Gli articoli di Seven Fiduciaria

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FONDO FOTOVOLTAICO SOCIETÀ FIDUCIARIA RISERVATEZZA, COLLABORAZIONE E CRESCITA GLI ARTICOLI DI SEVEN FIDUCIARIA

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FONDO FOTOVOLTAICO

SOCIETÀ FIDUCIARIA

RISERVATEZZA, COLLABORAZIONE E CRESCITA

GLI ARTICOLI DI SEVEN FIDUCIARIA

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L’IMPOSTA DI BOLLO SULLE COMUNICAZIONI RELATIVE AI PRODOTTI FINANZIARI

L’imposta di bollo si applica agli atti, ai documenti e ai registri indicati nella tariffa annessa al

dPR. n. 642/1972. L’imposta di bollo è calcolata in misura proporzionale o fissa a seconda

dell’atto, documento, registro a cui si riferisce e si applica anche laddove non sussista l’obbligo

della relativa comunicazione.

Il presente articolo si focalizza sull’applicazione dell’imposta di bollo alle “comunicazioni

periodiche alla clientela relative a prodotti finanziari, anche non soggetti ad obbligo di deposito, ivi

compresi i depositi bancari e postali, anche se rappresentati da certificati” (articolo 13, commi 2-

bis e 2-ter, della Tariffa, Allegato A, Parte Prima, del D.P.R. n. 642 del 1972).

Con riferimento a tale ambito di analisi, per effetto della Legge di Stabilità 2014 (L. n. 147/2013)

l’entità dell’applicazione dell’imposta di bollo ha subito della variazioni:

l’aliquota di applicazione della stessa è stata elevata (dall’1,5 per mille) al 2 per mille;

l’importo massimo dell’imposta di bollo per i soggetti diversi da persona fisica è innalzato a euro

14.000 (rispetto ai precedenti 4.500).

è stata soppressa la misura minima di applicazione dell’imposta pari a 34,20 euro, la quale

continua ad applicarsi, quale misura fissa, agli estratti conto bancari e postali per i quali.

Alla luce delle predette variazioni, l’attuale imposizione connessa all’imposta di bollo risulta

essere la seguente:

con riferimento alle comunicazioni relative ai prodotti finanziari, si applica l’aliquota del 2 per mille

sul valore di mercato degli stessi o, in mancanza, sul valore nominale o di rimborso che emerge

dalla comunicazione inviata alla clientela. Non esiste una misura minima per il pagamento

dell’imposta di bollo, mentre si ravvisa una misura massima, pari a euro 14.000 per i clienti diversi

da persona fisica.

con riguardo agli estratti conto bancari, postali, ai rendiconti dei libretti di risparmio e ai buoni

fruttiferi postali, l’imposta si applica annualmente:

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per i clienti persone fisiche, in misura fissa pari a 34,20 euro per i clienti persone fisiche. Vige

l’esenzione dall’applicazione dell’imposta nel caso in cui le giacenze abbiano valore medio

annuo non superiore a 5.000 euro;

per i clienti diversi di persone fisiche in misura fissa pari a 100 euro.

L’imposta di bollo si applica inoltre, in talune circostanze, anche alle comunicazioni relative a

prodotti finanziari detenuti all’estero da soggetti residenti in Italia.

L’imposta di bollo si applica, in luogo dell’Ivafe, per i libretti di risparmio e i conti correnti detenuti

all’estero (i quali scontano l’imposta in misura fissa di euro 34,20 ciascuno, fatta salva l’esenzione

da imposizione per le giacenze con valore medio annuo non superiore a 5.000 euro). Alle altre

attività finanziarie detenute all’estero si applica, invece, l’Ivafe. Ancora con riferimento ai prodotti

finanziari detenuti all’estero, è necessario puntualizzare che, alla luce della Circolare dell’Agenzia

delle Entrate n. 28/E/2012 e dell’articolo 13 della citata Tariffa, ai fini dell’applicazione dell’imposta

di bollo, rilevano anche le attività finanziarie detenute all’estero che siano oggetto di un contratto

di amministrazione con una società fiduciaria residente o che siano custodite, amministrate o

gestite da intermediari residenti. Ciò fa sì che tali attività siano considerate non detenute

all’estero e, pertanto, soggette ad imposta di bollo, piuttosto che ad Ivafe.

L’imposta di bollo si applica anche alle comunicazioni relative alle polizze stipulate da soggetti

residenti in Italia ed emesse da imprese di assicurazioni estere operanti in Italia in regime di

libertà di prestazione di servizi (LPS), se queste ultime richiedono l'autorizzazione per il

pagamento dell’imposta di bollo in modo virtuale ed esercitano o abbiano esercitato la facoltà per

l’imposizione sostitutiva prevista dall’articolo 26-ter, comma 3, del decreto del Presidente della

Repubblica 29 settembre 1973, n. 600. In tal caso, la compagnia assicuratrice estera paga

l’imposta di bollo in Italia, direttamente o, se esistente, tramite un rappresentante fiscale

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L’IMPOSTA DI BOLLO SULLE COMUNICAZIONI RELATIVE AI PRODOTTI FINANZIARI

residente (società fiduciaria o altro intermediario che amministra la polizza per conto del cliente).

L’intermediario risponde in solido con la compagnia assicuratrice per il versamento dell'imposta.

Nel caso in cui, invece, quest’ultima non eserciti l’opzione per l’imposta sostitutiva e non richieda

l’autorizzazione al pagamento dell’imposta di bollo in modo virtuale, se le polizze sono oggetto di

un contratto di amministrazione con una società fiduciaria residente o sono custodite,

amministrate o gestite da

intermediari residenti, l’imposta di bollo è comunque dovuta, in luogo dell’Ivafe, e deve essere

corrisposta dalla società fiduciaria o dall’intermediario residente. Diversamente, si applica l’Ivafe.

di Giorgio Gentili

(10/11/2014)

Laureato in Economia e Commercio, è iscritto all’Albo dei Dottori Commercialisti di Macerata, al

Registro dei Revisori legali dei conti del Ministero della Giustizia, nell’elenco dei Periti e CTU del

Tribunale di Macerata e nell’elenco dei Delegati alle operazioni di esecuzione immobiliare nei

Tribunali di Macerata e di Camerino. Attualmente è senior partner di società di consulenza e

componente di uno studio commerciale composto da esperti in vari settori. È inoltre revisore

legale dei conti, membro del collegio sindacale di società di capitali, cooperative, consorzi,

associazioni, oltre a svolgere attività di due diligence e di redazione di perizie di valutazione

aziendale e operazioni straordinarie. È autore di numerosi manuali (tra cui: “Le Reti d’impresa”,

2013;”Modello Organizzativo 231 e sicurezza sul lavoro”, 203; “Il collegio sindacale”, 2012;

“Formulario di revisione legale”, 2010; “La nuova revisione legale dei conti. Formulario

commentato”, 2010; “Responsabilità amministrativa di società ed enti. Il modello organizzativo

ex D.Lgs.231/2001”, 2007; Guida alle Start up innovative”, 2013; “Piano Industriale e crisi di

impresa”, 2013) e di articoli per IPSOA. Gentili è cultore della materia nella cattedre di contabilità

e bilancio e programmazione e controllo delle aziende turistiche presso il Dipartimento di

Scienze della Formazione, dei Beni culturali e del Turismo dell'Università di Macerata, oltre ad

essere docente e relatore di numerosi convegni.

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NUOVE RACCOMANDAZIONI INTERNAZIONALI IN MATERIA DI ANTIRICICLAGGIO

1. Le sfide da affrontare.

La filosofia della prevenzione dovrebbe permeare un sistema efficiente di contrasto di fenomeni

pervasivi e corruttivi del sistema economico ad alto tasso di metamorfosi finanziaria. Il riciclaggio

è un fenomeno criminale, prima di essere riconosciuto come reato nei processi, che trae linfa dai

reati che ne sono fonte e presupposto. Estendere il paniere di questi reati, anche a livello

internazionale, è ciò che permetterà di seguire con maggiore efficacia le tracce che ogni

riconversione dei capitali inevitabilmente lascia, più o meno visibilmente, presso una vasta

schiera di soggetti, che intervengono a titolo professionale nelle transazioni. Essi partecipano, chi

consapevolmente, chi invece per pura negligenza o incapacità di lettura attenta, all’espletamento

del piano illecito di “make up” dei fondi frutto di azioni criminali. Il riciclaggio di denari provenienti

da corruzione, evasione fiscale e fatturato delle organizzazioni criminali inquina il sistema di

libera concorrenza e crea investimenti che apportano ulteriore liquidità agli imprenditori del

crimine. La shadow economy emerge poi con imprese di carattere lecito, che creano un schermo

legale ai veri proventi da reato, di tipo diretto o indiretto, e genera un costo sociale elevatissimo.

In Italia tutto ciò assurge a questione nazionale, considerando il periodo storico che stiamo

attraversando, in cui non possiamo permetterci che l’economia legale, in stato di difficoltà per una

crisi economica, che ha anche radici internazionali, venga ulteriormente compromessa da attori

economici, che godono di vantaggi derivanti dall’illegalità. La normativa penale, che persegue i

reati in capo a singoli individui, anche in quanto appartenenti a organizzazioni criminali, è

preceduta e supportata, nel sistema antiriciclaggio, da norme che prevedono obblighi di

partecipazione attiva in capo ad autorità amministrative e soggetti privati. Questi ultimi, assieme

agli strumenti penali e investigativi, costituiscono un tentativo di barriera, anche se permeabile,

all’ingresso di un fiume di denaro frutto di reati, nell’oceano costituito dalle attuali transazioni

finanziarie globali.

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NUOVE RACCOMANDAZIONI INTERNAZIONALI IN MATERIA DI ANTIRICICLAGGIO

Individuare le correnti di acqua sporca che inquinano il mare magnum delle transazioni è

un’attività che richiede, non solo uno zelante e rigoroso rispetto delle normative di rango primario

e secondario, ma anche un’analisi di qualità delle operazioni poste in essere dalla clientela di

ogni ordine e grado. Ciò al fine di acquisire un’esperienza collettiva di quelli che possono

rappresentare comportamenti indice di un’attività apparentemente incongruente con il profilo

economico dichiarato dai soggetti abili in questo tipo di metamorfosi.

Le attività lecite possono essere costituite inizialmente con fondi di provenienza legittima, per

accogliere successivamente quote frazionate nel tempo di fondi illeciti, che trovano uno scopo

economico già precostituito nell’attività commerciale dichiarata ed effettivamente gestita, al fine di

dissimulare i versamenti di denaro frutto di reato e con l’intento di creare un canale di

investimento stabile assolutamente legale.

Con la velocizzazione degli scambi commerciali e monetari, anche tramite lo sviluppo del web, le

sole normative nazionali di tipo penale o amministrativo non sarebbero sufficienti ad arginare

l’avvento di modi sempre più sofisticati e veloci di passaggio del denaro oltre i confini nazionali e

da un’attività all’altra, tramite l’impiego di società variamente denominate e regolamentate da

normative differenti, con sede legale in paesi diversi, tramite trust, società fiduciarie e conti

correnti diversificati in molteplici parti del mondo.

Vi è bisogno di una mentalità nuova da parte degli operatori onesti e rigorosi, nei vari settori

professionali, affinché siano pronti a captare segnali di allerta e acquisire una maggiore capacità

di analisi, per inoltrare questi segnali alle autorità, a cui competono le successive indagini sui

flussi finanziari. Le normative nazionali sono frutto, non solo delle peculiarità della cultura

giuridica e fattuale appartenenti a quel dato Paese, con le sue aree di rischio e i suoi fattori di

vulnerabilità, ma provengono altresì da studi e analisi svolte a livello internazionale, che incidono

progressivamente nel tempo sulla formazione di leggi e direttive.

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GLI STANDARD INTERNAZIONALI FATF-GAFI

2. Gli Standard Internazionali FATF-GAFI (antiriciclaggio e antiterrorismo).

La futura quarta direttiva in materia di antiriciclaggio è in procinto di recepire a livello comunitario

le novità più rilevanti contenute nelle Raccomandazioni della Financial Action Task Force (FATF).

Queste sono state rinnovate nel febbraio 2012, sotto la Presidenza italiana dell’Organismo

intergovernativo FATF-GAFI, con sede presso l’Ocse, il cui mandato è il rafforzamento a livello

globale dei presidi di prevenzione e contrasto dei fenomeni di riciclaggio, finanziamento del

terrorismo e della proliferazione delle armi di distruzione di massa. Le misure descritte nelle

Raccomandazioni hanno carattere di soft law, e sono dunque norme di scopo e non di dettaglio,

frutto di compromesso giuridico tra Stati membri, che hanno impostazioni costituzionali e di diritto

molto differenti tra loro.

Originariamente elaborate nel 1990, al fine di contrastare l’uso improprio dei sistemi finanziari per

riciclare i proventi del narcotraffico, le Raccomandazioni GAFI sono state revisionate per la prima

volta nel 1996, al fine di riflettere l’evoluzione delle tendenze e delle tecniche del riciclaggio ed

estendere il proprio raggio d’azione ben al di là del contrasto del riciclaggio dei proventi del

narcotraffico. Nell’ottobre 2001 il GAFI ha esteso il proprio mandato alla lotta al finanziamento di

atti di terrorismo ed organizzazioni terroristiche.

Nuovamente revisionate nel 2003, le Raccomandazioni GAFI sono universalmente riconosciute

quali standard internazionali in materia di antiriciclaggio e contrasto al finanziamento del

terrorismo.

A seguito della conclusione del terzo ciclo di valutazioni reciproche dei propri membri, il GAFI ha

revisionato ed aggiornato le Raccomandazioni in stretta cooperazione con i Gruppi Regionali

costituiti sul modello GAFI (FAFT-Style Regional Bodies - FSRBs) e con osservatori quali il Fondo

Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’ Organizzazione delle Nazioni Unite.

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GLI STANDARD INTERNAZIONALI FATF-GAFI

Rispetto alle precedenti Raccomandazioni del 2003, sono stati introdotti ulteriori elementi di

fondamentale rilevanza quali:

- una maggiore attenzione all’analisi del rischio a livello di paese e l’approccio basato sul rischio

con valenza trasversale rispetto a tutte le altre raccomandazioni;

- la rilevanza data al coordinamento tra le autorità nazionali coinvolte in materia;

- l’inclusione dei reati fiscali come reati presupposto del riciclaggio;

- la trasparenza delle persone giuridiche e dei trust in ordine all’accesso alle informazioni sul

titolare effettivo;

- un rafforzamento della cooperazione internazionale a vari livelli;

- l’importanza della valutazione dell’efficacia delle misure adottate nei sistemi nazionali di

prevenzione e contrasto, oltre alla loro conformità rispetto agli Standard di natura normativa e

regolamentare.

I reati fiscali (tax crimes) costituiscono già uno dei reati presupposto del riciclaggio nella

normativa italiana, tuttavia, a livello internazionale questa inclusione comporterà un rafforzamento

dello scambio di informazioni tra paesi, anche per il profilo di contrasto e investigazione del

riciclaggio, oltre alla lotta comune dei governi contro il fenomeno, spregiudicato e senza confini,

dell’evasione fiscale. A livello europeo, i lavori per la quarta direttiva prevedono un riferimento più

esplicito a tale reato presupposto, anche se le soglie di punibilità in ambito penale sono molto

diverse tra gli Stati Membri. La novità più rilevante è l’approccio basato sul rischio, che permea il

nuovo impianto della normativa, soprattutto dal lato della prevenzione, ossia gli oneri per i

soggetti obbligati di svolgere misure di due diligence diversificate, a seconda del rischio previsto,

in base a normative, regolamenti, linee guida e istruzioni di settore. Lo scopo è quello di

focalizzare le attività di verifica e monitoraggio, e relativi costi pubblici e privati, in base a fattori di

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GLI STANDARD INTERNAZIONALI FATF-GAFI

rischio, per commisurare le azioni di mitigazione e prevenzione del potenziale verificarsi di

situazioni di riciclaggio, differenziate per determinate categorie di clientela, prodotti, settori, zone

geografiche, all’interno di uno stesso paese. Tutto questo sforzo è messo in atto da un sistema

nazionale nel suo complesso, con la condivisione tra pubblico e privato delle linee guida

necessarie ad orientare gli operatori coinvolti, sotto i diversi profili professionali, in tutte quelle

transazioni che potrebbero essere utilizzate per fini illeciti.

Emerge la necessità che ogni soggetto del sistema di nazionale, coinvolto con le proprie finalità

e i mezzi che ha per legge a disposizione, contribuisca alla prevenzione di fenomeni di

infiltrazione criminale nel tessuto economico e finanziario di una nazione, come prodotto finale

di una mentalità diffusa e condivisa tra soggetti pubblici e privati.

Dunque, l’obbligo, ai sensi delle normative antiriciclaggio, imposto al settore privato va

commisurato alla reale rischiosità delle operazioni e della clientela che le pone in essere,

evitando aree di esenzione o semplificazione non giustificate e non documentate

adeguatamente. La formazione professionale è certamente parte integrante di una cultura della

prevenzione, al fine di evitare etichette di collusione e impiego di professionisti onesti in attività

illecite a loro insaputa.

La Raccomandazione 1 degli Standard FATF recita nel suo ultimo paragrafo: “I Paesi devono

obbligare le istituzioni finanziarie e le attività e professioni designate a identificare, valutare e

adottare azioni efficaci atte a mitigare i rischi di riciclaggio e finanziamento del terrorismo a cui

sono esposte”.

La Raccomandazione 28, punto b) è rivolta agli obblighi dei professionisti che vanno vigilati in

tal modo:

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GLI STANDARD INTERNAZIONALI FATF-GAFI

“Paesi devono garantire che le altre categorie di attività e professioni non finanziarie designate

siano sottoposte a sistemi di monitoraggio efficaci e rispettino gli obblighi in materia di

antiriciclaggio e contrasto del finanziamento del terrorismo”. Ciò deve essere effettuato in

coerenza con i rischi associati e può essere effettuato per il tramite di (a) un’autorità di vigilanza

o (b) un organo di autoregolamentazione di categoria (Self-Regulatory Body – SRB), a

condizione che tale organo possa garantire che i suoi associati adempiano gli obblighi ai fini di

contrasto del riciclaggio di denaro e del finanziamento del terrorismo. L’autorità di vigilanza o

l’SRB devono anche (a) adottare le misure necessarie a impedire che i criminali e i loro complici

accedano allo status di professionista accreditato (iscritto all’albo/titolare di licenza), o che

detengano partecipazioni significative o di controllo, o siano i titolari effettivi di tali partecipazioni

o rivestano una funzione direttiva, ad esempio sottoponendo i soggetti a test di affidabilità e

correttezza (cosiddetti “fit and proper” test); e (b) prevedendo sanzioni efficaci, proporzionate e

dissuasive in linea con la Raccomandazione 35, in caso di non conformità agli obblighi previsti

in materia di antiriciclaggio e contrasto del finanziamento del terrorismo. Questa serie di

raccomandazioni viene, non solo trasposto nelle normative nazionali, rispettando i principi

costituzionali e la cultura giuridica del paese, ma devono essere realizzate misure efficaci e, in

base a questi due elementi, compliance normativa e grado di efficacia delle azioni concrete

adottate, ogni paese sarà valutato. La valutazione viene svolta dal FATF e organismi equivalenti

(uno di questi è il Moneyval che valuta i paesi del Consiglio d’Europa) a livello internazionale. Il

Rapporto di valutazione è adottato con una procedura partecipata, in cui il paese ha diritto di

replica e partecipazione in ogni fase della valutazione fino al rapporto finale (MER), che viene

reso pubblico, dopo la definitiva adozione in plenaria. L’Italia è stata valutata sui precedenti

standard nel 2005 e nel 2015 verrà effettuata la valutazione alla luce dei nuovi Standard FATF

2012.

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ALLA RICERCA DEL TITOLARE EFETTIVO

Ogni paese verrà valutato in maniera relativa rispetto al suo contesto di rischio: stabilità politica,

rischio geografico, fenomeni di contesto interni, quali il grado di economia sommersa, la

rilevanza del contante nelle transazioni, la diffusione di vari tipi di criminalità, il grado di

corruzione reale e percepito, l’entità del sistema finanziario rispetto al PIL, la maturità dei presidi

normativi antiriciclaggio.

Una buona valutazione è fondamentale ai fini della reputazione internazionale di un paese, che

si presenti con un sistema non immune, in quanto utopico, ma quantomeno robusto e

contrastativo di un certo tipo di fenomeni e flussi finanziari illeciti. Tali fenomeni illeciti

dovrebbero incontrare serie difficoltà nell’insediamento stabile nel sistema finanziario di un

determinato paese, in quanto a “rischio” di essere tracciati e fatti emergere dalla fattiva

collaborazione tra forze investigative, professionisti e operatori finanziari, refrattari ai rapporti

con la clientela collegata, anche tramite filiere lunghe, al crimine organizzato.

3. Alla ricerca del titolare effettivo.

Uno spazio notevole, sia nell’ambito delle discussioni negoziali per la stesura degli Standard,

sia nell’ambito delle interpretazioni dettagliate delle singole raccomandazioni, è stato dedicato

all’accesso alle informazioni sul titolare effettivo sia delle persone giuridiche, che dei trust.

La Raccomandazione 24 è sulla trasparenza societaria:

“I Paesi devono garantire che informazioni adeguate, accurate ed aggiornate sul titolare effettivo

e sul controllo di persone giuridiche siano rese disponibili o accessibili tempestivamente alle

autorità competenti. I Paesi devono prendere in considerazione l’adozione di misure atte ad

agevolare l’accesso alle informazioni sul titolare effettivo e sul controllo delle persone giuridiche

da parte delle istituzioni finanziarie e delle attività e professioni non finanziarie designate”.

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ALLA RICERCA DEL TITOLARE EFETTIVO

Uno degli strumenti suggeriti sono i registri delle imprese pubblici e non, e gli obblighi, per le

stesse società, di conservazione e disclosure della propria struttura proprietaria e di controllo.

Il G8, nel corso del 2013, guidato dalla Gran Bretagna, ha portato avanti un Action Plan, a cui

l’Italia partecipa attivamente, che pone la trasparenza societaria come obiettivo strategico per

una pluralità di fini: antiriciclaggio, antievasione, anticorruzione, etc.

Nelle sedi internazionali intergovernative assume sempre più rilevanza la collaborazione tra

governi, autorità amministrative e investigative dei diversi paesi del mondo, per un contrasto

efficace al riciclo di capitali provenienti da minacce che inquinano quotidianamente la libera

concorrenza e il corretto impiego delle risorse finanziarie ed economiche. La corruzione, a livello

di politici nazionali ed esteri, che investono lontano dal proprio paese di origine i profitti occulti, è

una piaga che affligge le economie dei paesi poveri, come di quelli ricchi con sempre più

pressanti problemi di debito pubblico, cosi come l’evasione fiscale. La finalità dei governi è

dunque evidente, e ciò non esime i soggetti privati dalla partecipazione attiva a una lotta, che

dovrebbe essere di tutte le categorie di onesti, che pagano le conseguenze di fenomeni criminali

come l’usura, il crimine organizzato e la concorrenza sleale di chi si sottrae alle regole.

Rendere il sistema delle professioni meno permeabile a un certo tipo di fenomeni e farlo senza

gravare eccessivamente, di costi diretti e indiretti, i singoli professionisti, deve essere lo sforzo

congiunto del legislatore, dell’autorità amministrativa, delle forze investigative e del settore

privato a ciò chiamato, non per capricci del politico di turno o di una vessatoria legislazione

europea, ma per uno scopo più alto, che si chiama bene comune o bene giuridico meritevole di

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ALLA RICERCA DEL TITOLARE EFETTIVO

di Carmine Ruggiero

(21/10/2014)

tutela, quale è di sicuro il raggiungimento di un ambiente più protetto e integro per gli

investimenti nel nostro paese, che ha necessità di fondi provenienti da attività economiche

sane e produttive, dall’Italia e dal resto del mondo.

Laureato in Giurisprudenza, in Economia e Commercio ed in Scienze Politiche, è iscritto

all’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Avvocati. Attualmente è Docente di Diritto Bancario

nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e docente di Diritto

Commerciale nella Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università di Napoli

Federico II. È stato Docente di Diritto Commerciale presso la Facoltà di Economia dell’Università

degli Studi del Molise e nella Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II,

nonché Docente di Economia Aziendale all’Università S. Pio V di Roma. È autore di numerosi

articoli e monografie (tra cui: ‘Il sistema dei controlli interni negli intermediari finanziari del titolo V

del T.U.B.: Profili regolamentari’, 2012; ‘Vademecum, sui sistemi di pagamento alternativi al

contante e sui mezzi di prevenzione delle frodi’, 2011; ‘Le società Finanziarie’ 2010, ‘La nuova

disciplina dell’antiriciclaggio’ 2008, ‘Il bilancio delle società finanziarie’ 2003; ‘I titoli di credito’,

2002, ‘Magazzino, principi IAS e normativa fiscale: prove di coordinamento’, 2005; ‘La Fusione,

2005, ‘La revoca dell’amministratore nella nuova s.r.l.’, 2004) e di numerosi articoli di diritto

bancario e di diritto societario.

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COS’È L’IVAFE?

L’Ivafe è l’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero da persone fisiche

residenti in Italia. Dopo l’approvazione della legge europea 2013-bis, per l’anno di imposta

2014 tali attività sono rappresentate dai prodotti finanziari indicati nell’art.1 del D.Lgs. n. 58

del 1998 a cui rinvia il DM del 24 maggio 2012 relativo all’imposta di bollo. In particolare, le

novità introdotte dalla Legge Europea 2013-bis prevedono che dal 2014 l’Ivafe verrà applicata

ai prodotti finanziari su cui è dovuta l’imposta di bollo. Infatti, il presupposto impositivo

dell’Ivafe è stato allineato a quello dell’imposta di bollo dovuta sui prodotti finanziari, conti

correnti e libretti di risparmio detenuti in Italia.

Prima del 2014 le attività finanziarie oggetto dell’Ivafe sono riportate nella Circolare 28/E/2012

dell’Agenzia delle Entrate. Dall’anno d’imposta 2014, con l’applicazione delle nuove

disposizioni, l’Ivafe diventa inapplicabile per la detenzione di quote di società di diritto estero

equiparabili alle Srl italiane.

L’Ivafe è entrata in vigore nell’anno di imposta 2012 con aliquota pari all’1 per mille del valore

delle attività finanziarie estere, esclusi i libretti di risparmio e i conti correnti che scontano

l’imposta in misura fissa di euro 34,20 ciascuno, fatta salva l’esenzione da imposizione per le

giacenze con valore medio annuo non superiore a 5.000 euro.

L’aliquota proporzionale prevista per i periodi d’imposta successivi è pari all'1,5 per mille per il

2013, e al 2 per mille a decorrere dal 2014; quella fissa rimane invariata.

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COS’È L’IVAFE?

Per effettuare il pagamento dell’Ivafe è necessario uniformarsi alle regole previste per l’Irpef,

anche in riferimento alle modalità di versamento dell’imposta in acconto e a saldo.

La citata Circolare n. 28/E/2012 prevede che relativamente alle attività finanziarie

oggetto di un contratto di amministrazione con una società fiduciaria residente o di

custodia, amministrazione o gestione con soggetti intermediari residenti, l’Ivafe non è

dovuta in quanto su tali attività viene applicata l’imposta di bollo (ai sensi dell’articolo

13, commi 2-bis e 2-ter, della Tariffa, Allegato A, Parte Prima, del D.P.R. n. 642 del 1972),

dal momento che le stesse non sono considerate come detenute all’estero.

di Giorgio Gentili

(27/10/2014)

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QUALE FUTURO PER GLI INTERMEDIARI FINANZIARI?

1. Cenni introduttivi. 2. Il sistema economico ed il ruolo dell’intermediazione finanziaria. 3. La

nozione di intermediario finanziario. 4. Gli "intermediari finanziari" nel d.lgs. 1° settembre 1993,

n. 385. 5. Il modello organizzativo degli intermediari finanziari nella originaria stesura dell’art.

106 Tub. 6. L’art. 106 TUB. nella nuova formulazione post D.Lgs. 141/2010. 7. Le attribuzioni e

le competenze della Banca d’Italia sugli intermediari ex art. 106. 8. Le Autorità di vigilanza nel

sistema finanziario italiano. 9. Sistemi di vigilanza a confronto. 10. Intermediari Finanziari ed

obbligo di partecipazione alla Centrale rischi. 11. Centrale rischi e quadro normativo di

riferimento. 12. La funzione della Centrale rischi. 13. Esposizioni creditizie e sistema di

monitoraggio. 14. Riforma delle Centrale dei Rischi e partecipazione al sistema. 15. Sistema di

raccolta delle informazioni e tutela della privacy. 16. Danni da errata segnalazione delle

informazioni su posizioni creditorie.

1. Cenni introduttivi.

Nel corso degli ultimi anni la disciplina dei soggetti che operano nel settore finanziario è stata

oggetto di diverse interventi normativi, in uno scenario economico variegato e composito nel

panorama dei mercati, caratterizzato da una molteplicità di soggetti: holding, intermediari

finanziari, confidi, agenti in attività finanziaria, mediatori creditizi.

Se, infatti, una prima serie di modifiche ed integrazioni alla disciplina relativa ai soggetti operanti

nel settore finanziario si è avuta con la delega al Governo per l’attuazione della Direttiva

2008/48/CE, è solo con la successiva entrata in vigore del decreto legislativo 13 agosto 2010

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IL SISTEMA ECONOMICO E IL RUOLO DELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA

n. 141, così come modificato dai successivi interventi legislativi, che la disciplina riguardante i

soggetti operanti nel settore finanziario, contenuta all’interno del Titolo V del testo Unico

Bancario (decreto legislativo 1 settembre 1993 n.385, di seguito semplicemente TUB) è stata

profondamente modificata. Il decreto in questione ha ridisegnato interamente i confini operativi

degli intermediari finanziari, producendo il rilevante effetto di porre fine alla sussistente

distinzione tra soggetti iscritti all'Elenco Generale (ex Art. 106) e soggetti iscritti all'Elenco

Speciale (ex Art. 107). Entrambi gli elenchi saranno, poi, negli interventi normativi successivi,

sostituiti da un Albo unico degli Intermediari Finanziari che esercitano nei confronti del pubblico

attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, la cui tenuta è affidata alla Banca

d'Italia. La formulazione del Titolo V che si viene in tal modo a delineare prevede, per la

“nuova” tipologia di intermediario finanziario di cui all'art. 106, una tendenza ad assimilare gli

standard di organizzazione, gestione e controllo a quelli già previsti per i soggetti vigilati.

Obiettivo di chi scrive è dunque quello di fornire un'idea immediata di come lo scenario

generale sia mutato alle luce delle recenti modifiche normative, nonché, da ultimo, alla luce

della versione aggiornata del TUB al decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 53.

2. Il sistema economico ed il ruolo dell’intermediazione finanziaria.

Fino agli inizi degli anni 90 l’esercizio delle attività finanziarie non bancarie, costituenti il cd.

“parabancario”, era completamente libero, potendo essere svolte, tali attività, da una qualsiasi

impresa commerciale, anche se costituita sotto forma di ditta individuale. In assenza, dunque,

di norme specifiche la prassi, per lungo tempo invalsa, ha contribuito alla formazione ed

all'affermarsi di svariati istituti e di condotte.

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IL SISTEMA ECONOMICO E IL RUOLO DELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA

Solo grazie ai recenti interventi legislativi è stata conferita piena consacrazione a figure che,

sebbene già esistenti, difettavano per lo più sia di un riconoscimento formale, sia di

un’apposita regolamentazione. Nella realtà quotidiana del mondo finanziario nazionale si

rinvengono ormai da molto tempo svariate tipologie di finanziarie. Fra queste, si annoverano le

società che assumono la partecipazione in altre società (attività propria della società di

investimento) in ordine alla vendita, al possesso e alla gestione dei titoli; quelle che si

occupano del collocamento dei titoli pubblici o privati (attività di intermediazione finanziaria

svolta dalle merchant banks); svolgono funzioni speculative (investment trust); forniscono

servizi finanziari sotto forma di intermediazione (fiduciarie, commissionarie) o paracreditizi

(leasing, factoring, forfaiting, confirming) o di finanziamento alle imprese e ai privati. In estrema

sintesi, a chi negozia valori mobiliari con finalità di investimento, controllo stabile o speculative,

s’aggiungono coloro che danno servizi finanziari. Nel corso degli ultimi anni, questa variegata

compagine ha conosciuto una serie di interventi tesi a portare chiarezza e ordine: è stata,

infatti, limitata la nozione di attività finanziaria, rimasta finora abbastanza confusa sia per

quanto concerne i soggetti facoltizzati a porla in essere, sia circa le forme di espressione.

Sin dagli anni settanta, l'intermediazione finanziaria è stata, in Italia, monopolizzata dalle

banche, e così pure il finanziamento del sistema produttivo. Il "monopolio" non era però

semplice effetto di una riserva di legge, poiché al suo affermarsi aveva largamente concorso

l'arretratezza del nostro mercato finanziario.

In realtà, la legge bancaria del 1936 assoggettava a controllo l'accesso all'attività bancaria e il

suo esercizio, ma non riservava alle banche ogni attività di intermediazione finanziaria, bensì

solo "la raccolta di risparmio tra il pubblico sotto ogni forma e l'esercizio del credito" (art. 1

legge bancaria 1936).

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IL SISTEMA ECONOMICO E IL RUOLO DELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA

L’inerzia del legislatore era, altresì, motivata dal fatto che il rischio connesso all’attività

realizzata da questi soggetti, per lo più limitata all’esercizio del credito svincolato dalla raccolta

del risparmio tra il pubblico, non era considerato particolarmente alto nei confronti degli utenti.

Rischio considerato, viceversa, solo nei confronti della clientela bancaria e consistente nella

possibilità di non restituzione dei valori conferiti. Esclusa, invece, la riserva in favore delle

banche dell'esercizio del credito che non si accompagnasse alla raccolta di risparmio tra il

pubblico; inoltre, le attività di raccolta di risparmio e di esercizio del credito, considerate dalla

legge bancaria, erano solo quelle, come si dice oggi con terminologia di derivazione

comunitaria (e v. la direttiva 89/646/CE), di "fondi rimborsabili", vale a dire di danaro ceduto

con obbligo di restituzione (e, quindi con contratti in senso lato di mutuo). Vi erano, dunque,

nel nostro mercato finanziario, comparti di attività, per i quali non esistevano riserve di legge, e

che, tuttavia, non registravano la presenza di intermediari in grado di operare in condizioni di

significativa concorrenza con le banche. Durante la vigenza della legge bancaria del ’36,

occorre ricordare che la Banca centrale, che svolse in quegli anni le funzioni di vigilanza

tramite l’Ispettorato con le Istruzioni, pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale n. 122 del 27.5.1937,

delineò le prime regolamentazioni, che consistevano nell’obbligo, per tali società, di fornire

indicazioni circa: “denominazione dell’azienda, forma di costituzione, specie di attività svolta,

ammontare del capitale sociale o del fondo di conferimento e delle riserve, sede sociale e delle

eventuali dipendenze”. Si trattava di un intervento, basato su obblighi di natura meramente

informativa e su aspetti prevalentemente di natura patrimoniale, rivolto essenzialmente allo

scopo di prevenire ed eventualmente reprimere possibili forme di abusivismo bancario,

collegate al fatto che le aziende in questione avrebbero potuto raccogliere in qualche modo

risparmio tra il pubblico, incorrendo così nella violazione dell’art. 1 della legge bancaria allora

vigente.

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IL SISTEMA ECONOMICO E IL RUOLO DELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA

L’intenzione del legislatore era solo quella di rivitalizzare il mercato mobiliare allo scopo di

aumentare l’afflusso diretto del pubblico risparmio verso il capitale di rischio delle imprese, ma la

convinzione era che l’obiettivo richiedesse, innanzi tutto, un ammodernamento dell’istituto

societario, oltre all’introduzione di forme di controllo pubblico a tutela della massa dei

risparmiatori interessati al mercato mobiliare. Passeranno anni prima di un intervento del

legislatore. L'introduzione, con la legge 23.3.1983, n. 77, dei fondi comuni di investimento

mobiliare aperti tende a convogliare pubblico risparmio, sotto forma di capitale di rischio, verso le

imprese (con particolare riguardo, verso quelle di grandi dimensioni): ma qui lo scopo è raggiunto

appunto con l'introduzione di una disciplina, che, innovando in modo rilevante al diritto comune,

crea una nuova figura di intermediario finanziario. E questo vale poi anche per la legge 2.1.1991,

n. 1, istitutiva delle Sim, il d.lgs. 25.1.1992, n. 84, istitutivo delle Sicav, la legge 14.8.1993, n. 344,

istitutiva dei fondi di investimento mobiliare chiusi, che realizzano l'esigenza di convogliare il

pubblico risparmio verso il capitale di rischio delle imprese ancora attraverso la creazione di

figure di intermediari finanziari specializzati in questa o in quella attività, con larga incidenza sul

diritto comune. Questi nuovi intermediari possono dirsi, come le banche, "tipici", sotto un doppio

profilo: innanzi tutto perché essi sono creati dalla legge, che riserva a ciascuno l'esercizio di una

determinata attività, e perciò l'offerta di prodotti o servizi finanziari a loro volta tipici, in secondo

luogo perché la legge impone requisiti e strutture, che rendono tipica la loro organizzazione. I

nuovi intermediari finanziari sono però anche espressione di una nuova cultura, che ormai mette

in discussione il ruolo delle banche e, in particolare, la loro vocazione monopolistica nel settore

dell'intermediazione finanziaria. Accanto ad essi, si affermano così altri intermediari, che avviano

nuove attività – di factoring, di leasing, di credito al consumo, di merchant banking, ecc. -,

sovente vicine all'attività delle banche.

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IL SISTEMA ECONOMICO E IL RUOLO DELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA

Molti di questi intermediari, invero, concedono anch'essi credito e, naturalmente, provvedono

alla provvista dei mezzi finanziari di cui abbisognano raccogliendo danaro a credito, anche se –

diversamente dalle banche – tale raccolta avviene in via di principio non tra il pubblico. Vengono

chiamati, al pari dei loro prodotti finanziari più significativi, "atipici", in contrapposizione anche

agli altri intermediari, quelli tipici: ma la loro attività è in concorrenza soprattutto con l'attività delle

banche, perché la riserva di legge relativa alla raccolta e all'investimento del risparmio di rischio,

di cui beneficiano in questo momento storico gli intermediari tipici non bancari, è rigida, ancor più

della riserva relativa alla raccolta del risparmio tra il pubblico e all'esercizio del credito, di cui

beneficiano le banche. Le banche di fronte all’evolversi ineluttabile del mercato finanziario hanno

preferito, inizialmente, piuttosto che combatterlo, governarlo dall’interno, partecipandovi con

proprie società. Su indicazione della Banca d’Italia, che ritenne inopportuno l’estendersi

dell’attività bancaria verso il modello europeo della “banca universale”, le banche interessate ad

estendere la loro attività ad altri prodotti finanziari si videro costrette ad utilizzare società

bancarie da esse controllate (le cc.dd. società del parabancario), ricorrendo al modello di

organizzazione noto come “gruppo polifunzionale”. La partecipazione delle banche alle società

finanziarie ha posto allora, per la prima volta, l’esigenza di una regolamentazione anche delle

attività di intermediazione finanziaria che non raccolgono risparmio fra il pubblico, denominate

“residuali”, in quanto prive di specifica disciplina. È emersa, in tale contesto, l’esigenza di

estendere il controllo pubblico all’intero gruppo di cui la parte la banca e più in generale a tutte le

società che operano nel settore finanziario. Hanno preso, in tal modo, corpo le disposizioni di

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IL SISTEMA ECONOMICO E IL RUOLO DELL’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA

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cui alla legge 17.4.1986 n. 114 (Controllo delle partecipazioni bancarie in attuazione della

direttiva CEE n. 83/350 del 13.6.1983 in tema di vigilanza su base consolidata degli enti

creditizi) e il d.lgs. 20.11.1990, n. 356 sulla ristrutturazione del gruppo creditizio volte ad

introdurre le prime forme di controllo di vigilanza sulle società finanziarie aventi funzioni di

capogruppo: trattasi di interventi normativi di settore che hanno rappresentato le fondamenta di

quella che, in tempi più vicini, è la prima compiuta regolamentazione dell’attività di

intermediazione finanziaria: gli artt. 106 e ss. del TUB. Con tale intervento il legislatore ha

provveduto a definire un corpo organico di norme applicabili a tali intermediari allo scopo di

sottoporli a forme di vigilanza, più o meno intense a seconda dell’attività svolta e delle

caratteristiche di “rischio” dell’intermediario, onde fornire adeguate garanzie ai risparmiatori e

agli investitori che si rivolgono a tali intermediari. Il risultato complessivo è quello di ridurre il

rischio che fenomeni di crisi trasmigrino dal settore finanziario a quello bancario e di rendere più

profondi i controlli delle autorità, finalizzati ai fini pubblici della stabilità e trasparenza ed anche

di realizzare una effettiva concorrenza tra gli intermediari finanziari e le banche. Tant'è che,

emanato il TUB gli intermediari “atipici” troveranno collocazione in questo TUB, e vi resteranno

anche dopo l'emanazione del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, contenente il Testo Unico delle

disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d’ora in poi TUF), dove troveranno invece

collocazione gli intermediari che raccolgono e convogliano il risparmio di rischio.

Nello stesso tempo, utilizzando l'ambiguità delle leggi che definiscono le attività loro riservate e

il consenso delle autorità amministrative preposte al controllo, altri operatori tipici – il riferimento

è alle società fiduciarie, di cui alla legge 23.11.1939, n. 1966 – si avviano con crescente

impegno nel settore dell'intermediazione finanziaria, al quale in precedenza erano restati

estranei.

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LA NOZIONE DI INTERMEDIARIO FINANZIARIO

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3. La nozione di intermediario finanziario.

La legge, quindi, riserva l'esercizio di determinate attività nei confronti del pubblico ad

"intermediari finanziari iscritti in un apposito elenco...", come oggi prevede l'art. 106 TUB.

Si ritrova quindi nella norma richiamata l'attuale conclusione legislativa di quel processo di

"legificazione di tutte le attività finanziarie" che era stato introdotto nel nostro ordinamento una

prima volta attraverso la legge cd. antiriciclaggio del 1991(decreto legge 3 maggio 1991, n.

143. convertito con modificazioni in legge 5 luglio 1991, n. 197). In realtà il TUB preferisce non

dettare alcuna nozione di intermediario finanziario, e predilige piuttosto riportare, come il suo

precedente della legge 197/91, un riferimento alle attività il cui svolgimento comporta

l'assoggettamento di chi esercita le stesse alla legislazione speciale, effettuato attraverso

l'elencazione generale delle attività medesime, piuttosto che dettare una definizione dei

soggetti che possono qualificarsi come intermediari finanziari, e del contenuto di tale posizione

di intermediazione. E' noto che nel campo finanziario si è sempre presentata la dicotomia tra

regolamentazione soggettiva o piuttosto oggettiva: la direttiva europea n. 89/646, cd. seconda

direttiva bancaria, prevede all'art. 1.6 una regolamentazione soggettiva, cioè di ente finanziario

come dedicato esclusivamente a svolgere attività di tale tipo, e detta quindi una disciplina che

appare residuale rispetto a quella, pure in principalità soggettivamente individuata, dell'ente

creditizio; anche se in realtà non evita di elencare poi le attività specifiche che danno luogo alla

nozione di attività finanziaria.

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LA NOZIONE DI INTERMEDIARIO FINANZIARIO

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In Inghilterra vengono invece definite principalmente le attività e non piuttosto il soggetto,

attraverso il Financial Service Act del 1986.

Ciononostante il rinvio operato dalla legge alla nozione di intermediario finanziario appare

esplicito in senso anche soggettivo, mentre la disciplina di legge appare senza dubbio indirizzata

alla stabilità degli operatori e non appare quindi possibile evitare di tentare di attribuire un

contenuto dapprima letterale alla definizione legislativa.

Il termine intermediario non può che venire interpretato come connesso ad un concetto di tramite,

di collegamento, d'intermediazione appunto; una simile espressione in un contesto di attività

finanziarie può quindi venire utilizzata solo per configurare un collegamento tra i risparmiatori e il

mercato, o tra soggetti anche non risparmiatori, intesi però nel senso di "consumatori" del

mercato finanziario, ed è questa appunto la nozione più accreditata del significato di

intermediario finanziario.

Gli intermediari finanziari, secondo questa accezione letterale del termine, sono pertanto coloro

che "intervengono in un rapporto tra soggetti diversi avente contenuto finanziario"; il tramite

effettuato dagli intermediari così concepiti, quindi, consiste soprattutto nell'erogare credito

utilizzando ad uopo fondi raccolti sul mercato, soprattutto od esclusivamente tra i risparmiatori.

In questo senso gli intermediari stessi svolgono una funzione che interessa il mercato, cioè di tipo

economicamente e socialmente rilevante, che consiste appunto nella trasformazione degli attivi

raccolti sul mercato in strumenti di credito da riservare sul mercato stesso. Non appartiene

pertanto a questa nozione, letterale, il soggetto che eroga credito "valendosi di denaro proprio",

sia perché in tal caso manca un indebitamento verso terzi della società erogante, e quindi manca

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LA NOZIONE DI INTERMEDIARIO FINANZIARIO

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l'intermediazione, sia anche, e correlativamente, perché la rilevanza della figura per la

legislazione di controllo – indirizzata alla stabilità dei soggetti operanti sul mercato – ricorre

allorché vi sia raccolta di risparmio, cioè operatività esterna della società sul mercato

medesimo, ove per esterno s'intende anche l'ambito dei soggetti estranei al "gruppo" societario

cui appartiene la società erogante il credito. In verità lo scopo della precedente legge di

emergenza del 1991, la più volte citata legge antiriciclaggio, poteva anche ritrovarsi proprio nel

sospetto che poteva essere suscitato dal ripetuto presentarsi di operazioni di erogazione del

credito svincolate dalla raccolta del risparmio, in quanto possibile indice di un

approvvigionamento non lecito dei mezzi finanziari occorrenti. Va considerato però in merito

che, a un lato, una norma di tipo generale, quale quella dell'art. 106 TUB, che abbia rispetto

alla normativa antiriciclaggio la differente ed esplica funzione di sistemare la materia nel

complesso, non può certamente venire assoggettata ai limiti propri di una regolamentazione

straordinaria – definita, infatti, correttamente "d'emergenza" – d'origine e di funzione

principalmente penalistica, e, dall'altro, che come risulta ben chiaro dalla richiamata modifica

del decreto ministeriale del luglio 1994, questa appare comunque originata da intento del tutto

estraneo alle preoccupazioni della legge antiriciclaggio. E ciò soprattutto perché le garanzie

prestate dalle società eroganti sono esplicitamente a loro volta coperte da garanzie proprie

verso le banche che, rappresentate dai patrimoni aziendali dei garantiti medesimi, che sono

per definizione, e salvo eventuali eccezioni che sarebbero certo facilmente riscontrabili, società

commerciali esplicitamente presenti sul mercato come fornitori all'ingrosso di prodotti di più

largo consumo.

Non vi è luogo quindi per ritrovare normalmente in tal caso un approvvigionamento irregolare di

mezzi finanziari da parte delle società garanti medesime. Ma inoltre e soprattutto, i contratti

che queste società eroganti le garanzie pongono in essere con i propri garantiti (all’interno dei

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GLI INTERMEDIARI FINANZIARI NEL D.LGS.1°SETTEMBRE 1993

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quali la prestazione della garanzia costituisce non l'oggetto principale delle reciproche

obbligazioni, che è, invece, la compravendita dei prodotti, ma un mero accessorio, se pure

ritenuto dalle parti essenziale per la conclusione del contratto globale) hanno una causa del

tutto chiara, che è quella di agevolare l'acquisto da parte dei garantiti dei beni venduti o

commercializzati da garanti, e si pongono quindi come supporto patrimoniale indiretto e

aggiuntivo rispetto all'attività aziendale dei garantiti stessi, e non come erogazione concreta

professionale che esaurisce in sé la propria causa. Si tratta al contrario di un interesse del

medesimo datore del credito invece mediato e riferito ad altro scopo, come all'opposto non

avverrebbe certo nel caso di mutuo diretto, svincolato da qualunque altra implicazione

contrattuale tra le parti. In sostanza, e sotto un aspetto prevalentemente privatistico, la

prestazione di fideiussione si pone negli accordi in esame come un elemento integrato, ma non

principale nel contratto di compravendita concluso tra le parti, ed è quindi munito per

conseguenza della specifica causa di quello.

4. Gli "intermediari finanziari" nel d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385.

L'evoluzione delle finalità della vigilanza sugli intermediari finanziari residuali, cioè quelli

considerati dalla legge antiriciclaggio, si perfeziona con il TUB .

Certo, anche nel TUB permane la duplice finalità di disciplina del mercato finanziario e di lotta

alla criminalità, visibile nell'affidamento all'Ufficio Italiano Cambi, e non alla Banca d'Italia, di un

"primo e generalizzato controllo" su questi intermediari e nella richiesta di requisiti di onorabilità

per i loro esponenti. Tuttavia, lo spostarsi dell'attenzione del legislatore sulla finalità

prudenziale – resa già palese dalla scelta della sedes materiae, un testo unico in materia

bancaria e creditizia – viene ancora più accentuata dalla nuova sistemazione della materia.

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GLI INTERMEDIARI FINANZIARI NEL D.LGS.1°SETTEMBRE 1993

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Nella disciplina antiriciclaggio, dettata dal d.l. 143, e dalla legge di conversione, la disciplina

degli intermediari finanziari residuali era costruita – come è stato detto - secondo un disegno a

"cerchi concentrici": vi era una disciplina generale, applicabile a tutti gli intermediari esercenti in

via prevalente l'attività finanziaria residuale; vi era, quindi, una disciplina di specie, applicabile a

quegli intermediari, compresi tra i primi, esercenti la loro attività nei confronti del pubblico (i soli,

a stretto rigore, qualificabili intermediari); vi era, infine, una disciplina di sottospecie, applicabile

agli intermediari, compresi i secondi, ma di maggiore rilievo.

Questo disegno, per il fatto di dare importanza alla prevalenza dell'attività finanziaria, prima

ancora che all'esercizio dell'attività nei confronti del pubblico, era sicuramente comprensibile

nella logica di una legge emanata per combattere il riciclaggio, lo era di meno in una legge

destinata a dettare regole per il mercato finanziario e per gli operatori che proiettano la loro

attività su questo mercato.

Il TUB ridisegna la disciplina degli intermediari finanziari residuali – il riferimento esclude quelli

che abbiano funzione di capogruppo di gruppo bancario: per questi ultimi continua ad applicarsi

una disciplina speciale, che può leggersi negli artt. 60 a 69, e 98 a 105 TUB – per adeguarla alla

sua diversa prospettiva. Viene dettata una disciplina generale, che si avvia con la previsione di

un obbligo di iscrizione, in un "elenco generale" tenuto dall'Ufficio Italiano Cambi (art. 106 co. 1

TUB), degli intermediari che esercitano nei confronti del pubblico le "attività di assunzione di

partecipazione", di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, di prestazioni di servizi di

pagamento e di intermediazione in cambi" (non si parla più di "servizi di incasso e di

trasferimento di fondi anche mediante emissione e gestione di carte di credito", ma – sembra-

solo perché già ritenuti compresi tra le attività che restano), e viene poi dettata una disciplina

speciale per gli intermediari di maggiore rilievo, che si avvia con la previsione dell'obbligo della

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IL MODELLO ORGANIZZATIVO DEGLI INTERMEDIARI FINANZIARI

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loro iscrizione anche in un "elenco speciale" tenuto dalla Banca d'Italia (art. 107 co. 15 TUB).

I soggetti non operanti nei confronti del pubblico sono invece assoggettati ad una distinta

disciplina, assai ridotta, con finalità che possono dirsi soprattutto di censimento, riconducibile

comunque alla prima per il fatto che anche questi operatori sono iscritti in un elenco, che

costituisce "apposita sezione dell'elenco generale" tenuto dalla Banca d’Italia (113 TUB). Per

tornare all'immagine dei cerchi, nel TUB non ci sono più tre cerchi concentrici, ma due cerchi

concentrici, che ruotano su uno stesso piano, e un terzo che orbita intorno a loro, su un piano

diverso. Ma, al di là di questi dati esteriori, la maggiore rilevanza che il TUB attribuisce al fine

della regolamentazione del mercato finanziario si manifesta anche in una maggiore severità

della disciplina degli intermediari finanziari residuali iscritti "nell'elenco generale", riscontrabile

già nella norma che fa loro divieto di svolgere attività diverse da quelle finanziarie (106 co. 2

TUB).

5. Il modello organizzativo degli intermediari finanziari nella originaria stesura dell’art.

106 TUB.

L'art. 106 TUB, co. 1, nella sua formulazione ante D.Lgs. 141/2010, dava luogo ad una riserva

di attività in favore dei soggetti iscritti nell'Elenco Generale, consentendo loro l’'esercizio nei

confronti del pubblico delle attività di assunzione di partecipazioni, di concessione di

finanziamenti sotto qualsiasi forma, di prestazione di servizi di pagamento e di intermediazione

in cambi.

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IL MODELLO ORGANIZZATIVO DEGLI INTERMEDIARI FINANZIARI

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Nel successivo art. 107 era possibile, poi, ritrovare una disciplina speciale per intermediari che

con riferimento all'attività svolta, alla dimensione e al rapporto tra indebitamento e patrimonio

erano tenuti ad iscriversi ad un apposito elenco speciale tenuto dalla Banca d'Italia.

Essendo, dunque, prevista una disciplina speciale per i soli soggetti iscritti all'elenco di cui

all'art. 107, l'esercizio dell'attività per gli intermediari di cui all’art. 106, poteva essere svolto

avendo riguardo delle disposizioni della Banca d'Italia in materia di organizzazione e obblighi.

In linea con le indicazioni fornite dalla Banca d’Italia, il modello strutturale adottato dagli

intermediari ex art. 106 si viene a caratterizzare per l'adozione di strutture composte

generalmente da un numero ridotto di risorse cui affidare i diversi compiti operativo - gestionali.

L'adeguatezza dell'organizzazione interna si fonda sul rispetto di una serie decisiva di obblighi,

tra i quali rientrano la privacy, la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari, la

predisposizione di un sistema antiusura e la normativa antiriciclaggio. A tali obblighi si

aggiungono, poi, quelli inerenti le comunicazioni nei confronti dell'Agenzia delle Entrate – aventi

ad oggetto aggiornamenti sui rapporti continuativi - nonché quelli nei confronti della Guardia di

Finanza - e della stessa Agenzia delle Entrate - in relazione alle indagini finanziarie. Lo stesso

sistema di controlli interni risulta, pur nella sua semplicità, caratterizzato dalla periodicità ed ha

come obiettivo principale quello di verificare che l'area commerciale rispetti le norme in materia

di verifica della clientela, di corretta informativa precontrattuale da fornire al cliente, di

acquisizione dell'autorizzazione al trattamento dei dati personali. Si preferisce, sempre in

questa fase legislativa, esternalizzare solo le funzioni contabili, legali, di verifica e monitoraggio

del credito ed in alcuni casi anche l’eventuale recupero del credito. È solo con il D.Lgs

141/2010 che si viene a delineare un nuovo modello di intermediazione, cui vede attribuita

un’importanza decisiva ad alcune aree funzionali specifiche, come l'area crediti, e quelle

relative alla valutazione e gestione dei rischi di riciclaggio.

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L’ART.106 T.U.B. NELLA NUOVA FORMULAZIONE POST D.LGS.141/2010

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6. L’art. 106 T.UB. nella nuova formulazione post D.Lgs. 141/2010.

Sino ad oggi in virtù del Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 17 Febbraio

2009, n. 29, è stato possibile far rientrare nella definizione di intermediari finanziari ai sensi

dell’art. 106 TUB, quei soggetti iscritti nell’elenco generale, che hanno esercitato nei confronti

del pubblico in via professionale l’attività di concessione di finanziamenti, di assunzione di

partecipazioni, di intermediazione in cambi.

Come si è detto innanzi, è con il Decreto Legislativo 13 agosto 2010 n. 141, attuativo alla

direttiva comunitaria n. 48/2008, che si è proceduto ad una revisione profonda della normativa

relativa agli Intermediari Finanziari cosiddetti “non bancari”: è stato, infatti, istituito un albo

“unico” degli intermediari finanziari, con il superamento della distinzione tra elenco generale ex

art. 106 TUB ed elenco speciale di cui all’art. 107 TUB, ed è stato, al contempo, rafforzato

l’assetto di regole e poteri sugli intermediari finanziari iscritti nell’albo unico attraverso una serie

di controlli particolarmente stringenti rispetto alla possibilità di accesso al mercato e all’assetto

proprietario degli intermediari. L’obiettivo è stato perseguito attraverso un’azione non solo di

ridefinizione delle attività sottoposte a riserva, ma anche attraverso un’azione innovativa sui

requisiti che devono sussistere per l’iscrizione al nuovo albo degli Intermediari Finanziari.

Il decreto ha tracciato nuovi confini alla riserva di attività, inserendo all’interno di tali confini

l’esercizio nei confronti del pubblico dell’attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi

forma, ed escludendo attualmente attività quali l’assunzione di partecipazioni e

l’intermediazione in cambi.

Obiettivo della riforma è stato, dunque, non solo l’intento di ridurre al minimo il rischio sistemico

generato dai soggetti facenti parte dell’ormai superato elenco generale ex art. 106, bensì

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L’ART.106 T.U.B. NELLA NUOVA FORMULAZIONE POST D.LGS.141/2010

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quello ancora più importante di superare in modo definitivo, attraverso l’introduzione di più

stringenti procedure di controllo, quelle stesse criticità evidenziate dall’Autorità di Vigilanza

all’atto dei suoi controlli. I soggetti iscritti originariamente nell’elenco generale del Testo Unico

Bancario, hanno, dunque, in linea con le riforme poste in essere, intrapreso un percorso di

adeguamento – da molti considerato un vero e proprio appiattimento – al fine di addivenire ad

un progressivo allineamento della propria struttura patrimoniale ed organizzativa - Corporate

Governance e Controllo Interno dei Rischi - a quella caratterizzante le società iscritte

nell’Elenco Speciale ex Art. 107. Attualmente l’iscrizione nel nuovo Albo degli Intermediari

Finanziari – nella nuova stesura dell’art. 106 TUB – prevede, dunque, un processo

autorizzativo dell’Organo di Vigilanza che si conclude, una volta verificato il rispetto del

requisito di una sana e prudente gestione da parte dell’intermediario, con l’autorizzazione

all’iscrizione nel nuovo albo. In effetti, l’Organo Autorizzativo – che è al contempo anche

organo di vigilanza – ha il compito di dover assicurare che il nuovo intermediario finanziario

operi in un assetto di sana e prudente gestione ed attento alle conseguenze di un rischio

sistemico: in definitiva deve rappresentare un’alternativa finanziaria sia per gli operatori

economici che per i potenziali clienti. Non a caso requisiti quali affidabilità, correttezza,

trasparenza nei confronti dell’Autorità di Vigilanza e della clientela, sistema accurato di

controllo e attenta valutazione interna dei rischi, sono i concetti che hanno ispirato il legislatore

nella elaborazione delle nuove norme per gli Intermediari che esercitano l’attività di

concessione di finanziamenti al pubblico. In quest’ottica, le novità introdotte nel corso di questi

anni hanno interessato sia gli aspetti inerenti la modifica dei requisiti richiesti per l’iscrizione,

l’introduzione di nuove segnalazioni statistiche per i soggetti iscritti all’Elenco Generale,

nonché la tenuta dell’Archivio Unico Informatico e l’organizzazione del “presidio antiriciclaggio”,

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L’ART.106 T.U.B. NELLA NUOVA FORMULAZIONE POST D.LGS.141/2010

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quest’ultimo necessario al fine di una adeguata tutela dell’intermediario dalla possibilità che

nello svolgimento della propria attività possa ritrovarsi coinvolto in operazioni di riciclaggio e

finanziamento del terrorismo. Il nuovo modello di intermediazione creato e voluto dal

legislatore, pur connotandosi di alcune caratteristiche peculiari proprie degli intermediari iscritti

all’Elenco Speciale, si proietta verso un modello di impronta ed ispirazione bancaria,

soprattutto per il rigore delle modifiche apportate al TUB in materia di vigilanza.

Ed è proprio la terminologia adottata dal legislatore a delineare in modo chiaro lo spirito della

riforma: se, infatti, il TUB nella sua previgente formulazione faceva riferimento all’iscrizione

degli Intermediari nei due elenchi, le nuove disposizioni si caratterizzano per l’uso del termine

autorizzazione. L’autorizzazione, secondo il dato normativo, diviene, allo stesso tempo,

momento e strumento di controllo dei requisiti necessari all’esercizio dell’attività di

intermediazione: in sostanza, ci si viene a trovare di fronte ad un vero e proprio procedimento

autorizzativo, che ha, come presupposti per la sua riuscita, un insieme di elementi oggettivi –

cd. requisiti necessari - e di valutazioni rimesse alla Banca d’Italia. Sarà proprio la Banca

d’Italia l’organismo chiamato a svolgere il procedimento autorizzativo, ed a negare

l’autorizzazione in tutte quelle circostanza nelle quali non risulti garantita una sana e prudente

gestione. La stessa Banca d’Italia, inoltre, alla luce di quanto previsto dall’ultimo comma

dell’art. 107, è tenuta a disciplinare la procedura di autorizzazione, oltre i casi di revoca e

decadenza: si ha, dunque, una situazione che vede la stessa Banca d’Italia, coerentemente

con la propria attività istituzionale, impegnata ad esercitare la propria attività di vigilanza su tutti

gli intermediari finanziari in ordine al rispetto delle disposizioni in materia di trasparenza e

correttezza dei rapporti con la clientela, e, al contempo, il soggetto deputato al controllo sulle

società dell’Albo unico.

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LE ATTRIBUZIONI E LE COMPETENZE DELLA BANCA D’ITALIA SUGLI INTERMEDIARI

.

Ciascun Intermediario, dunque, che intende proseguire la propria attività nel settore della

concessione di finanziamenti, deve strutturarsi non solo secondo i dettami del disposto di cui al

D.Lgs. 141/2010, bensì anche il linea con le disposizioni attuative che la Banca d’Italia è tenuta

ad emanare e che concernono “il governo societario, l'adeguatezza patrimoniale, il

contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni, l'organizzazione amministrativa e

contabile, i controlli interni ed i sistemi di remunerazione e incentivazione nonché l'informativa

da rendere al pubblico sulle predette materie”. (Art. 108, 1° co.). La stessa Banca d’Italia,

oltre che disporre in ordine a quanto contenuto nel primo comma citato si riserva la facoltà,

“ove la situazione lo richieda”, di procedere all’adozione di “provvedimenti specifici nei confronti

dei singoli intermediari finanziari”: in questo modo ci si muove nel senso di circoscrivere il

campo di azione territoriale della struttura nonché le attività esercitate, escludendo che possa

delinearsi un qualche spazio per strutture non organizzate, ovvero non correttamente e

professionalmente gestite, tra quelle che vorranno operare nella concessione di finanziamenti.

7. Le attribuzioni e le competenze della Banca d’Italia sugli intermediari ex art. 106.

È ben nota la circostanza dell’intervenuta soppressione nel gennaio 2008 dell’UIC, con

attribuzione delle medesime funzioni alla Banca d’Italia, che succede in tutti i diritti e rapporti

giuridici di cui l’Uic è titolare (d.lgs. 231/2007).

L’attività di prevenzione e contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo

internazionale viene svolta, in piena autonomia e indipendenza, dall’Unità di Informazione

Finanziaria (UIF) istituita presso la Banca d'Italia. Le altre funzioni istituzionali dell’Ufficio sono

invece svolte dalle corrispondenti strutture della Banca d’Italia.

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LE ATTRIBUZIONI E LE COMPETENZE DELLA BANCA D’ITALIA SUGLI INTERMEDIARI

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Già a seguito della modifica dell’art. 106, co. 5, TUB, ad opera dell’art. 22 del d.lgs. 4.8.1999 n.

342, spettava all’UIC e non più al Ministro del tesoro “indicare le modalità di iscrizione

nell’elenco generale” degli intermediari. Avvenuta l’iscrizione, l’Ufficio ne dava comunicazione

alla Banca d’Italia e alla Consob. Per procedere all’iscrizione, l’UIC doveva accertare la

ricorrenza dei requisiti, legislativi e regolamentari, all’uopo previsti.

Dal momento che si parla di iscrizione e non di autorizzazione, si può considerare precluso alle

autorità di vigilanza ogni potere discrezionale. Dal confronto tra i requisiti previsti per

l’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria o di intermediazione mobiliare e quelli richiesti

per l’iscrizione, legittimante l’intermediario ex Titolo V TUB all’esercizio dell’attività, si evince

che soltanto per l’esercizio delle prime è necessaria la presentazione alle autorità (Banca

d’Italia e Consob) di un programma concernente l’attività iniziale. Il momento in cui la

discrezionalità delle suddette autorità ha modo di esplicarsi in misura maggiore, se non

addirittura in maniera esclusiva, rispetto alla disamina degli altri presupposti necessari per il

rilascio dell’autorizzazione, è quello in cui valutano l’accertamento della ricorrenza di una sana

e prudente gestione. Probabilmente, proprio la mancanza di tale presupposto ha indotto il

legislatore a usare il termine “iscrizione” in luogo di “autorizzazione”.

Alla stessa considerazione si può giungere nel fare riferimento alla norma contenuta nell’art.

107, co. 6, dove il riferimento all’autorizzazione, pur trovando la sua giustificazione nella

circostanza che alcuni degli intermediari ivi indicati svolgono delle attività, quali le prestazioni di

servizi di investimento, identica a quella che possono svolgere altre categorie di soggetti, per i

quali è necessaria l’autorizzazione, è pur sempre successivo all’iscrizione degli intermediari

nell’elenco speciale. Per queste ragioni, l’autorizzazione è un provvedimento necessario in

relazione all’attività che si intende svolgere.

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LE AUTORITÀ DI VIGILANZA NEL SISTEMA FINANZIARIO ITALIANO

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L’applicazione della normativa, contenuta nell’art. 20 TUB per le banche, anche all’art. 110 per

gli intermediari finanziari è avvenuta prima dell’emanazione del testo unico, dal momento che

analoga risultava la funzione di intermediazione finanziaria svolta dagli istituti di credito e dagli

intermediari, e ciò ha permesso di colmare una lacuna rispetto alla normativa bancaria.

La genericità della espressione “chiunque” utilizzata per designare i destinatari dell’obbligo,

consente alla Banca d’Italia ex art. 20 TUB, di chiedere anche ai soggetti, non sottoposti alla

vigilanza, ma che risultano comunque interessati, le informazioni necessarie per verificare

l’osservanza del disposto dell’art. 110 TUB. Così come per le banche è previsto l’obbligo per gli

intermediari 106 e 107 di fornire le informazioni di cui all’art. 21 TUB, relative all’indicazione

nominativa dei soci, nonché quelle riguardanti l’esistenza di sindacati di voto.

In realtà, occorre evidenziare che sono gli intermediari, o meglio, coloro che ne hanno il

controllo, ad avere interesse ad eseguire siffatte comunicazioni, quando alla partecipazione si

accompagna l’operatività dell’intermediario verso il soggetto partecipante, se la misura della

partecipazione è tale da ritenere l’attività finanziaria svolta all’interno di un gruppo e non nei

confronti del pubblico. In tal modo, l’intermediario potrà essere iscritto nella sezione prevista

dall’art. 113 TUB, ed essere assoggettato a minori obblighi rispetto a quelli degli iscritti

nell’elenco generale.

8. Le Autorità di vigilanza nel sistema finanziario italiano.

Come è dato evincere dalle osservazioni sin qui svolte, l’apparato dei controlli nel sistema

finanziario italiano è oggi disciplinato da un articolato sistema normativo e regolamentare,

costituito essenzialmente dal Testo unico bancario (TUB), dal Testo unico della finanza (TUF) e

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LE AUTORITÀ DI VIGILANZA NEL SISTEMA FINANZIARIO ITALIANO

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dalla legge sulla tutela del risparmio (n. 262/2005), che ha inciso in modo rilevante sull’intero

assetto di poteri delle autorità di vigilanza. La regolamentazione del mercato finanziario italiano

si caratterizza per l’esistenza di un modello cd. “ibrido”, ossia di un modello che riunisce in sè -

volendo usare una terminologia propria della dottrina - autorità operanti per finalità e autorità

operanti per soggetti. L’attività di vigilanza è ripartita tra diverse autorità amministrative

indipendenti: l’IVASS (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni), la Covip (Commissione di

vigilanza sui fondi pensione), l’Antitust (Autorità garante della concorrenza e del mercato), la

Consob (Commissione Nazionale per le società e le borse) e la Banca d’Italia. Gli organi di

vigilanza realizzano un controllo tecnico, dando attuazione ai principi istituiti dalla normativa

primaria, e con i loro provvedimenti riescono in un qualche modo ad influenzare e indirizzare le

scelte dei soggetti vigilati. La Banca d’Italia, quale Autorità di vigilanza, attraverso i poteri e le

responsabilità di controllo sui singoli intermediari e sul sistema finanziario, che le derivano

dall’ordinamento nazionale, svolge le funzioni dirette al mantenimento della stabilità finanziaria:

vigila sulle banche, sui gruppi bancari, sugli intermediari finanziari, sugli istituti di moneta

elettronica e di pagamento, perseguendo i fini della stabilità, efficienza e competitività del

sistema finanziario, della sana e prudente gestione degli intermediari, nonché l’osservanza

delle disposizioni in materia creditizia e finanziaria (art. 5, comma 1, del TUB). Il TUF, a sua

volta, conferisce alla Banca d’Italia poteri di vigilanza nei confronti degli intermediari che

operano nel settore dei servizi di investimento e della gestione collettiva del risparmio (banche,

società di gestione del risparmio, società di investimento a capitale variabile, società di

intermediazione mobiliare), con l’intento di salvaguardare la fiducia nel sistema finanziario, la

tutela degli investitori, la stabilità, il buon funzionamento e la competitività dell’intero sistema

finanziario, nonché l’osservanza delle disposizioni in materia creditizia e finanziaria:

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SISTEMI DI VIGILANZA A CONFRONTO

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in sostanza, la Banca d’Italia anche rispetto agli intermediari del TUF si concentra

prevalentemente sui criteri del contenimento del rischio, della stabilità patrimoniale e della

sana e prudente gestione degli intermediari. La riforma della disciplina sull’intermediazione

finanziaria realizzata con il d.lgs. 141/2010, ha razionalizzato e in parte semplificato l’assetto

dei controlli sugli intermediari finanziari di cui al Titolo V del TUB. Come già sottolineato, con la

previsione, infatti, di un unico albo, oltre ad essere superato il doppio regime di intermediari

sottoposti a vigilanza prudenziale e intermediari per i quali sono contemplati controlli meno

rigidi, si ha anche l’assoggettamento di tutti gli operatori che erogano credito a controlli di

vigilanza, e ciò si realizza sia nella fase dell’iscrizione all’albo, sia in quella successiva di

svolgimento dell’operatività e in caso di crisi. Le attività di alcuni intermediari (cambiavalute,

società di cartolarizzazione e soggetti non operanti nei confronti del pubblico) vengono

liberalizzate e i relativi elenchi abrogati; per altre tipologie di intermediari (microcredito, confidi

minori, agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi) la vigilanza è affidata a organismi

autonomi sottoposti, in ogni caso, al controllo della Banca d’Italia, tenuta a verificare

l’adeguatezza delle procedure da questi adottate per lo svolgimento della propria attività. Alla

Banca d’Italia spetta, inoltre, promuovere la trasparenza delle operazioni e dei servizi finanziari

e la correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti

9. Sistemi di vigilanza a confronto.

Le considerazioni rese nel precedente paragrafo permettono, attraverso una lettura congiunta

di alcuni articoli del TUB e del TUF, di procedere ad un confronto tra i due sistemi di vigilanza

previsti a livello normativo.

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SISTEMI DI VIGILANZA A CONFRONTO

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Se si considerano, infatti, gli articoli 14 (TUB) e 107 (TUF), da un lato, e gli articoli 51, 53, 54

(TUB) e 108 (TUF), dall’altro, è possibile evidenziare quanto già sostenuto circa le comune

radici di ispirazione bancaria sottese alla riforma del Titolo V: basti pensare all’iter autorizzativo,

al requisito patrimoniale, ai requisiti, altresì, previsti per i partecipanti al capitale, al programma

di attività, nonché ancora ai possibili legami tra i soggetti che possono risultare da ostacolo alla

funzione di vigilanza.

I due articoli a confronto relativi alle condizioni ed ai requisiti che devono sussistere per

ottenere l’autorizzazione della Banca d’Italia, oltre ad una serie di punti di contatto nelle parti

sottolineate, risultano di particolare interesse con riferimento al contenuto del comma 2 dell’art.

14 e dell’articolo 107: in virtù di quanto in essi disposto, la Banca d’Italia può negare

l’autorizzazione quando non risulti “garantita la sana e prudente gestione”.

Aver attribuito all’organismo di vigilanza la valutazione circa l’esistenza dei requisiti minimi che

ciascun intermediario deve necessariamente possedere per poter svolgere attività di

concessione di finanziamenti ai sensi del nuovo art. 106, ha come finalità la predisposizione ed

attuazione di procedure capaci di garantire a trecentosessanta gradi l’efficienza della gestione

dei soggetti interessati.

Chiaro, dunque l’intento del legislatore di garantire una assetto organizzativo degli intermediari

finanziari maggiormente strutturati e organizzati, oltre che responsabilizzati, ulteriormente

comprovato dalle previsioni di cui all’art. 108, che attribuiscono alla Banca d’Italia anche la

possibilità di emanare disposizioni volte ad assicurare “il regolare esercizio” di particolari tipi di

attività. Il rigore delle previsioni normative trova il loro punto di partenza certamente nelle

modifiche che ha subito l’intero sistema di risorse, umane e non, attraverso le quali

l’intermediario svolge la propria attività: si tratta di un target decisamente molto più elevato

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SISTEMI DI VIGILANZA A CONFRONTO

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rispetto al passato, in linea non solo con la sempre crescente complessità delle attività che gli

intermediari hanno svolto negli ultimi anni ma anche con il fine principale del legislatore, ossia

rendere più stabile questo settore attraverso un’attenta opera di monitoraggio ed un’accurata

gestione preventiva del rischio sistemico. Inoltre, dalla lettura degli artt. 107 e 108, è dato

comprendere l’incisività dei poteri dell’Autorità di Vigilanza anche in una fase successiva

all’autorizzazione, potendo la stessa non solo ordinare la convocazione degli organi collegiali

degli intermediari finanziari, per l’assunzione di determinate decisioni, ma anche procedere

direttamente alla convocazione degli organi collegiali nel caso in cui gli organi collegiali non

abbiano ottemperato all’ordine di convocazione. L’incisività dei poteri dell’organo di vigilanza

trova, tuttavia, un contemperamento nel criterio di proporzionalità con cui la vigilanza deve

essere esercitata. Un criterio, quello della proporzionalità, legato alla dimensione, alla struttura

organizzativa, all’operatività ed alla tipologia di attività di ciascun intermediario.

Ad una vigilanza di carattere informativo di cui all’art. 108 co. 4, che si concretizza attraverso

l’obbligo di invio di segnalazioni periodiche, dati e documenti, se ne affianca una di tipo ispettivo

(art. 108 co. 5), consistente nell’accesso presso gli intermediari finanziari di atti e documenti. A

queste tipologie di vigilanza se ne affianca una ulteriore di spiccata caratterizzazione bancaria,

ossia una vigilanza di tipo regolamentare. Il dato normativo dei due testi di legge messi a

confronto permette di cogliere la portata innovativa del nuovo modello di intermediario

finanziario, e la tendenza ad equiparare le due discipline attorno ad una matrice comune,

ferma, poi, la creazione di nuove regole, volte ad aumentare il grado di sicurezza e

professionalità di tutti i soggetti operanti nel settore. La riforma ha interessato, infatti, non solo

gli Intermediari Finanziari ma anche soggetti quali Confidi, Agenti in Attività Finanziaria, Società

di Mediazione Creditizia; la loro regolamentazione ha inciso di riflesso anche su altre figure

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INTERMEDIARI FINANZIARI E OBBLIGO DI PARTECIPAZIONE ALLA CENTRALE RISCHI

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quali gli Agenti Assicurativi, le Società di Brokeraggio Assicurativo, i Promotori Finanziari ed i

Consulenti Immobiliari. Occorre, ad ogni modo, precisare come nel corso degli anni sia andato

crescendo un maggior grado di incisività delle norme rispetto all’operatività ed alla struttura

degli intermediari finanziari, e ciò sia alla luce dell’insieme di modifiche che sono state

apportate al TUB a partire dal D.Lgs. 141/2010, sia delle modifiche introdotte in una fase

successiva alla emanazione di quest’ultimo dai decreti legislativi n.° 218 del 2010 e n.° 169

del 2012.

10. Intermediari Finanziari ed obbligo di partecipazione alla Centrale rischi.

Il Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze n. 663/2012 - assunto a seguito del

riordino della disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario da parte del d.lgs. n.

141/2010, stabilisce all’art. 2 che partecipano alla Centrale dei rischi le banche e le società

cessionarie di crediti, nonché quelle categorie di soggetti che la Banca d'Italia può individuare

proprio in virtù dei poteri ad essa attribuiti ed in relazione ai quali può emanare disposizioni per

il contenimento del rischio di credito.

In applicazione del suddetto art. 2, lettera b) del decreto ministeriale la Banca d’Italia, con

apposito provvedimento ha individuato gli intermediari finanziari iscritti all’albo di cui all’articolo

106 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (TUB) quale categoria di soggetti tenuta a partecipare

alla Centrale dei rischi.

Occorre, innanzitutto, precisare che la Centrale dei rischi, quale sistema informativo

sull’indebitamento della clientela delle banche e degli intermediari finanziari e sull’andamento

delle relazioni creditizie, ha un ruolo essenziale in un mercato in cui le informazioni sul rischio

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INTERMEDIARI FINANZIARI E OBBLIGO DI PARTECIPAZIONE ALLA CENTRALE RISCHI

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del credito assumono un rilievo crescente e l’obiettivo di rafforzare la vigilanza e assicurare

affidabilità e correttezza degli operatori, viene perseguito anche attraverso la possibilità

riconosciuta agli intermediari di consultare le informazioni di cui dispone la Centrale rischi.

Il sistema è gestito dalla stessa Autorità di Vigilanza per fornire agli intermediari partecipanti

un’informativa che sia il più possibile di aiuto nella valutazione del credito della clientela e

nell’analisi e gestione del rischio legato al credito stesso. Una migliore capacità di analisi e

gestione del rischio di credito a livello del singolo intermediario, contribuisce indirettamente a

migliorare la qualità degli impieghi degli intermediari partecipanti e, non da ultimo, ad

accrescere la stabilità del sistema bancario.

In quest’ottica, il ruolo di questo sistema centralizzato del rischio non può e non deve essere

inteso quale semplice strumento di raccolta e di smistamento delle informazioni, ma soprattutto,

quale fondamentale strumento per la gestione di un rischio chiave cui sono esposti gli operatori

attivi nell’esercizio del credito.

Le banche e gli intermediari finanziari onerati sono, dunque, tenuti a fornire alla Banca d’Italia

aggiornamenti periodici delle informazioni comunicate per obbligo di legge, e possono, altresì,

utilizzare le informazioni acquisite dalla Centrale dei Rischi per finalità di ordine processuale, e

sempre che il giudizio riguardi il rapporto di credito intrattenuto con la clientela.

In sostanza, la Centrale dei Rischi si caratterizza per un ampia banca dati gestita dalla Banca

d’Italia nell’esercizio delle funzioni di vigilanza, nella quale sono conservate informazioni sulla

solvibilità dei clienti, siano essi soggetti privati, pubblici ovvero anche altre banche o

intermediari finanziari. Tra i soggetti partecipanti alla Centrale dei rischi vi sono tutti gli

intermediari finanziari di cui all’art. 106 del TUB; è venuto meno, infatti, sia il principio, ancora

vigente, dell’esclusività nell’attività di “concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma”, sia

l’esonero degli intermediari per i quali l’attività di credito al consumo rappresenti più del 50 per

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INTERMEDIARI FINANZIARI E OBBLIGO DI PARTECIPAZIONE ALLA CENTRALE RISCHI

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cento dell’attività di finanziamento. Uno sguardo attento merita il profilo dei benefici e dei costi

connessi con la partecipazione degli intermediari ex art. 106 TUB al sistema centralizzato dei

rischi. Con riferimento al profilo dei benefici, non vi è dubbio che una corretta gestione del

rischio di credito attraverso efficienti procedure di selezione e un costante monitoraggio degli

affidati, rappresentano certamente gli elementi cruciali per la stabilità degli intermediari: i servizi

informativi della Centrale dei rischi sono, infatti, orientati proprio nel senso di soddisfare queste

esigenze informative e gli stessi dati in possesso della Centrale dei rischi si rivelano importanti

per la loro completezza e l’articolazione piuttosto ampia delle informazioni messe a

disposizione. In sostanza, per gli intermediari finanziari il servizio rappresenta un’importante

strumento per la valutazione del merito creditizio dei potenziali clienti e per il monitoraggio degli

affidati. I soggetti partecipanti, nello svolgimento della loro attività, altro non potranno che trarre

beneficio dall’ampio patrimonio informativo contenuto negli archivi della Centrale dei rischi.

Per quanto concerne, invece, i costi, occorre tenere presenti sia i costi d’impianto, rappresentati

prevalentemente dalla predisposizione delle procedure di estrazione e di elaborazione dei dati,

sia quelli di natura ricorrente. Quest’ultimi sono connessi con le attività di gestione (costi di

personale e di carattere amministrativo) nonché con i costi relativi alla manutenzione delle

procedure. Trattasi di interventi che per loro natura, soprattutto per le realtà aziendali di minore

dimensione, presentano una forte incidenza, un onere non trascurabile e di grande rilievo. È

comunque, prevista per gli Intermediari la possibilità di limitare i costi facendo ricorso a centri

esterni di elaborazione dati. Nell’individuazioni delle possibili alternative regolamentari, si

potrebbe anche ipotizzare l’assoggettamento di tutti gli intermediari finanziari al sistema

centralizzato dei rischi, escludendo, dunque, la possibilità di chiedere esoneri rispetto alla

previsione normativa di assoggettamento. Si tratta, tuttavia, di una alternativa che nella realtà

dei mercati andrebbe certamente a penalizzare, risultando eccessivamente onerosa, tutte

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CENTRALE RISCHI E QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO

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quelle tipologie di intermediari la cui attività non è oggetto di rilevazione, e questo nonostante i

benefici che si andrebbero a generare in termini di efficacia per il servizio di centralizzazione dei

rischi. Rispetto alle tematiche affrontate occorre in ogni caso precisare che la stessa Banca

d’Italia ha posto in pubblica consultazione la bozza del Provvedimento relativo all’ “obbligo di

partecipazione degli intermediari finanziari al servizio di centralizzazione dei rischi gestito dalla

Banca d’Italia” di attuazione delle disposizioni contenute nel Decreto del Ministero

dell’Economia e delle Finanze dell’11 luglio 2012, n. 663; al contempo si è proceduto anche ad

una valutazione dell’analisi d’impatto.

11. Centrale rischi e quadro normativo di riferimento.

Sotto la vigenza della c.d. ‘legge bancaria’ del 1936 il fondamento normativo della Centrale

Rischi lo si ritrovava nell'art. 32, comma I, lett. h), della stessa legge: l’articolo attribuiva

all’Autorità di Vigilanza il potere di adottare i provvedimenti necessari per evitare gli

aggravamenti di rischi derivanti dal cumulo dei fidi. Una volta che si è proceduto all’abrogazione

della legge bancaria, è possibile ricondurre la disciplina della Centrale Rischi agli artt. 51, 53,

67 e 107 del TUB. L’art. 53, comma I, lett. b) del TUB, attribuisce, innanzitutto, alla Banca

d’Italia il potere di emanare le disposizioni generali aventi ad oggetto il contenimento del rischio

nelle sue diverse configurazioni. Naturalmente per gli intermediari bancari e finanziari, il rischio

di credito, da intendersi come rischio di variazione della solvibilità di un debitore, è sicuramente

quello di maggiore incidenza rispetto ad eventuali ulteriori rischi cui gli stessi possono essere

esposti. Inoltre, in virtù dell’articolo n. 51 del TUB, viene posto a carico delle banche l’obbligo di

trasmettere alla Vigilanza tutte le informazioni da questa richieste, nonché ogni altro atto o

documento eventualmente richiesto.

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LA FUNZIONE DELLA CENTRALE RISCHI

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Il CICR ha adottato, poi, diverse delibere strumentali all’istituzione ed alla disciplina del servizio

reso dalla Centrale, dettando i principi applicabili in materia.

Successivamente, la Banca d’Italia ha esteso con il provvedimento del 10 agosto 1995 alle

società finanziarie l’obbligo di partecipare al servizio di centralizzazione dei rischi. Ed infine,

completano il quadro normativo disciplinante il funzionamento della Centrale dei Rischi le

Istruzioni per gli intermediari creditizi adottate dalla Banca d’Italia, e precisamente la Circolare n.

139 dell’11 febbraio 1991, ormai arrivata al 14° aggiornamento in vigore dal 29 aprile 2011.

12. La funzione della Centrale rischi.

La Centrale dei Rischi si presenta, pertanto, come un sistema informativo di fondamentale

importanza nella gestione del rischio di credito degli intermediari bancari e finanziari.

È entrata in funzione nel 1964 e rappresenta certamente in Italia il primo esempio di sistema

informativo del rischio di credito. A voler dare uno sguardo più approfondito a quelle che sono le

funzionalità proprie di questo sistema, occorre innanzitutto precisare che il sistema raccoglie

mensilmente dai soggetti partecipanti una certa quantità di dati aggiornati sui finanziamenti erogati

a ciascun cliente o gruppo e sullo status degli stessi. Ad un flusso informativo verso la Centrale,

corrisponde in egual misura un flusso - cd. flusso di ritorno personalizzato - verso gli intermediari,

contenente il dato aggregato degli affidamenti concessi a tutti i clienti segnalati dall’intermediario.

Ed è proprio dalla valutazione complessiva degli affidamenti segnalati e, dunque, dai flussi di

informazione in entrata ed in uscita, che è possibile per una banca od un intermediario valutare

la posizione di rischio di un cliente.

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LA FUNZIONE DELLA CENTRALE RISCHI

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La Centrale produce, inoltre, un c.d. flusso di ritorno statistico - ossia un flusso di dati statistici

complessivi sul mercato del credito - di rilevante utilità, che sono rappresentativi della rischiosità,

concentrazione e dimensione degli affidamenti. Nel corso degli ultimi anni, poi, questo flusso di

ritorno statistico è stato ulteriormente potenziato, sino a contenere oggi importanti dati sui tassi

di decadimento, di mortalità e di rimborso dei finanziamenti. E sempre la Centrale fornisce

anche un servizio c.d. di prima informazione, ossia un report contenente tutte le informazioni di

dettaglio sugli affidamenti erogati a potenziali nuovi clienti, ossia a soggetti che non siano stati

già oggetto di segnalazione da parte dell’intermediario: tutte queste informazioni potranno

essere utilizzate nell’ambito delle istruttorie creditizie. La possibilità di accedere a informazioni

dettagliate sul rischio di credito complessivo rispetto a un dato cliente, determina certamente

delle scelte di finanziamento più consapevoli da parte delle banche e degli intermediari finanziari

che riescono ad avere, in tal modo, un quadro più chiaro ed esaustivo degli affidamenti

concessi ad un singolo cliente o gruppo da parte del sistema bancario italiano. E naturalmente,

la possibilità di avere una visione d’insieme completa, consente ai singoli intermediari un

impiego ancor più efficiente delle loro risorse e una migliore qualità del portafoglio crediti dei

propri clienti. La Centrale rischi, nelle funzioni ad essa assegnate, risponde inoltre ad una

fondamentale esigenza di semplificazione documentale, nel senso di facilitare la raccolta di

informazioni con riferimento a tutti gli affidamenti eventualmente rilasciati a favore di un dato

soggetto economico: ed infatti, le informazioni inviate alla Centrale, ovvero quelle acquisite da

attività di interrogazione delle stessa Centrale nell’ambito di un’istruttoria relativa alla

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LA FUNZIONE DELLA CENTRALE RISCHI

.

concessione di un credito, vengono convogliate in un'unica fonte; circostanza quest’ultima che

facilita il lavoro di ricerca e verifica delle informazioni soprattutto con riferimento ai clienti meno

problematici e la cui situazione non determina la necessità di ulteriori specifici approfondimenti.

Ci si è posti, tuttavia, il problema di come garantire agli intermediari di avere accesso ad

informazioni dettagliate sull’indebitamento complessivo di un soggetto o gruppo, tenuto conto

che nessun singolo intermediario ha incentivi sufficienti a comunicare agli altri l’esatta

consistenza del debito altrui. Va da se che la mancanza d’informazioni sulla situazione

complessiva di esposizione debitoria di un dato soggetto verso il sistema bancario incide, finisce

per incidere negativamente sulla capacità degli operatori di accedere al credito, rendendo la

misurazione del rischio di credito difficile se non addirittura impossibile. Per la risoluzione degli

indicati problemi, si è provveduto alla creazione di un modello di database centralizzato a cui gli

intermediari partecipano e al contempo contribuiscono in virtù di obbligo legale. Se, dunque, gli

intermediari si trovano nella situazione di poter accedere ad informazioni chiare e complete, e

ciò in virtù della loro partecipazione al database creato, per i soggetti che chiedono di accedere

al credito, i dati contenuti nella Centrale rappresentano – soprattutto in presenza dei clienti più

meritevoli - un vero e proprio biglietto da visita, una documentazione decisiva per le imprese, in

grado di consentire loro di ottenere un agevole ed immediato accesso al credito, possibilmente

anche a condizioni economiche più vantaggiose. Affinché le informazioni contenute presso la

banca dati possano assurgere a “biglietto da visita”, è necessario che ciascuna impresa svolga

costantemente un attento monitoraggio circa le risultanze della banca dati, verificando con

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ESPOSIZIONI CREDITIZIE E SISTEMA DI MONITORAGGIO

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cadenza periodica che i fatti in essa registrati siano sempre corretti, e l’assenza di eventuali

inesattezze. Allargando, poi, il discorso verso una dimensione meno soggettiva, abbiamo che

la condivisione delle informazioni sugli affidamenti e sul rischio di credito tra le banche e gli

intermediari finanziari consente al sistema creditizio di migliorare i livelli di concorrenza,

efficienza e stabilità, determinando, altresì, l’impiego di una maggiore razionalità nelle scelte di

finanziamento, così da limitare il più possibile il ricorso all’indebitamento da parte dei privati ed,

in ogni caso, garantire la completezza delle informazioni rispetto alle esposizioni di determinati

soggetti dinanzi al sistema bancario e finanziario. Occorre, infine, precisare come il sistema di

raccolta e condivisione delle informazioni inerenti il rischio di credito, svolga una funzione

decisiva dal punto di vista della vigilanza: ed infatti, l’organo di Vigilanza si trova nella

disponibilità di dati sempre aggiornati sull’indebitamento e su tutti gli affidamenti concessi dagli

intermediari italiani rispetto ai soggetti economici. In definitiva, la Centrale rappresenta sotto il

profilo della vigilanza, una preziosissima fonte di informazioni dettagliata sull’andamento del

credito nel paese, e, dunque, un fondamentale strumento di vigilanza oltre che di monitoraggio

dell’andamento dell’economia nazionale.

13. Esposizioni creditizie e sistema di monitoraggio.

Come si è detto dinanzi, al fine di garantire l’efficienza e la solidità del sistema creditizio,

quando si parla di erogazione del credito, è di fondamentale importanza che quest’ultimo

venga erogato in modo razionale, evitando una sproporzionata agevolazione di operatori sul

mercato che non sono nella reale condizione di restituire il credito.

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ESPOSIZIONI CREDITIZIE E SISTEMA DI MONITORAGGIO

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Diventa, dunque, necessario impedire a determinati soggetti di incrementare eccessivamente

la propria esposizione creditoria - magari attraverso l’utilizzo di diversi veicoli societari – e al

contempo rendere trasparente l’esposizione dei singoli debitori (e dei gruppi) nei confronti del

sistema bancario. È proprio rispetto a tali problematiche che è stato creata una banca dati

centralizzata chiamata a misurare le esplosioni dei soggetti affidati rispetto al sistema

creditizio. La Centrale risulta essere, pertanto, uno strumento di fondamentale importanza, sia

per l’efficace gestione del credito a livello del singolo intermediario, sia a tutela di esigenze di

stabilità dell’intero sistema finanziario (cd. esigenze sistemiche): la concessione, infatti, di

credito con eccessiva facilità a debitori che si dovessero rivelare incapaci di ripagare i prestiti

ottenuti, potrebbe indirettamente determinare un accumulo di rischio con conseguenti

implicazioni sistemiche sull’intero sistema finanziario. Orbene, il legislatore italiano - a

differenza di quanto accaduto negli Stati Uniti – si è mostrato, sin dall’inizio, consapevole del

possibile ruolo da assegnare alla Centrale, sia quale strumento di gestione di rischi, sia in

funzione di aiuto prezioso per le attività di vigilanza; non a caso il servizio è stato istituito

proprio per dare alle banche ma anche alla vigilanza, uno strumento che risultasse il più

possibile coerente con l’obiettivo – ex art. 53 TUB, di contenimento del rischio. La Centrale

Rischi, ad ogni modo, pur rappresentando nel nostro Paese lo strumento informativo più

completo a disposizione degli intermediari bancari e finanziari, non costituisce certamente

l’unico database per la raccolta dei dati relativi alle esposizioni creditizie: ed infatti, possono

svilupparsi servizi specifici di natura privata che, in competizione con lo strumento pubblico,

mirano ad offrire un servizio migliore rispetto a ciò che si ottiene dal servizio pubblico. In Italia

sono sorti diversi database privati (detti anche “S.I.C.” o centrali rischi private), che si trovano a

convivere con la Centrale e offrono servizi informativi diversificati e non coincidenti con quelli

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ESPOSIZIONI CREDITIZIE E SISTEMA DI MONITORAGGIO

.

forniti dalla Centrale stessa.

Essi sono disciplinati solo ed esclusivamente dal Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196

(Codice in materia di protezione dei dati personali), oltre che dal Codice di deontologia e di

buona condotta per i sistemi informativi gestiti da soggetti privati in tema di crediti al consumo,

affidabilità e puntualità nei pagamenti: naturalmente, stante la delicatezza della materia, legata

anche agli effetti che le risultanze di questi database possono produrre rispetto all’accesso al

credito da parte dei soggetti privati, il legislatore, nell’ambito della citata normativa sulla

Privacy, ha obbligato tali database privati a dotarsi di un codice deontologico di autodisciplina

cui debbono attenersi nello svolgimento delle loro funzioni.

L’impiego dei codici di deontologia e autodisciplina, rappresenta certamente un primo tentativo

del legislatore di incentivare l’uso di forme di autodisciplina degli operatori di settore, con un

suo diretto intervento in tutti quei casi in cui un sistema mostra di essere incapace di darsi

regole certe e precise. Nel caso della Centrale, vi è, poi, una prevalenza dell’elemento

pubblicistico, necessario per la gestione del rischio nel sistema creditizio. Questa prevalenza

dell’elemento pubblicistico deriva anche dal fatto che la Centrale è lo strumento che consente

all’Autorità di Vigilanza l’acquisizione diretta di tutti i dati relativi all’esercizio del credito, al

monitoraggio degli affidamenti: di conseguenza, i soggetti vigilati sono obbligati a contribuire

alle informazioni sui fidi e sulla clientela, senza alcuna discrezionalità al riguardo.

Se è vero quanto detto circa l’elemento pubblicistico della Centrale, è altrettanto vero che

queste funzioni pubblicistiche convivono con funzioni anche privatistiche. Le informazioni

raccolte, infatti, possono avere un diverso grado di dettaglio, così come le richieste di

informazione possono riguardare anche soggetti non attualmente segnalati.

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ESPOSIZIONI CREDITIZIE E SISTEMA DI MONITORAGGIO

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E se da un lato gli intermediari devono contribuire con i loro dati alla formazione del database

della Centrale, non hanno tuttavia l’obbligo di interrogare il database prima dell’erogazione del

credito: questo dipende anche dalla circostanza che le informazioni presenti nel database sono

soggette a continui e periodici aggiornamenti, e, dunque, i dati della Centrale non sono

esaustivi e non possono da soli essere sufficienti nella gestione di un’istruttoria creditizia.

Di qui la necessità per gli intermediari di fare ricorso ai dati maggiormente dettagliati presenti

nei database dei S.I.C., da leggere in aggiunta ai dati forniti dalla Centrale ovvero richiedere

che sia il cliente stesso a fornire i dati che la Centrale può rilasciare, contenenti non solo le

esposizioni aggregate, bensì anche le singole esposizioni segnalate verso i vari intermediari.

Come precisato dinanzi, l’aspetto pubblicistico che caratterizza il servizio offerto dalla Centrale,

pur non potendo prescindere dall’ulteriore esigenza di tutela della privacy dei soggetti privati i

cui dati vengono raccolti nell’archivio della Centrale, tuttavia necessita di un contemperamento

con l’ulteriore esigenza volta a garantire la stabilità e il corretto funzionamento del sistema

bancario e finanziario, che rappresentano un bene collettivo di rango superiore rispetto alla

tutela della privacy del singolo soggetto. Queste le ragioni, dunque, che determinano

l’applicazione dell’art. 8, co. 2, lettera d) del Codice della Privacy al database gestito dalla

Centrale: l’articolo in questione dichiara inapplicabili ai database gestiti da un soggetto

pubblico i diritti sanciti dal Codice stesso in materia di database privatistici. È la Banca d’Italia,

poi, che ha predisposto una serie di fogli informativi in cui vengono indicate nel dettaglio

tipologia, modalità e finalità del trattamento sui dati personali e sono, inoltre, disciplinati

specificamente i casi in cui è consentito agli intermediari interrogare la Centrale e come

debbano essere trattate le informazioni che la Centrale trasmette.

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RIFORMA DELLE CENTRALI DEI RISCHI E PARTECIPAZIONE AL SISTEMA

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I dati della Centrale sono, comunque, consultabili dagli intermediari, solo relativamente a

periodi temporali precisi - ultimi 24 o 36 mesi – e diversi a seconda della tipologia di

informazioni richieste.

14. Riforma delle Centrali dei Rischi e partecipazione al sistema.

Nel corso di questi anni sono stati apportati numerosi aggiornamenti alla banca dati della

Centrale, che di fatto hanno semplificato le informazioni raccolte, i formati software supportati,

e così via. Il tutto al fine di migliorare l’accessibilità e l’attendibilità delle informazioni raccolte

dalla Centrale. Nel 2010, accanto alle modifiche relative alla parte software, sono state

apportate anche molteplici modifiche alla disciplina della Centrale mediante, ad esempio

l’introduzione dell’obbligo di informare il cliente segnalato a sofferenza, nonché l’obbligo per gli

intermediari di informare sempre il cliente delle risultanze della Centrale Rischi; nel 2011 si è

proceduto poi ad estendere l’obbligo d’informativa anche ai debitori coobbligati, e sono stati

introdotti come dati negativi sulle varie posizioni debitorie, anche le informazioni sulle

ristrutturazioni di debiti e sugli inadempimenti preesistenti (ad es. crediti scaduti,

sconfinamenti). Come detto in più occasioni, la partecipazione al sistema di rilevazione e

segnalazione dei rischi è obbligatoria per le banche e per gli intermediari finanziari di cui all’art.

106 e ss. TUB, i quali esercitino in via esclusiva o prevalente – per attività prevalente va intesa

l’attività che rappresenta oltre il 50% degli elementi dell’attivo - l’attività di finanziamento sotto

qualsiasi forma, comprensiva dei beni concessi in locazione finanziaria.

Nell’ambito del sistema, la segnalazione pertanto è un atto obbligatorio per l’intermediario, che

è tenuto a fornire con cadenza mensile tutte le informazioni inerenti i rapporti di credito e di

garanzia che il sistema creditizio intrattiene con la propria clientela.

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SISTEMA DI RACCOLTA DELLE INFORMAZIONI E TUTELA DELLA PRIVACY

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I soggetti iscritti nel sistema centralizzato hanno naturalmente il diritto di visionare tutte le

informazioni in esso contenute, facendone espressamente richiesta all’Autorità di Vigilanza.

Gli intermediari sono, inoltre, tenuti a fornire all’interessato, qualora ne faccia richiesta, le

informazioni relative alla sua posizione di rischio; l’obbligo di fornire tale informativa scatta,

inoltre, ex articolo 125 TUB, in quelle ipotesi in cui il cliente sia un consumatore la cui domanda

di credito sia stata eventualmente rifiutata a causa delle risultanze della Centrale Rischi: in tali

casi, dunque, la banca non è tenuta – o quanto meno dovrebbe essere tenuta - a dover

informare automaticamente il cliente, mediante consegna di copia delle risultanza della

Centrale, senza aspettare una espressa richiesta dell’interessato.

15. Sistema di raccolta delle informazioni e tutela della privacy.

Orbene, alla luce delle considerazioni sin qui svolte, si comprende come la disciplina delle

informazioni contenute e raccolte nella Centrale Rischi, non può prescindere dalla tutela dei

soggetti a cui le informazioni raccolte fanno riferimento, e dalla normativa collegata in materia

di protezione dei dati personali. Stesso discorso vale anche per i sistemi di informativi, il cui

evolversi in virtù di molteplici interventi normativi, non può non essere contemperato con

l’esigenza di protezione dei soggetti i cui dati personali sono oggetto di raccolta e diffusione; e

questa protezione deve esserci anche quando i dati raccolti riguardino informazioni di natura

patrimoniale ed economica, che all’atto della loro immissione nel sistema informativo della

Centrale, acquisiscono il carattere di “dati personali”. In quanto tali i dati contenuti e distribuiti

dalla Centrale dei Rischi, sono dati coperti da riservatezza nei confronti di qualsiasi persona

estranea all’amministrazione dei rischi: da ciò discende il conseguente obbligo di rispettare tutti

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SISTEMA DI RACCOLTA DELLE INFORMAZIONI E TUTELA DELLA PRIVACY

.

gli obblighi previsti dalle disposizioni del D.lgs. n. 196 del 30 giugno 2003 (Codice in materia di

protezione dei dati personali).

Tuttavia, il testo della normativa permette di cogliere l’esonero per gli intermediari dall’obbligo

di acquisire il consenso esplicito degli interessati prima dell’invio dei dati alla Centrale dei

Rischi: è proprio l’art. 24, comma 1, lett. a) del Codice che consente, infatti, ai privati e agli enti

pubblici economici di prescindere dal consenso dell’interessato per la comunicazione a terzi di

dati personali quando il trattamento è necessario per adempiere ad un obbligo previsto dalla

legge, da un regolamento o dalla normativa comunitaria. Per completezza di informazione

occorre, comunque, precisare che quasi tutte le norme del TUB che si occupano della raccolta

e del trattamento delle informazioni personali, hanno tutte carattere generale, mancando

un’imposizione specifica riguardo la trasmissione e la raccolta dei dati personali alla Centrale.

Quest’ultima, infatti, opera sulla base di una delibera del CICR, adottata su proposta

dell’Autorità di Vigilanza, che ha istituito il sistema di raccolta e trattamento dei dati personali,

creando, in tal modo, un sistema di centralizzazione dei rischi che consenta alle banche una

gestione più efficiente e consapevole degli affidamenti ed accresca al contempo la stabilità del

sistema bancario. Ritornando al discorso della protezione dei dati personali contenuti nel

Codice, va precisato che anche la Banca d’Italia, quale ente pubblico non economico, può

prescindere dal consenso degli interessati nell’effettuare il trattamento: è lo stesso art. 23,

comma 1, del Codice, a prevedere che l’obbligo di acquisire il preventivo consenso scritto da

parte del titolare dei dati personali, sia applicabile solo ai privati e agli enti pubblici economici.

Da qui la conseguente esenzione per l’attività di trattamento svolta da Banca d’Italia, nella sua

qualità di depositaria del sistema di raccolta e di elaborazione delle informazioni contenute nel

database della Centrale, dall’obbligo di richiedere il consenso al titolare.

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DANNI DA ERRATA SEGNALAZIONE DELLE INFORMAZIONI SU POSIZIONI CREDITORIE

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In definitiva anche alla Banca d’Italia andranno ad applicarsi le disposizioni e le regole generali

previste per i titolari di trattamento, contenute negli artt. 18-22 del Codice della Privacy.

In ultimo, si ritine che possa essere applicata alla disciplina della Centrale la previsione

normativa contenuta nell’art. 119 del Codice per la tutela dei dati personali. L’articolo prevede

che con il codice di deontologia e di buona condotta di cui all'articolo 118 sono altresì

individuati termini armonizzati di conservazione dei dati personali contenuti, in particolare, in

banche di dati, registri ed elenchi tenuti da soggetti pubblici e privati, riferiti al comportamento

debitorio dell'interessato nei casi diversi da quelli disciplinati nel codice di cui all'articolo 117,

tenendo conto della specificità dei trattamenti nei diversi ambiti. Il riferimento esplicito ai

soggetti pubblici permette, dunque, di ritenere applicabile il Codice di Deontologia e di buona

condotta per i sistemi informativi gestiti da soggetti privati in materia di crediti al consumo,

affidabilità e puntualità nei pagamenti, anche alla Centrale dei Rischi della Banca d’Italia,

nonché all’Archivio Informatizzato degli assegni bancari e postali e delle carte di pagamento e

al Registro dei Protesti.

16. Danni da errata segnalazione delle informazioni su posizioni creditorie.

Nella sua attività di rilevazione delle informazioni sull’ammontare degli affidamenti concessi ai

clienti, la Centrale dei Rischi ha il compito di raccogliere in maniera continuativa ogni

cambiamento che possa verificarsi nella situazione debitoria della clientela, così da tracciare il

passaggio dei crediti ‘a sofferenza’ e fissare un piano per la loro ristrutturazione. A loro volta,

agli intermediari spetta il compito di segnalare in modo sollecito, una volta che gli organi

aziendali hanno accertato lo stato di sofferenza del cliente o approvato la ristrutturazione del

credito, eventuali modifiche di status.

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DANNI DA ERRATA SEGNALAZIONE DELLE INFORMAZIONI SU POSIZIONI CREDITORIE

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A riguardo le Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia precisano che l’intermediario, ai fini

della valutazione della complessiva situazione finanziaria del cliente, non può fare riferimento

ad un mero ritardo di quest’ultimo nel pagamento di un debito: affinché il cambiamento di

status di un’esposizione la si possa registrare come ‘a sofferenza’, occorre una valutazione

complessiva della situazione, non un’analisi basata su di un singolo episodio; non può la

contestazione del credito essere di per sé condizione sufficiente per considerare in sofferenza

un determinato soggetto. Un’ulteriore punto delle Istruzioni di Vigilanza prevede, inoltre, che in

caso di rapporti cointestati, affinché si abbia una segnalazione in sofferenza tutti i cointestatari

devono versare in stato di insolvenza.

La segnalazione di una posizione di rischio tra le sofferenze non sarà più dovuta e andrà,

pertanto, in tutta una serie di circostanze:

- cessazione dello stato di insolvenza;

- rimborso del credito da parte del debitore o di terzi, anche a seguito di accordo transattivo

liberatorio, di concordato preventivo o di concordato fallimentare;

- cessione del credito a soggetti terzi;

- delibera degli organi competenti di irrecuperabilità dell’intero credito ovvero rinuncia ad

avviare o proseguire gli atti di recupero;

- prescrizione del credito.

Da quanto precede è possibile trarne la considerazione che, ai fini della segnalazione alla

Centrale dei Rischi di un credito ‘a sofferenza’ non sono sufficienti le risultanze dell’analisi dei

singoli rapporti in corso di svolgimento tra la banca segnalante ed il cliente, ma occorre una

valutazione della complessiva situazione patrimoniale di quest’ultimo.

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DANNI DA ERRATA SEGNALAZIONE DELLE INFORMAZIONI SU POSIZIONI CREDITORIE

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La condizione d’insolvenza, cui le Istruzioni di Vigilanza fanno riferimento, per costituire il

presupposto di una segnalazione, è da intendersi certamente in un’accezione meno rigida

rispetto a quella di insolvenza fallimentare, sebbene deve trattarsi di una situazione di grave

difficoltà economica – e non transitoria - in cui viene a trovarsi il patrimonio complessivo del

debitore. Orbene, è proprio rispetto al concetto di ‘sofferenza’ che più si è soffermata

l’attenzione di dottrina e giurisprudenza, soprattutto per le conseguenze gravi che

l’appostazione a sofferenza comporta per il soggetto segnalato. E infatti, la segnalazione di un

credito come “sofferenza” rappresenta per gli altri partecipanti al sistema informativo un

campanello d’allarme e per il soggetto segnalato rappresenta, invece, l’impossibilità ad

accedere al credito oltre al discredito che si genera nel sistema bancario stesso. Se è vero che

la segnalazione al sistema non vincola i partecipanti nella loro scelta di concedere nuovi

affidamenti, l’esperienza conferma esattamente il contrario, ossia che, di fronte alla

segnalazione di “sofferenza”, le banche siano più propense a negare l’accesso al credito al

soggetto segnalato. Questo atteggiamento di diffidenza ed il rifiuto di erogare il credito, qualora

indebitamente posto in essere dalla banca o dall’intermediario, va ad innescare una vera e

propria crisi di liquidità per il soggetto segnalato, con tutte le conseguenze e le ripercussioni

che naturalmente una tale crisi può comportare nell’attività posta in essere dal richiedente il

credito. Appare, dunque, alla luce di tali premesse, fondamentale l’esatta attribuzione del

significato da attribuire al termine “sofferenza” e l’individuazione di quelle circostanze che

determinano lo stato d’insolvenza, rappresentando il presupposto della segnalazione.

Un orientamento dottrinario minoritario, partendo dalla disciplina della Banca d’Italia che

prevede il venir meno dell’obbligo d’informazione da parte dei partecipanti al sistema

centralizzato di rischio in caso di rimborso o cessione del credito, ha ritenuto che la

segnalazione medesima non implica da parte della banca o dell’intermediario, o almeno non

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DANNI DA ERRATA SEGNALAZIONE DELLE INFORMAZIONI SU POSIZIONI CREDITORIE

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necessariamente, una valutazione complessiva della condizione economico-finanziaria del

cliente o della consistenza del suo patrimonio complessivamente considerato: di questo vi

sarebbe conferma nella eccessiva gravosità per l’intermediario di svolgere un’analisi globale

delle condizioni economiche e finanziarie del cliente.

A differenti conclusioni giungono, invece, come si è anticipato, la dottrina e la giurisprudenza

maggioritarie: quest’ultime sono, infatti, orientate nel senso di ritenere che il giudizio in ordine

alla “sofferenza” deve risultare da un esame ben più ampio, tale da riguardare la complessiva

situazione economico-finanziaria del soggetto affidato. Questo l’orientamento cui ha aderito

anche la Suprema Corte in alcune sue recenti decisioni. In linea con questo orientamento, non

potrà ritenersi corretta una segnalazione fondata soltanto sul presupposto dell’inadempimento

o del mero ritardo nel pagamento del credito; sarà, piuttosto, necessario, ai fini del giudizio

sulla legittimità della segnalazione, un esame approfondito non solo del singolo rapporto di

credito intrattenuto con l’istituto di credito, bensì una valutazione dettagliata dell’intera

situazione economica e patrimoniale del debitore che deve essere tenuta nella debita

considerazione. Sul punto è intervenuta esplicitamente la Corte di Cassazione, che ha

statuito come, per valutare la legittimità dell’iscrizione di un debitore e di un debito ‘a

sofferenza’ nella Centrale dei Rischi, occorra valutare se ci si trovi di fronte a soggetti in stato

di insolvenza o in situazioni sostanzialmente equiparabili.

La Cassazione ha identificato le situazioni equiparabili all’insolvenza come quelle che

comportano una situazione di grave e reiterata difficoltà economica del debitore, escludendosi

che i semplici ritardi nell’adempimento, intesi come meri indizi, possano considerarsi sufficienti

a determinare l’iscrizione della “sofferenza” presso la Centrale dei Rischi. È evidente, dunque,

in assenza di disposizioni che esplicitano i presupposti della segnalazione “a sofferenza”, e

considerati i gravi pregiudizi che la segnalazione può causare al soggetto segnalato, che alle

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DANNI DA ERRATA SEGNALAZIONE DELLE INFORMAZIONI SU POSIZIONI CREDITORIE

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banche e agli intermediari finanziari spetta il compito di valutare attentamente e con scrupolo

tutti i dati a disposizione prima di effettuare la comunicazione alla Centrale dei Rischi. Si

richiede, in sostanza, alla banca, nello svolgimento di un giudizio prognostico, di usare il

massimo rigore nella selezione e nell’apprezzamento dei dati, secondo criteri di

ragionevolezza, trasparenza, linearità e univocità. Si è detto dinanzi che l’importanza di un

giudizio prognostico attento e rigoroso si fonda sulle conseguenze in termini di danni rilevanti

che un errore di comunicazione alla Centrale può causare. Ed infatti la lesione alla sfera

giuridica del debitore, arrecata per effetto dell’illegittima segnalazione, può essere di notevole

gravità, dal momento che comporta la possibile esclusione del segnalato dal credito bancario o

comunque la difficoltà, che in molti casi diventa vera e propria impossibilità, di accedervi.

Pertanto, la responsabilità dell’intermediario finanziario e della banca finisce per assumere i

tratti sia di una responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, sia di responsabilità

contrattuale per violazione delle norme di comportamento della banca o intermediario

finanziario nei confronti del cliente, determinandosi, in tal caso, un danno che legittima le

pretese risarcitorie del cliente. In un sistema come quello della Centrale, che fornisce a tutti i

partecipanti la possibilità di valutare i rischi dell’affidamento richiesto, l’eventuale segnalazione

di una posizione a sofferenza, con connessa rilevante difficoltà di andare a verificare le

effettive cause, comporta un danno immediato alla reputazione del cliente con effetto a catena

di mancati affidamenti o, peggio, la revoca immediata dei prestiti già concessi.

Sulle problematiche inerenti i danni non patrimoniali è intervenuta anche la Cassazione con

una recente sentenza (Cass. 12626/2010), la quale ha statuito che “l'illegittima segnalazione,

in quanto lesiva della reputazione e dell'immagine, nonché idonea ad ingenerare una

presunzione di scarsa affidabilità, costituisce già di per sé comportamento pregiudizievole per

l'attività economica di un’impresa”.

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DANNI DA ERRATA SEGNALAZIONE DELLE INFORMAZIONI SU POSIZIONI CREDITORIE

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Diversamente da quanto accade per i danni lesivi della reputazione, il danno patrimoniale nei

casi di errata segnalazione alla Centrale dei Rischi è invece assai difficile da far valere, a

causa delle complessità all’onere probatorio: le banche, infatti, generalmente non rilasciano

alcuna attestazione di diniego dell’affidamento e dunque diventa assai difficile stabilire il nesso

di causalità tra la segnalazione ‘a sofferenza’, la chiusura di altre linee di credito e la revoca di

finanziamenti concessi da parte di altri operatori finanziari.

A fronte, quindi, della difficoltà per l’imprenditore di offrire la prova del nesso eziologico tra la

revoca dei fidi esistenti e la segnalazione a sofferenza, è intervenuto il TUB che all’art. 125,

recentemente modificato, ha posto l’obbligo in capo alla banca di informare il consumatore del

risultato della consultazione della banca dati quando il prestito venga negato proprio a causa

delle informazioni in esso presenti. Accanto all’art. 125, esistono, ad ogni modo, altre norme

che obbligano la banca o l’intermediario finanziario ad informare il cliente delle ragioni che

hanno determinato la mancata erogazione del finanziamento: si pensi ad es. alle disposizioni

attuative del TUB emanate dalla Banca d’Italia - , e precisamente alla Comunicazione di

Banca d’Italia del 22.10.2007 e al Provvedimento della Banca d’Italia del 29.7.2009

(“Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari”). In particolare, nella

Comunicazione del 2007 in merito alle conseguenze della mancata concessione di un

finanziamento si afferma che “laddove si decida di non accettare una richiesta di

finanziamento, è necessario che l’intermediario fornisca riscontro con sollecitudine al cliente;

nell’occasione, anche al fine di salvaguardare la relazione con il cliente, andrà verificata la

possibilità di fornire indicazioni generali sulle valutazioni che hanno indotto a non accogliere la

richiesta di credito”. Viene, dunque, confermato il principio di cui si è fatta menzione in

precedenza in base al quale, ai fini dell'apposizione a ‘sofferenza’ di un credito, l'intermediario

sia tenuto a svolgere un'indagine complessiva, non potendo limitarsi a prendere atto del mero

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DANNI DA ERRATA SEGNALAZIONE DELLE INFORMAZIONI SU POSIZIONI CREDITORIE

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inadempimento del debitore ovvero della volontà espressa dal debitore di non voler adempiere.

A riguardo si è anche detto che la stessa giurisprudenza di legittimità è tornata più volte a

chiarire la nozione di insolvenza, attribuendole una portata decisamente più ampia rispetto al

concetto di insolvenza di cui all’art. 5 l.fall.: in una accezione più ampia, dunque, per dichiarare

un soggetto insolvente occorrerà fare riferimento ad una valutazione complessivamente

negativa sulla situazione patrimoniale dell’azienda, caratterizzata da una grave e non

transitoria difficoltà economica, senza fare riferimento ad una situazione di incapienza o di

definitiva irrecuperabilità.

di Carmine Ruggiero

(21/10/2014)

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RIAPERTI I TERMINI PER LA RIVALUTAZIONE DI TERRENI E PARTECIPAZIONI?

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L’art. 44 del disegno di legge di stabilità 2015 ripropone le agevolazioni fiscali derivanti dalla

possibilità di rivalutare il costo o il valore di acquisto di terreni edificabili e con destinazione

agricola e partecipazioni societarie (qualificate e non qualificate) non quotate nei mercati

regolamentati, posseduti alla data del 1° gennaio 2015.

La rivalutazione dovrà essere perfezionata entro il 30 giugno 2015 con la presentazione della

perizia giurata di stima (redatta e asseverata da un professionista abilitato) ed il versamento

dell’imposta sostitutiva (del 2% sulle partecipazioni non qualificate e del 4% su quelle

qualificate e sui terreni), in unica soluzione o come prima rata di tre rate annuali (sull’importo

delle rate successive alla prima si applicano gli interessi nella misura del 3% annuo).

Nella valutazione della convenienza di tale regime è necessario confrontare l’imposta

sostitutiva con la nuova tassazione al 26% per i capital gain sulle partecipazioni non qualificate

e l’imposizione Irpef per il 49,72% per le partecipazioni qualificate.

Per i soggetti (persone fisiche, società semplici, enti non commerciali e soggetti non residenti

privi di stabile organizzazione in Italia) che si avvalgono nuovamente di tale agevolazione è

possibile:

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RIAPERTI I TERMINI PER LA RIVALUTAZIONE DI TERRENI E PARTECIPAZIONI?

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- detrarre dall’imposta sostitutiva dovuta sulla rivalutazione l’imposta già versata su precedenti

rivalutazioni degli stessi beni;

- oppure procedere alla richiesta di rimborso dei versamenti effettuati tramite l’istanza di

rimborso disciplinata dall’articolo 38 del Dpr 602/73.

di Anna Sottana

(20/10/2014)

Nel 2009 consegue a pieni voti la Laurea Specialistica in Economia e Diritto presso l’Università

degli Studi di Padova con tesi in Private Equity. Nello stesso anno inizia la sua esperienza

professionale in qualità di Assistant Controller prima in ITT Group e poi in ABB S.p.A. Sace

Division. Dopo aver collaborato all’implementazione di Modelli organizzativi ex D.Lgs 231/01,

svolge il tirocinio professionale presso un affermato Studio di commercialisti di Vicenza,

occupandosi di consulenza societaria, contrattuale e fiscalità internazionale. Nel 2012 diventa

mediatrice professionista in materia civile e commerciale e successivamente consegue

l’abilitazione all’esercizio della professione di Dottore Commercialista e Revisore Legale dei

Conti; nel 2013 entra in Xylem Inc. all’interno della struttura Finance come Financial Planning

and Analysis Analyst.

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LA NORMATIVA ANTIRICICLAGGIO: QUAL È IL RUOLO DEL PROFESSIONISTA?

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Prima di trattare il tema del ruolo che la normativa antiriciclaggio assegna alle diverse categorie

professionali è opportuno definire e chiarire il concetto di “riciclaggio”. Viene integrata una

condotta di riciclaggio quando un soggetto diverso da colui il quale ha commesso un delitto non

colposo che ha generato denaro, beni o altre utilità, sostituisce o trasferisce tale provento

oppure compie operazioni atte ad ostacolarne l’identificazione della provenienza delittuosa. Da

questa definizione emergono, pertanto, due caratteristiche di fondo:

1) il soggetto che ricicla è diverso dal soggetto che ha commesso un delitto di natura

patrimoniale (ad esempio, Caio commette una rapina e consegna i soldi a Tizio che li

immette nella società Beta s.r.l. mediante un finanziamento dei soci);

2) il soggetto che ricicla sostituisce o trasferisce il provento del reato oppure ne camuffa la

provenienza compiendo determinate operazioni (ad esempio, Tizio va in banca, deposita il

denaro contante provento della rapina e richiede l’emissione di assegni circolari).

Come è noto, la criminalità organizzata ha la necessità di immettere la maggior parte dei

capitali derivanti da attività criminosa – c.d. “sporchi” – in canali leciti attraverso i quali vengono

sottoposti a “ripulitura”, motivo per cui è sorta la necessità di emanare normative dirette a

contrastare un fenomeno che modifica ed “inquina” i normali meccanismi di accumulo dei beni e

di approvvigionamento delle fonti di finanziamento danneggiando ed indebolendo l’intero

apparato produttivo legale. Considerata la dimensione “globale” delle pratiche di riciclaggio e,

più di recente, di finanziamento del terrorismo, le esigenze di prevenzione e contrasto delle

stesse hanno avviato un significativo processo di armonizzazione internazionale della disciplina

di riferimento, indispensabile in un mercato sempre più aperto e concorrenziale.

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LA NORMATIVA ANTIRICICLAGGIO: QUAL È IL RUOLO DEL PROFESSIONISTA?

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In ambito comunitario, la principale normativa di riferimento in materia di prevenzione e

contrasto del riciclaggio di denaro e del finanziamento del terrorismo è costituita da:

– direttiva 2005/60/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26/10/2005, relativa alla

prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività

criminose e di finanziamento del terrorismo (III direttiva Antiriciclaggio);

– direttiva 2006/70/CE della Commissione del 1/8/2006, recante misure di esecuzione della

direttiva 2005/60/CE del Parlamento Europeo.

A livello nazionale la principale normativa di riferimento è rappresentata da:

– d.lgs. 22/6/2007, n. 109 e successive modifiche ed integrazioni, recante misure per prevenire,

contrastare e reprimere il finanziamento del terrorismo internazionale, che ha conferito

maggiore sistematicità agli obblighi degli intermediari di comunicazione di beni e risorse

congelate e di segnalazione di operazioni sospette;

– d.lgs. 21/11/2007, n. 231 e successive modifiche, ed integrazioni, recante l’attuazione della

direttiva 2005/60/CE, che ha riordinato l’intera normativa di prevenzione del riciclaggio di

denaro ed ha attribuito alla Banca d’Italia poteri regolamentari, di controllo e sanzionatori nei

confronti dei soggetti vigilati. In particolare, la Banca d’Italia è chiamata ad emanare

disposizioni in tema di adeguata verifica della clientela, di registrazione dei relativi dati e di

organizzazione, procedure e controlli interni finalizzati all’assolvimento degli obblighi

antiriciclaggio.

Ad oggi, la Banca d’Italia, in esercizio delle deleghe ricevute, ha emanato le Disposizioni

attuative per la tenuta dell’Archivio Unico Informatico (AUI) e per le modalità semplificate di

registrazione, entrate in vigore nel giugno 2010, il provvedimento recante gli indicatori di

anomalie per gli intermediari al fine di agevolare l’individuazione di operazioni sospette e le

Disposizioni attuative in materia di organizzazione, procedure e controlli interni antiriciclaggio,

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LA NORMATIVA ANTIRICICLAGGIO: QUAL È IL RUOLO DEL PROFESSIONISTA?

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entrata in vigore nel settembre 2011.

I principali elementi che caratterizzano il contesto normativo descritto riguardano:

– gli obblighi di adeguata verifica della clientela, con indicazione del “quando” (ad esempio,

instaurazione di un rapporto continuativo, esecuzione di un’operazione occasionale di importo

superiore alle soglie stabilite per legge, ecc.) e del “come” (es. modalità di identificazione del

cliente, del titolare effettivo, di scopo e natura delle transazioni, ecc.) adempiere a tali obblighi;

– l’approccio basato sul rischio, per cui gli obblighi di adeguata verifica della clientela si

articolano in differenti gradi di due diligence commisurati al profilo di rischio del cliente (ad

esempio, obblighi semplificati per intermediari finanziari e uffici della Pubblica Amministrazione

ed obblighi rafforzati per clienti non fisicamente presenti all’instaurazione del rapporto, per

soggetti politicamente esposti – c.d. PEP – per enti corrispondenti extracomunitari, per clientela

con profilo di rischio riciclaggio alto, e così via);

– l’obbligo di astensione dall’apertura di un nuovo rapporto, dall’esecuzione di un’operazione

occasionale o dal mantenimento di un rapporto in essere nel caso non sia possibile adempiere

correttamente agli obblighi di adeguata verifica o sussista il sospetto che vi sia una relazione

con il riciclaggio di denaro o con il finanziamento del terrorismo;

– l’obbligo di registrazione nell’AUI delle transazioni e delle operazioni poste in essere dalla

clientela;

– l’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette;

– le limitazioni stabilite per l’utilizzo del contante e dei titoli al portatore (oltre che degli assegni

bancari e postali, assegni circolari, vaglia postali e cambiari, ecc.);

– il monitoraggio di tutte le transazioni realizzate con Paesi che minacciano la pace e la

sicurezza internazionale (Paesi inseriti nelle Sanction List);

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– l’adozione di adeguate misure di formazione del personale per garantire il corretto

recepimento delle disposizioni normative e la loro corretta applicazione;

– l’estensione agli organi di controllo e all’organismo di vigilanza di cui al d.lgs. n. 231/2001

degli obblighi di comunicazione delle eventuali infrazioni di cui vengano a conoscenza

nell’esercizio dei propri compiti.

La normativa di riferimento richiede inoltre che, ai fini di un corretto adempimento dei suddetti

obblighi e di un efficace governo dei rischi di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, siano

chiaramente individuate funzioni organizzative, risorse e procedure coerenti e proporzionate

alla tipologia dell’attività svolta, alle dimensioni, alla complessità organizzativa ed alle

caratteristiche operative dei destinatari. In tale ambito è, in particolare, prevista l’istituzione di

un’apposita funzione deputata a prevenire e contrastare la realizzazione di operazioni di

riciclaggio e di finanziamento del terrorismo (Funzione antiriciclaggio), con la nomina del

relativo Responsabile. È inoltre richiesto di formalizzare l’attribuzione della responsabilità per la

segnalazione delle operazioni sospette.

Le misure da articolare secondo il suddetto principio di proporzionalità sono le seguenti:

– la chiara definizione, ai diversi livelli, di ruoli, compiti e responsabilità nonché la

predisposizione di procedure intese a garantire l’osservanza degli obblighi di adeguata verifica

della clientela e di segnalazione delle operazioni sospette e, inoltre, la conservazione della

documentazione e delle evidenze dei rapporti e delle operazioni;

– un’architettura delle funzioni di controllo che sia coordinata nelle sue componenti, anche

attraverso idonei flussi informativi, e che sia al contempo coerente con l’articolazione della

struttura, la complessità, la dimensione aziendale, la tipologia dei servizi e prodotti offerti

nonché con l’entità del rischio associabile alle caratteristiche della clientela;

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– un’attività di controllo che abbia come oggetto il rispetto da parte del personale e dei

collaboratori dei processi interni e di tutti gli obblighi normativi, con particolare riguardo alla

collaborazione attiva e alla continuativa analisi dell’operatività della clientela;

– la responsabilizzazione del personale dipendente e dei collaboratori esterni.

Venendo, a questo punto, all’aspetto di maggiore interesse in questa sede, va detto, anzitutto,

che i professionisti obbligati dalla normativa antiriciclaggio sono:

a) Dottori commercialisti ed Esperti contabili, Consulenti del lavoro, Notai e Avvocati, Revisori

contabili;

b) ogni altro soggetto che rende i servizi forniti da periti, consulenti e altri soggetti che svolgono

in maniera professionale, anche nei confronti dei propri associati e iscritti, attività in materia di

contabilità e tributi, ivi compresi associazioni di categoria di imprenditori e commercianti, CAF e

patronati;

c) prestatori di servizi relativi a società e a trust;

È bene precisare che, ai sensi dell’art. 12, lett. c) del d.lgs. n. 231/2007, avvocati e notai sono

“catturati” dalla normativa antiriciclaggio solo in determinati casi, ossia:

a) quando, in nome o per conto dei propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura

finanziaria o immobiliare;

b) quando assistono i propri clienti nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni

riguardanti: 1) il trasferimento a qualsiasi titolo di beni immobili o attività economiche; 2) la

gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni; 3) l’apertura o la gestione di conti bancari,

libretti di deposito e conti di titoli; 4) l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione,

alla gestione o all’amministrazione di società; 5) la costituzione, la gestione o l’amministrazione

di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi.

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Come accennato, la prevenzione del riciclaggio ha un ruolo strategico per l’azione di

repressione dei fenomeni criminali ed è basata su determinati e specifici obblighi. A mio

sommesso avviso, si tratta, in pratica, di affidare ai professionisti una funzione di natura

pubblicistica, di supplenza alle autorità di controllo e alle forze che si dedicano alla repressione

del crimine. Tali obblighi si sostanziano in:

- adeguata verifica della clientela:

- registrazione delle informazioni (AUI o registro cartaceo);

- conservazione dei documenti (fascicolo del cliente);

- segnalazione delle operazioni sospette di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo;

- formazione del personale;

- comunicazione al Ministero dell’economia e delle finanze (MEF) delle violazioni delle

limitazioni dell’uso del contante e dei titoli al portatore.

Personalmente ritengo che molti professionisti stanno per diventare una sorta di “007”, veri e

propri “agenti segreti” chiamati ad investigare sulle operazioni compiute dai loro clienti e a

darne comunicazione in caso di “operazioni sospette” dell’uso del sistema finanziario per finalità

di riciclaggio e finanziamento del terrorismo.

Tutto questo percorso è stato puntualmente e attentamente seguito dagli Ordini delle

professioni interessate che, attraverso un approfondito esame di ogni documento, hanno

individuato sia i lati positivi che quelli negativi, cercando di volta in volta di proporre correttivi

essenzialmente con un duplice scopo: da un lato, di raggiungere le finalità cui le norme tendono

e, dall’altro, di consentire ai professionisti di continuare ad esercitare la propria attività senza

eccessivi impedimenti, anche se, come vedremo in seguito, permangono inevitabilmente delle

“zone d’ombra”.

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Le funzioni dei professionisti oggi sono quanto mai varie e differenziate, ma il loro ruolo viene

talora messo in discussione dalle evoluzioni normative e della prassi, nonché del costume

e del modo di sentire della società. Alcune recenti sentenze della Cassazione, difatti, hanno

alimentato un dibattito sulle responsabilità del professionista nella consulenza, specie

aziendale, poiché lo collegano in automatico alla correità con le imprese clienti, infrangendo

definitivamente l’illusione della sua terzietà o estraneità rispetto alle scelte fattuali dei soggetti

che si avvalgono delle sue prestazioni professionali. Le funzioni sopra ricordate vanno svolte

correttamente (secondo competenza, etica e deontologia) e comportano responsabilità sempre

crescenti, come accennato in premessa. Sorgono però alcuni dubbi circa il ruolo dei

professionisti come elemento terzo o interposto nel rapporto tra il “cliente” e lo Stato. Dico

questo alla luce di quanto emerge dalla lettera della Proposta di IV direttiva antiriciclaggio del

Parlamento europeo e del Consiglio del 5 febbraio 2013, dove, infatti, si enfatizza ancor più

l’utilizzo del c.d. risk based approach di cui all’articolo 20 del d.lgs. n. 231/2007, con specifico

riferimento ai professionisti.

Altro aspetto significativo contenuto nella Proposta di direttiva concerne gli obblighi semplificati

e rafforzati di adeguata verifica della clientela. Si prevede, infatti, che gli Stati membri

richiedano ai destinatari della normativa di effettuare la verifica dell’identità del cliente e del

titolare effettivo prima che si instauri il rapporto o che sia svolta la transazione. In deroga a tale

previsione, la suddetta verifica può essere effettuata anche nel corso del rapporto o in fase di

svolgimento della transazione, ove ciò sia necessario per non comprometterne il normale

svolgimento e sempre che il rischio di riciclaggio sia minimo. Le altre modifiche previste dalla

Proposta mirano ad inasprire l’adeguata verifica semplificata, da un lato, subordinando alla

valutazione del rischio ogni decisione in merito a casi e modalità di applicazione dell’obbligo e,

dall’altro, fissando i requisiti minimi dei fattori da prendere in considerazione. In effetti, viene

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lasciata agli Stati membri la facoltà di provvedere affinché i soggetti obbligati esercitino

sull’operazione o sul rapporto un controllo sufficiente a consentire la rilevazione di operazioni

anomale o sospette. Infatti, nell’allegato II alla Proposta vi è un elenco di fattori sintomatici di

situazioni potenzialmente a basso rischio di cui gli Stati membri ed i soggetti obbligati devono

tenere conto: con riferimento alla clientela sono tali le società quotate, le amministrazioni o le

imprese pubbliche, i clienti residenti in aree geografiche a basso rischio; mentre tra i fattori

geografici a basso rischio rientrano gli altri Stati membri dell’U.E. ed i paesi terzi dotati di

efficaci sistemi di riciclaggio. A mio sommesso avviso, la Proposta incide fortemente sugli

obblighi di adeguata verifica della clientela, onde risulterebbe necessaria una maggiore

chiarezza delle norme al fine di disporre di controlli e procedure adeguate che consentano una

migliore conoscenza del cliente ed una maggiore comprensione della natura delle attività svolte

da quest’ultimo. Per quanto concerne le misure rafforzate di adeguata verifica, la Proposta

contiene una nuova e più dettagliata definizione di Persona Politicamente Esposta (PEP). Sul

punto, la novità più rilevante consiste nella parificazione delle PEP nazionali (definite

domestiche) a quelle straniere, secondo le indicazioni fornite dal GAFI. Più in dettaglio, la

Proposta disciplina separatamente gli obblighi nei confronti delle PEP straniere e di quelle

nazionali: per quelle straniere, l’art. 18 prevede la predisposizione di adeguate procedure

basate sul rischio per determinare se il cliente o il suo titolare effettivo rientrino in tale categoria,

l’ottenimento dell’autorizzazione da parte dell’alta dirigenza prima di instaurare o proseguire il

rapporto, l’adozione di misure adeguate per stabilire l’origine del patrimonio e dei fondi

impiegati, nonché il controllo continuo rafforzato. Personalmente, mi auguro che

successivamente all’emanazione della direttiva vengano chiariti aspetti che, allo stato,

presentano punti alquanto “oscuri”, basti pensare alle difficoltà applicative per l’individuazione

dei familiari diretti o di coloro con i quali le persone politicamente esposte intrattengono

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notoriamente stretti legami. L’allegato II alla Proposta contiene poi un elenco dei fattori

sintomatici di situazioni potenzialmente ad alto rischio di cui i soggetti obbligati (e naturalmente

gli Stati) devono tenere conto. Con riferimento alla clientela sono tali i rapporti d’affari condotti

in circostanze anomale, le società con azioni fiduciarie o al portatore, le attività economiche

connotate da alta intensità di contante, gli assetti proprietari anomali.

Altro punto saliente della Proposta è la definizione di Beneficial Owner (titolare effettivo) il quale

altri non è che la persona o le persone fisiche che, in ultima istanza, possiedono o controllano il

cliente e/o la persona fisica per conto della quale è realizzata un’operazione o un’attività. In

caso di società, il titolare effettivo è la persona fisica o le persone fisiche che possiedono o

controllano, direttamente o indirettamente, una percentuale sufficiente delle partecipazioni al

capitale sociale o dei diritti di voto, individuata nel 25% più uno del capitale sociale, anche

tramite azioni al portatore, purché non si tratti di una società quotata e sottoposta a obblighi di

comunicazione conformemente alla normativa dell’Unione europea o a standard internazionali

equivalenti. Sempre per quanto riguarda il titolare effettivo, la Proposta contiene nuove norme

atte a garantire una maggiore accessibilità nonché trasparenza dei dati dello stesso. Infatti la

Proposta prescrive alle persone giuridiche di acquisire e mantenere informazioni adeguate,

accurate e aggiornate sui propri titolari effettivi, che dovrebbero essere rese disponibili alle

autorità competenti e agli enti obbligati. Lo stesso dicasi per i fiduciari dei trust espressi, che

devono ottenere e mantenere informazioni adeguate, accurate ed aggiornate sulla titolarità

effettiva del trust, che comprendono l’identità del fondatore, del fiduciario o dei fiduciari, del

guardiano, dei beneficiari e delle altre persone che esercitano il controllo effettivo sul trust.

Per quel che riguarda la conservazione dei dati, non posso che evidenziare come la direttiva

2005/60/CE non contempli alcun obbligo di registrazione, ma si limiti a prevedere l’imposizione,

nei confronti dei destinatari della disciplina, di un generico obbligo di conservazione dei

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documenti. Tale obbligo non è affatto introdotto dalla Proposta di IV direttiva, nonostante vi sia

stata, a mio avviso, una errata traduzione della rubrica del Capo V. Infatti, la Proposta di

direttiva prevede un obbligo di conservazione della copia o dei riferimenti richiesti per

l’adeguata verifica per cinque anni dalla fine del rapporto di affari con il cliente; e l’obbligo di

conservazione delle scritture e delle registrazioni inerenti ai rapporti d’affari e alle operazioni,

consistenti nei documenti originali o in copie autentiche, per cinque anni dall’esecuzione delle

operazioni o, se la scadenza è precedente, dalla cessazione del rapporto d’affari. Invece, la

normativa italiana vigente ha sensibilmente elevato tale termine di conservazione portandolo da

cinque a dieci anni, e, cosa del tutto aliena dal testo della direttiva, prevede un obbligo di

registrazione, in archivio informatico ovvero in quello cartaceo, delle prestazioni professionali

che il legislatore ritiene sia necessario monitorare ai fini della prevenzione del riciclaggio.

Ultimo punto da evidenziare è quello che prevede l’inclusione dei reati fiscali tra quelli

presupposto del reato di riciclaggio. In effetti i reati fiscali connessi alle imposte dirette ed

indirette rientrano nella definizione di attività criminosa ai sensi della Proposta di IV direttiva.

Infatti, il legislatore europeo, per attività criminosa intende il coinvolgimento criminale nella

perpetrazione di alcuni reati gravi, tra cui quelli fiscali, punibili con una pena o con una misura di

sicurezza privativa della libertà di durata massima superiore ad un anno. Personalmente,

ritengo che vi sia la necessità di distinguere gli illeciti fiscali di natura fraudolenta, e cioè quelli

che comportano un effettivo ingresso di denaro o di altri beni, da quelli che danno luogo

esclusivamente ad un risparmio di imposta.

di Carmine Ruggiero

(17/10/2014)

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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO. CONFINI D’INCRIMINAZIONE E AMBITI DI TUTELA DELLA

FATTISPECIE

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1. Note introduttive

L’introduzione del reato di autoriciclaggio è tema quanto mai dibattuto nel panorama

giurisprudenziale e dottrinale. Nonostante da anni, a livello internazionale, si moltiplichino le

sollecitazioni affinché anche l’Italia si adegui, il nostro resta l’unico paese in Europa a non

prevedere come reato il reinvestimento di capitale illecitamente percepito da parte dello stesso

autore del primo illecito. La fattispecie di autoriciclaggio rappresenta la condotta tipica non solo

di chi, dopo aver compiuto autonomamente il reato presupposto, provvede a sostituire,

trasferire od occultarne i proventi per investirli e/o immetterli in attività produttive o finanziarie,

senza avvalersi dei servizi di riciclaggio prestati da un soggetto terzo “riciclatore”; ma anche il

comportamento dello stesso soggetto “riciclatore” il quale, prima di prestare i “servizi” di

riciclaggio, apporta un contributo rilevante al compimento del reato presupposto, concorrendo

quindi in quest’ultimo con l’autore principale. Quest’ultima condotta appare diffusa in fenomeni

di appropriazione di beni sociali, evasione fiscale e corruzione, per cui l’esponente o il

proprietario di un’azienda si accorda con un terzo “riciclatore” nel senso di utilizzare mezzi di

quest’ultimo, ad esempio società fittizie che emettono fatture false, per sottrarre all’azienda e a

tassazione, e in seguito riciclare, beni sociali da destinare a proprio uso personale, per finalità

corruttive o altro. Nella vigente disciplina penalistica, la fattispecie di riciclaggio non include

alcuna delle due condotte richiamate. Ai sensi dell’art. 648-bis c.p., infatti, il riciclaggio è

punibile soltanto «fuori dei casi di concorso nel reato» presupposto. Esso non colpisce, quindi,

né il riciclaggio compiuto autonomamente dall’autore del reato presupposto, né quello compiuto

dal “riciclatore” che concorra anche nel compimento del reato presupposto.

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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO. CONFINI D’INCRIMINAZIONE E AMBITI DI TUTELA DELLA

FATTISPECIE

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L’esclusione della punibilità per riciclaggio degli autori in concorso del reato presupposto ha,

nondimeno, prodotto, anche in ragione degli esiti della riflessione giurisprudenziale, alcune

conseguenze sul piano applicativo. Essa non è, infatti, in grado di colpire, per un verso, la

condotta dell’autore del reato presupposto (meno grave) che proceda a una catena di

operazioni di riciclaggio, utilizzo e reimpiego, anche a distanza di tempo, degli originari proventi;

per altro verso, la condotta del “riciclatore” professionale che proceda a una complessa serie di

operazioni di riciclaggio dei proventi di un reato (meno grave) cui ha concorso.

Sicché, anche per effetto della non punibilità dell’autore in concorso del reato presupposto, la

fattispecie di riciclaggio ha sinora trovato limitata applicazione sul piano giudiziario, soprattutto

con riguardo all’ultroneo fenomeno del “taroccamento” delle auto. Al di là di questi episodi,

frequenti, ma non particolarmente rilevanti, di “sostituzione” di beni di provenienza illecita, la

fattispecie di gran lunga più insidiosa e grave di riciclaggio resta quella costituita dalla condotta

di “trasferimento” di denaro “sporco”.

Un dato non incoraggiante. Non si spiegherebbero altrimenti le difficoltà e gli sforzi tesi

all’introduzione di siffatta fattispecie di delitto nel nostro ordinamento. Non si può, del resto,

come si avrà modo di approfondire più avanti, non tenere conto della sanzionabilità dal punto di

vista penale dell’autoriciclaggio in altri ordinamenti, fra i quali quello spagnolo, francese, oltre

che degli Stati Uniti e della Svizzera (v. infra§ 4.1).

Sullo sfondo, continuano a delinearsi modifiche del quadro normativo internazionale che, anche

attraverso la regolamentazione comunitaria futura, potranno a loro volta determinare

cambiamenti significativi nell’ordinamento nazionale.

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LA LOTTA AL RICICLAGGIO NEL QUADRO DELLE POLITICHE DI CONTRASTO ALLE «MAFIE»

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2. La lotta al riciclaggio nel quadro delle politiche di contrasto alle “Mafie”.

Oggi l’operare perché sia cancellata la provenienza illecita di utilità economiche da impiegare in

lecite transazioni di mercato caratterizza, difatti, principalmente l’agire delle organizzazioni

criminali, in particolare di quelle mafiose o di stampo mafioso, rendendole molto vicine

all’impresa, sia nella struttura delle proprie articolazioni che nelle strategie di medio e lungo

termine. La dimensione della criminalità economica, sempre più in espansione in tempi di

globalizzazione e di crisi mondiali, comporta l’acquisizione di posizioni di potere e di enormi

ricchezze, che inquinano, condizionano e strozzano l’economia sana, pertanto appare

improcrastinabile la necessità di adeguare prontamente gli strumenti normativi contro il crimine

organizzato e comune.

L’Italia, come gran parte dei Paesi maggiormente sviluppati, è gravemente colpita dal fenomeno

del riciclaggio di ingenti capitali di provenienza criminosa, eppure il reato giunge assai

raramente alla cognizione del giudice. Vi sono note ragioni tecniche per cui il nostro Paese

risulta ancora oggi privo di effettiva tutela penale, rispetto ad un fenomeno che sta stravolgendo

e contaminando i presupposti e gli equilibri fisiologici dell’economia di mercato. Il numero dei

processi in atto per fatti di riciclaggio è risibile, soprattutto se si considera che la stragrande

maggioranza di essi non riguarda denaro derivante dal crimine organizzato e, perciò, da gravi

reati quali quelli del narcotraffico, dell’usura, del racket delle estorsioni, della tratta di esseri

umani, ma da fatti di scarso allarme e danno sociale, quali quelli relativi al cambio delle targhe o

del telaio dei veicoli di provenienza illecita. Va da sé che l’assenza di punibilità della condotta di

autoriciclaggio rivela una omissione che indebolisce l’intera struttura di un impianto legislativo

ispirato alla rimozione di vaste aree di impunità, e degli interventi preordinati alla promozione

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LA LOTTA AL RICICLAGGIO NEL QUADRO DELLE POLITICHE DI CONTRASTO ALLE «MAFIE»

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di nuovi strumenti di prevenzione, all’interno di un contesto caratterizzato da un fenomeno

corruttivo in crescita esponenziale. Un’omissione ancora più allarmante e stridente se si

considerano i continui richiami sovranazionali alla necessità di un intervento collegato e

strutturato che contempli in maniera sinergica la tutela dell’integrità dei sistemi finanziari, della

trasparenza degli affidamenti economici quali precondizioni di un efficace contrasto alla

criminalità organizzata ed alla corruzione sistemica. È di tutta evidenza che si sia di fronte ad

una scelta legislativa – non condivisa in altri ordinamenti – che si fonda sulla considerazione

che, per coloro che partecipano alla realizzazione del delitto presupposto, l’utilizzo delle cose di

provenienza illecita rappresenta la naturale prosecuzione della condotta criminosa e non può

assumere diverso ed autonomo rilievo penale. In sede processuale, infatti, è necessario

dimostrare la consapevolezza della illecita origine del denaro “sostituito o trasferito” e la

contestuale estraneità dell’agente alla commissione del reato da cui lo stesso denaro proviene.

Inoltre, tenuto conto che la sanzione edittale prevista per il reato di riciclaggio è normalmente

più elevata rispetto a quella del reato presupposto, risulta “conveniente” per il soggetto inquisito

sostenere di aver (anche) concorso nel reato presupposto al fine di escludere l’imputazione per

riciclaggio. Ciò significa – come ha sottolineato in varie occasioni la magistratura – che «i

mafiosi ai quali viene imputato il reato di cui all’art. 416-bis c.p. e tutti gli altri reati produttivi di

profitto – dalle estorsioni al traffico di stupefacenti alla manipolazione degli appalti, etc. – non

possono essere incriminati anche per i reati di riciclaggio. Per tali reati possono essere

incriminati solo coloro che per conto dei mafiosi effettuano le operazioni di riciclaggio». Diventa,

a questo punto, sempre più impellente la necessità di raffinare, adeguandoli alle esigenze

dettate dalla nuova realtà che si connette alle continue evoluzioni del crimine organizzato, gli

strumenti legislativi penali che servano a contrastare efficacemente il crimine organizzato nei

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LA LOTTA AL RICICLAGGIO NEL QUADRO DELLE POLITICHE DI CONTRASTO ALLE «MAFIE»

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suoi risvolti economici. Sul punto si è espresso anche il Consiglio superiore della magistratura,

in occasione del recentissimo parere del 24 ottobre 2012 sul disegno di legge anticorruzione

(AC 4434-B, allora all’esame della Camera; ora legge n. 190 del 2012), affermando che

«…deve essere segnalata l’opportunità di una norma che punisca il cd. “autoriciclaggio”, e cioè

il reimpiego e la reimmissione sul mercato di risorse provenienti da reato da parte di chi lo abbia

commesso. Tale condotta costituisce infatti uno dei principali canali di occultamento dei proventi

delittuosi, in particolare del crimine organizzato, dei reati economici e di corruzione. In assenza

di sanzione autonoma di essa, si priva l’ordinamento di uno strumento utile ad impedire – a

valle della corruzione – la concretizzazione ultima del vantaggio patrimoniale conseguito con

l’attività illecita». Altri importanti interventi in materia, dei quali si ritiene utile dar conto, sono

quelli che ripetutamente, anche in sede parlamentare, ha pronunciato il Procuratore nazionale

antimafia, allora dottor Pietro Grasso, nonché la stessa Commissione antimafia. Nella più

recente Relazione sulla prima fase dei lavori della Commissione antimafia (DOC XXIII, n. 9),

approvata dalla Commissione il 25 gennaio 2012, riferendosi alla non sanzionabilità

dell’autoriciclaggio, si legge: «Non v’è chi non veda quanto illogica e foriera di gravi

conseguenze sia sul piano pratico e della lotta alle mafie simile esclusione di sanzionabilità,

tanto più se si considera che un conto è l’impiego nei consumi ordinari delle somme provenienti

dal reato, altro è il sistematico ricorso a pratiche od operazioni finanziarie finalizzate ad

ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei capitali. Trattasi all’evidenza di un

quid pluris bisognevole di punizione, senza timore alcuno di incorrere in una duplicità di

sanzione per un preteso post factum non punibile».

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LE PRINCIPALI LINEE RICOSTRUTTIVE DEL REATO DI RICICLAGGIO NELL’ORDINAMENTO INTERNO

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3. Le principali linee ricostruttive del reato di riciclaggio nell’ordinamento interno.

Prima di approfondire il tema specifico oggetto del presente lavoro, si ritiene utile compiere

alcune riflessioni volte a ricostruire le coordinate giuridiche del reato di riciclaggio.

Muovendo dalla constatazione secondo cui il nucleo essenziale della condotta di riciclaggio è

costituito da comportamenti atti a non rendere più identificabile il provento del reato, occorre

giocoforza dedurne che lo stesso debba, per le sue caratteristiche intrinseche, essere

riconoscibile prima dell’intervento di “lavaggio”, che dovrà “reciderne” il collegamento con il

delitto da cui proviene. Il pericolo, dunque, si collocherebbe nella “reimmissione” nei circuiti

economici legali di sostanze che non potrebbero accedervi senza una preventiva opera di

“ripulitura”. Ciò consentirebbe del resto di “dissimularne” o “occultarne” l’origine delittuosa.

Le distorsioni e le disfunzioni recate dall’attuale assetto di disciplina sono causa ed effetto di

un’applicazione randomica della fattispecie, con buona pace di garanzie come quella della

tutela del legittimo affidamento dei terzi: tra questi vi sono, infatti, gli operatori di banca e di

borsa, i professionisti e, in genere, tutti gli obbligati alla c.d. “adeguata verifica del cliente”. Essi,

come in fondo accade anche per il semplice cittadino che acquisti o riceva la res di illecita

provenienza, tendono ad essere automaticamente attratti nella sfera di applicazione della

norma incriminatrice, in quanto surrettiziamente richiesti di una probatio di innocenza.

La ragione di un simile “stato dell’arte”, normativo ed ermeneutico, va ricercata nella genesi

stessa della fattispecie. L’inserimento degli artt. 648-bis e 648-ter nel Titolo XIII del c.p.,

concernente i delitti contro il patrimonio, deriva dalla scelta iniziale del legislatore di costruire tali

fattispecie criminose sul modello del delitto di ricettazione. L’art. 648-bis c.p. è stato, infatti,

sviluppato mutuando i tratti essenziali dello schema tipo del delitto di ricettazione (art. 648 c.p.).

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LE PRINCIPALI LINEE RICOSTRUTTIVE DEL REATO DI RICICLAGGIO NELL’ORDINAMENTO INTERNO

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Il delitto di riciclaggio consiste oggi nella condotta di chi, non avendo partecipato al reato

presupposto, «sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non

colposo, ovvero compie in relazione a essi altre operazioni, in modo da ostacolare

l’identificazione della loro provenienza delittuosa» (art. 648-bis, co. 1, c.p.). Le pene previste

sono quelle della reclusione (da quattro a dodici anni) e della multa, aumentate se il fatto è

commesso nell’esercizio di un’attività professionale. All’adempimento degli obblighi

internazionali richiamati si ricollega anche l’art. 648-ter c.p. (introdotto con l’art. 5 della Legge

del 1993): nonostante il diverso nomen iuris – Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza

illecita –, questa norma prevede la medesima pena del riciclaggio per chi «impiega in attività

economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto» (co. 1).

A ragion del vero, la condotta relativa all’ipotesi delittuosa di “impiego di denaro di denaro, beni

o altre utilità di provenienza illecita” di cui all’art. 648-ter c.p. è diversa e più specifica rispetto a

quella di “riciclaggio” di cui all’art. 648-bis c.p. poiché – come sostenuto dalla giurisprudenza –

«contiene in sè un elemento specializzante costituito da un’attività ulteriore rispetto alla

ricezione del denaro o di altra utilità e, cioè, dal relativo impiego in attività economiche o

finanziarie». Proprio in considerazione di questo quid pluris rappresentato dall’elemento

specializzante e, comunque, dalla clausola di riserva contenuta nell’incipit dell’art. 648-ter c.p.,

in ordine ai medesimi fatti il soggetto non può essere chiamato a rispondere anche del delitto di

“riciclaggio”, essendo la condotta di esso assorbita in quella più specifica di “impiego”. Sicché,

laddove, per altro verso, non vi sia contestualità tra le due condotte – di “sostituzione” e di

“impiego” – l’unico reato configurabile è quello di “riciclaggio”, dovendosi ritenere, ad avviso

della Suprema Corte, che, «in difetto di detta contestualità, siffatto impiego, successivamente

intervenuto, costituisca un post factum non punibile, rispetto alla già avvenuta commissione

dell’altro reato».

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LE PRINCIPALI LINEE RICOSTRUTTIVE DEL REATO DI RICICLAGGIO NELL’ORDINAMENTO INTERNO

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Peraltro, non sempre è agevole distinguere il concorrente nel reato presupposto dal riciclatore.

Ad avviso della Corte di Cassazione, non è sufficiente «il ricorso al criterio “temporale”, giacché

occorre, in più, che si proceda a verificare, caso per caso, se la preventiva assicurazione di

“lavare” il denaro abbia realmente influenzato o rafforzato, nell’autore del reato principale la

decisione di delinquere». Nella specie la Suprema Corte ha ritenuto responsabile di riciclaggio il

commercialista al quale veniva addebitato di avere, nell’esercizio della propria attività

professionale, posto in essere una serie di operazioni bancarie e societarie volte a trasferire,

anche all’estero, denaro di cui il cliente era accusato di essersi appropriato indebitamente, in tal

modo compiendo operazioni idonee ad ostacolare l’identificazione della provenienza criminosa

di dette somme illecitamente sottratte.

Quanto alla condotta, i reati di cui trattasi sono da considerarsi “a forma libera”, essendo

soltanto richiesto che le attività poste in essere siano «dirette in ogni caso ad ostacolare

l’accertamento sull’origine delittuosa di denaro, beni o altre utilità».

Da tenere, inoltre, presente che, trattandosi di reato di mero pericolo, per la sua realizzazione è

sufficiente che la condotta sia idonea «non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a

rendere difficile l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni e delle altre utilità,

attraverso un qualsiasi espediente che consista nell’aggirare la libera e normale esecuzione

dell’attività posta in essere». Tant’è che, sempre in giurisprudenza, la fattispecie criminosa di

riciclaggio è stata ritenuta sussistente anche qualora sia risultato del tutto agevole

l’accertamento della provenienza illecita della res.

Nel sistema penale italiano il riciclaggio in senso tecnico-giuridico non attiene al solo

trasferimento di denaro o di capitali, ma anche a «beni o altre utilità», sul presupposto non già

di una loro origine genericamente illecita, bensì derivante da un (qualsiasi) delitto doloso

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LE PRINCIPALI LINEE RICOSTRUTTIVE DEL REATO DI RICICLAGGIO NELL’ORDINAMENTO INTERNO

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(ossia non colposo, e con esclusione delle contravvenzioni, pure di natura penale, e degli illeciti

amministrativi). Il delitto doloso presupposto (predicate crime) deve essere stato commesso da

altri, per cui, allo stato, è escluso l’autoriciclaggio, ossia la punibilità di chi direttamente

provvede a occultare le tracce dei proventi del delitto da lui stesso realizzato in vista

dell’eventuale reimpiego. In effetti, è mancata ab origine un’esatta identificazione della reale

portata del fenomeno riciclaggio, ben lungi dal riguardare la semplice tutela del patrimonio.

Simili problematiche non ricorrono in altri Paesi, in particolare di matrice anglosassone, fautori

di un ben diverso approccio nello sviluppo degli strumenti di tutela antiriciclaggio. Basti pensare

che negli Stati Uniti la fattispecie criminosa è addirittura inquadrata nel contesto della c.d. “War

on drugs”. La dottrina negli ultimi anni ha offerto apprezzabili suggerimenti per giungere ad

un’impostazione ermeneutica più consona della norma incriminatrice cercando di fornire gli

strumenti per la definizione di una disciplina penale che risulti più chiara, più equilibrata e più

efficace, segnatamente nell’ottica della integrazione transnazionale. Se il diritto penale, in

funzione dei principi cardine che lo caratterizzano, è costretto al rispetto delle regole della

tassatività-determinatezza nella costruzione delle figure delittuose e nella loro interpretazione,

analogo vincolo non vale certamente per chi valuta, studia e mira a combattere (in una

prospettiva socio-criminologica) il riciclaggio quale fenomeno economico-finanziario patologico.

In questa diversa sfera concettuale, per esempio, per chi è deputato a scongiurare l’infiltrazione

della criminalità economica nei mercati finanziari è del tutto indifferente che a riciclare e a

reimpiegare denaro sporco sia lo stesso autore del delitto che ha prodotto l’utile o sia un terzo.

Dal punto di vista normativo, la fattispecie penale del riciclaggio ha subito nel tempo un’indiretta

amplificazione: da pochi delitti di elevata pericolosità sociale e rilevanti riflessi patrimoniali, la

qualifica di presupposto di riciclaggio è stata estesa a tutti i delitti non colposi, quale che ne sia

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LE PRINCIPALI LINEE RICOSTRUTTIVE DEL REATO DI RICICLAGGIO NELL’ORDINAMENTO INTERNO

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la natura e l’entità della pena (c.d. approccio “all crimes”). Si è assistito ad una progressiva

divaricazione tra la nozione penale di riciclaggio e quella c.d. “amministrativa”, che individua le

ipotesi in cui scatta l’obbligo di segnalazione delle operazioni considerate “sospette”. Mentre la

prima richiede la preesistenza di un delitto non colposo e continua a escludere la punizione

autonoma dell’autoriciclaggio, la seconda prescrive l’obbligo di segnalazione in tutti i casi in cui

sussiste la fondata percezione che determinate disponibilità derivino da un’attività illecita, anche

indefinita, comprendente anche i reati contravvenzionali e i casi in cui vi sia coincidenza tra

l’autore del reato presupposto e quello dell’attività riciclatoria. Si tratta, a ben vedere, di una

definizione ampia che estende l’ambito degli obblighi di segnalazione all’UIF (Unità di

informazione finanziaria della Banca d’Italia) delle operazioni sospettate di riciclaggio.

Sostanzialmente, divenendo superfluo il problema dell’estraneità del cliente rispetto all’origine

delittuosa dei capitali riciclati, gli intermediari sono tenuti a segnalare le operazioni sospette

anche quando è il cliente stesso ad essere sospettato di aver commesso il reato presupposto

(autoriciclaggio). In tal senso si esprime anche la Circolare della Guardia di Finanza n. 81 del

18 agosto 2008, secondo cui la segnalazione di operazione sospetta deve essere effettuata

anche in riferimento alle operazioni poste in essere dall’autore del reato presupposto, ovvero

anche in caso di autoriciclaggio.

Si aggiunga che la formulazione di diverse fattispecie delittuose e contravvenzionali risulta

lacunosa, creando incertezze applicative. Molte sanzioni penali, inoltre, colpiscono – con

minime pene a rapida prescrizione – condotte di modesta potenzialità lesiva, addebitabili

spesso a disattenzione o a disfunzioni organizzative. Sarebbe invece preferibile limitare la

reazione penale alle condotte più gravi, perseguendo le violazioni meno rilevanti con sanzioni

amministrative pecuniarie appropriate ed efficaci.

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LE PRINCIPALI LINEE RICOSTRUTTIVE DEL REATO DI RICICLAGGIO NELL’ORDINAMENTO INTERNO

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Per quel che concerne, invece, le sanzioni amministrative, le principali criticità riguardano quelle

per omessa segnalazione di operazioni sospette, di particolare interesse per l’UIF.

Nell’ambito di questa più ampia nozione di riciclaggio, si è affermata la prassi di segnalare, in

un’ottica prospettica, anche la sospetta destinazione alla commissione di reati di fondi di origine

non necessariamente illecita. Ciò, superando la considerazione formalistica per cui

concretizzano il riciclaggio solo i proventi di un reato già commesso.

Non sembra, tuttavia, potersi sottovalutare nel merito un ulteriore dato: gli elementi, che

valgono a differenziare la tipizzazione delle fattispecie penalmente rilevanti – artt. 648-bis e

648-ter c.p. – dalle corrispondenti definizioni assunte dall’art. 2 del d.lgs. n. 231/2007 «ai fini del

presente decreto», evidenziano per le ipotesi in esame alcuni profili di criticità. A fronte, infatti,

di una “generica” attività criminosa, costitutiva – presenti i restanti requisiti – ai sensi del citato

art. 2 del riciclaggio, la previsione dei delitti oggetto del d.lgs. n. 74/2000 (che nella loro

rilevanza penale diverrebbero come tali suscettibili di configurarsi come reati presupposto ex

art. 648-bis) si integra con “ulteriori” elementi di tipicità concorrenti in ragione di soglie di

punibilità quantitative e/o termini normativamente apposti.

Ciò confermerebbe la diversità nei presupposti per la valutazione della sussistenza degli

obblighi di segnalazione, da un lato, e, agli effetti penali, per la configurabilità dell’ipotesi stessa

di riciclaggio o impiego di proventi illeciti, dall’altra, ai sensi del codice penale. Se è vero infatti

che il disvalore penale di talune delle condotte rilevanti in ambito fiscale sta e cade in ragione di

un an e di un quantum oggetto della previsione normativa, detti requisiti, ove presenti, varranno

evidentemente ad integrare il fatto di reato, condizionandone, per così dire, l’esistenza.

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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO NEL PANORAMA INTERNAZIONALE

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4. Il reato di autoriciclaggio nel panorama internazionale.

Nel contesto internazionale si registra un’ampia convergenza sia livello europeo che globale a

favore dell’introduzione del reato di autoriciclaggio. Nella direzione di punire un simile reato

appaiono, infatti, orientati i principali organismi internazionali a diverso titolo investiti della

materia. Sebbene la punibilità dell’autoriciclaggio non sia espressamente richiesta dalle

convenzioni internazionali, essa è nondimeno insistentemente sollecitata tanto dall’OCSE –

che, nel Rapporto sull’Italia del 2011 ha rilevato come una simile lacuna normativa rischi di

indebolire la legislazione anticorruzione e non appaia giustificata dai principi generali del diritto

– che dal Fondo monetario internazionale – che, nel Rapporto sull’Italia del 2006, pur rilevando

come la punibilità dell’autoriciclaggio non fosse prevista come necessaria nelle 40

Raccomandazioni del GAFI, ne raccomandava nondimeno l’introduzione, anche alla luce delle

esigenze investigative rappresentate dalle stesse autorità italiane. Va in aggiunta ricordato che

l’incriminazione dell’autoriciclaggio è prevista dalla Convenzione penale di Strasburgo sulla

corruzione del 1999, recentemente ratificata dall’Italia con la legge 28 giugno 2012, n. 110.

L’art. 13 della Convenzione stabilisce, infatti, che gli Stati-parte adottano le misure legislative

necessarie per prevedere come reato secondo la propria legge interna gli illeciti indicati dall’art.

6, par. 1, lett. a) e b) (tra cui l’autoriciclaggio) della Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il

sequestro e la confisca dei proventi di reato, fatta a Strasburgo l’8 novembre 1990 (ratificata

dall’Italia con legge 9 agosto 1993, n. 328). Tuttavia, l’articolo 6, par. 2, lett. b), della stessa

Convenzione del 1990 prevede che gli Stati parte possano stabilire che del reato di riciclaggio

non possa essere chiamato a rispondere l’autore del reato presupposto, ove richiesto dai

principi fondamentali dell’ordinamento.

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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO NEL PANORAMA INTERNAZIONALE

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Analoga previsione è contenuta nell’art. 6 della Convenzione ONU contro il crimine organizzato

transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001 ed

oggetto di ratifica con legge 16 marzo 2006, n. 146.

Dalla possibilità – offerta da entrambe le Convenzioni – che, nel rispetto degli ordinamenti

giuridici degli Stati membri, si possa non punire per riciclaggio l’autore del reato presupposto

sembra derivare, ragionando a contrario, che la regola generale debba essere la sanzionabilità

dell’autoriciclaggio.

Nello stesso senso vanno richiamate le Raccomandazione del 2005 del Fondo Monetario

Internazionale (FMI). In particolare, il FMI suggerì all’Italia di introdurre il reato di autoriciclaggio

allineandosi alla legislazione dei paesi di common law (Stati Uniti; Canada, Inghilterra, e

Australia) nonché di alcuni Stati europei quali la Spagna, il Portogallo e la Svizzera.

Ancora, esplicitamente, la Risoluzione sulla criminalità organizzata nell’Unione Europea,

approvata dal Parlamento Europeo il 25 ottobre 2011 – oltre a prevedere l’eventuale punibilità

del riciclaggio a titolo colposo, chiede agli Stati membri «di inserire come obbligatoria (…) la

penalizzazione del cosiddetto autoriciclaggio, ovvero il riciclaggio di denaro di provenienza

illecita compiuto dallo stesso soggetto che ha ottenuto tale denaro in maniera illecita»

(Raccomandazione 41).

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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO NEI PRINCIPALI ORDINAMENTI EUROPEI

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La scelta di non punibilità dell’autore del reato presupposto nelle condotte di riciclaggio (o di

ricettazione) è scelta contingente, come dimostrato non solo dai numerosi disegni di legge

sull’autoriciclaggio, ma anche dal fatto che altri ordinamenti non hanno problemi a contestare

come riciclaggio le condotte successive ed ulteriori poste in essere dall’autore del primo fatto di

reato. In alcuni paesi il reato di autoriciclaggio è previsto espressamente nell’ordinamento

penale; in altri è stato ricavato in via esegetica dalla giurisprudenza sul delitto di riciclaggio.

Il servizio Biblioteca della Camera ha diffuso, il 28 novembre 2012, una documentazione,

nell’ambito delle “Note informative sintetiche” n. 39, relativa a “Il reato di autoriciclaggio in

Francia, Germania, Regno Unito e Spagna”.

Da tali note si apprende che solo la Spagna prevede espressamente il delitto di autoriciclaggio

(art. 301 c.p.); mentre nel Regno Unito esso viene fatto discendere dagli artt. 327-340 del

“Proceeds of Crime Act 2002”, anche se tale reato non viene espressamente menzionato. In

Germania si fa riferimento, ma con notevoli difficoltà interpretative ed applicative, alla generale

disposizione sul riciclaggio (§ 261 StGB). Per quanto concerne specificamente la

penalizzazione dell’autoriciclaggio, ovvero il riciclaggio di un oggetto di provenienza illecita

compiuto dallo stesso soggetto che ha conseguito tale oggetto in maniera illecita, il § 261 non

distingue espressamente tra questa fattispecie e il reato commesso da un terzo, per cui la

normativa antiriciclaggio può in teoria essere applicata a tutti gli autori del reato presupposto.

Ciò che rileva, infatti, è l’illegalità del fatto dal quale trae origine l’oggetto del riciclaggio, a

prescindere da chi abbia commesso il fatto illecito originario. Una regola speciale è, tuttavia,

rappresentata dal co. 9, secondo periodo, in base al quale un soggetto che sia stato punito per

aver concorso al reato principale non può essere punito allo stesso tempo anche per il

riciclaggio del denaro proveniente da tale illecito.

4.1. (Segue): Il reato di autoriciclaggio nei principali ordinamenti europei. Uno sguardo

in chiave comparatistica.

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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO NEI PRINCIPALI ORDINAMENTI EUROPEI

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Stando alla lettera, l’esplicita esclusione di una doppia punizione per i partecipanti al reato

presupposto non ha mancato di sollevare qualche dubbio in merito all’applicazione di tale

regola anche all’autore del reato, oltre che a coloro che vi hanno concorso. Il divieto della

doppia punizione (Verbot der Doppelbestrafung), sancito a livello costituzionale dall’art. 103,co.

3. della Legge fondamentale ed esplicitato nel già citato § 261, co. 9, del c.p., è stato anche

confermato da una decisione della Corte di cassazione federale nel 2009 (BGH, 18.02.2009 – 1

StR 4/09), la quale ha però stabilito la possibilità di condannare in Germania, per riciclaggio di

denaro, una persona condannata per corruzione in un altro Stato.

Nel Regno Unito la repressione del riciclaggio è regolata dal Proceeds of Crime Act 2002, le cui

disposizioni qualificano il reato di money laundering (artt. 327-340) senza tuttavia assegnare

risalto autonomo al fenomeno dell’autoriciclaggio. Il reato è costituito da tre fattispecie principali:

le condotte dirette ad occultare, trasformare, convertire o trasferire i proventi di attività

criminose al fine di consentirne la circolazione attraverso i normali canali di trasferimento della

ricchezza; gli accordi posti in essere per compiere tali operazioni; l’acquisizione e il possesso di

beni di origine illecita. Mette conto segnalare che la disciplina repressiva del riciclaggio è

formata altresì dalle Money Laundering Regulations 2007, con cui è stata data attuazione nel

Regno Unito alla direttiva 91/308/CEE del Consiglio del 10 giugno 1991 relativa alla

prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite.

Tale normativa (modificata dalle analoghe Regulations del 2012, attuative della direttiva

2005/60/CE) si applica nei confronti dei fornitori di servizi finanziari, sottoposti ad obblighi di

controllo, di monitoraggio e di segnalazione relativamente alle operazioni effettuate dai loro

clienti.

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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO NEI PRINCIPALI ORDINAMENTI EUROPEI

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Ma il dato che più di ogni altro merita di essere evidenziato è costituito dal fatto che nel Regno

Unito la prevenzione e la repressione del fenomeno intersecano le sfere di competenza di

diversi organismi – tra cui l’Office for Fair Trading (OFT), la Financial Services Autorithy (FSA),

la Serious Organised Crime Agency (SOCA), il Joint Money Laundering Steering Group

(JMLSG) e la Gambling Commission –, si inscrivono anche nel quadro di più ampie strategie di

contrasto, stante la sua pericolosità in ragione delle relazioni con il finanziamento delle attività

terroristiche. In questa prospettiva rileva segnalare, per completezza, la vigenza di restrizioni

poste ai movimenti finanziari da o verso determinati paesi o soggetti finanziari esteri, adottate in

base al Counter-Terrorism Act 2008 dal Tesoro (financial restrictions). Anche la Spagna prevede

espressamente il delitto di autoriciclaggio, punito ai sensi dell’art. 301 del c.p. La norma, a

differenza dei reati di ricettazione e favoreggiamento, ammette esplicitamente che il soggetto

attivo del riciclaggio possa essere l’autore del reato presupposto. Tale norma prevede, infatti,

che colui che acquisti, possieda, utilizzi, converta o trasmetta beni sapendo che essi sono

provenienti da un’attività delittuosa, commessa da lui stesso o da terzi, o esegua qualsiasi altro

atto per occultare o mascherare la loro provenienza illecita o per aiutare la persona coinvolta

nel reato o nei reati a sottrarsi alle conseguenze giuridiche delle sue azioni, è punito con la

reclusione da sei mesi a sei anni e con la multa corrispondente a tre volte il valore dei beni. Il

giudice, tenuto conto della gravità del fatto e delle circostanze personali del colpevole, può

anche imporre la pena dell’inabilitazione speciale dall’esercizio della professione o industria per

un periodo da 1 a 3 anni, nonché la misura della chiusura temporanea o definitiva degli

stabilimenti o sedi. Se la chiusura è temporanea, la sua durata non può superare i 5 anni. Nel

codice portoghese è rinvenibile analogo assetto di disciplina, mentre i reati di ricettazione e di

favoreggiamento (artt. 231 e 232) sono applicabili solo all’extraneus, il reato di riciclaggio

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IL REATO DI AUTORICICLAGGIO NEI PRINCIPALI ORDINAMENTI EUROPEI

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(art. 368-A), a seguito delle modifiche apportate dalla legge 27 marzo 2004, n. 11, risulta

applicabile anche all’autore del fatto presupposto. La norma nulla dispone quanto ai possibili

soggetti attivi del reato. Il reato di riciclaggio è contemplato anche nel caso di proventi generati

da reati presupposto punibili con una pena detentiva non inferiore a 6 mesi, indipendentemente

dal limite massimo ovvero punibili con una pena detentiva superiore 5 anni, indipendentemente

dal minimo. In Belgio una previsione similare è contenuta nell’art. 505 del c.p.

Nell’ordinamento elvetico, l’art. 305-bis del c.p., collocato nell’ambito dei “crimini o delitti contro

l’amministrazione della giustizia”, contempla la fattispecie del riciclaggio di denaro in capo a

chiunque compia un atto idoneo a vanificare l’accertamento dell’origine, il ritrovamento o la

confisca di valori patrimoniali, sapendo o dovendo presumere che provengano da un crimine. In

Svizzera il reato di riciclaggio è punibile anche nel caso in cui il reato principale sia stato

commesso all’estero, sempre che sia considerato illecito penale.

In Francia, infine, nell’ambito della definizione del reato di riciclaggio, di cui all’art. 324-1 del

Code pénal, l’autoriciclaggio non è previsto in modo espresso, ma la Corte di Cassazione

francese, con la sentenza del 14 gennaio 2004, innovativa rispetto alla giurisprudenza

precedente, ha dichiarato applicabile la disposizione del codice anche all’autore del reato

d’origine, che quindi può essere considerato “blanchisseur” nel momento in cui compie

operazioni di riciclaggio del prodotto del reato da lui stesso commesso: pronuncia, peraltro,

oggetto di discussioni e di critiche, specie sotto il profilo del principio di legalità e di tassatività

della fattispecie. La Suprema Corte muove dal presupposto che non vi sia incompatibilità tra

reato presupposto e riciclaggio, qualora la condotta rientri in una delle fattispecie di cui all’art.

324-1, co. 2, c.p., ossia di apportare un contributo alla collocazione, dissimulazione o

conversione del prodotto diretto o indiretto di un crimine o delitto.

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LA PUNIBILITÀ DELL’AUTORICICLAGGIO NELLA PROSPETTIVA DOTTRINALE E GIURISPRUDENZIALE

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Infine, tra gli ordinamenti che di recente hanno introdotto la punibilità dell’autoriciclaggio, va

menzionato la Città del Vaticano che, con la legge del 30 dicembre 2010, n. 127 (entrata in

vigore il 1° aprile 2011) avente ad oggetto la “Prevenzione e il contrasto del riciclaggio dei

proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo”, si è dotata di una disciplina

interna per la prevenzione ed il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario,

allineandosi così alle direttive generali fissate a livello internazionale e comunitario.

5. La punibilità dell’autoriciclaggio nella prospettiva dottrinale e giurisprudenziale.

Come all’estero anche in Italia la dottrina ha per lungo tempo ritenuto non configurabile il delitto

di autoriciclaggio sul rilievo che esso costituisca il post crimen patratum (che interviene cioè

dopo la conclusione dell’attività criminosa) del reato presupposto, rappresentandone la naturale

prosecuzione e quasi il perfezionamento.

Si è già rimarcato che nel nostro ordinamento l’autoriciclaggio non costituisce un’autonoma

fattispecie penale sulla base dell’assunto di teoria generale secondo cui l’utilizzazione dei beni

di provenienza illecita da parte degli stessi autori che hanno partecipato alla realizzazione del

reato presupposto rappresenta la continuazione della condotta criminosa di quest’ultimo reato.

Il termine auto riciclaggio non viene impiegato per indicare una species del genus-riciclaggio,

ma solo per indicare una peculiarità secondo cui il reato di riciclaggio può essere commesso

solo da colui che sia del tutto estraneo al fatto di reato che ha determinato l’arricchimento

illecito. In sostanza, l’offensività della condotta di autoriciclaggio sarebbe di per sé già

sanzionata nel momento in cui viene punita la condotta dalla quale è scaturito l’arricchimento.

Ci troviamo, quindi, in un caso di applicazione del principio del ne bis in idem, secondo il quale

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LA PUNIBILITÀ DELL’AUTORICICLAGGIO NELLA PROSPETTIVA DOTTRINALE E GIURISPRUDENZIALE

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non si può essere puniti due volte per lo stesso fatto, sulla base di una logica riconducibile al

concetto di consunzione. In altre parole, la improvvisa e fuorviante “neutralizzazione” dei

connotati obiettivi del fatto di riciclaggio ne amplia oltremodo l’ambito operativo e implica un bis

in idem sostanziale tra fatto presupposto e fatto accessorio. Secondo tale principio la

repressione del fatto antecedente (il reato presupposto) esaurirebbe il disvalore complessivo e

il relativo bisogno di sanzione da parte dell’ordinamento, dal momento che il fatto successivo,

seppur consistente in operazioni di occultamento o trasformazione dei proventi illeciti,

rappresenterebbe solo un normale sviluppo della condotta precedente; ne consegue, pertanto,

che il fatto successivo non sarebbe autonomamente punibile. La previsione della punibilità

dell’autoriciclaggio incontrerebbe, nondimeno, alcune difficoltà di tipo oggettivo e/o dogmatico.

Una prima contrarietà discenderebbe dalla constatazione, poc’anzi richiamata, che le ulteriori

operazioni poste in essere dall’autore del reato presupposto per ostacolare l’identificazione

della provenienza delittuosa dei beni e del denaro rappresenterebbero la naturale prosecuzione

degli stessi reati presupposto. In quanto tali, esse darebbero, pertanto, luogo soltanto a un

mero post factum, non avente un autonomo disvalore e quindi assorbito nella fattispecie del

reato presupposto. Oppure sarebbero configurabili come parti della condotta dello stesso reato

presupposto, quindi non punibili in ossequio al principio del ne bis in idem sostanziale, per cui

nessuno può essere punito due volte per lo stesso fatto. La tesi non pare condivisibile perché in

contrasto con i criteri che regolano il concorso di norme e segnatamente con i postulati dell’art.

15 c.p. che disciplina, nell’ambito del diritto penale, il principio di specialità. Tale criterio

consente, ogniqualvolta uno stesso fatto risulti, prima facie, sussumibile in due o più fattispecie

astratte, di escludere la contemporanea applicazione di più disposizioni incriminatrici. In

particolare, attraverso il meccanismo previsto dalla disposizione in esame, il diritto penale

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LA PUNIBILITÀ DELL’AUTORICICLAGGIO NELLA PROSPETTIVA DOTTRINALE E GIURISPRUDENZIALE

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garantisce l’applicazione della regola del ne bis in idem, per il quale il reo non può essere

punito per più di una volta in relazione al medesimo fatto. Anche la giurisprudenza allo stato

esclude categoricamente la configurabilità del delitto di autoriciclaggio non per le ragioni

addotte da quella parte della dottrina cui si è fatto riferimento, ma più semplicemente per effetto

della clausola di riserva che impedisce qualsivoglia spazio interpretativo.

Utile ai fini del presente discorso è la sentenza della Cassazione Pen., Sez. V, 10 gennaio – 28

febbraio 2007, n. 8432, che, ribadendo l’esclusione della punibilità per il concorrente nel reato

presupposto rispetto al riciclaggio, afferma che il medesimo soggetto «non può essere chiamato

a rispondere di tale successiva attività, fatta rientrare nel post-factum non punibile, attraverso la

clausola di riserva introdotta nell’art. 648-bis c.p. (…) Peraltro, per distinguere il concorrente dal

riciclatore non basta il ricorso al criterio temporale, giacché occorre, in più, che si proceda a

verificare, caso per caso, se la preventiva assicurazione di lavare il denaro abbia realmente

influenzato o rafforzato, nell’autore del reato principale, la decisione di delinquere, così da

qualificarsi come contributo causale». Le clausole di riserva inserite dal legislatore nelle

previsioni di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p. non sono espressione del riconoscimento di una

progressione criminosa in cui è lo stesso bene giuridico ad essere oggetto di successive

condotte lesive, in cui la seconda assorbe necessariamente la prima.

Piuttosto le suddette clausole sono frutto di una scelta legislativa che riconosce l’esistenza di

una modalità operativa standard, secondo il principio dell’id quoad plerumque accidit, in cui

l’arricchimento, derivante dal reato presupposto e assicurato all’autore mediante condotte

riciclative, costituisce il normale sviluppo, ovvero la prosecuzione o il naturale sbocco, della

condotta penalmente rilevante costituita dal reato presupposto. Sicché, secondo la

giurisprudenza, per l’autore e\o il concorrente del reato presupposto non è ipotizzabile la

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LA PUNIBILITÀ DELL’AUTORICICLAGGIO NELLA PROSPETTIVA DOTTRINALE E GIURISPRUDENZIALE

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punibilità anche per la condotta riciclante: la formula utilizzata dal legislatore, in cui il riferimento

non è al ricorso di un reato più grave, ma in maniera diretta alla identità dell’autore (mediato o

immediato) del reato presupposto – sia in forma monosoggettiva che concorsuale –, esclude

ogni interpretazione sui profili concreti delle condotte realizzate, ogni analisi strutturale delle

fattispecie, rispetto ad una esclusione di punibilità essenzialmente incentrata sul contributo

causale del reo rispetto ad entrambe le fattispecie criminose. Destino analogo per le

responsabilità dell’associato rispetto ai reati di cui agli artt. 648-bis e 648-ter, per condotte

riciclative di proventi derivanti dall’associazione stessa o da uno dei reati fine cui l’associato non

abbia partecipato: in entrambi i casi, e con particolare riferimento ai reati di cui all’art. 416-bis

c.p., potendo l’associazione costituire il presupposto del riciclaggio – posto che tra gli scopi

dell’associazione vi è anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite

utilizzando il metodo mafioso – il partecipe, proprio in virtù di tale consapevolezza e del suo

contributo di sostegno al sodalizio mafioso, non potrebbe rispondere delle successive attività di

riciclaggio, già contemplate e ricomprese , nella sua adesione associativa).

Sul punto la Cassazione Penale afferma la possibilità di rispondere di riciclaggio dei proventi

associativi in presenza di una assoluzione per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p., costituente

valido reato presupposto del delitto di cui all’art. 648-bis, essendo esclusa in radice l’ipotesi

concorsuale. La necessità del superamento della vigente clausola di riserva è emersa

soprattutto di fronte ad oggettive difficoltà in sede processuale «in estrema sintesi, riconducibili

alla esigenza di dimostrare sul piano probatorio, allo stesso tempo, la consapevolezza della

illecita origine del denaro “sostituito o trasferito”» e la contestuale estraneità del soggetto

agente alla commissione del reato da cui lo stesso denaro proviene. «Il venir meno di questa

seconda condizione comporta infatti, il più delle volte, che la originaria contestazione si traduca

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LA PUNIBILITÀ DELL’AUTORICICLAGGIO NELLA PROSPETTIVA DOTTRINALE E GIURISPRUDENZIALE

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in ipotesi di concorso nella commissione del reato presupposto». Non sono mancati, del resto,

tentativi esegetici di segno contrario. Tra questi merita menzione quello oggetto di una

recentissima sentenza dei Giudici di legittimità. La Procura presso il Tribunale di Cuneo

esercitava l’azione penale per il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione a carico di un

promotore finanziario, che al contempo veniva imputato di riciclaggio ex art. 48 c.p., per aver

indotto un’incolpevole quasi centenaria a sottoscrivere una polizza assicurativa grazie alla

quale era stato riciclato il danaro provento della bancarotta. Il G.u.p. dichiarava non doversi

procedere per il delitto di riciclaggio per via della clausola di riserva contenuta nell’articolo 648-

bis c.p. La Procura ricorreva per cassazione, lamentando la disapplicazione dell’articolo 48 c.p.,

ma la Cassazione rigettava il ricorso affermando il principio di diritto secondo il quale la clausola

di riserva ex art. 648 bis c.p. non consente – a prescindere da ogni altra considerazione – la

configurazione del delitto di autoriciclaggio. Nell’occasione la Cassazione (Cass. Pen., Sez. II,

23.1.2013 (dep. 27.2.2013), n. 9226) ha, pertanto, statuito un importante principio di

diritto: «colui che abbia commesso il reato presupposto non può essere ritenuto punibile anche

del reato di riciclaggio per avere sostituito o trasferito il provento del reato presupposto: infatti,

non essendo configurabile il delitto di autoriciclaggio, diventano del tutto irrilevanti, ai fini

giuridici, le modalità con le quali l’agente abbia commesso l’autoriciclaggio, sia che il

medesimo sia avvenuto con modalità dirette sia che sia avvenuto, ex art. 48 c.p., per

interposta persona e cioè per avere l’agente tratto in inganno un terzo autore materiale del

riciclaggio».

Sicché, quale che sia l’inquadramento dogmatico preferibile in ordine all’art. 48 c.p. (che

disciplina la responsabilità penale del soggetto il quale ha esercitato l’inganno.

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ALCUNI PROFILI PROBLEMATICI

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È previsto, infatti, che del fatto commesso dall’autore immediato – incolpevole perché in errore

–, risponda l’autore mediato (cioè colui che volontariamente l’abbia indotto in errore) resta il

fatto che la clausola di esonero della responsabilità con cui esordisce l’art. 648-bis c.p.

impedisce che una stessa persona possa essere chiamata a rispondere tanto del reato

da cui proviene il provento da riciclare, quanto del riciclaggio di quel provento. E a nulla

rileva, in senso contrario, la circostanza che il riciclaggio sia stato realizzato per “interposta

persona”.

5.1. (Segue): Alcuni profili problematici.

Il piano problematico cui la riflessione conduce è legato a principi di doppia punibilità. Una più

aggiornata rivisitazione della materia consente, peraltro, di affermare che il fenomeno del

riciclaggio ricomprende la fase del placement (“piazzamento”, “collocamento” dei proventi

illeciti), del layering (“stratificazione”, consistente in operazioni finanziarie finalizzate a separare

i capitali illeciti dalla propria matrice) e dell’integration (consistente nell’ “integrazione” dei

proventi “ripuliti” nei circuiti dell’economia lecita, attraverso investimenti o l’esercizio di attività

imprenditoriali). Sembra dunque inutile (e foriero – com’è sino ad ora avvenuto nella pratica – di

generare problemi di punibilità) separare le fattispecie, lasciando di conseguenza che la causa

di esclusione della punibilità (venuta meno per l’autore del reato presupposto con il disegno di

legge in questione) resti vigente nella fattispecie di cui all’art. 648-ter c.p. per colui che abbia

realizzato condotte ricomprese nella previsione di cui all’art. 648-bis c.p. Se il riciclaggio

consiste (alternativamente o cumulativamente) in una pluralità di condotte, chi realizzi anche

una soltanto di esse è da considerare comunque autore di quel delitto: ciò agevola ovviamente

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la comprensione di fenomeni complessi, come quelli che coinvolgono una pluralità di soggetti di

volta in volta impiegati nella sostituzione o nell’investimento di disponibilità finanziarie

nell’ambito di organizzazioni criminali ove i ruoli dei soggetti che operano in quel campo

appaiono mutevoli a seconda delle contingenti necessità. Il riciclaggio è considerato tale anche

se le attività che hanno generato i beni da riciclare si sono svolte nel territorio di un altro Stato

comunitario o di un Paese terzo. La conoscenza, l’intenzione o la finalità, che debbono

costituire un elemento degli atti di cui al co. 1, possono essere dedotte da circostanze di fatto

obiettive. Anche sotto tale profilo, dunque, il richiamo al predetto testo normativo è stato utile

nella costruzione di una fattispecie che contempli pure l’ipotesi dell’autoriciclaggio. Tuttavia, se

emerge un’effettiva necessità di rileggere in chiave unitaria le operazioni di riciclaggio (quelle

cioè che tramite “ripulitura” consentono il successivo impiego di proventi illeciti come “naturale

prosecuzione, quasi un perfezionamento” della condotta illecita), non manca chi al contempo

paventa conseguenze preoccupanti a seguito della punibilità per riciclaggio dell’autore del

delitto-presupposto. Una prima difficoltà deriva dalla constatazione che la punibilità

dell’autoriciclaggio costringerebbe l’autore del reato presupposto ad astenersi dal compiere

operazioni volte a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni,

esponendolo per questa via a un maggior rischio di essere scoperto. La fattispecie di

autoriciclaggio risulterebbe, pertanto, in contrasto con il principio generale per cui nemo tenetur

se detegere, in virtù del quale nessuno può essere tenuto ad auto incriminarsi.

Una seconda difficoltà, legata alla prima, discende, poi, dalla constatazione che la punibilità

dell’autoriciclaggio potrebbe assoggettare l’autore del reato presupposto all’irrogazione di una

pena non correlata alla gravità di quest’ultimo.

Tale considerazione porta a due ulteriori riflessioni. In primis, ove fosse ammissibile la

ALCUNI PROFILI PROBLEMATICI

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fattispecie autonoma dell’autoriciclaggio (ad esempio eliminando l’incipit dell’art. 648-bis)

l’elevata pena prevista per quest’ultimo sarebbe maggiore e di gran lunga sproporzionata

rispetto alle pene, più miti, di tanti reati-base contro il patrimonio, venendo a ledere quel

principio di ragionevolezza di pena pure costituzionalmente rilevante. E non basterebbe

invocare la circostanza attenuante ad effetto comune di cui al co. 3, posto che, comunque, si

giungerebbe agli otto anni di reclusione, ben più elevati rispetto alla pena massima del reato

presupposto (inferiore ai cinque anni). In secundis, stante l’ampiezza della previsione, il reato di

auto riciclaggio assurgerebbe pressoché ad automatica causa di aggravamento della

responsabilità, indipendente dal disvalore rinvenibile nell’impiego del bene o dagli effetti ad

esso ricollegabili. In tale prospettiva, quasi tutti i reati, e in particolare quelli contro il patrimonio,

andrebbero letti come se alla cornice di pena in essi prevista si associasse inevitabilmente

l’ulteriore pena del riciclaggio: esito, questo, – si fa notare – forse da taluni apprezzabile sul

piano della prevenzione generale ma certamente disastroso per la razionalità del sistema,

anche alla luce della severità delle pene applicabili Se, dunque, il postfatto dell’autoriciclaggio è

la normale esplicazione del reato presupposto, commesso per goderne i frutti, stabilirne una

fattispecie criminosa autonoma significherebbe renderla presente o richiamabile pressoché in

ogni reato contro il patrimonio, raddoppiandone le fattispecie, ovvero, tutt’al più, nel contesto

della continuazione, ove la pena, però, potrebbe raggiungere anche il triplo di quella base (art.

81, co. 2, c.p.). Nel suo fondamento costituzionale e nella direttrice della «proporzione» tra

pena e valore tutelato, il principio nel merito è invocato per evidenziare «l’eccessiva rigidità del

sistema», cui darebbe luogo la soppressione della clausola, tale da integrare una «possibile

violazione» del principio stesso di offensività, a fronte di un eccessivo rigore sanzionatorio.

ALCUNI PROFILI PROBLEMATICI

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A quanto sopra si aggiunga, poi, che il riferimento alle condotte di “sostituzione” e

“trasferimento” di cui all’art. 648-bis c.p., se è di più agevole percezione nel caso di riciclaggio,

in ragione della “terzietà” del riciclatore rispetto all’autore del reato presupposto, può apparire

fuorviante nel caso dell’autoriciclaggio, a motivo del carattere non adeguatamente qualificato

sul piano funzionale delle stesse. La sostituzione e il trasferimento di beni o denaro potrebbero,

infatti, avvenire non solo per ostacolarne l’identificazione della provenienza delittuosa, ma

anche per rispondere a immediate esigenze di consumo, come nel caso di chi “sostituisca” del

denaro con il bene acquistato o “trasferisca” un bene all’estero. Da ultimo, l’effettiva punibilità

dell’autoriciclaggio potrebbe incontrare un limite in termini di prescrizione non adeguatamente

lunghi, mentre trarrebbe sicuro giovamento dall’utilizzabilità delle intercettazioni,

dall’applicabilità della pena su richiesta delle parti, dall’inclusione nel novero dei reati per i quali

è prevista la responsabilità degli enti ai sensi della legge n. 231 del 2001.

Secondo altra dottrina, le operazioni di autoriciclaggio non costituiscono la frazione terminativa

della condotta del reato presupposto e non violano il principio del ne bis in idem sostanziale

laddove siano punite autonomamente.

In altri termini, il delitto madre e quello di autoriciclaggio non versano in rapporto di concorso

apparente (non c’è, dunque, unicità dei reati) perché il secondo costituisce un quid pluris

indipendente: la condotta di “lavaggio” è, infatti, estranea al perimetro tratteggiato dalla

fattispecie a monte. Il concorso apparente di norme ricorre quando, prima facie, l’insieme delle

azioni od omissioni poste in essere dall’agente sia astrattamente sussumibile sotto diverse

norme penali, ma, in concreto, una sola di esse è effettivamente applicabile. In altre parole, si

ha (una non pluralità, ma) un’unicità di reati. Tre i presupposti che ricorrono nell’istituto in

oggetto: la pluralità di norme incriminatrici, tra loro non in antinomia; l’identità del fatto

ALCUNI PROFILI PROBLEMATICI

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incriminato; la circostanza per cui solo una di queste norme è, concretamente, applicata.

A giudizio della dottrina, le difficoltà sopra richiamate appaiono, nondimeno, superabili

attraverso una corretta formulazione della norma incriminatrice. In termini generali, il fenomeno

del riciclaggio, incluso quindi l’autoriciclaggio, rappresenta, in ragione delle sue crescenti

dimensioni e del grave impatto sul tessuto imprenditoriale e sociale, una minaccia non solo e

non tanto per il bene patrimonio quanto piuttosto per il corretto e ordinato svolgimento delle

attività economiche e finanziarie, nonché per l’amministrazione della giustizia. In quest’ottica,

pertanto, la condotta di autoriciclaggio, lungi dal configurarsi come frazione del reato

presupposto ovvero come un mero post factum avente il solo effetto di ostacolare il

disvelamento del reato presupposto, si configura piuttosto come una nuova e diversa condotta,

connotata da un autonomo e grave disvalore, in quanto tale meritevole di autonoma sanzione.

Al fine di conseguire un adeguato contemperamento con le esigenze di rispetto dei richiamati

principi generali, matura la convinzione che la punibilità dell’autoriciclaggio possa efficacemente

conseguire alla previsione di un’autonoma fattispecie di reato:

i) da includere, unitamente alla fattispecie di riciclaggio, in apposito capo dedicato ai delitti

contro l’ordine economico e finanziario ovvero contro l’amministrazione della giustizia;

ii) che valorizzi, sotto il profilo materiale della condotta, la natura essenzialmente finanziaria e la

connotazione intrinsecamente fraudolenta delle operazioni, se del caso anche attraverso

l’inclusione di apposite norme definitorie all’interno della stessa fattispecie;

iii) che attribuisca centralità, sotto il profilo teleologico della condotta, non tanto e non solo alla

finalità di ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni quanto soprattutto a

quella del loro investimento in attività economiche o finanziarie, essendo il vero disvalore della

condotta rappresentato dalla “concorrenza sleale” derivante dall’impiego di capitali illeciti;

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I PRINCIPALI TENTATIVI DI CODIFICAZIONE DEL REATO DI AUTORICICLAGGIO IN ITALIA

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iv) che escluda, conseguentemente, la punibilità degli autori del reato presupposto per i

comportamenti diretti a consentire loro il godimento dei relativi proventi riducendo entro limiti

ragionevoli il rischio di essere scoperto;

v) che conduca all’applicazione nei confronti degli autori dell’autoriciclaggio di pene

proporzionate alla gravità delle condotte.

6. I principali tentativi di codificazione del reato di autoriciclaggio in Italia.

Sulla scorta di queste sollecitazioni non sono mancati ripetuti tentativi di riforma mai recepiti in

via definitiva dal legislatore. Basta un veloce screening degli atti parlamentari per avvedersi che

gran parte degli sforzi volti a introdurre il delitto di autoriciclaggio si sono compendiati nella

soppressione della clausola “fuori dei casi di concorso nel reato” presente negli articoli 648-bis

e 648-ter c.p.

Il dibattito sull’opportunità di giungere alla punizione penale dell’autoriciclaggio è da tempo

giunto nelle aule parlamentari.

Nel corso delle passate legislature sono state assunte varie iniziative, tra le quali spiccano due

disegni di legge presentati al Senato. Le proposte legislative più rilevanti sono:

- il d.d.l. governativo n. 4705 recante “disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina

dei mercati finanziari” del 2004;

- il d.d.l. n. 583 del 2008, recante “disposizioni in materia di reati di grave allarme sociale e di

certezza della pena”;

- il d.d.l. n. 733-bis (stralcio del n. 733 “in materia di sicurezza pubblica” del 2009 – di origine

governativa) prevede di modificare l’art. 648-bis attraverso la soppressione nel primo comma

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I PRINCIPALI TENTATIVI DI CODIFICAZIONE DEL REATO DI AUTORICICLAGGIO IN ITALIA

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della cd clausola di riserva (“fuori dei casi di concorso nel reato”) e l’introduzione di un nuovo

quinto comma secondo cui <<le disposizioni di cui ai commi che precedono si applicano anche

nei confronti della persona che ha concorso nel reato presupposto, salvo che per gli atti di

godimento che non eccedano l’uso dei beni secondo la loro naturale destinazione ovvero in

caso di utilizzo del denaro, dei beni o delle altre utilità provento del reato presupposto per

finalità non speculative, imprenditoriali o commerciali>>.

- il d.d.l. n. 1445 dello stesso anno, recante “modifiche degli articoli 648-bis e 648-ter del

codice penale in materia di autoriciclaggio, nonché nuove disposizioni in materia di prevenzione

applicabili agli strumenti finanziari”, che, soppresso l’incipit, riformulava la norma nei seguenti

termini: «chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non

colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare

l’identificazione della loro provenienza delittuosa, ovvero, fuori dei casi previsti dall’articolo 648,

impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto è

punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 1.032 a euro 15.493»;

- il d.d.l. n. 1454 e n. 1629, sempre del 2009.

Da ultimo, si segnala che la punizione dell’autoriciclaggio è stata inserita in alcuni emendamenti

che erano stati presentati al c.d. “ddl. anticorruzione” (AS 2156), in discussione al Senato.

Senza dimenticare le ultime proposte di legge della scorsa legislatura tutte del 2010: n. 3145

(on. Bersani ed altri): n. 3872 (on. Naccarato e Fiano) e la n. 3986 (on. Torrisi), il cui articolo

unico prevedeva la soppressione della nota clausola di riserva.

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L’INTRODUZIONE DI UNA FATTISPECIE «UNIFICATA» DI RICICLAGGIO E AUTORICICLAGGIO

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7. L’introduzione di una fattispecie “unificata” di riciclaggio e autoriciclaggio.

Nella realtà del diritto esistente la disciplina si articola su due fronti: nel codice penale si rivolge,

per il tramite degli artt. 648-bis e 648-ter c.p., agli autori del reato, e nel d.lgs. 21 novembre

2007, n. 231, recante attuazione della direttiva 2006/70/CE e della direttiva 2005/60/CE

concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei

proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo, interpella quanti sono investiti

dall’ordinamento di obblighi di collaborazione attiva nel contrasto al fenomeno del riciclaggio.

Dal punto di vista amministrativo, per usare la stessa formula utilizzata dal Governatore Draghi,

«l’autoriciclaggio è un fenomeno già conosciuto dal legislatore italiano». Il d.lgs. n. 231 del

2007 all’art. 2 (“Definizioni di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo e finalità del decreto”)

non contiene nessun riferimento al fatto che la condotta non debba essere stata compiuta

dall’autore del reato presupposto, per cui gli intermediari finanziari e non finanziari (notai,

avvocati, agenti immobiliari) debbono segnalare alle autorità preposte le operazioni sospette

anche in riferimento a quelle poste in essere dall’autore del reato presupposto. Pertanto, come

si è già anticipato, l’autoriciclaggio non rappresenterebbe una novità assoluta per il nostro

ordinamento. Per la verità, detta disposizione definisce il “riciclaggio” come la conversione o il

trasferimento di beni, effettuati essendo a conoscenza che essi provengono da un’attività

criminosa o da una partecipazione a tale attività, allo scopo di occultare o dissimulare l’origine

illecita dei beni medesimi, o di aiutare chiunque sia coinvolto in tale attività a sottrarsi alle

conseguenze giuridiche delle proprie azioni, nonché l’occultamento o la dissimulazione della

reale natura, provenienza, ubicazione, disposizione, movimento, proprietà dei beni o dei diritti

sugli stessi, effettuati essendo a conoscenza che tali beni provengono da un’attività criminosa o

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L’INTRODUZIONE DI UNA FATTISPECIE «UNIFICATA» DI RICICLAGGIO E AUTORICICLAGGIO

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da una partecipazione a tale attività. Rientrano in tale condotta anche l’acquisto, la detenzione

o l’utilizzazione di beni essendo a conoscenza, al momento della loro ricezione, che tali beni

provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività, nonché la

partecipazione ad uno degli atti di cui sopra, l’associazione per commettere tale atto, il tentativo

di perpetrarlo, il fatto di aiutare, istigare o consigliare qualcuno a commetterlo o il fatto di

agevolarne l’esecuzione. Risulta quindi evidente come, rispetto all’origine delittuosa dei capitali

oggetto di movimentazione ed ai fini degli obblighi di segnalazione in capo agli intermediari

finanziari e non finanziari, l’elemento nuovo introdotto dal legislatore del 2007, rispetto alla

tradizionale nozione penalistica, consista nella mancanza dell’inciso «fuori dei casi di concorso

nel reato». È evidente, del resto, come rispetto alla fattispecie penale non si ponga il problema

dell’estraneità del cliente rispetto all’origine delittuosa dei capitali oggetto di

trasferimento/movimentazione. L’introduzione nel nostro ordinamento di una fattispecie unificata

di riciclaggio e autoriciclaggio consentirebbe di allineare le nozioni penale e amministrativa di

riciclaggio, come da tempo auspicato non solo a livello domestico, ma anche dal Fondo

Monetario Internazionale (2005). Lo chiedono, in Italia, la Banca d’Italia, la Procura Nazionale

Antimafia, la Guardia di Finanza. La mancanza di questo reato, impedisce di “inseguire” i beni

frutto di attività illecita, ostacola la confisca per equivalente (ossia di beni equivalenti per valore,

a quelli sottratti). L’art. 2 del d.lgs. 231/2007 contiene un’ampia definizione di riciclaggio, che –

anche se finalizzata alla materia disciplinata da quella specifica normativa – non può in qualche

modo non influenzare anche le scelte del legislatore nel settore penale. Non esiste però, com’è

noto, nel catalogo dei beni-interesse considerati espressamente nella parte speciale del codice

penale, il bene giuridico collegato all’integrità del sistema finanziario, per cui appare non

agevole – nella riformulazione della disposizione in tema di riciclaggio – trovare per tale

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L’INTRODUZIONE DI UNA FATTISPECIE «UNIFICATA» DI RICICLAGGIO E AUTORICICLAGGIO

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fattispecie un’autonoma collocazione. Si è quindi ipotizzata una integrazione del Titolo VIII del

Libro II del codice penale, introducendo un Capo IV relativo ai delitti contro l’economia pubblica,

l’industria e il commercio, includendo anche fattispecie di reato che si riferiscono all’incidenza

sul sistema delle relazioni economiche derivante dalla circolazione di ricchezze di provenienza

illecita. Un primo rilievo, di carattere generale, riguarda la collocazione sistematica della norma

in materia di riciclaggio. In realtà, le ormai consolidate osservazioni di tipo criminologico

dimostrano che le attività di riciclaggio e di reinvestimento incidono in misura sensibile sul

sistema economico nel suo complesso, con specifico riguardo al settore finanziario, utilizzato

dal crimine organizzato per l’allocazione più conveniente delle risorse patrimoniali illecitamente

conseguite. Come è facilmente intuibile, a creare il problema è, dunque, il primo inciso

dell’art. 648-bis c.p. «fuori dai casi di concorso nel reato»: perché ai fini dell’integrazione della

condotta criminosa è essenziale che il riciclatore sia estraneo al fatto illecito il cui frutto è il

denaro o il bene riciclato e conosca la provenienza delittuosa di ciò che sostituisce o

trasferisce. Per giunta, se tale inciso venisse espunto dall’art. 648-bis c.p., oltre ad

introdurre la punibilità del reato di auto riciclaggio, si determinerebbe un ampliamento

dell’applicazione della fattispecie di reato, estendendola a tutte le operazioni sospette,

anche quelle perpetrate in prima persona.

I predetti artt. 648-bis e 648-ter, a questo punto, uscirebbero dal novero dei delitti contro il

patrimonio in cui attualmente sono inseriti, per entrare in quello, che loro più si confà, dei delitti

contro l’ordine economico (ed anche pubblico, se si vuole), per le evidenti alterazioni che siffatti

delitti determinano nei circuiti economici e finanziari, nonché per la ormai accentuata ed

istituzionalizzata liaison degli stessi con il crimine organizzato.

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LA PROPOSTA ELABORATA DALL’UNITÀ DI INFORMAZIONE FINANZIARIA

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7.1. (Segue): La proposta elaborata dall’Unità di Informazione Finanziaria.

Muovendo da tali premesse è possibile delineare una nuova formulazione della fattispecie

incriminatrice unificata di riciclaggio, sistematicamente collocata nel codice penale, insieme ad

un corollario di norme, di cui talune innovative in tema di pene accessorie, di responsabilità

degli enti, di scambi informativi, di intercettazioni preventive e di agenti di copertura mentre altre

già esistenti e richiamate per motivi di collocazione sistematica, come le misure di aggressione

patrimoniale.

In quest’ottica merita una trattazione a parte la proposta di modifica normativa elaborata

dall’Unità di Informazione Finanziaria, anch’essa rivolta a soddisfare l’esigenza di attribuire

rilevanza penale all’autoriciclaggio.

La proposta, oltre a calibrare la punizione edittale in funzione della gravità della condotta,

intende anche superare l’artificiosa distinzione tra reato di riciclaggio (art. 648-bis) e reato di

impiego (art. 648-ter), fonte di notevoli problemi applicativi e di dubbi posti anche dalla dottrina

penalistica. Le condotte, attualmente distinte in due fattispecie di reato, verrebbero pertanto

unificate in un’unica fattispecie riassuntiva. In tale contesto – alla luce dei dubbi avanzati dalla

dottrina circa la plurioffensività del reato di riciclaggio – andrebbe anche valutata l’opportunità di

collocare la nuova fattispecie non più tra i delitti contro il patrimonio (Titolo XIII) ma in un diverso

Titolo del Libro II del codice penale, quale ad esempio quello dei “delitti contro l’economia

pubblica, l’industria e il commercio” (Titolo VIII).

Rispetto alla formulazione vigente, le principali innovazioni presenti nella proposta riguardano:

- la soppressione della ripetuta clausola di riserva “fuori dei casi di concorso nel reato”,

contemplata in tutte le proposte normative tese alla “penalizzazione” dell’autoriciclaggio;

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LA PROPOSTA ELABORATA DALL’UNITÀ DI INFORMAZIONE FINANZIARIA

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- l’assorbimento della fattispecie di impiego, come detto, con conseguente abrogazione dell’art.

648-ter e modifica della rubrica; la soppressione del riferimento ai delitti “non colposi”

(contenuta nell’attuale art. 648-ter), giustificata dalla circostanza che ben difficilmente le attuali

figure di reati colposi potrebbero costituire presupposto della condotta di riciclaggio;

- il leggero innalzamento della multa, giustificato anche dall’esigenza di arrotondamento

all’euro.

La proposta è basata sulla previsione di una pena analoga a quella attuale a carico di chi non

concorra alla commissione del reato presupposto, con la riproposizione della circostanza

attenuante già vigente (co. 1 e 2) e di una pena inferiore a carico di chi abbia commesso o

concorso a commettere il reato presupposto (co. 3).

All’esito di una riflessione criminologica, in effetti, le condotte di sostituzione e trasferimento di

cui all’art. 648-bis c.p. e quella di investimento di cui all’art. 648-ter c.p., lungi dall’essere

concettualmente e funzionalmente distinte, sembrano piuttosto essere riconducibili ad un’unica

più ampia condotta, consistente nel compiere operazioni volte a ostacolare l’identificazione

della provenienza delittuosa di beni o denaro o altre utilità allo scopo di consentirne,

alternativamente, il consumo o l’investimento. In questi termini, pertanto, le due fattispecie

rappresenterebbero due aspetti dello stesso fenomeno e potrebbero opportunamente essere

ricondotte nell’alveo di un’unica fattispecie.

Del pari, sarebbe opportuno rivedere i rapporti con altre fattispecie connesse, come quella di

ricettazione – il cui campo di azione potrebbe essere limitato ai beni diversi da denaro e

strumenti finanziari – e il favoreggiamento reale.

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LE PROPOSTE DEL GRUPPO DI LAVORO DEL DOT.GRECO

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8. Le proposte del gruppo di lavoro Greco.

Lo scorso 11 gennaio 2013 il Ministro della Giustizia, Paola Severino, aveva insediato il Gruppo

di studio sull’autoriciclaggio coordinato dal Procuratore aggiunto di Milano, dott. Francesco

Greco. Il gruppo di lavoro ha presentato, in data 23 aprile 2013, al Ministro uscente. in

previsione del passaggio di consegne al futuro responsabile del Dicastero, una relazione

conclusiva strutturata su due proposte alternative.

Si è ritenuto preliminarmente di inserire il riciclaggio e l’autoriciclaggio in un “nuovo” articolo

(art. 517-sexies c.p.), collocato in un inedito Capo dedicato alla tutela dell’ordine economico e

finanziario (Capo II-bis).

Si è delineato altresì un indirizzo favorevole a semplificare l’attuale quadro normativo, facendo

confluire all’interno della nuova fattispecie la condotta ex art. 648-ter c.p. Sono state formulate

le seguenti proposte alternative per dare corpo alla novella:

1) La sostituzione delle attuali norme sul riciclaggio e sull’impiego di denaro e altri beni di

provenienza illecita (artt. 648-bis e 648-ter c.p.) con una nuova disposizione sul riciclaggio che

copra tutte le fattispecie: incluso l’autoriciclaggio in ogni sua forma, in quanto viene eliminata

l’esclusione delle ipotesi di concorso; risulta quindi punito qualsiasi impiego in attività

economiche di denaro, beni o altre utilità proveniente da delitto non colposo, così come

qualsiasi altra operazione di trasferimento, sostituzione o intestazione fittizia finalizzata a

nasconderne la provenienza delittuosa; la sanzione detentiva rimane immutata (da quattro a

dodici anni) mentre la multa viene aumentata di oltre tre volte, e diventa da 5.000 a 50.000

euro.

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LE PROPOSTE DEL GRUPPO DI LAVORO DEL DOT.GRECO

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2) Alla modifica del codice sopra indicata si accompagneranno una serie di modifiche alla

normativa vigente in materia di antiriciclaggio (d.lgs. 231/2007), di monitoraggio fiscale (d.l.

167/90, convertito nella legge. 186/90) e di reati tributari (d.lgs. 74/200); con tali modifiche si

intende da un lato depenalizzare le condotte meno gravi e dall’altro rivedere le sanzioni per

meglio punire le condotte più pericolose.

3) Sono inoltre previsti dei casi di non punibilità e degli sconti di pena per i reati tributari,

quando chi ha commesso il reato fornisca spontaneamente tutte le informazioni necessarie per

identificare attivi nascosti, passivi fittizi, impiego dell’imposta evasa e suo occultamento, in

modo da favorire la collaborazione.

Una seconda proposta prevede, invece, il mantenimento della clausola di riserva per il reato di

riciclaggio e l’introduzione di un’autonoma fattispecie di autoriciclaggio, soggetta alla stessa

pena prevista per il riciclaggio, unitamente all’inserimento, tra l’altro, di una clausola di

esclusione della punibilità per il caso in cui il fatto consiste nel mero godimento dei beni, o

nell’utilizzo del denaro o delle altre utilità provento del reato, con finalità non speculative,

economiche o finanziarie.

Entrambe le proposte prevedono il mantenimento dell’attuale cornice edittale della reclusione

(da quattro a dodici anni) con aumento della multa (che passa, nella prima ipotesi, da euro

5.000 a 50.000; nella seconda, da euro 10.000 a 100.000).

In particolare, la Commissione vuole consentire la punibilità della condotta di autoriciclaggio,

nonostante alcune obiezioni teoriche, che, correttamente, vengono riportate nella Relazione e

che possono così riassumersi:

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LE PROPOSTE DEL GRUPPO DI LAVORO DEL DOT.GRECO

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i) non è dato comprendere il senso dell’operazione, se non nella prospettiva di un’asserita

minor gravità dell’autoriciclaggio. La seconda opzione non persuade perché l’autoriciclaggio,

una volta escluso che costituisca post crimen patratum del delitto presupposto, si colloca

ontologicamente sullo stesso piano di offensività giuridica del riciclaggio;

ii) le ulteriori operazioni poste in essere dall’autore del reato presupposto per ostacolare

l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni e del denaro rappresenterebbero la

naturale prosecuzione degli stessi reati presupposto (si tratterebbe di un post factum assorbito

nel disvalore del reato presupposto);

iii) la punibilità dell’autoriciclaggio costringerebbe l’autore del reato presupposto ad astenersi

dal compiere operazioni volte a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei

beni, esponendolo per questa via a un maggior rischio di essere scoperto (la fattispecie di

autoriciclaggio risulterebbe in contrasto con il principio generale del nemo tenetur se detegere,

in virtù del quale nessuno può essere tenuto ad auto incriminarsi);

iv) la punibilità dell’autoriciclaggio potrebbe assoggettare l’autore del reato presupposto

all’irrogazione di una pena non correlata alla gravità di quest’ultimo (sia perché la pena per il

riciclaggio può essere molto più grave di quella per il reato presupposto, sia perché, per effetto

dell’istituto della continuazione, la pena per il riciclaggio potrebbe essere aumentata fino al

triplo).

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CONCLUSIONI

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9. Conclusioni

Ripetuti tentativi di riforma hanno ad oggi sollevato dubbi e perplessità in un susseguirsi di

interventi “repressivi” e “preventivi”.

Tuttavia, risposte di tipizzazione e scelte di caratterizzazione dell’offesa diventano necessarie

dinanzi a diffuse incertezze interpretative, domande di coordinamento nel sistema, o al rischio,

da più parti prospettato in ipotesi di “autoriciclaggio”, che qualsivoglia reato valga a “duplicare”

la responsabilità penale a seguito dell’utilizzo del profitto ad esso conseguente.

L’esigenza della “certezza della pena”, oggi avvertita in ragione della perseguibilità di condotte

illecite ed efficace contrasto alla criminalità organizzata, implica, piuttosto, quale sua doverosa

premessa, una normativa che, lungi dall’essere “simbolica” nei suoi effetti, ripristini, quale

garanzia indefettibile e irrinunciabile, la certezza del diritto e l’univocità del sistema.

È muovendo da tale complesso quadro che la dottrina suggerisce un ampio ventaglio di

soluzioni.

Innanzitutto, un primo intervento dovrà investire la correttezza dell’impostazione reato

presupposto/postfatto non punibile, valutando, ad esempio, l’identità o meno del bene protetto

ed il disvalore, necessariamente contenuto o meno, dell’autoriciclaggio in quello del reato-base.

Poi, ove si addivenisse alla prospettazione di due distinte fattispecie criminose, dovrà valutarsi

l’ipotesi di una norma onnicomprensiva (riciclaggio comprendente pure il self laudering), ovvero

quella, forse preferibile, di due fattispecie distinte, ove l’entità della pena per l’autoriciclaggio

trovi una qualche correlazione con quella per il reato-base, senza escludere la possibilità di una

sanzione accessoria ovvero principale diversa da quella della tradizionale pena detentiva.

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CONCLUSIONI

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Senza trascurare, infine, l’ipotesi stessa del concorso di terzi, il cui contributo riciclatore, se

presente già nell’accordo nel reato contro il patrimonio, va ad annoverarsi nella partecipazione

criminosa nel reato presupposto, mentre rimane distinta se successivo alla sua esecuzione.

di Carmine Ruggiero

(06/10/2014)

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CTP BRESCIA: ESTESA LA DEDUCIBILITÀ DEGLI INTERESSI PASSIVI A TUTTE LE IMMOBILIARI

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Con la Decisione n. 637/15/04 la Commissione Tributaria Provinciale di Brescia ha toccato il

tema di cui all’art. 96 del Tuir, che disciplina la deducibilità degli oneri finanziari e assimilati, non

capitalizzati all’attivo patrimoniale, fino a concorrenza degli interessi attivi e proventi assimilati.

Per quanto concerne l’eccedenza, questa è deducibile nel limite del 30% del risultato operativo

lordo della gestione caratteristica, mentre la quota non dedotta nel periodo d’imposta può

essere riportata a nuovo e recuperata nei periodi successivi nel rispetto del suddetto limite del

Rol.

Tuttavia l’art. 36 della Legge Finanziaria 2008 sancisce la non rilevanza ai fini dell’articolo 96

del Tuir degli interessi passivi relativi a finanziamenti garantiti da ipoteca su immobili destinati

alla locazione.

In merito l’Agenzia delle Entrate, con le circolari n. 19/E/2009 e n.37/E/2009, ha ritenuto

applicabile tale esclusione alle sole immobiliari di gestione, i cui soci non possono usufruire

della disciplina “Pex” mancando il requisito della commercialità.

La Ctp di Brescia, con sentenza n. 637/15/04 depositata il 13 agosto 2014, che costituisce un

importante precedente giurisprudenziale, ha accolto il ricorso di una società di capitali, che

compie una gestione attiva degli immobili concessi in locazione, ritenendo pertanto gli interessi

passivi deducibili per tutte le società che operano nel settore immobiliare (quindi per tutti i

fabbricati, compresi quelli cosiddetti “merce”).

di Anna Sottana

(29/09/2014)

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DECRETO COMPETITIVITÀ: CREDITI ALLE IMPRESE E CARTOLARIZZAZIONI

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Il decreto Competitività (dl n. 91/14 convertito in legge n. 116/14), con l’obiettivo di favorire la

concessione di credito alle imprese, ha esteso la platea dei soggetti autorizzati ai finanziamenti.

E’ stata, infatti, introdotta la possibilità per le imprese assicurative e per le società di

cartolarizzazione di svolgere attività creditizia sotto qualsiasi forma, esclusivamente nei

confronti delle imprese, a specifiche condizioni di legge.

Il decreto ha, altresì, esteso l’ambito applicativo del regime sostitutivo delle imposte gravanti sui

finanziamenti anche ai prestiti a medio e lungo termine. Da un lato, si prevede che anche le

cessioni di credito stipulate in relazione ai finanziamenti che beneficiano del regime in

questione, nonché le eventuali successive cessioni (comprese le eventuali garanzie), ricadano

nell’ambito di applicazione dell’imposta sostitutiva.

Dall’altro, si amplia la platea dei soggetti ammessi, con l’obiettivo di incrementare l’offerta

fiscalmente agevolata di credito anche da parte dei non residenti, quali imprese di

assicurazioni, OICR (organismi di investimento collettivo del risparmio) costituiti nei paesi c.d.

white list e società di cartolarizzazione.

Inoltre, il regime di esenzione da ritenuta alla fonte sugli interessi, attualmente riservato soltanto

ai soggetti residenti in Italia, viene estesa agli enti creditizi, alle imprese di assicurazioni

costituite e ai fondi di investimento stabiliti in Stati membri dell’UE.

Viene modificata anche la disciplina della segnalazione ai sistemi di informazione dei ritardati

pagamenti, così da consentire una più veloce circolarità di notizie positive.

di Anna Sottana

(17/09/2014)