che aveva incassato la mediazione di Aniasi nell’incontro con i presidenti di regione per discutere la bozza di riforma sui poteri locali34.

A questo punto l’iter della legge seguì il suo percorso parlamentare. Vi fu in effetti il tentativo da parte di Spadolini di inserire l’istituzione della Conferen-za Stato-Regioni all’interno (art. 17) del disegno di legge sull’ordinamento della

32  Guido Dell’Acqua, Radiografia delle venti Regioni. Quasi un conflitto con lo Stato, “L’Unità”, 21 aprile 1982.33  Più autonomia ai poteri locali, “La Nazione”, 24 aprile 1982.34  Martino Massaro, Regioni critiche sulla riforma dei poteri locali, “Il Sole 24 Ore”, 30 arile 1982.

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Presidenza del consiglio presentato alla Camera il 13 maggio 1982 e in seguito respinto dal Parlamento; dopo di che il progetto di legge riacquisì una sua veste autonoma e viaggiò attraverso le Camere nel corso dei due governi Spadolini e del governo Fanfani, per poi essere ripreso nella legislatura successiva e arrivare a compimento con il primo governo di Bettino Craxi, come decreto della Presi-denza del consiglio dei ministri del 12 ottobre 1983 che istituì in via amministra-tiva la Conferenza Stato-Regioni. Aniasi del resto fu consapevole fin dall’inizio di inserirsi in processi di riforma che andavano ben oltre la tenuta di un governo:

In tutti i casi, non si può governare pensando al giorno per giorno. Le cose che stiamo cercando di attuare nel nostro settore si inseriscono in un disegno complessivo di ri-definizione organizzativa dello Stato che non appartiene solo a questo Governo o a questo Ministro per le Regioni. Primo, si tratta di completare l’attuazione di precise disposizioni costituzionali, volute e condivise da tutto l’arco delle forze democrati-che. Secondo, il Governo dovrà necessariamente andare ad un confronto globale con le organizzazioni dei poteri locali, coinvolgendo anche l’opposizione parlamentare. Qualsiasi sforzo in questo senso, se si può dire, prescinde anche dalla sopravvivenza di questo o di un altro governo, arricchendo e facendo fare dei passi in avanti al confron-to politico del Paese35.

La Conferenza Stato-Regioni avrebbe poi trovato una definizione più chiara e allargata degli ambiti di competenza con la l. n. 400/1988, mentre nel 1983 essa si presentava ancora in una situazione ambigua, non avendo una composizione fissa. Quel che preoccupava era ad esempio la reale possibilità di ricondurre a unità il rapporto politico Stato-Regioni: su determinate materie di attività, si prevedeva infatti la partecipazione dei soli assessori regionali e, su invito, dei ministri di competenza, con il pericolo di ristabilire quella pluralità di incontro che si sarebbe dovuta superare con la Conferenza stessa e che veniva messa in discussione anche dalla mancata soppressione dei 99 organi misti che erano stati individuati dal Rapporto Aniasi36.

Di fronte al parziale stop al suo progetto da parte del governo, Aniasi notò che non si trattava di una distanza di vedute con Spadolini ma sottolineava, che la Conferenza Stato-Regioni non era che una delle riforme necessarie, «oltre a que-sto è indispensabile una rapida approvazione della riforma delle autonomie, della riforma della finanza locale e della nuova legge sulla finanza regionale: proprio su quest’ultimo punto esistono già uno studio dettagliato predisposto da una com-

35  Intervista al ministro Aniasi, Ecco le prime riforme da fare, dati alla mano, “Il Globo”, 14 aprile 1982. 36  Elio Gizzi, Il rapporto fra Governo e Regioni, in Regioni e riforma istituzionale, cit., pp. 77-83.

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missione ministeriale ed una proposta formulata dalla Conferenza permanente dei presidenti regionali, per cui non manca certo il materiale su cui lavorare»37.

La riforma dei poteri locali

A chi lo accusava di attentare all’unità della nazione, Aniasi ricordava che, pur nelle singole capacità di auto-organizzarsi, ogni regione aveva riconosciuto nel proprio statuto degli obbiettivi generali che si rifacevano alla Costituzione e quindi l’impostazione di fondo degli statuti restava omogenea e poneva l’accen-to sulle stesse priorità che per le regioni indicarono i padri costituenti:

Lo sviluppo economico e sociale finalizzato all’affermazione dei valori umani e al sod-disfacimento dei bisogni collettivi; la promozione delle libere attività della collettività e degli enti locali; il superamento degli squilibri della regione e dell’intero territorio regionale. Ed i metodi ai quali le Regioni hanno deciso di uniformare la loro azione – metodi comuni a tutti gli statuti – sono il metodo della programmazione e quello della partecipazione: il primo è inteso come impegno democratico di intervento della Regio-ne, in concorso con lo Stato e con gli Enti locali, nell’attività economica e privata, per indirizzarla e coordinarla ai fini sociali, e come metodo ordinatore dell’attività della Regione per realizzare le finalità regionali; il secondo – il metodo della partecipazio-ne – non è limitato ai tradizionali istituti di democrazia diretta (iniziativa legislativa popolare, referendum, petizione), ma si estende anche agli Enti locali, ai sindacati, al movimento cooperativo e ad altre organizzazioni sociali38.

Aniasi insisteva quindi sulla necessità di superare l’attuale ordinamento dei po-teri locali approvando una legge delle autonomie, già in bozza presso il ministe-ro dell’interno e pronta a essere presentata ai presidenti di regione e alle orga-nizzazioni degli enti locali sebbene, ripeteva, «il dibattito politico culturale deve essere considerato chiuso e bisogna avviarsi rapidamente alla fase decisionale». Le linee guida erano già state a suo avviso chiaramente individuate: l’abbandono del criterio di uniformità del disegno organizzativo, la autonomia statutaria, la necessità di forme di associazione intercomunali, l’individuazione della provin-cia riformata quale ente intermedio di programmazione, di coordinamento e di

37  Ingovernabili le Regioni dopo dodici anni di vita, “Il Tempo”, 21 aprile 1982. 38  Aldo Aniasi, Statuto regionale dieci anni dopo. Una risposta per cambiare: creare la Repubblica delle Autonomie, “Regione Abruzzo”, a. XI, marzo 1982.

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intervento per la gestione o la realizzazione di quanto è necessario dell’attività pluri-municipale, una disciplina differenziale per le aree metropolitane39.

Sul tema dei poteri locali il governo Spadolini aveva da tempo annunciato due disegni di legge, uno sulla istituzione della Conferenza Stato-Regione (pre-parato appunto da Aniasi) e uno sull’ordinamento complessivo dei poteri locali, affidato al Ministro dell’Interno, il democristiano Virginio Rognoni, la cui bozza si attirò però le critiche dei socialisti e dello stesso Aniasi, che ravvisava una impostazione “centralista” del disegno di legge, troppo attento a regolare fin nel dettaglio la materia senza definire un quadro di principio, ignorando che la Costituzione affidava alle Regioni il compito di legiferare sui poteri locali. Anco-ra, Aniasi riteneva che il progetto affidasse troppi poteri alle Prefetture, che non riconoscesse l’autonomia statutaria e di autoorganizzazione dei comuni e che non affrontasse il tema delle città metropolitane. Aniasi e Rognoni consegna-rono comunque la bozza di riforma a una delegazione dei presidenti delle Re-gioni, costituita dai presidenti di Lombardia, Marche, Toscana, Puglia, Basilicata, Calabria e Molise il 28 aprile 1982, incontrando al Viminale i delegati, i quali si riservavano di discuterne in sede di Conferenza dei presidenti, pur anticipando una certa insoddisfazione per le norme relative alla partecipazione delle Re-gioni alla programmazione nazionale e alcuni dubbi legati al ruolo dei prefetti e al tema dei controlli40. Si trattava comunque solo di una base di discussione poiché non rientrando tra le materie concordate al momento della formazione del governo, il testo doveva ancora passare per una discussione di maggioranza, oltre a doversi confrontare con i rappresentanti di comuni, province e regioni. E l’accordo non sembrava vicino41.

Il tempo a disposizione oltretutto sembrava ormai esaurito. Dalla primavera 1982 avevano iniziato a circolare insistenti voci su una crisi di governo che pun-tualmente arrivò in estate. Un secondo esecutivo Spadolini consentì ai ministri di proseguire i lavori fino a fine anno, mentre contestualmente il Parlamento faceva cadere il progetto di riforma sulla presidenza del consiglio dei ministri presentato da Spadolini il 13 maggio 1982. Del resto Aniasi aveva sempre saputo che il tempo dato a lui e al governo per le riforme era limitato e nel poco tempo messogli a disposizione era convinto di aver fatto il possibile e di aver lasciato materiale di lavoro dentro e fuori il Parlamento:

39  Ibidem.40  Riforma delle autonomie locali: vertice al Viminale, 28 aprile 1982, in AFA, Rassegna stampa. 41  Dichiarazione di Aldo Aniasi sulle aree metropolitane, Comunicato stampa, 20 marzo 1982, in AFA, Fondo Ministero Per gli Affari Regionali, busta Rassegna Stampa.

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I problemi connessi alla realizzazione dello Stato delle Autonomie sono di tale am-piezza e complessità da travalicare i confini delle competenze di un solo ministro e persino del governo in carica. Questo non significa sottovalutare le cose che giorno per giorno si possono fare da Piazza della Minerva o da Palazzo Chigi e che di fatto ci sembra di fare. I presidenti e gli assessori delle Regioni per primi sanno quanto lavoro e quante iniziative, anche e soprattutto di quelle più oscure e più impegnative che non hanno l’onore delle cronache giornalistiche, abbiamo effettuato in tutti questi mesi per risolvere problemi contingenti, rimuovere ostacoli, vincere scetticismo e pessimismo e dare concretamente avvio a riforme istituzionali di grande respiro […]. Nonostante gli angusti spazi di manovra in cui è costretto a muoversi l’intero governo a causa della generale crisi dei rapporti politici e istituzionali […] e nonostante la generalizzata ten-denza a concentrarsi sui grandi problemi e sulle emergenze (sacrificando da un canto i problemi nuovi dello sviluppo economico, sociale e istituzionale e dall’altro i problemi di fondo e di riforma), il bilancio di questi mesi dal nostro osservatorio può considerarsi estremamente positivo. La preparazione del Rapporto e il varo della Conferenza per-manente Stato-Regioni sono solo due aspetti della gran mole di lavoro compiuto. Per il resto c’è ora da varare tre riforme di base: finanza locale, finanza regionale e ordi-namento delle autonomie. Questioni che coinvolgono ministro, governo, parlamento, economia, etc. Un movimento insomma per la cui crescita crediamo di avere anche fatto la nostra parte42.

In questo senso appare calzante la lettura che vede nei governi Spadolini una dichiarazione programmatica delle linee di riforma che si andarono poi svilup-pando nei decenni successivi. La spinta all’evoluzione istituzionale nel lungo de-cennio degli anni Ottanta fu condizionato dalla necessità di confrontarsi con un contesto di crisi economica, politica, istituzionale e sociale, in un «sistema ormai destabilizzato» e stretto da questioni cogenti: «più gli attori politici furono in prossimità dei luoghi di decisione del sistema, più fu difficile per loro sfuggire alla necessità di elaborare delle risposte che consentissero al sistema di soprav-vivere, anche oltre le loro propensioni politiche e le loro ascendenze culturali»43.

I governi Spadolini seppero però indicare la via delle riforme istituzionali, nella direzione della ricerca di una stabilità del sistema che passava essenzial-mente per il rafforzamento del potere dell’esecutivo e per il pieno riconosci-mento delle prerogative (e delle responsabilità) di tutti gli attori istituzionali e delle autonomie locali. Gli sforzi politico culturali e di indagine che segnarono la permanenza di Aldo Aniasi al ministero delle Regioni possono leggersi in questo senso. Al di là della riforma per l’istituzione della Conferenza Stato Regioni che, come abbiamo visto, trovò un suo iter per arrivare a piena attuazione e defini-

42  Intervista al ministro Aldo Aniasi, “Il Comune democratico”, 15 giugno 1982. 43  Gaetano Quagliariello, Gli anni Ottanta: gli aspetti politico-istituzionali. Un’interpretazione, in Simona Colarizi, Piero Craveri, Silvio Pons, Gaetano Quagliariello (a cura di), Gli anni Ottanta come storia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, pp. 267-280.

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zione anche amministrativa già nel corso del 1983, le altre ipotesi di riforma isti-tuzionale nel senso dell’attuazione della «Repubblica delle Autonomie», i conte-nuti degli incontri istituzionali, dei convegni e dei continui confronti confluirono genericamente in quel decalogo o «programma ideale di auto-riforma» che il governo Spadolini lasciò in eredità a sé stesso – nell’avvio del secondo esecutivo guidato dall’esponente repubblicano – e ai governi che seguirono.

La valutazione e lo sviluppo dell’esperienza regionale, in sé stessa e nel rap-porto con lo stato, venne fatta confluire nel dibattito che si aprì allora sulle rifor-me istituzionali in sede parlamentare con i lavori della Commissione per lo studio delle questioni istituzionali, presieduta dal senatore Bonifacio, e che attraverso le risoluzioni del 1983 trovarono approdo nella costituzione di una commissione bicamerale, presieduta da Aldo Bozzi. Nel 1984, nell’ambito di un convegno or-ganizzato dalla Regione Liguria sul tema Regioni e riforma istituzionale, Massimo Severo Giannini diede un giudizio molto negativo del livello di attuazione del sistema delle Regioni nel suo complesso, ancora incapace di trovare una identità precisa:

Le Regioni sono un mezzo cavallo, di quelli che solamente il barone di Meunchausen era in grado di far camminare. Ciò perché le Regioni, come oggi si presentano, sono un frammento minuscolo di un più vasto disegno che era stato delineato, si noti bene, dal legislatore. […] Tutti gli eminenti colleghi che parlano di regionalismo cooperativo non si sono resi conto che in Germania il regionalismo cooperativo esiste perché esiste un Bundesrat, cioè una Camera alta che è composta dai rappresentanti delle Regioni44.

Altri giuristi e politici, all’indomani di quella breve fase di accelerazione delle riforme e sulla base degli studi fatti, tentarono di interrogarsi sul futuro dell’ordi-namento delle autonomie locali italiane. Le regolamentazioni fino a quel punto introdotte distanziavano il modello di regione che si era venuto disegnando da quello che era stato immaginato in sede costituente, collegando i diversi livelli istituzionali dotati di poteri legislativi ed amministrativi (statale, regionale e lo-cale) a tal punto da non potere attribuire agli enti locali reali poteri di autogo-verno delle proprie comunità locali. Giorgio Pastori, affrontando il tema, ripren-deva il rapporto sullo Stato delle autonomie:

A questo punto c’è da chiedersi quali possono essere le prospettive. Ritornare al mo-dello dell’autonomia o proseguire coerentemente in quello dell’autogoverno, recupe-rando i valori dell’autonomia? Si tratta in sostanza dello stesso problema che è stato posto e dibattuto anche in occasione della presentazione del Rapporto Aniasi del 1982 sullo Stato delle autonomie. E già in quell’occasione credo che sia stata data una rispo-sta realistica ed insieme corretta, dicendo che ormai è anacronistico e difficile, se non

44  M.S. Giannini, Relazione generale, in Regioni e riforma istituzionale, cit., p. 17-23.

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impossibile, ritornare al modello puro dell’autonomia, data la inevitabile continuità e interdipendenza dell’azione pubblica nella maggior parte dei campi di interesse re-gionale e locale, ma che si tratta piuttosto di consolidare le acquisizioni del secondo modello ampliando coerentemente la gamma delle attribuzioni e degli ambiti oggetto delle attribuzioni stesse e arricchendolo sul piano qualitativo dal punto di vista delle maggiori guarentigie di autonomia e insieme di responsabilità di cui possono e debbo-no godere le Regioni come enti di governo45.

Il dibattito successivo si sarebbe sviluppato in gran parte su queste direttrici. Ri-conoscere le regioni (e gli enti territoriali) come enti titolari di poteri di autogo-verno, dotati delle più ampie attribuzioni legislative e tributarie adeguate a con-fermarne i poteri e le responsabilità, oppure individuare le regioni stesse come enti decentrati del potere centrale e definirne gli spazi di autonomia, magari an-che molto ampi ma comunque intesi in senso “cooperativo” e mai “competitivo” con il livello nazionale? Le riforme attuate tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, in particolare la riforma fiscale del 1997, quella sull’autonomia statutaria del 1999 e la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001, che ha grandemente potenziato la potestà legislativa delle regioni, sembrarono andare nella direzione del principio dell’autogoverno, sebbene si aprissero allora, come era stato negli anni Ottanta, le interferenze e le dispute relative alla compe-tenza legislativa che chiamavano in causa la corte costituzionale. Le riflessioni sulle tappe politiche e istituzionali di questo percorso sono a tutt’oggi parte del dibattito sul tema e, come nel passato, si incentrano in larga misura sul tema dell’autonomia fiscale che, nonostante il potenziamento regionale del Titolo V, è ancora limitata in particolare per gli enti infra-regionali e per motivi di natura essenzialmente economica. Ritorna quindi attuale il monito già citato di Aniasi quando avvertiva che i centralisti si trovano in ogni schieramento e sono spesso «gli esperti di politica economica», il cui sguardo, per salvare il contingente, non riesce ad immaginare e a «programmare» il futuro46.

45  Fu Giorgio Pastori a parlare di «regioni senza regionalismo». Giorgio Pastori, Amministrazione regionale e riforme istituzionali, in Regioni e riforma istituzionale, cit., p. 4946 Come la Svizzera e la Germania, l’Italia si avviava ad essere uno dei paesi con il più alto numero di competenze demandate ed esercitate contemporaneamente a diversi livelli di governo. Si noti che la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 ha sì potenziato le competenze legislative delle regioni, ma senza “ambiti” perché la regione adesso ha competenza legislativa residuale fuori dalle competenze esclusive dello Stato e da quelle concorrenti Stato-regioni. P. Aimo, Stato e poteri locali in Italia, cit., pp. 145-172; Aldo Aniasi, I socialisti per gli enti locali, cit., pp. 88-90.

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Appendice

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Governare insieme: autonomie e partecipazione Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento

A cura di Fiorella Imprenti e Francesco SamorèRoma (BraDypUS) 2017

ISBN 978-88-98392-66-7p. 145-150

1921Aldo Aniasi nasce a Palmanova (Udine) il 31 maggio, il maggiore di quattro fra-telli. Il padre, di origine piemontese, è un funzionario di Stato, la madre è di Mo-dena. Il lavoro del padre costringe la famiglia a spostamenti frequenti.

1938La famiglia si trasferisce a Milano, in uno dei quartieri più popolari della città e Aldo si iscrive all’Istituto tecnico “Cattaneo”. Mentre il fascismo dilaga, Aldo im-para dal padre socialista “il senso delle istituzioni” e dalla sua professoressa, poi denunciata per antifascismo, il coraggio delle idee.

1941Aldo trova lavoro come geometra e contemporaneamente consegue da privati-sta la maturità scientifica e si iscrive alla facoltà di ingegneria presso il Politec-nico di Milano.

1943Aldo all’università svolge un’intensa attività clandestina. Nei giorni successivi all’8 settembre organizza assalti ai treni tedeschi carichi di generi alimentari, in transito per la stazione ferroviaria di Codogno, dove, nel frattempo, la famiglia è sfollata. Si porta, poi, in bassa Valsesia con una ventina di giovani che avrebbero dato vita al distaccamento “Fanfulla”, della XV Brigata d’assalto Garibaldi.

1944 Si trasferisce nel Cusio, quindi nella valle Strona e successivamente in Val d’Os-sola dove viene formata la II Divisione Garibaldi “Redi”, di cui diventa comandan-

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te, con il nome di battaglia di “Iso” e dove partecipa alla breve e intensa estate della Libera repubblica dell’Ossola.

1945Con le altre formazioni dell’Ossola Aldo guida i suoi ad attaccare le caserme, a tagliare la fuga dei fascisti e dei tedeschi, a liberare i paesi e le città. Il 27 e il 28 aprile i partigiani dell’Ossola si ricongiungono a Milano già liberata. Aldo Aniasi verrà insignito della medaglia d’argento al valor militare.

1946Nel dopoguerra lascia il Partito comunista e si iscrive al Partito socialista, entran-do nel direttivo della sezione Volta Garibaldi di Milano. Lavora a fianco di Ezio Vigorelli all’Ente comunale di assistenza e partecipa alla costituzione dell’Asso-ciazione nazionale degli enti di assistenza (Anea).

1947Aniasi aderisce alla scissione socialista di Palazzo Barberini nel gennaio di quell’anno, passando al Psli (poi Psdi) di Saragat, condividendone il principio dell’autonomia socialista.

1949Il 9 agosto nasce la Federazione Italiana Associazioni Partigiane (FIAP) dopo il distacco, nel 1948, dall’ANPI. Aldo è uno dei primi comandanti partigiani, assie-me a Corrado Bonfantini, ad aderire all’associazione. Nel 1986 succederà a Fer-ruccio Parri nella presidenza, che manterrà fino alla morte.

1951Viene eletto a palazzo Marino nella giunta Ferrari e come consigliere si impegna sul fronte dell’edilizia popolare. Determinante è poi il suo sostegno all’azione del Comune nel settore delle politiche per i minori: apertura di asili nido e scuole materne comunali, colonie e scuole speciali per disabili.

1954Nominato Assessore effettivo all’Economato e come tale promuove, in particola-re, la riforma del servizio di refezione scolastica, elevandone gli standard quali-tativi, trasformandola da “semplice mensa dei poveri” a strumento educativo per l’interazione tra bambini di ogni condizione sociale.

1959Alla luce del dibattito in corso nella politica nazionale – unificazione socialista e apertura a sinistra – Aniasi, insieme a Lamberto Jori, entrambi appartenenti

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alla corrente di sinistra di Vigorelli, su posizioni anti-saragattiane, si staccano dal Psdi e formano il Muis (Movimento unitario di iniziativa socialista), lasciano le rispettive cariche nella giunta milanese e passano all’opposizione. In giugno, il Muis confluisce nel Psi. Tra le file socialiste Aniasi sarà uno dei protagonisti della nuova stagione politica che viene inaugurata nel novembre del 1960 con la nascita della prima giunta comunale di centro-sinistra in Italia, guidata dal sindaco Gino Cassinis.

1961-1967Nell’amministrazione Cassinis, Aniasi viene chiamato a ricoprire l’incarico di Assessore ai Lavori pubblici. Contribuisce, in questa veste, alla costruzione di nuovi edifici scolastici, un impegno straordinario premiato con il conferimento nel 1966 della medaglia d’oro di benemerenza per la scuola, la cultura e l’arte. Promuove due inchieste sulle periferie milanesi, da cui si sviluppa l’idea del de-centramento amministrativo.

1967-1976Aldo Aniasi viene eletto sindaco di Milano il 19 dicembre 1967 e inaugura una nuova politica urbanistica ed ambientale che porta alla realizzazione di nuovi parchi cittadini e di giardini nelle zone periferiche. Altrettanto incisiva l’azione della giunta nella gestione del trasporto pubblico, dall’introduzione del biglietto unico a tariffa oraria, alla realizzazione delle Linee celeri dell’Adda e all’aper-tura della seconda linea della metropolitana. Durante le agitazioni dell’autun-no caldo il Consiglio comunale vota un cospicuo stanziamento a favore delle famiglie dei lavoratori in stato di bisogno per il prolungarsi degli scioperi, e la distribuzione a prezzi controllati di generi di prima necessità. Nel 1969 dà il via al decentramento.

1968Aldo Aniasi inaugura il 10 maggio il Circolo di via De Amicis, luogo di incontro e di dibattito culturale della sinistra milanese.

1976Il 28 giugno Aniasi viene eletto deputato nel gruppo parlamentare del Psi. Nel corso della VII Legislatura presenta, come primo firmatario, 17 proposte di legge su temi a lui particolarmente cari: a sostegno della salute pubblica e dell’am-biente (Commissione d’inchiesta su Seveso); delle autonomie locali, della sicu-rezza sociale e dello sport. È inoltre membro della II Commissione (Interni) e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

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1979Rieletto deputato tra le fila del Psi nell’VIII Legislatura, presenta come primo firmatario 10 proposte di legge sul tema delle autonomie, sulla scurezza, sulla libertà di stampa e sulla casa.

1980Aniasi viene chiamato a ricoprire l’incarico di Ministro della Sanità nel II Governo Cossiga e nel Governo Forlani tra l’aprile 1980 e il maggio 1981. In tale veste, presenta, come primo firmatario, 10 disegni di legge sull’assistenza sanitaria.

1981Il 28 giugno Aniasi diventa Ministro senza portafoglio con delega agli Affari Re-gionali nei due governi Spadolini, tra il giungo 1981 e il dicembre 1982 promuo-vendo il Rapporto sullo Stato delle Autonomie e preparando il progetto di legge sulla Conferenza Stato-Regioni. Il 15 luglio entra a far parte della VI Commissio-ne (Finanze e Tesoro).

1982Il 14 dicembre Aldo Aniasi diventa Vicepresidente della Camera, incarico che manterrà per 10 anni con la presidenza di Nilde Iotti. È componente dell’VIII Commissione (Istruzione e Belle Arti).

1983Rieletto deputato nella IX Legislatura presenta 20 proposte di legge come primo firmatario sui servizi sociali, sui diritti del malato, sull’esercizio delle professioni non mediche e sullo sport. Partecipa ancora ai lavori della II Commissione (Interni).

1987Rieletto deputato nella X Legislatura svolge un’intensa attività parlamentare, presentando, come primo firmatario, 30 proposte di legge e cofirmandone 100. Torna ad occuparsi di diritti del malato e di servizi sociali, di scuola e formazio-ne, di inserimento al lavoro dei disabili, di ambiente, sport, artigianato e attività produttive, di comunicazione e informazione Rai. Eredita da Ferruccio Parri la presidenza della FIAP, la Federazione Italiana Associazioni Partigiane.

1992Eletto deputato, continua l’attività parlamentare presentando progetti di legge sulla salute e sulle autonomie locali, in particolare per l’istituzione del Senato delle Regioni.

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1994Si dimette da deputato e aderisce ai Democratici di sinistra (Ds). Promuove in di-cembre a Roma un convegno sul governo Parri e l’anno successivo un convegno a Milano sulle formazioni GL nella Resistenza, con la partecipazione del gene-rale americano Edwards H. Thomas, il primo ufficiale alleato entrato a Roma il 4 giugno 1944.

1999Nel 50° anniversario della costituzione della FIAP, Aniasi porta con sé tutta la giunta nazionale al Quirinale ad un’udienza speciale col presidente Carlo Aze-glio Ciampi. Continua negli anni successivi l’attività convegnistica sulla memoria della Resistenza.

2003Promuove a Milano il convegno sul pericolo dell’estrema destra in Italia ed in Europa e presenta il numero unico di “Lettera ai compagni” dedicato all’indagine su “I siti della vergogna”, un censimento dei siti Internet neofascisti e neonazisti.

2005In giugno, già malato, si reca per l’ultima volta a Berlino a rendere omaggio al memoriale della Shoah. Si spegne il 27 agosto. I suoi funerali, celebrati il 30, ve-dono una larga e commossa partecipazione.

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L’archivio fotografico di Aniasi inmostra presso La Triennale di Milano

Governare insieme. Autonomie e partecipazione

Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento

Palazzo dell’Arte, 19 dicembre 2017 - 7 gennaio 2018

FONDAZIONE ANIASI - FIAP - FONDAZIONE LA TRIENNALE

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Appendice fotografica 153

Le immagini che seguono fanno parte dell’esposizione Governare insieme. Au-tonomie e partecipazione. Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento, una mostra fo-tografica e documentaria che si inserisce nel contesto di una ormai consolidata collaborazione tra Fondazione La Triennale di Milano e Fondazione Aldo Aniasi nell’organizzare, con il contributo di Fondazione Cariplo, esposizioni e momenti di dibattito sui temi del Novecento del nostro Paese, partendo dai rispettivi archivi e valorizzando le riflessioni che mettono in luce le tendenze di lungo periodo.

L’edizione 2017 rappresenta un’occasione di particolare rilevanza. Ricorrono infatti i 50 anni dall’elezione di Aldo Aniasi a Sindaco di Milano e si è quindi deci-so di commemorare il ricordo dell’uomo politico con una mostra tutta dedicata a “Iso”, partigiano, sindaco e uomo delle istituzioni, seguendo il filo rosso della centralità che sempre ebbe nel suo discorso il tema delle autonomie locali.

Le fotografie, in gran parte inedite, raccontano di un uomo dell’azione e della realizzazione, che per tutta la sua vita testimoniò una coerenza tenace nel por-re al centro di ogni sua scelta le libertà e l’emancipazione degli individui e dei popoli. Lo sforzo di raggiungere questi obbiettivi lo portò a tenere lo sguardo costantemente rivolto alle forme di governo e alle autonomie dei poteri e dei territori, un’autonomia intesa sia come partecipazione sia come responsabilità e possibilità di rispondere ai cittadini delle scelte fatte e dei servizi creati.

Fu un convincimento che si radicò in un Aniasi di poco più di venti anni, co-mandante di una brigata partigiana che liberò e poi difese con le armi la Repub-blica dell’Ossola strappata all’occupazione tedesca nell’estate del 1944. Conti-nuò nel dopoguerra milanese organizzando l’assistenza, calcando le periferie e preparando inchieste, in un’ansia di conoscere la realtà che lo avvicinava ai rifor-misti di inizio secolo. Fu per Milano il sindaco dei nuovi quartieri, del verde, del decentramento, ma anche dell’orgogliosa e ferma risposta unitaria alla strategia della tensione e alla violenza di quegli anni. Il Sindaco che da Milano guardava all’Europa dei popoli e che per primo aprì il governo della città all’esperimento delle giunte di sinistra, chiamando il partito comunista nella giunta cittadina. Fu il fondatore e per anni il principale animatore del Centro di collaborazione tra i sindaci delle grandi città del mondo.

Fu il parlamentare che difese la salute e la sicurezza dei territori, che preparò la commissione parlamentare sui fatti di Seveso, che promosse le riforme per va-lorizzare le prerogative, le finanze e le autonomie dei comuni. Venne chiamato a ricoprire l’incarico di Ministro della Sanità e di Ministro degli Affari Regiona-li, poi per lunghi anni resse la vicepresidenza della Camera dei deputati. Negli ultimi anni si dedicò, come Presidente della FIAP, la Federazione italiana delle Associazioni Partigiane, alla memoria della Resistenza, sempre attento ad attua-lizzarne e applicarne i valori. La FIAP ha voluto ricordarlo partecipando a questo progetto e mettendo a disposizione l’ampio corredo documentario e fotografico del suo archivio storico per la parte dedicata alla Libera Repubblica partigiana

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Governare insieme: autonomie e partecipazione154

dell’Ossola e per quella dedicata alla memoria della Resistenza, quando Aniasi divenne Presidente della FIAP.

La mostra si inserisce nel fortunato ciclo di esposizioni ed eventi inaugurati con il 70° anniversario della Resistenza e della Liberazione e che hanno avu-to l’obbiettivo fondamentale di approfondire e rappresentare quanto i valori dell’antifascismo e della libertà democratica e solidale abbiano improntato le politiche amministrative e culturali della città medaglia d’oro della Resistenza. Nel triennio 2013-2015 tale collaborazione ha portato alla realizzazione di tre mostre e di convegni/seminari di studi ed iniziative nelle scuole che hanno ap-profondito i temi delle esposizioni (Contatto Arte-Città e la Triennale del 1973; Ricordo la Luce. Dalla Repubblica dell’Ossola alla ricostruzione di Milano; Mi-lano rinasce. Dalla ricostruzione alla grande Milano). Nel 2016 il nuovo ciclo è ripartito con la mostra Milano in quartieri. Modelli di innovazione urbanistica e sociale dagli anni Cinquanta.

Questa impostazione è stata feconda e gli archivi e gli staff della Fondazione Aniasi e della Fondazione La Triennale, a cui si è aggiunto quest’anno il fonda-mentale contributo della FIAP, la Federazione Italiana delle Associazioni Parti-giane, che Aniasi ha presieduto dal 1987 alla data della sua morte, hanno saputo fondersi per rappresentare al meglio l’idea che la stessa figura di Aldo Aniasi ha incarnato, ossia la continuità valoriale ed esperienziale tra Resistenza, ricostru-zione e sviluppo della città. Gli spunti emersi da tale collaborazione hanno ri-chiamato l’esigenza di continuare a tenere vivo il filo rosso della memoria, in un rimando continuo tra ieri e oggi, tra Milano e il resto del Paese, l’Europa e il mon-do. Milano ha messo alla prova la sua identità di città operosa e solidale negli anni della lotta partigiana, ha legato al lavoro, alla scuola, alla formazione e alla cultura il suo sviluppo, ha scommesso sull’accoglienza, ha sempre saputo nei mo-menti di crisi trovare la forza per ribellarsi alle logiche illiberali e conservatrici.

Eppure non sono molte le occasioni per testimoniare gli esempi di questa tra-dizione che è oggi fondamentale rinnovare per fare ancora di Milano un modello assieme di innovazione e inclusione. Per questo Fondazione Aldo Aniasi e Fon-dazione La Triennale di Milano hanno deciso di continuare una collaborazione che permetterà loro di regalare alla cittadinanza e ai giovani dei pezzi di questa storia, la storia di una città coraggiosa e progressista, laboriosa e creativa, ricca di partecipazione e di saperi, sempre aperta al confronto con la realtà interna-zionale; rigorosa e ferma sotto le bombe di guerra come di fronte alle ferite stra-giste, da piazza Fontana in poi; attenta a distinguere e allo stesso tempo capace di unirsi per difendere la propria eredità morale e il proprio diritto al domani.

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Appendice fotografica 155

Fototessera di Aldo Aniasi par-tigiano

Aldo Aniasi con un gruppo di partigiani

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Governare insieme: autonomie e partecipazione156

Ordine del giorno della II Divisione Garibaldi Redi firmato dal comandante “Iso”, Aldo Aniasi

Foto di gruppo davanti al Comune di Domodossola liberato nell’estate del 1944 e nascita della Repubblica partigiana

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Appendice fotografica 157

I comandanti dell’Ossola nella Milano liberata: Aldo Aniasi, comandante della II Divisione Ga-ribaldi Redi, con Bruno Rutto, capitano della Divisione Beltrami, Cino Moscatelli, commissario politico della Divisione Garibaldi dell’Ossola, Mario Muneghina, comandante della II Divisione Garibaldi, Armando Calzavara, capitano della Divisione Beltrami

Milano, 6 maggio 1945: in prima fila il comando partigiano Valle d’Ossola

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Governare insieme: autonomie e partecipazione158

Milano 9-12 novembre 1957: ANEA 6° Congresso Nazionale ECA

Ezio Vigorelli e Aldo Aniasi in vi-sita ad una scuola elementare

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Appendice fotografica 159

1965: Aldo Aniasi Assessore ai lavori pubblici del Comune di Milano nell’ufficio tecnico

1971: Aldo Aniasi visita il quartiere Sant’Ambrogio

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Governare insieme: autonomie e partecipazione160

Giugno 1969: Aldo Aniasi inaugura la linea metropolitana 2

1968: Aldo Aniasi all’inaugurazione della XIV Triennale di Milano

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Appendice fotografica 161

Momenti di Aldo Aniasi Sindaco

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Governare insieme: autonomie e partecipazione162

Settembre 1969: Aldo Aniasi con gli studenti durante un’occupazione universitaria

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Appendice fotografica 163

Una classe elementare in visita a Palazzo Marino nell’ufficio del Sindaco

15 dicembre 1969: Aldo Aniasi in Piazza Duomo con Mariano Rumor, Presidente del Consiglio e Sandro Pertini, Presidente della Camera dei Deputati, ai funerali delle vittime della strage di Piazza Fontana

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Governare insieme: autonomie e partecipazione164

1976: Aldo Aniasi visita i territori colpiti dal terremoto in Friuli

Aldo Aniasi con la moglie Stefania nella trasmissione di Enza Sampò su Telealtomilanese

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Appendice fotografica 165

1969: Riunione per la nomina ad aggiunto sindaco dei presidenti dei Consigli di zona

1975: Presentazione piano regolatore di Milano

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Governare insieme: autonomie e partecipazione166

15 febbraio 1976: Corteo di Sindaci per la finanza locale: Aniasi (Milano), Serangeli (Corsico), Foglia (Rozzano)

16-18 aprile 1972: Con-ferenza dei sindaci delle grandi città del mondo

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Appendice fotografica 167

Aldo Aniasi durante visite istituzionali: 1) 1968: Atlanta, visita alla tomba di Martin Luther King; 2) 1967: Londra cimitero di Highgate, visita alla tomba di Karl Marx; 3) gennaio 1972: Gerusalemme, Aniasi visita il Yad Vashem, l’Ente nazionale per la memoria della Shoah; 4) con Fidel Castro; 5) Novembre 1974: Guadalayara; 6) Dicembre 1978: Casablanca, 3° con-gresso Unione Socialista delle Forze Popolari; 7) Viaggio in Grecia e in Turchia; 8) 1975: Portogallo

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Governare insieme: autonomie e partecipazione168

Aldo Aniasi in Israele riceve le chiavi della città di Tel Aviv e partecipa allo scoprimento della stele in suo onore, come eroe della lotta al nazifascismo

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Appendice fotografica 169

Aldo Aniasi con Inge Feltrinelli e Günter Grass

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Governare insieme: autonomie e partecipazione170

1968: Aldo Aniasi con Pietro Nenni all’inaugurazione del Circolo di Via De Amicis

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Appendice fotografica 171

1984 Dibattito sulle Riforme istituzionali al Circolo di Via De Amicis: Luigi Granelli, Ministro - Oscar Mammì, Ministro - Nilde Iotti, Presidente della Camera dei Deputati - Aldo Aniasi, Vice Presidente della Camera dei Deputati - Aldo Bozzi, Presidente della Commissione Parlamen-tare per le riforme Istituzionali.

Aldo Aniasi al Castello Sforzesco con Giovanni Mosca, François Mitterrand, Francesco De Mar-tino e Bettino Craxi

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Governare insieme: autonomie e partecipazione172

Dall’alto da sinistra a destra, Aldo Aniasi con: Amintore Fanfani e Libero Mazza, Salvador Allende, Riccardo Lombardi e Giovanni Mosca, Gaetano Arfè e Giulio Polotti, Piero Bassetti, Giacomo Bro-dolini, Nilde Iotti, Luciano Lama, Tina Anselmi e Carlo Tognoli, François Mitterrand, Paolo Grassi

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Appendice fotografica 173

Aldo Aniasi con Giovanni Spadolini e Sandro Pertini

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Governare insieme: autonomie e partecipazione174

Aldo Aniasi Ministro della Sanità: 1) Con Giacomo Mancini, segretario nazionale del Psi dal ‘70 al ’72, Ministro della Sanità dal ’63 al ’64; 2) 30 gennaio 1981: il Ministro della Sanità, i Rappresentanti delle Regioni e dell’Associazione dei Comuni d’Italia e i Responsabili dei Sindacati dei Medici generici e condotti firmano la nuova Convenzione dei Medici di Fami-glia; 3) 15 dicembre 1980: il Ministro della Sanità Aldo Aniasi visita i reparti dell’Ospedale di Sesto San Giovanni

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Appendice fotografica 175

Aldo Aniasi, dal 1987 presidente nazionale della FIAP, in vari momenti di commemorazione della memoria della resistenza.

Berlino, 27 giugno 2005: Aldo Aniasi davanti alle stele che compongono il memoriale della Shoah

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Governare insieme: autonomie e partecipazione Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento

A cura di Fiorella Imprenti e Francesco SamorèRoma (BraDypUS) 2017

ISBN 978-88-98392-66-7p. 177-180

“Alberto”, 33“Vespa”, 39, 39n, 40n

Agosta, 59nAimo, Piero, 119n, 141nAlexander, Harold, 33Allende, Salvador, 172Amato, Giuliano, 56n, 57 e 57nAniasi, Stefania, 164Aniasi, Guido, 22, 43, 44Aniasi, Mario, 22Aniasi, Ugo, 22Anselmi, Tina, 85n, 172Arfé, Gaetano, 48, 48n, 50, 172

Barbera, Augusto, 59n, 130n, 133Bardusco, Aldo, 118n, 130n Bartole, S., 59nBasaglia, Franco, 96nBassanini, Franco, 59n, 63n, 118n, 123,

123n, 124, 129Bassetti Piero, 56, 63, 63n, 71, 172Beltrami, Filippo, 24, 25Berardi, Paola, 131nBerlinguer, Giovanni, 87n, 88nBerlusconi, Silvio, 47, 95nBermani, Cesare, 40n, 50Bernabei, Marco, 126n, 134nBianco, Arturo, 123, 123nBonfantini, Corrado, 146

Bozzi, Aldo, 140, 171Brenna, Antonio, 91nBrodolini, Giacomo, 172Bruni, Giancarlo, 88nBucalossi, Pietro, 9, 53

Calzavara, Armando, 157Capitano Nemo, 33Carenzi, Antonella, 19n, 34n, 44nCarrattieri, Mirco, 121nCaruso, Saverio, 90nCassamagnaghi, Silvia, 112nCassese, Sabino, 121nCassinis, Gino, 9, 53, 54n, 147Castro, Fidel, 167Ciampi, Carlo Azeglio, 149Citterio, Gianni (“Redi”), 25, 38, 38n, 43Colarizi, Simona, 139nCollotti, Enzo, 21nColombo, Vittorino, 72n, 87n, 89n, 90n,

97nCoppo, Giuseppe (“Pippo”), 24, 25, 29n,

30, 30n, 33, 33n, 36n, 37, 37n, 38, 38n, 39n, 40, 41, 41n, 42, 42n

Cossiga, Francesco, 14, 45, 83, 148Cova, Alberto, 87nCrainz, Guido, 120n, 131nCraveri, Piero, 139nCraxi, Bettino, 5, 15, 16, 136, 171Cuocolo, Fausto, 118

Indice dei nomi

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Governare insieme: autonomie e partecipazione178

Curreno di Santa Maddalena, Giuseppe, 40

De Antonellis, Giacomo, 56nDe Caro, C., 59nDe Gasperi, Alcide, 46De Luna, Giovanni, 23, 23nDe Maria, Carlo, 121nDe Martino, Francesco, 5, 171Defferre, Gaston, 125Degl’Innocenti, Maurizio, 120nDell’Acqua, Guido, 135nDella Peruta, Franco, 93nDelogu, Severino, 90nDi Dio, Alfredo, 24, 25, 26, 28, 33Dondi, Mirco, 46n, 50

Edoardo, 37, 37nElso, partigiano, 35Emanuelli, Massimo, 54n, 55n, 80nEmilio, 38Epaminonda, Angelo, 55

Fanfani, Amintore, 16, 136, 172Fargion, Valeria, 93nFazzo, Luca, 21n, 33n, 47n, 50Feltrinelli, Inge, 169Ferrari, Virginio, 53,146Ferrera, Maurizio, 92n, 93n, 101nFinestra Aimone, 33n, 44, 47,48Fini, Marco, 21n, 24n, 49nFloreanini, Gisella (Amelia Valli), 30Foglia, Giovanni, 166Forlani, Arnaldo, 14, 45, 83, 148

Galeotti, Serio, 118nGangi, Giorgio, 5Giannantoni, Franco, 21n, 24n, 49nGiannetta Trevico, Rosa, 86nGiannini, Massimo Severo, 118n, 124,

140, 140nGiarda, P., 73nGino, 39, 39nGinsborg, Paul, 56nGizzi, Elio, 118n, 136nGranata, Mattia, 53n, 54n, 55n, 57nGranelli, Luigi, 171Grass, Günter, 169Grassi, Paolo, 13, 172

Guzzetti, Giuseppe, 127, 128, 134

Iotti, Nilde, 17, 148, 171, 172

Jessoula, Matteo, 93nJori, Lamberto, 146

Kesselring, Albert, 32King, Luther Martin, 167

La Malfa, Giorgio, 135La Rosa, Michele, 89nLacaita, Carlo G., 53n, 54n, 113nLama, Luciano, 172Landoni, Enrico,10n, 54n, 77n, 80nLanzara, Luisa, 127nLeone, Mario, 135Lombardi, Riccardo, 5, 172

Mammì, Oscar, 171Mancini, Giacomo, 174Marini, Andrea, 128nMariotti, Luigi, 92nMartines, Temistocle, 118nMaruzzi, bandito, 40Marx, Karl, 23, 167Massaro, Martino, 135n Massi, Emidio, 134Mazower, Mark 46, 46nMazza, Libero, 172Mazzocchi, G., 74nMazzotta, Roberto, 124Melorio, Elvio (Gen. Med), 109Mira, Roberta, 21nMirco, 40Mitterrand, François, 125, 171, 172Modica, Enzo, 123, 124, 132, 133, 134,

134n, 135Modolo, Maria Antonia, 84n, 89nMori, Maurizio, 84n, 89nMoro, Aldo, 5Morrone, Gino, 19n, 34n, 44nMosca, Giovanni, 5, 171Moscatelli, Vincenzo (“Cino”), 24, 25, 26,

157Muneghina, Mario (“Capitano Mario”),

26, 26n, 29n, 30, 30n, 33, 33n, 34, 35, 35n, 36n, 37n, 39n, 157

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Indice dei nomi 179

Mussolini, Benito, 23, 44

Nenni, Pietro, 5, 14n, 45, 170Novelli, Torino, 127

Omodei Zorini, Francesco, 22n

Pagani, Angelo, 9Parri, Ferruccio, 8, 17, 45, 117, 146, 148,

149Pastori, Giorgio, 118n, 140, 141nPavone, Claudio 21n, 40n, 47, 47n, 48n, 51Peli, Santo, 21n, 34, 34n, 40n, 51Pertini, Sandro, 130, 163, 173Pesenti, Roberto, 21n, 24n, 49n, 50Petacci, Claretta, 44Petrillo, Gianfranco, 53nPierallini, Giulio, 86nPino, 43, 43nPizzo, Luciano, 128nPompidou, Georges, 125Pons, Silvio, 139nPonzani, Michela, 47n, 51Prepoli, Giovanni, 123nPunzo, Maurizio 53n, 54n, 113Putnam, Robert, 121, 121n, 128, 129n

Quagliariello, Gaetano, 139n

Rapone, Leonardo, 19, 20n, 51Ridolfi, Maurizio, 120nRiosa, Alceo, 20, 20n, 51Rognoni, Virginio, 135, 138Romano, professoressa, 23Rovatti, Toni, 21n, 51Rumor, Mariano, 163Russo Jervolino, Rosa, 86nRutto, Bruno, 26, 157

Sala, Rodolfo, 17nSalvati, Michele, 56nSampò, Enza, 164Sandri, Renato, 21n, 50Santarelli, Giulio, 127Saragat, Giuseppe, 10, 44, 146Sartoris, Nello (“Taras Liebknecht”), 39Scalfari, Eugenio 57n

Scalpelli, Adolfo, 53nScirocco Giovanni, 10n, 19n, 34n, 44n, 51Sepe, Stefano, 93nSeppilli, Alessandro, 84n, 89nSerangeli, Alfredo, 166Serrani, Donatello, 89nSessi, Frediano, 21n, 50Silei, Gianni, 93nSpadolini, Giovanni, 16, 45, 117, 123,

123n, 126, 126n, 130, 133, 134n, 135, 136, 138, 139, 140, 148, 173

Spadoni, 39nStamm, colonnello, 43Strehler, Giorgio, 13Stucchi, Giovanni Battista (“Marco Fede-

rici”), 32Sturzo, Luigi, 119Superti, Dionigi, 24, 26, 28, 29, 32, 33

Tasciotti, Nando, 129nTerranova, Ferdinando, 87n, 90nThomas, Edwards H., 149Tibaldi, Ettore, 30Tobagi, Walter, 14nTogliatti, Palmiro, 46Tognoli, Carlo, 5Trevisan, Carlo, 89nTriglia, Riccardo, 134Turani, Giuseppe, 57nTuratello, Francis, 55Turci, Lanfranco, 121, 127, 133, 133n, 134

Vallanzasca, Renato, 55Vallauri, Carlo, 21n, 49, 49n, 51Vandelli, Luciano, 59n, 130, 130nVeltroni, Walter, 17Vigorelli, Ezio, 9, 54, 54n, 146, 147, 158Virga, Pietro, 118nVisentini, Bruno, 70Vittorio Emanuele III, 23

Zincone, Giovanna, 93n, 101nZirulia, Tebaldo, 5Zuccari, Merico 47

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Direttore: Carlo De Maria

Comitato di direzione: Eloisa Betti, Fabio Casini, Francesco Di Bartolo, Luca Gorgolini, Tito Menzani, Fabio Montella, Laura Orlandini, Francesco Paolella, Elena Paoletti, Sil-via Serini, Matteo Troilo, Erika Vecchietti.

Comitato scientifico: Enrico Acciai, Luigi Balsamini, Mirco Carrattieri, Federico Chia-ricati, Sante Cruciani, Monica Emmanuelli, Alberto Ferraboschi, Alberto Gagliardo, Domenico Guzzo, Fiorella Imprenti, Alessandro Luparini, Barbara Montesi, Fabrizio Monti, Elena Pirazzoli, Antonio Senta, Maria Elena Versari, Gilda Zazzara.

Coordinamento editoriale: Julian Bogdani.

Orientata, fin dal titolo, verso riflessioni sulla contemporaneità, la collana è aperta anche a contributi di più lungo periodo capaci di attraversare i confini tra età medie-vale, moderna e contemporanea, intrecciando la storia politica e sociale, con quella delle istituzioni, delle dottrine e dell’economia.

Si articola nelle seguenti sottocollane:

“Storie dal territorio”. Le autonomie territoriali e sociali, le forme e i caratteri della politica, dell’economia e della società locale, la storia e le culture d’impresa.

“Percorsi e networks”. L’attenzione per le biografie e le scansioni generazionali, per le reti di corrispondenze e gli studi di genere.

“Tra guerra e pace”. La guerra combattuta e la guerra vissuta, i fronti e le retrovie, le origini e le eredità dei conflitti.

“Italia-Europa-Mondo”. Temi e sintesi di storia italiana e internazionale.

“Strumenti”. Le fonti e gli inventari, i cataloghi e le guide.

“Fotografia e storia”. Contributi per una memoria visiva dei territori.

OttocentoDuemilaCOLLANA DI STUDI STORICI E SUL TEMPO PRESENTEDELL’ASSOCIAZIONE CLIONETPRESSO BRADYPUS EDITORE

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Page 185: Governare insieme: autonomie e partecipazione...Governare insieme: autonomie e partecipazione Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento A cura di Fiorella Imprenti e Francesco Samorè

Finito di stampare nel dicembre 2017.

OttocentoDuemila, collana di studi storici e sul tempo presentedell’Associazione Clionet, diretta da Carlo De Maria

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CULTURAL HERITAGE

Volumi usciti:

Eloisa Betti, Carlo De Maria (a cura di), Dalle radici a una nuova identità. Vergato tra sviluppo economico e cambiamento sociale, Bologna, BraDypUS, 2014 (Storie dal territorio, 1).

Carlo De Maria (a cura di), Il “modello emiliano” nella storia d’Italia. Tra culture politiche e pratiche di governo locale, Bologna, BraDypUS, 2014 (Storie dal territorio, 2).

Learco Andalò, Tito Menzani (a cura di), Antonio Graziadei economista e politico (1873-1953),Bologna, BraDypUS, 2014 (Percorsi e networks, 1).

Learco Andalò, Davide Bigalli, Paolo Nerozzi (a cura di), Il Psiup: la costituzione e la parabola di un partito (1964-1972), Bologna, BraDypUS, 2015 (Italia-Europa-Mondo, 1).

Carlo De Maria (a cura di), Sulla storia del socialismo, oggi, in Italia. Ricerche in corso e rifles-sioni storiografiche, Bologna, BraDypUS, 2015 (Percorsi e networks, 2).

Carlo De Maria, Tito Menzani (a cura di), Un territorio che cresce. Castenaso dalla Liberazione a oggi, Bologna, BraDypUS, 2015 (Storie dal territorio, 3).

Fabio Montella, Bassa Pianura, Grande Guerra. San Felice sul Panaro e il Circondario di Miran-dola tra la fine dell’Ottocento e il 1918, Bologna, BraDypUS, 2016 (Tra guerra e pace, 1).

Antonio Senta, L’altra rivoluzione. Tre percorsi di storia dell’anarchismo, Bologna, BraDypUS, 2016 (Percorsi e networks, 3).

Carlo De Maria, Tito Menzani (a cura di), Castel Maggiore dalla Liberazione a oggi. Istituzioni locali, economia e società, Bologna, BraDypUS, 2016 (Storie dal territorio, 4).

Luigi Balsamini, Fonti scritte e orali per la storia dell’Organizzazione anarchica marchigiana (1972-1979), Bologna, BraDypUS, 2016 (Strumenti, 1)

Fabio Montella (a cura di), “Utili e benèfici all’indigente umanità”. L’Associazionismo popola-re in Italia e il caso della San Vincenzo de’ Paoli a Mirandola e Bologna, Bologna, BraDypUS, 2016 (Storie dal territorio, 5)

Carlo De Maria (a cura di), Fascismo e società italiana. Temi e parole-chiave, Bologna, BraDypUS, 2016 (Italia-Europa-Mondo, 2)

Franco D’Emilio, Giancarlo Gatta (a cura di), Predappio al tempo del Duce. Il fascismo nella collezione fotografica Franco Nanni, Roma, BraDypUS, 2017 (Fotografia e storia, 1)

Carlo De Maria (a cura di), Minerbio dal Novecento a oggi. Istituzioni locali, economia e socie-tà, Roma, Bradypus, 2017 (Storie dal Territorio, 6)

Page 186: Governare insieme: autonomie e partecipazione...Governare insieme: autonomie e partecipazione Aldo Aniasi dall’Ossola al Parlamento A cura di Fiorella Imprenti e Francesco Samorè

Percorsi e networks, 4OttocentoDuemila

La tenacia con cui Aldo Aniasi affermò le proprie idee appare enorme oggi, quando il tempo trascorso consente di scandagliarne l’archivio personale: così nascono i saggi di questo libro, che ripercorrono il corpo a corpo di «Iso» con le fasi più dure del Novecento italiano. Uomo dell’azione e della realizzazione, Aniasi per tutta la sua vita testimoniò una coerenza tenace nel porre al centro di ogni sua scelta le libertà e l’emancipazione degli individui e dei popoli. Lo sforzo di raggiungere questi obbiettivi lo portò a tenere lo sguardo costantemente rivolto alle forme di governo e alle autonomie dei poteri e dei territori, un’autonomia intesa sia come partecipazione sia come responsabilità e possibilità di rispondere ai cittadini delle scelte fatte e dei servizi creati. Fu un convincimento che si radicò in un Aniasi di poco più di venti anni, comandante di una brigata partigiana che liberò e poi difese con le armi la Repubblica dell’Ossola strappata all’occupazione tedesca nell’estate del 1944. Continuò nel dopoguerra milanese organizzando l’assistenza, calcando le periferie e preparando inchieste, in un’ansia di conoscere la realtà che lo avvicinava ai riformisti di inizio secolo.Fu per Milano il sindaco dei nuovi quartieri, del verde, del decentramento, ma anche dell’orgogliosa e ferma risposta unitaria alla strategia della tensione e alla violenza di quegli anni. Fu il parlamentare che difese la salute e la sicurezza dei territori, che preparò la commissione parlamentare sui fatti di Seveso, che promosse le riforme per valorizzare le prerogative, le finanze e le autonomie dei comuni. Venne chiamato a ricoprire l’incarico di Ministro della Sanità e di Ministro degli Affari Regionali, poi per lunghi anni resse la vicepresidenza della Camera dei deputati. Negli ultimi anni si dedicò, come Presidente della Fiap alla memoria della Resistenza, sempre attento ad attualizzarne e applicarne i valori. Per tutti quelli che lo conobbero fu “Iso”, il socialista “massimalista delle riforme”, il socialismo come sistema di senso, in un approccio insieme liberale e libertario tra la centralità dei diritti individuali e la solidarietà e la giustizia come collanti di un mondo e di un'Europa in cammino comune. Un socialismo inteso non "come regno idilliaco che sorgerà un giorno ma come il continuo mutamen-to di equilibri e di strutture a favore dell’uomo e della qualità della vita".

Fiorella Imprenti è nata a Milano nel 1977. Storica dell'età contemporanea, dottorato di ricerca in Storia dell'identità di genere all'Università l'Orientale di Napoli, si occupa di storia politica e delle istituzioni e di storia del movimento operaio. Fa parte del comitato scientifico dell'Archivio del Lavoro di Sesto san Giovanni, socia della SISLAV, La Società italiana di storia del lavoro, è dal 2015 Segretaria generale della Fondazione Aldo Aniasi. Tra le sue pubblicazioni: Attraverso la città, numero monografico di Genesis, XIV/2, Viella, 2015; Riformiste. Il municipalismo femminile in età liberale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012.

Francesco Samorè è nato a Milano nel 1976. Laureato in Storia economica nel 2005, avvia una collaborazione con il Centro per la cultura d’impresa e scrive libri e articoli sulla struttura dell'economia italiana contemporanea. Conseguito nel 2009 il dottorato di ricerca in Storia dell'impresa e finanza aziendale, collabora con l'associazione di istituzioni Globus et Locus e poi, nel 2011, assume la direzione scientifica di Fondazione Giannino Bassetti, di cui è segretario generale dal 2015. La Fondazione, nata nel 1994, ha per missione la promozione dell’esercizio responsabile dell'innovazione in ambito nazionale ed internazionale.

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