GIUSTIZIA E LETTERATURA - Arpa Jung

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GIUSTIZIA E LETTERATURA II

a cura di

Gabrio Forti, Claudia Mazzucato, Arianna Visconti

con il Gruppo di Ricerca del Centro Studi “Federico Stella”

sulla Giustizia penale e la Politica criminale

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www.vitaepensiero.it

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© 2014 Vita e Pensiero - Largo A. Gemelli, 1 - 20123 MilanoISBN 978-88-343-2679-4

Volume pubblicato con i fondi del Centro Studi “Federico Stella”sulla Giustizia penale e la Politica criminale dell’Università Catto -lica del Sacro Cuore.

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INDICE

Introduzione, Gabrio Forti IX

Quasi un libro ‘in 3D’. Guida alla lettura di «Giustizia e letteratura II», Claudia Mazzucato - Arianna Visconti XIX

parte primaIl tragico e la giustizia dall’antichità alla modernità

I. Riscritture moderne della tragedia anticaLimite, trasgressione e responsabilità: riscritture moderne della tragedia antica, Annamaria Cascetta 4Limite, trasgressione e responsabilità: la tragedia antica e le sue riscritture moderne, nella prospettiva del giurista, Francesco D’Alessandro 21

parte secondaPercorsi di giustizia nella letteratura italiana

I. «I promessi sposi»: dalla retribuzione al perdono La via stretta. Vendetta, giustizia e perdono nei «Promessi sposi», Pierantonio Frare 38«I promessi sposi»: quasi un codice della giustizia riparativa, Luciano Eusebi 55

II. Contro e in nome dell’Imperatore: due volti del Risorgimento in letteraturaSilvio Pellico e «Le mie prigioni», Eraldo Bellini 82In nome dell’Imperatore, Fausta Garavini 103I due colori della giustizia. Rappresentazioni della repressione del dissenso politico in Austria e in Francia nel XIX secolo, Stefano Solimano 118

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VI INDICE

‘Umanismo’ e Giustizia nel Risorgimento, Alessandro Provera 136

III. Carlo Collodi e il caso Pinocchio Il caso Pinokkio: tra menzogna, violenza e perdono, Giovanni Gasparini 156Pinocchio e la fuga impossibile dal «legno storto dell’umanità», Gabrio Forti 170Della libertà di mentire: a proposito del naso lungo di Pinokkio, Pierpaolo Astorina Marino 192

IV. L’«egida impenetrabile»: mafia e potere nell’opera di Leonardo SciasciaMafi a e potere nell’opera di Leonardo Sciascia, a vent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, Velania La Mendola 198L’«egida impenetrabile»: mafi a e potere nell’opera di Leonardo Sciascia, Roberto Scarpinato 216Il potere e il candore: Leonardo Sciascia, un illuminista siciliano, Pierpaolo Astorina Marino 239L’intreccio tra ‘Verità’ e ‘Giustizia’ nelle opere di Leonardo Sciascia, Marina Di Lello Finuoli 256

parte terzaPercorsi di giustizia nella letteratura tedesca

I. «Davanti alla legge»: la giustizia di Franz KafkaDiritto e castigo: i tribunali di Franz Kafka, Luigi Forte 266Franz Kafka e l’impazienza del diritto, Gabrio Forti 286

parte quartaPercorsi di giustizia nella letteratura inglese

I. La legge in mare: Melville da «Benito Cereno» a «Billy Budd»Dal testamento di Bardianna alla condanna di Billy Budd. Traversata dell’oceano melvilliano a uso degli uomini di legge, Francesco Rognoni 320Precetto, valore, sanzione: categorie giuridiche ‘sotto processo’ in Melville, Arianna Visconti 331

II. Una giuria di pari: detective stories ‘atipiche’ e prospettive di genere sulla giustizia

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INDICE VII

Giustizia di genere e genere del poliziesco: «A Jury of Her Peers» di Susan Glaspell, Gianfranca Balestra 366«Oh, questi uomini, questi uomini!»: «La cugina Rachele» di Daphne Du Maurier, Carlo Pagetti 379Streghe, avvelenatrici, assassine: donne a giudizio, tra stereotipi culturali e fallacie cognitive, Arianna Visconti 387

III. La giustizia indifferente: etica e casualità nella cinematografia di Stanley KubrickIl mondo senza immagini dei giuristi, Claudia Mazzucato 430Il ‘confl itto’ tra immagini e parole nella fi lmografi a di Stanley Kubrick, Gianni Canova 466Giustizia privata e giustizia indifferente tra cinema e legge, Remo Danovi 476La giustizia insensata. Sciarade, geometrie, ellissi, Ruggero Eugeni 485La giustizia indifferente. Etica e casualità nella cinematografi a di Stanley Kubrick, Carlo Enrico Paliero 494«Drughi» di ieri e di oggi. Rifl essioni su devianza giovanile e controllo sociale riguardando «Arancia meccanica», Alain Maria Dell’Osso 513

parte quintaSe questo è un uomo:

narrare la resistenza al disumano

I. «Meditate che questo è stato»: la giustizia di Primo LeviComunicazione introduttiva del Centro Internazionale di Studi Primo Levi al convegno «Se questo è un uomo. Narrare la resistenza al disumano», Fabio Levi 522

I.1. Narrazioni della giustizia nell’opera di Primo Levi«Conforme a giustizia». Intorno a un passo controverso di «Se questo è un uomo», Alberto Cavaglion 526La complicità, l’omissione, il perdono, il rimorso. Aspetti della giustizia nell’opera di Primo Levi, Mario Barenghi 534Storia, memoria, identità. Narrare per sopravvivere, raccontare per affermare la giustizia, Giovanni Santambrogio 551La poesia nel sistema letterario di Primo Levi, Cesare Segre 566L’accusatore narrante. L’‘esigenza’ di giustizia in alcune pagine di Primo Levi, Claudia Mazzucato 575Primo Levi testimone processuale. La lingua letteraria come lingua giuridica, Alessandro Provera 591

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VIII INDICE

I.2. «Meditate che questo è stato»: riflessioni a partire da Primo LeviNarrare per sopravvivere, Alessandro Antonietti 600Narrare l’impensabile con le immagini audiovisive, Ruggero Eugeni 609Narrare per testimoniare, narrare per giudicare, Arianna Visconti 616Linguaggi nella memoria. Tra crimine e reato nelle realtà parallele dei carnefi ci e delle vittime, Andrea Bienati 622Deontologia forense e leggi razziali, Remo Danovi 642Le leggi del 1938 contro gli ebrei e la balaustrata del poeta, Saverio Gentile 664Negare e punire. Spunti critici sul reato di negazionismo,Gabriele Della Morte 672Modelli di responsabilità individuale e giustizia di transizione. Il caso delle guardie di confi ne della Germania democratica, Pasquale De Sena 681

II. «Considerate se questa è una donna»: la resistenza femminile al disumanoLa resistenza femminile al disumano: un’introduzione minima, Luciano Eusebi 700«Perdonare Dio». Amore e Giustizia nell’opera di Etty Hillesum, Roberto Cazzola 704Narrare e resistere a Parigi: il Diario di Hélène Berr (1942-1944), Giovanni Gasparini 732«L’armata S’agapò»: il processo al bravo soldato italiano, Antonio Oleari - Arturo Cattaneo 749Le donne e l’esperienza del disumano di fronte alla giustizia penale internazionale, Paola Gaeta 764La narrazione delle donne come via di (ri)composizione in risposta alla violenza degli oppressori. Silenzi e voci dall’Argentina, Biancamaria Spricigo 777

III. «Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore»: sintesi conclusivaL’ansia disumana del «raggiungimento», Gabrio Forti 794

Gli Autori 827

Il Gruppo di Ricerca del Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale (CSGP) 830

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ROBERTO CAZZOLA

«Perdonare Dio»Amore e Giustizia nell’opera di Etty Hillesum*

1. Amore e Legge

Figlia di un’ebrea russa scampata a un pogrom, Etty Hillesum eredita dalla madre il carattere passionale e l’amore per la lingua russa. Forma-tasi su romanzi come I fratelli Karamazov, le cui pagine dedicate al Gran-de Inquisitore lasciano in lei un segno profondo, la giovane olandese trae da Dostoevskij la convinzione che l’amore sia superiore alla leg-ge e la trascenda. All’amore-misericordia spetta il primato sulla giusti-zia, questo è evidente dalla citazione riportata nel Diario il 12 dicembre 1941: «È un errore giudicare l’uomo come fa lei. Non c’è amore in lei, solo una severa giustizia; lei dunque è ingiusto»1.

Che l’amore abolisca o quanto meno superi la giustizia, ce lo confer-ma un’altra citazione del Diario, tratta dal libro L’Europa e l’anima dell’O-riente di Walter Schubart2. Secondo il giurista tedesco, l’atrofi zzarsi del senso del diritto in Russia ha permesso di comprendere che «l’idea di giustizia non è il supremo principio dell’etica, che al di sopra c’è l’idea di amore la quale, al di là del giusto e dell’ingiusto, della colpa e della vendetta, chiude per sempre la fonte della discordia fra gli uomini con un grande gesto di bontà, che tutto perdona e tutto purifi ca, rendendo così possibile il regno di Dio sulla terra. Questo […] è il nucleo del cri-stianesimo [… e] fu coltivato con maggior serietà dall’élite morale rus-sa» che non nell’Europa occidentale, dove il principio di giustizia ha co-nosciuto una progressiva sopravvalutazione. «Forse è la Provvidenza che, nei russi, abbassa la soglia del senso di giustizia [e attenua la coscienza

* Il presente saggio trae origine dalla relazione tenuta in occasione del convegno dal ti-tolo Se questo è un uomo. Narrare la resistenza al disumano, nell’ambito del Ciclo seminariale Giustizia e letteratura (Law and Literature), IV edizione, 15-16 maggio 2013. 1 Si veda E. Hillesum, Diario 1941-1942 (1981), edizione integrale, diretta da K.A.D. Sme-lik, testo critico stabilito da G. Lodders e R. Tempelaars, trad. it. di C. Passanti - T. Mon-tone - A. Vigliani, Milano 20132, p. 275, dove è riportata questa citazione di Dostoevskij, tratta da M. Betz, Rilke in Frankreich. Erinnerungen, Briefe, Dokumente, Wien-Leipzig-Zürich, s.d. [1938], p. 180 (qui, e in tutte le successive citazioni, i corsivi sono miei).2 W. Schubart, Europa und die Seele des Ostens, Luzern 1938, pp. 71 ss., cit. in Hillesum, Diario, pp. 731-732.

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giuridica, affi nché] possa prima o poi realizzarsi la dottrina di Cristo cir-ca il primato dell’amore», conclude Schubart.

Le citazioni riportate nel Diario corrispondono al pensiero di Etty Hillesum. Sono l’esito di eclettiche e avide letture condotte sotto l’im-pulso di una ricerca più «sapienziale» che scientifi ca. La giovane olan-dese ritaglia e giustappone brani solo all’apparenza eterogenei: a unir-li di fatto è una profonda e intrinseca coerenza di pensiero e di sensibi-lità. Queste rifl essioni avrebbe potuto scriverle lei, sono solo formulate in una lingua più matura e più precisa: quella che la scrittrice in fi eri va ancora cercando (è il caso, per esempio, dei molti brani tratti dalle ope-re di Rilke). Il pensiero di Schubart rispecchia pienamente la sua idea di giustizia, ci induce a rifl ettere (da un’ottica un po’ slavofi la) sulla no-stra dura sopravvalutazione della giustizia, cui la Hillesum contrappone senza riserve il primato dell’amore.

Ma nella sua etica l’amore abolisce sempre e comunque la legge? E in che modo la legge si subordina all’amore? Il malvagio merita la con-danna o il perdono? Al male bisogna opporre resistenza? E in caso di ri-sposta affermativa, quest’ultima sarà armata o disarmata, sarà una resi-stenza combattuta sul terreno esterno o su quello interiore?

Sono domande a cui cercherò di rispondere. A infl uenzare profondamente il pensiero di Etty Hillesum è l’assi-

dua lettura dell’Antico Testamento, dei Vangeli (Matteo in particolare) e delle lettere di Paolo che la giovane olandese compie tra il 1941 e il 1943 sotto la guida del suo terapeuta Julius Spier, lo psico-chirologo jun-ghiano defi nito in un appunto nel Diario: «l’ostetrico della mia anima»3, colui che fu il mediatore fra lei e Dio – una sorta di nuovo Paraclito.

Io oggi sono ospite dell’Università Cattolica e, pur dando per scon-tata la conoscenza dell’Epistola ai Romani, vorrei ricordarne alcuni ver-setti – dal 14 al 21. Dice Paolo:

Benedite coloro che vi perseguitano. Benedite e non maledite […]. Non rende-te a nessuno male per male. Impegnatevi a fare il bene davanti a tutti gli uomi-ni […]. Non fatevi giustizia da voi stessi, ma lasciate fare all’ira divina […] se il tuo nemico ha fame, tu dagli da mangiare […]. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene.

L’alternativa alla logica punitiva della legge è dunque l’illogica bontà dell’a-more e del perdono. Dostoevskij preferiva restare nell’errore con Cristo, piuttosto che con gli uomini nel giusto e preferiva «porgere l’altra guan-cia, amare gli altri più di se stessi, non perché è utile, ma perché mi pia-

3 Hillesum, Diario, p. 772.

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ce, di un senso che brucia sino alla passione»4. Lo stesso avrebbe potu-to replicare Etty Hillesum ai suoi amici, i quali non ne comprendevano l’irenismo e la scelta di donarsi fi no all’autoannientamento, andando di sua spontanea volontà nel lager di Westerbork per portare amore e assi-stenza ai prigionieri. E per «disseppellire Dio» nei loro cuori – dunque per «aiutare Dio» a non morire in loro.

La posizione riconciliativa della Hillesum non conosce esitazioni o cedimenti: a dettarla è una costante ripulsa dell’odio e di qualsiasi idea di ritorsione. Ciò non esclude, certo, la capacità di sdegnarsi di fronte al male e all’ingiustizia – esperienze quotidiane, queste, nell’Olanda sotto il tallone nazista. Condannare non signifi ca però odiare: Etty Hillesum rifi uta la vendetta, rifugge dalla logica retributiva, dall’idea di ripagare il male con il male. Il suo senso del diritto e della giustizia ruotano attor-no ai cardini dell’amore, della fratellanza e del perdono.

Ascoltiamo che cosa ribatte a un amico trockista:

Klaas, non si combina niente con l’odio […] Prendi quel nostro assisten-te. […] Odia i suoi persecutori con un odio che suppongo sia giustifi cato. Ma anche lui è un uomo crudele. Sarebbe un perfetto capo in un campo di concentramento. L’osservavo mentre stava all’ingresso, quasi fosse là per ac-chiappare i suoi compagni ebrei scacciati, non era mai uno spettacolo mol-to consolante. […] Ma era anche uno dei giuristi più brillanti in Olanda, e i suoi articoli così intelligenti erano formulati alla perfezione […] Ogni volta che lo vedevo girare tra la gente, con quel collo diritto, lo sguardo dispotico e la sua eterna pipetta, mi veniva da pensare: gli manca solo una frusta in ma-no, gli starebbe magnifi camente bene. […] Vedi, Klaas: quell’uomo era pie-no di odio per quelli che potremmo chiamare i nostri carnefi ci, ma anche lui sarebbe potuto essere un perfetto carnefi ce e persecutore di uomini indifesi. Eppure mi faceva tanta pena. Riesci a capirci qualcosa? […] Klaas, volevo so-lo dire questo: abbiamo ancora così tanto da fare con noi stessi, che non do-vremmo neppure arrivare al punto di odiare i nostri cosiddetti nemici. Siamo ancora abbastanza nemici fra di noi. E non ho neppure fi nito quando dico che anche fra noi esistono carnefi ci e «persone malvagie». In fondo io non credo affatto nelle cosiddette «persone malvagie». Vorrei poter raggiungere le paure di quell’uomo e scoprirne la causa, vorrei ricacciarlo nei suoi terri-tori interiori. Klaas, è l’unica cosa che possiamo fare di questi tempi. Allora Klaas ha fatto un gesto stanco e scoraggiato e ha detto: Ma quel che tu vuoi ri-chiede tanto tempo, e ce l’abbiamo forse? Ho risposto: Ma a quello che vuoi tu si lavora da duemila anni della nostra èra cristiana […] e che cosa pensi del risultato, se la domanda è lecita? […] È proprio l’unica possibilità che ab-biamo, Klaas, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e di-

4 Cit. in A. Dell’Asta, Dostoevskij e l’al di là della legge e della trasgressione della legge, in G. Forti - C. Mazzucato - A. Visconti (a cura di), Giustizia e Letteratura - I, Milano 2012, p. 82.

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struggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E con-vinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende an-cora più inospitale. E Klaas, vecchio e arrabbiato militante di classe, ha rispo-sto sorpreso e sconcertato: Sì, ma... ma questo sarebbe di nuovo cristianesi-mo! E io, divertita da tanto smarrimento, ho risposto con molta fl emma: Cer-to, cristianesimo – e perché poi no?5 .

Sempre nel Diario, è riportata una conversazione con Jan Bool, il quale chiede con amarezza che cosa induca gli uomini a distruggere i propri simili. Così la Hillesum replica all’amico:

gli uomini, dici – ma ricordati che sei un uomo anche tu. […] Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi […] e non vedo nessun’altra soluzione […] che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume6.

Ecco uno dei capisaldi di Etty Hillesum: il male dobbiamo cercarlo in noi stessi, e non altrove. Bisogna condurre la battaglia dentro di noi: il mondo è già saturo di odio. Potremo renderlo un po’ più vivibile sra-dicando il male nell’uomo. E non sradicando l’uomo – anche se è un «nemico», categoria, questa, che la Hillesum non fa mai sua: il nemico è sempre relativizzato dall’aggettivo «cosiddetto» o dall’uso delle virgo-lette. Ciò sta a indicare che – di là da psicopatie e sadismi individuali – di fronte all’uomo c’è sempre un altro «uomo» e non un «demonio» o un Grande Satana…

Demoniaco, semmai, è l’odio. Da combattersi senza riserve è solo l’o-dio: a ogni nuovo orrore che incontreranno, lei e i suoi correligiona-ri perseguitati, dovranno opporre nuovo amore, riconquistando amore dentro di sé.

E se sopravviveremo indenni a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra a guer-ra fi nita. Forse sono una donna ambiziosa, ma anch’io vorrei dire una parolina7.

E avrà diritto di dirla proprio perché ha cominciato la bonifi ca dentro di sé, perché ha portato amore là dove poteva farlo: una goccia d’amo-re nell’immane incendio che da quattro anni ormai andava divorando l’Europa e il mondo.

5 Hillesum, Diario, pp. 769-770. 6 Ibi, p. 366.7 E. Hillesum, Lettere 1941-1943 (1982), edizione integrale, diretta da K.A.D. Smelik, testo critico stabilito da G. Lodders - R. Tempelaars, cura editoriale di R. Cazzola con la collaborazione di C. Di Palermo, trad. it. di C. Passanti - T. Montone - A. Vigliani, Milano 2013, p. 97.

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È una posizione diametralmente opposta a quella che ne L’uomo sen-za qualità Robert Musil attribuisce a Ulrich, il giovane protagonista del romanzo, secondo il quale

evitare il male e fare il bene individualmente, invece di adoperarsi per l’ordine del tutto, è in un certo senso un precipitoso pareggio con la coscienza, a spese della cosa in quanto tale, un cortocircuito, una fuga nel privato [per cui,] in fatto di mo-rale, Ulrich propendeva più per il servizio di Stato maggiore che non per l’eroi-smo quotidiano delle buone azioni8.

Un eroismo al quale – con buona pace dell’ironia musiliana – Etty Hil-lesum ha invece votato la propria vita. Ciò richiama alla mente l’etica della responsabilità e l’etica della convinzione – per riprendere in que-sto contesto le note categorie di Max Weber. La necessità di tener con-to delle conseguenze di ogni azione, anche di quelle compiute «a fi n di bene», non sfugge però alla giovane olandese, come vedremo affron-tando il suo implacabile interrogarsi sugli autentici esiti del proprio agi-re. Perché colei che sentiva un incoercibile senso di responsabilità di fronte all’altrui dolore, colei che si sentiva responsabile non solo del proprio agire, ma anche delle eventuali omissioni che si compiono per il semplice essere passivamente coinvolti nel proprio tempo (violento), per il semplice fatto di assistervi, si sarà di certo chiesta se l’unica cosa buona – nel contesto del lager – fosse davvero la volontà buona, se l’aiu-tare gli altri fosse vero aiuto nello spazio recintato e «regolamentato» dal nemico.

E certo, di fronte al nemico tedesco – che Etty Hillesum chiama sem-pre, ricordiamolo, il «nostro cosiddetto nemico» – voler comprendere il male negli altri muovendo dal male che alligna in noi, voler combattere il male recato dagli altri cominciando da quello di cui noi stessi siamo i portatori ha qualcosa di sovrumano, diffi cilmente comprensibile allora come oggi. Il rifi uto della resistenza attiva le valse l’ostilità di chi nel suo irenismo non vedeva altro che passività: i nazisti non erano paragonabi-li agli inglesi in India, un satyagraha – una lotta non violenta secondo il modello di Gandhi – era considerato un autentico suicidio e un colpe-vole regalo a Hitler. Anche critici odierni della Hillesum, come Tzvetan Todorov, pur ammirandola ritengono poco raccomandabile questa po-sizione sovraumana, che accetta e vuol far accettare il dolore, senza op-

8 R. Musil, L’uomo senza qualità (1930-1933), I, a cura di A. Vigliani, Milano 1992, p. 32. Si veda anche A. Vigliani, La ‘dissoluzione’ dell’Io e il problema della responsabilità in Robert Musil, in Giustizia e Letteratura - I, pp. 190-191. Sul nesso bene/bontà e sulla «bontà illogi-ca» si veda V. Grossman, Vita e destino, trad. it. di C. Zonghetti, Milano 2013, passim e, in particolare, pp. 22, 243, 354 ss. e 599.

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porre alla violenza una controviolenza. Il fatalismo, per Todorov, non elimi-na le cause del male, ma si contenta solo di medicarne le ferite9.

Per Etty Hillesum comprendere il nemico signifi ca invece non voler-lo demonizzare e considerare un mostro, come ci ricorda Isabella Adinolfi nel suo bel libro La fortezza inespugnabile10. E in questo la giovane olandese non è poi tanto lontana dalla Arendt, che vedeva in Eichmann non già un mostro ma un uomo banale – uno come tanti altri. E proprio come la Arendt, anche Etty Hillesum dubita che esista l’assolutamente demonia-co: dei nazisti e dei collaborazionisti lei vorrebbe comprendere l’animo, la psiche, scoprirne i traumi e le paure infantili. Bruder Eichmann (Fratel-lo Eichmann), così Heinar Kipphardt – il commediografo tedesco – in-titola la sua pièce teatrale, facendo eco ai saggi di Thomas Mann intito-lati Fratello Hitler e all’opera di Max Picard, Hitler in noi stessi. Non si trat-ta certo di generalizzare, di banalizzare e assolvere tutti – perché se tutti sono colpevoli nessuno lo è davvero. Non è questo il discorso della Hil-lesum. Per comprenderla, torniamo a Dostoevskij, nel quale: «l’elemen-to satanico non è esterno all’animo umano; non è una persona distin-ta. È invece interno, ineliminabile, in questo senso profondamente uma-no», come nota Gustavo Zagrebelsky11.

Anche per Etty Hillesum coesistono nell’anima estreme contraddizio-ni, polarità estreme. L’anima dell’uomo è, per dirla con Arthur Schnitz-ler, un weites Land: un territorio sconfi nato, in cui gli estremi si saldano nell’Uno-Tutto, nella compresenza e commistione di bene e male (uno degli aspetti buddhisti, taoisti e indù nel pensiero della Hillesum, su cui ritornerò). La consapevolezza di come sia inestricabile tale viluppo di passioni non esime però dal giudizio morale, dall’indignazione di fron-te all’atto scellerato, né implica mai ambiguità o acquiescenza. Com-prendere non signifi ca assolvere, ma rifi utare la strada più breve: quel-la dell’odio e della vendetta. E poi «la ribellione che nasce solo quan-do la miseria comincia a toccarci personalmente non è vera ribellione, e non potrà mai dare buoni frutti»12, su questo Etty Hillesum non ha al-cun dubbio. Come scrive la Adinolfi :

Entrambe – giustizia e vendetta – reagiscono contro il male, ma mentre la giusti-zia è disinteressata e universale, la seconda invece non trascende il soggetto, le sue

9 T. Todorov, Di fronte all’estremo (1991), trad. it. di E. Klersy Imberciadori, Milano 1992 e 2011, pp. 211-222.10 I. Adinolfi, Etty Hillesum. La fortezza inespugnabile. Un percorso etico-religioso nel dramma della Shoah, Genova 2011, p. 83.11 G. Zagrebelsky, La leggenda del Grande Inquisitore, a cura di G. Caramore, Brescia 2003, pp. 53-54.12 Hillesum, Lettere, p. 62.

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passioni, i suoi interessi. Non lo eleva al di sopra di sé, per attingere a un punto di vista superiore, eterno13.

Certo, se non fossimo più capaci di indignarci, ci ridurremmo a sempli-ci «ruminanti morali», per dirla con Etty Hillesum. Anche Gesù conosce momenti di indignazione, ha moti di collera di fronte all’altrui durezza di cuore. Ma la sua è, ogni volta, una «rabbia mista a dolore», ogni vol-ta è rattristato da quella durezza d’animo. Qui, sulla scorta del pastore Stanley Jones, la Hillesum ci mostra quale differenza intercorra fra «rab-bia legittima e rabbia illegittima» e conviene con il missionario metodi-sta sul fatto che «se la nostra rabbia è radicata in indignazione morale, in dolore morale e non nel risentimento personale, allora quella rabbia è buona, e preziosa e salutare»14. Ne conclude la Adinolfi :

La Hillesum ha compreso molto presto che se chi subisce l’ingiustizia non è più giusto di chi la arreca, la differenza tra i due contendenti è meramente di po-tenza, di forza. E qualora il primo avesse il potere e la forza del secondo, agi-rebbe allo stesso modo e lo stato delle cose non muterebbe sostanzialmente15.

Di conseguenza, se il fascismo sarà sconfi tto solo sui campi di battaglia, ma non nell’uomo, non nelle famiglie, non nel privato – ciò non potrà bastare. Sia qui suffi ciente ricordare Ingeborg Bachmann e i suoi rac-conti sulla sopravvivenza del fascismo nei rapporti familiari e coniugali. O Thomas Bernhard e il suo convitto di Salisburgo, dove la foto di Hitler – dopo il 1945 – viene rimpiazzata dal crocifi sso, ma i metodi brutali ri-mangono gli stessi…16.

Etty Hillesum ci mette dunque in guardia dal pericolo che la bar-barie nazista generi in noi una barbarie speculare. Il suo è l’atteggia-mento di Tolstoj, il quale insegnava di non opporre resistenza al ma-le. O meglio, che al male non si deve resistere impugnandone le stesse armi: «non possiamo coltivare in noi quell’odio», ammonisce la Hille-sum, «perché altrimenti il mondo non uscirà di un solo passo dalla mel-ma. […] si può essere tanto combattivi e attenti ai propri princìpi sen-za gonfi arsi di odio»17. La storia dell’Europa postbellica ha dato piena-mente ragione a queste profetiche parole – fi n negli anni Novanta, a

13 Adinolfi, Etty Hillesum, p. 94.14 Hillesum, Diario, p. 58515 Adinolfi, Etty Hillesum, p. 95.16 Di I. Bachmann si vedano, fra gli altri, Il libro Franza, a cura di L. Reitani, trad. it. di M. Olivetti e L. Reitani, Milano 2009 e il racconto Tra pazzi e assassini in Il trentesimo anno, trad. it. di M. Olivetti, Milano 1985, pp. 89-117 e di T. Bernhard, Autobiografi a, a cura di L. Reitani, Milano 2011, in particolare L’origine, alle pp. 71 ss.17 Hillesum, Diario, pp. 54-55.

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noi così vicini, con la guerra nella ex-Jugoslavia, con la «pulizia etnica» e con lager come quello di Srebrenica e massacri di civili come quel-li perpetrati a Sarajevo: autentico trionfo di un odio disumanizzante e mai sconfi tto.

2. Rifi uto dell’odio

Etty Hillesum considera una malattia «il grande odio per i tedeschi che ci avvelena l’animo»18. E, come nel caso di Abramo – che si fa interces-sore con Dio per gli abitanti di Sodoma –, anche lei ritiene che bastereb-be un solo tedesco «decente» per smentire la teoria della «colpa collet-tiva» del popolo germanico (un concetto speculare a quello della «col-pa collettiva» degli ebrei, agli occhi degli antisemiti oppure – sul versan-te opposto – dell’«innocenza collettiva» degli ebrei, in quanto persegui-tati dei nazisti).

Espressioni rivolte ai tedeschi come: «che anneghino tutti, quella fec-cia, che muoiano col gas», scrive la Hillesum, «fanno ormai parte del-la nostra conversazione quotidiana. Ed ecco che improvvisamente, qual-che settimana fa, è spuntato il pensiero liberatore simile a un esitante e giovanissimo stelo in un deserto d’erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso con-tro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di ri-versare il proprio odio su un popolo intero»19.

La Hillesum sa cercare il volto umano anche nel volto del nemico, riesce a scoprire l’essere umano al di là dell’uniforme che questi indossa. Quando la sua amica Liesl le racconta di un soldato tedesco che l’ha disinteressa-tamente aiutata, Etty decide che pregherà anche per quel soldato: «Una delle tante uniformi ha ora un volto» scrive nel Diario. «E questo soldato soffre anche lui. Non ci sono confi ni tra gli uomini sofferenti, si patisce sem-pre da una parte e dall’altra e si deve pregare per tutti»20.

(Sulla “pietà verso il nemico” ha scritto pagine illuminanti Gilberto Forti nel volume di racconti I latitanti21, libro in cui è palpabile quell’os-sessione per i caduti altrui22 che Gabriele Pedullà già avvertiva in Cesare Pavese, autore per il quale: «la guerra è triste cosa, anche e soprattutto perché bisogna uccidere i nemici»23. In Forti, come nella Hillesum, c’è

18 Ibi, p. 50.19 Ibidem.20 Ibi, p. 680.21 G. Forti, I latitanti, a cura di Gabrio Forti, Prefazione di S. Modeo, Rovereto 2008.22 G. Pedullà (a cura di), Racconti della Resistenza, Torino 2005, p. 201.23 Ibidem.

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pietà anche per il nemico, per lui c’è compassione: senza però mai con-fondere i ruoli. Nei suoi racconti la morte trasfi gura e riumanizza il ne-mico. Fa sorgere nuova pietà e rispetto verso chi è pur sempre suscetti-bile di diventare un ex-nemico, e di riacquistare così – come l’anonimo soldato della Wehrmacht che aiuta Liesl – un volto. Un volto umano al di là dell’uniforme).

Il tema del Volto24 torna spesso nel Diario e nelle Lettere. Anche il vol-to dei persecutori, anche la smorfi a truce di quegli uomini-panzer è og-getto di empatiche rifl essioni, come il giorno in cui la Hillesum è con-vocata alla Gestapo e un isterico funzionario la investe chiedendole che cos’abbia tanto da sorridere, e lei, per quel giovane disgraziato (in tutti i sensi della parola) prova solo compassione (senza un velo di superbia, e semmai con umorismo); o quando a Westerbork, nascosta dietro la fi ne-stra di una baracca, osserva con spavento i ceffi della scorta armata al tre-no dei deportati e ha diffi coltà ad accettare la frase biblica su cui orien-ta da sempre la sua vita: «E Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio»25).

Sul rapporto fra l’odio e il volto hanno scritto Adolfo Ceretti e Loren-zo Natali:

L’‘odio’ è sempre preceduto e accompagnato da una dinamica di demonizza-zione del nemico […] coloro che gettano uno sguardo odiante non riescono a vedere il volto dell’altro, perché qualcosa di terribile è già avvenuto al livello del loro sentire : nei confronti di chi ci fa (riteniamo che ci faccia, o reputiamo che intenda farci) del male si opera, difatti, una sorta di ‘cancellazione’ della sua persona. […] ‘Cancellarlo’ vuol dire attaccare il suo corpo, poiché si odia l’‘u-niversale’ che egli rappresenta […] Insomma, il sentimento sociale dell’odio [porta a] concepire gli altri e i loro gesti come ‘diabolici’26.

Ed è proprio questa demonizzazione del nemico che Etty Hillesum respin-ge costantemente, perché dei nazisti e dei loro vassalli non vuole condi-videre la logica disumanizzante. «Bastonare il proprio nemico, lo sapeva già fare l’uomo delle caverne»27, ha scritto Solženicyn, che d’un altro ge-nere di lager ma di analogo odio per l’uomo ha fatto lunga esperienza.

Il rifi uto dell’odio, in Etty Hillesum, sembra anticipare un’etica e

24 Su questo argomento, oltre alle fondamentali rifl essioni di É. Lévinas, fra cui Totalità e infi nito: saggio sull’esteriorità, trad. it. di A. Dell’Asta, Milano 1990, in particolare pp. 191 ss., si veda C. Dobner, Il volto. Principio di interiorità, Genova-Milano 2012.25 Ge, 1, 27.26 A. Ceretti - L.Natali, Violenza, dominio e cambiamenti del sé sullo schermo e per la strada, in Giustizia e Letteratura - I, p. 413 nota 26.27 A. Solženicyn, Arcipelago Gulag: 1918-1956: saggio di inchiesta narrativa (1973-1976), trad. it. di M. Olsufi eva, Milano 1975, vol. 2, p. 459, citato in Todorov, Di fronte all’estremo, p. 213.

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una giustizia riconciliative, una giustizia riparativa, ancora di là da venire. E questo è palpabile nel sogno del primo luglio 1942, un sogno nel qua-le Etty, infi nitamente triste per la cattura di Julius Spier, incontra un sol-dato tedesco, lo guarda dritto negli occhi, e gli chiede senza esitazioni:

Ha una fi danzata al suo paese? E quando lui ha confermato, gli ho detto: Allo-ra la sua fi danzata sarà triste, come lo sono io adesso. Io e quel soldato siamo di-ventati amici, non è chiaro dal sogno in che modo, ma abbiamo parlato più vol-te e ci siamo raccontati delle azioni oltraggiose che i tedeschi stavano compien-do. Ci siamo detti d’accordo sul fatto di dover affrontare onestamente la situa-zione e che ci saremmo dovuti affratellare, che con noi iniziava la fratellanza tra i due popoli. E io gli ho anche detto: Naturalmente mi scontrerò con un tuo la-to per il quale dovrò pensare: questo è tipicamente tedesco, ma questa non sarà una ragione per odiarti, dovrò solo accettarlo come un dato di fatto. Lui ha cer-cato poi di far liberare S[pier] e alla fi ne ci è riuscito28.

L’inconscio parla chiaro: anche se Spier non venne preso, perché ebbe la «fortuna» di morire nel proprio letto il giorno prima della cattura, il desiderio di riconciliazione rivelato dal sogno era vero e concreto quan-to vera e concreta è, nella Hillesum, la paura di perdere nel lager l’uo-mo che ama. A questa paura reagisce con una domanda diretta: una do-manda al nemico, che è preludio al dialogo (proprio come preludio al-la «giustizia riparativa» è il dialogo fra le parti un tempo contrapposte). Ecco, quella narrata dal sogno del primo luglio 1942 era la resistenza al male che Etty Hillesum voleva praticare: la sola resistenza che sapeva op-porre al male era di natura dialogica, empatica e interiore. Il suo unico, vero obiettivo era soccorrere, aiutare.

3. Aiutare

La parola «aiutare» è una delle parole più frequenti nel Diario e nelle Lettere : aiutare gli altri, aiutare i genitori, aiutare Dio. E con «aiutare» ri-corrono anche «accogliere», «prestare attenzione», «proteggere», «al-leggerire la vita» (agli altri), «condividere», «essere presenti», «asciuga-re le lacrime» (altrui), «dare spazio e ospitalità al dolore». Un incoer-cibile senso di responsabilità induce Etty Hillesum a farsi carico delle sof-

28 Hillesum, Diario, p. 669. Su questo «coraggioso “parlar franco”, tipico della parresia», si veda C. Mazzucato, La ‘poesia della verità’ nella ricerca della giustizia. Poesia, parresia, esem-plarità, giustizia, in Giustizia e Letteratura I, pp. 507-547. Su un possibile «dialogo di verità» volto a «portare alla luce i fatti nella loro verità [… e a costruire] una memoria condivisa […] per sanare le ferite, per rielaborare il passato e sbloccare una possibilità di futuro» si veda A. Visconti, «Stupidità del male» e «intelligenza delle emozioni»: compassione, pensiero e memoria come antidoti al male organizzato, in ibi, pp. 368-397, in particolare le pp. 390 ss.

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ferenze umane, a prodigarsi per il prossimo, nell’epicentro del dolore ebraico. E, così facendo, a dimenticarsi di sé :

O l’uno o l’altro, ora: o si pensa soltanto a se stessi e alla propria conservazione, senza riguardi, o si prendono le distanze da tutti i desideri personali, e ci si arren-de. Per me, questa resa non si fonda sulla rassegnazione che è morire, ma s’indi-rizza là dove Dio per avventura mi manda ad aiutare come posso – e non a ma-cerarmi nel mio dolore e nella mia rabbia29.

La parola «resa» evoca immediatamente Dietrich Bonhoeffer e il libro Resistenza e resa, le sue lettere dal carcere nazista, fra le quali è inclusa an-che la poesia Cristiani e pagani. La prima strofa e la seconda iniziano con questi versi: «Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione /… / Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione»30.

Mostrando un Dio sofferente, a cui bisogna dare conforto, Bonhoeffer sostiene che l’uomo è chiamato a condividere, patendo, la sofferenza di Dio di fronte a un mondo nel quale Egli non è più presente. E al pari di Etty Hillesum, che invece di mettersi in salvo e nascondersi sceglie proprio il territorio controllato dal nemico, anche Bonhoeffer, dalla sicura Inghil-terra in cui si trova nel 1935, sceglie di tornare nella Germania nazista, per non abbandonare il suo Paese e la sua comunità di fedeli nelle ma-ni di quello stesso nemico, per dedicare ogni energia alla Chiesa Confes-sante. E altrettanto farà nel 1939, ripartendo dall’America per la Ger-mania poco prima della guerra. A giudizio del teologo tedesco: «Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma è il prendere parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo. Questa è la metanoia: non pensare anzitutto al-le proprie tribolazioni, ai propri problemi [è esattamente la scelta compiuta da Etty Hillesum. E, al pari di lei e di alcune fi gure dei Vangeli evocate da Bonhoeffer, bisogna invece] prendere parte alla sofferenza di Dio in Cristo»31.

Partecipare all’impotenza di Dio nel mondo signifi ca per Bonhoeffer mettere in luce l’assenza di Dio nel mondo (siamo ben lontani, in lui e nella Hillesum, da quell’ottica veterotestamentaria che vede in Dio il sal-vifi co Onnipotente, il quale interviene nella Storia dell’uomo dividendo le acque del Mar Rosso o sventando lo sterminio del popolo ebraico or-dito a Susa dal perfi do Haman).

Ed è proprio questo esser-senza-Dio da parte del mondo che induce Etty Hillesum a portare il suo aiuto agli altri: li aiuterà a dissotterrare la

29 Hillesum, Diario, p. 698.30 D. Bonhoeffer, Cristiani e pagani, in Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere (1951), a cura di E. Bethge, ed. it. a cura di A. Gallas, Cinisello Balsamo 1988 e 1996, p. 427.31 Ibi, pp. 441-442.

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fonte interiore, il pozzo in cui calarsi per ritrovare Dio. Per ritrovare se stessi e quell’intimo colloquio che Hannah Arendt avrebbe chiamato il «due in uno» – ovvero il dialogo della coscienza dentro di noi32.

Quella fonte, in molti uomini, è però ancora ostruita da sassi, calci-nacci e sabbia. Ma proprio lì c’è Dio: nella «parte migliore e più profon-da» di noi. Un’immagine, questa, che evoca immediatamente Meister Eckhart e le sue meditazioni mistiche sul fondo dell’anima, meditazioni giunte sino a Etty Hillesum probabilmente grazie all’antologia Meister Eckhart. Ein Breviarium aus seinen Schriften33. Nel lager la giovane farà leg-gere al padre il grande teologo domenicano, e a quello stesso libro si dedicherà in prima persona, come attesta una lettera ad alcuni amici di Amsterdam, datata 25 agosto 194234.

Aiutare gli altri a ritrovare Dio dentro di sé signifi ca anche aiutare Dio a non morire negli altri. Aiutarlo a non abbandonare l’uomo – e a non veni-re, a sua volta, abbandonato dall’uomo nel tormento del lager.

Il Dio a cui si rivolge la Hillesum non è dunque il Liberatore della tra-dizione ebraico-cristiana. No, il suo è un Dio vulnerabile che bisogna per-donare e aiutare. Proprio come nella teologia di Bonhoeffer. O nei ser-moni di Meister Eckhart, il quale – parlando dell’uomo che si riveste di Dio – sostiene che, se quell’uomo è sottoposto a percosse e tormenti, la sofferenza deve necessariamente passare prima attraverso Dio: Dio è il primo a soffrirne, la violenza colpisce Lui molto più dell’uomo «e Gli è avversa più che all’uomo»35.

Ma quello di Bonhoeffer e della Hillesum è anche un Dio a cui biso-gna arrendersi – ecco la Ergebung, la resa:

Accetterò tutto come verrà, mio Dio. Non credo molto in un aiuto dall’ester-no, né ci conto. […] Una cosa è certa: dobbiamo accettare tutto dentro di noi, dob-biamo essere pronti a tutto e sapere che le «cose ultime» non possono esserci sottratte36.

Resa, per Bonhoeffer, non signifi ca però rinuncia o rassegnazione, co-sì come non lo signifi ca per Etty Hillesum. Non equivale a passività. En-trambi hanno una visione del futuro e non ritengono che il senso di quanto sta accadendo sia il puro caos o la dissoluzione. Senza mai arren-dersi, senza fughe dal mondo, non si sottraggono alla responsabilità nei

32 H. Arendt, Responsabilità e giudizio (2003), a cura di J. Kohn, trad. it. di D. Tarizzo, Torino 2004.33 A cura di A. Bernt, Leipzig 1919.34 Hillesum, Lettere, p. 185.35 Meister Eckhart, Dell’uomo nobile. Trattati, a cura di M. Vannini, Milano 1999, pp. 77-78.36 Hillesum, Diario, pp. 730-731.

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confronti della vita, che deve continuare, nei confronti delle nuove ge-nerazioni e di un nuovo umanesimo, in nome del quale avranno il dirit-to di parlare proprio perché loro si sono sottratti alla spirale dell’odio e della vendetta disumanizzanti.

Nelle sue lettere dal carcere di Tegel, Bonhoeffer si muove lungo il diffi cile discrimine fra resistenza e resa e concepisce quest’ultima come accettazione della morte in quanto parte della vita: un’idea condivisa in pieno dalla Hillesum, posta di fronte all’ineluttabile deportazione sua, dei genitori e del fratello Mischa:

La gente non vuole riconoscere che a un certo punto non si può più fare, ma sol-tanto essere e accettare. Io ho cominciato ad accettare già da molto tempo, ma si può farlo solo per se stessi e non per gli altri37.

La resa è «quell’attività passiva su cui insisteva l’insegnamento di Spier. Accettando la realtà esteriore, anche più dura e limitante, sopportan-dola, essa la trasforma da dentro, mediante la libertà interiore». Così scri-ve Isabella Adinolfi , che vede nella resa la «redentiva imitatio Christi. Essa non attende nulla dal di fuori, non chiede nulla, non le importa di esse-re contraccambiata: [è] dono gratuito di sé»38.

Quel dono gratuito della propria persona che la Hillesum fa ai de-portati di Westerbork: non le basta aver ritrovato Dio dentro di sé grazie all’aiuto di Spier, si tratta ora di portarlo agli altri, di risvegliarlo in loro, di ritrovarlo nel loro volto e nella loro sofferenza – questa è l’«estrema compassione» che connota l’intera vita della Hillesum (e su cui ha giu-stamente insistito Nadia Neri)39: il varco che l’ha condotta nel fondo della sua anima è lo stesso varco che, dopo la morte di Spier, la condur-rà ai prigionieri del lager.

Resistenza e resa… Torniamo a Bonhoeffer:

Mi sono chiesto spesse volte dove passi il confi ne tra la necessaria resistenza e l’al-trettanto necessaria resa davanti al «destino». Don Chisciotte è il simbolo della resistenza portata avanti fi no al nonsenso, alla follia – come Michael Kolhaas, che diventa colpevole rivendicando il proprio diritto… Per l’uno e per l’altro la resistenza alla fi ne perde il suo signifi cato reale e si dissolve in una sfera teo-rico-fantastica; Sancho Panza è il rappresentante di quanti si adattano, paghi e con furbizia, a ciò che è dato. [… Noi] dobbiamo affrontare decisamente il «de-stino» e […] sottometterci ad esso nel momento opportuno. […] I limiti tra resistenza e resa non si possono determinare dunque sul piano dei princìpi; l’una e l’altra devono essere presenti e assunte con decisione. La fede esige questo agire mo-

37 Hillesum, Lettere, p. 113.38 Adinolfi, Etty Hillesum, p. 73.39 N. Neri, Un’estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del Lager, Roma 20133.

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bile e vivo. Solo così possiamo affrontare e rendere feconda la situazione che di volta in volta ci si presenta. Forse qui emergono le differenze tra un’esistenza teo-logica e un’esistenza giuridica?40.

La Hillesum è in sintonia con Bonhoeffer anche là dove afferma che ognuno deve prendere su di sé il proprio destino, contando solo sulle proprie forze. Senza attese miracolistiche e al limite del superstizioso. E molto concretamente promette a Dio:

Cercherò di aiutarTi affi nché Tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stes-si, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori deva-stati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che Tu non possa far molto per modi-fi care le circostanze attuali ma anche esse fanno parte di questa vita. Io non chia-mo in causa la Tua responsabilità, più tardi sarai Tu a dichiarare responsabili noi41.

È l’esatto contrario del «riv», di quel contendere con Dio, che – parlando di stupidità del male – abbiamo visto nella fi era apostrofe rivolta a Dio dal combattente del ghetto di Varsavia Yossl Rakover, il quale chiama in-vece il Signore a giustifi carsi42. Nella Hillesum manca completamente il «riv», non vi è mai contesa con Dio, anzi le è ben chiaro che dovrà accet-tare tutto quello che verrà perché:

Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fi no all’ultimo la Tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mette-re in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare Te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innu-merevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dico-no: non prenderanno proprio me. Dimenticano che non si può essere nelle grinfi e di nessuno se si è nelle Tue braccia43.

Fra le sue braccia la giovane donna si sente «protetta e sicura e impre-gnata di eternità»44. E questa immagine evoca in me i bellissimi versi del Salmo 23: «Anche se andassi nella valle dell’ombra di morte, non teme-

40 Bonhoeffer, Resistenza e resa, pp. 289-290.41 Hillesum, Diario, p. 713.42 Z. Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio (1946), trad. it. di A.L. Callow - R. Carpinella Guarneri, Milano 1997, p. 28, su questo argomento mi permetto di rinviare a R. Cazzola, Fra eclissi di Dio e stupidità del male, in Giustizia e Letteratura - I, in particolare pp. 361 ss.43 Hillesum, Diario, pp. 713-714.44 Ibi, p. 756.

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rei il male. Perché tu sei con me» (ki attah immadì: qui io avverto il Leit-motiv del Diario e delle Lettere e dell’intera esistenza di Etty Hillesum).

Non si tratta, insomma, di vivere «a tutti i costi», di salvare la pelle a scapito della dignità. Ciò che importa davvero è l’atteggiamento da adottare nei confronti della fi ne, dell’ineludibile viaggio verso una desti-nazione solo all’apparenza ignota: la Hillesum non si fa illusioni sull’e-sito di quei «trasporti» verso l’Est, che non rimandano mai «da laggiù» nessuna eco. Si tratta invece di vivere sino all’ultimo, senza compromes-si e complicità. Perché, dopo, la vita del sopravvissuto sarebbe solo tor-mento e senso di colpa (e a testimoniarlo ci sono i numerosi suicidi di ex deportati, avvenuti anche a grande distanza dalla liberazione dei lager).

Ma se l’uomo – come abbiamo visto – non deve essere davanti a Dio un bambino smarrito e privo di autonomia, che invoca protezione e mi-racoli, la responsabilità del male che egli compie sul proprio simile sarà allora soltanto sua: Dio gli ha lasciato la libertà di scelta. Non ha alcun senso invocarlo nella distretta come deus ex machina (sono le stesse cose che sosteneva già sei secoli prima Meister Eckhart). E dunque «non sa-rà colpa di Dio se a volte tutto va così storto, ma la colpa è nostra. Questa è la mia convinzione, anche ora, anche se sarò spedita in Polonia con l’in-tera famiglia»45.

Secondo Nadia Neri «la Hillesum connette con semplicità il concet-to di aiutare Dio con il motivo della responsabilità umana: dopo ci verrà chiesto da Dio il conto del nostro operato, quindi, se Dio non è più sen-tito come onnipotente, aumenta (e non diminuisce) la qualità della nostra responsabilità […] siamo noi a dover aiutare Dio. È un vero e proprio ca-povolgimento della tradizionale posizione teologica»46.

E se gli uomini devono aiutare un Dio che non è onnipotente, quel-lo stesso Dio avrà «il diritto di chiedere poi conto all’uomo del suo operato»47, secondo il biblista Klaas A.D. Smelik, curatore dell’opera di Etty Hillesum. Un’opinione – questa – di «notevole rilevanza per la teo-logia del dopo Auschwitz»48, argomento che ho affrontato nel primo vo-lume di Giustizia e Letteratura parlando della teodicea e a cui mi permet-to qui di rinviare49. Secondo Smelik, ciò che ha scritto Etty Hillesum du-rante la guerra ci offre insomma «uno spunto per mantenere la fi ducia in Dio, nonostante tutto quello che è avvenuto»50.

45 Hillesum, Lettere, p. 87.46 Neri, Un’estrema compassione, pp. 161-162.47 K.A.D. Smelik, L’immagine di Dio in Etty Hillesum, in L’esperienza dell’Altro. Studi su Etty Hillesum, a cura di G. Van Oord, Sant’Oreste (Roma) 1990, p. 164.48 Ibi.49 Cazzola, Fra eclissi di Dio e stupidità del male, pp. 360-367.50 Smelik, L’immagine di Dio in Etty Hillesum, pp. 164-165.

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E quello che è avvenuto, la Hillesum ce l’aveva sotto gli occhi ogni giorno, anche mentre scriveva a Julius Spier:

Questo momento storico, così come lo stiamo vivendo adesso, io ho la forza di sostenerlo, di portarlo tutto sulle spalle senza crollare sotto il suo peso, e posso perfi no perdonare Dio, che le cose vadano come devono andare. Il fatto è che si ha tanto amore in sé, da riuscire a perdonare Dio!!51.

Ma perdonare Dio, secondo il teologo Paul Lebeau52, è un modo per co-municargli la fi ducia assoluta che nutriamo in lui – nonostante lo stra-zio di quella donna che a Westerbork è costretta a nutrire il suo lattante con sciacquatura di cavolo, e che ripete nel suo abbandono: «“mio Dio, mio Dio” – ma esisterà ancora?»53.

Anche se la Hillesum viene da una tradizione familiare non religiosa, sappiamo con quale assiduità si sia dedicata allo studio della Bibbia, do-po aver iniziato la terapia con Spier. È pertanto possibile che le fosse no-to il termine aiutare Dio (leezrat hashem) ripetuto due volte nel Libro dei Giudici54 – oppure che l’idea di «aiutare Dio» venga invece da una mil-lenaria sedimentazione nella sua coscienza ebraica.

Il dono di sé e del proprio corpo come se fosse un campo di battaglia – insanguinato ma ospitale –, l’offrire spazio al dolore del prossimo, fi no all’estremo autoannullamento, il voler essere un «balsamo» per le ferite altrui, tutto questo è suggellato dall’invocazione: «Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami anche dispensare agli altri a piene mani»55.

E che cosa può mai donare Etty Hillesum, se non se stessa? Ecco l’i-nevitabile corollario di quel materno ospitare Dio dentro di sé, da lei messo in opera. Il passo successivo di questa ideale (inconsapevole?) «sequela» (nel senso bonhoefferiano del termine)56 è l’esser fi glia – fi glia oblativa.

Sì, nel consegnarsi al lager per farsi carico degli internati, nell’offrir-si loro in una sorta di agape eucaristica, Etty Hillesum è personaggio cri-stologico: «Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati, e da tanto tempo»57 leggiamo nell’ultima pagina del Diario.

Uso l’espressione «personaggio cristologico» riprendendo qui la de-

51 Hillesum, Lettere, p. 28.52 P. Lebeau, Etty Hillesum. Un itinerario spirituale (1998), trad. it. di L. Passerone, Milano 2000. 53 Hillesum, Lettere, p. 76.54 Gc, 5, 23.55 Hillesum, Lettere, p. 129.56 D. Bonhoeffer, Sequela (1989), a cura di M. Kuske - I. Tödt, trad. it. di M.C. Laurenzi, Brescia 20012.57 Hillesum, Diario, p. 797.

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fi nizione della Sonja di Delitto e castigo, data da Provera nel suo contri-buto su Dostoevskij al primo volume di Giustizia e Letteratura58. Defi nisco Etty Hillesum un «personaggio cristologico» perché, come Sonja con Raskol’nikov, anche lei con i suoi compagni di prigionia si fa carico del lo-ro dolore e della loro sventura.

La via del dolore è la via di Dio: lo è per Dostoevskij e lo è per Etty Hillesum – in lei però la sofferenza assume la forma ossimorica di una «addolorata contentezza», che ignora la disperazione e fortifi ca sempre più il «nucleo interiore». Secondo una testimonianza della sua amica Leonie Snatager:

il concetto di sofferenza era centrale in Etty e aumentò con gli anni. Man ma-no che il mondo esterno si faceva più minaccioso, la sofferenza diventava sem-pre più una via d’uscita trionfante. Soltanto attraverso la sofferenza si poteva di-ventare forti. Quanto più forti si voleva diventare, tanto più si doveva soffrire59.

La Hillesum è tuttavia ben consapevole di offrire un aiuto «a doppio ta-glio». Sa che sta solo aiutando i prigionieri ad attendere il loro turno su quel treno che li porterà alla nullifi cazione nelle macine della morte. Ad Auschwitz. E qui è l’atroce dilemma. In quel mondo disumanizzato, in quella gabbia di topi che è Westerbork – piccola brughiera in cui vi-vono l’uno sull’altro migliaia di morituri – Etty Hillesum reca una paro-la d’amore e di conforto. La porta là dove gli uomini provano ben poca solidarietà e compassione l’uno per l’altro. Nel lager il male ha conta-giato e lordato quasi tutti. Ecco il motivo per cui ora le tocca aiutare Dio.

Dicono che la gente di Westerbork non ti offre molte occasioni di amarla. […] Ma ho dovuto ripetutamente constatare in me stessa che non esiste alcun nesso causale fra il comportamento delle persone e l’amore che si prova per loro. Questo amo-re del prossimo è come un ardore elementare, che alimenta la vita. Il prossimo in sé ha ben poco a che farci60.

L’amore, per Etty Hillesum, è dono gratuito e non si aspetta nulla in cam-bio. Ignora qualsiasi contropartita. Eppure, quanto lucida e impietosa verso di sé è questa sua constatazione:

Quando capita un incidente da qualche parte, un istinto naturale spinge l’uo-mo ad accorrere in aiuto e a salvare quanto può. Ma stanotte io vestirò tutti i bam-

58 A. Provera, Razionalità del crimine e signifi cato della pena in Dostoevskij, in Giustizia e Let-teratura - I, pp. 88-89.59 Comunicazione personale di L. Snatager a Nadia Neri, in Neri, Un’estrema compassione, p. 95.60 Hillesum, Lettere, p. 122

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bini piccoli e tenterò di calmare le madri, e questo lo defi nisco ‘aiutare’, potrei qua-si maledirmi da sola: sappiamo bene che abbandoneremo le persone indifese e mala-te del campo alla fame, al caldo e al freddo, alla vulnerabilità e alla distruzione, eppure le vestiamo noi stessi e le accompagniamo ai nudi carri bestiame, e se non sono in grado di camminare le portiamo sulle barelle. Ma che cosa succe-de qui, che misteri sono questi, in quale meccanismo funesto siamo impigliati? Non possiamo liquidare il problema dicendo che siamo tutti dei vili. E poi, non siamo così cattivi. Ci troviamo di fronte a interrogativi più profondi…61.

Etty Hillesum è ben consapevole della contraddizione in cui vive – tem-prandosi ogni giorno di più, senza però mai indurirsi, a differenza dei molti ormai anestetizzati di fronte al dolore altrui, se non addirittura da esso infastiditi –, ne è consapevole ma sente di dover testimoniare nel suo piccolo frantume quotidiano l’amore per gli altri e l’amore per Dio. Quel sentimento che si traduce in una semplice parola d’affetto o di ri-guardo là dove tutti urlano e sono sgarbati l’uno con l’altro, che si tradu-ce nell’aiutare concretamente: nel fango del lager e nelle baracche ge-lide, dove un’umanità smarrita e abbandonata a se stessa ha perso ogni orientamento.

Spesso ritorna nelle lettere da Westerbork l’«ospedale» del campo, una baracca che sarebbe più giusto chiamare «lazzaretto», come quello in cui i monatti portavano gli appestati. Ma forse dietro il nome incon-gruo di «ospedale» si cela anche un inconscio desiderio di normalità da parte della Hillesum, una strenua difesa delle parole, anche contro l’evi-denza. «Lazzaretto» si addice, piuttosto, alla visione retrospettiva di noi lettori d’oggi… Spesso Etty Hillesum porta conforto a quegli infermi, in-capaci di reggersi in piedi, che verranno presto caricati nei vagoni mer-ci mediante barelle improvvisate, e lì giaceranno nella paglia sparsa sul duro pianale. La sua è una sorta di quotidiana osservanza di una mitzvah fondamentale per gli ebrei, di quel precetto conosciuto come bikkur kho-lim: far visita agli ammalati.

Nessuno di loro si salverà, nessuno di quei degenti con il pigiama ce-leste si sottrarrà alla deportazione solo perché «malato», ma prima del-la fi ne e già nell’anticamera del mattatoio avrà almeno sentito dalla vo-ce di Etty Hillesum benevole parole di conforto. Parole che si sono nu-trite di lunghe e intense letture sapienziali: siano esse la Bibbia o le ope-re di Jung, siano esse le poesie di Rilke o i romanzi di Dostoevskij: quel-le parole vive e autentiche saranno state per molti deportati l’estrema eco della Parola, del Logos, là dove le parole erano degradate a meri slogan, là dove venivano abbaiati solo comandi (pseudo) militari nel gergo di-sumanizzato delle divise senza Volto. O frasi ciniche come quella ripor-

61 Ibi, p. 137.

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tata da Mechanicus nel suo diario da Westerbork, In Dépôt: un malato si rivolge a un «pezzo grosso» del lager – un ebreo collaborazionista di no-me Samson, il quale gode di una certa infl uenza presso le SS – pregan-dolo di salvarlo dalla deportazione, e quello, dopo avere squadrato l’uo-mo dalla testa ai piedi, sbotta seccato: «Ma che cosa vuole lei? Lei è pu-ro materiale da trasporto!»62.

4. Hineinhorchen

C’è un verbo che ricorre più volte nel Diario della Hillesum: Hineinhor-chen, un verbo che in tedesco signifi ca «prestare ascolto dentro» (den-tro qualcuno o qualcosa). Laddove «hinein» indica non stato ma moto: quel movimento che si compie per scendere nel profondo di se stessi e degli altri. Per dedicare attenzione. Sì, Etty Hillesum ha fatto della pro-pria vita un ascolto continuo.

Ascolto molto intensamente, con tutto il mio essere, e cerco di tendere l’orec-chio fi n nel cuore delle cose. […] Hineinhorchen: vorrei trovare una buona traduzio-ne di questa parola. In fondo, la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri, Dio. E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me, che presta ascolto alla par-te più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio63.

Questo è il punto centrale. Nel mistico è Dio che ascolta se stesso e di-schiude, così facendo, il varco fra gli uomini impegnati ad «ascoltarsi dentro», a «riposare in se stessi». E in Etty Hillesum ciò avviene attraver-so la preghiera, quella preghiera incessante che è ormai diventata la sua vita e il suo Diario. Qualcosa che evoca in me un classico del misticismo russo: la Via di un pellegrino64, libro che penso lei conoscesse, viste le sue competenze linguistiche e il suo amore per la terra e la lingua materna. Ecco, l’esicasmo, l’ininterrotta preghiera del cuore, che anima la ricerca del pellegrino russo, anima anche la Hillesum. Anche la sua vita è un’in-cessante preghiera del cuore, un esicasmo.

Anzi, in lei c’è addirittura qualcosa di ecletticamente taoista, indiano e buddhista, palese nella sua rinuncia alla centralità dell’Io. La rinun-cia al proprio Io si traduce nella Hillesum in una sorta di fusione cosmi-ca, nella quale il Sé eterno è un atman che non dice «Io», che non agi-

62 P. Mechanicus, Im Depot. Tagebuch aus Westerbork (1989), trad. ted. dall’originale olan-dese di J. Hillner, Berlin 1993, p. 97.63 Hillesum, Diario, p. 151 e pp. 756 sg.64 Anonimo russo, La via di un pellegrino (1860 c.a. e 1881), a cura di A. Pescetto e con un saggio di P. Pascal, commento di padre V. de Rochcau, Milano 1972 e 20095.

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sce nell’alterità, e non è mai gravato dalle scorie della personalità. Un punto, questo, che può forse lasciare perplessi, visto che l’Io, la Perso-na, è proprio il luogo in cui avviene il suo ininterrotto dialogo con Dio e con se stessa. Non si dimentichi però che i quaderni di Etty Hillesum non hanno nessuna pretesa di sistematicità: il Diario e le Lettere – scrit-ti in condizioni di fortuna e di minaccia costante – sono spazi dialogici, pensati per parlare con sé, con gli altri, con Dio e non certo per essere dati alle stampe in forma di trattato teologico-fi losofi co. Anzi, proprio nel concrescere delle citazioni e dei pensieri più diversi è il fascino co-stante di quest’opera aperta e in divenire, dove rapsodica risuona l’eco della dottrina buddhista dell’unità di tutte le cose – bene e male inclusi:

La vita e la morte, il dolore e la gioia, le vesciche ai piedi estenuati dal cammi-nare e il gelsomino dietro la casa, le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tut-to, tutto è in me come un unico, potente insieme, e come tale lo accetto e comin-cio a capirlo sempre meglio – così, per me stessa, senza riuscire ancora a spiegar-lo agli altri65.

Sì, secondo questo principio della grande unità di tutte le cose (bene e ma-le inclusi), per Etty Hillesum «tutto è sempre e completamente un bene così com’è. Ogni situazione, per quanto miserevole, è qualcosa di assoluto, e contiene in sé il bene come il male»66.

Chissà se la Hillesum aveva letto anche lei, al pari di molti suoi coe-tanei, il Siddhartha di Hermann Hesse, perché a me pare di intendere qui l’eco del discorso che, alla fi ne della novella indiana, il protagoni-sta fa all’amico di gioventù Govinda, mentre gli addita il lento e maesto-so scorrere del fi ume in cui si armonizzano le contraddizioni, in cui tut-to si ricompone. Anche Siddhartha esalta con Govinda l’idea dell’unità:

Mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è intera-mente santo o interamente peccatore […] ogni peccato porta già in sé la gra-zia […]. Per questo a me par buono tutto ciò che esiste, la vita come la morte, il peccato come la santità, l’intelligenza come la stoltezza, tutto dev’essere così, tutto richiede solamente il mio accordo, la mia buona volontà, la mia amorosa comprensione, e così per me tutto è bene, nulla mi può far male67.

E a questo atteggiamento del suo protagonista si atterrà lo stesso Hesse durante la guerra, attirandosi incomprensioni e critiche anche da vecchi amici, anche da chi – come Romain Rolland – con il futuro autore del

65 Hillesum, Diario, p. 675.66 Hillesum, Lettere, p. 126.67 H. Hesse, Siddhartha (1922), trad. it. di M. Mila, nuova ed. accresciuta a cura di R. Caz-zola e trad. it. di A. Vigliani, Milano 2012, pp. 142 ss.

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Siddhartha aveva condiviso nel 1914 la coraggiosa e solitaria battaglia pa-cifi sta contro l’«inutile strage» del Primo confl itto mondiale.

Il pensiero di Etty Hillesum è un pensiero nomadizzante: anche lei, come il pellegrino russo, continua imperterrita per la sua strada: una strada su cu cui non bisogna mai arrendersi, mai fermarsi, ma solo chiu-dere di tanto in tanto gli occhi per ascoltare la propria voce in mezzo al caos, in mezzo alle tempeste di sabbia e polvere che sferzano il lager e inaridiscono i polmoni, in mezzo alle urla di comando e di paura e tra lo sferragliare e sbuffare dell’insaziabile rettile metallico: il treno che, ogni martedì mattina, porta nelle viscere il suo carico di vittime sacrifi cali là dove si celebra il culto tanatofi lo e pagano della Razza.

Ogni tanto, nei momenti di profonda gratitudine, sento un’irresistibile necessi-tà di inginocchiarmi, il capo tutto chino e le mani sul viso […] per trovare pace e per ascoltare la fonte nascosta in me68.

Il gesto di ripiegarsi nell’interiorità è la mistica Versenkung di Meister Eckhart, a cui parrebbe riallacciarsi Etty Hillesum là dove scrive:

«mi guarderò dentro» per una mezz’oretta ogni mattina, prima di cominciare a lavorare: ascolterò la mia voce interiore. Sich versenken, «sprofondare in se stes-si». Si può anche chiamare meditazione69.

Nel rivolgersi a Dio la Hillesum non leva dunque le braccia e lo sguar-do al cielo, ma abbassa gli occhi, li chiude e, nascondendo fra le mani il capo chino, si raccoglie in se stessa: cerca Dio non già fuori di sé, ma dentro di sé. E in quel mondo di guerra, di violenze e deportazioni che è l’Olanda occupata, la preghiera erige intorno a lei solide mura protetti-ve : fuori i tedeschi vanno restringendo ogni spazio vitale con la costru-zione del ghetto. Ma lei, nella cella della preghiera, nel suo rifugio interio-re, si sente fortifi cata. Quelle mura – invisibili e incrollabili – le restitui-scono la sua unità:

E potrei immaginarmi un tempo in cui starò inginocchiata per giorni e giorni – sin quando non sentirò di avere intorno questi muri, che m’impediscono di sfasciar-mi, perdermi e rovinarmi70.

Inginocchiarsi signifi ca resa, signifi ca «sia fatta la Tua volontà». Nel sof-focante carcere del ghetto, fra porte e fi nestre murate, o nel recinto di

68 Hillesum, Diario, p. 474 e p. 169.69 Ibi, p. 103.70 Ibi, p. 536.

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mezzo chilometro quadrato del lager, stretto fra reticolati e torrette di guardia, la cella della preghiera è paradossale spazio di libertà, di espan-sione interiore (dove si respira a pieni polmoni), di un liberatorio oltre-passare il proprio Io e il mondo.

5. Inginocchiarsi

Nel Diario la Hillesum si defi nisce «la ragazza che non sapeva inginoc-chiarsi». E così vorrebbe intitolare una novella sui suoi tentativi di genu-fl essione. Sugli esercizi fatti in un bagno in disordine. Sopra una stuoia di cocco, il cui colore le ricorda un ondeggiante campo di grano:

Ieri sera, subito prima di andare a letto, mi sono trovata improvvisamente in gi-nocchio […]. Un gesto spontaneo: spinta a terra da qualcosa che era più forte di me. Tempo fa mi ero detta: mi esercito nell’inginocchiarmi. Esitavo ancora troppo davanti a questo gesto che è così intimo come i gesti dell’amore, di cui pure non si può parlare se non si è poeti71.

Quel gesto – a cui l’ha iniziata l’amica Henny Tideman, la destinataria di alcune fra le più intense ed affettuose lettere da Westerbork – le co-sta fatica inizialmente. Vuole e non vuole. Lo cerca e se ne ritrae. Non le viene spontaneo. C’è una forza superiore con cui ancora combatte, alla quale si adegua e si ribella. Il tappeto di cocco, pungente, e le mattonel-le fredde sono la porta stretta del contatto con il divino. Come ebrea, la Hillesum non ha dimestichezza con il gesto cristiano della genufl essio-ne: i suoi correligionari non si inginocchiano, ma pregano in piedi. Lo ricorda una delle ultime annotazioni del Diario:

Credo di poter sopportare e accettare ogni cosa di questa vita e di questo tem-po. E quando la burrasca sarà troppo forte e non saprò più come uscirne, mi rimarranno sempre due mani giunte e un ginocchio piegato. È un gesto che a noi ebrei non è stato tramandato di generazione in generazione. Ho dovuto im-pararlo a fatica72.

Anche Simone Weil – mentre è nella basilica di Assisi, tra gli affreschi di Giotto che narrano la vita di San Francesco – sente qualcosa di invisibi-le e potente, che dall’alto la fa inginocchiare. Anche lei come ebrea non ha nessuna consuetudine con quel gesto. Ma è attratta dal cristianesimo quanto Etty Hillesum, che nel Diario confessa:

71 Ibi, p. 279.72 Ibi, pp. 793-94.

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Oggi pomeriggio mi sono ritrovata d’un tratto in ginocchio sulla stuoia di coc-co marrone, nel bagno, la testa nascosta nell’accappatoio, che pendeva dalla se-dia di vimini rotta. [E quell’accappatoio sulla testa mi ricorda il tallìt dell’ebreo in preghiera]. Non riesco proprio a inginocchiarmi bene, c’è una sorta di imba-razzo in me. Perché? Forse a causa della parte critica, razionale e atea che pure mi appartiene. Tuttavia sento, di tanto in tanto, un forte desiderio di inginoc-chiarmi, con le mani sul viso, per trovare pace e per ascoltare la fonte nascosta in me. Ancora una quantità di falso ritegno a esprimersi73.

Genufl ettersi, per Etty Hillesum, è anche un gesto rappacifi cante: nell’al-ba livida di un giorno di guerra, la ragazza che non sapeva inginocchiar-si si ritrova «improvvisamente per terra, in ginocchio tra il letto disfat-to di Han e la sua macchina da scrivere, tutta rannicchiata e con la testa che toccava il pavimento. Forse un gesto per estorcere pace»74?

Sì, perché «il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggior tranquillità, fi ntanto che si sia in grado d’irraggiarla anche sugli altri. E più pace c’è nelle per-sone, più pace ci sarà in questo mondo agitato»75.

6. La breccia interiore

Qual è realmente il «fuori» e quale il «dentro» nel mondo imposto a Etty Hillesum da un esercito straniero che, violando il confi ne tedesco-olan-dese, irrompe nel 1940 in un paese pacifi co e in mezzo a una popola-zione ignara dell’antisemitismo? Bisogna davvero farsi imporre che co-sa è «dentro» e che cosa è «fuori» da chi possiede la sola superiorità del-le armi?

Adesso, quando va a passeggio in un parco o nel bosco, Etty Hille-sum si trova di fronte una natura disseminata di incongrui cartelli: agli ebrei è fatto categorico divieto di camminare sul Wandelweg, è proibi-to sedersi sulle panchine pubbliche, è vietato prendere il tram e anda-re in bicicletta, anzi, è interdetto in assoluto il possesso di una biciclet-ta. Quest’ultima restrizione verrà commentata nel Diario con le ironiche parole del padre Louis Hillesum, il quale constata con sovrana noncha-lance: «Oggi è cominciata l’èra delle non-biciclette. […] Non dobbiamo più temere che le nostre biciclette vengano rubate. Per i nostri nervi è si-curamente un vantaggio. Anche nel deserto abbiamo dovuto farne a me-

73 Ibi, pp. 168-69.74 Ibi, p. 301.75 Ibi, p. 778.

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no, per ben quarant’anni»76. Più diffi cile, invece, è rinunciare alla natu-ra: «ogni misero gruppetto di due o tre alberi è dichiarato bosco e allo-ra sulle piante è inchiodato un cartello con la scritta: vietato agli ebrei. Questi cartelli diventano sempre più numerosi, dappertutto. E ciò no-nostante, quanto spazio in cui si può ancora stare ed essere lieti e far mu-sica e volersi bene»77, si legge nel Diario in data 22 marzo 1942.

Nonostante guerra, retate e terrore, la natura resta per Etty Hillesum il regno della libertà. E sarà così anche nel lager, anche in quel «villaggio di baracche di legno incorniciato da cielo e brughiera, con un campo di lupini straordinariamente gialli nel mezzo e tutt’intorno fi lo spinato»78. La Hillesum sa bene che non si sentirà mai prigioniera là dove il destino vorrà scaraventarla, perché ci saranno sempre sopra di lei un cielo, uno stormo di uccelli in volo, il sole, il vento e le nuvole. E sempre avrà ter-ra ed erba sotto i piedi: «Fiorire e dar frutti in qualunque terreno si sia piantati – non potrebbe essere questa l’idea?»79. Sì, davvero: «Si è a casa dovunque su questa terra, se si porta tutto in noi stessi»80. Potrebbe esse-re una massima buddhista, questa, al pari di tante altre nel Diario.

La sua, come quella di Bonhoeffer81, è una fedeltà al mondo, alla ter-ra: e qualche albero fra le baracche (simile al gelsomino che dalla fi ne-stra di casa vede fremere al vento) ci sarà pure, nella brughiera recin-tata. Anche a Westerbork, anche lì «la sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il fi lo spinato»82. A contemplare le ultime luci del tramonto. Qui la natura è simbolo di libertà, di ampi spazi sconfi nati: «Jopie è un ca-ro compagno. Di sera assistiamo al tramonto del sole, che si tuffa nei lupini violetti dietro il fi lo spinato»83. E proprio a ridosso degli inva-licabili reticolati, dietro la barriera mortale, Etty Hillesum sperimen-ta l’estremo oltrepassamento: trascendere se stessi e il mondo. Il cielo non può essere rinserrato da fi li metallici ritorti, e neppure le nuvole e i gabbiani. E meno ancora le stelle – le stelle del cielo kantiano così come quelle dell’Orsa Maggiore, che la giovane internata vede riluce-re anche sopra quella contrada sperduta. E subito ne trae un senso di conforto e orientamento – proprio come i naviganti in alto mare. Co-

76 Ibi, pp. 652-53.77 Ibi, p. 437.78 Hillesum, Lettere, p. 48.79 Hillesum, Diario, p. 783.80 Ibi, p. 763.81 D. Bonhoeffer, Fedeltà al mondo. Meditazioni (1971), testi scelti da O. Dudzus e U. Ka-bitz, introduzione di R. Gibellini, trad. it. di M.C. Laurenzi, Brescia 1978 e 19963.82 Hillesum, Lettere, p. 97.83 Ibi, p. 80.

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sì come trae un senso di improvvisa gioia, un giorno, nel vedere l’arco-baleno disegnarsi sopra il campo, mentre il sole va rifl ettendosi nelle pozzanghere melmose.

La natura ha leggi eterne, non transeunti né arbitrarie o inique come quelle umane: leggi scritte ovunque intorno a noi, basta solo saperle co-gliere e saperle interpretare, leggi compassionevoli, purché se ne rispet-ti il ritmo:

E così ora provo a vivere senza preoccuparmi di timbri verdi rossi blu e di liste di deportati, e di tanto in tanto faccio visita ai gabbiani, nei cui movimenti per i vasti cieli nuvolosi si indovinano leggi, eterne leggi di un genere diverso da quelle che creiamo noi uomini84.

La libertà rappresentata dalla natura diventa allora metafora della liber-tà conquistata interiormente:

In me scorrono i larghi fi umi e s’innalzano le grandi montagne. Dietro gli arbu-sti della mia irrequietezza e dei miei smarrimenti si stendono le vaste pianure della mia calma e del mio abbandono. Tutti i paesaggi sono in me, ho tanto po-sto ora, in me c’è la terra e c’è anche il cielo85.

Sì: anche in quell’unico pezzo di strada che ancora le rimane (dall’em-blematico nome di Boulevard des Misères), anche nella brughiera di Westerbork, sorvegliata a ogni lato dalle torrette delle SS e da loro te-nuta sotto tiro, anche lì quei cieli continuano a stendersi sconfi nati so-pra di lei e dentro di lei, dandole un senso di radicamento, anche nel fango e nella sabbia mulinante del lager: dovunque il cielo si inarca so-pra gli uomini, lì si è a casa, questo è l’insegnamento di Etty Hillesum, che nemmeno a Westerbork prova nostalgia, perché anche lì: «Si è “a casa”. Si è a casa sotto il cielo. Si è a casa dovunque su questa terra, se si porta tutto in noi stessi»86. In ogni luogo del mondo le sarà possibi-le osservare le stelle e sentirsi radicata: la nostra casa e la nostra patria siamo noi stessi e quello che portiamo dentro di noi (e, come per tanti suoi correligionari, anche per Etty Hillesum la Bibbia è la «patria por-tatile», sin dentro l’ultimo ricetto: il vagone merci per Auschwitz). Ec-co perché le SS non le possono portare via nulla, possono solo tenere in ostaggio il suo corpo, ma non imprigionarne lo spirito. Uno spirito che non fl ette, perché

84 Ibi, p. 104.85 Hillesum, Diario, pp. 792-93.86 Ibi, p. 763.

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per umiliare qualcuno si dev’essere in due: colui che umilia e colui che è umi-liato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria87.

Etty Hillesum non ha mai la sensazione di essere privata della sua vera libertà, di essere nelle grinfi e delle SS: l’anima non conosce barriere e non ha patria, o meglio: «l’anima ha una sola grande madrepatria e lì non vi sono frontiere», così scrive nel Diario88.

Anche Julius Spier, benché morto, è lì con lei nel cielo sopra Westerbork: «Da qualche tempo Jul si libra nel cielo di questa bru-ghiera, è una cosa inesplicabile, un nutrimento quotidiano»89. È l’esi-to di un oltrepassamento interiore, di un espandersi e auto-trascender-si nell’amore. È ciò che ha condotto la Hillesum dall’amore erotico e individualizzante nei confronti di un singolo uomo all’amore univer-salizzante per l’intera umanità, nemico incluso.

Etty Hillesum porta Spier dentro di sé, così come dentro di sé porta Dio. E anche a Spier si potrebbe riferire il versetto del Salmo 23: ki attah immadì («perché tu sei con me»), anche verso l’amico morto lei leva lo sguardo dalla prigionia del lager, come scrive in una lettera. E qui avver-to l’eco della domanda affi data al Diario il 15 settembre 1942: «E perché poi non dovrei vivere in cielo? Il cielo esiste, perché non ci si potrebbe vivere? [il che mi richiama alla mente con un brivido il verso di Paul Ce-lan: “scaviamo una tomba nell’aria, là non si giace allo stretto”90] O piut-tosto: il cielo vive dentro di me. Devo pensare a un’espressione di una poesia di Rilke: “spazio interiore del mondo [Weltinnenraum]”»91.

E poi «se tu vivi interiormente forse non c’è neanche tanta differenza tra essere dentro o fuori di un campo»92 si legge in un’altra annotazione del Diario, cui l’Autrice già aveva confi dato: «Sono di nuovo così vasta e libera dentro»93. Il suo paesaggio interiore replica le grandi steppe rus-se della terra materna, in cui un giorno la fi glia di Riva Bernstein vuole tornare. Così ripete spesso. Ma il suo viaggio verso Est si arresterà in Po-lonia: nel «Governatorato Generale».

Dove più ferrea è la morsa, più grande è la breccia della libertà in-teriore. Etty Hillesum riesce anzi a mantenersi sempre aperta a tutto

87 Ibi, p. 637.88 Ibi, p. 402.89 Hillesum, Lettere, p. 130.90 P. Celan, Fuga della morte, in Poesie, a cura e con un saggio di G. Bevilacqua, Milano 1998, p. 63. 91 Hillesum, Diario, p. 751.92 Ibi, p. 413.93 Ibi, p. 161.

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ciò che sta accadendo nel resto del mondo, al di là dell’orizzonte di Wes terbork: «Può sembrare inverosimile, ma spesso sono molto più tri-ste per quanto avviene nel mondo esterno che non per questo campo di battaglia»94.

Guardando però dalla prospettiva del fi lo spinato, a chi è stata tolta davvero la libertà? Chi sono gli autentici prigionieri? I non-liberi vivono al di qua o al di là (o al di sopra) del fi lo spinato? Chi è veramente pri-gioniero (della propria complicità o acquiescenza, del proprio non vo-ler vedere)? Gli internati o i loro «custodi» lassù sulle torrette di guar-dia, o gli abitanti «liberi» delle case e fattorie circostanti, i quali condu-cono una vita apparentemente «normale»?

Chi è insomma più prigioniero? Ascoltiamo che cosa dice un internato puntando il dito in alto, in lontananza: «Noi dietro il fi lo spinato? […] sono piuttosto loro a vivere dietro il fi lo spinato!». «Il fi lo spinato è una mera questione di punti di vista», ne conviene la Hillesum95.

«Chi è più prigioniero?» riprende oggi la questione Giacoma Limen-tani «chi, col corpo imprigionato da una legge folle, ne riconosce con l’anima la follia, oppure chi, libero nel corpo, senza batter ciglio riesce a guardare i prigionieri della legge folle, o addirittura a collaborare con essa?»96.

Quale differenza separa dunque i carcerati dai carcerieri? (quel di-to era puntato su di loro?). Non trascorrono forse anche questi ultimi la maggior parte della vita dietro lo stesso perimetro di morte? E qua-le sarebbe poi stato il loro destino, una volta eseguito il massacro? È no-to il ruolo assegnato nei lager ai Volksdeutsche, quei «tedeschi etnici» che la pace di Versailles lasciò fuori e lontano dai confi ni della Repubblica di Weimar (per esempio i sassoni della Transilvania o gli svevi del Ba-nato97). Costoro erano considerati da Hitler «tedeschi di seconda clas-se», e proprio per questo venne affi dato loro il lavoro sporco nei lager. Sì, a quei tedeschi un po’ «imbastarditi» dai secoli trascorsi in mezzo al-le «razze balcaniche inferiori», e nel contempo anche un po’ incretiniti dall’endogamia, a quei tedeschi di seconda classe sarebbe toccata – do-po aver scritto la «gloriosa pagina» dello sterminio – la stessa sorte del-le loro vittime. Come spesso accade ai sicari delle organizzazioni gang-steristiche…98.

94 Hillesum, Lettere, p. 106.95 Ibi, p. 52.96 G. Limentani, Il linguaggio del corpo, in L’esperienza dell’Altro. Studi su Etty Hillesum, p. 142. 97 Si veda, a questo proposito, D. Schlesak, Il farmacista di Auschwitz (2006), trad. it. di T. Cavallo, Milano 2009.98 Su questo argomento mi permetto di rinviare a R. Cazzola, Giochi di sponda. Considera-zioni sulla giustizia in Friedrich Dürrenmatt, in Giustizia e Letteratura - I, pp. 272-288.

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«PERDONARE DIO» 731

Osservando gli uomini dalla divisa verde, la giovane internata non ha dubbi: «Determiniamo il nostro destino dall’interno [… Se] siamo pri-gionieri o guardie carcerarie, non fa poi una grande differenza: le stes-se mura ci circondano»99.

Anche nei loro confronti, come abbiamo visto, lei non coltiva in sé quell’odio che già satura il mondo e il microcosmo del lager. E senza odio oltrepasserà l’ultimo confi ne: la barra che il martedì mattina si al-za sui binari della linea Westerbork-Auschwitz, mentre i deportati lascia-no il campo cantando e la locomotiva «di nuovo vomita le sue nuvole di fumo»100.

Lungo quei binari, il 4 settembre del 1943, cadrà dalle commessure del dodicesimo vagone merci l’ultimo messaggio all’amica Christine. Un «arrivederci» fi ducioso, in cui è scritto a matita: «Il Signore è il mio alto ricetto»101. Qualcuno ha raccolto anche per noi la cartolina accanto al-le rotaie che oggi sono spezzate per sempre, a Westerbork, e simbolica-mente ricurve verso il cielo.

Il cielo che per Etty Hillesum non aveva confi ni, ma solo stelle, nu-vole e gabbiani.

99 Hillesum, Diario, p. 384.100 Hillesum, Lettere, p. 100.101 Ibi, p. 155.

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GLI AUTORI

Alessandro Antonietti, Professore ordinario di Psicologia generale, Facoltà di Psicologia, Direttore del Dipartimento di Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Pierpaolo Astorina Marino, Assegnista di ricerca in Diritto penale, Facoltà di Economia e Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Gianfranca Balestra, Professore ordinario di Letteratura italiana contempo-ranea, Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne, Università degli Studi di Siena.

Mario Barenghi, Professore ordinario di Letteratura italiana, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Eraldo Bellini, Professore ordinario di Letteratura italiana, Facoltà di Lettere e Filosofi a, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Andrea Bienati, Dottore di ricerca in Scienze politiche e sociali.

Gianni Canova, Professore ordinario di Storia del cinema, Preside della Fa-coltà di Comunicazione, Relazioni pubbliche e Pubblicità, Libera Università di Lingue e Comunicazione.

Annamaria Cascetta, già Professore ordinario di Storia del teatro e dello spet-tacolo, Facoltà di Lettere e Filosofi a, Direttore del CIT, Centro di cultura e di iniziativa teatrale “Mario Apollonio”, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Arturo Cattaneo, Professore ordinario di Lingua e Letteratura inglese, Fa-coltà di Scienze linguistiche e Letterature straniere, Università Cattolica del Sa-cro Cuore.

Alberto Cavaglion, Docente di Storia dell’ebraismo, Facoltà di Lettere e Filo-sofi a, Università degli Studi di Firenze.

Roberto Cazzola, Scrittore, Responsabile della germanistica presso la casa editrice Adelphi.

Francesco D’Alessandro, Professore associato di Diritto penale commerciale, Facoltà di Economia, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Remo Danovi, Avvocato in Milano, già Presidente del Consiglio nazionale fo-

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828 GLI AUTORI

rense e professore a contratto di Deontologia forense, Università degli Studi di Milano.

Gabriele Della Morte, Ricercatore confermato di Diritto internazionale, Fa-coltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Alain Maria Dell’Osso, Assegnista di ricerca in Diritto penale, Facoltà di Giu-risprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Pasquale De Sena, Professore ordinario di Diritto internazionale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Marina Di Lello Finuoli, Dottoranda di ricerca in Diritto penale, Cultore del-la materia in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Ruggero Eugeni, Professore ordinario di Semiotica dei Media, Facoltà di Let-tere e Filosofi a, Direttore dell’Almed, Alta Scuola in media, comunicazione e spettacolo, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Luciano Eusebi, Professore ordinario di Diritto penale, Facoltà di Giurispru-denza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Luigi Forte, già Professore ordinario di Lingua e Letteratura tedesca, Dipar-timento di Lingue e Letterature straniere e Culture moderne, Università degli Studi di Torino.

Gabrio Forti, Professore ordinario di Diritto penale e Criminologia, Presi-de della Facoltà di Giurisprudenza, Direttore del Centro Studi “Federico Stel-la” sulla Giustizia penale e la Politica criminale, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Pierantonio Frare, Professore associato di Letteratura italiana, Facoltà di Scienze della Formazione, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Paola Gaeta, Professore ordinario di Diritto internazionale penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Ginevra.

Fausta Garavini, Scrittrice, già Professore ordinario di Lingua e Letteratura francese, Facoltà di Lettere e Filosofi a, Università degli Studi di Firenze.

Giovanni Gasparini, già Professore ordinario di Sociologia dei processi econo-mici e del lavoro, Docente di Sociologia, Facoltà di Economia, Università Catto-lica del Sacro Cuore.

Saverio Gentile, Ricercatore di Storia del diritto medievale e moderno, Facol-tà di Giurisprudenza, Università E-Campus di Novedrate.

Velania La Mendola, Componente del Comitato di redazione della Rivista in-ternazionale di studi sciasciani «Todomodo».

Claudia Mazzucato, Ricercatore confermato di Diritto penale, Facoltà di Scienze politiche e sociali, Docente incaricato di Diritto penale I, Facoltà di Economia e Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

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GLI AUTORI 829

Antonio Oleari, Scrittore, Dottore in Filologia moderna.

Carlo Pagetti, Professore ordinario di Letteratura inglese, Facoltà di Studi Umanistici, Università degli Studi di Milano.

Carlo Enrico Paliero, Professore ordinario di Diritto penale, Facoltà di Giu-risprudenza, Università degli Studi di Milano.

Alessandro Provera, Assegnista di ricerca in Diritto penale, Facoltà di Giuri-sprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Francesco Rognoni, Professore ordinario di Lingua e letteratura inglese, Fa-coltà di Scienze linguistiche e Letterature straniere, Università Cattolica del Sa-cro Cuore.

Giovanni Santambrogio, Giornalista.

Roberto Scarpinato, Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Cal-tanissetta.

Cesare Segre, Professore emerito di Filologia romanza, Università degli Studi di Pavia, Direttore del Centro di Ricerca su Testi e tradizioni testuali dello IUSS.

Stefano Solimano, Professore ordinario di Storia del diritto medievale e mo-derno, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Biancamaria Spricigo, Dottore di ricerca in Diritto penale, Cultore della ma-teria in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sa-cro Cuore.

Arianna Visconti, Ricercatore di Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

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IL GRUPPO DI RICERCA DEL CENTRO STUDI “FEDERICO STELLA”

SULLA GIUSTIZIA PENALE E LA POLITICA CRIMINALE (CSGP)

L’ideazione e la realizzazione dei Cicli seminariali di Giustizia e letteratura (Law and Literature) nel biennio 2011-2013 nonché la pubblicazione di questo volume si devono al lavoro dell’intero Gruppo di ricerca del CSGP.

DIREZIONE:Gabrio Forti, Professore ordinario di Diritto penale e Criminologia, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

COORDINAMENTO:Claudia Mazzucato, Ricercatore confermato di Diritto penale, Facoltà di Scienze politiche e sociali, Docente incaricato di Diritto penale I, Facoltà di Economia e Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Alessandro Provera, Assegnista di ricerca in Diritto penale, Facoltà di Giuri-sprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Giuseppe Rotolo, Ricercatore di Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Docente incaricato di Diritto penale, Facoltà di Scienze politiche e sociali, Uni-versità Cattolica del Sacro Cuore.

Arianna Visconti, Ricercatore di Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

GRUPPO DI RICERCA:Pierpaolo Astorina Marino, Assegnista di ricerca in Diritto penale, Facoltà di Economia e Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Matteo Caputo, Ricercatore confermato di Diritto penale, Facoltà di Giuri-sprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore, Docente incaricato di Diritto penale avanzato, Facoltà di Giurisprudenza, Università del Salento.

Francesco D’Alessandro, Professore associato di Diritto penale commerciale, Facoltà di Economia, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Alain Maria Dell’Osso, Assegnista di ricerca in Diritto penale, Facoltà di Giu-risprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Vincenzo Dell’Osso, Dottore di ricerca in Diritto penale.

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IL GRUPPO DI RICERCA DEL CSGP 831

Marina Di Lello Finuoli, Dottoranda di ricerca in Diritto penale, Cultore del-la materia in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Raffaella Di Meglio, Dottore in Giurisprudenza.

Clara Gipponi, Dottore in Giurisprudenza.

Marta Lamanuzzi, Dottoranda di ricerca in Diritto penale, Cultore della ma-teria in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sa-cro Cuore.

Federica Liparoti, Dottoranda di ricerca in Diritto penale, Cultore della ma-teria in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sa-cro Cuore.

Anna Marcoli, Dottore in Giurisprudenza.

Mattia Miglio, Avvocato in Milano.

Emanuele Stefano Regondi, Dottore in Giurisprudenza.

Fabio Gino Seregni, Dottore in Giurisprudenza.

Biancamaria Spricigo, Dottore di ricerca in Diritto penale, Cultore della ma-teria in Diritto penale, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sa-cro Cuore.

Stefania Tunesi, Dottoranda di ricerca in Diritto penale, Università degli Stu-di di Pavia.

Cristiana Viganò, Avvocato in Bergamo.

Con la collaborazione di:Federica Destefani, Dottore in Giurisprudenza.

Paola Fascendini, Dottore in Giurisprudenza.

Elena Pezzotti, Dottoranda di ricerca in Psicologia, Facoltà di Scienze della Formazione, Università Cattolica del Sacro Cuore.

Marco Trinchieri, Dottore in Giurisprudenza.

Con il supporto organizzativo di:Anna Giampaolo, Responsabile Coordinamento e Segreteria CSGP.

Sara Parrello, Segreteria CSGP.

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Finito di stamparenel mese di marzo 2014

da Litografi a SolariPeschiera Borromeo (Milano)