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1 Giuseppe Limone, Filosofia del diritto/Filosofie del diritto, in U. Pomarici (a cura di), Atlante di Filosofia del diritto, Vol I, Giappichelli, Torino 2012, pp. 218-258, ISBN 9788834837214. (28) FILOSOFIA DEL DIRITTO/FILOSOFIE DEL DIRITTO Giuseppe Limone 1. Alcuni quesiti Il diritto è un fenomeno sociale che può essere oggetto di considerazioni scientifiche e di considerazioni filosofiche. Esso sarà pertanto sottoposto a indagine da parte di tante prospettive scientifiche e di tante prospettive filosofiche. Prima d’interrogarsi però sulla varietà di tali prospettive, bisognerà interrogarsi sui significati di “scienza del diritto” e di “filosofia del diritto”. La domanda “che cos’è la filosofia del diritto?” può avere molteplici implicazioni e percorsi. Essa si scioglie nelle domande “che cos’è la filosofia?” e “che cos’è il diritto?”, alle quali la risposta può essere variegata e complessa. Proveremmo qui, innanzitutto, a interrogare il sintagma ‘filosofia del diritto’, osservando come lo si possa intendere in due sensi diversi, appartenenti per noi a un unico volume di significato. “Filosofia del diritto”, infatti, ruota intorno a un complemento di specificazione, a un genitivo, leggibile secondo due accezioni diverse: quella di un genitivo oggettivo e quella di un genitivo soggettivo. Due accezioni da assumere come concorrenti a un unico significato. ‘Filosofia del Diritto’ ha, in questo senso, un valore complesso in cui si parla non solo della filosofia che si occupa del fenomeno sociale che chiamiamo Diritto, ma, al tempo stesso, della filosofia che può riconoscersi in tale fenomeno implicata, cristallizzata: come complesso di scelte, di valori, di idee, di selezioni di possibilità. Si pensi, per esempio, al senso che ha l’espressione ‘f ilosofia di un progetto’ là dove si intende significare appunto il complesso di scelte soggiacenti al progetto delineato, e quindi in esso cristallizzate. Filosofia del Diritto, pertanto, è sia filosofia che si occupa del Diritto, sia filosofia che ricerca la filosofia già immateriata nel Diritto che c’è. Per concludere, potranno distinguersi tre livelli diversi nel significato ‘Filosofia del Diritto’: un primo livello riguarderà la filosofia che si occupa del diritto come fenomeno sociale e storico in tutte le sue forme; un secondo livello riguarderà la filosofia riconoscibile come cristallizzata

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Giuseppe Limone, Filosofia del diritto/Filosofie del diritto, in U. Pomarici (a

cura di), Atlante di Filosofia del diritto, Vol I, Giappichelli, Torino 2012, pp. 218-258,

ISBN 9788834837214.

(28)

FILOSOFIA DEL DIRITTO/FILOSOFIE DEL DIRITTO Giuseppe Limone

1. Alcuni quesiti

Il diritto è un fenomeno sociale che può essere oggetto di

considerazioni scientifiche e di considerazioni filosofiche. Esso sarà

pertanto sottoposto a indagine da parte di tante prospettive scientifiche e di

tante prospettive filosofiche. Prima d’interrogarsi però sulla varietà di tali

prospettive, bisognerà interrogarsi sui significati di “scienza del diritto” e di

“filosofia del diritto”.

La domanda “che cos’è la filosofia del diritto?” può avere molteplici

implicazioni e percorsi. Essa si scioglie nelle domande “che cos’è la

filosofia?” e “che cos’è il diritto?”, alle quali la risposta può essere

variegata e complessa.

Proveremmo qui, innanzitutto, a interrogare il sintagma ‘filosofia del

diritto’, osservando come lo si possa intendere in due sensi diversi,

appartenenti – per noi – a un unico volume di significato. “Filosofia del

diritto”, infatti, ruota intorno a un complemento di specificazione, a un

genitivo, leggibile secondo due accezioni diverse: quella di un genitivo

oggettivo e quella di un genitivo soggettivo. Due accezioni da assumere

come concorrenti a un unico significato. ‘Filosofia del Diritto’ ha, in questo

senso, un valore complesso in cui si parla non solo della filosofia che si

occupa del fenomeno sociale che chiamiamo Diritto, ma, al tempo stesso,

della filosofia che può riconoscersi in tale fenomeno implicata,

cristallizzata: come complesso di scelte, di valori, di idee, di selezioni di

possibilità. Si pensi, per esempio, al senso che ha l’espressione ‘filosofia di

un progetto’ là dove si intende significare appunto il complesso di scelte

soggiacenti al progetto delineato, e quindi in esso cristallizzate.

Filosofia del Diritto, pertanto, è sia filosofia che si occupa del Diritto,

sia filosofia che ricerca la filosofia già immateriata nel Diritto che c’è.

Per concludere, potranno distinguersi tre livelli diversi nel significato

‘Filosofia del Diritto’: un primo livello riguarderà la filosofia che si occupa

del diritto come fenomeno sociale e storico in tutte le sue forme; un

secondo livello riguarderà la filosofia riconoscibile come cristallizzata

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nello stesso fenomeno osservato; infine, un terzo livello, semanticamente

più pregnante, riguarderà la filosofia che si occupa del fenomeno-diritto sia

in relazione agli altri fenomeni della vita, sia nei significati filosofici già

cristallizzati in quell’oggetto.

2. Filosofia e Diritto

Ma che cos’è ‘Filosofia’ e che cos’è ‘Diritto’? Preferiremmo muovere

da una distinzione capitale, portata in auge da Martin Heidegger, il quale,

come è noto, ha scritto: “La scienza calcola, la filosofia pensa”.

La scienza calcola. La scienza misura il suo oggetto come un dato che

non mette in discussione e che, anzi, assume come premessa del discorso.

E, nel farlo, misura, all’interno del suo oggetto, tutte le possibili relazioni,

strutture, funzioni. Misurazione compiuta attraverso passi logici anch’essi

misurati (‘algoritmici’): il ‘metodo’. Che è la strada attraverso la quale la

scienza conosce il suo oggetto per sezionarlo noeticamente in tutte le

possibili relazioni, strutture, funzioni.

La filosofia pensa. Mentre la scienza identifica e calcola significati, la

filosofia apre la domanda sui valori e sul senso, assumendo il primato del

domandare sul rispondere e prospettando come oggetto problematico lo

stesso conoscere, valutare e agire. La filosofia indaga il suo oggetto

insieme col lessico in cui arriva: studiandone i presupposti, mettendolo in

rapporto con le prospettive possibili, coi valori, coi caratteri

dell’interpretazione e del linguaggio, coi limiti della conoscenza e del

pensiero, con l’incidenza del metodo sull’oggetto, con le condizioni di

possibilità del guardare e del guardato, col complessivo mondo dell’agire,

con l’essere profondo della realtà, con l’esistere umano e con le sue

domande di senso. E, nel far questo, la filosofia mette in questione tutto ciò

che le appare come un dato, scoprendolo come un problema. In quanto

attività investigante sui presupposti, infatti, la filosofia è una straordinaria

forza di demistificazione dell’ovvio e, perciò, di vigilanza critica nei

confronti del reale e delle sue forme. In questo senso, essa è interrogazione

che muove dai più radicali centri di senso dell’esistenza umana, per

investire ogni possibile oggetto da cui esigere risposte. Sulla sua

consistenza conoscitiva sembra opportuno, perciò, fin da ora, indicare due

profili di riflessione. In primo luogo, in quanto l’attività filosofica nasce

all’incrocio tra forza critica e fantasia speculativa. In secondo luogo, in

quanto l’attività filosofica è aperta alle necessità originarie di ogni pensante

(ogni uomo è naturalmente filosofo) ed è abbisognevole di capacità critiche

e talenti che non è facile a tutti conseguire.

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Dicevamo che la scienza calcola e la filosofia pensa. In un senso

semplice e rigoroso è certamente vero che sia il calcolare sia il pensare

sono attività intellettuali. Ma fra queste due forme di attività va individuata

fin dall’inizio una differenza essenziale: mentre il calcolare cerca di

individuare una risposta all’interno dei presupposti già dati, risposta quindi

già determinata ancor prima che la si trovi (si pensi, per esempio, al calcolo

di una soluzione all’interno di un sistema di equazioni), il pensare è

inventare percorsi nuovi non predeterminabili in astratto e potenzialmente

infiniti, percorsi la cui qualità deriva dalla fantasia teoretica con cui

l’autore, collocandosi davanti al possibile e non al determinato, cerca di

immaginare, tra gli infiniti percorsi possibili, quello che apre un punto di

vista nuovo e illuminante sulla questione delineata. In sintesi, il calcolare si

confronta col determinato, il pensare si confronta col possibile: il primo

cerca risposte, il secondo pone domande; il primo cattura soluzioni, il

secondo imposta questioni; il primo lavora con la logica che determina, il

secondo con la fantasia che inventa.

Non va certamente trascurato, in proposito, che fra il ‘calcolare’ e il

‘pensare’ si dànno molte zone di frontiera, di sovrapposizione e d’incrocio.

Una tale considerazione conduce ai molteplici modi in cui scienza e

filosofia sono chiamate a collaborare e a interagire. Non a caso, il livello

filosofico dell’investigare emerge sempre, prima o poi, dal seno stesso delle

scienze, le quali, a un certo livello del loro calcolare, avvertono un bisogno

teorico ineludibile: sia – in termini verticali – nel riflettere sul senso del

loro operare, sia – in termini orizzontali – nel rompere le paratie

disciplinari in nome di un’epistemologia della complessità. Si pensi, oggi,

all’emergere incontenibile, dal seno delle stesse scienze, di interrogazioni

filosofiche miranti a saperi transdisciplinari, epistemologici, bioetici,

biogiuridici, biopolitici, biofilosofici.

In questo senso, se il calcolare della scienza si pone a un livello primo,

il pensare che essa scienza propizia si colloca al livello secondo di un

meta-calcolare, donde si apre lo spazio alla filosofia.

Ma che cos’è il Diritto? Varie sono state le risposte a una tale

domanda. Il diritto è stato visto, volta per volta, come modello inscritto

nella natura, o nella vita, o nella ragione umana, o come norma, o rapporto,

o istituzione, o come attività dello spirito, o come libera creazione dei

commerci, o come elaborazione simbolica della pressione psico-sociale, o

come previsione concettuale delle sentenze del giudice, o come

ordinamento imposto da un’Autorità idonea a farsi obbedire, o come

complesso fenomeno interpretativo fondato su una scienza delle

precomprensioni (in quest’ultimo caso, ‘ermeneutica’). A ognuno di questi

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atteggiamenti con cui può guardarsi il diritto corrisponde una particolare

“filosofia del diritto”, o meglio una particolare dottrina filosofica del

diritto.

Andando oltre le sfaccettature indicate, va fatta una precisazione

preliminare. In una prima approssimazione, può dirsi che il diritto va visto

a due livelli di fondo: 1) come la complessiva attività pratica con cui una

società – strutturata o no in Stato – si autoregola in un ordine garantito; 2)

come il risultato in cui quest’attività si deposita, facendosi conoscere e

rispettare.

Non c’è società umana che possa vivere senza un ordine, il quale ne è

imprescindibile condizione di possibilità. Ma ogni società si avvale di più

strategie di persuasione all’ordine: il costume, l’etica, le credenze comuni,

la religione, l’economia, il buon gusto, il buon senso, le regole di

convenienza, le sanzioni sociali, il diritto. Si tratta di forme regolatrici,

configurabili come tanti circoli attraverso cui una società mira, per la sua

conservazione, a darsi un ordine, ossia strutture vincolanti di

comportamenti prevedibili e ripetibili nel cui quadro far vivere stabilmente

attività, cómpiti, richieste, aspettative. Ma tali forme di persuasione

all’ordine non sempre conseguono il proprio scopo. Se proviamo a pensare

a tali strategie come a tanti circoli inscritti in uno più grande, possiamo

accorgerci che il diritto costituisce, almeno nelle società più evolute, il

circolo più interno e più duro, quello in cui l’attività autoregolatrice si

esprime in una forma più stringente, capace di strutturare – attraverso

vincoli imposti e aspettative tutelate – un ordine garantito. “Ordine”,

infatti, è l’insieme delle strutture prevedibili e ripetibili entro le quali può

svolgersi stabilmente la convivenza umana. Esso è “garantito” nella misura

in cui l’attività regolatrice che lo pone sia capace di imporre

complessivamente l’osservanza delle sue regole. In questo senso, la

“garanzia” è null’altro che l’idoneità strutturale della forza regolatrice a

rendere “effettiva” – almeno in certi limiti – l’osservanza di quanto da essa

disposto, mentre l’“effettività” è null’altro che il concreto svolgersi dei

comportamenti, almeno nelle linee generali, secondo l’ordine imposto. Si

pensi, per un esempio, all’importanza di garantire dalla volubilità la parola

data.

Il Diritto, perciò, è sia l’attività pratica con cui una società regola sé

stessa in forme vincolanti, sia il prodotto in cui una simile attività si

sedimenta. Si tratta di due piani che non vanno confusi. Molto spesso,

invece, soprattutto nell’era contemporanea, le dottrine giuridiche e

filosofico-giuridiche li confondono, riducendo di fatto, consapevolmente o

inconsapevolmente, il primo livello al secondo. La dottrina

giuspositivistica, per esempio, considerando come unico Diritto esistente

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l’ordinamento formale imposto da un’Autorità capace di renderlo effettivo

nel sociale, riduce il primo piano al secondo, espellendo dall’orizzonte

conoscitivo il primo. Si tratta di un’estromissione che è fonte di molti

equivoci e conseguenze.

A prescindere dalla distinzione teorica fra l’attività regolatrice della

società e il prodotto in cui si esprime, se ci limitiamo a osservare

empiricamente il diritto come fenomeno sociale, incontriamo

necessariamente una pratica sociale. Una società non è solo un insieme di

uomini, ma un insieme di pratiche sociali. Ogni uomo, nel momento stesso

in cui nasce, è già inserito in una rete sociale, nella quale sarà poi condotto

progressivamente a maturare. Non è possibile, d’altra parte, pensare una

pratica sociale indipendentemente dalla regola che in essa si incarna. Ciò

significa che ogni pratica sociale nasce insieme con la regola che in essa si

dà. Ludwig Wittgenstein avrebbe detto che una pratica sociale è una

Lebensform, una Forma di vita. Non è possibile dissociare in questa forma

di vita quanto attiene al comportamento e quanto attiene alla regola, perché

comportamento e regola nascono e vivono insieme. Dentro una pratica

sociale vive una regola già inscritta in essa. Questa regola rappresenta

l’ordine antropologico incarnato in quella pratica e in quella società.

Questo ordine è ciò che consente a una società di conservarsi e di evolvere

secondo una struttura di base. Dentro la società vive necessariamente una

regola, che è il suo jus. Una società non aspetta lo Stato per avere un suo

diritto. Ogni società, in quanto pratica sociale, ha un suo jus. Ubi societas,

ibi jus. Si pensi, per esempio, ad alcune forme socialmente incarnate di jus,

ossia di diritto antropologicamente considerato: il promettere e il rispettare

la parola data, il risarcire le lesioni inferte a un altro, il contrarre

matrimonio, il seppellire e onorare i morti, il prestare giuramento,

l’esprimersi in culti religiosi, il darsi forme di autorità e di giurisdizione,

etcetera. In questo modo, una società realizza da sempre una continua e

invisibile autorigenerazione (conservativa, ricreativa, interpretativa) della

propria tradizione. In questo senso, il jus costituisce l’ordine minimo

attraverso cui una società si conserva nello scorrere delle generazioni.

In senso generalissimo, pertanto, il diritto è una regola condivisa e la

sua esperienza, regola sia in quanto socialmente incarnata nella pratica, sia

in quanto autoritativamente prodotta, sia in quanto intellettualmente

elaborata, studiata, compresa, conosciuta, interpretata, applicata, tradotta

nei vari contesti della vita, allo scopo di realizzare un ordine sociale

osservabile e garantito. In un tale contesto comunitario, storicamente

determinato, circola quel senso di un ordine valoriale minimo condiviso,

che è un principio e che chiamiamo “senso del diritto”, ossia il senso del

diritto di quella determinata comunità.

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Sul piano dello sviluppo epocale, il diritto passerà da un significato

antichissimo, per cui nell’ordine del diritto vivono insieme confusi fattori

religiosi, etici e sociali, a un significato secolarizzato in cui si intenderà per

diritto solo quell’ordine minimo, più stringente e garantito, che consente a

una società di conservarsi, nello spazio e nel tempo, nelle sue linee

essenziali.

3. Forme di diritto e forme di conoscenza

Una società, nel suo autoregolarsi come convivenza stabile, si dà un

Jus – un Diritto. Un tale Jus si esprime in un vissuto comune, storicamente

sedimentato in ragioni sociali e valoriali: attraverso una consuetudine più o

meno identificata con pratiche e credenze religiose, attraverso strutture

oracolari o sapienziali o giurisprudenziali, attraverso princípi sociali

condivisi, attraverso forme di monopolio della forza (“Stato”) che si

traducono in Leggi. Un “Jus” può – non ‘deve’ – darsi in forma di “Lex”.

Ciò che è costitutivo del Diritto come prodotto dell’attività pratica della

società regolatrice non è il puro manifestarsi dello Stato in una legge, ma la

sua idoneità strutturale a determinare un (minimo di) ordine garantito. Ciò

significa che, anche quando una società evoluta si è configurata in Stato,

non cessa affatto di esistere, intanto, quell’attività sociale autoregolatrice

che – in modo meno cosciente e visibile – continua a generare componenti

essenziali del Diritto, che s’incrociano con l’Ordinamento giuridico

formale in tutti i luoghi in cui il diritto, attraverso soggetti concreti, si fa:

guidandone l’identificazione, decidendone le connessioni logiche,

modellandone i significati, valutandone la forza, precisandone l’estensione.

Si tratta di punti d’incrocio in cui il Diritto, pur provenendo da luoghi

diversi del sociale (la coscienza civile, morale, religiosa; il senso della

storia; i costumi; il buon senso; etc.) viene, in punti apicali e ultimativi,

identificato e fatto vivere come mirante a un unico ordine garantito.

È questa la profonda ragione per cui alcuni degli autori più avvertiti,

soprattutto in epoca moderna, hanno preferito distinguere – anche sulle

orme romanistiche e su quelle vichiane – fra Jus e Lex: il Jus come il

prodotto essenziale e complesso che ogni società si dà in ragioni sociali e

valoriali sedimentate per realizzare un ordine antropologico garantito; e la

Lex come una possibile modalità in cui, a opera dello Stato, un tale Jus può

completarsi e specificarsi, ma senza che mai la Lex cessi di far esistere il

‘Jus’, che pur sempre la sottende e la circonda, la precede e la eccede.

Il Diritto, quindi, è un fenomeno sociale che si pone come capace di

dare, alla società umana e ai gruppi in essa operanti, un ordine, almeno

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esterno, garantito.

Il convivere degli uomini, come si sa, è fatto di relazioni. Relazioni di

cooperazione, di conflitto, di organizzazione e perfino (in certi limiti) di

indifferenza. Vi si osserveranno, fra l’altro, relazioni di cooperazione nel

conflitto e di conflitto nella cooperazione. Si tratta di relazioni

indissociabili dalla vita umana. Non possono esserci, infatti, uomini senza

relazioni. Né relazioni senza un minimo di ordine garantito. Se la relazione

è, perciò, una struttura essenziale per l’esistere umano, il diritto è una

struttura essenziale per la relazione. Non a caso un autore – Vincenzo

Tomeo – ha parlato del diritto come della struttura del conflitto. Si precisi:

il diritto è struttura delle relazioni, cui garantisce l’ordine. E lo fa, almeno

negli stadi più evoluti, non solo regolando i comportamenti per impedirne il

conflitto e per consentirne la cooperazione, ma anche per regolare, a un

primo livello, il conflitto fra le azioni; a un secondo livello, il modo con cui

si confligge; e, a un terzo livello, il modo con cui si confligge

nell’interpretare le norme che regolano il conflitto. Come dire che il diritto

non determina solo le regole per non litigare, ma le regole sul come litigare

e le regole sul come litigare sulle regole che regolano il litigare. Ubi

societas, ibi jus.

La filosofia del diritto, pertanto, non indaga su un fenomeno eventuale

della vita degli uomini, ma strutturale. E lo fa secondo due prospettive, da

combinare: 1) sia in quanto è attività della società che si autoregola, sia in

quanto è diritto da essa generato; 2) sia in quanto è ‘Diritto’, sia in quanto,

nel suo costituirsi come Diritto, contiene in sé una filosofia.

4. Ordine

Ma che cos’è ‘ordine’? Il concetto di ‘ordine’, come è noto fin dal

dibattito medievale, implica un duplice livello: un ordine ordinante (‘ordo

ordinans’) e un ordine ordinato (‘ordo ordinatus’). C’è, in ogni assetto, un

ordine pensante e volente che si traduce in ordine realizzato. Si tratta di una

distinzione che, trasferita sul piano del diritto, apre la strada a molte

distinzioni ulteriori, importanti e specifiche, anche se collocate a più scale

di analisi e non sovrapponibili fra loro. Si pensi alla distinzione fra Diritto

formale – depositato in un ‘ordinamento’ – e Diritto effettivo, depositato

nel funzionamento reale delle ‘Istituzioni’. Oppure si pensi alla distinzione

fra ‘Costituzione formale’ (quella scritta nella Legge fondamentale di uno

Stato) e ‘Costituzione materiale’ (quella effettivamente vivente nella prassi,

anche evolutiva, degli Organi supremi).

Un’attenzione prevalente all’uno o all’altro profilo del discorso

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genererà atteggiamenti dottrinali diversi nei confronti del diritto

(normativismo e istituzionalismo, ad esempio) e atteggiamenti disciplinari

diversi nei confronti dello stesso (filosofia del diritto e sociologia del

diritto, ad esempio).

Ma un ‘ordine’ non implica necessariamente l’idea di un ordine giusto.

Come scrive Borges parlando della sua «Biblioteca di Babele»: « ... gli

stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un

ordine: l’Ordine)»1. Un ‘ordine’ implica, infatti, una prevedibilità e una

ripetibilità di forme che consentano uno strutturarsi stabile di attività e di

aspettative. Ma un tale ordine, se è giuridico, deve essere garantito. Là

dove il concetto di garanzia implica quello di idoneità strutturale a rendere

effettivo, in modo più forte e stringente, la prevedibilità e la ripetibilità

stabilite.

Si pensi, in proposito, a quelle forme di garanzia che vengono chiamate

“sanzioni”: previsioni punitive e/o premiali e/o invalidanti, appartenenti a

una strategia idonea a imporre un ordine, almeno esterno, nelle relazioni

sociali. Si pensi, tra le possibili figure di sanzione, alla costrizione,

all’esecuzione forzata, alla rimessa in pristino della situazione violata

(‘reductio in integrum’), al risarcimento dei danni, ad altre forme di

riparazione, all’invalidazione degli atti compiuti, alla privazione o

restrizione della libertà, all’inflizione di pene fisiche o pecuniarie e, nella

più recente evoluzione giuridica, alla predisposizione di misure ‘premiali’

capaci di indurre al comportamento positivamente apprezzato dal diritto.

Occorre, cioè, un ‘ordine ordinante’ idoneo a tradursi di fatto – almeno in

certi limiti – in un ‘ordine ordinato’.

Tali sanzioni, nel comportare un ordine di vincoli, presuppongono, al

tempo stesso, un ordine di poteri, capaci di rendere effettivi quei vincoli. I

quali, a loro volta, presuppongono un ordine di regole (non

necessariamente scritte) che attribuiscano quei poteri.

Il diritto potrà essere indagato, pertanto, a livello fenomenico,

ontologico, semantico, teleologico, logico, metodologico, valoriale,

epistemologico, sociale, politico-istituzionale. In ciò che è, in ciò che

intende essere, in ciò che può essere, in ciò che dovrebbe essere, in ciò che

non può non essere, in ciò che deve poter essere, nelle sue articolazioni

d’essere, nella sua ragion d’essere, nel suo fondamento d’essere, in ciò che

complessivamente significa all’interno dell’esistenza umana.

Si distinguerà pertanto, nell’attività filosofica che investiga sul Diritto,

un’Assiologia del Diritto, una Teoria generale del Diritto (col suo lessico

specifico: diritto soggettivo e diritto oggettivo; norma e ordinamento;

ordinamento giuridico: unità, coerenza, completezza; validità, efficacia,

1 Jorge Luis Borges, Finzioni, Einaudi, Torino 1995, p. 78.

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giustizia, effettività), una Teoria dello Stato (col suo lessico specifico:

sovranità e suo fondamento, divisione dei poteri, Stato di diritto, Stato

sociale, etc.), una Logica del Diritto (col suo lessico specifico: norme

contrarie, contraddittorie, subalterne; norme regolative e costitutive; il

problema delle lacune nell’ordinamento giuridico, etc.), una Filosofia del

linguaggio giuridico, un’Ermeneutica del Diritto, una Critica delle

Istituzioni giuridiche, una Metafisica del Diritto, un’Epistemologia della

scienza giuridica, una Teoria dell’argomentazione, una Filosofia

degl’istituti giuridici nella storia civile. Sono approcci importanti della

filosofia, che però non esauriscono l’universo degli approcci possibili.

Dire ‘ordine’ non significa necessariamente dire ‘ordine giusto’.

Mentre l’ordine giusto, infatti, implica la messa in rapporto con una

filosofia dei valori, l’ordine implica soltanto il rapporto con un insieme di

comportamenti regolati secondo un criterio di prevedibilità, di ripetibilità e

di relativa stabilità, nel quale caso l’ordine non è necessariamente giusto.

Va considerato, inoltre, che un tale ordine può presentarsi secondo due

profili completamente diversi: può concepirsi un ordine razionalmente

pensato e artificialmente imposto a un insieme sociale e può concepirsi un

ordine già immediatamente incarnato in un insieme sociale, in una società.

L’ordine concepito secondo il primo profilo è un ordine che si presenta

come razionale e artificiale, cioè delineato dalla capacità artefice della

ragione di elaborare artifici. L’ordine concepito in base al secondo profilo,

invece, è un ordine immediatamente vivente nell’insieme sociale, nelle sue

pratiche, nelle sue consuetudini: si tratta cioè di un ordine non artificiale,

ma antropologico, grazie al quale l’insieme sociale può conservarsi come

tale, pur nella sua necessaria evoluzione. Occorrerà distinguere perciò, in

ultima analisi, fra un ordine antropologico, un ordine razional-artificiale e

un ordine giusto. Una tale distinzione non implica che i tre ordini indicati

non possano sovrapporsi, ma implica che questi tre profili vanno

analiticamente differenziati. Il primo ordine (l’ordine antropologico)

riguarda il jus, il secondo (l’ordine razional-artificiale) riguarda il diritto

positivo, il terzo (l’ordine giusto) riguarda un ordine discusso alla luce di

una filosofia dei valori.

A ben vedere, tutte le varie dottrine filosofiche del diritto si

distinguono fra loro sulla base della diversa accentuazione di valore che

dànno ai tre profili di ordine qui considerati. Si parlerà pertanto di

giusnaturalismo, di giuspositivismo, di scuola libera del diritto, di

istituzionalismo, di realismo giuridico scandinavo, di realismo giuridico

americano, di ermeneutica etcetera a seconda del diverso ruolo assegnato a

quei tre significati.

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5. Dalla ragione scientifica all’illuminismo: il Diritto nella modernità

L’era moderna si apre, come è noto, fra il Cinquecento e il Seicento,

con le grandi scoperte geografiche, con l’invenzione della stampa, con la

Riforma luterana, con la discussione di un ‘diritto naturale razionale’ (di un

diritto naturale, cioè, che la ragione, natura dell’uomo, emancipandosi dal

fondamento teologico, riconosce nella natura dei soggetti umani in quanto

razionali: giusrazionalismo), con la nascita dello Stato moderno e delle sue

visioni teoriche (Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Montesquieu,

Rousseau), con la nascita dei canoni della scienza nuova e del suo metodo

(Copernico, Keplero, Galileo, Bacone, Cartesio, Newton, Leibniz, Vico). In

un tale contesto, la nuova concezione della scienza, istituendo un diverso

paradigma della ragione, che si emancipa dall’ipoteca del divino e

preferisce muovere dal fondamento del pensiero, individuerà, come

caratteristica del nuovo modo di investigare sul vero, l’incontro metodico

delle esperienze con la ragione: e, di qui, la sperimentalità, la ripetibilità, la

misurabilità, la prevedibilità, la riproducibilità e controllabilità delle

verifiche, insieme con la possibile artificialità derivante dal riprodurre

sperimentalmente il compreso, nell’ambito della fondamentale soggettività

ponente dell’attività ricercatrice.

In questo senso, nel Settecento, il movimento dell’illuminismo,

nascendo in Francia e irradiandosi in Europa, darà vita, nelle diverse sue

declinazioni, a un grande fenomeno di trasferimento dei princípi della

scienza moderna, dello Stato moderno e della coscienza religiosa moderna

sul piano politico-sociale. Si tratta di quell’illuminismo di cui Kant ha

lapidariamente scritto che è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità in

nome della ragione.

Il Diritto tenderà ad acquistare così, nel dibattito fra gli illuministi, una

sua forma e un suo valore, strutturalmente legati al configurarsi dello Stato

moderno e alla sua idea di sovranità. In questo evento complesso il

baricentro teorico dell’illuminismo giuridico sarà costituito da una Ragione

legislatrice, chiamata a dare le basi a un diritto razionale, semplice, uguale,

capace di garantire i diritti naturali dei consociati. La potestà legislatrice, in

un tale discorso, deve essere illuminata dalla ragione e, quindi, idonea a

porsi come unica produttrice di diritto e come autrice di una

semplificazione razionale che elimini ogni altra fonte, allo scopo di

garantire una disciplina, in quanto razionale, unica e unificante. In questa

concezione, secondo le linee emergenti dal dibattito, le leggi prodotte dalla

Ragione legislatrice dovranno essere: pre-date (ossia poste in essere prima

dei comportamenti da normare), scritte, poche, semplici, chiare, astratte,

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generali, stabili, costituenti un ordine coerente e completo.

Ognuna di queste caratteristiche strutturali ha un suo specifico senso.

Attraverso tali prescrizioni razionali al potere legislativo, infatti, il

movimento illuminista tendeva a porre limiti – più che di contenuto – di

struttura all’Autorità sovrana: ciò affinché essa, qualunque cosa

disponesse, si sottoponesse, nel disporlo, a forme che assicurassero, sempre

e necessariamente, la precostituzione e la chiarezza del disposto, la sua

valenza per tutti, la sua stabilità nel tempo, la sua complessiva coerenza e la

sua radicale completezza. Si veniva a perseguire, così, come fine

fondamentale della ragione legislatrice, l’idoneità strutturale della norma a

disciplinare ex ante – e quindi senza interventi ex post – tutti i

comportamenti e le situazioni possibili. In una simile concezione sulla

sostanza e sui limiti razionali del potere sovrano, si trattava, in realtà, di

pensare, più che le regole, le regole con cui pensare le regole.

Collocandosi, quindi, in un’ottica, più che regolatrice, meta-regolatrice.

Vediamo. Le leggi, in base alla filosofia implicata in una simile

strategia di pensiero, dovranno essere poche, semplici e chiare: per essere

comprese senza equivoci da chi le applica e da chi vi è sottoposto.

Dovranno essere, inoltre, astratte e generali: per essere uguali per tutti

nello spazio; e stabili, per essere uguali per tutti nel tempo. Se le leggi

fossero, infatti, solo astratte e generali e non stabili, l’uguaglianza di

trattamento normativo garantita nello spazio sarebbe aggirata dalla

disuguaglianza di trattamento nel tempo.

Le leggi, infine, dovranno costituire un ordinamento completo, perché

solo in tal caso, prevedendo tutti i casi possibili, saranno veramente affidate

al potere del legislatore (diventando uguali per tutti) e non rimesse

all’arbitrio del giudice, che si esprimerebbe caso per caso, trasformandosi,

così, in un arbitrario legislatore.

Le leggi, quindi, dovranno costituire un ordine coerente e completo.

Esse non saranno, perciò, né contraddittorie né lacunose: là dove ne va non

della bellezza letteraria dell’ordinamento, ma della libertà e

dell’uguaglianza dei cittadini.

È prefigurata qui, in termini di ingegneria normativa, quella situazione

strutturale dello Stato che si chiamerà “divisione dei poteri”, per la quale il

potere legislativo è l’unico depositario della funzione di normare in via

astratta e generale, laddove al potere giudiziario compete soltanto la

funzione di applicare la norma al caso concreto: senza poter nemmeno

interpretarla, perché la possibilità interpretativa significherebbe pur

sempre la sostituzione di più norme a una norma sola, con la contestuale

creazione, da parte del giudice, di norme per i casi singoli e, quindi,

usurpatrici del potere di normare in via astratta e generale, spettante solo al

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legislatore. Il giudice deve solo rilevare la norma. Egli è semplicemente la

bocca che pronuncia le parole della legge sul caso a lui sottoposto. Il

modello del suo giudizio è il sillogismo.

Si tratta, in realtà, della concezione attraverso cui, affidando il compito

di creare leggi (astratte, generali, stabili, coerenti, complete) al solo potere

legislativo e nessun potere creativo al giudice, si intende assicurare la

libertà del cittadino: una libertà sostanziata nel fatto che il cittadino sarà

sottoposto a una legge che conosce con chiarezza e da prima, emanata per

tutti, tale da non consentire a nessuno, nemmeno al giudice, di interpretarla

secondo l’arbitrio e il caso.

Risulta prefigurato, in queste caratteristiche strutturali per le norme e le

leggi, quel particolare valore giuridico che si chiamerà “certezza del

diritto”: valore per il quale, da un lato, la regola deve poter essere

sufficientemente chiara fin dal tempo che precede il comportamento tenuto

e per il quale, dall’altro lato, la regola deve essere stabile nel tempo. La

certezza del diritto, in realtà, intende assicurare una situazione in cui i

soggetti sottoposti alla norma siano sottratti a ogni incertezza e a ogni

precarietà.

Una tale opzione valutativa porrà alla scienza futura il problema teorico

su se sia possibile un ordinamento senza lacune o su se una norma possa

veramente prevedere tutte le situazioni possibili, dovendo conoscere

quindi, per prevederle, tutte le condizioni di possibilità della sua previsione.

Si badi. È proprio a partire dalla crisi teorica della possibilità di

concepire un ordinamento completo, senza lacune – il quale, nella sua

intenzione di fondo, intende conferire massima fiducia al legislatore e

minima al giudice –, è proprio a partire da una tale crisi che si svilupperà,

nel Novecento, una concezione ermeneutica del diritto. La quale,

esprimendo precise sensibilità filosofiche e filosofico-giuridiche

(Heidegger, Gadamer, Betti) e considerando ineludibile il problema teorico

dell’interpretazione, proprio al momento interpretativo assegnerà, nel

costituirsi del diritto, il ruolo fondamentale. Si darà vita, così, a una diversa

sensibilità nella concezione del legislatore e del giudice, attribuendosi, di

fatto, una maggiore fiducia al giudice e alla sua potestà di intervenire –

sulla base della scienza ermeneutica – nella più consapevole conoscenza e

ponderazione del caso concreto.

Come Norberto Bobbio ha mostrato, la scienza del Novecento ha

chiarito come nessun ordinamento giuridico può presentarsi come

completo, e pertanto l’attività interpretativa non è mai eliminabile. In tale

contesto, nei tempi post-illuministici una norma si dirà dotata di certezza

del diritto se sarà chiara e precisa in maniera sufficiente a non essere

sottoposta ad arbitrio interpretativo e se sarà stabile nel tempo in maniera

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sufficiente a non essere esposta ad arbitrii di mutamento.

6. Jus e Lex

Il processo filosofico e politico avviato dall’illuminismo giuridico

tenderà a conferire, pertanto, razionalità al potere, conducendo in Europa –

anche attraverso l’evento della rivoluzione francese e dei suoi riflessi – al

movimento delle codificazioni, con cui il diritto di un territorio verrà

concentrato in un’unica fonte di produzione, di origine statuale: la Lex.

Da un lato, quindi, si chiederà al potere sovrano di esprimersi in forme

razionali e, dall’altro, si mirerà a rendere il potere sovrano l’unico

produttore di diritto. Ciò concorrerà certamente a un’unificazione delle

fonti di produzione giuridica e a una semplificazione delle norme, ma

tenderà, al tempo stesso, a ridurre tutto il Jus a Lex. Il prezzo della

semplificazione del diritto significherà la sua totale riconduzione alla

volontà politica. Ciò produrrà il progressivo occultamento del Jus, che,

riconosciuto o no dal produttore della Lex, pur continua a sussistere nella

vita giuridica delle società. Sotto forme latenti ogni società infatti continua

a generare il suo Jus e a renderlo, nei soggetti e momenti topici, vivente. La

prassi di una volontà formalizzata in ‘Lex’ con la quale si imponga che il

‘Jus’ non ci sia, non può annichilire la considerazione teorica del suo

effettivo perdurare. Potranno passare tempi anche lunghi in cui la Lex,

decretando l’inesistenza del Jus, ne renda invisibile il perdurare (e nel

plurisecolare tempo degli Stati moderni ciò è di fatto accaduto). Ma il

possibile oscuramento del Jus non ne annichilisce affatto l’esistere, né

significa che non ci saranno più tempi in cui il Jus possa riapparire alla

luce. La Lex non può – per l’impossibilità teoretica che non lo consente –

decretare qual è il Diritto e che il Jus non c’è. Perché il Diritto – di cui la

stessa Lex è espressione – la sottende e la supera da ogni lato, non solo nei

luoghi della considerazione filosofica ma nei luoghi e nei soggetti reali in

cui ogni conoscenza coglie il farsi del diritto.

C’è il diritto come attività autoregolatrice della società e il diritto come

prodotto della stessa. Ma, fra i due livelli, ce n’è uno ulteriore e preciso,

che è venuto il tempo di disoccultare: è il diritto inteso come il complesso

di orientamenti vissuti con cui l’attività sociale regolatrice guida

all’identificazione del diritto esistente e alla sua interpretazione. È diritto,

infatti, non solo quello riconosciuto dai funzionari attuatori dello stesso

(Herbert Hart), ma anche quello continuamente emergente, attraverso

soggetti topici, negli orientamenti di principio che guidano al

riconoscimento e all’interpretazione dello stesso, facendolo apparire alla

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luce. Attraverso soggetti, luoghi e tempi il cui disconoscimento sarebbe non

solo falso ma inefficace. Per un’esemplificazione possibile, si guardi agli

stessi massimari di giurisprudenza, specialmente (ma non soltanto) quelli

della Corte di Cassazione, delle Corti Costituzionali e delle Alte Corti. In

questi massimari viene alla luce non solo l’interpretazione di ciò che

l’ordinamento dice, ma anche ciò che lo spirito del tempo di una data

comunità storica ha maturato come “senso del diritto”. In questa

prospettiva il jus di una comunità storicamente determinata si trasforma,

attraverso i processi della sua coscienza storica, nel suo attuale “senso del

diritto”.

Il Diritto formale, in definitiva, non può decretare – sostituendosi alla

teoria – di essere l’unico Diritto. Decretare che il sole non esiste non

significa l’annichilimento del sole!

Se proviamo a scavare nel livello intermedio fra l’attività

autoregolatrice della società e il diritto formalmente prodotto, se scaviamo

cioè in quello che abbiamo chiamato il complesso degli orientamenti di

principio che guidano all’identificazione e all’interpretazione del diritto

esistente, possiamo trovare più falde, strettissimamente connesse e viventi: i

valori, i princípi, le norme. Ma fra i princípi stessi bisogna distinguere. È

necessario, infatti, non confondere fra i princípi enucleabili

dall’ordinamento stesso – i ‘princípi generali dell’ordinamento’ – e i

princípi che, pur attraversando l’ordinamento, non derivano da esso. Così

come, ancora più a monte, sono individuabili orientamenti di principio che

guidano alla stessa identificazione e allo stesso rimodellamento del diritto

che esiste.

Nell’architettura qui individuata, pertanto, si distinguerà fra valori,

princípi e norme. Là dove i princípi, collocati topologicamente fra i valori

e le norme, sono, da un lato, continuamente esposti ai valori e, dall’altro,

mirati a tradursi in norme senza mai esaurirsi in esse, perché orientano

sempre oltre di esse eccedendone i confini. Mentre le norme, quindi, si

esprimono in classi definite (di fatti, di comportamenti, di situazioni) nelle

quali si circoscrive in modo esclusivo il loro dominio regolatore, i princípi

non si esauriscono mai in classi determinate e orientano, con razionalità

strategica, sempre oltre le classi stesse.

Si badi. La collocazione dei princípi fra valori e norme non è solo

topologica, ma epistemologica: dice l’essere dei princípi. Si potrebbe anche

dire, con linguaggio geometrico, che il ‘principio’ è la figura che si pone

fra la tendenza dei valori al limite della loro attuazione operativa e la

tendenza delle norme al limite della loro riconduzione all’intero. Il

‘principio’ è, in questo senso – fra i valori e le norme – il luogo geometrico

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che costituisce il limite comune fra queste due tendenze al limite.

7. Il diritto moderno: caratteristiche strutturali delle norme

Nell’imporsi di un ordine scritto e unificato l’ordine ordinante

acquista, almeno per certi versi, una sua cospicua autonomia rispetto

all’ordine ordinato. Il che, d’altra parte, significa il progressivo

complessificarsi dei modi strutturali di cui quell’ordine scritto, per

diventare ordine effettivo nel sociale, si dota.

Un illustre giurista contemporaneo, Sergio Cotta, ha sottolineato le

forme specifiche del diritto nei confronti delle altre attività umane,

individuandole in alcuni tratti normativi. Il Diritto soprattutto nella sua

forma moderna, si esprime in alcune costanti modalità:

a. Esso regola comportamenti esteriori e non interiori (“esteriorità”). Si

tratta di un preciso guadagno teorico realizzato soprattutto in età moderna.

Si pensi come in Hobbes sia esplicitamente sancita la distinzione fra il

diritto, che si occupa dell’esteriorità, e l’etica, che si occupa

dell’interiorità. Una confusione fra i due livelli genererebbe un diritto

inquisitorio sulle intenzioni che, con l’era moderna, esce dai parametri

della civiltà giuridica. Al diritto moderno non interessa che l’obbligato

adempia imprecando dentro di sé, ma che adempia. Il che non significa che

il diritto non possa attribuire rilievo alle intenzioni (se compiute, ad

esempio, per dolo o per colpa), ma significa che una tale valutazione il

diritto compie – ove la compia – sempre in presenza di un comportamento

esteriore. Per i comportamenti interiori isolatamente presi, il diritto

moderno, per sua scelta strutturale, si astiene dal normare.

b. Il Diritto regola comportamenti e situazioni modellati in tipi

(“tipicità”). Si tratta di una caratteristica che non sussiste con eguale

nettezza in un diritto che pure è diritto, come il consuetudinario o in un

diritto – pur sempre diritto – che sia tutto processualizzato.

c. Il Diritto regola in modo eteronomo e non autonomo, dal momento

che la norma giuridica non deriva dallo stesso soggetto che vi è sottoposto

(“eteronomia”).

d. Il Diritto regola secondo una strategia di comandi e permessi

congiunti, perché comanda e permette nel senso che comanda nello stesso

tempo in cui permette e permette nello stesso tempo in cui comanda

(“imperativo-attributività”). Anche qui si tratta di un diritto pervenuto a una

sua maturazione formale e, in quanto tale, a una sua unificazione.

e. Il Diritto regola secondo una strategia di coordinazione, allo scopo

di impedire fenomeni di contraddittorietà, contrarietà, incongruenza sia tra

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le norme sia tra le figure create (“coordinazione”). Vale, anche qui, la

considerazione di cui al punto precedente.

f. Il Diritto regola secondo una strategia sanzionatoria di traduzione

del disposto in forme sociali corrispondenti, allo scopo di rendere effettivo

il risultato voluto, per lo meno nei comportamenti esteriori (“garanzia”).

Tutto ciò fa emergere con nettezza alcuni tratti distintivi nel rapporto

fra l’etica e il diritto. Mentre al diritto, infatti, basta l’osservanza esteriore,

all’etica una tale osservanza non basta affatto, perché rimane, per essa,

decisiva l’intenzione conforme alla coscienza; mentre nel diritto si dà una

puntuale tipizzazione dei comportamenti regolati, nell’etica è decisivo,

almeno in ultima istanza, il rapporto fra la coscienza interiore e la

situazione concretamente vissuta; mentre al diritto è consustanziale

l’eteronomia, l’etica, soprattutto nell’era moderna, non è pensabile senza

autonomia; mentre nel diritto il ‘comandato’ e il ‘permesso’ sono

indissolubilmente congiunti, ciò non è necessariamente osservabile

nell’etica; mentre nel diritto, soprattutto nella fase moderna, si dà

coordinazione tra le figure create, ciò non accade affatto nell’etica; mentre

nel diritto, per la sua traduzione in comportamenti effettivi, è necessaria la

garanzia, questa è assolutamente assente nell’etica. Un uomo può essere

buono, eppure ciò non gli garantirà alcun premio. Anzi, troppo spesso il

comportamento buono incontra misconoscimenti e castighi: il rischio è

strutturalmente connesso all’azione etica, che opera per coscienza e senza

garanzie.

Le precedenti considerazioni mostrano quanto il diritto sia, rispetto

all’etica, forma specifica. Esso è, infatti, diritto non per i motivi e i

contenuti che possono alimentarlo (etici, economici, ideologici, tecnici, di

convenienza sociale, di opportunità congiunturale, etc.), ma per il fatto che

la sua forma è strutturalmente destinata a realizzare un ordine garantito.

Giuseppe Capograssi scriveva che il diritto è discreto. Esso, cioè, a

differenza dell’etica, si accontenta del comportamento esteriore. Eppure da

questa sua discrezione, che chiede il minimo, emerge un intero ordine, che

nemmeno l’etica saprebbe assicurare. Non a caso, l’antica sapienza

cristiana insegna che la bontà di tutti non garantisce l’ordine, perché anche

fra i buoni può esserci conflitto.

8. Etica giuridicizzata, etica nel diritto, etica del diritto

Giova qui dissipare un’illusione teorica – vera fata morgana – che può

gravemente oscurare la percezione speculativa dei rapporti fra etica e

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diritto. Potrebbe pensarsi che sarebbe massimamente auspicabile tradurre

l’intera etica in diritto.

Si distingua, in proposito, fra un’etica giuridicizzata, un’etica nel

diritto e un’etica del diritto. Se si volesse che un’etica si traducesse tutta in

diritto, si determinerebbe una situazione in cui si comanderebbero con

sanzioni esterne tutti i comportamenti che l’etica chiede innanzi tutto alle

intenzioni. Si determinerebbe, cioè, uno stato di polizia. Ciò significa che

non è etico che tutto l’etico sia diritto.

Altra cosa è che alcuni contenuti etici, importanti per l’ordine esterno,

siano imposti nell’ordine giuridico (etica nel diritto). In tal caso, la scelta

nasce dalla decisione di imporre con sanzioni determinate comportamenti,

valutati come imprescindibili per l’ordine sociale. Ciò vale anche se la

scelta è incarnata nella stessa consuetudine che costituisce il “senso del

diritto” in quel momento storicamente operante all’interno di una comunità.

Altra cosa ancora è che il diritto, nei limiti delle proprie caratteristiche

strutturali, scelga le modalità eticamente più proprie al suo modo d’essere:

ad esempio, attraverso la certezza del diritto e/o aperture all’equità (etica

del diritto).

9. Caratteristiche strutturali della razionalità giuridica

Aggiungeremmo alle considerazioni strutturali di Sergio Cotta alcuni

tratti che riguardano sia l’attività regolatrice che genera diritto, sia lo stesso

diritto generato.

Il diritto, infatti, in entrambe le accezioni individuate, soprattutto nelle

sue forme più evolute, risponde a una razionalità strategica, a una

razionalità processuale e a una razionalità empirico-analitica.

a. Il Diritto risponde a una razionalità strategica, nel senso che fa sua

una razionalità non parametrica. È noto che la differenza fra razionalità

parametrica e razionalità strategica consiste nel fatto che, mentre la prima

individua un modello, da applicare ai fatti, che rimane fisso al mutare dei

fatti stessi, la seconda invece, come nel gioco degli scacchi, individua un

modello che, tenendo conto dell’eventuale mossa dell’altro giocatore, ne

pre-assuma la possibilità, rispondendole nel proseguimento dell’azione.

Chi, nel gioco degli scacchi, operasse con la razionalità parametrica e non

con quella strategica, perderebbe la partita. Quando una norma viene

inserita nel corpo vivo delle azioni di una società, essa è introdotta in un

agone di tensioni mobili, dove si osservano reazioni all’azione normante,

non consistenti solo in una possibile osservanza, ma anche in una strategia

di violazioni o di aggiramenti (comportamentali, interpretativi, esecutivi).

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Una norma giuridica – così come l’attività regolatrice della società che in

essa si esprime – non potrebbe realizzare il suo obiettivo se non perseguisse

una razionalità strategica, che, in quanto tale, precostituisca – sia nella sua

azione complessiva di mutamento delle norme sia nella predisposizione dei

loro dettati – la risposta a possibili violazioni e/o aggiramenti. Una diversa

razionalità fallirebbe l’obiettivo strutturale del Diritto. La razionalità

strategica quindi, a ben vedere, caratterizza il diritto in entrambi i suoi

livelli: sia nella modalità con cui la società genera e muta il diritto, sia nelle

modalità attraverso cui viene predisposta la regola giuridica. Si tratta di due

diverse forme: 1. della modalità, svolgentesi nel tempo, con cui viene

pensato e modificato il diritto (modalità complessiva e diacronica); 2. della

modalità, strutturata nella regola, attraverso cui questa viene modellata,

anche prescrivendo speciali esigenze formali (modalità decentrata e

sincronica).

b. D’altra parte, il Diritto risponde a una razionalità processuale.

Perché – riscuota osservanza o no – viene concepito e strutturato in vista di

un’applicazione, ossia di un processo che ne garantisca l’attuazione:

processo che – anche se di fatto non si verificasse – deve poter esserci. La

processualità, pur potendo non esserci, deve poter esserci. L’eventualità

del processo deve costituire una precisa struttura del pensare giuridico,

ossia della sua razionalità processuale. È in questa luce, in realtà, che

diventano comprensibili i vari ‘formalismi’ di cui il diritto si dota e che

potrebbero sembrare inutilmente gravosi e fuorvianti rispetto ad autentiche

esigenze di valore.

c. D’altra parte ancora, il Diritto corrisponde a una razionalità

empirico-analitica, scompositiva. Perché, per poter pervenire alla puntuale

applicazione al caso concreto, deve poter definire, scomporre, individuare

con circostanziata precisione gli elementi del suo oggetto, e ciò esso fa allo

scopo di poter toccare alla fine la situazione concreta da regolare. Il diritto

presenta in modo spezzettato le caratteristiche a partire da cui regola

(metodo analitico), allo scopo di pervenire a una fattispecie empirica,

individuata nella sua concretezza (metodo empirico). Attraverso

l’astrazione dei tipi (l’uomo proprietario, l’uomo omicida, l’uomo

lavoratore etc.) il diritto arriva alla concretezza della situazione. In questo

senso, il diritto, come sottolinea Enrico Opocher, non disciplina “la”

libertà, ma “le” libertà, tutte tipicamente nominate; non disciplina “il”

tempo, ma “i” tanti possibili eventi temporali (decorsi qualificati, termini

ordinatòri e perentòri, termini dilatòri, termini di usucapione, scadenze,

etc.); non disciplina “la” società o “la” socialità, ma i concreti singoli

individui che agiscono in essa, in quanto inclusi nel suo tipo. Il Diritto

esercita una razionalità che abbisogna di scomporre e spezzettare il suo

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oggetto, per raggiungerlo applicativamente in modo preciso. Esso mira

progressivamente a individuare, attraverso forme di tipicità, singoli uomini

e singole situazioni. Se il Diritto non impiegasse una simile razionalità,

fallirebbe il suo obiettivo.

10. Il fenomeno diritto visto dalle diverse dottrine filosofiche.

L’ermeneutica come problema

Essendo il diritto un fenomeno strutturale, inevitabile, in qualsiasi

società, è necessario che su di esso si costituiscano un’indagine scientifica

e un punto di vista filosofico. Ogni investigazione scientifica si articolerà

secondo le varie partizioni che individuerà nel fenomeno sociale osservato

(diritto civile, diritto penale, diritto amministrativo, etcetera). Ma rimarrà in

ogni caso problematica la questione su che cosa sia il fenomeno sociale

osservato. Rispondono a tale questione varie dottrine filosofiche, che

esprimono un particolare punto di vista sul fenomeno giuridico. Tali

dottrine si diversificano innanzitutto secondo che guardino al diritto come

ordine naturale, come ordine sociale condiviso o come ordine

artificialmente imposto da un’autorità. Naturalmente, questi tre punti di

vista possono essere anche fra loro intrecciati o reciprocamente innestati. Si

distingueranno perciò, nella storia del pensiero, una dottrina

giusnaturalistica, una dottrina comunitaria e una dottrina giuspositivistica.

La dottrina giusnaturalistica, che avrà diverse scansioni nella storia della

civiltà, ruota intorno al concetto di un diritto della natura, di un jus naturae,

comunque sia una tale ‘natura’ considerata (diritto del cosmo, diritto di

Dio, diritto degli esseri viventi, diritto del più forte, diritto della ragione

umana, etcetera). La dottrina comunitaria ruota intorno al concetto di un

diritto incarnato nel costume stesso di una comunità, di un “jus”,

fattualmente e socialmente assunto nella sua realtà vivente. La dottrina

giuspositivistica ruota intorno a un diritto posto da un’autorità, intorno a un

jus positum, comunque sia questa autorità considerata e comunque essa si

esprima (per comandi verbali, per iscritto o in qualsiasi altro modo).

Intorno a questi tre filoni fondamentali si sono stratificate nel tempo varie

dottrine del diritto.

Se osserviamo in particolar modo la vicenda che va dal movimento

illuministico del Settecento al movimento della codificazione del primo

Ottocento, ci accorgiamo di un particolare fenomeno. Il movimento

illuministico nasce con l’affermazione della Ragione come principio della

natura che deve essere posta a fondamento di ogni legislazione. Tale

movimento approderà, come è noto, attraverso la rivoluzione francese,

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all’evento della codificazione, intesa come modo per unificare e

semplificare le fonti del diritto. Nel momento in cui l’illuminismo diventa

codificazione un movimento giusnaturalistico approda a un diritto positivo

di cui si è fatto assertore, e quindi approda a una prima concezione

giuspositivistica, fondata sul principio del rispetto dell’autorità costituita.

In altre parole, una concezione giusnaturalista genera come ultima sua

conseguenza una concezione giuspositivistica.

L’Ottocento e il Novecento saranno un interessante laboratorio di

dottrine filosofiche sull’essenza del diritto. Distingueremmo in proposito

varie scuole.

Importante è stata, dopo la codificazione, una “Scuola dell’esegesi”,

per la quale il diritto è quello posto dalla codificazione, e pertanto al

giurista spetta solo il compito di commentare e chiarificare il significato di

ogni articolo normativo, uno alla volta considerato.

Diversa per impostazione mentale e per forza è stata la “Scuola

pandettistica” (Friedrich Carl von Savigny), per la quale il fenomeno del

diritto va considerato incrociando due livelli del discorso: da un lato, il

fenomeno giuridico va concettualizzato a partire dai tanti istituti (coordinati

organici di norme socialmente rilevanti) che si sono storicamente

sedimentati nel tempo e, dall’altro lato, va concettualizzato a partire dalla

fondamentale esperienza giuridica dei Romani, i quali vengono visti non

solo come portatori di una particolare idea del diritto, ma come portatori di

un diritto esemplare per l’intera umanità, diritto di cui la storia successiva è

stata testimone e maestra. Ciò che costituisce pertanto il tratto tipico della

pandettistica è l’affermarsi di una logica della storia che è anche logica

della storia del diritto, della quale bisogna cercare i fondamentali

progenitori nei giuristi romani.

Altra scuola, sviluppatasi soprattutto in Germania negli ultimi anni

dell’Ottocento e nei primi del Novecento, è stata il “movimento del diritto

libero” (Eugen Ehrlich, François Gény, Hermann Kantorowicz),

movimento del quale sono stati momenti la giurisprudenza sociologica e la

giurisprudenza degli interessi. Per questa scuola il diritto positivo non

riesce a rispondere a tutti i bisogni della società, sia perché insufficiente sia

perché incompleto, ragion per cui deve essere innanzitutto cercato in quelle

regole che la stessa società continuamente ricrea per rispondere alle sue

esigenze.

Molto interessante per individuare la natura del diritto nella sua vivente

realtà sociale è stata, agli inizi del Novecento, la teoria istituzionalista (

Maurice Hauriou, Léon Duguit, Santi Romano), per la quale si coglie il

nucleo primo del fenomeno giuridico nella realtà sociale organizzata, in cui

sono teoricamente indissociabili l’organizzazione e la sua regola.

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Diversa sarà l’impostazione del realismo scandinavo (Axel

Hägerström, Vilhelm Lundstedt, Karl Olivecrona, Alf Ross) che si

domanderà sull’essenza del fenomeno giuridico guardato a partire dalla sua

empirica esistenza in un comando, trovando il suo nucleo nella pressione

psico-sociale che è la vera e invisibile ragione per cui i consociati

obbediscono.

Di tutt’altro tenore è la scuola del realismo giuridico americano (Oliver

Wendell Holmes, Jerome Frank, Karl Llewellyn), che, individuando la

materia empirica del diritto nelle sentenze dei tribunali, identifica la scienza

del diritto nella previsione ragionata di ciò che i giudici decideranno a

contatto con le concrete controversie.

Grande impatto nella scienza giuridica del secondo Novecento ha avuto

la teoria ermeneutica, la quale ha posto al centro dell’attenzione del

fenomeno conoscitivo l’attività dell’interpretazione. Come ha ben

sintetizzato Arthur Kaufmann, «l’ermeneutica ha a che fare con le

condizioni trascendentali della possibilità in assoluto della comprensione

linguistica […]. Essa è una filosofia trascendentale, nel senso che dice le

condizioni della possibilità in assoluto della comprensione di significati. In

quanto tale, essa non prescrive alcun metodo, ma dice soltanto quali sono i

presupposti perché si possa intendere qualcosa secondo il suo senso»2.

Nella prospettiva ermeneutica, il pensiero è contemporaneamente

comprensione e linguaggio. Ogni conoscenza si rivela, in questa ottica,

interpretazione, ossia espressione, comprensione, ri-espressione,

trasferimento di significati da un contesto di vita a un altro.

Bisogna distinguere, in realtà, quattro livelli diversi

dell’interpretazione. A un primo livello, puramente esegetico, essa è

semplicemente l’attività con cui si individua in un testo linguistico una

eventuale pluralità di significati, allo scopo di chiarificare e scegliere quelli

da privilegiare. In questo senso, come dice il brocardo giuridico antico, in

claris non fit interpretatio (nelle cose chiare non si fa interpretazione). A

un secondo livello, critico-filosofico, l’interpretazione è attività di

comprensione che prescinde dalla mera chiarezza del significato linguistico

a cui si applica, perché è attività necessariamente situata tra un significato

linguistico da comprendere, che vale all’interno dei presupposti in cui si dà,

e il soggetto comprendente, che prospetta il suo oggetto a partire dai

presupposti storico-sociali in cui è lui stesso incardinato. A un terzo livello

(reso particolarmente visibile dall’esperienza musicale e da quella

giuridica), l’interpretazione è trasferimento di significati da un ordine

linguistico a un altro, e quindi da un ordine di presupposti a un altro (tra-

duzione). Si pensi all’esecuzione di uno spartito musicale e all’emanazione

2 Arthur Kaufmann, Filosofia del diritto ed ermeneutica, a cura di G. Marino, Giuffrè, Milano 2003.

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di una sentenza. A un quarto livello, che combina il secondo e il terzo in

modo ulteriore e complesso, l’interpretazione è contemporaneamente

comprensione di significati per trasferirli e trasferimento di significati per

ulteriormente comprenderli e farli comprendere. Né ciò basta, perché non si

tratta soltanto di un comprendere per trasferire e di un trasferire per

comprendere e far comprendere, perché anche nel comprendere si

trasferisce (nell’ordine linguistico interiore) e anche nel trasferire si

comprende (perché si comprende in modo nuovo all’interno di un altro

ordine linguistico). In definitiva, a questo livello agiscono

contemporaneamente quattro fattori: un comprendere per trasferire, un

trasferire per comprendere e far comprendere, un trasferire nel

comprendere, e un comprendere nel trasferire. In questo senso

l’interpretazione è nello stesso tempo esperienza conoscitiva ed esperienza

pratica, risultando pressoché indissociabili la componente conoscitiva

(ossia noetica, intellettuale, comprendente) e la componente pratica (ossia

traduttiva, esecutiva, trasformativa): si comprende in quanto si traduce e si

traduce in quanto si comprende. E ancora più radicalmente: si esprime in

quanto si comprende e traduce, e si traduce in quanto si esprime e

comprende. Il giudice, nel dare sentenza, comprende un significato

all’interno di un contesto e lo trasferisce in un altro e, d’altra parte, mentre

lo trasferisce nell’altro lo comprende lui stesso in modo nuovo. Ogni

fenomeno ermeneutico, in quanto fenomeno interpretativo, è evento

traduttivo in cui si perde necessariamente qualche cosa per trovarla in un

altro contesto trasformata. L’ermeneutica è scienza e pratica della perenne

trasformazione. In conclusione, se ci si colloca al quarto livello

dell’interpretazione, l’ermeneutica è la teoria e la pratica per cui la

comprensione è necessariamente trasformazione e la trasformazione è

necessariamente nuova comprensione, là dove la stessa attività espressiva

è, per l’inevitabilità del linguaggio in cui nasce, conoscenza, e la

conoscenza attività espressiva. L’attività dell’interpretazione, facendo

transitare da una forma espressiva a un’altra, in un unico processo di

trasformazione, un medesimo modello di significato, declina in ogni

stazione del suo transito medesimezza e differenza del modello di

riferimento, generandone sempre nuove dislocazioni analogiche e

disseminazioni.

Ciò che vale per la conoscenza in generale vale anche per la

conoscenza del diritto. Dato ormai per acquisito che una norma, per quanto

chiara, non possa non essere oggetto d’interpretazione, la scienza

ermeneutica del diritto, sulla base della tradizione ermeneutica moderna

nelle sue varie scansioni (Schleiermacher, Dilthey, Heidegger, Gadamer,

Ricoeur, Betti, Derrida) va oltre. Essa sostiene che qualsiasi significato

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della vita (di un testo, di una figura storica, di un comportamento umano, di

un essere al mondo, di una civiltà) va inteso all’interno del contesto e dei

presupposti in cui è inserito (fenomeno del ‘circolo ermeneutico’) e che,

d’altra parte, lo stesso soggetto interpretante risulta preliminarmente

condizionato dal contesto storico-sociale in cui è lui stesso incardinato

(situazione strutturale di ‘pre-comprensione’). Sia l’interpretato che

l’interpretante sono, nel fenomeno dell’interpretazione, strutturalmente

condizionati dai loro presupposti.

Ciò che vale per ogni significato della vita, vale anche per il significato

di cui è portatrice la norma giuridica, la quale è da intendere pertanto a

partire da due condizioni limitative: il contesto storico-sociale in cui è

inserita e il contesto storico-sociale in cui lo stesso interpretante è

incardinato. Come sopra sottolineavamo, nel fenomeno dell’interpretazione

giuridica si rende manifesto il fatto per cui interpretare è non solo

comprendere ma “applicare”, ossia tradurre in altri contesti il compreso.

Interpretare è comprendere e riesprimere: è comprendere e trasferire. In tale

prospettiva, ogni norma non è il presupposto ma il risultato di

un’interpretazione e in particolare di quell’interprete autorizzato a

interpretare che è il giudice, il quale trasferisce il significato che una norma

ha in un ordinamento traducendolo all’interno di una situazione concreta. Il

giudice trasforma il testo normativo in norma.

Nel mondo dell’esperienza giuridica si susseguono, insieme legate,

molte possibili prospettive: la prospettiva del legislatore, quella

dell’interprete, quella del giudice, quella del funzionario, quella del

consociato. Sia il legislatore sia il giudice sia lo scienziato del diritto

interpretano, ossia comprendono e traducono: il legislatore interpreta i

significati della società traducendoli in leggi, il giudice interpreta i testi

normativi traducendoli in norme e casi regolati, lo scienziato del diritto

interpreta l’ordinamento traducendolo in fattispecie concettualizzate. Così

come una situazione concreta può essere guardata a partire

dall’ordinamento giuridico, un ordinamento giuridico può essere guardato,

e re-illuminato, a partire dalla singola situazione concreta. L’interprete, e in

particolare il giudice, è colui che può guardare il caso a partire dalla norma

o la norma a partire dal caso, compiendo in questa sua attività un ponderato

trasferimento di punti di vista. La norma è la sua interpretazione.

Se la norma consiste nella sua interpretazione, esiste una norma che

attribuisce la potestà d’interpretare? In realtà, a fondamento e alle spalle di

ogni interpretazione esiste una “comunità interpretante” che, come suo jus,

continuamente pratica e interpreta la sua forma di vita. E, in nome di questa

comunità interpretante, opera la più ristretta comunità interpretante di

coloro che esercitano di fatto la forza di praticare e rendere effettiva la

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forma di vita del diritto.

Nella misura in cui il pensiero critico diventa consapevole che nessuna

normativa può essere esente da interpretazione, nella stessa misura la

‘certezza del diritto’ come valore va compresa in più ragionati e rigorosi

limiti, ossia come la qualità positiva di una normativa che riduca al

massimo la sua interpretabilità, limitando il più possibile l’arbitrio del

potere e la precarietà di chi vi è sottoposto. Mentre quindi l’esigenza di

certezza del diritto è la tendenza del diritto a ridurre a zero l’incidenza del

punto di vista interpretante, la prospettiva ermeneutica si dichiara fin

dall’inizio consapevole dell’inevitabilità dei punti di vista nell’attività di

conoscenza della normativa. In ogni caso, la prospettiva ermeneutica nel

diritto, condotta alle sue più radicali conseguenze, attribuisce un particolare

valore alla singolarità della fattispecie concreta a partire da cui si invoca

l’intervento dell’ordinamento giuridico. Per così dire, ogni nuovo caso

concreto esige una reinvenzione ermeneutica della norma.

L’esigenza della certezza del diritto fa scoprire l’inevitabilità della

pratica ermeneutica e l’inevitabilità della pratica ermeneutica fa riscoprire

daccapo l’esigenza della certezza del diritto. D’altra parte, la certezza del

diritto, volendo ridurre al minimo l’arbitrio dell’interprete e la precarietà di

chi vi è sottoposto, realizza una rigidità che richiama, all’opposto,

l’esigenza di una proporzionata adeguatezza della norma al caso concreto

secondo criteri di equità, là dove l’equità è la proporzionata adeguatezza

della norma al caso concreto secondo il senso del diritto storicamente

sedimentato in quella comunità. Certezza del diritto ed ermeneutica,

certezza del diritto ed equità sono le esigenze opposte e complementari tra

cui necessariamente oscilla, come fra Scilla e Cariddi, l’intero universo

dell’esperienza giuridica.

Per cogliere in concreto i dilemmi teorici presenti nella concezione del

diritto come fenomeno di regolazione sociale, interessante e paradigmatica

è la disputa fra Ronald Dworkin ed Herbert Hart. Mentre per Hart il diritto

è un complesso ordinamentale di norme, per Dworkin il fenomeno

giuridico non può affatto esaurirsi nelle norme perché risiede innanzitutto

in quei princìpi, di valore etico e di carattere vincolante, che vivono nel

corpo sociale di una comunità come jus. Hart è ben consapevole che

l’ordinamento giuridico, espresso in norme, è necessariamente aperto,

perché ogni norma è costituita di parole e quindi di enunciati

strutturalmente ambigui. Ciò significa per lui che un ordinamento giuridico

è imprescindibilmente connesso con l’attività interpretativa di un

giudicante che ne trasferisca nel contesto sociale i significati. Del tutto

opposta è la posizione antipositivistica di Dworkin, il quale muove invece

dalla primarietà vincolante di quei princìpi etici che vivono nella società

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cui si appartiene. Le due posizioni però, pur contrastandosi, mantengono

una loro paradossale possibilità di dialogo, perché da un lato Hart sostiene

un giuspositivismo moderato che accetta alla sua base un minimo di diritto

naturale, e perché dall’altro lato Dworkin ammette che i princìpi etici, cui il

giudice è sottoposto, hanno un loro storico, e quindi relativo, radicamento.

In ogni caso, le due posizioni mostrano nella loro fenomenologia modi

diversi in cui possono articolarsi, all’interno di una comunità storica, il jus

e la lex.3

11. Ordine sintattico, ordine semantico, ordine giusto

Se pensiamo alle caratteristiche strutturali di cui Sergio Cotta parla, ci

accorgiamo che un tale ordine di norme si presenta, fondamentalmente,

come ordine sintattico. Si sta parlando, cioè, qui, di caratteristiche

strutturali di un diritto che assicura un ordine a prescindere dai significati

sociali di cui sia portatore. L’ordine sintattico è, infatti, un ordine fondato

sul puro funzionamento dei nessi relazionali fra le componenti a

prescindere dall’ordine dei significati. L’ordine sintattico in quanto tale,

come è riscontrabile all’interno di una proposizione linguistica, può

prescindere da un qualsiasi ordine semantico, allo stesso modo in cui una

proposizione linguistica può essere sintatticamente corretta a prescindere

dal suo significato, e addirittura a prescindere dall’esistenza di un qualsiasi

significato. Nell’orizzonte di una pura funzione sintattica, ad esempio, una

sentenza non è affatto necessario che sia ‘giusta’: basta che assolva la sua

funzione sintattica, consistente nel chiudere definitivamente, con atto

dell’autorità, il conflitto fra i contendenti. È solo questo che l’ordine

sintattico del diritto chiede, non altro.

Ma c’è, qui, una considerazione decisiva da fare. Se è vero che un

ordine sintattico può prescindere da un ordine semantico, ossia da un

ordine dei significati sociali della vita, l’ordine sintattico del diritto, se è

reale, implica sempre e necessariamente un minimo di ordine semantico

condiviso dai consociati. Un ordine del diritto che intendesse prescinderne,

cadrebbe, prima o poi, come un castello di carte.

D’altra parte, anche l’ordine semantico può prescindere dalla giustizia

– da un ordine giusto. Un ordine semanticamente condiviso, infatti, non è

necessariamente un ordine giusto. Ma, anche qui, c’è una considerazione da

fare. Se un ordine semantico può prescindere da un ordine giusto, un ordine

3 Sul rapporto Dworkin-Hart ci permettiamo richiamare Giuseppe Limone, Dal Giusnaturalismo al

Giuspersonalismo. Alla frontiera geoculturale della persona come bene comune, Graf, Napoli 2005, pp.

61-64.

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semantico del diritto non può prescindere da un minimo di ordine giusto,

ossia da un minimo di risposta a una domanda forte di giustizia, sollevata

sotto pena di intollerabilità (è, come si sa, la formula di Gustav Radbruch).

Un ordine semantico che non rispondesse mai a una domanda forte di

giustizia, prima o poi, col crescere delle esigenze di questa, imploderebbe

da sé.

Ergo, un ordine sintattico del diritto implica sempre un minimo di

ordine semantico condiviso; un ordine semantico del diritto implica sempre

un minimo di ordine giusto, ossia un minimo di risposta alla domanda di

giustizia.

Si badi. Si possono relativizzare e demolire tutte le risposte alla

questione della Giustizia, mai la domanda. Che emerge, innanzitutto e per

lo più, non dall’individuazione di un concetto, ma dall’imporsi di un rifiuto

reale. Dal rifiuto di un intollerabile. Che emerge non come figura

concettuale, ma da un improvviso sfondo di condizioni non previste.

Apparendo alla luce, per così dire, non dal pensato, ma dall’impensato. In

forma pascaliana diremmo che il rifiuto dell’intollerabile è gravido di un

mondo noetico di cui il rifiuto non sa. E di cui la stessa nòesis, la stessa

conoscenza non sa. Ma di cui deve sapere. E che solo l’investigazione

filosofica può, da dentro, illuminare.

L’ordine sintattico del diritto, pur indipendente dall’ordine semantico,

non può prescindere da un minimo di ordine semantico condiviso; l’ordine

semantico del diritto condiviso, pur indipendente dall’ordine della giustizia,

non può prescindere da un minimo di ordine giusto, ossia da un minimo di

risposta a una domanda forte di giustizia, elevata sotto pena di

intollerabilità.

Proviamo ora a guardare il rapporto fra ordine sintattico, ordine

semantico e ordine giusto secondo un’articolazione fra coni verticalmente

sovrapposti e reciprocamente innestati in una sequenza di vertici e basi. Il

minimo comune cui si riferisce l’ordine sintattico, quello cui si riferisce

l’ordine semantico e quello cui si riferisce l’ordine giusto verranno a

configurarsi come coni più piccoli, individuati e messi in comune dai

reciproci innesti. Si ascenderà, così, – lungo la linea ideale che va dal cono

più basso al più alto – dall’ordine sintattico all’ordine semantico all’ordine

giusto, disegnando un collegamento fra vertici, difficile ma percorribile,

che congiunge ordine imposto, ordine condiviso e ordine giusto: ossia il

cammino che lega Lex, Jus e Justitia.

12. La società fra attività autoregolatrice e diritto formale: il problema

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dei “princípi”

Dicevamo che il Diritto non è solo il prodotto formale e visibile

dell’attività della società che si autoregola per realizzare un ordine, almeno

esterno, garantito, ma è anche l’attività della società che a quello scopo si

autoregola. E dicevamo che il Diritto, anche nei suoi stadi più evoluti, non

è solo il prodotto formale e visibile di questa attività, ma anche il prodotto

più ampio che nella società vive: sia orientando a regolare i comportamenti

sociali sia guidando a identificare il diritto esistente e le sue interpretazioni.

Nulla toglie a questa considerazione di fondo il fatto che il diritto

formale, dichiarandosi l’unico esistente, non riconosca altre forme. Il

problema, infatti, di che cosa sia Diritto, non lo decide il Diritto formale

che si autodichiara l’unico, ma chi di fatto lo crea e chi scientificamente lo

vede, guardando a quei punti apicali in cui il Diritto effettivamente si fa. Si

pensi, in proposito, a quelle sedi e a quei momenti apicali in cui il diritto

viene prodotto e deciso, là dove esso è praticato, cercato, trovato,

dichiarato, costituito, interpretato, applicato, eseguito, fatto vivere.

In queste sedi, nodi effettuali della rete giuridica, chi identifica il diritto

come tale permanentemente lo istituisce e lo fa vivere. Questo Diritto, in

realtà, nasce sotto la pressione permanente dell’attività sociale regolatrice

che in determinati soggetti, in modo più o meno riflesso, matura. Un fatto è

certo: un tale Diritto – lo si voglia o no – si fa o concorre a farsi decisione

giuridica e ordine giuridico. E concorre a identificare, intersecare,

modellare e rimodellare significati giuridici.

Se è vero, quindi, che il diritto è identificato da chi ha la forza di

renderlo vivente e se è vero che il diritto è l’autoregolazione con cui una

società riconosce e reinterpreta il suo ordine, il diritto si esprime non solo

in un ordinamento formale ma in orientamenti vissuti e riflessi che sono

“princìpi”. Per giunta, giuridici, in quanto esteriormente vincolanti. Si tratta

di “princìpi” che non appaiono – almeno innanzi tutto e per lo più – per

investigazione razionale diretta, assiomatizzata, ma, piuttosto, per

emersione contrastiva da situazioni concrete che, all’improvviso, bucando

il tessuto del previsto, ne accendano l’impensato.

E valga il vero. Ronald Dworkin, in un passo del suo testo più noto, I

diritti presi sul serio, ricorda: “Nel 1889 un tribunale di New York, nel

famoso caso Riggs v. Palmer, doveva decidere se una persona, designata

erede nel testamento di suo nonno, potesse ereditare in base a quel

testamento, sebbene a tale scopo avesse assassinato il nonno. Il tribunale

iniziava il suo ragionamento con questa ammissione: «È vero che le leggi

che disciplinano la stesura, la prova, gli effetti dei testamenti e la

trasmissione della proprietà, se interpretate alla lettera, e non potendosi in

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alcun modo o in alcuna circostanza attenuarne la forza e gli effetti,

attribuiscono questa proprietà all’assassino». Ma il tribunale continuava

osservando che «tutte le leggi, come tutti i contratti, possono essere

attenuati nel loro operare e nei loro effetti dalle generali e fondamentali

massime del common law. A nessuno sarà permesso di trarre profitto dalla

propria frode, o di trarre vantaggio dal suo illecito, o di fondare una pretesa

sul suo comportamento iniquo, o di acquisire una proprietà per mezzo di un

delitto»”. Dworkin conclude: «L’assassino non ottenne la sua proprietà»4.

Nella situazione prospettatasi ai giudici emergeva un fatto che appariva

nuovo in quanto prima non previsto: risultava nominato erede dal testatore

colui che l’aveva assassinato. Si trattava, a dire il vero, di un fatto che

poteva essere percepito come ‘nuovo’ solo alla luce della considerazione

cruciale che non fosse concepibile come prevista con favore

dall’ordinamento una situazione in cui l’assassino potesse ereditare

dall’assassinato. In realtà, in una situazione come questa si avvertiva,

imperiosa, la rivolta della coscienza comune contro una interpretazione che

vedesse in questo un generico caso di successione ereditaria, solo

occasionalmente accompagnato dalla circostanza che l’erede era anche

l’assassino del testatore. La coscienza comune si rivoltava, cioè, davanti

all’ipotesi che il fatto accaduto potesse considerarsi non dissimile dagli altri

casi di successione ereditaria, e quindi non nuovo.

Una tale percezione di ‘novità’ non era, a ben vedere, la mera

percezione di un ‘dato’, ma di un punto di vista. Infatti, l’identificazione di

un tale fatto come ‘nuovo’ nasceva dalla percezione dell’ordinamento come

lacunoso sul punto. E, d’altra parte, la percezione dell’ordinamento come

lacunoso sul punto nasceva, a sua volta, dal bisogno ineludibile di assumere

nella situazione data un’altra regola che, restringendo l’area semantica

della regola normante, escludesse dalla successione ereditaria l’erede

assassino sulla base del principio che non si potesse succedere in questo

caso, perché sarebbe stato violentemente iniquo il poter trarre profitto da un

proprio delitto.

Intendiamoci. Se si ragionasse, qui, invece, secondo il modello con cui

Hans Kelsen giuridicamente ragiona, ossia secondo la concezione del più

radicale giuspositivismo, in questo caso non ci troveremmo davanti ad

alcun fatto ‘dissimile’ o ‘nuovo’ o ‘non previsto’, e quindi non ci

troveremmo davanti a nessuna lacuna dell’ordinamento. Per Kelsen, infatti,

l’ordinamento giuridico positivo dovrebbe essere considerato, anche in una

tale situazione, niente affatto lacunoso. Perché esso, non indicando

esplicite eccezioni alla possibilità di ereditare, prevede in realtà, in questo

caso, che il chiamato all’eredità possa succedere al testatore a prescindere

4 R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna 1982, p. 91.

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dal delitto da lui consumato, non avendo rilevanza alcuna, per

l’ordinamento giuridico considerato, la circostanza per cui il chiamato

all’eredità abbia ucciso il testatore. Per la concezione kelseniana affermare,

contra l’ordinamento positivo, che esso avrebbe dovuto prevedere un tal

caso come dissimile dagli altri significherebbe semplicemente affermare

che si desidererebbe che in questo caso l’ordinamento avesse disposto

diversamente da come ha disposto. Il che vuol dire che la pretesa ‘lacuna’

contestata all’ordinamento giuridico positivo è, in questo caso, null’altro

che l’avvertita discrepanza morale fra l’ordinamento giuridico esistente e

l’ordinamento giuridico desiderato. Ma, come si sa, secondo il modello

giuspositivistico, l’ordinamento giuridico desiderato non è diritto.

L’idea di ‘lacuna’ quindi, in tali coordinate di pensiero, diventa

null’altro che il travestimento ideologico del proprio desiderio di vedere

operare, in quel punto della fattispecie, un diverso ordinamento, o un

diverso suo segmento. Il problema del ‘principio’ nasce qui. Ci si domanda,

a questo punto: l’idea che il significato della norma debba essere ristretto

secondo il principio per cui nessuno può trarre vantaggio dal proprio delitto

nasce da un mero desiderio di sottrarsi all’ordinamento giuridico oppure

nasce da un vincolante principio giuridico, enucleabile dallo stesso

ordinamento o altrove?

Precisiamo un primo punto. Oggi, a meno che non si voglia ragionare

secondo il modello kelseniano, l’incompletezza strutturale di ogni

ordinamento giuridico è stata oggetto di convincenti argomentazioni. Ci

basti qui ricordare la serrata discussione svolta da Norberto Bobbio in

Teoria dell’ordinamento giuridico, là dove egli individua le deficienze di

quelle teorie (come quella dello ‘spazio giuridico pieno e vuoto’ e quella

della ‘norma generale esclusiva’) che pretendevano dimostrare la

completezza di ogni ordinamento giuridico. Né va dimenticata, in

proposito, la teoria dell’incompletezza di Kurt Gödel, valida per ogni

sistema teorico, e quindi anche per un sistema giuridico. Né va soprattutto

trascurato che un sistema di norme non può essere completo non solo

perché non può prevedere, di fatto, la totalità dei casi possibili, ma anche e

soprattutto perché, per principio pur nello sforzo di prevederli, non può

conoscere la totalità delle condizioni che sottostanno al suo sistema di

previsione.

Un ordinamento giuridico quindi è, contrariamente a ogni pretesa

scientifica di completezza, sempre incompleto, per lo meno nel senso che ci

sono situazioni ermeneutiche in cui, come osserva ancora Bobbio, non è

possibile dimostrare se si debba applicare la ‘norma generale esclusiva’ o la

‘norma generale inclusiva’, le quali accompagnano ogni norma, essendo fra

l’altro impossibile la presenza di una metanorma che in via astratta e

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generale decida. Infatti, anche se è sempre pensabile la presenza di un

criterio positivizzato con cui distinguere quando si debba applicare una

‘norma’ e quando un’altra, non è pensabile che, a una seconda potenza,

esista sempre un criterio positivizzato con cui distinguere come interpretare

quel criterio, ossia con quali criteri si debbano interpretare i criteri. Il

risultato teorico è che resta, sempre, in un ordinamento giuridico, un varco

ermeneutico ineludibile e indecidibile. E la lacuna, per Bobbio, è

configurabile proprio in questa luce. Un tale fenomeno di indecidibilità

interpretativa mostra come il linguaggio abbia una sua costitutiva

ambiguità. Non a caso, Herbert Hart ha sostenuto che il diritto ha sempre

una struttura aperta, ossia costitutivamente esposta a più interpretazioni

possibili, di cui mai è pre-decidibile in via astratta e generale la chiave

ultimativa5.

Tali osservazioni possono mettere in luce come sia proprio la

concezione kelseniana a rivelarsi nascostamente ideologica, in quanto essa

medesima muove dalla finzione, non confessata, che l’ordinamento

giuridico positivo contenga già tutte le soluzioni per tutti i casi presenti e

futuri. O, ancora più precisamente, potrà dirsi che la concezione kelseniana

della cosiddetta ‘dottrina pura’ sceglie, fra le tante possibili finzioni, la sua,

occultando il fatto che è pur sempre una finzione.

13. Per uno statuto epistemologico della persona

La situazione dei nostri tempi è certamente inquietante. Ma nella storia

dei popoli è importante non solo cogliere la realtà massiva che inquieta, ma

anche ciò che, pur debole, esprime, in punte alte e circoscritte, un progresso

morale dell’umanità. Come già osservava Giuseppe Capograssi, la

Dichiarazione Universale del 1948, rovesciando il rapporto fra sovranità e

diritti individuali, costituiva un progresso morale cruciale anche se gli Stati

firmatari fossero stati ad essa ipocritamente indotti dalla percezione di una

pubblica opinione mondiale al cui giudizio si sentivano sottoposti.

Ricorre sempre più, nelle Dichiarazioni, nelle Costituzioni e nelle

Convenzioni, la ‘persona’. Che è, forse, oggi la nuova scoperta – scoperta

d’antico! – del Jus.

Come si è in più sedi sottolineato, la persona non è la semplice nozione

dell’uomo in generale. Perché essa è, almeno in una prima

approssimazione, l’uomo concreto, visto nella sua irriducibile singolarità.

In quanto tale, l’idea di ‘persona’ non è sovrapponibile a quella di

‘individuo’. ‘Persona’ e ‘Individuo’ hanno significato uguale e senso

5 H. Hart, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino 1991.

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diverso. La persona e l’individuo si riferiscono al singolo uomo concreto

(uguale significato), ma, mentre nella percezione epistemologica

dell’‘individuo’ non rileva la differenza di uno da un altro, nella persona la

distinzione di ognuno da ogni altro è a fondamento del suo senso.

Occorre partire, quindi, da una ‘dignità epistemologica’ della persona

che concettualmente preceda la sua ‘dignità assiologica’. Come dare, in

questo senso, le linee di uno statuto epistemologico della persona? Essa è

coglibile all’incrocio fra tre coordinate, non separabili, pena lo

snaturamento del loro senso: unicità, relazionalità, profondità.

1. La persona è unicità. Essa non è copia di un’altra. Non è seriale. Non

è fungibile. È un novum. Un originale. Essa è necessaria a sé stessa: in lei

ne va di lei e di tutta lei. Non s’individua col cognome, ma col nome. E,

d’altra parte, dire ‘persona’ implica un paradosso logico, perché si dice,

con una parola, ciò che non può dirsi con una parola; perché si dice, con la

sua idea, ciò che non è suscettibile di idea; perché si dice, con la sua

classificazione, ciò che non è classificabile. La persona è unicità. Di cui è

segnale, in un evento non solo reale ma epistemologico, il dolore.

2. La persona è relazionalità. Essa è e manca d’essere. In quanto tale, è

difettiva. Potrebbe, qui, richiamarsi Agostino, esplorando le sue riflessioni

sul male metafisico. La persona, come dice Pietro Piovani, est in quanto

deest, cioè essa è in quanto manca di qualcosa. Essa, in quanto difettiva e

cosciente di mancare, è relazione, bisognosa di relazione, capace di

relazione. Difettiva e fragile, e oscuramente cosciente della sua condizione.

Essa non ‘ha’ relazioni: ‘è’ relazione. Perché non è atomo irrelato. Né è

pensabile al di fuori delle sue relazioni come realtà precedente le stesse, a

prescindere dai rapporti in cui vive, dai gruppi cui appartiene, dalla cultura

in cui opera, dal tempo in cui è incardinata. La persona è cura. In me, ne va

dell’altro; nell’altro, di me.

Come la stessa scienza sperimentale mostra, un uomo muore non solo

per mancanza di cibo, ma di relazioni. E, d’altra parte, la dimensione

costitutiva della relazionalità si coglie non solo sul piano sincronico (nello

spazio) ma su quello diacronico (nel tempo). La persona, infatti, in una

trama di simmetrie di cui nemmeno si avvede, cerca nel tempo tracce altrui

e semina tracce di sé. Si fa fecondità di tracce (atti, opere, figli, ricordi,

scritti, documenti d’arte, il proprio medesimo nome), verso la quale

fecondità è comportamento simmetrico la spinta profonda a un’ermeneutica

delle tracce altrui (atti, opere, figli, ricordi, scritti, documenti d’arte, i nomi

altrui, tutta la frantumata archeologia che si dà). È la storia della civiltà. Di

cui, nella sua tessitura profonda, è segnale la ‘pietà’, la pietas.

3. La persona è profondità. La ‘profondità’ non è una condizione

mistica, né la semplice ‘interiorità’, ma il complesso energetico di possibili

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che nella persona vivono e che non potranno mai in toto darsi alla luce.

Aristotele diceva che «quel che ogni cosa è quando ha compiuto il suo

sviluppo, noi lo diciamo la sua natura»6. Questa ‘natura’ non dice la

persona. La quale, infatti, non è soltanto lo sviluppo e la storia in cui si è

espressa. Non è solo ciò che è stata, ma tutto ciò che poteva essere e non fu.

Essa è centro energetico di possibili. Lo sviluppo dice l’essere del genus

che nella persona si dà, non la persona. Se ne desume una profondità a più

livelli: 1. una profondità di livello primo, che è la storicità in quanto

sviluppo nel tempo; 2. una profondità di livello secondo per la quale la

persona è più di ciò che appare; 3. una profondità di livello terzo, che è il

mondo dei possibili, cui appartiene, insieme con l’emerso, tutto ciò che non

ebbe il tempo o le condizioni per darsi alla luce: in ogni uomo, infatti,

quiescono tanti percorsi possibili, tanti ‘io’ possibili, su cui non c’è

possibile sguardo esaustivo; 4. una profondità di livello quarto, per cui quel

‘centro di possibili’ si dà non come catena di cause, ma come un’istanza di

fondo abitata da una domanda di senso. Un tale ‘possibile’ è, nell’orizzonte

della persona, dimensione costitutiva del suo essere ciò che è. E, quindi, un

infinito. Un infinito di potenza non qualsiasi ma determinata: un

transfinito. Si tratta di una ‘profondità’ che, vista ex post, è ‘possibilità’

(come resistenza alla totalizzazione concettuale), e, vista ex ante, ‘libertà’.

Perché la libertà è la profondità al grado avvenire. Il cui essere è il

possibile, un posse – non solo dynamis ma enérgheia in cammino – da cui

emerge un’istanza profonda, radicalmente irriducibile alla catena

meccanica delle cause da cui pur fluisce: l’interrogazione del senso.

La persona – infinito possibile abitato da un’istanza di senso – è un

abisso ontologico. Abisso – Ab-Grund – il cui fondamento – il cui Grund –

è nella relazione con gli altri, divisi eppure indivisibili da lui. Grund dal

quale la sua possibile forza acquista sponda, limite, specchio, provocazione

al risveglio, messa in forma, possibile luce.

Le tre coordinate della persona (unicità, relazionalità, profondità) non

si comprenderebbero bene se non si capisse che sono tutte e tre radicate in

una condizione ontologica della persona che è, in quanto tale, prospettiva:

prospettiva ontologica su un mondo di cui essa è partecipe e su cui è punto

di vista vissuto. In questo senso, la persona, in quanto punto di vista vissuto

che comprende ed esprime, si rivela ontologicamente il grado zero

dell’ermeneutica.

La persona, abisso ontologico, è più di quello che appare. E, in quanto

tale, pudore. Che è il sentimento dei confini e il timore complesso a non

varcarli e a non farli varcare. Perché si teme che, da un lato, si scrutino i

propri punti di fragilità e, dall’altro, si riduca l’oggetto scrutato a un

6 Aristotele, Politica, 1252 b, 30.

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repertorio di dati, a una pura catena di cause, senza domanda di senso e

senza libertà. Chi oggettiva e banalizza l’altro, infatti, tende a ridurlo a una

cosa, a una copia. A una riproducibile copia. Rispetto a ogni atteggiamento

che ci riduca a copia, la resistenza indomabile – ontologica resistenza, ben

prima che psicologica – è il ‘pudore’. Di cui si rivelano espressioni

fenomenologiche forti il rispetto dei vivi, la venerazione dei morti, il timor

sacro di punizioni, l’idea di un Dio Provvidente, la percezione di un Senso

che erompa da una catena di cause di cui appare paradossale la causa. In

questo senso, la persona è più di ogni preteso giudizio definitivo su essa,

perché la sua profondità si pone oltre ogni definitività. Con tutto ciò che, in

termini etici e giuridici, consegue. Nessuna persona pertanto può essere

definitivamente condannata.

Se la pietà dice la relazione e il pudore la profondità, può cogliersi, qui,

un nesso profondo fra loro. Si delinea, alla scala della persona, un rapporto

fra relatio e revelatio7. La persona, nella sua differenza, è costitutiva

apertura, orizzontale e verticale. In essa, la ratio è relatio e revelatio. Là

dove si tratta di cogliere, in termini filosofici e non soltanto teologici, il

senso dell’agostiniano ‘Dio mi è più intimo della mia intimità’. Sentiero sul

quale ci si può avviare anche a partire da prospettive molto diverse: da una

riflessione filosofico-psicologica come quella di Ignacio Matte Blanco e da

una riflessione biofilosofica come quella di Antonio Damasio.

Émile Benveniste sottolinea il nesso coglibile – nella costellazione

semantica dell’‘aidòs’ greco (il ‘pudore’) – fra ‘pudore’ e ‘onore’. Se il

pudore, infatti, spinge al profondo rispettare, l’onore sollecita, soprattutto,

al profondo agire. E il ‘pudore-onore’ si rivela, in un tale contesto, centro

di radicamento della dignità. La quale è una ‘majestas’, una maestà. Di

carattere onto-epistemologico ben prima che assiologico. Fatta di

prerogative e di vincoli. Di attrazione e di rispetto. Di diritti e doveri

originari. Costituendo fine in sé. Nel significato complesso del poter porsi

come fine e del non poter sottrarsi alla propria forza di fine.

In questo senso, la dignità è una ‘maiestas’ in cui si rivela una traccia

del sacro. Del sacro còlto nei limiti della ragione. Il ‘sacro’, infatti, assunto

nella sua origine dal ‘numinoso’, nasconde una forza assoluta che è fonte

primordiale di ammirazione e terrore. E che, come tale, comanda e vieta,

assolutamente domina, lega. A pena della vita. In quanto comanda e vieta,

è fonte di diritti e doveri; in quanto domina, fonte di soggezione e rispetto;

in quanto lega, fonte di una condivisione essenziale a cui è impossibile

sfuggire.

In questa dignità vive il valore cruciale che Giambattista Vico, nel De

7 Sul doppio livello della ‘revelatio’ ha insistito più volte il teologo Bruno Forte. Per altri versi, si veda

V. Vitello, La voce riflessa. Logica ed etica della contraddizione, Lanfranchi, Milano 2004.

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Uno, chiama, in opposizione a Hobbes, l’Homo homini deus. In cui, non a

caso, si dànno i valori dell’unicità, del pudore e della pietà: dell’unicità,

della profondità e del legame.

Una frase scherzosa dice che in ogni grasso c’è un magro che fa sforzi

immani per essere riconosciuto. Espunto ogni possibile scherzo da una tale

espressione, potremmo trarne l’immagine per capire come in ogni corpo

(corpo intelligente complesso, ‘pensoso’) ci sia una persona che cerca di

essere riconosciuta. Marc Augé ha scritto che un uomo concreto si delinea

all’interno di un’appartenenza biologica, di un’appartenenza culturale e di

un’appartenenza storica8. Ma un tale uomo è ancora un seriale individuo:

esso non intercetta quell’unità di senso che è la ‘persona’. Che è –

all’interno di più appartenenze – un atto di esistere unico, relazionato,

profondo. Non confondibile col fondo comune da cui pur emerge.

Nel paradigma epistemologico della persona è riconoscibile uno statuto

assiologico9. A ben guardare, tre atti negano la persona, violandone

nichilisticamente le coordinate.

a. “Tu per me non sei che una copia, un ente seriale”. Perché – per me

– in te non c’è traccia di te, e in un tale non esservi traccia, ne va di te.

b. “Io non ho per te nessun interesse, perché per me sei un assente”. In

me di te non c’è traccia, né ci sarà. Io non ho alcuna cura di te. Esattamente

nei termini radicali in cui Kolja Krasotkin si rivolge al compagno Kartasëv

nei Fratelli Karamazov, durante il funerale del piccolo Iliuscia, quando gli

intima di tacere, dal momento che «nessuno parla con voi, e non desidera

neppur sapere se ci siate o no al mondo»10

. E’ il massimo attacco

d’indifferenza sferrato da chi non vuol sapere nulla dell’altro: da quel Kolja

che pur, poco prima, dichiarava ad Alioscia di invidiare chi può morire,

come martire ignoto e innocente, per l’intera umanità. Qui, la

contraddizione fra un’umanità come mera nozione generale e una persona

in carne e ossa è lampante: colui che si dichiara disposto a morire

eroicamente e oscuramente per l’umanità, non è disposto a sopportare la

presenza di una sola persona!

c. “Io di te mi sono appropriato, conoscitivamente e praticamente”.

Non solo vietandoti comportamenti, ma favorendoli e potenziandoli, e

soprattutto impossessandomi di te.

Quali, invece, gli atteggiamenti che negano queste negazioni?

Diremmo che sono il riconoscimento dell’altro, la compassione per l’altro e

il pudore. Là dove il riconoscimento dell’altro avviene non per intersezione 8 Marc Augé, L’uomo trino e uno, in “Micromega”, n. 4/ 2005, pp. 103 ss.

9 Né ciò significa ‘fallacia naturalistica’: sul punto, Giuseppe Limone, Il sacro come la contraddizione

rubata, Jovene, Napoli 2000, p. 31 ss. 10

Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1993, p. 1013.

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concettuale di dati (‘calcolo logico’), ma per intuizione, per intuizione

empatica: quella che coglie, dell’altro, l’irriducibile simplicitas.

Una ‘persona’, pur unica, non è mai pensabile elidendo gli spazi

intermedi che la legano alla famiglia, ai gruppi, alle patrie, alle culture di

appartenenza. Una persona non può essere pensata se non nella sua rete di

relazioni. Davanti all’alternativa fra individuo e rete di relazioni ci

collocano, invece, soprattutto negli Stati Uniti, le teorie ‘liberali’ e quelle

‘comunitarie’. L’idea di ‘persona’ è, in un tale contesto dilemmatico, la

strada che ne rompe la struttura, dissolvendone i termini. Perché questa

‘persona’ è la singolarità concreta che, stando in tutti i gruppi in cui è

radicata, è indissolvibile in essi. Ciò che caratterizza questa ‘persona’ è non

l’uguaglianza, ma la differenza. Dal cui luogo essa invoca la sua dignità,

ossia il suo diritto a una considerazione universale, corrosiva di ogni

‘universale’ formulato troppo presto.

14. L’irriducibile e la radice

Se interroghiamo la persona come unicità, essa è, in un tale orizzonte,

irriducibile. In tre sensi specifici, esprimenti un livello verticale e un livello

orizzontale: nel senso che una persona non è riducibile a un’altra

(altrimenti sarebbe un complesso seriale: una copia); nel senso che essa non

è riducibile in parti che epistemologicamente la precedano; e nel senso che

non è riducibile a una Totalità che epistemologicamente l’assorba.

In questo senso, la persona sta fra indivisibilità (in parti),

indissolvibilità (nel Tutto) e infungibilità (con altre persone). In quanto

indivisibile – o, più specificamente, in quanto divisibile solo per sé stessa e

per l’unità – la persona ha lo statuto teorico di un numero primo. Essa sta

alle pretese sue parti come sta alla Totalità. Se chiamiamo ‘p’ le parti, ‘P’

la persona e ‘T’ la Totalità, abbiamo:

p: P = P: T

La persona, quindi, è il medio proporzionale fra le parti e la Totalità.

Posto che il medio proporzionale fra estremi è la loro comune radice, la

persona è, fra l’universo atomistico e l’universo totale, la loro comune

radice.

Una tale ‘irriducibilità’ acquista ulteriori significati, se la si interroga

non solo sull’asse dell’unicità, ma, al tempo stesso, su quello della

profondità e della relazione. La persona, infatti, è irriducibile a ciò che ci

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appare e a una qualsiasi totalizzazione concettuale; così come è irriducibile

alle sue relazioni sociali e al suo mondo storico. Pertanto, essa non si riduce

né a una componentistica biologica, né fenomenica, né relazionale, né

culturale, né storica, né concettuale. Essa è – tout court – l’irriducibile. In

quanto tale, non semplice individuo o membro di una classe, ma un mondo.

Un universo. All’interno di un mondo più grande che è il suo multiverso.

15. Dal giusnaturalismo al giuspersonalismo

Nella temperie d’oggi è forse possibile rivisitare e reimpostare alcune

categorie venerabili consegnateci dalla tradizione. Parleremmo, qui,

innanzitutto ma non soltanto, di “giusnaturalismo” e di “giuspositivismo”.

Veniamo al “giusnaturalismo”. È fin troppo noto che questo termine è

equivoco, perché – in quanto allude a un supposto “diritto di natura”, ove si

accetti che una “natura” esista e che abbia un suo “diritto” (un suo principio

strutturale) – il ‘giusnaturalismo’ può riferirsi a un diritto strutturato sia nel

cosmo, sia negli esseri animati, sia negli esseri razionali. Quale sia un tale

principio, a questo punto, è domanda possibile e necessaria: che potrà

avere, nell’universo giusnaturalistico, risposte diverse. Non a caso, il

ventaglio potrà andare da un puro “diritto della forza” (e si sa quanto i

sofisti – e non solo essi – abbiano insistito su questo punto) a un “diritto

degl’istinti”, a un “diritto dei sentimenti”, fino a un “diritto della ragione”.

È noto quanto il cosiddetto “giusnaturalismo moderno” si sia fondato su

quest’ultima opzione (il diritto naturale come diritto della ragione, con

particolare riguardo alla ragione soggettiva), fino al punto da essere

chiamato, più correttamente, “giusrazionalismo”.

Veniamo al “giuspositivismo”. È altrettanto noto che anche un tale

termine si pone, a rigore, come equivoco, perché – in quanto allude a un

“diritto positivo” (posto con forza effettiva da una Potestà) – può riferirsi

sia al mero insieme di comandi del sovrano sia a un ordinamento

normativo formalmente e linguisticamente ricostruito dalla scienza

giuridica attraverso un procedimento permanente di elucidazione.

Siamo perfettamente consapevoli che le categorie qui presentate

appartengono a un universo problematico nel quale concorrono molte altre

possibili istanze dottrinali. Basti pensare, soltanto, al “diritto libero”,

all’ermeneutica, al “realismo giuridico” (nelle sue varianti), alle forme di

un giuspositivismo atipico essenzialmente fondato su “princípi” (Ronald

Dworkin), e ad altre ancora.

Guardando al giuspositivismo, se assumiamo come termine di

riferimento maturo quello kelseniano, ci si può domandare: che cos’è mai

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lo Stato, ossia l’ordinamento giuridico che nelle sue forme lo consuma? È

Kelsen stesso che, come è noto, fin dagl’inizi del suo percorso intellettuale,

risponde: lo Stato, e il diritto in cui esso si esprime, è l’organizzazione della

forza (Macht). Più tardi, Kelsen stesso sarà ancora più disincantato e

preciso: lo Stato, e il diritto in cui esso si esprime, è l’organizzazione della

violenza (Gewalt).

Ci si domanda: se il diritto è l’organizzazione della forza, una tale

concezione non appare affatto lontana da quella di chi ha sostenuto un

giusnaturalismo della forza. Certo, si tratta di un giusnaturalismo

puntualmente specificato, in quanto attribuisce una preferenza simbolica a

quella forza organizzata che è lo Stato: ma, ciò precisato, l’iscrizione del

giuspositivismo in un “giusnaturalismo della forza” non può essere negato.

Certamente, nella decostruzione del testo kelseniano vanno tenuti in

conto altri fattori: l’idea razionale di ordine, l’idea formale di linguaggio,

l’idea linguistica di proposizione normativa, l’idea epistemologica di

scienza moderna. In questo senso, il diritto è concepito come

l’organizzazione di una forza che si esprime in un ordine logico-linguistico

di cui è, al tempo stesso, a livelli diversi di intervento strutturale, co-

generatrice e ricostruttrice la ragione scientifica, ossia la scienza giuridica.

Questo è certamente vero, ma non inficia la considerazione

fondamentale: spogliato di ogni orpello, il giuspositivismo è un

giusnaturalismo della forza, della forza statuale in quanto effettiva, riflessa

ed elucidata nelle forme di un ordine logico-linguistico co-generato e

ricostruito dalla ragione della scienza nelle forme della modernità. Non a

caso, come si sa, il giuspositivismo è nato, per una paradossale eterogenesi

dei fini, dalla positivizzazione statuale del giusrazionalismo in epoca post-

illuminista.

Ma il diritto pensato dai giuspositivisti oggi è messo sempre più in crisi

da due processi diversi e convergenti: da un lato, il crescere di fenomeni di

globalizzazione e di aggregazioni soprastatuali che fanno decrescere la

forza dello Stato, anche dal punto di vista strettamente ordinamentale.

Dall’altro, il crescere di una sensibilità, culturale e teorica, verso quei

diritti che non sono diritti qualsiasi, giuspositivisticamente e

giustatualisticamente fondati, ma diritti più forti, a valenza (statuale e/o

suprastatuale) costituzionale.

In realtà, il processo in atto, più che determinare ex novo un fenomeno,

semplicemente rende visibile ciò che nei tempi precedenti, pur invisibile,

continuava giuridicamente a sussistere: ossia l’esistenza – di cui dicevamo

– di un diritto come attività della società nel suo complesso, mirante a un

ordine garantito. In questo senso, i processi indicati fanno solo riapparire

alla luce ciò che già c’è. Non producono, ma rivelano.

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Non c’è diritto che non sia riconosciuto e fatto vivere – attraverso

soggetti a ciò deputati – nel suo evolversi. Ma è fondamentale sottolineare

che dietro e sotto il fatto dell’evolversi del diritto vive – talpa celata ma

indisconoscibile – un principio non visto: quello della necessità di

rimodellare continuamente l’identificazione del diritto che la società si dà;

così come è fondamentale sottolineare che dietro e sotto il fatto

dell’evolversi del diritto vivono, proprio a partire da un tale principio, i

sempre nuovi princípi – consapevoli o inconsapevoli – con cui si

rimodellano interpretazioni e applicazioni. Se a monte del diritto c’è il suo

riconoscimento (Herbert Hart), a monte del suo riconoscimento c’è

l’attività regolatrice di una società che continuamente reinterpreta i

princípi del suo ordine.

Una più matura consapevolezza dei processi globali in atto e dei diritti

fondamentali spinge ad andare oltre le tante – pur raffinate – concezioni del

diritto: per passare dalla filosofia del diritto alla filosofia dei diritti e dalla

filosofia dei diritti alla filosofia della dignità. Dignità che è, in senso etico e

giuridico, il fondamento del diritto ai diritti. E del diritto ai doveri. Ciò

significherà passare dalla svolta ermeneutica al suo centro prospettico più

radicale e profondo: la persona.

La cultura che oggi s’impone all’attenzione come risposta alta alle

sfide della globalizzazione è una cultura non dei diritti tout court, ma dei

diritti fondamentali, ossia di quei diritti che prevalgono sulle stesse leggi.

Diritti la cui sostanza etica e giuridica celata è la dignità di ogni essere

umano, assunto nella sua concretezza e nella sua differenza da ogni altro.

Dignità che è da intendere non solo al grado passivo, come aspettazione di

soccorsi, ma al grado attivo, come promozione di possibilità.

Su questi diritti fondamentali oggi esistono molte Carte internazionali –

Carte che non riguardano solo il mondo occidentale ma anche quello

islamico, orientale, africano. Si tratta di Carte differenti che, seppur in

lessico giuridico, sono un diversificato commentario al problema della

dignità. Il cui fondamento, prima e più che nella potestas degli Stati, è, per

impiegare un modello caro ai Romani, nell’auctoritas di un Jus

storicamente nuovo, degno di riconoscimento e di ossequio.

È giunto, forse, il tempo in cui mettere in discussione la necessità

giustificativa della sola “ragione”. Assumendo come criterio strutturale un

principio altro, non necessariamente sostitutivo ma, almeno, qualificativo:

la “persona”.

Si tratta di ripartire da un’ontologia del singolare che rimetta in

questione la ragione. A differenza di questa, infatti, la persona non

prescinde dal singolare, dal corpo, dal vissuto, dalla fragilità, dalla

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condizione mortale, dalla narratività, dall’universalità iscritta nel singolare.

Il giusnaturalismo moderno è raccolto nell’idea di una ragione che scopre

nella ragione dell’uomo il suo diritto naturale: di valore universale, di

natura razionale. Si tratta di una ragione come principio cognitivo che

scava in una ragione come principio ontologico, còlto alla scala dell’uomo.

Di una ragione sempre più criticata e pluralizzata dal pensiero

contemporaneo11

. Occorre un mutamento di prospettiva che tocchi tutti e

due i livelli del percorso individuato (quello ontologico e quello cognitivo):

identificando un principio personale (una ‘ragione personale’) come

principio cognitivo che scavi in ogni differente persona il principio

ontologico della sua singolarità. Intendendo quest’ultima come atto di

esistere unico, relazionato, profondo. Sono maturi, cioè, i tempi per

passare dal giusnaturalismo al giuspersonalismo. Attraverso un giudizio

riflettente, impiegato in forma nuova, in cui muovere dal singolare per

cercare un universale mai concluso.

L’umanità inscritta nella propria singolare concretezza è la persona.

Essa non è l’essere umano in generale, ma l’uomo concreto e la sua idea.

Frutto di uno sguardo empirico e di un giudizio riflettente. Là dove si

coglie radicata un’idea – a grado singolare – con valenza universale, così

come Kant la coglieva nell’opera d’arte. Questa persona è, in quanto tale

“bene comune”. Si tratta di realizzare qui una vera rivoluzione nell’idea di

bene comune. Non solo in senso etico, ma epistemologico. Perché si

postula che anche il singolarissimo, proprio di una persona, sia però, in

quanto degno di considerazione universale, “bene comune”. Donde

l’imperativo che nessuna maggioranza, per quanto ampia, possa mai

lederne la consistenza. Si tratta di compiere, in nome della persona, oltre

Kant, una rivoluzione copernicana al quadrato che non ribalti la prima

rivoluzione ma la radicalizzi. Se è vero, infatti, che la civiltà umanista – e,

a suo modo, quella kantiana – aveva posto al centro la soggettività umana,

la “rivoluzione copernicana al quadrato” di cui parliamo è quella che porrà,

se ne avrà intellettualmente la forza, al centro della soggettività umana il

suo vero centro – centro di centro – ossia l’uomo singolare e concreto,

distinto da ogni altro e guardato come irrimediabile e intotalizzabile

novum: la persona.

Occorre criticamente riflettere a fondo sulla scelta – che alcuni teorici

fanno – del corpo come del luogo più accomunante e comune. Se è vero,

infatti, che il corpo ci accomuna, è proprio questo medesimo corpo che ci

singolarizza e ci divide. Il mio dolore corporeo non è il tuo, anche se

fossimo accomunati dal massimo di solidarietà viscerale. Eppure, è proprio

qui lo scavo teorico da compiere: al massimo livello di profondità. Bisogna

11

Sul punto, l’ormai classico Pietro Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna, Liguori, Napoli 2000.

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riuscire a pensare il “comune” non solo al primo livello – al piano di quel

‘comune’ che prescinde dalle singolarità in esso radicate –, ma, a un

secondo e a un terzo livello, al piano, più radicale, in cui è quello stesso

comune ad avere il volto del ‘singolare’ ed è quello stesso singolare a

costituire il ‘comune’. Perché il tuo dolore, che è tuo, è comune. E perché

ogni ‘comune’ ha un rivelarsi al singolare. Così come il tuo corpo, che è

tuo, è comune pur restando tuo. Il che sarà vero anche per il ‘corpo vivente’

nel suo significato più complesso, che dice tutto ciò che sei e non una tua

semplice parte. Bisogna, cioè, teoreticamente guadagnare il livello in cui è

lo stesso ‘comune’ a essere il ‘singolare’ perché è lo stesso singolare a

essere comune – e in una prospettiva in cui mai il ‘comune’ annichilisca il

‘singolare’, perché quest’ultimo resta, per il giudizio riflettente che vi si

ràdica e ne muove, il suo ‘universale concreto’ di riferimento. In questo

orizzonte, la singolarità, restando singolarità, perché e in quanto personale,

è bene comune.

L’idea contemporanea dei diritti fondamentali custodisce, a nostro

avviso, nell’era della globalizzazione, questo straordinario strato filosofico,

a sua insaputa. Essa, infatti, istituisce l’orizzonte di un “tuo” che, restando

tuo, è bene comune. E che, in quanto tale, è argine invalicabile nei

confronti di qualsiasi maggioranza, comunque qualificata, che ritenga di

poter disattenderne la consistenza. In questo senso, l’enucleazione di diritti

fondamentali della persona è un commentario – in un catalogo mai chiuso –

all’idea stessa del “bene comune”. È qui il nucleo teorico di un

“giuspersonalismo” speculativo che lavora attraverso il giudizio riflettente

come categoria speculativamente militante. Senza dimenticare che solo

all’interno di un’etica della relazione – in quanto tale, aperta – può

intercettarsi la persona come bene comune. Perché la tua libertà, i tuoi

diritti e la tua differenza sono parti costitutive e fondanti del bene comune.

16. Per una lettura a strati

Dicevamo che i princípi stanno fra i valori e le norme. E che tutte e tre

le figure – valori, princípi e norme – vivono insieme confuse nella società

umana che si regola in un ordine.

Se, proseguendo sulle orme della civiltà romana e di Vico, il Jus è lo

strato delle ragioni giuridiche storicamente sedimentate nel vissuto di una

società e la Lex l’eventuale precetto statuale della Potestà che le circostanzia

e le completa, è qui teoreticamente introducibile un ulteriore strato di

analisi: lo strato dei bisogni antropologici primordiali che permanentemente

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soggiace sia al ‘Jus’ sia alla ‘Lex’. I quali, pur a contenuto storico variabile,

si manifestano in una storicità che si rivela null’altro che la forma variabile

della necessità di storificarsi. Ci troviamo, quindi, di fronte a tre strati:

esprimenti, nella loro struttura antropologica cogente, l’archeologia di

un’esperienza giuridica universale.

Se ricostruiamo ora il percorso del diritto dalle norme ai princípi ai

valori, possiamo scoprire che in un tale cammino a ritroso, procedendo

dalle ragioni delle parti (‘norme’) alle ragioni dell’intero (‘princípi’ e

‘valori’), noi riconosciamo l’architettura a strati di un Jus risalendo – lungo

i ‘principi generali dell’ordinamento giuridico’, i ‘principi del diritto’, gli

orientamenti di principio al diritto e i valori – fino alle fonti di

legittimazione dell’ordine sociale, alla sua giustificazione valoriale e al suo

ordine di necessità. Fino al principio dell’equità come costitutivo del

diritto12

. Fino ai principi vichiani dell’umanità (come reciproco soccorrersi

fra gli uomini) e del pudore (come messa in forma e in confini della

libertà). Fino al principio, ove siano i tempi maturi, per cui il diritto di

esistere è il fondamento dell’esistere del diritto.

17. Per un nuovo paradigma della ragione

Crediamo siano maturi oggi i tempi per una nuova concezione

epistemologica della ragione. Per una ragione che, apprendendo dalle

coordinate della persona (unicità, relazionalità, profondità) assuma dalla

relazione una sua ineludibile fonte intersoggettiva (nella persona, la ‘ratio’

è ‘relatio’) e dalla forza positiva dei sentimenti la fonte del senso (nella

persona, la ‘ratio’ è ‘revelatio’). Si tratta di aprire a una ragione che sappia

definirsi secondo un modello non già teoreticamente concluso, ma in

cammino, a partire dalla propria singolare e storica diversità e, insieme, dal

pudore e dalla pietà.

Il pudore, infatti, non è solo un bisogno ineludibile. Esso è anche, per un

pensiero speculativo che con esso si confronti, una sfida teoretica: la

domanda – rivolta al potere, alla conoscenza e alle categorie della scienza –

sul se io possa essere inteso come esaurito dallo sguardo che – in modi

anche sofisticati – mi vede dall’esterno. Sul se io possa essere fatto

coincidere col repertorio dei dati che il potere e la scienza possono

conseguire di me. Un tale ‘pudore’ non può non essere profondamente

connesso alla ‘pietà’. E con la speranza che il varco ad essi non sia mai

12

G. B. Vico, De uno universi iuris principio et fine uno, in ID., Opere giuridiche. Il Diritto universale,

introduzione di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni Editore, Firenze 1974. Vedi anche G. M.

Chiodi, Equità. La categoria regolativa del diritto, Guida, Napoli 1991.

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chiuso.

Parliamo del pudore come limite e misura di civiltà. Perché sostanza

soggiacente a ogni ‘rispetto’ e argine verso ogni ‘ragione’. Parliamo della

pietà come senso del legame nella condivisione, dei sentimenti

(‘compassione’) e della fragilità (‘sunt lacrimae rerum et pectora mortalia

tangunt’, Virgilio).

Il pudore e la pietà sono sentimenti di confine. Custodi di un allarme e di

una soglia. Che vale in due forme, doppiamente simmetriche: nel soccorrere e

nel rispettare; nel non varcare e nel non far varcare. Soglia la cui complessa

struttura, in termini di ‘diritti’ e ‘doveri’, individua la ‘dignità’. Soglia la cui

persistente negazione segna la catastrofe di una civiltà.

Da quando la modernità – nel suo lavoro di rifondazione analitica che

tutto ha consumato di sé, compreso il suo fondamento – si è trovata a

rendere conto a sé stessa del senso della sua rifondazione, la sua eredità

teorica, di cui tanto bene dà conto la storia del Novecento, si è rovesciata.

Non riesce ad apparire più vero, infatti, che porsi il problema del senso sia

un problema senza senso, perché, al contrario, appare senza senso proprio

il porsi problemi di verità a prescindere dal senso. Come in una nemesi

storica, noi assistiamo forse, oggi, a una vendetta consumata da un

particolare fatto sui fatti: da quel fatto che, pur negato, sempre

irresistibilmente risorge e che è il bisogno di senso. Se nel mondo

contemporaneo è certamente un fatto l’urgere del desiderio, tra questi fatti,

anche se non riducibile ad essi, è il desiderio di senso. Se è vero che, come

Ludwig Wittgenstein insegna, l’immortalità della vita non risolverebbe il

problema della vita13

, è anche vero che l’onnipotenza della ragione non

risolverebbe il problema della ragione. Perché, come già altrove

scrivemmo, «la ragione può, certo, sostenere che domandare il senso è

problema privo di senso, ma non può – nemmeno invocando Wittgenstein e

la settima proposizione del Tractatus – sottrarsi all’ulteriore obiezione:

come negare senso al fatto del continuo bisogno di senso e come

riconoscere senso, intanto, a una ragione che questo fatto neghi?».

Ne nascono paradossi cruciali. A. La ragione, divenuta potenza

tecnologica, non asciuga, ma alimenta, i suoi bisogni di fondamento e di

senso. B. Più la ragione scientifica diventa ricca di dominio, più diventa

difettiva di certezze.

L’idea ischemica che la ragione rappresenta di sé, si rivela una para-

noia della ragione, ossia un proprio raddoppiamento mimetico consumato

in una invisibile prigione. Si dà una paranoia della ragione proprio là dove

13

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, a cura di Amedeo G. Conte, Torino, Einaudi

1964, proposizione 6.4312, p. 80.

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occorrerebbe una sua metà-noia14

, che riesca a farla scoprire virtuosamente

s-fondata. Sfondata in tre punti che costitutivamente le sfuggono,

consegnandola alla radicale sua difettività: a. in senso orizzontale

(l’apertura costitutiva alla relazione con l’altro); b. in senso verticale

(l’apertura costitutiva a un profondo possibile, mai concettualmente

consumabile, cui non disappartiene il mondo delle emozioni,

dell’inconscio, della non computerizzabile vita); c. in senso riflessivo

(l’apertura costitutiva alla propria difettiva e itinerante novità).

Simile al tiranno di platonica memoria, che tutto può sugli altri e nulla

su sé, la ragione contemporanea tutto può dire su quanto essa fonda, nulla

dei suoi fondamenti. Tale esito ha, a nostro avviso, profondamente da fare

con la rivoluzione che nascostamente si annuncia, oggi, per linee invisibili,

nei rapporti confinari fra tecnologia, scienza, filosofia, religione, arte e

poesia. Si tratta, in realtà, di pensare a una ragione che si ponga, da un lato,

come relazione e, dall’altro, come apertura alla profondità e al senso.

Come apertura alla compassione e al pudore. Là dove la ragione rifiuta la

propria autotrasparenza riflessiva, la propria autoidentificazione separata e

la propria onniscienza inclusiva. Scoprendosi felicemente s-fondata. Sia in

senso orizzontale (il rapporto con l’altro), sia in senso verticale (il rapporto

col proprio possibile, che la sottende), sia in senso riflessivo (il rapporto col

sé). Una tale ragione, in quanto tende alle coordinate della persona,

costituisce la persona come principio epistemologico indagante atto a

cogliere la persona come principio ontologico indagato.

18. La scienza giuridica come conoscenza del mondo civile e la filosofia

del diritto come diritto alla filosofia

All’emersione di una ragione epistemologica nuova apre varchi possibili

la stessa stagione contemporanea. Siamo oggi, infatti, davanti a una nuova

frontiera di paradossi, che possono risultare, al tempo stesso, esiziali e

virtuosi. Viviamo in tempi in cui, per l’esponenziale progresso tecnico-

scientifico, si dànno situazioni nuovissime e decisive:

a. È sempre più grande la capacità della tecnoscienza di generare effetti

straordinari e di lunga durata ed è sempre più piccola la capacità della stessa

di prevedere, calcolare e invertire tanta parte di questi effetti (evento della

complessità come paradosso della inversione delle quantità cognitive);

b. un numero sempre più piccolo di uomini può determinare un effetto

sempre più devastante nella vita di tutti gli altri (paradosso della inversione

delle quantità sociali);

14

Eligio Resta, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 123 e passim.

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c. in angoli sempre più circoscritti del mondo (si pensi ai possibili effetti

combinati dei processi di miniaturizzazione, di nanotecnologizzazione e di

indeterminazione) possono generarsi eventi sempre più devastanti nella vita

di aree sempre più grandi (paradosso della inversione delle quantità

spaziali).

Tutto ciò apre a una falda di princípi cui, forse, non si era pensato.

Donde il varco a un’onto-epistemologia del singolare, vista nella sua

capacità di farsi universale, rendendo provvisoria ogni formulazione di

universale già conclusa.

Dicevamo che non c’è possibile ordine sintattico del diritto senza un

minimo di ordine semantico condiviso e che non c’è possibile ordine

semantico del diritto senza un minimo di ordine giusto, ossia di risposta a

una domanda forte di giustizia. Si può proseguire dicendo che non c’è

possibile ordine giusto che non risponda alla domanda di una persona – di

ogni persona – nel suo essere atto di esistenza unico, relazionato, profondo,

il cui nucleo sia la dignità e il cui centro di radicamento sia in quella

singolarità che si autocertifica, senza possibile dubbio, nel dolore. Perché il

dolore è l’evento che m’intercetta e m’interroga nella mia singolarità. Là

dove non posso dubitare che sono io a soffrire e non tu, né un pensiero

universale in me. Il dolore fa gravitare me su me stesso e qui. Attestando la

mia singolarità e il mio presente. Aprendo alla rottura della mia unità

inconscia incantata. Schiudendo alla possibile attesa di un senso. Se il

dolore è l’atto della singolarità irriducibile, una ragione degna di questo

nome non può essere insensibile al dolore di una persona, a maggior

ragione se è muto. E non può non tradurre una tale opzione in etica e, per

quanto possibile, in diritto. Implicando in tal gesto un riferimento alla

compassione e al pudore. Ovvero, alla relazione e alla profondità.

I tre coni di cui dicevamo, rappresentativi di rapporti epistemologici

figurati fra mondi noetici (ordine sintattico, ordine semantico, ordine

giusto), richiamano, a ben vedere, nel loro percorso ascendente, una quarta

figura. Almeno a un certo livello della civiltà giuridica, infatti, non c’è

possibile ordine giusto senza implicare un possibile ordine buono. Ciò, in

un significato del ‘bene’ che, andando oltre Thomasius, non si limiti a

differenziarsi dal ‘giusto’ trasformando le prescrizioni universali negative

(«Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te») in prescrizioni

universali positive («Fa’ agli altri ciò che vuoi sia fatto a te»), ma che

esprima quel valore – fine in sé – che rompe ogni ragione simmetrica,

facendo della dissimmetria la sua regola, in nome di una misericorde

gratuità.

Un tale ‘bene’ significa, in realtà, il passaggio dall’ordine giusto

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all’ordine buono. Di cui punto essenziale è l’ordine di un fine in sé, la

persona. Un tale ordine buono, in realtà, radicalmente eccede l’ordine del

diritto, anche se sull’ordine del diritto ha titolo per esercitare una

permanente e utopica gravitazione. La persona, infatti, sempre eccede

l’ordine del diritto, anche se, a un certo livello di civiltà, può cominciare a

far gravitare quest’ordine verso di sé. Nei limiti della sostenibilità umana.

Il che può accadere nella misura in cui dell’attività sociale autoregolatrice –

che è diritto – entri a far parte il principio paradossale della persona, ossia

delle persone.

Pur eccedendo radicalmente il diritto, la ‘persona’ ha precise incidenze

sullo stesso: 1. Costituendo, nei confronti di ogni Diritto, criterio di

fondazione e test permanente di falsificazione. 2. Destrutturando

l’architettonica del rapporto fra ‘pubblico’ e ‘privato’. 3. Demistificando il

criterio dell’astrattezza e generalità come forma di giustizia. 4. Spingendo a

decostruire la ‘giustizia’ in termini di ‘persone’. 5. Costituendo un

riferimento, più che alla potestas, a un fondamento antico, l’auctoritas,

intesa come forza valoriale, matrice di rispetto, indipendente dal potere e

dalla negoziazione di consensi.

La scienza calcola, la filosofia pensa. Possiamo anche dire: la

tecnologia calcola, la persona pensa. Esistono, così, una scienza del diritto

e una tecnologia del diritto che calcolano, come esistono una filosofia e

una persona che pensano. Ciò non significa istituire ostilità strutturali fra

istanze, ma un confronto ineludibile. Senza calcolo, saremmo deprivati di

ogni progresso; senza pensiero, saremo privi di ogni civiltà. La radice –

l’errante radice – di questa dignità civile del pensare è la filosofia. E oggi,

in nome di un nuovo paradigma della ragione, la persona. Triplicemente s-

fondata: verso l’impossibile auto-trasparenza, verso la necessaria relazione

con l’altro, verso l’impossibile possesso della propria profondità.

Attraverso il senso di sé, la compassione per l’altro e il pudore.

La persona è il diritto di resistenza originario e la nuova misura: diritto

e misura affermati da ognuno nei confronti di ogni sistema (concettuale,

etico, politico, giuridico) che si presenti come concluso. Se lo ‘statuale’ si è

storicamente posto come argine rispetto al ‘privato’ e il ‘costituzionale’

come argine rispetto allo ‘statuale’, la persona è l’ultimo argine, eretto nei

confronti di qualsiasi potere, pubblico e privato. Non a caso, Antonio

Rosmini ha, con espressione pregnante e magistrale, affermato che «la

persona è diritto sussistente».

È stato lapidariamente scritto da Vico, a conclusione della Scienza

nuova: «Se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio». Condizione

del sapere è la pietà.

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Il nostro tempo sembra in preda a un nichilismo che si caratterizza non

per una crisi di valori, ma, più radicalmente, per una crisi di domanda di

valori. Se l’idea di persona costituisce uno stadio importante, a orizzonte di

millennio, nell’attuale temperie di civiltà, la società contemporanea può

autocomprendersi oggi come l’atto complesso del convivere tra persone.

Se, vichianamente, riflettere sul diritto è indagare sulla sua intrinseca

filosofia e se riflettere sulla sua filosofia è formarsi conoscitivamente sul

suo incarnarsi civile, meditare sulla filosofia e sul diritto è poter meditare

senza tregua, speculativamente e in concreto, sulla sostanza cruciale della

civiltà.