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Giuliana Mancuso Il giovane Scheler (1899-1906)

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Giuliana Mancuso

Il giovane Scheler(1899-1906)

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Mancuso G.
Il giovane Scheler
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PRESENTAZIONE

[…] se immaginiamo che in linea di principio non ci sia la funzione logica con tutta la ricchezza dei modi della sua presenza, allora resta un qualcosa di assolutamente ambiguo, una massa intuitiva grezza da definire soltanto in modo figurato, un caos assolutamente indeterminato che non porta determinazione di alcun genere. 1

Max Scheler, 1904-1906

Il fatto – quanto meno il fatto ‘puro’ o fenomenologico – non viene ‘definito’ solo in base a una ‘proposizione’ o a un ‘giudizio’ correlativo; né esso viene anzitutto estrapolato, per così dire, da un cosiddetto ‘caos’ del dato. Anche il dato a priori è un contenuto intuitivo, non un qualcosa di ‘proiettato’ o di ‘costruito’ sui fatti tramite il pensiero. 2

Max Scheler, 1913

I passi che introducono queste considerazioni presentano Scheler impegnato nel sostenere due posizioni ben diverse. La frase del 1913 offre un’imma-gine consona al paradigma ermeneutico dominante gli studi sull’autore del Formalismusbuch, vale a dire quella del fenomenologo realista che lavorò – in polemica con l’idealismo trascendentale della fenomenologia husserliana –, nella «direzione metodologica indicata dalla proposizione relativa al primato dell’essere sul pensiero» 3; quanto invece alla prima affermazione, databile al biennio 1904-1906, essa costituisce una ingente

1 LW, p. 98 (la trad. di questo e degli altri passi che verranno citati è mia, ove non diversamente segnalato; i corsivi sono dell’autore, ove non diversamente segnalato). 2 Formalismus, GW II, p. 71 (trad. it. leggermente modificata, p. 78). 3 DPG, GW VII, p. 261.

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anomalia per tale paradigma, poiché Scheler vi sostiene una concezione del dato del tutto anti-fenomenologica, immediatamente riconducibile all’idealismo logico della Scuola di Marburgo, come si evince dall’esame del testo da cui è tratta.

Di questo testo anomalo – così come della riflessione svolta dal giovane Scheler negli scritti che lo precedono a partire dal 1899 durante la sua permanenza a Jena, periodo definito a volte «neokantiano», più spesso «prefenomenologico» – la letteratura secondaria si è occupata ben poco. Per di più, quando lo ha fatto, è stato quasi sempre soltanto sulla base di un punto di vista ‘retrospettivo’, che il passo seguente esemplifica in modo eccellente:

Gli scritti prefenomenologici di Scheler non presentano forse grande importanza. Si potrebbero ricavare in essi elementi che preannunciano tesi più tardi esplicitamente sostenute […] tutta una serie di motivi, insomma, interessanti sì, ma solo alla luce e in funzione delle più solide concezioni delle opere maggiori. 4

In base a quanto si sostiene qui, della filosofia giovanile scheleriana si deve rilevare soltanto ciò che può valere come motivo anticipatore della futura ‘conversione’ alla fenomenologia: ne viene che gli scritti giovanili sono definiti appunto come «prefenomenologici», eccellente esempio di definizione che non definisce, e che solo in forza del riferimento alla successiva produzione fenomenologica possano rivestire un qualche inte-resse. Benché il testo da cui è tratto il passo risalga ormai al 1952, la linea interpretativa che vi si manifesta e la conseguente valutazione della filosofia giovanile scheleriana che ne risulta sono state e sono tuttora ampiamente condivise dalla letteratura. Si tratta, del resto, di un taglio metodologi-co che caratterizza la gran parte degli studi dedicati alle opere giovanili, siano queste opere di filosofi, romanzieri o scienziati: come scrive Juan Arana nel suo libro sul Kant «precritico» (altro celeberrimo esempio da aggiungere alla lista delle definizioni e negativo), «sembra che un lavoro dedicato alla tappa iniziale della filosofia di Kant debba servire per forza a una miglior comprensione della parte del suo pensiero che tutti consi-deriamo ‘definitiva’», sicché il Kant «precritico» alla fine non è altro che un «Kant che solo in riferimento alla Critica della ragione pura acquista una certa rilevanza. Pertanto ci si dovrà occupare soprattutto delle origini della filosofia trascendentale, presentando, da un punto di vista genetico, una nuova immagine della medesima» 5. Scheler sarebbe quindi in ottima

4 Pedroli 1952, p. 1. 5 Arana 1982, p. 15.

PRESENTAZIONE

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e nutrita compagnia, se non fosse che la sua vicenda filosofica si trova a essere particolarmente refrattaria all’approccio genetico-evolutivo appena delineato: come mostrano i passi citati in apertura, sono infatti profonde (e si vedrà anche estremamente ampie) le sacche di resistenza che la sua filosofia giovanile presenta rispetto all’opera della maturità. Il che non ha impedito all’approccio in questione – genetico-evolutivo o retrospettivo che dir si voglia – di dominare anche la (per di più scarsa) letteratura secondaria sul giovane Scheler, con il risultato di lasciare l’interrogazione sullo specifico di questa parte della produzione del filosofo sostanzialmente inevasa, in modo tale che il suo peculiare orientamento neokantiano è a tutt’oggi poco più di una genericissima etichetta, da apporre a tutto ciò che non è immediatamente leggibile come avvisaglia delle note posizioni successive di impronta realistico-fenomenologica.

La presente ricerca vuole colmare questa lacuna nell’ormai vastissimo panorama della letteratura secondaria su Max Scheler e intende farlo adot-tando un punto di vista che ribalta scientemente l’approccio retrospettivo cui si è appena accennato, del quale peraltro il primo responsabile è stato, come si vedrà, Scheler stesso. Ritengo infatti che un tale modo di procedere sia scorretto anzitutto dal punto di vista metodologico e che, come ogni altro errore di metodo, anche questo debba necessariamente ripercuotersi sui contenuti, ostacolando nel caso di Scheler una verace comprensione della sua vicenda speculativa. Nelle pagine che seguono lo Scheler fenomenologo è stato quindi ‘messo tra parentesi’ e dei testi che formano la produzione giovanile del filosofo, definita dall’arco temporale che va dal 1899 al 1906, si è cercato di fornire una lettura il più possibile ‘interna’, tramite un esame circostanziato, volto a presentarne la struttura espositiva e argomentativa, i nuclei tematici principali, nonché l’orizzonte concettuale di riferimento in cui risultano essere inseriti. L’obiettivo primario è quello di fare luce sul nebuloso neokantismo del giovane Scheler, per definirne finalmente i contorni; la speranza è che in tal modo si possano guadagnare elementi importanti per riconsiderare la sua produzione successiva, come si è provato a fare a conclusione dell’indagine relativamente alla riforma del concetto di a priori che sta alla base della critica al formalismo etico e alla riflessione metafisico-antropologica svolta dal filosofo negli ultimi anni di vita.

L’idea di chiarire che cosa mai fosse quel neokantismo giovanile al quale la maggior parte degli studi su Scheler solo fuggevolmente accenna non sarebbe mai sorta senza un preesistente interesse per la filosofia neo-kantiana; il fatto che questa potesse rivelarsi tanto importante per com-prendere il pensiero scheleriano (anzitutto quello giovanile, ma non solo) è venuto via via precisandosi nel corso della ricerca, permettendo così di presentare sotto una luce nuova un filosofo troppo spesso fossilizzato in figure largamente stereotipate.

PRESENTAZIONE

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1 Holzhey 1986, vol. II, p. 278. Dietro la V puntata, oggetto del poco lusinghiero commento di Natorp, c’è Hans Vaihinger, tra le altre cose nel 1897 fondatore delle «Kant-Studien», alla cui redazione Scheler lavorò per un anno e mezzo, grazie all’interessamento di Rudolf Eucken. Scheler, peraltro, non si distinse certo come redattore-modello: in un periodo di crisi finanziaria e organizzativa della rivista, «Max Scheler, l’assistente-redattore del quasi cieco Vaihinger, durante il giorno mostrava una tale indolenza che si dovette urgentemente trovare qualcun altro a cui affidare la conduzione» della rivista (Sieg 1994, p. 212; si veda anche la nota 103).

I

CRITICA ASSIOLOGICA DELLA COSCIENZA

1. UN NUOVO PUZZLE

Un buon punto di partenza per definire il contesto in cui collocare la filo-sofia giovanile scheleriana può essere individuato in ciò che Paul Natorp scrive ad Albert Görland in una lettera del 6 luglio 1902:

[…] V. ha praticamente ceduto la redazione [scil. delle «Kant-Studien»] a Scheler (Jena). Quale sia la posizione di costui nei nostri confronti non lo so; ha scritto un libro contro il metodo trascendentale e quello psicologico, a sostegno del metodo ‘noologico’ di Eucken. In ogni caso, l’impressione che ho avuto finora è che si tratti di una persona portata alla riflessione, da non paragonare nemmeno a una zucca vuota come V. 1

Oltre il cicaleccio e le strategie dell’accademia, oltre la malignità nei con-fronti del malcapitato Vaihinger, il passo è interessante per due ordini di ragioni: anzitutto perché dà conto di ciò che del giovane Scheler in quegli anni di inizio Novecento doveva interessare a un docente e filosofo maturo e affermato come Natorp; in secondo luogo perché questi è notoriamente uno dei principali esponenti del neokantismo marburghese, indirizzo che si vedrà essere determinante per la caratterizzazione della filosofia giovanile

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16 CRITICA ASSIOLOGICA DELLA COSCIENZA

2 Cfr. Köhnke 1993. 3 Ortega y Gasset 1928.

scheleriana. Sono del resto due aspetti che si può far fatica a distinguere, quando si consideri che essere ‘docente affermato’ e essere ‘neokantiano’ erano due concetti spesso coestensivi nell’accademia tedesca a cavallo tra XIX e XX secolo 2; il che spiega anche perché Natorp giudichi qui il giovane studioso sulla base di Die transzendentale und die psychologische Methode, l’opera del 1900 in cui il ventiseienne Scheler più sistematicamente si confronta con il nocciolo teorico e operativo dell’indirizzo marburghese, ossia, appunto, il metodo trascendentale.

Il passo di Natorp non solo apre uno squarcio sul rapporto che la riflessione giovanile scheleriana intrattiene con la tradizione neokantiana – e marburghese in particolare –, ma fornisce anche altre due informazioni centrali per collocare Scheler nel panorama filosofico tedesco dell’epoca: si tratta del nome di un luogo, Jena, e di quello di un docente attivo nell’ateneo della piccola cittadina turingia, vale a dire Rudolf Eucken. È infatti sotto la protezione del di lì a poco (1908) vincitore del premio Nobel per la lette-ratura che Scheler termina i suoi studi ed esordisce sulla scena accademica, ed è Jena a vedere le pubblicazioni dei primi testi del filosofo: dal 1899 al 1904 escono a suo nome due voluminose monografie, due lunghi articoli e due recensioni a un’opera del maestro Eucken; a questi testi va aggiunto il lungo frammento di un’opera sulla logica progettata in due volumi, alla quale Scheler lavorò tra 1904 e 1906, quando decise di ritirare l’opera dalla stampa e abbandonò Jena per Monaco. Negli anni successivi non pubblicò più nulla e quando riprese a farlo, nel 1911, i suoi scritti erano ormai di chiara impostazione fenomenologica.

I testi ai quali Scheler lavorò tra 1899 e 1906 durante il soggiorno a Jena circoscrivono in modo ben definito il corpo della sua produzione giovani-le, una produzione dalla fisionomia peculiare, in gran parte difficilmente integrabile con l’immagine di Scheler ormai sedimentatasi nei manuali e nella stessa letteratura specialistica. Il che non significa che in questi testi non ci siano elementi interpretabili come anticipazioni degli interessi che mossero il futuro «filosofo dei valori» o come avvisaglie delle soluzioni teoriche adottate dal «fenomenologo della vita emotiva» o dall’embriagado de esencias 3 (alcuni tra i topoi sui quali la letteratura scheleriana più vo-lentieri indugia); anzi, per le letture che adottano una tale impostazione ‘retroattiva’, la difficile integrabilità dell’opera giovanile con quella suc-cessiva non ha costituito in realtà un problema così grande: individuando gli elementi che possono reggere l’impostazione retrospettiva, lavorandoli per smussarne le scomode spigolosità, tali letture ne hanno infine ricavato

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4 Si veda p. es. Vorrede zur zweiten Auflage (1922) di Methode, GW I, pp. 201-203; si veda inoltre infra, cap. II, § 3., p. 145; cap. III, § 1., pp. 156-160. 5 Cfr. Henckmann 1998 (a), p. 17. Tra le pochissime fonti secondarie sulla filosofia giovanile di Scheler, l’articolo di Henckmann ha costituito il mio imprescindibile punto di partenza; per questa ragione verrà spesso citato nel corso del testo. Per la ricostruzione delle vicende biografiche degli anni jenesi si vedano anche Henckmann 1998 (b), pp. 16-20, e Mader 1980, pp. 18-30.

tessere perfettamente compatibili con quel mosaico che fin dall’inizio vo-levano comporre, liquidando tutto il resto con l’estremamente funzionale etichetta di ‘errore di gioventù’.

Il fatto che sia stato proprio Scheler il primo a rimodellare il suo pas-sato utilizzando una procedura del tutto analoga 4 non credo, in ogni caso, ci debba obbligare a fare altrettanto, soprattutto quando si consideri che pochi sono gli elementi della filosofia giovanile scheleriana a soddisfare il criterio retrospettivo e molti quelli che non lo soddisfano e che quindi in tal modo vanno persi. Piuttosto che andare in cerca del già noto, mi sembra utile allora smetterla di giocare al solito vecchio puzzle con pezzi che hanno tutta l’aria di formare un altro mosaico e, fuor di metafora, considerare i testi giovanili di Scheler anzitutto nel contesto storico-filosofico che è loro proprio.

2. IL CONTESTO JENESE

Scheler iniziò i suoi studi universitari nel 1894, iscrivendosi alla facoltà di filosofia presso l’ateneo di Monaco, per passare già nel semestre estivo alla facoltà di medicina, continuando tuttavia a seguire lezioni di filosofia, tra le quali quelle di Theodor Lipps. L’anno seguente si trasferì a Berli-no, dove si immatricolò ancora come studente di medicina, per quanto tra le lezioni frequentate nel suo anno di permanenza ce ne siano state anche di filosofia (seguì tra gli altri Wilhelm Dilthey e Georg Simmel). Nel 1896, all’età di 22 anni, mise fine una volta per tutte al progetto di intraprendere l’esotica carriera di medico di bordo – quale curiosamente pare volesse diventare 5 – e si trasferì a Jena per frequentarne la celebre facoltà di filosofia. Qui terminò gli studi, diventando a tutti gli effetti l’allievo prediletto di Rudolf Eucken, il quale insegnava nella cittadina turingia dal 1874 (l’anno in cui nacque Scheler), quando subentrò a Kuno Fischer sulla cattedra di logica e metafisica. Tra i colleghi di Eucken – che nell’ateneo jenese insegnò per quarantasei lunghi anni – vanno senz’altro menzionati Gottlob Frege (che a Jena aveva studiato e già compiuto un

UN NUOVO PUZZLE

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buon pezzo di carriera accademica, fino a conseguire lo straordinariato nel 1879), Karl Fortlage, il teologo evangelico Karl von Hase, il linguista Berthold Delbrück, il fisico Ernst Abbe e lo zoologo e Populärphilosoph Ernst Haeckel. Quest’ultimo, pur avendo poi instaurato un rapporto cor-diale con Eucken, ne aveva all’inizio osteggiato la chiamata, preferendo al suo posto un filosofo il cui pensiero fosse più orientato alla riflessione sul sapere scientifico; il conflitto tra le Weltanschauungen dei due più celebri professori jenesi non poteva del resto essere più netto e la vita dell’ateneo era caratterizzata dall’opposizione tra lo spiritualismo euckeniano da un lato e il materialismo di Haeckel dall’altro. A conferma del ruolo di spicco dell’università jenese nella comunità culturale del tempo si può ricordare come lo strisciante ma netto conflitto tra i due abbia ricevuto una decisa amplificazione a livello internazionale nel dicembre del 1908, quando «il premio Nobel per la letteratura venne consegnato non allo zoologo jenese Ernst Haeckel (1834-1919) – come avevano anticipato numerose riviste italiane e francesi […], bensì al suo collega jenese e ‘antipodo’, il filosofo Rudolf Eucken (1846-1926)» 6. Se prima che il premio venisse consegnato Haeckel e gli esponenti della comunità scientifica a lui più vicini non riu-scivano nemmeno a capacitarsi di come il nome di Eucken fosse riuscito a rientrare nella rosa dei candidati 7, dopo la sconfitta lo zoologo spiegava così la piega presa dagli eventi: Eucken «ha vinto come rappresentante dell’‘idealismo’ e sacerdote del ‘mondo elevato dello spirito’, mentre a me è toccato soccombere in quanto rappresentante del ‘materialismo’ e schiavo della ‘bassa natura’» 8.

Più che su Haeckel, tuttavia, vale la pena attirare l’attenzione sulla figura di un altro collega di Eucken, quell’Otto Liebmann che, come si vedrà, avrà un ruolo non certo di secondo piano nella vicenda scientifico-accademica del giovane Scheler. Basti dire per ora che nel 1882, alla morte di Fortlage, la facoltà di filosofia cercava un successore che potesse controbilanciare il deciso orientamento storico-umanistico di Eucken: al fine di equilibrare l’offerta didattica (si direbbe oggi), la scelta cadde quindi sull’autore del fortunato Kant und die Epigonen (1865), giudicato il candidato ideale per la natura critica della sua filosofia, incentrata sulla teoria della conoscenza e praticata in costante riferimento alle scienze della natura.

6 Hoßfeld et al. 2005, p. 97. 7 «Come Eucken, che in linea di principio è il mio antipodo, abbia potuto arrivare fin qui, per i colleghi del posto è un mistero! È un buon oratore e un bravo kantiano […], ha anche scritto molti ‘bei libri’ a proposito di ‘fini elevati ’ ecc., ma non ha prodotto un solo lavoro originale di valore», scrive sprezzantemente Haeckel in una lettera del 30 novembre 1908, citata in Hoßfeld et al. 2005, p. 98. 8 Ibidem.

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Quando Scheler si immatricolò all’università jenese, Eucken e Lieb-mann rappresentavano quindi due modi ben diversi di fare e intendere la filosofia e, tra i due, le preferenze del giovane andarono senz’altro al primo: di Liebmann, infatti, nel suo intero corso di studi a Jena frequentò un solo e unico ciclo di lezioni (sulla psicologia), mentre la sua partecipazione alle lezioni, ai seminari e alle esercitazioni di Eucken rimase costante in ognuno dei tre semestri (su quattro complessivi) di cui si ha documentazione 9. Tra gli anni sessanta e settanta del XIX secolo Eucken aveva esordito come filologo e storico della filosofia antica: formatosi a Göttingen sotto la gui-da di Gustav Teichmüller e, grazie alla mediazione di questi, divenuto in seguito amico di Friedrich Adolf Trendelenburg, il suo iniziale ambito di indagine era stato infatti la filosofia di Aristotele 10. Negli anni settanta – in seguito al grande dolore causatogli dalla morte della madre 11 e dopo essere stato chiamato a Jena da Basilea –, abbandonò tuttavia gli studi aristotelici per imprimere alla sua attività di docente e di intellettuale quella che si potrebbe definire una decisa svolta dall’erudizione all’impegno: nel 1874, in occasione della sua chiamata nell’ateneo jenese, scriveva infatti in una lettera di voler praticare la filosofia in modo tale che essa per gli studenti significasse «non solo un ampliamento delle nozioni, ma anche un generale approfondimento della vita spirituale», concependo egli la filosofia «non semplicemente come occupazione intellettuale, bensì nel complesso pro-prio come una questione di cuore» 12. Con questo spirito Eucken iniziò a lavorare a una serie di opere, in cui si venne via via dispiegando quella magniloquente concezione della filosofia come redentrice dello smarrito e disgregato uomo contemporaneo che tanto successo darà al suo propu-gnatore. Nel 1885 escono i Prolegomena zu Forschungen über die Einheit des Geisteslebens in Bewusstsein und That der Menschheit, seguiti tre anni dopo dall’opera in funzione della quale la precedente era stata concepita 13,

9 Si veda l’utilissimo Dathe 1997, p. 2. Le lezioni di Eucken frequentate da Scheler avevano per titolo Idee guida del presente, Etica, Esercitazioni filosofiche (semestre in-vernale 1896/97); Filosofia del XIX secolo; Discussione delle questioni di principio della logica (semestre estivo 1897); Essenza della religione (semestre invernale 1897/98). 10 Über den Sprachgebrauch des Aristoteles. Betrachtungen über die Praepositionen, Berlin, Weidmann, 1868; Über die Methoden und die Grundlagen der aristotelischen Ethik, Frankfurt am Main, Mahlau & Waldschmidt, 1870; Über die Bedeutung der Aristotelischen Philosophie für die Gegenwart (discorso accademico inaugurale, tenuto il 21 novembre 1871 a Basilea), Berlin, Weidmann, 1872; Die Methode der aristotelischen Forschung in ihrem Zusammenhang mit den philosophischen Grundprinzipien des Aristoteles dargestellt, Berlin, Weidmann, 1872. 11 Si veda la lettera a Christoph Ernst Luthard del gennaio 1874, citata in Graf 1997, p. 57. 12 Lettera a Moritz Seebeck, citata in Graf 1997, p. 64. 13 Eucken 19252 (1888).

IL CONTESTO JENESE

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20 CRITICA ASSIOLOGICA DELLA COSCIENZA

testi nei quali Eucken presenta l’ossatura della sua proposta filosofica. Se il concetto centrale di tale proposta è appunto quello di una ‘vita spirituale’, che si tratta di afferrare e praticare come organica unità di piano biolo-gico e piano spirituale, il suo obiettivo programmatico sta nel garantire e salvaguardare questa sorta di unità bipolare dalle pretese riduttivistiche del monismo imperante, sia esso di indirizzo oggettivistico-naturalistico o soggettivistico-intellettualistico.

La decisa opzione anti-positivistica del pensiero di Eucken non deve tuttavia far dimenticare il fatto che egli stesso ebbe a definire la sua proposta filosofica come una forma di «‘positivismo’ che vuole abbracciare l’intera realtà» 14: l’istanza che muove questo «positivismo spirituale» 15 è in fondo la stessa istanza generale che porterà Husserl a scrivere che, «se ‘positivismo’ è la fondazione assolutamente libera da pregiudizi di tutte le scienze sul ‘positivo’, cioè su quello che si afferra originalmente, allora siamo noi [scil. fenomenologi] i veri positivisti» 16 – un tema sul quale, per inciso, insisterà anche lo ‘Scheler fenomenologo’, per esempio in uno dei manoscritti di teoria della conoscenza coevi alla stesura del Formalismusbuch, laddove la filosofia fenomenologica verrà definita come «la forma più radicale di empirismo e positivismo» 17. L’anti-positivismo euckeniano va quindi inteso soprattutto come presa di posizione a sostegno della autonomia della vali-dità ideale contro le pretese riduzionistiche in senso materialistico di certo positivismo, non come chiusura pregiudiziale nei confronti della filosofia che lavora programmaticamente a contatto con le scienze particolari: in questo senso Eucken guardava a se stesso non certo come a un «tradizio-nalista metafisico» avverso alla scienza, bensì come a un «sostenitore di una modernità autentica e consapevole, capace di integrare» le acquisizioni dei saperi empirici «in una metafisica dello spirituale» 18.

14 Eucken 1922, p. 76. 15 Graf 1997, p. 55. 16 Husserl 1913, p. 45 (trad. it., p. 47); in Husserl 1927, p. 10, il fondatore dell’in-dirizzo fenomenologico scrive che la filosofia di Eucken e la fenomenologia sono due strade diverse per raggiungere lo stesso obiettivo, ossia per «superare la distinzione essenziale tra l’uomo nella natura e l’umanità nello spirito, per scorgere l’unità della vita spirituale che si manifesta via via nel corso della vita dell’umanità e per ricondurla alle fonti originarie». 17 PuE, GW X, p. 381. 18 Graf 1997, p. 71.

G. Mancuso
Il giovane Scheler
SEGUE
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1 Cfr. Henckmann 1998 (a), p. 19. Come scrive Henckmann, della «Philosophische Gesellschaft» si sa molto poco. Nella biblioteca dell’università di Jena ho potuto con-sultare i Berichte citati infra, ma non mi è stato possibile trovare altro materiale, se non successivo al periodo in cui Scheler fu attivo a Jena. Tuttavia, a colmare questa lacuna, posso segnalare le ricerche del già citato Uwe Dathe, il quale nel corso di una ricerca sullo storico Alexander Cartellieri ha recentemente trovato nell’archivio della biblioteca di Jena i verbali redatti a mano relativi alle sedute della società che vanno dal 26.05.1903 al 17.05.1906. Il dottor Dathe, che ringrazio di cuore per avermi fornito queste preziose informazioni, al momento in cui scrivo non è ancora riuscito a stabilire nulla sulla pro-venienza di questi verbali. Tra di essi si trova in ogni caso il resoconto dettagliato di una conferenza di Scheler, scritto di suo pugno. 2 Titolo del Referat della dottoressa Francken, tenuto nella decima seduta del seme-stre estivo del 1898, quando, nota il segretario della società, «per la prima volta venne ammesso alla seduta un buon numero di donne», Semester-Bericht über die Thätigkeit der Philosophischen Gesellschaft zu Jena im Sommer-Semester 1898 (d’ora in poi SS 1898), steso dal segretario Th. Genthe, p. 3 (ho consultato la copia presente nella Thüringer Universitäts- und Landesbibliothek Jena – d’ora in poi ThULB – con la segnatura Hist.lit.VI, 103/10, sotto la quale rientrano anche i Berichte citati di seguito).

II

IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI

1. UN ESAME DIFFICILE

Negli anni trascorsi a Jena da studente Scheler non si era limitato a fre-quentare lezioni e a sostenere esami, ma aveva contribuito attivamente alla vita culturale universitaria, fondando nell’autunno 1896 insieme a Julius Goldstein, un altro allievo di Eucken, la «Philosophische Gesellschaft zu Jena» 1. La società si riuniva la sera «nel suo locale, il Café Rein», per di-scutere temi come Il parallelismo psicofisico 2 o Il principio più adeguato per

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54 IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI

3 Titolo della relazione del dottor Unbehaun, in Semester-Bericht über die Thätigkeit der Philosophischen Gesellschaft zu Jena im Winter-Semester 1898/99 (d’ora in poi WS 1898/99) steso da Fr. Heller, p. 2. 4 «Durante il semestre passato sono stati presi in prestito dalla biblioteca in tutto 21 libri, precisamente dai signori Dr. Scheler, Dr. Medicus […]» (SS 1898): ogni Bericht contiene un Bibliotheks-Bericht, in cui vengono documentate le nuove acquisizioni, ripartite in acquisti e in donazioni. 5 SS 1898, p. 3; poco sopra l’autore spiega implicitamente il criterio per la distin-zione tra membro ordinario e straordinario, laddove scrive: «Un membro ordinario, il dottor Fritz Medicus, nel corso del semestre è passato nelle file dei membri straordinari, essendosi trasferito a Halle». 6 Anche se in WS 1898/99 viene registrato come residente a Berlino. 7 WS 1898/99, p. 2. Louis-Auguste Sabatier (1839-1901), teologo protestante fran-cese: molto probabilmente Scheler relazionò sulla sua opera Equisse d’une philosophie de la religion, Paris, Fischbacher, 1897. 8 Liebmann 1884. 9 Semester-Bericht über die Thätigkeit der Philosophischen Gesellschaft zu Jena im Winter-Semester 1899/1900, steso da F. Brodführer, p. 1 s.

un sistema filosofico 3; possedeva inoltre una biblioteca – formata in parte da testi acquistati direttamente dalla società stessa, in parte da donazioni (tra le quali si segnalano quelle di Eucken e del barone Friedrich von Hü-gel) – della quale Scheler faceva uso 4. Nella relazione del semestre estivo del 1898 sulle iniziative della società, Scheler viene annoverato tra i membri straordinari, in quanto non più immatricolato a Jena: egli in effetti aveva conseguito la Promotion presentando lo scritto sui rapporti tra dimensione conoscitiva e dimensione morale, per trasferirsi quindi a Heidelberg 5, dove trascorse un breve soggiorno di studio; in questo periodo lavorò anche come assistente alla camera di commercio di Ludwigshafen. L’anno seguente fece ritorno in Turingia 6 per conseguire l’abilitazione, visto che Eucken gli aveva detto che presto ci sarebbe stata l’opportunità di ottenere una docenza privata nella facoltà jenese di filosofia. Contestualmente al ritorno da Heidelberg, Scheler riprese anche a frequentare le sedute della «Philosophische Gesellschaft», dove nel semestre invernale 1888/89 tenne una relazione «scientificamente molto interessante» su Sabatier: fondazione di una filosofia della religione 7. Nel semestre successivo, in base al relativo Bericht, «l’attività della ‘Philosophische Gesellschaft’ è stata veramente vivace e soddisfacente. Si sono tenute sedici sedute serali», tra le quali sei dedicate alla lettura dell’opera di Liebmann (membro onorario della società insieme a Eucken) Die Klimax der Theorien 8, e sette a conferenze: la conferenza del 2 marzo 1900 su Giudizi analitici e sintetici fu tenuta da Scheler 9.

Se l’esame per la Promotion fu tutto sommato una sorta di passerella sulla quale Scheler sfilò non solo senza incontrare ostacoli, ma riscuotendo

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10 Citato in Dathe 1997, p. 5.

il vero e proprio entusiasmo del suo maestro, la prova di abilitazione costi-tuì invece una prova ben più ardua. Nella sua valutazione dello scritto lo stesso Eucken – relatore della tesi presentata dall’allievo prediletto con il titolo Versuch über die philosophische Methode – esprime un giudizio a tratti insolitamente (per l’entusiastico stile euckeniano) cauto e circospetto, che lascia trasparire alcune riserve di fondo: secondo Eucken, il lavoro pone più questioni e compiti di quelli che il metodo proposto dall’autore riesce in effetti a risolvere; non solo ma Scheler «non sempre è riuscito a evitare di far nascere un nuovo problema da ogni problema trattato, finendo così con l’impegolarsi in troppe indagini collaterali»; lo sforzo filosofico sche-leriano «si rivolge all’intero della filosofia e cerca di trovarvi una propria posizione», il che «naturalmente» espone il lavoro «a determinati rischi», per esempio quello di cadere in contraddizione, come effettivamente accade «in alcuni passi» 10.

Se raffrontate alle lodi sperticate che Eucken aveva speso due anni prima per la tesi di laurea del suo allievo, le sue perplessità sullo scritto di abilitazione di Scheler risultano in verità piuttosto stridenti; come avrò modo di mostrare meglio in seguito, quando verrà esaminato il testo, credo infatti che non ci possa essere dubbio sulla superiorità scientifica e sulla maggiore maturità filosofica della Methodenschrift rispetto ai Beiträge. Senz’altro c’è un aspetto sul quale non si può non convenire con Eucken: la principale caratteristica dello scritto sul metodo è in effetti la sua natura prevalentemente critica a scapito della parte propositiva, che viene liquidata nelle ultime pagine del testo in modo piuttosto brutale e con un taglio fin troppo generale. Se si lascia da parte questo aspetto, tuttavia, il testo risulta nel complesso ben organizzato e definito nella scansione delle sue parti, e le «indagini collaterali» in cui Scheler finisce qui per «impegolarsi» sono non solo meno numerose ma soprattutto meno ‘collaterali’ di quelle che affliggono invece la struttura confusa dei Beiträge – i quali, d’altra parte, soffrono anch’essi di quella carenza in sede propositiva ravvisata da Eucken nello scritto sul metodo. In generale, quindi, non mi sembra che le valutazioni di Eucken colgano obiettivamente (sempre per quanto è possibile farlo) il valore dei due testi scheleriani e nemmeno mi pare che tali valutazioni abbiano tra loro una coerenza interna, visto che accusano il secondo testo di difetti che il primo presenta in maggior misura.

In realtà credo che le perplessità euckeniane sulla Habilitationschrift di Scheler possano essere spiegate – meglio di quanto non facciano le ragioni formali addotte da Eucken stesso – considerandone i contenuti e il taglio. Anzitutto bisogna tenere conto del fatto che Scheler dedica l’in-

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tera trattazione al serrato confronto con la filosofia trascendentale e con quella di orientamento psicologico, per relegare nelle due ultime pagine la proposta ‘noologica’ che egli mutua dal maestro, una proposta che in tal modo finisce per risultare piuttosto vaga e indistinta, più un impegno programmatico che non una metodologia filosofica con una sua peculiare e ben definita fisionomia. Scheler senza dubbio si serve di alcune tra le principali unità concettuali della filosofia euckeniana: anzitutto della no-zione di Arbeitswelt – ossia la connessione di opere e prestazioni culturali attestata dalle diverse forme di sapere –, in quanto insieme coerente di fenomeni che può valere come dato di partenza dal quale poter risalire alla vita spirituale 11; del sintagma o sistema di vita che Eucken definisce «un complesso caratteristico di eventi e circostanze manifestantesi attivamente nella realtà storica […], dal quale ci aspettiamo un principio per la piena e completa definizione del molteplice» 12 (come per esempio possono essere il naturalismo o l’intellettualismo, secondo Eucken i due principali sintagmi del suo tempo); soprattutto del metodo noologico, definito in esplicita opposizione a quello psicologico (per il quale non si dà alcun «mondo spirituale autonomo con contenuti e leggi proprie» e i «processi spirituali» vanno trattati come «stati del soggetto» 13), avendo esso a che fare non «con la psiche, ma con lo spirito, non con la yuc», ma con il noàj» 14, visto che i sintagmi possono essere colti solo a questo livello; e infine del concetto di personalità, che sta al centro del «sistema di vita» propugnato da Eucken nella sua «battaglia per un contenuto spirituale di vita» e per la fondazione di una nuova Weltanschauung 15, da opporre alla disgregazione e decadenza contemporanee. Tutto ciò, come si vedrà, lo si ritrova nello scritto di abilitazione di Scheler, senza tuttavia che tali elementi siano presentati in modo approfondito e soprattutto senza che venga tentata una loro sistematica connessione.

In secondo luogo, per spiegare le perplessità di Eucken sullo scritto dell’allievo, bisogna tenere conto del fatto che, a differenza dei Beiträge, esso è essenzialmente uno scritto di teoria della conoscenza, un ambito che Eucken ha sempre subordinato al problema etico-pratico tanto nella sua attività didattica, quanto nella sua opera filosofica. In ogni caso, quali che siano state le ragioni dei dubbi di Eucken, esse non furono tali da impe-dirgli di concludere il suo giudizio per così dire in crescendo: nonostante i difetti del testo, scrive infatti Eucken, «nel complesso emerge un talento

11 Cfr. Eucken 1885, p. 45. 12 Ivi, p. 74. 13 Ivi, p. 98. 14 Ivi, p. 99. 15 Cfr. Eucken 1896.

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così singolare per la ricerca filosofica e una conoscenza così buona dei fondamenti scientifici della filosofia, che io nutro favorevoli aspettative per la carriera scientifica dell’abilitando e che quindi […] ne appoggio l’ammissione all’esame di abilitazione» 16.

Il talento di Scheler per la filosofia non deve tuttavia essere sembrato poi così particolarmente singolare a Otto Liebmann, correlatore della tesi di abilitazione, e tanto meno pare che l’esaminatore abbia giudicato così buona la conoscenza dei «fondamenti scientifici della filosofia» mostrata dal candidato. Al fine di comprendere la tensione che caratterizzò l’esame sostenuto da Scheler per ottenere la libera docenza, bisogna a questo punto spendere qualche parola su Liebmann, «uno tra i primi che con impres-sionante energia si erano richiamati al criticismo dimenticato» 17, colui che con il suo Kant und die Epigonen 18 aveva lanciato lo slogan in grado di cogliere l’esigenza diffusa in gran parte della filosofia tedesca degli anni sessanta del XIX secolo: also muß auf Kant zurückgegangen werden 19. La vulgata vuole che con il primo libro di Liebmann si inauguri ufficialmente il neokantismo, anche se «è ovvio» che tale movimento «non è nato im-provvisamente nel 1865 dalla penna del giovane venticinquenne […] come Atena dalla testa di Zeus» 20. In realtà, la palma di «iniziatore ufficiale del neokantismo» Liebmann se la contende almeno con il suo maestro di Jena Kuno Fischer e con Eduard Zeller – solo per fare due nomi tra i papabi-li –, a testimonianza del fatto che in generale quello dell’«inizio» è spesso un mito retroattivo e che, nel caso particolare, Liebmann con il suo libro aveva semplicemente dato voce a un’esigenza diffusa e già ben avvertita. Aveva studiato filosofia e matematica, prima a Jena, sotto Fischer appunto, per trasferirsi poi a Lipsia, dove ebbe modo di seguire le lezioni di Gustav Theodor Fechner e Moritz Wilhelm Drobisch, e infine a Halle. Conseguì l’abilitazione in filosofia a Tubinga e divenne professore a Strasburgo nel 1872, dove rimase dieci anni prima di essere chiamato a Jena, nel cui ateneo insegnò per circa trenta anni, fin quasi alla morte.

Dalla sua opera giovanile, la prima e la più celebre, cercò in seguito per così dire di emanciparsi, rifiutando quella palma di iniziatore del neo-

16 Citato ivi, p. 5 s. L’esame di abilitazione prevede infatti una fase preliminare in cui vengono valutati i titoli del candidato (pubblicazioni ecc.) e soprattutto lo scritto presentato come tesi di abilitazione; superata questa fase, si viene ammessi all’esame vero e proprio, consistente in un esame orale e in una lezione di prova. 17 Windelband 1910, p. III. 18 Liebmann 19122 (1865). 19 Così si chiude, a mo’ di litania, ognuno dei capitoli dedicati da Liebmann agli «epigoni» di Kant, ossia Fichte, Schelling, Hegel (indirizzo idealistico), Herbart (indirizzo realistico), Fries (indirizzo empirico), Schopenhauer (indirizzo trascendente). 20 Orth 1994, p. 17.

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kantismo che tanto spesso gli è stata invece attribuita; per esempio, nella terza edizione di quella che è la sua opera principale per mole e ambizio-ne, chiarisce il senso del suo giovanile also muß auf Kant zurückgegangen werden nei termini seguenti:

Intendevo dire che solo con questa inversione di rotta saremmo risaliti per le false piste finora percorse fino a raggiungere il punto di partenza, dal quale sarebbe stato quindi possibile ripartire per fare nuovi progressi. Con ciò si è data precisa espressione a un pensiero che a quei tempi era, per così dire, nell’aria e che io non mi attribuisco quindi in nessun modo come merito personale. 21

Sempre nella stessa sede, poco più avanti, aggiunge che «la presente opera occupa una posizione non all’interno, bensì all’esterno dell’ambito delimitato dall’autorità di Kant» 22, il che pare inevitabilmente contraddire quanto sostenne Windelband nel 1910, laddove questi scrisse che «si potrebbe chiamare Liebmann il più fedele tra tutti i kantiani» 23. Il caposcuola del neokantismo sudoccidentale si sottrae alla contraddizione ricorrendo a una delle più caratteristiche figure ricorrenti di tutta la letteratura neocriticista: in base a questo topos, che potremmo chiamare ‘dello spirito e della lettera’, Liebmann – prosegue Windelband – senza dubbio basa la sua riflessione sulla convinzione del fatto che «lo spirito della filosofia trascendentale sia immortale», il che d’altra parte non gli impedisce di ritenere che «certamente bisogna correggere molte, forse tutte le singole e letterali formulazioni dei concetti […] che in Kant sono storicamente condizionati» 24. Per salva-guardare lo spirito del criticismo Liebmann si è spinto molto oltre nella sua correzione della lettera kantiana; in particolare, ai fini della presente indagine, è utile soffermarsi su due aspetti di questa decisa operazione er-meneutica, proprio perché vanno a opporsi direttamente all’interpretazione euckeniana della filosofia critica: si tratta della «cosa in sé» e della dottrina della libertà intelligibile. La tesi portante di Kant und die Epigonen è che le false piste sulle quali ha finito per muoversi la filosofia post-kantiana si dipartono tutte da un errore fondamentale che affligge il criticismo dall’in-terno, vale a dire la dottrina della cosa in sé, interpretata da Liebmann come imperdonabile concessione al dogmatismo: la sua proposta è allora quella di sbarazzarsi del noumeno e di ogni tentazione trascendente per limitare l’operato filosofico in senso puramente immanente ai dati dell’esperienza spazio-temporalmente determinata. Il che comporta, conseguentemente,

21 Liebmann 19003, nota a p. 231. 22 Ivi, p. 232. 23 Windelband 1910, p. III. 24 Ivi, p. IV.

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che nell’opera successiva Liebmann rifiuti la dottrina kantiana della libertà e del carattere intelligibile, fondata su quello stesso concetto di cosa in sé che egli giudica «una parola senza significato» 25. Da quanto detto emerge chiaramente la struttura della ricezione che Liebmann ebbe della filosofia di Kant, della quale egli nel passo seguente indica esplicitamente i punti che non condivide:

Per quanto riguarda la dialettica trascendentale e la dottrina delle idee che vi viene sviluppata; inoltre la riabilitazione delle stesse ‘idee trascenden-tali’ – intrapresa nella Critica della ragion pratica sulla base dell’interesse etico-pratico –, idee alle quali nella dialettica trascendentale veniva negato qualsiasi valore conoscitivo oggettivo; infine l’uso mistico-positivo del concetto di ‘cosa in sé’, da Kant stesso introdotto inizialmente come ‘concetto-limite negativo’, ma in effetti del tutto impensabile; questa parte delle concezioni del grande pensatore la possiamo passare sotto silenzio. Semplicemente a me non interessa la lettera, bensì lo spirito del criticismo. 26

Tutta la distanza rispetto al modo in cui Eucken valuta la filosofia kan-tiana si fa qui evidente: lo ‘spirito del criticismo’ per Liebmann risiede essenzialmente nella analitica trascendentale della Critica della ragion pura; il cuore del sistema critico è allora la teoria della conoscenza, esattamen-te ciò che Eucken ha pressocché ignorato nella sua ricezione di Kant e che in generale ha poco sviluppato nella sua stessa riflessione. Liebmann propone di eliminare dal progetto trascendentale la dottrina della cosa in sé e tutti gli elementi che rimandano alla dimensione noumenica, per sviluppare una metafisica critica che insiste sulla dipendenza dell’oggetto dal soggetto; Eucken, al contrario, mette tale dottrina al centro della sua valutazione della prima critica, individuando nell’accesso etico-pratico al mondo intellegibile garantito dalla Critica della ragion pratica la soluzione kantiana per il superamento degli esiti fenomenistici del criticismo in sede di teoria della conoscenza, nonché per una conciliazione della dimensione conoscitiva e di quella pratica dell’esperienza, che Kant ha presentato in così netta contrapposizione.

Se Cassirer ha sostenuto che «tutti i rappresentanti di rilievo del ‘neo-kantismo’ concordavano per lo meno su quest’unico punto: che il fulcro del sistema di Kant fosse da cercare nella sua dottrina della conoscenza» 27, allora si può dire – volendo correggere la lettera della definizione di Windelband per precisarne lo spirito – che Liebmann appare come il più fedele fra tutti

25 Liebmann 1866, p. 59. 26 Liebmann 19032, p. 236. 27 Cassirer - Heidegger 1990, p. 100.

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i neokantiani, in forza della sua ricezione ‘teorico-conoscitiva’ della filosofia kantiana, così distante da quella ‘etico-pratica’ di Eucken.

La profondità del conflitto tra i due commissari d’esame si coglie pro-prio nel giudizio che Liebmann diede dello scritto di abilitazione di Scheler. Per quanto discreto, vi si ravvisa infatti un chiaro riferimento polemico alla cornice euckeniana in cui Scheler inserisce le sue riflessioni sul problema del metodo, laddove si legge: «[…] quanto al valore del punto di vista scelto dall’autore, credo mi sia consentito qui di tacere»; esprimere il pro-prio giudizio sul metodo noologico di Eucken avrebbe significato infatti ingaggiare un confronto critico, ancora prima che con l’abilitando, con quel collega relatore di «natura diversissima, addirittura quasi opposta» alla sua, un’opposizione che Max Wundt dipinge nei seguenti termini:

Eucken cerca sempre la sintesi, Liebmann è un analitico più misurato; Eucken esorta sempre a muoversi verso le questioni di fondo estreme e, a partire da esse, cerca di dispiegare l’intero, Liebmann ogni volta parte da questioni singole e da esse giunge solo problematicamente a individuare possibili nuclei concettuali unificanti. Il fatto che Eucken abbia esercitato un’influenza più estesa è naturale in un’epoca appassionatamente rivolta ai problemi di una concezione universale del mondo. In contrapposizione, la forza di Liebmann stava soprattutto nella formazione scientifica, nel pensiero rigorosamente critico e nell’impegno, perseguito con succes-so, di dare un solido sostegno alla filosofia rivolgendosi al lavoro delle scienze determinate. 28

Tra questi due fuochi si trovò allora Scheler e con lui il suo scritto di abilitazione, troppo ‘teorico-conoscitivo’ e a tratti specialistico per entu-siasmare il relatore Eucken e al tempo stesso troppo ‘noologico’ e univer-salizzante per avere la misurata approvazione del correlatore Liebmann. L’unico punto di contatto tra le valutazioni dei due si registra in effetti sul limite oggettivo della tesi di Scheler, vale a dire la mancata elaborazione di una parte propositiva: come Eucken, ma con tono decisamente meno indulgente, anche Liebmann ritiene infatti che il lavoro di Scheler «offra più critica e postulati per il futuro che non risultati compiuti e positivi, cercando quindi di formulare un programma che dovrebbe dimostrarsi pienamente giustificato solo con un’effettiva realizzazione di ciò che qui viene semplicemente preteso» 29. Per il resto, se Eucken rimprovera a Scheler di perdersi in troppe Seitenuntersuchungen, Liebmann da parte sua depreca la tendenza universalizzante che affligge la tesi dell’abilitando (tendenza che, per inciso, costituisce una caratteristica peculiare delle opere

28 Wundt M. 1922, p. 472. 29 Citato in Dathe 1997, p. 6.

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di Eucken), scrivendo con un certo sarcasmo: «I più diversi ambiti del sapere e le più diverse sfere rappresentative – matematica, scienza della natura, storia, giurisprudenza, economia politica, religione e così via – formano il materiale su cui si sviluppa la sua trattazione e conferiscono al lavoro l’impronta di una variopinta poli-storia e pan-storia». Quanto al valore delle critiche che Scheler muove ai due principali indirizzi metodologici del tempo, Liebmann scrive che «la sua critica del ‘metodo psicologico’ è sotto molti aspetti persuasiva; la sua critica del ‘metodo trascendentale’ contiene certamente qualcosa che coglie nel segno, anche se egli solleva qui alcune obiezioni sulle quali c’è il dubbio che si possa mai riuscire a dire qualcosa di risolutivo».

La parte più severa del giudizio di Liebmann riguarda i rilievi critici di Scheler alla dottrina trascendentale dello spazio e del tempo: «[…] mesco-lando caoticamente gli elementi più eterogenei», in questa sezione l’autore «si perde qua e là in meri giochi di parole e omonimie, confondendo l’uso metaforico dei termini con ciò che viene inteso sensu proprio». Liebmann conclude quindi la sua valutazione con il seguente responso: «Nel comples-so sono del parere che la facoltà ammetta il dottor Scheler al colloquio e all’abilitazione, dovendogli tuttavia imporre espressamente come dovere il miglioramento e la revisione di singoli passi del suo lavoro» 30.

Il contrasto con Liebmann sulla interpretazione della filosofia tra-scendentale doveva ripresentarsi nuovamente all’esame orale, tenutosi il 30 giugno del 1900. Dopo un colloquio con il relatore Eucken, da questi giudicato «veramente soddisfacente» 31, la conduzione dell’esame passò al correlatore, secondo il quale lo scritto di abilitazione di Scheler offrirebbe una valutazione del metodo trascendentale «che a volte presenta degli errori e non arriva sempre a cogliere la profondità dei problemi»; in particolare, l’abilitando non sarebbe riuscito a dimostrare quella che secondo Liebmann è una sua convinzione, ossia che il perno della filosofia kantiana vada individuato nel «problema dell’unificabilità della libertà con la necessità causale di natura»; inoltre, prosegue il severo esaminatore, «non sembra» che a Scheler «sia ben chiara l’opposizione di principio tra determinismo e indeterminismo e il fondamentale significato che essa ha per la filosofia» 32. Fatte queste premesse certo non incoraggianti, Liebmann chiese quindi a Scheler di chiarire quale fosse «l’autentico perno e problema cardinale della concezione kantiana del mondo», dando per scontato che tale perno non fosse da cercare nella direzione indicata da Scheler nella Habilitationschrift

30 Citato ibidem. 31 Citato ibidem. 32 Citato ibidem.

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e volendo come dare una seconda occasione al candidato per rispondere correttamente. La sottolineatura della contrapposizione tra dimensione conoscitiva e dimensione etico-pratica era, come si è visto, la principale chiave di lettura usata da Eucken nella sua valutazione della filosofia kan-tiana, mentre il rifiuto dell’intera dottrina della libertà sviluppata nella Critica della ragion pratica contraddistingueva la posizione di Liebmann in proposito; alla luce di tali considerazioni è allora piuttosto significativo che Liebmann abbia insistito proprio su questo punto in sede d’esame. Ancora più significativa è la risposta data dal candidato alla domanda del correlatore: Scheler rispose infatti che il problema cardinale della filosofia kantiana riguardava la classificazione e la gerarchia delle diverse scienze, riuscendo in tal modo ad avere finalmente l’approvazione di Liebmann, che alla fine giudicò comunque soltanto «sufficiente» la prova.

Potrebbe sembrare qui che Scheler abbia piegato il capo e dato la risposta voluta dal suo esaminatore, una risposta che a sua volta potrebbe sembrare prima facie di tutt’altra natura rispetto a quel problema dell’uni-ficabilità di libertà e necessità causale che, secondo Liebmann, Scheler avrebbe indicato nel suo scritto come il cuore problematico del criticismo: in realtà a me pare che dal punto di vista sostenuto da Scheler nella sua Habilitationschrift si tratti soltanto di due diverse formulazioni dello stesso problema; per Liebmann, invece, doveva trattarsi di una differenza sostan-ziale, rifiutando egli la dottrina kantiana della libertà intellegibile e quindi la legittimità stessa di una formulazione come la prima. Inoltre l’autore di Die Klimax der Theorien, in cui le scienze vengono gerarchicamente or-dinate secondo il grado di empiria e di teoria che presentano, non poteva non concordare sul fatto che il nucleo problematico del criticismo fosse appunto «la classificazione e la gerarchia delle diverse scienze», sicché si spiega facilmente la sua soddisfazione per la risposta di Scheler. In ogni caso, l’esame orale venne superato e Scheler poté tenere la sua lezione di prova su Le idee riguardo il progresso in filosofia il 28 luglio, ottenendo il giorno stesso la venia legendi. Tuttavia il confronto con Liebmann non era finito, anzi doveva ancora conoscere il suo capitolo più aspro quando Scheler, in autunno, pubblicò lo scritto di abilitazione senza apportarvi le correzioni che la facoltà, su richiesta dello stesso Liebmann, aveva imposto all’abilitando «espressamente come dovere». Ne nacque allora un vero e proprio caso accademico, con scambi di lettere tra un Liebmann decisamente piccato, il decano della facoltà di filosofia in cerca di chiarimenti e uno Scheler piuttosto sfuggente nel fronteggiare le accuse di Liebmann e le richieste di spiegazione della facoltà: una vicenda che, comunque, alla fine non impedì a Scheler di iniziare la sua attività di Privatdozent nell’ateneo jenese.

La vicenda del non facile esame di abilitazione di Scheler e del con-fronto-scontro con Liebmann svoltosi sotto lo sguardo prima di Eucken,

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poi dell’intera facoltà, documenta allora non solo le tensioni tra opposte concezioni della filosofia kantiana (e della filosofia in generale) presenti all’epoca nella comunità universitaria jenese ma, per quanto riguarda più specificamente Scheler, dà il polso del conflitto che percorre la sua stessa opera giovanile: il conflitto tra la tendenza universalizzante rimproveratagli da Liebmann – una tendenza che Scheler aveva in comune con Eucken e che senz’altro riconosceva come sua caratteristica peculiare 33 – e la con-sapevolezza del fatto che questa tendenza andava arginata e disciplinata, per non correre il rischio di uscire dall’ambito della «filosofia scientifica» e di finire in quello della «letteratura filosofica un tempo definita edifi-cante» 34. In effetti, dopo i Beiträge e l’articolo su Arbeit und Ethik (sul quale torneremo in seguito) 35, entrambi pubblicati nel 1899 e di contenuti e toni spiccatamente euckeniani, nella produzione di Scheler si riscontra da un lato l’allontanamento dagli ambiti già abbondantemente esplorati dal maestro, dall’altro un nuovo incedere, più pacato e analitico, sotto l’aspetto metodologico: per quanto Liebmann abbia trovato eccessivamente generalizzante l’impostazione della Methodenschrift e fin troppo ricco il suo contenuto, mi pare infatti che da un punto di vista sinottico – del quale Liebmann non poteva ovviamente beneficiare – tale scritto segnali invece in Scheler la crescente volontà di rendere più ‘scientifica’ la sua concezione della prassi filosofica.

Questa impressione trova una conferma se si considera l’attività di libero docente svolta da Scheler fino al 1906 sia all’interno della facoltà di filosofia 36 sia nell’ambito dei corsi estivi «für Damen und Herren» or-ganizzati dall’ateneo jenese 37. Per gli studenti della facoltà Scheler tenne lezioni principalmente sugli argomenti che caratterizzavano la riflessione filosofica in ambito neokantiano, vale a dire la logica, la filosofia di Kant, i tratti fondamentali della teoria della conoscenza, le teorie dell’astrazione, il problema del metodo, la presentazione dei diversi orientamenti della filosofia contemporanea in ambito teorico-conoscitivo, il rapporto tra «scienze della

33 In una lettera a Eucken non datata (ma quasi certamente del 1906), sulla quale si avrà modo di soffermarsi estesamente in seguito nel corpo del testo, Scheler scrive: «[…] io ho inevitabilmente la tendenza mentale [Geistesrichtung] a concatenare tutto con tutto e niente mi risulta più difficile che isolare i problemi» (in Feyl 1960-1961, p. 284). 34 Sono parole che lo stesso Scheler nel 1922 poco elegantemente riserverà al suo maestro Eucken, senza peraltro fare cenno al fatto di essere stato suo allievo a Jena, in DPG, GW VII, p. 273. 35 Si veda infra, cap. IV, § 2. 36 Cfr. Dathe 1997, p. 9. 37 Cfr. Ferienkurse in Jena für Damen und Herren (1901-1910), consultabili alla ThULB con la segnatura Hist.lit.VI, 195; cfr. anche Dathe 1997, pp. 10-11, e Henckmann 1998 (a), pp. 27-28.

UN ESAME DIFFICILE

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natura» e «scienze dello spirito» sotto l’aspetto epistemologico, la posizio-ne da assegnare alla psicologia all’interno della teoria della conoscenza. Nell’ambito dei corsi estivi «per signore e signori» egli poteva invece dare libero sfogo a quella tendenza universalizzante che all’interno della facoltà teneva bene a bada (proponendo tra l’altro corsi non solo di filosofia, ma anche di letteratura); in questo senso si può considerare per esempio il corso di Introduzione alla filosofia – tenuto da Scheler nel 1901 e ripetuto l’anno seguente –, il cui programma indica come suoi contenuti l’essenza, la definizione e la suddivisione della filosofia, la storia e i tratti principali di logica, etica ed estetica, la teoria della conoscenza (con particolare at-tenzione a Kant), la psicologia, la metafisica e la filosofia della religione, nonché i compiti spettanti alla filosofia contemporanea: il tutto nell’arco di nemmeno due settimane in lezioni quotidiane di un’ora ciascuna! Oggi come ieri, è naturale per chiunque che la trattazione divulgativa debba essere meno specifica e tecnica di quella accademica: tuttavia lo scarto tra le lezioni di Scheler per gli studenti universitari e quelle per i principianti risulta così ampio da testimoniare efficacemente la sua attitudine poco accademica alla omnicomprensività (a quanto pare estranea, per esempio, all’herbartiano Otto Flügel, anch’egli docente di filosofia ai corsi estivi jenesi, il quale, poco accondiscendente alla cornice divulgativa del progetto, presentava in quegli stessi anni un ciclo di lezioni spiccatamente tecniche su La psicologia di Herbart e i suoi avversari).

2. UN NUOVO TRATTATO SUL METODO

Venendo a un esame ravvicinato dello scritto scheleriano di abilitazione pubblicato nel 1900 con il titolo Die transzendentale und die psychologische Methode. Eine grundsätzliche Erörterung zur philosophischen Methodik, è questa l’opera giovanile che, dopo il frammento sulla logica, attesta al meglio non solo la notevole dimestichezza di Scheler con gli strumenti e i motivi concettuali della filosofia di impronta neokantiana, ma soprattutto l’appartenenza, seppur critica, della sua stessa riflessione a questo indirizzo filosofico. Già solo con la designazione del problema del metodo niente meno che come «la questione fondamentale di tutta la filosofia» 38 – tant’è che «ogni volta che nella sua storia è stato conseguito un progresso essen-ziale, questo è stato un progresso del metodo» 39 – Scheler infatti si inserisce

38 Methode, GW I, p. 200. 39 Ivi, p. 199.

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chiaramente all’interno del paradigma trascendentale inaugurato da Kant, definito «il grande artefice della più potente trasformazione del pensiero nell’ambito della filosofia moderna», il quale non a caso «ha chiamato la sua opera principale un ‘trattato del metodo’» 40.

Ma è l’intera Prefazione alla prima edizione dell’opera ad avere un inconfondibile suono neokantiano, soprattutto allorché Scheler chiama in causa un celebre passo di Windelband 41, per definire meglio, sulla sua base, il compito che spetta alla filosofia contemporanea; dal momento che «la più recente Kantforschung», scrive Scheler, «ci sembra aver definiti-vamente distrutto i tentativi di estrapolare un metodo univoco dall’opera di questo spirito che domina sempre e ancora il pensiero filosofico», egli sostiene l’opportunità di riformulare la dichiarazione windelbandiana nel modo seguente:

Non «il fatto che comprendere Kant» significhi «andare oltre di lui» – per usare un’espressione di Windelband – ci sembra possa essere ancora la questione da porre; piuttosto ci sembra che il problema fondamentale del metodo sia semplicemente come si debba andare oltre di lui. 42

E che il riferimento a Windelband sia tutt’altro che episodico, lo si può facilmente comprendere se si richiama alla memoria il saggio dei Preludi intitolato Metodo critico o genetico. Non solo, a ben vedere, il titolo dello scritto di abilitazione di Scheler sembra per certi versi quasi una parafrasi di quello del saggio windelbandiano («trascendentale» per «critico» e «psicologico» per «genetico»), ma il senso della stessa Prefazione dell’ope-ra – in cui il giovane filosofo presenta in una visione d’insieme le linee guida dell’intera trattazione – potrebbe essere benissimo riassunto ricorrendo alle considerazioni con cui Windelband inizia la sua riflessione sul problema del metodo; scrive il caposcuola del neokantismo del Baden:

40 Ivi, p. 199 s. Si veda Kant 17872 (1781), KGS III, p. 15 (trad. it., p. 48; corsivi miei): «[…] in quel tentativo di mutare il procedimento finora seguito dalla metafisica, e precisamente operando in essa una radicale rivoluzione sul modello di quella dei geometri e dei fisici, sta il compito di questa critica della ragion pura speculativa. Essa è un trattato del metodo e non un sistema della scienza stessa». 41 Windelband 19249 (1884), vol. I, p. IV, laddove troviamo scritto: «[…] tutti noi che facciamo filosofia nel XIX secolo siamo discepoli di Kant. Ma il nostro odierno ‘ritorno’ a lui non può essere il semplice rinnovo della forma storicamente condizionata nella quale egli espose le idee della filosofia critica. Quanto più profondamente si coglie l’antagonismo che sussiste tra i diversi motivi del pensiero di Kant, tanto più vi si trovano i mezzi per elaborare i problemi che egli ha creato con le sue soluzioni. Comprendere Kant significa andare oltre Kant». 42 Methode, GW I, p. 200.

UN NUOVO TRATTATO SUL METODO

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Da quando Kant nella Critica della ragion pura, che, come è noto, non voleva essere tanto un sistema filosofico, quanto un «Trattato del me-todo», cercò di opporre allo psicologismo dei suoi contemporanei una concezione nuova della conoscenza e del compito della filosofia, il pro-blema del metodo rimase sempre all’ordine del giorno. Risolverlo significa infatti decidere la propria posizione nella filosofia o rispetto a essa. Ha impedito una soluzione felice il fatto che la dottrina di Kant […] non si sia presentata abbastanza definita e netta perché il concetto del metodo critico, che essa intendeva creare, fosse al sicuro da ogni malinteso […]. L’esame di Kant sulla ‘origine’ delle rappresentazioni andava parzial-mente di pari passo con le indagini già note e la sua abitudine al modo allora in uso di trattare i problemi non gli aveva permesso di esporre con chiarezza la fondamentale differenza che pure egli stesso aveva statuito fra ‘origine’ e ‘giustificazione’. […] Di Kant stesso, perciò, fu la colpa, se il suo nuovo concetto della apriorità si ridusse presto all’antica idea della priorità psicologica […]. 43

In queste osservazioni di Windelband troviamo ben prospettate alcune delle principali linee direttrici lungo le quali si sviluppa lo scritto scheleriano: la centralità del metodo in filosofia come principale lascito della svolta kantiana; il riscontro della presenza, nella riflessione di Kant, di elementi contrastanti, che spesso portano a confondere la distinzione di principio tra genesi fattuale delle rappresentazioni e loro giustificazione di diritto; il dipartirsi, da questa tensione interna alla filosofia kantiana, di un orienta-mento interpretativo dell’apriorismo in chiave genetico-psicologica.

Il fatto che la continuità problematica con il saggio di Windelband sia evidente non significa, d’altra parte, che Scheler ne sposi senz’altro l’impo-stazione, la linea argomentativa e le conclusioni: al contrario, mentre l’autore dei Preludi fin dal titolo del suo scritto pone l’aut aut tra metodo psicolo-gico e metodo critico-trascendentale, scegliendo naturalmente il secondo, Scheler, da parte sua, sottopone a critica entrambi i metodi, mettendone in luce le unilateralità contrapposte, per tentare di mediarle all’interno di un terzo metodo, che, sulla scorta di Eucken, egli definisce noologico. E se il nocciolo argomentativo del saggio di Windelband sta tutto nella convinzione che quaestio facti e quaestio juris vadano tenute ben distinte, che tra domanda genetica sulle origini delle rappresentazioni e domanda trascendentale sulla giustificazione della loro validità ci sia una linea netta di demarcazione, il nerbo su cui si regge la trattazione scheleriana è invece la sottolineatura della difficoltà, o meglio, dell’impossibilità sistematica del mantenere ferma tale distinzione: il metodo noologico, che egli propone

43 Windelband 1883, p. 99 ss. (trad. it., p. 129 ss.).

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in alternativa sia al metodo trascendentale sia a quello psicologico, dovrà quindi farsi carico del radicamento della quaestio juris nella quaestio facti senza cedere al naturalismo psicologistico, all’insegna, ancora una volta, di quel progetto di psicologia trascendentale che si è visto essere sotteso già ai Beiträge.

Sulla effettiva tenuta della soluzione noologica al problema del metodo, Scheler in ogni caso non si sbilancia troppo, tant’è che individua lo spazio di significatività e interesse filosofico del suo scritto non tanto nella proposta di «teorie in qualche modo complete», quanto piuttosto nella evidenziazione di «problemi autentici» 44, che spesso restano soltanto impliciti nel dibattito sul metodo. E in effetti Scheler dedica la maggior parte dei suoi sforzi alla critica del metodo trascendentale e di quello psicologico, lasciando che la configurazione della proposta noologica emerga più per contrasto con quelle sottoposte a critica, che non all’interno di una elaborazione veramente propositiva e sistematica.

2.1. La filosofia e i saperi

L’Introduzione dello scritto di abilitazione intende collocare la questione del metodo filosofico all’interno del dibattito – eminentemente neokantia-no – relativo al rapporto che la filosofia intrattiene con i saperi particolari. Ancora una volta è utile il riferimento a Windelband, il quale, nel saggio La filosofia contemporanea e il suo compito (posteriore di sette anni alla tesi scheleriana di abilitazione), scrive a questo proposito che la filosofia

non può che percorrere intimamente la ricerca della altre scienze e da esse derivare. Non può che mirare a questo: scoprire nelle conoscenze scientifiche i principi in virtù dei quali ci è possibile giudicare la misura e il grado del loro valore. […] La filosofia deve avere come sua premes-sa le altre scienze, ma non per saccheggiarle o per cogliere a capriccio questo o quello dei loro risultati, bensì per renderle oggetto del proprio procedimento, quello critico. […] Il suo vero compito è trovare le basi ultime di questo sapere conquistato nell’immediata attività della ricerca, è comprendere la struttura intima del lavoro intellettuale di tutte le di-scipline speciali e raggiungere le premesse obiettive che contengono in sé la loro giustificazione. […] La filosofia non può procedere altrimenti che analizzando nei suoi principi, secondo il metodo critico, il frutto del lavoro scientifico del XIX secolo e chiarendo l’intima struttura delle sue premesse. 45

44 Methode, GW I, p. 201. 45 Windelband 1907, p. 9 ss. (trad. it., p. 23 s.).

UN NUOVO TRATTATO SUL METODO

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L’immagine qui tratteggiata della filosofia come «scienza delle scienze», come «la prima e fondamentale» 46 tra le scienze o ancora metariflessio-ne che rinuncia a occuparsi direttamente degli oggetti per garantire le condizioni che rendono possibile il sapere che ne abbiamo, è esattamen-te quella che evoca Scheler nelle pagine introduttive del suo lavoro di abilitazione, sebbene le sue considerazioni in proposito siano percorse da una vena di preoccupazione che non sembra invece scuotere le fiere parole di Windelband sulla filosofia come «comprensione consapevole del contenuto culturale dell’umanità» 47. La preoccupazione di Scheler è data dall’eventualità che i grandi risultati conseguiti nell’esercizio effettivo della pratica scientifica nelle sue varie declinazioni possano far apparire come del tutto superflua «una dottrina metodologica intesa come disciplina filosofica» 48 – una preoccupazione che rimanda alle riflessioni di un altro protagonista del movimento di ‘ritorno a Kant’, vale a dire Eduard Zeller, la cui prolusione del 1862 all’università di Heidelberg è stata anch’essa indicata come inizio convenzionale di tale composito movimento. Nel suo discorso inaugurale Zeller fotografa felicemente la situazione della filosofia tedesca a lui contemporanea, scrivendo che

al posto dei sistemi grandiosi e unitari che hanno governato in rapida successione la filosofia tedesca per mezzo secolo, nel momento attuale ci si offre lo spettacolo di una innegabile confusione […] il rapporto tra la filosofia e le scienze particolari […] è deviato in modo tale che la filosofia è disposta ad imparare da esse più di quanto non succedesse qualche decina di anni fa; d’altro canto, però, nelle scienze si è radicato

46 Ivi, p. 10 (trad. it., p. 23). 47 Ivi, p. 11 (trad. it., p. 24). 48 Methode, GW I, p. 204. Questa preoccupazione di Scheler potrebbe far venire alla mente quanto Heidegger dirà a Davos nel 1929, nel corso del celebre dibattito con Cassirer, laddove egli ricostruirà la genesi del neokantismo a partire dall’«imbarazzo in cui la filosofia viene a trovarsi rispetto al problema di che cosa propriamente le rimanga nel complesso delle conoscenza. Intorno al 1850 la situazione è tale che tanto le scienze dello spirito quanto quelle della natura hanno preso possesso della totalità del conoscibile, per cui sorge la questione: che cosa rimane ancora alla filosofia, se la totalità dell’ente è stata spartita tra le scienze? Le rimane soltanto più la conoscenza della scienza, non la conoscenza dell’ente […]» (in Appendice II. Dibattito di Davos tra Ernst Cassirer e Martin Heidegger, in Heidegger 1981, p. 219). Per lumeggiare il contesto in cui si inseriscono le considerazioni scheleriane non credo però sia il caso di scomodare Heidegger e le sue valutazioni sulla filosofia tedesca della seconda metà del XIX secolo, e questo non solo per non cedere alla tentazione dello sguardo retrospettivo che valuta il ‘prima’ alla luce del ‘dopo’, ma soprattutto perché tali valutazioni hanno la loro indispensabile premessa nella assunzione di una ‘differenza ontologica’ tra essere ed ente, che non mi pare poter trovare rispondenza alcuna in un orizzonte teorico come quello della filosofia giovanile scheleriana.

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sempre più il pregiudizio che la filosofia non serva ai loro scopi o che addirittura esse ne vengano disturbate nel loro lavoro. 49

Più di trent’anni dopo, il rapporto tra filosofia e scienze particolari appare a Scheler ancora negli stessi termini in cui Zeller lo dipinge nella sua prolusio-ne, con l’aggravante per cui l’intercorsa proliferazione dei saperi specialistici e il conseguimento di sempre nuovi risultati hanno fatto sì che le riflessioni filosofiche sul metodo potessero essere liquidate come «generalità talmente vaghe da non poter avere alcuna influenza sul regime intellettuale» 50. È quindi anzitutto alle scienze e agli scienziati che il giovane filosofo si rivol-ge in questa Introduzione, preoccupato non tanto di legittimare nei loro confronti la riflessione filosofica sul metodo, quanto piuttosto di mostrare la necessità di tale riflessione per le scienze stesse, le quali possono solo trarre beneficio dall’individuazione degli «sfondi della ricerca positiva», che proprio «la gran quantità dei risultati positivi minaccia di occultare» 51. La prima delle ragioni che impongono «alla filosofia il dovere di occuparsi dei metodi delle scienze particolari e che, rispettivamente, costringono il singolo ricercatore ad essere filosofo» 52 sta nella struttura stessa dell’im-presa scientifica, in particolare nella natura del rapporto intercorrente tra raccolta dei dati d’esperienza e indirizzo metodologico della ricerca; chi pensa che la scienza possa fare a meno dell’indagine filosofica sul metodo ha di tale rapporto una concezione profondamente errata – a ben guardare invertita – per cui «la scienza sarebbe lentamente giunta ai suoi alti livelli attuali tramite un progressivo accumulo di dati particolari e, all’interno di questo processo, i cambiamenti essenziali del metodo si sarebbero compiuti facilmente, come da sé […]» 53. In realtà questa concezione cumulativa del progresso scientifico, per cui è la raccolta di sempre nuovi dati a rendere possibile l’adozione di nuovi indirizzi metodologici, è facilmente confuta-bile con la semplice considerazione della storia della scienza, i cui grandi progressi hanno sempre costituito momenti di «rottura con il vecchio» 54, non certo di suo pacifico svolgimento. I cambiamenti del metodo non so-no stati resi possibili dall’accumulo di dati, prosegue Scheler, bensì dalla «forza creatrice di una fantasia logica, che si è risollevata in una brusca battaglia con la tradizione», sicché «in tutte le trasformazioni fondamentali […] all’interno della storia della scienza noi troviamo iniziative creatrici e

49 Zeller 1877, p. 489 s. 50 Comte 1949, vol. I, p. 71, citato da Scheler in Methode, GW I, p. 204. 51 Methode, GW I, p. 207. 52 Ibidem. 53 Ivi, p. 205. 54 Ibidem.

UN NUOVO TRATTATO SUL METODO

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anticipazioni, che per prime aprono alla ricerca nuovi ambiti della realtà» 55. È quindi il metodo a determinare la selezione e la configurazione dei dati d’esperienza e non viceversa, il che comporta una concezione del corso della scienza non certo come passivo accumulo di dati, quanto piuttosto come spontaneo processo di determinazione e costituzione dell’oggettività scientifica; all’interno di tale processo, la natura viene interrogata sulla base di ipotesi creativamente formulate dallo scienziato e in un certo senso co-stretta entro i confini di queste ipotesi, venendo così indotta a confermare o a confutare le congetture dello scienziato, il quale dunque non si lascia governare passivamente dalla natura, ma guida la natura, in modo tale che essa risponda alle sue domande 56. Se si vogliono individuare le condizioni che conferiscono universale validità alle leggi scientifiche, bisognerà allora astrarre dall’effettività di questo processo di incessante determinazione, per risalire ai principi «in virtù dei quali soltanto», scrive Kant nella pri-ma critica, «è possibile che i fenomeni concordanti possano valere come leggi» 57, principi che non risiedono nella natura, quanto piuttosto nella ragione dello scienziato che la interroga. E l’individuazione di tali principi secondo Scheler può spettare soltanto alla riflessione filosofica sul metodo, la cui capacità di astrazione e generalizzazione la rende in grado di «portare sempre di nuovo alla chiara luce del giorno questi giudizi a priori» – si noti il termine utilizzato da Scheler –, «questi sfondi della ricerca positiva» 58. L’interrogazione filosofica sul problema del metodo è del resto l’unica strada percorribile per evitare l’«anarchia metodologica» che deriverebbe dall’«assolutismo dei metodi delle scienze particolari», vale a dire la tendenza che porta ognuno dei diversi metodi delle singole scienze a volere imporsi sugli altri nella propria determinatezza e particolarità; d’altra parte, occu-pandosi della questione del metodo in stretta connessione con le scienze, la filosofia non fa altro che compiere «un dovere verso se stessa» 59, poi-ché, evitando il confronto con i saperi determinati, si condannerebbe alla sterilità. Sterilità in cui del resto essa rischierebbe di incorrere anche nel momento in cui limitasse «il suo lavoro di teoria della conoscenza solo a una parte della scienza, per esempio soltanto alla matematica, alla meccanica e alla fisica matematica», escludendo dal suo orizzonte di interesse «storia,

55 Ivi, p. 206. 56 Riecheggiano qui le parole di Kant: «[…] la ragione scorge soltanto ciò che essa stessa produce secondo il proprio disegno», essa deve «procedere innanzi coi principi dei suoi giudizi secondo leggi stabili, costringendo la natura a rispondere alle proprie domande, senza lasciarsi guidare da essa, per così dire, con le dande», Kant 17872 (1781), KGS III, p. 10 (trad. it., p. 42). 57 Ibidem. 58 Methode, GW I, p. 207. 59 Ivi, p. 209.

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teologia, economia politica e quegli ambiti della scienza naturale, in cui non possono essere conseguite proposizioni necessarie e universalmente valide» 60. E in questa volontà di Scheler di legare la riflessione filosofica alla molteplicità qualitativa dell’esperienza – attestata da saperi così diversi come Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften – non può non essere vista l’espressione dell’esigenza, che, come è stato scritto, «guida l’itine-rario teorico del neocriticismo», vale a dire «l’esigenza di un’unità che si costruisca rispettando le intrinseche differenze, prima fra tutte quella tra natura e storia, muovendo dal fatto della loro realtà» 61.

2.2. Le principali linee metodologiche della filosofia contemporanea

Questa esigenza viene del resto chiaramente esplicitata nella sezione seguen-te, intitolata Visione d’insieme dei metodi filosofici nella filosofia moderna, nel corso della quale Scheler enuclea le caratteristiche formali e contenutistiche che la riflessione filosofica contemporanea accorda al metodo. Quanto alle prime, Scheler le ravvisa nell’autonomia che il metodo deve conservare rispetto a presupposti contenutistici inindagati, nella sua esclusività e nella forza creatrice che esso deve possedere. Ma è possibile individuare anche tre nuclei contenutistici attorno ai quali si muovono i principali orientamenti metodologici in filosofia: i primi due sono riconducibili alla questione relativa a quella che Scheler chiama «la codeterminazione del metodo filosofico da parte della matematica e della storia» 62. Ciò che Scheler vuole dire è che si può tracciare una distinzione tra indirizzi di pensiero per i quali la filosofia deve procedere more geometrico – e la filosofia moderna prekantiana, tanto sul versante razionalistico, quanto su quello empiristico, è secondo Scheler tutta orientata in questo senso – e altri indirizzi per i quali è invece la storia a costituire il modello di riferimento per l’indagine filosofica. È a questo punto che Scheler, riflettendo sulla profonda differenza tra metodo storico e metodo matematico, esplicita a chiare lettere l’esigenza cui si faceva ri-ferimento poco sopra, in un passo che, per la sua efficacia di penetrazione problematica, vale la pena riportare in tutta la sua estensione:

Storia e matematica sono scienze diametralmente opposte [Polarwissen-schaften]. L’ideale sarebbe senza dubbio una teoria della conoscenza che fosse in grado di accordarle. Ma quali contrasti sarebbero qui da ricondurre a un’unità! Qui come punto di partenza una piccola serie,

60 Ibidem. 61 Gigliotti 1983 (a), p. 14. 62 Methode, GW I, p. 212.

UN NUOVO TRATTATO SUL METODO

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determinata per numero e contenuto, di proposizioni, definizioni e as-siomi, là innumerevoli punti di partenza, lasciati da principio alla libera scelta; qui verità ed errore distinguibili con la massima precisione, là un campo sterminato di ipotesi, dai più diversi gradi di probabilità; qui l’argomentazione circolare è un grossolano errore di ragionamento, là è inevitabile; qui l’oggetto è rigorosamente delineato, ma completamente vuoto, e soltanto una singola funzione psichica è impegnata nella sua configurazione, là una vita dai contorni fluttuanti, ma più che ricca di contenuti, che impegna in una volta tutte le forze essenziali della natura umana e chiama ogni vissuto personale del ricercatore a collaborare; qui il carattere di un’attività spirituale che costruisce in modo spontaneo, là la necessità di lasciarsi influenzare lentamente e completamente dalle cose […]. 63

In questa raffigurazione a tinte forti – notoriamente le più apprezzate da Scheler – del contrasto tra matematica e storia sono evidentemente presenti i principali motivi-guida del dibattito sullo statuto epistemologico delle cosid-dette «scienze dello spirito», dibattito che, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, vide Dilthey, Windelband e Rickert tra i suoi più incisivi protagonisti. Nel passo di Scheler si ritrova infatti per un verso l’accentuazione diltheyana della opposizione tra mondo naturale degli oggetti, spiegabile matemati-camente, e mondo umano dei vissuti e degli eventi, comprensibile per via ermeneutica; per altro verso, si registra anche l’espressione dell’esigenza tipica del neokantismo, soprattutto sudoccidentale, di riportare ambiti così diversi a un unico terreno fondazionale, spiegando la distinzione non in base all’oggetto, ma al diverso modo in cui il metodo storico e quello matematico lo costituiscono. Inoltre, con l’accenno alle funzioni psichiche impegnate nella configurazione dell’oggetto scientifico e di quello storico, si prospetta ancora una volta l’inevitabilità di considerazioni psicologico-trascendentali. Mentre il tema della psicologia trascendentale verrà ripreso più avanti, al centro di queste pagine resta per ora la questione riguardante l’incidenza di storia e matematica sul metodo filosofico, questione che Scheler passa a esaminare in relazione alla «potente svolta metodologica operata dalla geniale azione spirituale di Kant» 64. Che ruolo svolgono all’interno della filosofia kantiana matematica e storia? In che misura le loro diversissime istanze e procedure metodologiche influiscono sul metodo critico? Queste sono le domande che guidano le riflessioni del giovane Scheler.

Egli si sofferma anzitutto sul rapporto che la filosofia kantiana intrattie-ne con la scienza matematica, affermando che «il più inconfutabile merito di Kant sotto l’aspetto metodologico» va ravvisato nella «sua rottura con

63 Ivi, p. 213 s. 64 Ivi, p. 214.

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il metodo matematico in filosofia, nella sua comprensione della differenza essenziale tra il modo di pensare filosofico e quello matematico» 65: nella filosofia, infatti, «non ci sono né definizioni né assiomi e nemmeno dimo-strazioni», dal momento che «i principi fondamentali del pensiero filosofico hanno bisogno di una deduzione e non sono quindi assiomi» 66. Sebbene non la citi esplicitamente, Scheler fa qui riferimento – in certi punti in modo quasi letterale – alla prima critica, precisamente alla sezione della Dottrina trascendentale del metodo intitolata La disciplina della ragion pura nell’uso dommatico, dove Kant mostra come nella filosofia trascendentale

il metodo matematico non sia in grado di arrecare il ben che minimo vantaggio […]; geometria e filosofia sono due cose interamente diverse, anche se si danno scambievolmente la mano nella scienza della natura, […] pertanto il procedimento dell’una non può essere imitato dall’altra. La fondatezza della matematica poggia su definizioni, assiomi, dimostra-zioni. […] Nessuno di questi elementi, nel senso in cui vengono intesi dai matematici, può essere fornito o imitato dalla filosofia. 67

Tuttavia, per inquadrare con precisione il rapporto che la filosofia kantiana intrattiene con la scienza matematica, secondo Scheler non ci si può arre-stare qui; infatti, per quanto Kant abbia distinto rigorosamente il metodo matematico da quello filosofico, è pur sempre innegabile che per l’indagine critico-trascendentale la scienza matematica resta «il dato principale per la determinazione e la delimitazione della facoltà conoscitiva. Il problema fondamentale del lavoro concettuale di Kant resta come […] sia possibile la scienza matematica della natura. Sebbene non faccia filosofia in modo matematico, egli tuttavia fa filosofia essenzialmente sulla matematica» 68. Sulla filosofia critica resta quindi pur sempre rilevante la misura dell’in-cidenza della scienza matematica, come attesta il passo dei Primi principi metafisici della scienza della natura citato da Scheler, in cui Kant scrive: «[…] poiché in ogni dottrina della natura viene riscontrato solo tanto di scienza propriamente detta quanto vi si trova di conoscenza a priori, ne segue che la dottrina della natura conterrà tanta scienza propriamente detta quanta è la matematica che in essa può essere applicata» 69. Ma riguardo a

65 Ivi, p. 215. 66 Ibidem. 67 Kant 17872 (1781), KGS III, p. 476 (trad. it., p. 559). Poche pagine più in là si trova un altro passo qui richiamato implicitamente da Scheler, laddove Kant scrive che «la filosofia non ha assiomi, e non è in grado di imporre in modo così assoluto i suoi principi a priori, ma è costretta a render conto del proprio diritto attraverso una rigorosa deduzione», ivi, p. 481 (trad. it., p. 563). 68 Methode, GW I, p. 215. 69 Kant 1786, KGS IV, p. 470 (trad. it., p. 12).

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questa centralità assegnata alla matematica – vero e proprio contrassegno della «scienza propriamente detta» – Scheler esprime forti perplessità, che investono anzitutto l’ambito di quelle scienze naturali, i cui procedimenti sono principalmente descrittivi e classificatori, e che quindi non mettono capo a un’oggettività esattamente matematizzabile. Più in generale, il dub-bio di Scheler è che le parole di Kant sulla «scienza propriamente detta» finiscano da un lato con l’escludere la possibilità di legittimare in senso trascendentale una scienza che non sia soltanto matematica, ma che sia scienza matematica dell’esperienza, dall’altro col definire la facoltà cono-scitiva in base alle sue sole «prestazioni matematiche» 70.

Quanto invece all’incidenza della storia e del suo procedimento me-todologico sulla filosofia di Kant, Scheler scrive che, a questo proposito, va registrata una sorta di paradosso: tale incidenza non si riscontra affatto dove ci si potrebbe presumibilmente aspettare di riscontrarla con maggior facilità, vale a dire negli scritti kantiani di filosofia della storia. Per com-prendere le ragioni che spiegano questa incongruenza, bisogna per prima cosa tenere presente che, conformemente all’impostazione kantiana, «il filo conduttore alla luce del quale noi dobbiamo lavorare sulla storia è il principio fondamentale della filosofia del diritto di Kant»; in secondo luogo che tale principio, prosegue Scheler, «si basa in ultima istanza sulla legge morale» 71. Le opere kantiane che stanno alla base di queste considerazioni scheleriane sono il saggio del 1784 Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico e la Metafisica dei costumi del 1797. Il primo testo è infatti l’«esposizione in nove tesi di una filosofia della storia fondata sul principio di un avvento progressivo e universale del diritto» 72; quanto al fondamento del diritto, nella Metafisica dei costumi Kant scrive che il principio su cui si fonda la legislazione giuridica, o, con le sue parole, «la legge universale del diritto», può essere formulata nel modo seguente: «agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con la libertà di ognuno secondo una legge universale» 73. Sebbene la legislazione giuridica sia soltanto esterna, a differenza di quella etica, la quale richiede non solo la conformità esterna dell’azione all’idea del dovere (legalità), ma anche che l’idea del dovere sia il motivo determinante della volontà del soggetto che compie l’azione (moralità), resta pur sempre il fatto che «tutti i doveri, unicamente perché sono doveri, appartengono all’etica» e che quindi la legislazione etica stessa «possa farci un dovere di prendere per motivi de-terminanti certi doveri che si riferiscono a un’altra legislazione, vale a dire

70 Methode, GW I, p. 215. 71 Ivi, p. 217. 72 Guerra 200013, p. 88. 73 Kant 1797, KGS VI, p. 231 (trad. it., p. 35).

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a una legislazione esterna» 74, come appunto quella giuridica. Solo tenendo presente tutto ciò, si possono comprendere quali siano le ragioni dell’incon-gruenza rilevata da Scheler nel fatto che gli scritti kantiani di filosofia della storia non rivelino alcun debito nei confronti della metodologia storica: infatti, posto che il filo conduttore della filosofia kantiana della storia è il diritto e il diritto rimanda alla legge morale, come correttamente scrive Scheler nell’opera sul metodo, la legge morale, a sua volta

non è condizione di una esperienza reale (come sono per esempio le categorie e i principi), bensì condizione di una esperienza possibile, la quale da parte sua è essa stessa un problema. La legge morale è stata ‘esposta’, non ‘dedotta’. Se deve essere costretta all’interno della «via trascendentale» (per usare parole di Cohen), allora si può dire soltanto: la legge morale è condizione del problema di un regno dei fini. 75

Numerosi sono i riferimenti all’opera kantiana che potrebbero essere por-tati a sostegno di queste considerazioni di Scheler; mi limiterò quindi ai più significativi: nella Critica della ragion pura Kant scrive che la ragione nel suo uso morale contiene «principi della possibilità dell’esperienza, cioè di azioni che, in conformità a precetti morali, potrebbero aver luogo nella storia degli uomini» 76; nella Fondazione della metafisica dei costumi egli sostiene che nella filosofia pratica non si pongono «principi di ciò che accade, bensì leggi di ciò che deve accadere anche se non accadrà mai» 77. Ma il riferimento principale di Scheler è certamente il notissimo passo della Critica della ragione pratica, nel quale, riguardo alla legge morale, Kant afferma recisamente:

Nella deduzione, cioè nella giustificazione della sua validità universale necessaria, e nell’esame della possibilità di una siffatta proposizione sintetica a priori, non si può sperare di procedere bene come quando si trattava dei Principi dell’intelletto puro teoretico. […] Non posso adottare questo procedimento per la deduzione della legge morale. […] La legge morale è data in certo modo come un fatto della ragione pura, di cui abbiamo consapevolezza a priori e di cui siamo apoditticamente certi, anche nell’ipotesi che l’esperienza non possa fornirci alcun esempio della osservanza rigorosa di questa legge. Di conseguenza nessuna deduzione può dimostrare la realtà oggettiva della legge morale […]; pertanto […] tale realtà non potrebbe trovar conferma nell’esperienza. 78

74 Ivi, p. 219 (trad. it. leggermente modificata, p. 21). 75 Methode, GW I, p. 217. Il riferimento di Scheler è a Cohen 19102 (1877), p. 181 (trad. it., p. 167). 76 Kant 17872 (1781), KGS III, p. 524 (trad. it., p. 608). 77 Kant 1785, KGS IV, p. 427 (trad. it., p. 57 s.). 78 Kant 1788, KGS V, p. 46 s. (trad. it., p. 185 s.).

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Kant, dunque, in riferimento alla filosofia pratica, parla di azioni che nella storia degli uomini potrebbero, forse, incontrarsi; di leggi di ciò che deve ac-cedere, anche se non accadrà mai; della inesistenza di una qualsiasi esperienza che possa essere portata a conferma della realtà obiettiva della legge morale e della conseguente impossibilità di una deduzione di tale legge. E non è un caso che, a proposito di questi temi, Scheler faccia qui il nome di Cohen, la cui più grande preoccupazione nella Fondazione kantiana dell’etica è appunto che si veda nell’a priori pratico kantiano nulla più che l’espressione di una «possibilità avulsa dai fatti» 79: «l’uso morale della ragione» indicherebbe allora «soltanto i principi della possibilità dell’esperienza (analiticamente) possibile, e non di una esperienza (sinteticamente) reale» 80.

E Scheler dà esattamente corpo ai timori di Cohen, nel momento in cui sostiene che la filosofia kantiana della storia è del tutto priva di senso storico proprio perché il suo ‘filo conduttore’ ultimo è quella legge morale della quale non è possibile trovar conferma alcuna nell’esperienza reale. Scrive infatti:

Poiché […] il metodo kantiano della filosofia pratica rifiuta seccamente l’esperienza storica dell’uomo non soltanto come elemento che partecipa alla configurazione del principio morale, ma anche come dato per una deduzione trascendentale, anche la sua filosofia della storia è, propria-mente e correttamente parlando, quella parte della sua intera opera che è la più estranea al modo di pensare storico. 81

La maggior incidenza sulla filosofia critica del metodo storico e delle sue istanze si registra invece, secondo Scheler, nell’ambito della teoria kantiana della conoscenza, il cui rivoluzionario nucleo concettuale sta notoriamente nella svolta copernicana, in base alla quale Kant invita a fondare l’oggettività conoscitiva «muovendo dall’ipotesi che siano gli oggetti a dover regolarsi sulla nostra conoscenza» 82 e non viceversa. In base a questa ipotesi, la fondazione della conoscenza non va cercata direttamente nell’essere degli oggetti d’esperienza, bensì nella conoscenza stessa, poiché appunto non sono gli oggetti a condizionare la nostra conoscenza, ma è la nostra conoscenza con le sue strutture e funzioni a condizionare gli oggetti, o meglio, a deter-minarne la costituzione in quanto oggetti di ogni nostra esperienza possibile. Procedendo da questo mutato modo di pensare, secondo il quale «noi tanto conosciamo a priori delle cose quanto noi stessi poniamo in esse» 83,

79 Gigliotti 1989, p. 107. 80 Cohen 19102 (1877), p. 15 (trad. it., p. 23). 81 Methode, GW I, p. 217. 82 Kant 17872 (1781), KGS III, p. 12 (trad. it., p. 44). 83 Ivi, p. 13 (trad. it., p. 45).

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la Critica della ragion pura si propone quindi di individuare le strutture e le funzioni soggettive che rendono possibile a priori l’oggettività del conoscere, accantonando in tal modo «il nome risonante di ontologia» e sostituendovi «quello modesto di una semplice analitica dell’intelletto puro» 84.

Questo rivolgersi della ragione dalle cose alla sua propria struttura non significa certo che la ragione si debba limitare a occuparsi «cavillosamente di se stessa» e nemmeno che essa si possa conoscere in una qualche «evi-denza originaria», tramite una sorta di auto-intuizione che ne riveli una qualche «caratteristica osservabile, la quale ci permetta di distinguere la ragione dagli altri accadimenti psichici» 85. Un accesso diretto, intuitivo alla ragione e alle sue strutture oggettivanti è incompatibile con la filosofia critica e con la svolta copernicana che ne costituisce il cuore, poiché per questa via si finirebbe per fare della ragione un oggetto tra gli oggetti, da indagare al modo della altisonante ontologia dogmatica. Per non tradire lo spirito della ‘modesta’ analitica dell’intelletto puro, qual è allora il metodo che la critica della ragione deve adottare? Conformemente al significato della svolta trascendentale, la ragione, scrive Scheler, deve essere criticata a partire dai suoi risultati, «dalla realtà […] delle opere visibili dell’intera umanità: deve essere valutata [ermessen] in base alla grandiosa prestazione della scienza matematica della natura» 86. L’indagine critico-trascendentale deve quindi risalire dal fatto alle condizioni che lo hanno reso possibile o, meglio, che in linea di principio ne garantiscono a priori la possibilità, conformemente a quello che Kant chiama metodo analitico-regressivo e che egli, nelle sue lezioni di logica, così definisce in contrapposizione al metodo sintetico-progressivo: «[…] il metodo analitico è opposto a quel-lo sintetico. Il primo comincia col condizionato e col fondato e risale ai principi (a principiatis ad principia), il secondo, invece, va dai principi alle conseguenze o dal semplice al composto. Il primo potrebbe anche venir chiamato regressivo, il secondo progressivo» 87. Ma, più che la definizione generale dei due metodi, ciò che dovrà interessare in questa sede è la loro applicazione all’interno della filosofia critica: a questo proposito, non si può non fare riferimento al passo dei Prolegomeni in cui Kant spiega che, per rispondere alla domanda sulla possibilità della conoscenza sintetica a priori, nella prima critica egli si è servito del metodo sintetico, al quale invece nei Prolegomeni preferisce quello analitico, perché più semplice 88.

84 Ivi, p. 207 (trad. it., p. 71). 85 Methode, GW I, p. 217. 86 Ivi, p. 217 s. 87 Kant 1800, KGS IX, p. 149 (trad. it., p. 143). 88 Kant 1783, KGS IV, p. 274 (trad. it., p. 67). Si veda anche la nota ivi, p. 276 (trad. it., p. 287 nota 3), dove Kant precisa: «[…] il metodo analitico, in quanto si oppone al sin-

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78 IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI

Invece di prendere direttamente in esame le condizioni di possibilità co-me richiede il metodo sintetico, quello analitico prende le mosse dal fatto costituito nell’esperienza e da questo risale regressivamente alle condizioni che ne rendono possibile a priori la costituzione. Come si sa, i neokantiani – in particolare la Scuola di Marburgo –, proprio nella regressività del metodo analitico vedono la garanzia che le funzioni a priori cui si perviene nell’indagine siano al riparo dai più grossolani fraintendimenti e vengano assicurate nel loro valore trascendentale di condizioni della possibilità del-l’esperienza 89: il metodo analitico-regressivo, infatti, parte dal composto, dal continuum della conoscenza e da qui risale al semplice, dal condizionato alla condizione, in modo tale che il momento intuitivo e quello concettuale della conoscenza possano certamente essere isolati a beneficio dell’indagine trascendentale, ma mai pensati come nettamente separati l’uno dall’altro, o fondati su elementi sostanziali come sensibilità e intelletto, o ancora concepiti come forme vuote che devono essere riempite dal materiale della sensazione; partendo dal fatto reale della scienza matematica della natura è più semplice evitare pericolose complicazioni sostanzialistico-dogmatiche di quella che Scaravelli ha definito la «malattia costituzionale» della filosofia kantiana 90; è più semplice, in altre parole, non perdere di vista il fatto che le forme a priori hanno un significato esclusivamente funzionale al fatto della scienza da cui prende inizio l’indagine.

Se l’unico metodo ammissibile in ambito trascendentale è per i neo-kantiani quello analitico-regressivo, questo è dovuto d’altra parte anche a un’altra ragione: il vincolo costitutivo che il metodo analitico-regressivo intrattiene con il fatto della scienza non solo mette al riparo l’indagine trascendentale dai più diffusi equivoci interpretativi, ma, soprattutto, dà

tetico, è tutt’altra cosa che un complesso di giudizi analitici: esso vuol dire soltanto che si parte da ciò che è oggetto della questione, come dato, per risalire alle condizioni che lo rendono possibile. In questi casi si può anche far uso di puri giudizi sintetici, come ce ne dà esempio l’analisi matematica: onde potrebbe meglio venir chiamato metodo regressivo a differenza del metodo sintetico o progressivo». 89 Si veda Cohen 1871, p. 233 (trad. it., p. 237), laddove l’autore scrive: «[…] l’apriorità è solo una cosa a metà, indimostrata, senza la relazione trascendentale con l’esperienza possibile». 90 Malattia per cui «gli elementi che confluiscono in uno a formare nel ‘luogo’ del-l’unione la effettualità dell’esperienza (e solo in quel luogo si ha l’effettiva, concreta e reale esperienza)», nell’ambito dell’analisi regressiva – man mano che dal «‘luogo’ dell’unione» ci si allontana a ritroso – vengono isolati e presentati separatamente, «come se avessero una loro realtà effettuale fuori dalla sintesi». Sicché, prosegue Scaravelli, ci si ritrova nella «strana situazione di presentare con una mano gli elementi ben isolati e ben delineati nei loro aspetti e nei loro caratteri peculiari» (per esempio da una lato la sensibilità ricettiva, dall’altro l’intelletto spontaneo), «e con l’altra di metterli insieme rapidamente insieme fra loro, in intima fusione, onde mostrare l’impossibilità che hanno a funzionare separatamente» (in Scaravelli 1990, p. 63, in part. nota 16).

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espressione a una delle istanze più radicate nella riflessione dei neocritici-sti, in base alla quale il piano trascendentale delle condizioni di possibilità «dev’essere riconosciuto e affermato soltanto dopo la sua realizzazione storica», sicché «tanto le fondazioni logiche pure quanto i valori pos-sono essere individuati dalla riflessione filosofica soltanto sulla base di determinate dottrine scientifiche e di determinati beni culturali» 91. Ed è particolarmente significativo ai fini della presente indagine che Scheler veda la maggior incidenza del metodo storico sulla filosofia criticistica, nonché uno dei più grandi meriti di Kant, proprio nell’individuazione del fatto storico della scienza matematica della natura come Ausgangsdatum e nel conseguente andamento regressivo dell’indagine che da qui si diparte; scrive infatti Scheler:

[…] quel momento […] che tradisce un riferimento del suo metodo a un modo storico di pensare noi lo ravvisiamo nel fatto che […] termine di paragone della ragione diventa un sistema dato di azioni storiche di pensiero; nel fatto che, in tal modo, appare per la prima volta la possibilità di commisurare la ragione a una realtà e non, viceversa, di commisurare ogni realtà a una ragione dogmatica. […] È e rimane grandissimo merito di Kant l’aver esposto di nuovo allo spirito umano, tramite la svolta me-todologica presentata, […] la sua peculiare essenza, senza presupporla dogmaticamente, ma definendola soltanto a partire dalle sue proprie opere, venute alla luce successivamente nel corso della storia. 92

Scheler, dunque, condivide in toto la limitazione tipicamente neokantiana del metodo trascendentale in senso esclusivamente analitico-regressivo, operazione ermeneutica che si compendia nello ‘slogan’ che recita: dal fatto alle condizioni di possibilità. Ma se egli per un verso approva l’instaurazione del legame vincolante che unisce riflessione trascendentale e fatti culturali dell’esperienza, d’altro canto nutre al contempo forti perplessità riguardo al modo in cui tale legame viene inteso nella filosofia kantiana e neokantiana: in altre parole, pur essendo anch’egli convinto che la dottrina trascendentale della conoscenza vada indissolubilmente legata al fatto storico della scienza, non per questo condivide l’accezione neokantiana di «scienza», né tanto meno la pretesa neocriticistica che i risultati della riflessione trascendentale analitico-regressiva abbiano universale validità. Ma la posizione critica di Scheler emergerà con chiarezza nel prosieguo della trattazione; in questa parte dell’opera egli si limita invece a presentare le sue riserve sotto forma di domande, il cui inequivocabile tono retorico palesa del resto un’insod-disfazione di fondo riguardo al metodo trascendentale neokantianamente

91 Gigliotti 1983 (a), p. 13. 92 Methode, GW I, p. 218 s.

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reinterpretato. E le quattro domande che Scheler pone – e che egli stes-so definisce «pesanti» nella misura in cui «vanno a toccare la questione del metodo filosofico fino al nocciolo» – meritano di essere riportate per intero, poiché investono il delicatissimo punto riguardante la nozione di «esperienza» posta alla base delle opzioni metodologiche della filosofia trascendentale:

Primo punto: a costituire il fondamento del procedimento metodologico è l’esperienza comune, è l’esperienza scientifica data in una certa epoca o è forse l’ideale di un’esperienza scientificamente compiuta? Secondo punto: in quel fondamento riescono a dire la loro tutte le scienze o solo una parte ritagliata dall’intero della scienza? Terzo punto: nel concetto fondamentale di esperienza non vanno fatte rientrare anche le parti extra-scientifiche […] dell’esperienza umana? Quarto punto: c’è in generale un concetto di esperienza universalmente valido per la storia umana, cosicché ci si possa interrogare sulla possibilità della esperienza? 93

Secondo Scheler, Kant e il neokantismo (soprattutto quello marburghese) hanno ragione nel vincolare metodologicamente la riflessione filosofica ai fatti storici dell’esperienza, ma – nel momento in cui si tratta di stabilire quali fatti possano essere legittimamente presi come punto di partenza, quale concetto generale di ‘esperienza’ sia sotteso all’indagine e, soprattutto, quale estensione di validità vada attribuita ai risultati dell’indagine analitico-regressiva – la tradizione criticistica specifica il metodo in modo tale da assolutizzare del tutto anti-storicamente «uno stato storico dell’esperienza nella esperienza» 94 tout court. Anche laddove la filosofia trascendentale riesce a soddisfare al meglio le istanze della metodologia storica prevale quindi un orientamento di fondo che è in ultimo anti-storico.

Resta infine un terzo nucleo di contenuto attorno al quale si muovono le principali correnti metodologiche della filosofia contemporanea, riguardante il tema della genesi delle rappresentazioni, o, meglio, la questione relativa al diritto o meno «di individuare il compito principale della filosofia nella comprensione della genesi delle rappresentazioni e dei principi» 95. Richia-mando ancora il saggio di Windelband, si tratta per Scheler di ripartire gli indirizzi filosofici contemporanei all’interno dell’aut aut che oppone metodo critico e metodo genetico. E il punto di partenza per questa panoramica ancora una volta non può non essere la filosofia di Kant, il quale, secondo Scheler, «non è giunto a una decisione definitiva» 96 in favore dell’uno o

93 Ivi, p. 219. 94 Ibidem. 95 Ivi, p. 212 s. 96 Ivi, p. 220.

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dell’altro dei due metodi, come ritengono alcuni interpreti della filosofia critica, poiché a ben vedere ciò che in effetti egli «ha rigorosamente rifiu-tato non è il metodo psicologico e genetico in generale, quanto piuttosto specificamente il metodo empirico-psicologico» 97. Addirittura, il cosiddetto metodo «trascendental-psicologico» sarebbe, secondo Scheler, un «elemento necessario dell’argomentazione kantiana». Con ciò Scheler non intende contestare in alcun modo il fatto che «con la dimostrazione dell’apriorità trascendental-psicologica di un concetto o di una intuizione non sia ancora data loro la legittima autorizzazione di fondare una conoscenza oggettiva»; in altri termini, Scheler non vuole sostenere che per risolvere il quesito trascendentale sia sufficiente constatare l’apriorità dello spazio, del tempo e delle categorie, come fa Kant rispettivamente nella Esposizione metafisica e nella Deduzione metafisica della prima critica; infatti, se ci si arrestasse a questo punto dell’indagine, si avrebbe un’apriorità esclusivamente sogget-tivo-psicologica, alla quale mancherebbe la legittimazione di condizione dell’oggettività dell’esperienza che soltanto l’Esposizione trascendentale e la Deduzione trascendentale sono in grado di fornire rispettivamente alle intuizioni pure di spazio e di tempo e alle categorie. Scheler, dunque, è d’accordo con Kant, quando nella prima critica afferma che i concetti puri «abbisognano di un certificato di nascita ben diverso da quello che ne attesti la discendenza dall’esperienza» e che l’indagine genetica sulle rappresentazioni mette capo a una «tentata derivazione fisiologica, che propriamente non può neppure venir detta deduzione, poiché concerne solo una quaestionem facti», sicché va più adeguatamente chiamata tutt’al più «spiegazione del possesso di una conoscenza pura» 98. Il che però, se-condo Scheler, non significa che la questione genetica si risolva del tutto nella dimensione empirico-psicologica e che tale questione non possa essere sensatamente e legittimamente posta anche in ambito trascendentale; è in questo senso che Scheler scrive, richiamandosi al passo kantiano appena citato:

Le «conoscenze pure» devono avere «un diverso certificato di nascita da quello che ne attesti la discendenza dall’esperienza»; ma di un «certificato di nascita» hanno bisogno anch’esse. Sicuramente la «quaestio juris» non è identica alla «quaestio facti». Ma senza la rivendicazione di un fattuale a priori soggettivo la domanda sul suo diritto teorico-conoscitivo non può assolutamente essere posta. 99

97 Ivi, p. 221 (corsivo mio). 98 Kant 17872 (1781), KGS III, p. 101 (trad. it. leggermente modificata, p. 154). 99 Methode, GW I, p. 221.

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82 IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI

In questo passo torna quindi uno dei motivi ricorrenti della riflessione filosofica del giovane Scheler, vale a dire il tema della psicologia trascen-dentale, intesa come necessaria parte complementare della riflessione sulla costituzione dell’oggettività. Se i fatti culturali dell’esperienza attestano modi qualitativamente diversi dell’oggettività e suoi diversi gradi di validità, il dissolvimento funzionalistico della soggettività trascendentale in un sem-plice titolo generale sotto cui raccogliere analoghe operazioni oggettivanti diventa difficile proprio perché tali operazioni non sono affatto analoghe: scienza matematica della natura e storia, ma anche etica ed estetica e con loro tutta la compagine dei Fakta culturali, esprimono modi così diversi di dare senso all’esperienza da rendere sempre più arduo l’«idealismo senza soggetto» 100 del neokantismo marburghese (principale interlocutore di Scheler nell’opera sul metodo) e da richiedere invece, in tutt’altra direzio-ne, il ricorso a un soggetto in qualche modo ontologicamente definito 101 e alle sue diverse facoltà, un soggetto inteso come piano unificante da cui si dipartono le molteplici direzioni oggettivanti attestate dall’esperienza 102. Il metodo critico non va quindi visto in alternativa a quello genetico, bisogna piuttosto cercare di integrare i due metodi in un metodo che sia appunto trascendentale e psicologico al contempo, evitando tanto la dissoluzione in senso funzionale-trascendentale della soggettività, quanto la riduzione empiristica dell’a priori all’organizzazione psico-genetica dell’uomo (come quella operata da quell’indirizzo dello stesso movimento neokantiano che fa capo a Lange).

Da questa panoramica sulla questione metodologica nella filosofia con-temporanea Scheler conclude quindi che «un’armonizzazione [Ausgleich] tra le esigenze che, in quanto forze codeterminatrici, matematica e scienza matematica della natura da un lato e scienza della storia dall’altro pongono al metodo filosofico, è stata raggiunta finora tanto poco, quanto una com-posizione del contrasto tra metodo psicologico e metodo trascendentale»; d’altra parte egli prosegue affermando che «ogni tentativo di trovare il

100 Brelage 1965, p. 97. 101 In questo senso scrive Scheler: «[…] una qualche autorizzazione, un qualche neces-sario riferimento agli oggetti lo può possedere sempre e soltanto qualcosa che in qualche modo è [ein irgendwie Seiendes]; una semplice autorizzazione che fosse autorizzazione di nessuno, di nessun soggetto, non potrebbe mai operare creativamente» (Methode, GW I, p. 220 s.). 102 Cfr. Gigliotti 1989, p. 186, laddove in riferimento a Cassirer l’autrice scrive: «[…] si tratta in buona sostanza di stabilire se muovendosi unicamente sul versante di come si dia la possibilità del mondo dell’oggettività, usando la nozione di soggettività sempre soltanto correlativamente all’oggettività, e muovendo da essa, si riesca a conservare la possibilità di non convalidare di fatto soltanto uno dei suoi modi e di giustificare invece tutte le molteplici sue manifestazioni. O se, al contrario, risulti inevitabile il risalire ad un trascendentale come soggetto».

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metodo filosofico corretto deve andare nella direzione di tale armonizza-zione», tentativo che richiede anzitutto, come condizione preliminare, «un esame critico dei due metodi principali che oggi si danno vicendevolmente battaglia» 103, vale a dire il metodo trascendentale e quello che Scheler definisce psicogenetico.

103 Methode, GW I, p. 226.

UN NUOVO TRATTATO SUL METODO

G. Mancuso
Il giovane Scheler
SEGUE
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144 IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI

3. LO SCRITTO SUL METODO: BILANCIO

Con l’elenco delle dodici tesi appena esposte si conclude lo scritto sul me-todo, che segna una tappa importante e significativa nel percorso teoretico scheleriano, già inaugurato con i Beiträge. Rispetto alla tesi di laurea del 1897 e alla disamina dei rapporti tra principi etici e principi logici offerta in quella sede, lo scritto di abilitazione si pone senza dubbio in un rapporto di continuità problematica, segnalata soprattutto dalla rinnovata sottolineatura della necessità di una psicologia trascendentale. D’altra parte, sotto l’aspetto formale e stilistico, è qui immediatamente riscontrabile un respiro più ampio e al tempo stesso meno generico della trattazione, che sa piuttosto abilmente mettere a servizio di un’indagine dal taglio ‘teorico’ tanto una larga parte della ricerca filosofica (e non solo) contemporanea, quanto la storia stessa del pensiero filosofico e di quello scientifico. In questo senso nell’opera sul metodo mancano le lunghe digressioni storiche che appesantiscono non di poco la struttura complessiva dei Beiträge, e le polemiche con gli indirizzi filosofici contemporanei risultano prive di quella pedanteria alla quale Scheler aveva mostrato di essere incline soprattutto nell’ambito del confronto con Sigwart. È certamente innegabile, come già segnalato, un forte squilibrio tra pars destruens e pars construens, ma la critica è con-dotta in modo tale da anticipare le tesi conclusive; riesce quindi piuttosto agile l’individuazione degli elementi centrali della proposta noologica, che sono la ripresa del tema della psicologia trascendentale già presente nei Beiträge e, soprattutto, il progetto di una riforma dell’apriorismo in senso contenutistico e non solo formale. Da un lato, sulla matrice criticista del concetto di a priori Scheler innesta le suggestioni provenienti dalle ampie panoramiche storiche euckeniane sulle grandi personalità filosofiche del passato, in modo tale che la forma-legge della rigorosa tradizione kantiana viene a incontrarsi con la nozione piuttosto vaga di «progetti apriorici» [apriorische Entwürfe] personali proposta dal maestro; d’altra parte, riba-dendo costantemente la necessità di tenere sempre correlati il variegato mondo delle produzioni culturali e l’indagine sulle condizioni della loro possibilità (alle seconde si può arrivare soltanto a partire dalle prime), Scheler fa sua la regressività analitica del metodo trascendentale, rifiutan-done però la limitazione in senso scientifico e la pretesa di ultimatività. La riforma contenutistica dell’a priori va quindi attuata in due direzioni complementari, una soggettivo-psicologica e l’altra oggettivo-culturale, in modo tale che andranno ammessi atti costitutivi reciprocamente irriducibili per i correlativi e altrettanto reciprocamente irriducibili elementi oggettuali che il molteplice e diveniente mondo del lavoro attesta.

La riforma dell’a priori che Scheler qui delinea resta senza dubbio soltanto abbozzata, tuttavia mi sembra che il suo senso complessivo possa

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essere ben colto ricorrendo cautamente a una espressione quale ‘a priori della correlazione’, ben sapendo che chiamare in causa questa nozione potrebbe apparire una grossa concessione a quello ‘sguardo retrospetti-vo’ che cerca prodromi della fenomenologia di Scheler nella sua filosofia giovanile e che ho intenzionalmente voluto mettere tra parentesi in questa mia indagine. In realtà il senso in cui mi servo di tale espressione – che peraltro la vulgata vuole pressocché estranea alla ricezione scheleriana della fenomenologia – non vuole affatto essere quello tecnico della filosofia fenomenologica, ma va inteso soltanto come descrittivo della struttura qui tratteggiata da Scheler, una struttura che è appunto correlativa di un polo ‘culturale’ e di uno ‘personale’: piuttosto, l’opzione correlativistica trova qui il suo sfondo naturale nella filosofia neokantiana. Del resto, per quanto Scheler nella Prefazione del 1922 alla seconda edizione dell’opera abbia gioco facile nel recuperare in senso fenomenologico alcuni nuclei tematici dello scritto sul metodo – scrive per esempio: «la geistige Lebensform (ossia il livello noetico della coscienza) […]» 316 – e per quanto tali nuclei effet-tivamente si prestino a una tale operazione, non c’è dubbio sul fatto che, senza l’apparato teorico husserliano a sostenerli, essi si presentino tutt’al più, con le parole di Scheler, come segnali delle «difficoltà a partire dalle quali nel modo fenomenologico dell’indagine si aprì all’autore una strada nuova, qui ancora non battuta» 317.

Se i Beiträge insistevano sulla opposizione dell’ambito conoscitivo e di quello etico-pratico per sostenere, all’interno di una «critica assiologica della coscienza», la necessità di problematizzare la nozione windelban-diana di coscienza trascendentale in quanto Normalbewusstsein, l’opera sul metodo guarda invece alle produzioni culturali della Arbeitswelt e alla loro molteplicità qualitativa in modo meno problematico e più fiducioso rispetto alla possibilità che i contrasti dell’esperienza trovino risoluzione nel concetto «unitario ma non semplice» di spirito. Il che si spiega, credo, con la rinuncia alla pretesa di una configurazione definitiva del piano delle condizioni di possibilità, o, in altri termini, con l’immissione del trascen-dentale nella dimensione storico-temporale. Tuttavia Scheler non dovette mai ritenersi troppo soddisfatto del metodo noologico, dal momento che in seguito non sentì l’esigenza di definirlo in modo più preciso e più auto-nomo rispetto al maestro Eucken e nemmeno scrisse opere in cui si assiste a una sua effettiva applicazione. L’opera sul metodo, lungi dall’essere una sorta di dichiarazione programmatica che prelude a lavori futuri, segna invece l’inizio di un periodo tormentato per Scheler, che tra 1900 e 1904

316 Methode, GW I, p. 202. 317 Ibidem.

LO SCRITTO SUL METODO: BILANCIO

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146 IL PROBLEMA DEL METODO E LA RIFORMA DELL’A PRIORI

pubblicherà soltanto una breve recensione e un articolo relativi a un testo di Eucken – Der Wahrheitsgehalt der Religion (1901) –, insieme a un saggio per commemorare il centenario della morte di Kant. Il metodo noologico viene quindi a rappresentare una sorta di sentiero interrotto, e, alla fin fine, nemmeno mai veramente percorso nella filosofia giovanile scheleriana. Se invece si dovesse individuare ‘ciò che è vivo’ in queste riflessioni di Scheler sul metodo, ebbene credo che si tratti del confronto ricco e serrato che egli ingaggia con «il trascendentalismo della Scuola di Marburgo» 318, con il quale tuttavia, come si vedrà, per diversi anni ancora egli si troverà a dover fare i conti.

318 Ibidem.

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1 Una parte di questo capitolo è già stata pubblicata sotto forma di articolo: cfr. Mancuso 2005. 2 Facendo riferimento a quanto detto supra, cap. II, § 1., pp. 63-64, cfr. Henckmann 1998 (a), p. 27 s., dove l’autore scrive che Scheler tenne corsi di «introduzione alla filosofia, alla logica, alla dottrina del metodo, alla teoria della conoscenza, con particolare riguardo alle scienze della natura e a quelle storiche, alla psicologia e all’etica; […] nella storia della filosofia egli si è limitato alla filosofia dell’età moderna, individuando il momento chiave nel XIX secolo, tenendo lezioni su Kant e Schopenhauer, così come sul positivismo». Nell’ambito della didattica estiva tenne «almeno tre volte un corso di dodici lezioni di ‘Introduzione alla filosofia’», nel quale egli presentava «essenza, definizione e suddivisione della filosofia», individuandone quattro configurazioni storico-geografiche principali («filosofia indiana, greco-romana, medievale e moderna»); quanto alla suddivisione della filosofia nelle sue discipline specialistiche, il corso scheleriano cercava di offrire una «pano-ramica enciclopedica dell’intero formato dal sistema filosofico», soffermandosi sulla logica, l’etica, l’estetica, nonché sulla teoria della conoscenza, sulla psicologia, sulla metafisica, sulla filosofia della religione, sulla filosofia della natura e della storia. Significativamente l’ultima lezione del corso veniva dedicata da Scheler «al rapporto dell’età contemporanea con la filosofia e al compito della filosofia nel presente», un compito critico e al tempo stesso di guida, confermandosi in tal modo un «allievo di Eucken».

III

LOGICA TRASCENDENTALE 1

Dopo aver ottenuto l’abilitazione con lo scritto sul metodo, tra 1900 e 1901 Scheler inizia la sua attività di Privatdozent a Jena, dove fino al 1906 terrà numerose serie di lezioni, lavorando inoltre, come si è detto, nell’ambito dei corsi organizzati dall’ateneo jenese nel periodo estivo. Come scrive Henckmann, se si considerano i corsi accademici unitamente a quelli estivi, si può affermare (come fece lo stesso Scheler in un curriculum presentato nel 1919 all’università di Köln) che negli anni di insegnamento a Jena egli coprì ampiamente con le sue lezioni il vasto ambito delle discipline filosofiche, tanto sotto l’aspetto sistematico, quanto sotto quello storico 2. Questa intensa attività didattica si accompagna, sul versante della pro-

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148 LOGICA TRASCENDENTALE

3 Poi ripreso col titolo Ethik. Eine kritische Übersicht der Ethik der Gegenwart in GW I, pp. 371-409. 4 Che Scheler lavorasse a tale progetto fin dagli anni di Jena è attestato anche da una nota del testo sulla logica, in cui l’autore rimanda alla «mia introduzione all’etica contemporanea, di prossima pubblicazione» (LW, p. 22 nota 2; sulla scelta di citare dall’edizione Willer della Logik I piuttosto che dall’edizione Frings dei GW si veda infra, p. 163 nota 34).

duzione scientifica, a due progetti di ricerca che avrebbero dovuto dare luogo a un’introduzione all’etica contemporanea e a un testo sulla logica. Nonostante l’interesse e le pressioni di Eucken affinché il giovane docente desse corpo a queste due linee di studio, il primo dei due progetti restò tale almeno fino al 1914, quando uno Scheler ormai affermatosi come esponente di punta dell’indirizzo fenomenologico diede alle stampe un saggio intitolato Ethik. Ein Forschungsbericht 3, nel quale è presumibile siano rientrati gli studi del periodo jenese 4.

Quanto al testo sulla logica – del quale ci rimane solo una parte co-spicua del primo dei due volumi che avrebbero dovuto formare l’opera –, esso conobbe una vicenda molto più tormentata, che si cercherà qui di ricostruire.

1. DA JENA A MONACO: UN BRUSCO EPILOGO E UN LUNGO RIASSESTAMENTO

Si è già accennato alla tensione che percorre la vicenda intellettuale del gio-vane Scheler: la tensione tra la filosofia intesa à la Eucken come «questione di cuore», verso la quale egli si sentiva naturalmente inclinato, e la filosofia come metariflessione sull’oggettività costituita ed esercizio di scomposizione analitica praticata da un Liebmann o da un Cohen, che il giovane sentiva sì come distante, ma che al tempo stesso gli si imponeva come modello scientificamente rigoroso nonché accademicamente riconosciuto. E in effetti – sebbene Liebmann sia stato di tutt’altro parere – rispetto alla produzione precedente (i Beiträge e l’articolo Arbeit und Ethik sul quale si tornerà in seguito) già lo scritto sul metodo attesta in Scheler la volontà di rendere più conforme la sua prassi filosofica ai parametri sulla cui base la comunità accademica valutava le prestazioni dei suoi membri e, a maggior ragione, degli aspiranti tali, come era allora Scheler: parametri decisamente lontani dall’ardore e dallo slancio universalizzante euckeniano e molto più vicini alla fredda pacatezza e alla meticolosità di Liebmann. Si può ipotizzare, d’altra parte, che questa stessa volontà ‘auto-inibitoria’ sia stata una tra le cause del progressivo decrescere fino alla cessazione delle pubblicazioni di

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5 «Nei prossimi quaderni le ‘Kant-Studien’ pubblicheranno – salvo eventuali cam-biamenti – tra gli altri i seguenti lavori: […] M. Scheler, Kant und die moderne Logik […]», «Kant-Studien» 9 (1904), retro della copertina. 6 La lettera fa parte del Nachlass di Eucken ed è stata pubblicata in Feyl 1960-1961, pp. 283-285, da cui sono tratti i passi citati in seguito nel corpo del testo. 7 Per fare qualche esempio, nel curriculum vitae allegato alla dissertazione per la Promotion Scheler anticipa di un anno il conseguimento della maturità, avvenuto nel 1894 e non nel 1893: cfr. il Lebensabriss del dicembre 1897, in GW I, p. 159, e Henckmann 1998 (a), p. 17 nota 22; in DPG, GW VII, p. 308, come si vedrà dettagliatamente in

Scheler. Come si è detto, dopo lo scritto sul metodo (1900) e fino al 1911, Scheler pubblicherà solo due recensioni (1903) e un articolo per celebrare il centenario della morte di Kant nel 1904. In questo stesso anno un numero delle «Kant-Studien» annuncia la prossima pubblicazione di un suo articolo intitolato Kant und die moderne Logik 5: lo studio, tuttavia, non vide mai la luce. Nel lasso di tempo tra 1904 e 1911 – così fatalmente lungo per un mondo come quello accademico, notoriamente retto dalla legge publish or perish – Scheler quindi non pubblica nulla: il suo tentativo più ambizioso sarà appunto lo scritto sulla logica, la cui stesura lo impegnerà negli ultimi due anni di Jena e il cui ritiro dalla pubblicazione nel 1906 coinciderà con l’abbandono della cittadina turingia per Monaco.

All’interno di questa indagine sulla filosofia giovanile scheleriana il frammento sulla logica viene a rivestire molteplici significati. Dal punto di vista del contenuto filosofico, si tratta del testo in cui Scheler più deci-samente si allinea all’indirizzo marburghese del neokantismo, sul quale le opere precedenti esprimevano ancora alcune riserve di fondo. Al contempo, per lo storico della filosofia alle prese con il problema della periodizzazione del pensiero scheleriano, la Logik I ha natura eminentemente liminare, segnando in modo più che evidente la fine della fase neokantiana: ritirare dalla pubblicazione il primo volume di un’opera di cui si sono già corrette le bozze è un atto così radicale da non lasciare dubbi sul fatto che l’autore non si riconoscesse più in quanto aveva scritto.

Si può dire allora che la vicenda della Logik I rappresenti proprio il momento in cui la tensione alla quale si accennava viene a esplodere, fa-cendosi ingestibile e imponendo, insieme ad altri fattori, la necessità di un radicale cambiamento, come attesta una lunga lettera di Scheler a Eucken non datata, ma che, in base al contenuto, dovrebbe risalire alla seconda metà del 1906 e precedere di poco il ritiro del volume sulla logica 6. Come ogni testo in cui un autore si trova a dover valutare il proprio percorso intellettuale e a stilare una sorta di bilancio, si tratta indubbiamente di un documento fondamentale, che tuttavia va preso con estrema cautela: una cautela che si deve fare ancora più circospetta nel caso di Scheler, il quale spesso in occasioni simili ha dato prova di poca attendibilità 7. La temperie

DA JENA A MONACO

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150 LOGICA TRASCENDENTALE

intellettuale che egli attraversò negli ultimi anni di Jena ne esce in ogni caso eccellentemente illuminata e per questo vale la pena soffermarvicisi diffusamente.

La lettera presenta uno Scheler estremamente demoralizzato che confida al maestro le sue riserve nei confronti del volume sulla logica nonché tutta l’amarezza per le scarse prospettive di successo accademico, cercando di giustificare la stentata produzione degli ultimi anni. Ben consapevole di aver finora deluso Eucken – il quale dopo la Promotion e l’abilitazione aveva cercato di coinvolgerlo in alcune iniziative con esiti poco felici 8 –, Scheler scrive al maestro di sentire l’obbligo di chiarire le «ragioni della stagnazione dei miei lavori», avendo cura di licenziare anzitutto il più atroce tra i dubbi che funestano ogni intellettuale alle prese con un periodo critico, quello di non essere tagliato per lo strano mestiere che ci si ritrova a fare:

Da lungo tempo avrei scacciato tutta la sofferenza e il dolore che in questi anni mi hanno pervaso, se fossi riuscito a convincermi che non sono portato alla filosofia o che non sono in grado di fare nulla di significativo in questo ambito. La prego di non considerarmi presuntuoso o superbo, se dico che sono profondamente convinto proprio dell’esatto contrario. Mai come negli ultimi due anni ho sentito in me una tale crescita spiri-tuale e psicologica; ci sono state settimane in cui mi beavo – non nella raccolta di materiale, visto che di questo non ci si può beare – dell’espe-rienza della creazione produttiva, un’esperienza che lei ben conosce in quanto vero filosofo e non mero erudito. A tratti tutto si disponeva da sé secondo una necessità interna, senza staccarsi dall’intuizione e dalla vita, come può ben succedere al mero speculare […]. Solo davanti a Lei posso parlare di tutto ciò senza temere che le mie parole vengano prese per retorici luoghi comuni. Perché solo a Lei io mi sento […] in questo profondamente … affine.

Dunque, in base a quanto scrive qui, le giornate di Scheler paiono non essere mai state funestate dall’atroce dubbio di cui sopra: forse però Eucken qualche perplessità sulla propensione alla filosofia dell’allievo prediletto iniziava a nutrirla e urgeva pertanto fare chiarezza su questo punto. La linea difensiva adottata da Scheler consiste allora nel proiettare le sue difficoltà

seguito, retrodata al 1901 il ritiro dalle stampe del primo volume della Logik, avvenuto invece nel 1906. Sempre in DPG, nelle pagine dedicate alla presentazione della filosofia di Eucken (GW VII, p. 273 ss.), tralascia di dire che il vincitore del Nobel era stato suo maestro a Jena. 8 Della inefficienza di Scheler come redattore delle «Kant-Studien» già si è detto (si veda supra, cap. I, § 1., p. 15 nota 1); egli inoltre, sempre su iniziativa di Eucken, avrebbe dovuto partecipare con un contributo sull’etica alla stesura di un volume collettivo in onore di Kuno Fischer; il volume uscì (cfr. Windelband 1905) senza il saggio di Scheler, cfr. Henckmann 1998 (b), p. 18.

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sullo sfondo del contrasto tra meri eruditi, che «raccolgono materiale» e speculano in modo vuoto e astratto, e veri filosofi, i quali intendono la filosofia come creazione produttiva vicina all’intuizione e alla vita: Scheler si dichiara senz’altro sicuro di rientrare, come il maestro, in questa seconda categoria.

Se non alla mancanza di ‘autostima filosofica’, a che cosa allora si deve la frustrazione e la scarsa produttività di questi anni? Scheler elenca tre ragioni: la prima, di ordine strettamente personale, è «che io e mia moglie non ci intendiamo più […], senza tuttavia avere il minimo diritto di poterle fare di ciò una colpa». Tuttavia, prosegue il filosofo forse più rinomato insieme ad Abelardo (e a pochi altri) per la tormentata vita amorosa, per quanto questa sia la ragione «più essenziale tra tutte», si tratta pur sempre di un genere di problemi «che non dipendono dal nostro arbitrio e che non possono essere modificati solo decidendo di farlo», dei quali quindi non ha molto senso parlare.

Scheler ha invece molto da dire sulle altre due ragioni che, secondo le sue parole, «mi ostacolano e mi fanno soffrire»: la prima riguarda «il pro-getto e il modo in cui si va formando il mio libro sulla logica», la seconda consiste in «un dubbio crescente sulla possibilità che di questi tempi io riesca a raggiungere i miei obiettivi come docente universitario». È in relazione a questi due punti che Scheler dispiega e viene via via precisando la linea difensiva abbozzata fin dall’inizio; quanto al libro sulla logica egli scrive:

[…] è un genere di libro con cui si vuole diventare professore straor-dinario; il progetto che ne ho è purtroppo eccessivamente ampio, per quanto al contempo lo sia fin troppo poco, se dovesse dare un’idea precisa di quello che è lo stato attuale della mia evoluzione filosofica. Mentre vi lavoravo, neanche per un attimo ho avuto di mira soltanto la logica. In ogni momento la logica era per me solo un elemento 9 del sistema filosofico. Già, del sistema, purtroppo. Perché io ho inevitabilmente la tendenza mentale [Geistesrichtung] a concatenare tutto con tutto e niente mi risulta più difficile che isolare i problemi. Lei sarà il primo a capirlo: non Le capita forse la stessa cosa? C’è solo una grossa diffe-renza: Lei ha intrapreso la sua grande opera quando era più maturo e le preoccupazioni per la carriera non La mettevano più sotto pressione, dopo che in precedenza si era occupato di indagini più circoscritte e rigorosamente definite […]. Ma in fondo non è così grave. Pubblicherò il mio primo volume; nella costruzione mancherà un po’ di unitarietà;

9 Henckmann fa notare come nella trascrizione della lettera di Scheler Feyl legga erroneamente Zier («coronamento») al posto di Glied (qui tradotto con «elemento»): la traduzione qui fornita si basa sul testo trascritto da Feyl e sulle correzioni apportatevi in Henckmann 1998 (a), pp. 28-29, dove l’autore riporta uno stralcio della lettera.

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conterrà resti di diversi stadi di sviluppo; sarà frammentario 10. Mi farà sembrare molto più staccato dalla vita di quanto io sia; ma le mie lezioni di etica, che devono venire in seguito, mostreranno che per filosofia non intendo semplicemente la speculazione astratta. […] Sarebbe stato molto meglio se avessi trattato uno dei tanti temi presenti nella mia logica in un libro breve e ben organizzato. Ma ormai le cose stanno così, non c’è nulla che possa essere cambiato e alla fine mi si potrà dire che ho voluto strafare. Ma anche queste difficoltà non sono poi insuperabili. Il secondo volume sarà migliore.

La principale difficoltà nello scrivere l’opera sulla logica è individuata qui nella destinazione accademica del testo, concepito dal giovane autore come pietra su cui edificare la propria carriera universitaria; una tale destinazione necessariamente costringe la ricerca entro i termini di valutazione fissati da una comunità scientifica le cui redini, lascia intendere Scheler (che nel corso della lettera diventerà via via più esplicito in proposito), sono strettamente nelle mani di quei «meri eruditi» che «isolano problemi» e «speculano astrattamente» a scapito del «sistema» e del contatto con la «vita». Rispetto a tale comunità, Scheler dipinge se stesso e Eucken co-me due outsider, con una significativa differenza: Eucken grazie alle sue giovanili ricerche filologiche su Aristotele si è assicurato una cattedra da ordinario, una volta occupata la quale ha potuto smettere i panni dell’an-tichista minuzioso e indossare senza problemi quelli dell’Herzensphilosoph sistematico («intendo», precisa significativamente Scheler, «‘vital-sistematico’ o ‘cultural-sistematico’, non sistematico à la Hartmann»); Scheler, invece, si trova costretto ad arginare il suo slancio pan-filosofico nei confini angusti fissati dall’accademia, con conseguenze deleterie sulla coerenza interna del suo lavoro. E in effetti chiunque legga la Logik alla luce di quanto Scheler scrive qui non può non rimanere colpito dalla incompatibilità tra i profili intellettuali che emergono dai due testi: ci si figura quindi che il giovane filosofo in questi anni abbia dovuto dispiegare un poderoso sforzo disciplinante, se non addirittura mimetico, che spiegherebbe molta della frustrazione trasudante dalla lettera a Eucken.

La preoccupazione principale che funesta gli ultimi anni di Scheler a Jena resta in ogni caso quella legata alla possibilità di diventare docente universitario strutturato: in relazione a quest’ultimo punto, l’allievo esprime al maestro un malanimo e un livore tali da sconfinare nel risentimento, la disposizione assiologica pervertita che egli anni dopo analizzerà in modo così sottile e accurato. In questa fase finale della lettera il mondo accade-

10 Nella trascrizione di Feyl quest’ultima frase non è trascritta perché ritenuta illeg-gibile; Henckmann scrive invece: «er wird fragmentarisch sein», in Henckmann 1998 (a), p. 29.

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mico viene dipinto come una sorta di «lega di birbanti contro gli uomini da bene» 11, laddove questi ultimi sono ovviamente lo stesso Scheler e Eucken, in lotta contro i «birbanti» eruditi che hanno saldamente in mano il ristretto mercato della ripartizione delle cattedre, destinate, ça va sans dire, ai loro giovani epigoni. Inasprito su questi toni e su questa linea, scrive infatti un risentitissimo Scheler:

La mia avversione per l’infeconda oscurità dello specialismo universitario odierno è troppo viscerale, il mio odio per molti di questi fantocci eruditi, freddi, senza vita è troppo grande […]. Io desidero con tutto il cuore una […] comunità […] in cui ci sia meno arbitrio e più giustizia.

La parte senza dubbio più sorprendente della lettera è in ogni caso quella che precede l’invettiva finale contro la casta accademica, quando Scheler finalmente spende qualche parola sul contenuto della propria filosofia, argomento finora solo vagamente toccato:

[…] il contenuto della mia filosofia sarà poco adatto per rendermi bene accetto a quelle persone che oggi detengono il potere decisionale in ambito accademico […]. Non se ne deve meravigliare. La sua filosofia, infatti, non si adatta affatto meglio all’esercizio accademico della filosofia di quanto non faccia la mia, vorrei dire meglio la «nostra», poiché la mia filosofia è soltanto la sua, sotto forma diversa e con toni più appassionati. Questo è certo, grazie a Dio […].

Solo nel seguito, quando si esaminerà da vicino la Logik, si potrà com-prendere quanto stupore destino queste dichiarazioni di Scheler. Si può tuttavia anticipare un elemento che dia il polso dello stridore tra quanto egli dice qui a Eucken sulla sua, anzi, la ‘loro’ filosofia e la filosofia che Scheler andava invece sviluppando fin dal 1904 nel testo sulla logica: in questo ampio frammento il nome di Eucken non viene citato nemmeno una volta. Si potrebbe pensare che si tratti di un fatto senza particolare valore, ma le cose stanno diversamente, come si capisce proseguendo nella lettura dello sfogo di uno Scheler mai così immedesimato con Eucken come qui, al punto di parlare anche in vece del maestro:

È un fatto: noi vogliamo una filosofia positiva e non freddamente nega-tivo-critica. Noi vogliamo una filosofia che culmini in un atteggiamento religioso verso la vita e che liberi gli uomini dalle loro passioni filistee per interessi superficiali […]. Rispetto a questo ideale la filosofia accademica non è fin troppo meschina e pedante? Noi vogliamo una filosofia nella quale possano abitare uomini completi, vitali, non una filosofia conce-

11 Così Leopardi definisce il mondo, in Pensieri, I.

DA JENA A MONACO

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154 LOGICA TRASCENDENTALE

pita come angusta camera da studio per i dotti. […] In un tempo come il nostro, logorato da lotte partitiche del genere più ripugnante, una filosofia come quella che noi vogliamo è forse in grado di procacciarsi delle cattedre? […] Il filosofo è – così mi paiono stare le cose più passa il tempo – un essere vivente che tanto meno è in grado di inserirsi nell’or-ganismo dell’università di oggi quanto più egli è filosofo. Egli deve avere tutto contro di sé, trovandosi sempre in mezzo al conflitto dei doveri, nell’alternativa di diventare un operaio dell’erudizione o di vivere in disaccordo col suo ambiente. A quale odiosa diffidenza, a quali odiose occhiate di sottecchi in ogni direzione ci si deve abituare! E come soffre là in mezzo la vita spontanea e immediata. Io penso che non si possano chiamare in causa i nostri Kant, Fichte, Schelling, Hegel, Herbart. I loro infatti erano tempi completamente diversi: l’alessandrinismo della cultura erudita non era ancora così esteso, l’allontanamento dell’università dalle forze trainanti della vita non era ancora così grande, l’ambizione sfrenata per il successo effimero non era ancora cresciuta a dismisura come accade oggi […]. È il potere della società accademica e dello spirito corporativo della casta dei dotti che ci piega e ci intimidisce a tal punto.

Se Scheler veramente voleva una filosofia come quella qui descritta a Eucken, non sorprende che, poco dopo la stesura di questa lettera, egli abbia ritirato dalla pubblicazione il primo volume della Logik, di cui erano già pronte le prime bozze. Sorprende piuttosto il fatto che, avendo una tale concezione della filosofia, Scheler abbia potuto dedicare un lungo periodo della sua vita a concepire e a scrivere un testo simile, dal quale, come si vedrà, emerge una concezione della filosofia eminentemente critica, né ostile né orientata ma semplicemente indifferente all’obiettivo di pro-muovere «un atteggiamento religioso verso la vita», estranea all’impegno immediatamente etico di «liberare gli uomini»: insomma una filosofia nient’affatto à la Eucken.

Come spiegare allora la discrasia tra ciò che Scheler scrive a Eucken e quanto invece emerge dallo scritto sulla logica? Mi pare significativo, a questo proposito, che un testo concepito con l’esplicito intento di «diventare professore straordinario» sia di impostazione neokantiana, di un neokan-tismo, più precisamente, che si può ricondurre alla Scuola di Marburgo. È un fatto che sembrerebbe confermare lo studio di Köhnke sulla nascita e l’ascesa del neokantismo 12. Si tratta di una ricostruzione del quadro storico della filosofia universitaria tedesca negli anni che vanno dal 1830 al 1881: l’autore ripercorre la preistoria e la storia del neokantismo all’in-terno dell’accademia, dal momento in cui si annuncia come filosofia critica di opposizione all’idealismo classico in pensatori come Friedrich Adolf

12 Köhnke 1993.

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Trendelenburg, Friedrich Eduard Beneke e nei teisti speculativi Immanuel Hermann Fichte e Christian Hermann Weiße, fino a quando il neokantismo non arriva a presentarsi esso stesso come «nuovo idealismo» 13, dominante la scena accademica tedesca di fine XIX secolo e finalmente in grado di imporre un’auto-immagine fondata su «mistificazioni della sua preistoria e delle sue premesse» 14. Secondo Köhnke, al termine «neokantismo» non corrisponderebbe quindi un indirizzo distintamente identificabile come categoria del pensiero filosofico, piuttosto a esso si dovrebbe guardare come a un’etichetta che tiene sotto di sé pensatori spesso così distanti («centi-naia di appartenenti al corpo docente universitario» 15) da coprire, sotto il comune richiamo a Kant, i contenuti filosofici più disparati 16. L’autentico collante del ‘movimento’ neokantiano sarebbe da individuare, piuttosto, nelle preoccupazioni e negli interessi di natura politico-accademica dei protagonisti. Detto brutalmente, lo Zurück zu Kant che dal 1865 in poi risuonò sulla scena filosofica tedesca sarebbe stata la parola d’ordine di una giovane generazione di studiosi che intendeva beneficiare delle ten-sioni anti-idealistiche prodottesi dopo la morte di Hegel, per sostituire alla dominazione idealistica delle università una nuova dominazione.

In un saggio del 1922 sulla filosofia tedesca contemporanea, Scheler scriverà parole che sembrano appositamente concepite per confermare la tesi di Köhnke; in riferimento agli orientamenti teoretico-conoscitivi di area neokantiana, egli sostiene:

Per quanto questi indirizzi di pensiero si trovino a mio parere in una condizione di inarrestabile decadenza, tuttavia vantano ancora, in base al principio dell’inerzia storica, uno spazio molto rispettabile nella filosofia accademica tedesca […]; hanno tutti origine nel tempo in cui la filosofia tedesca degli anni sessanta del secolo precedente cercava nuovamente di guadagnarsi il diritto all’esistenza accademica per mezzo del richiamo a Kant (per primo O. Liebmann ‘ritorno a Kant’). 17

13 Ivi, p. 433. 14 Ivi, p. 14. 15 Ivi, p. 18. 16 Secondo Köhnke, il neokantismo «sorse – lentamente e in maniera quasi imper-cettibile –, correnti eterogenee confluirono, ma mai nemmeno uno dei partecipanti attivi a questo processo si comprese come parte di un movimento più ampio. Esso divenne percepibile solo quando si osservò – e non a caso a farlo furono i suoi critici – che c’era tutta una serie di impostazioni filosofiche che tra loro, certo, erano completamente in disaccordo, ma che comunque avevano qualcosa di comune nel fatto di richiamarsi tutte a Kant. Qui non erano soltanto un fondatore, una data di nascita e un programma a mancare, ma perfino il loro nome i neokantiani lo ricevettero in assegnazione da altri come semplice etichetta» (ivi, p. 213 s., citato in Ollig 1997, p. 29). 17 DPG, GW VII, p. 279 s. (corsivo mio).

DA JENA A MONACO

G. Mancuso
Il giovane Scheler
SEGUE
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1 Si vedano Dupuy 1959, vol. I, cap. II, pp. 43-57; Morra 1973 (c); Allodi 1997, pp. 30-34; Bosio 1998; Verducci 1997, con bibliografia sul tema «lavoro ed etica» in Scheler, nonché Verducci 2003 (a) e Verducci 2003 (b).

IV

IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER

Per completare il quadro all’interno del quale si è cercato di restituire il percorso seguito da Scheler nella sua riflessione giovanile, resta da consi-derare il gruppo delle pubblicazioni minori del filosofo, comprendente due articoli piuttosto corposi – Arbeit und Ethik, risalente al 1899, e Immanuel Kant und die moderne Kultur, uscito nel 1904 per commemorare il cente-nario della morte del filosofo di Königsberg – e due recensioni del 1903 a Der Wahrheitsgehalt der Religion del maestro Eucken. Dal momento che sull’articolo del 1899 si è già scritto molto 1 e poiché le due recensioni sono appiattite sull’opera euckeniana del 1901 (come del resto una recensione si trova spesso a dover essere), concentrerò la mia attenzione soprattutto e in primo luogo sull’articolo in onore di Kant, a dispetto dell’ordine cro-nologico. Una decisione che, d’altra parte, rispecchia una delle tesi che si intende qui sostenere, in base alla quale lo spiritualismo euckeniano esercitò su Scheler una influenza meno significativa rispetto al neokantismo sudoccidentale e soprattutto marburghese.

Si tratterà quindi di corroborare tale tesi una volta completata la presen-tazione e l’analisi dei testi, quando sarà possibile tirare le somme, enucleare cioè le influenze costitutive della filosofia giovanile scheleriana, stabilirne i diversi pesi e circoscrivere il problema teorico che vi sta al centro.

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222 IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER

2 KMK, GW I, p. 354. 3 Ibidem.

1. LA SVOLTA KANTIANA: DAL PENSIERO DI SOSTANZA A QUELLO DI FUNZIONE

Lo scritto del 1904 su Kant e la cultura moderna è particolarmente signifi-cativo ai fini della presente ricerca sul neokantismo giovanile scheleriano, non solo per il suo essere esplicitamente dedicato all’influsso della filosofia critica sulla scena culturale tedesca di inizio XX secolo e più in generale sul pensiero occidentale, ma anche perché è la pubblicazione con cui si chiude ‘ufficialmente’ la produzione di Scheler che precede l’adesione alla fenomenologia: quando nel 1911 egli tornerà a pubblicare, sarà infatti con il già richiamato articolo sul fenomeno della Selbsttäuschung, scritto dopo anni di assidua partecipazione alle vicende monacensi e gottinghesi della fenomenologia. Si può dire che la decisione di ritirare dalle stampe il primo volume della Logik e di rinunciare all’elaborazione di una logica trascendentale segni il momento effettivo in cui Scheler, nella seconda metà del 1906, abbandona l’indirizzo neokantiano, mantenendosi dietro le quinte del palcoscenico filosofico-accademico o, meglio, rifiutandosi di presentare la sua Logik su tale palcoscenico; retrospettivamente, l’articolo del 1904 in onore di Kant rappresenta invece, per insistere nella metafora, una sorta di canto del cigno del rapporto che Scheler intrattenne con la filosofia critica nei suoi anni giovanili, l’ultima esibizione di un regista-attore ancora ignaro del fatto che per il suo prossimo spettacolo dovrà aspettare anni, cambiare compagnia e rinnovare radicalmente il proprio repertorio.

Nel suo scritto commemorativo, Scheler esordisce accostando la figura di Kant a «quei grandi legislatori» come «Licurgo, Solone, ai quali l’umanità non smetterà mai di rendere onore» 2: l’operato di Kant si presta infatti all’analogia con l’azione svolta da costoro per rinvenire i principi sulla cui base regolamentare i rapporti esterni che le singole volontà intrattengono nell’ambito della società civile. Analogo lo sforzo e lo spirito legislativo, ma diverso e ben più vasto il terreno della loro esplicazione, che per Kant fu «l’ambito complessivo della attività razionale in generale», in modo tale che secondo Scheler ben più rivoluzionario è il significato storico-culturale che spetta alla sua opera:

I. Kant non ha aggiunto una nuova filosofia a quella già esistente sto-ricamente, bensì ha cambiato radicalmente il concetto della filosofia. Filosofia per lui è […] conoscenza e delimitazione dei principi dell’attività intellettuale, delle direzioni in cui essa agisce nella scienza, nella prassi morale, nel gusto estetico e nella religione. 3

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4 Ibidem. 5 Ivi, p. 356. 6 Ibidem.

L’intenzione di Scheler in questo suo scritto non sarà tanto una presentazio-ne per sommi capi dei contenuti della filosofia kantiana, che egli presume essere ben noti al lettore, quanto piuttosto la messa a fuoco del ruolo svolto da tale filosofia nel complesso della «cultura spirituale dell’occidente in generale e, in particolare, in relazione alla modernità» 4. Si tratta quindi di individuare anzitutto il «nucleo ideale della filosofia kantiana», in forza del quale secondo Scheler il criticismo può essere identificato tout court con la «coscienza filosofica della modernità», e tale nucleo va ravvisato senz’altro nella rivoluzione copernicana, nella fondamentale intuizione del fatto che

il mondo intero, il mondo interno e quello esterno, il regno della natura e il regno della moralità non costituiscono un ordine ‘dato’, ‘compiuto’ o in generale qualcosa che sia assolutamente fondato in sé, bensì una dimensione incompleta, del tutto indeterminata, un eterno punto inter-rogativo e un eterno compito. 5

In base alla acquisizione di questo rivoluzionario punto di vista, a decidere «quale significato oggettivo, quale valore di realtà» spetti al dato non è la natura del dato stesso, bensì l’insieme

dei principi necessari di ragione, che si trovano e agiscono in noi non come un dono misericordioso di un dio dogmaticamente presupposto o come un equipaggiamento del quale ci avrebbe dotati una natura tu-telare, altrettanto dogmaticamente presupposta, bensì semplicemente in quanto leggi […]. Le leggi di ragione sono le leggi dell’essere stesso, non l’effetto [Wirkung] di una cosa qualsiasi – sia questa cosa dio, anima o natura –, non un ingrediente accessorio del mondo che potrebbe anche mancare. 6

Al centro della riflessione kantiana sta quindi l’interrogazione sul rapporto tra ragione e natura – o, in altri termini, tra conoscenza e realtà –, domanda in risposta alla quale la filosofia critica ribalta la tradizionale concezione per cui la prima non sarebbe che rispecchiamento statico della seconda. Scheler fa riferimento alla prefazione della seconda edizione della Critica della ragion pura, nella quale la proposta filosofica dell’opera è presentata in stretta analogia con il metodo sperimentale che la scienza matematica della natura utilizza da Galilei in poi, un metodo del quale Kant enuclea le rivoluzionarie implicazioni teorico-conoscitive, per estenderne quindi l’ambito di applicazione dalla fisica alla stessa metafisica. La linea espositiva

DAL PENSIERO DI SOSTANZA A QUELLO DI FUNZIONE

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224 IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER

seguita da Scheler nel suo saggio è dunque quella di contrapporre le due fondamentali concezioni della scienza – e del rapporto tra conoscenza e realtà che esse implicano – alle quali, a suo giudizio, ogni altra è ricondu-cibile, vale a dire «la concezione greca e la concezione moderna, o anche l’idea di Immanuel Kant» 7. Prima di Kant, infatti, «tutti i contrasti dei partiti teorico-conoscitivi da Aristippo e Platone fino a Leibniz e Hume» 8 si alimentavano in realtà dello stesso presupposto di fondo, introdotto dai greci e perpetuatosi poi in innumerevoli forme fino al XVIII secolo: il presupposto in base al quale la conoscenza sarebbe «immagine» [Bild] dell’oggetto dato. Nella storia della filosofia gli strumenti per il tratteggio di questa conoscenza-immagine sono stati individuati principalmente nella sensazione e nella percezione sensibile, come vuole la tradizione empiristica, o nel concetto, come pretende invece l’indirizzo razionalistico; ci sono state inoltre correnti che hanno negato la possibilità stessa della conoscenza, come hanno fatto gli scettici greci, francesi e inglesi; ma queste differenze non paiono a Scheler rilevanti, nella misura in cui scettici, empiristi e ra-zionalisti hanno tutti assegnato alla conoscenza lo stesso compito, quello di «raffigurare una realtà, ossia di raggiungere, di cogliere qualcosa che in qualche modo è ‘dato’ e indipendente dallo spirito che lavora in noi» 9.

Le implicazioni teorico-conoscitive che Kant seppe vedere nelle rivolu-zionarie aquisizioni metodologiche della scienza moderna – superando gli stessi scienziati quanto a consapevolezza e a capacità di riflessione 10 – vanno invece in tutt’altra direzione: dal fatto che Galilei «fece rotolare lungo un piano inclinato le sue sfere, il cui peso era stato da lui stesso prestabilito», che Torricelli «fece sopportare all’aria un peso, da lui precedentemente calcolato pari a quello di una colonna d’acqua nota», Kant conclude «che la ragione scorge soltanto ciò che essa stessa produce secondo il proprio disegno» e che «essa deve procedere innanzi coi principi dei suoi giudizi secondo leggi stabili, costringendo la natura a rispondere alle proprie do-mande, senza lasciarsi guidare da essa, per così dire, con le dande» 11.

7 Ivi, p. 357. 8 Ivi, p. 358. 9 Ibidem. 10 Scheler, a questo proposito, chiede retoricamente se la concezione della conoscen-za come raffigurazione della realtà non sia tutt’ora forse «ancora oggi l’opinione della maggior parte dei ricercatori scientifici», scrivendo poi che «a questa domanda bisogna rispondere senza dubbio con un sicuro sì»; ma egli aggiunge subito che non è questa una grande obiezione, nel momento in cui si separa con cura «l’operato reale della scienza dalla riflessione filosofica su questo operato» (ibidem). 11 Kant 17872 (1781), KGS III, p. 10 (trad. it., p. 42).

G. Mancuso
Il giovane Scheler
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238 IL NEOKANTISMO GIOVANILE DI SCHELER

3. SCHELER NEOKANTIANO

Più dello spiritualismo euckeniano è allora la filosofia di indirizzo neokan-tiano ad aver influito sulla produzione giovanile di Scheler. D’altra parte, come scrive Henckmann, «se si riconduce al neokantismo il primo inizio della filosofia di Scheler a Jena […] allora nasce la domanda su che cosa si debba intendere veramente con questo neokantismo» 54. Che il ‘neo-kantismo’ costituisca una categoria filosofica estremamente problematica, laddove si tenti di darne una configurazione interna unitaria e di specificarne

52 Banfi 1961, p. 47 s. 53 Se all’interno dell’opera giovanile questa insoddisfazione per la filosofia euckeniana non viene mai chiaramente esplicitata, benché traspaia in filigrana, nel 1922, in DPG, GW VII, p. 273 ss., Scheler la manifesterà invece a chiare lettere, dando del pensiero del maestro una valutazione certamente non lusinghiera: pur avendo il merito «di aver tenuto salde le esigenze della filosofia di offrire una metafisica e insieme una concezione della vita in grado di formare l’uomo, e di averlo fatto in un tempo in cui la filosofia correva il rischio di diventare una semplice nota a pie’ di pagina delle scienze positive specialistiche», secondo quanto scrive l’allievo di un tempo, le argomentazioni teoriche di Eucken sono «molto carenti»; a ragione i critici hanno rilevato «l’insufficienza di analisi approfondite nei suoi pensieri, la mancanza di legami della sua filosofia con le scienze, il procedimento non metodico del suo pensiero e la grande indeterminatezza e vaghezza del caratteristico stile personale della sua esposizione»; soprattutto Eucken ha confuso «religione e metafisica in un solo significato, inammissibile per entrambe». 54 Henckmann 1998 (a), p. 16.

G. Mancuso
Il giovane Scheler
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l’‘essenza’, è cosa nota; in questo senso si rivela particolarmente efficace l’immagine con cui Friedrich Tenbruck restituisce la nebulosità che avvolge il concetto stesso di neokantismo: esso

è stato sempre come un paesaggio di montagna frastagliato, che si lascia abbracciare con lo sguardo tanto poco dall’esterno quanto dall’interno. Si possono scalare singole cime, si possono scalare anche tutte le cime, ma non si vedrà mai l’intera catena montuosa nella sua connessione complessiva. 55

Su questa base, si comprendono le parole di Henckmann sulla inevitabile insorgenza della domanda su che cosa si debba esattamente intendere quan-do si definisce «neokantiana» la filosofia giovanile scheleriana: si tratterà quindi, per sfruttare l’immagine di Tenbruck, di affrontare più da vicino le due «cime» del massiccio neokantiano, all’ombra delle quali Scheler svolse la sua riflessione giovanile, vale a dire la Scuola di Marburgo su un versante e quella del Baden sull’altro.

Nel loro richiamarsi a Kant, entrambe le scuole sostengono una conce-zione ‘copernicana’, ossia funzionalistica e coerentistica della conoscenza vera, da opporre a quello che Kant chiamava il «dogmatismo» della tradi-zione metafisica e a quegli elementi della dottrina kantiana stessa che di tale dogmatismo appaiono come pericolosi residui. Se in relazione alla necessità di ‘bonificare’ il criticismo dalle componenti spurie per assicurarlo nelle sue principali linee direttrici si registra tra le due scuole una sostanziale comu-nione di intenti, questa invece viene meno in sede propositivo-sistematica, nel momento in cui si tratta di stabilire come «andare con Kant oltre Kant». Si registrano in proposito alcuni principali punti di divergenza, che, quanto alla riflessione gnoseologica, come recentemente scrive Michael Friedman, si concentrano attorno a tre questioni principali: «[…] il rapporto tra ma-tematica e ambito della logica pura; il rapporto tra l’ambito della logica pura e la molteplicità ‘preconcettuale’ della sensazione; e la relazione tra ambito della logica e ambito dei valori» 56. In relazione ai primi due punti, il comune rifiuto di una facoltà indipendente dell’intuizione pura per come era stata ammessa da Kant porta a esiti profondamente differenti: la scuola marburghese incorpora «la matematica pura nella logica formale», in tal modo «rimpiazzando la molteplicità data della sensazione con la progressione metodologica della scienza naturale matematizzata»; diversamente,

nell’approccio della Scuola di sud-ovest, all’opposto, siamo lasciati, da un lato, con le sole forme di giudizio della logica formale tradizionale e,

55 Tenbruck 1994, p. 71; cfr. anche Ollig 1997, p. 37. 56 Friedman 2004, p. 42.

SCHELER NEOKANTIANO

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dall’altro, con la molteplicità data ‘preconcettuale’ delle sensazioni: la cruciale intermediazione della matematica è venuta meno. 57

La divergenza delle direzioni in cui si sviluppano le due principali inter-pretazioni neokantiane raggiunge quindi il punto di massima distanza nella concezione dell’a priori: sullo sfondo di un comune anti-psicologismo, i marbughesi concepiranno dinamicamente l’a priori in senso rigorosamente trascendentale, come condizione funzionale di possibilità che solo nell’astra-zione metodologica può essere isolata dai Fakta culturali da essa resi possi-bili, mentre i neokantiani del Baden intenderanno l’a priori come «valore», arrivando con Rickert a trasformare il piano trascendentale delle condizioni di possibilità in una gerarchia assiologica in ultimo trascendente.

Una presentazione delle due scuole neokantiane, con la contestuale messa in luce delle loro divergenze, la offre lo stesso Scheler nel già ri-chiamato saggio del 1922 su Die deutsche Philosophie der Gegenwart. Le considerazioni sul neokantismo svolte qui da Scheler vanno prese con molta cautela, poiché presentano una strana emulsione di componenti reciprocamente insolubili: lo spassionato stile analitico-espositivo dello storico della filosofia si accompagna infatti alle accese critiche parziali del rappresentante di un indirizzo filosofico alternativo (la fenomenologia), che per giunta in passato si dichiarava sostenitore di quella filosofia che ora è oggetto della sua spesso impietosa critica (il neokantismo). Nonostante queste difficoltà, quanto all’influenza delle due scuole neokantiane sulla filosofia del giovane Scheler, dallo scritto del ’22 si può trarre una conferma di ciò che emerge dall’analisi delle opere del periodo di Jena, vale a dire del maggior interesse che, rispetto al neokantismo sudoccidentale – e a dispetto della vicinanza problematica con esso quanto al motivo assiologico –, il neokantismo marburghese esercitò sempre su Scheler, a partire anzitutto dalla sua produzione giovanile per arrivare a quella metafisico-antropologica degli ultimi anni, come si cercherà di mostrare in seguito.

Venendo quindi alla presentazione del neokantismo offerta da Scheler nello scritto sulla filosofia tedesca a lui contemporanea, egli individua quat-tro indirizzi principali all’interno del movimento filosofico che si richiama a Kant: il «realismo neocriticista» di Alois Riehl, la Scuola di Marburgo, la Scuola sudoccidentale e la scuola fondata dal friesiano Leonard Nelson. Ciò che interessa qui è ovviamente quanto Scheler scrive del neokantismo mar-bughese e di quello del Baden e, soprattutto, la sua valutazione del rispettivo ‘peso filosofico’ delle due scuole. Nel delineare la posizione marburghese Scheler si concentra soprattutto sulla figura di Cohen, definito «lo spirito

57 Ivi, p. 46.

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dominante della scuola» 58, rivolgendo la sua attenzione in particolare alle opere che formano il Sistema di filosofia, vale a dire la Logik der reinen Erkenntnis (1902), la Ethik des reinen Willens (1904) e la Ästhetik des reinen Gefühls (1912), testi in cui Cohen sviluppa la propria interpretazione della filosofia trascendentale in una direzione sempre più personale e critica nei confronti di Kant. A Natorp Scheler riconosce di aver sostenuto «la dottrina neokantiana in modo certamente più chiaro e […] più univoco e sistema-tico del maestro», senza tuttavia raggiungerne «la profondità e l’impeto»; quanto a Cassirer, «il terzo rappresentante più significativo della scuola», si tratta secondo Scheler di colui che «nei suoi lavori storici e sistematici ha dato alla dottrina neokantiana forse l’espressione più acuta, precisa e attualmente influente» 59. In ogni caso è nell’opera di Cohen che Scheler individua i nuclei concettuali del neokantismo marburghese, il primo dei quali viene ravvisato anzitutto nel rifiuto del concetto kantiano della «cosa in sé», o meglio in una sua interpretazione radicalmente funzionalistica, per cui il noumeno va inteso come «concetto-limite della nostra conoscen-za, […] obiettivo ultimo di un progresso conoscitivo infinito». In questo contesto «conoscere non significa raffigurazione, ma nemmeno significa determinazione simbolica di una realtà e oggettualità esistente, bensì ideale ‘produzione e formazione dell’oggetto’ stesso», in modo tale che «l’oggetto non è ‘dato’, quanto piuttosto è la sua produzione ad essere ‘assegnata’ al nostro intelletto, conformemente alle leggi che lo abitano» 60. Scheler indica quindi uno dei tratti costitutivi della posizione marburghese nel rigoroso idealismo che porta Cohen, nella Logik der reinen Erkenntnis, a dichiarare «noi cominciamo con il pensiero» e a definire la sensazione «una x cercata, un ‘problema dell’intelletto’», un prodotto del metodo infinitesimale: un idealismo, quello coheniano, che Scheler ben differenzia da quello di Hegel, poiché il primo passa sempre dal «fatto» dato dell’esperienza scientifica 61 e intende il concetto di «a priori» nel suo significato trascendentale di condizione per la possibilità di questo «fatto», per arrivare nella Logik del 1902 a svilupparne gli aspetti dinamici e funzionali nella nozione produttiva di «fondazione» [Grundlegung], opposta a quella statica di «fondamento» [Grundlage]. All’interno di questa peculiare reinterpretazione della filosofia critica le categorie non sono più kantianamente concepibili come date una volta per tutte in un numero fisso e definitivamente stabilito, ma vanno intese come «una serie in linea di principio interminabile di prodotti che il pensiero crea, al fine […] di portare avanti il processo infinito della

58 DPG, GW VII, p. 280. 59 Ivi, p. 282. 60 Ibidem. 61 Ivi, p. 282 s.

SCHELER NEOKANTIANO

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scienza» 62; e poiché «al pensiero nulla è dato», spazio e tempo, che in Kant erano forme pure della passiva intuizione sensibile, vengono da Cohen inclusi in questa stessa «serie» produttiva, per essere concepiti anch’essi come «categorie del pensiero» 63.

Quanto al neokantismo sudoccidentale, Scheler individua gli aspetti che lo distinguono da quello marburghese anzitutto nel fatto che «mentre la Scuola di Marburgo ha cercato di orientarsi nel modo più unilaterale alla scienza matematica della natura, a dominare la cerchia degli interessi di questa scuola sono soprattutto le scienze storiche e culturali» 64. In secondo luogo, il Kant che costituisce il termine teorico di riferimento della Scuola è «un Kant già passato attraverso J.G. Fichte» 65. Il fondatore del neokan-tismo sudoccidentale è Wilhelm Windelband, del quale Scheler ricorda in primo luogo l’opera di storico della filosofia, per indicare poi nella sua distinzione tra carattere nomotetico e carattere idiografico delle scienze il punto di partenza (poi superato) per la teoria della storia sviluppata nel testo sui limiti della concettualizzazione scientifico-naturale 66 da Heinrich Rickert, definito «il maggiore e più influente sistematico» 67 tra i neokantiani del Baden. Per questa ragione è proprio la filosofia di Rickert a costituire l’oggetto principale delle riflessioni di Scheler nello scritto del ’22, mentre a quel Windelband che nelle opere jenesi veniva così spesso chiamato in causa viene qui dedicato ben poco spazio. Scheler individua gli elementi portanti della riflessione rickertiana anzitutto nella tematizzazione di un modo della concettualizzazione opposto a quello che cerca di superare la molteplicità data tramite il ricorso alla generalizzazione, consistente viceversa nel cer-care di «determinare in modo sempre più preciso questa molteplicità come ‘individuo’ […] tramite la formazione di concetti individuali» 68. Su questa base, scrive Scheler, Rickert arriva a concepire «individuo» e «universale» come «risultato di due formazioni e modi di trattazione orientati in direzioni contrapposte», che si esercitano però sulla stessa materia dell’esperienza, sebbene in modo tale che «la forma categoriale dell’individuo (Rickert la introduce come una nuova categoria nel sistema categoriale di Kant) possiede significato ‘costitutivo’ per la realtà, mentre alla categoria di legge spetta un significato soltanto ‘regolativo’» 69. Riportando la distinzione tra scienze della natura e scienze storiche a questi due modi contrapposti di

62 Ivi, p 283. 63 Ibidem. 64 Ivi, p. 286. 65 Ibidem. 66 Rickert 19295 (1902). 67 DPG, GW VII, p. 286. 68 Ivi, p. 287. 69 Ibidem.

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concettualizzazione, Rickert giunge così ad affermare (secondo Scheler in modo del tutto arbitrario) il primato metafisico delle seconde sulle prime: «[…] poiché la categoria dell’individuo è costitutiva 70, la realtà mondana è primariamente non ‘natura’, bensì ‘storia’» 71. Alla costituzione dell’oggetto storico-culturale concorre in modo essenziale, insieme alla considerazione individualizzante del dato, il riferimento «a un sistema universale di valori validi», poiché solo questo riferimento consente di «selezionare all’inter-no della incommensurabile ricchezza del reale individuale ciò che è […] culturalmente significativo»; e il compito di individuare i valori spetta alla filosofia, che tanto Windelband quanto Rickert concepiscono appunto come «scienza dei valori universali» 72. Nella teoria della conoscenza infine – che Rickert presenta nell’opera più volte ripresa e rielaborata Der Gegenstand der Erkenntnis 73 – il neokantismo sudoccidentale sostiene un idealismo, che nel giudizio di Scheler «non è un estremo razionalismo e logicismo come quello dei marburghesi, bensì ammette insieme i fondamenti alogici e arazionali della realtà dell’esperienza vissuta data» 74.

Di questa presentazione delle due principali scuole neokantiane colpisce il diverso atteggiamento dell’autore nei loro confronti: pur criticandole entrambe, Scheler tuttavia mostra verso il neokantismo marburghese un maggior rispetto, una considerazione seria e sincera del suo valore filoso-fico, mentre alla scuola sudoccidentale riconosce come punto di merito soltanto il fatto che essa non tenta «di risolvere il mondo intero in pure determinazioni di pensiero» 75 al modo dei marburghesi. Sotto tutti gli altri aspetti, invece, secondo Scheler il neokantismo del Baden

è ampiamente inferiore alla dottrina marburghese: al posto della ricchezza fuori del comune del mondo concettuale marburghese e della sua am-mirevole vastità [Vielseitigkeit] compaiono qui monotone ripetizioni schematizzanti di un paio di concetti basilari oltremodo modesti e miseri, che, uniti all’esaltata [aufgebläht] arroganza dell’Io ereditata da Fichte, si sforzano inutilmente di reggere un’intera filosofia di fronte al tutto dell’universo. 76

Scheler prosegue nella sua severa critica, scrivendo che nel neokantismo sudoccidentale, «proprio come in Fichte, la natura è in fondo soltanto

70 Dunque non soltanto regolativa. 71 Ibidem. 72 Ivi, p. 288. 73 Rickert 19286 (1892). In DPG Scheler cita la terza edizione dell’opera (Tübingen, P. Siebeck, 19153). 74 DPG, GW VII, p. 289. 75 Ibidem. 76 Ibidem.

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‘materiale’ per un vuoto affaccendarsi culturale [Kulturgetue], il cui senso ultimo dovrebbe risiedere in ‘valori’ e ‘validità’ puramente formali che si librano in aria», per arrivare infine ad affermare sarcasticamente che «do-vrebbe addirittura essere considerato un problema psicologico-culturale spiegare come questa che è la più vuota delle scuole kantiane abbia potuto trovare nel nostro paese una espansione così grande» 77.

Certamente Scheler non è tenero nemmeno nei confronti dei marburghe-si. Di Cohen scrive per esempio che egli infuse negli allievi «la convinzione che il logos del mondo fosse attivo in lui stesso e in ognuno di quelli che l’avrebbe seguito», che la sua opera presenta a tratti una «rara oscurità, se non addirittura una frequente astrusità dell’esposizione» 78 e soprattutto che la scienza depositata «nel libri stampati», con la quale Cohen identifica il punto di partenza dell’indagine trascendentale, «sembra come caduta dal cielo» 79. Quanto alle opere storico-filosofiche della scuola (vengono qui citati gli studi di Natorp su Platone, quelli di Cassirer su Leibniz e sulla storia della teoria della conoscenza) 80, secondo Scheler sono «addirittura rovinose per una concezione storica obiettiva della storia della filosofia», poiché in esse «i pensatori trattati vengono valutati quasi esclusivamente sotto il loro aspetto logico e teorico-conoscitivo» 81. Tuttavia l’asprezza di questi giudizi e il loro tono tranchant si mitigano nel momento in cui il lettore si addentra nell’esposizione delle dottrine marburghesi, che nel complesso vengono presentate come solide e rigorose 82, per quanto del tutto alternative alla Sachphilosophie fenomenologicamente orientata sostenuta da Scheler. Complessivamente, dunque, dallo scritto del ’22 emerge una ben diversa valutazione delle due principali espressioni del neokantismo, con una dichiarata preferenza di Scheler per la Scuola di Marburgo rispetto a quella del Baden, come attesta già la produzione degli anni di Jena.

Quanto all’influenza del neokantismo sudoccidentale – segnatamente del caposcuola Wilhelm Windelband –, sulle opere giovanili di Scheler, essa è ben visibile nelle due monografie del biennio 1899-1900. I Beiträge, in primo luogo, ben presentano le grandi unità problematiche che Scheler accoglie da tale indirizzo: il motivo della validità (che, oltre a Windelband,

77 Ivi, p. 290. 78 Ivi, p. 281. 79 Ivi, p. 284. 80 Scheler si riferisce a Natorp 19212 (1903) e 1914, nonché a Cassirer 1902, 19112 e 1920. 81 DPG, GW VII, p. 284 s. 82 Colpisce in particolare il giudizio positivo su Cassirer, del quale Scheler riassume Substanzbegriff und Funktionsbegriff, definita la sua «principale opera teoretico-cono-scitiva»; quanto a Cassirer 1916 e 1921, Scheler li giudica «belli, in parte anche veri e profondi» (DPG, GW VII, p. 285).

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si può far risalire al maestro di quest’ultimo, Lotze, la cui Logik viene spesso citata da Scheler nell’opera del 1899) e la traduzione in termini assiologici dell’a priori kantiano che deriva dalla radicalizzazione di tale motivo; la concezione di logica, etica ed estetica come «scienze normative» e la conseguente trasposizione della kantiana «critica della ragione» nel compito di una «critica assiologica della coscienza»; la demarcazione della filosofia dalla psicologia, conseguita in base ai diversi ambiti oggettuali di riferimento e ai diversi metodi – «critico» per la filosofia che si occupa della «necessità del non essere permesso il contrario», «genetico» per la psicologia che indaga sulla «necessità del non poter essere altrimenti»; la distinzione delle «norme» dalle «leggi di natura» e il conseguente dibatti-to epistemologico sul diverso statuto che va assegnato alle «scienze dello spirito» e a quelle della natura. Questi sono i grandi temi che informa-no i Beiträge ed essi sono direttamente riferibili alle riflessioni svolte da Windelband nei saggi che formano i Präludien. Lo scritto di abilitazione presenta anch’esso significativi debiti nei confronti del caposcuola del neokantismo sudoccidentale: mi riferisco soprattutto alla centralità della questione metodologica come principale lascito della filosofia kantiana; al rilievo critico della presenza, in tale filosofia, di premesse psicologiche non adeguatamente tematizzate da parte di Kant; nonché, in ultimo, al rapporto che la filosofia è chiamata a intrattenere con i saperi specialistici sotto il profilo tanto contenutistico quanto procedurale. Tuttavia, malgrado questa ingente presenza di motivi windelbandiani, è proprio l’opera sul metodo a mostrare, in modo a mio parere molto chiaro, il maggior interesse di Scheler per il neokantismo marburghese rispetto a quello sudoccidentale, portando alla luce una tendenza che già era implicita nei Beiträge. Anzitutto la concezione della filosofia come «scienza dei valori» – in base alla quale logica, etica ed estetica andrebbero intese come ‘scienze normative’ in relazione alle direzioni assiologiche del vero, del buono e del bello – nel-l’opera sul metodo viene decisamente meno: il tema della validità ideale e della sua giustificazione resta senza dubbio al centro delle preoccupazioni scheleriane, ma la direzione in cui il metodo noologico cerca di sviluppare tale tema non è più quella di una «critica assiologica della coscienza» o di una «scienza dei valori universalmente validi», bensì quella di una «meta-fisica critica» che al centro ha la nozione unitaria sebbene non semplice di «spirito» intesa come condizione di possibilità del mondo delle produzioni culturali, non certo quella di «coscienza normale» e del correlato sistema di valori universali, in relazione ai quali poter individuare e giustificare le norme. In secondo luogo la secca alternativa windelbandiana tra metodo critico-trascendentale e metodo psicologico-genetico non viene accolta da Scheler, il quale cerca piuttosto di mediare le istanze dei due metodi nel progetto di una psicologia trascendentale. Inoltre, quanto al rapporto tra

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la filosofia e le scienze, Scheler certamente ritiene, come Windelband, e in generale come tutti gli esponenti del composito movimento di ‘ritorno a Kant’, che la filosofia abbia il compito di comprendere e giustificare il lavoro intellettuale nelle sue molteplici espressioni specialistiche, mostran-do tuttavia, rispetto al caposcuola del neokantismo sudoccidentale, una maggiore preoccupazione per il fatto che i successi delle singole scienze possano rendere superflua la filosofia: proprio per evitare questo rischio, la filosofia deve essere intesa come riflessione metodologica sulle condizioni che rendono possibile l’oggettività del sapere in ogni sua forma.

Teorizzando questa declinazione anzitutto metodologica della filosofia, senza dubbio più interessante e stimolante di quello del Baden pare a Scheler il neokantismo marbughese, che ha esplicitamente fatto coincidere la filosofia con il metodo trascendentale, oltretutto reinterpretato rispetto a Kant in modo tale da rendere ancora più stretto il nesso funzionale tra riflessione filosofica e Fakta scientifico-culturali. Tutte queste ragioni concorrono a spiegare il fatto che nel Durchschnittsbild del metodo trascendentale presen-tato da Scheler – sulla base della considerazione dei tratti comuni ai diversi indirizzi che si richiamano a Kant – l’apporto del neokantismo del Baden sia decisamente scarso, in modo tale che l’«immagine mediana» che nelle intenzioni dell’autore ne dovrebbe risultare non è affatto mediana, bensì molto marburghese e ben poco sudoccidentale. È dunque con la Scuola di Marburgo che Scheler si confronta in vista della configurazione del metodo noologico, il quale accoglierà in sé, come si è visto, alcune delle principali istanze e caratteristiche del metodo trascendentale.

Il frammento della Logik, infine, conferma ampiamente il progressivo distacco da parte di Scheler dal contesto sudoccidentale, all’interno del quale egli aveva esordito sulla scena filosofica: tra le concezioni della logica che l’opera rigetta c’è infatti la logica intesa windelbandianamente come «scienza normativa», espressione particolare di quella logica dello scopo [Zwecklogik] che si contrappone alla transzendentale Richtigkeitslogik in favore della quale Scheler argomenta, sulla base di una posizione di im-pronta chiaramente marburghese. Si può sostenere allora che l’influenza di Windelband sia stata ampia soprattutto nei Beiträge, anche se già in quell’opera, sottolineando la conflittualità tra principi etici e principi logici, Scheler giungeva a introdurre elementi che problematizzavano non poco la nozione windelbandiana di «coscienza normale», ponendo la necessità di un suo ripensamento. In ogni caso, nella configurazione della filoso-fia giovanile scheleriana va riconosciuto a Windelband e al neokantismo sudoccidentale una incidenza effettivamente maggiore e più tecnicamente ‘filosofica’ di quella esercitata dal maestro Eucken, che si è visto essere di natura più genericamente ‘culturale’: si potrebbe dire che la strumentazione concettuale windelbandiana abbia sostenuto Scheler nel raffinamento della

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‘grana grossa’ di quello spiritualismo euckeniano che – secondo le parole dello stesso Scheler – «si trova al limite tra la filosofia scientifica e quella letteratura filosofica un tempo definita edificante» 83.

Quanto al neokantismo marburghese, la disposizione complessiva del giovane Scheler nei confronti della scuola capeggiata da Hermann Cohen può essere sintetizzata col dire che tale indirizzo costituì per lui il più solido termine di riferimento per l’elaborazione della propria filosofia negli anni di Jena. Il che non significa certo che le due monografie del biennio 1899-1900 possano essere definite ‘marburghesi’ nei contenuti e nel metodo: esse, al contrario, mettono in luce le principali difficoltà alle quali va incontro l’orizzonte concettuale dispiegato dalla Scuola di Marburgo, un orizzonte del quale Scheler peraltro riconosce tutta la saldezza e il rigore, cercando insieme di conservarne alcune delle principali istanze, nel momento in cui abbozza le linee direttrici della sua filosofia noologica. Se si considera poi che il progetto noologico di riforma dell’a priori non venne più sviluppato dopo lo scritto di abilitazione in cui era stato annunciato e, soprattutto, che il principale programma filosofico al quale Scheler lavorò negli anni successivi fu la Logik – opera, questa sì, sostanzialmente ‘marburghese’ nei contenuti e nel metodo –, si può sostenere che tra 1904 e 1906 egli tentò di far cadere le resistenze fino ad allora opposte all’idealismo coheniano, salvo in ultimo decidere bruscamente di ritirare l’opera dalle stampe.

Senza dubbio la Logik stride con i Beiträge e con lo scritto sul metodo sotto molti aspetti: la concezione della logica come «scienza normativa», esplicitamente sostenuta nei Beiträge, nel frammento sulla logica viene abbandonata e sottoposta a severa critica; nessun accenno viene fatto al progetto di una psicologia trascendentale, che invece entrambe le opere del biennio 1899-1900 auspicavano e in parte tentavano; morale e «scienze dello spirito», tra gli ambiti privilegiati della precedente riflessione scheleriana, vengono qui del tutto trascurate in favore del settore forse più rarefatto della ricerca filosofica, la logica appunto; soprattutto, la Logik der reinen Erkenntnis di quel Cohen in precedenza più volte sottoposto a critica viene qui citata sempre con approvazione. Proprio a partire dal chiarimento di quest’ultimo punto si può acquisire l’elemento fondamentale per tentare di comprendere la particolarità della Logik I nel contesto della riflessione giovanile scheleriana, un chiarimento che richiede in primo luogo una con-testualizzazione della Logik der reinen Erkenntnis nel quadro della filosofia di Hermann Cohen. Nel complesso della vicenda intellettuale coheniana, l’opera del 1902 presenta infatti, come è stato scritto, un «carattere di au-torevisione e, per certi versi, di rovesciamento delle posizioni precendenti»,

83 DPG, GW I, p. 273.

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sicché ciò che colpisce in essa è «la distanza non solo dal Kant ‘storico’, ma dallo stesso Kant ‘sistematico’ del Cohen degli anni ’80» 84. Rispetto al Kant «storico», nella Logik quella reinterpretazione dinamicizzante dei rapporti tra i «due tronchi dell’umana conoscenza» già avviata da Cohen nelle precedenti opere si radicalizza al punto tale da portare alla negazione della distinzione stessa tra intuizione pura e pensiero puro, con l’elevazione di spazio e tempo al piano della attiva determinazione categoriale; non solo, ma rispetto al Kant «sistematico» – ossia il Kant reinterpretato da Cohen nella Kants Begründung der Ethik (1877), nello scritto sul metodo infini-tesimale (1883), nella seconda edizione della Kants Theorie der Erfahrung (1885) e nella Kants Begründung der Ästhetik (1889) –, il tema della origi-naria e dunque costitutivamente incessante produttività del pensiero puro in relazione al divenire del processo scientifico-conoscitivo fa sì che venga in primo piano «l’intreccio di logica e storia, di dimensione categoriale e processualità dell’impresa scientifica»: in questo quadro non si tratta più «di costruire un sistema di categorie in sé concluso e dedotto da un prin-cipio speculativo, bensì di accogliere entro una connessione funzionale, dinamica, aperta» 85 i motivi concettuali che hanno informato di sé la storia del pensiero scientifico, indicandone le linee direttrici di sviluppo.

Se si tiene presente la profonda innovazione rappresentata dall’opera del 1902 rispetto alla riflessione coheniana anteriore, si può comprendere perché Scheler abbia tentato di elaborare la propria transzendentale Rich-tigkeitslogik sulla sua base, abbandonando quindi le riserve precedente-mente nutrite nei confronti della filosofia trascendentale cohenianamente reinterpretata. La Logik der reinen Erkenntnis, infatti, in primo luogo elimina le ipoteche sensiste e psicologistiche che ancora gravavano sulla filosofia kantiana, a causa di quella che, nello scritto sul metodo, Scheler riteneva l’ambigua dottrina dell’estetica trascendentale; inoltre, e soprattut-to, l’opera del 1902 corregge proprio quell’aspetto della reinterpretazione coheniana della filosofia trascendentale che aveva attirato su di sé le più severe critiche di Scheler anzitutto nello scritto di abilitazione, vale a dire il divario tra esperienza possibile ed esperienza reale, l’incapacità del pia-no trascendentale delle condizioni di possibilità di far fronte alla storicità dell’impresa scientifica.

Senza dubbio la Logik I presenta in larga parte un tratto comune al-l’intera produzione scheleriana degli anni di Jena, ossia il prevalere di ricostruzioni critiche di altre posizioni filosofiche sull’elaborazione positiva e sistematica di una proposta personale. Ciononostante l’ampio frammento

84 Ferrari 1988, p. 63 s. 85 Ivi, p. 67.

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superstite resta un caso a sé anche sotto questo aspetto: in esso, infatti, la critica alle concezioni della logica avverse viene svolta sulla base non di progetti teorici che restano solo abbozzati – quali il saggio di psicologia trascendentale tentato dai Beiträge o la filosofia noologica dello scritto sul metodo –, quanto piuttosto sulla scorta di una posizione filosofica che nei suoi tratti fondamentali si presenta come estremamente solida e sicura, da quanto emerge con chiarezza dalle rigorose argomentazioni dispiegate da Scheler contro i suoi diversi interlocutori, nonché dalla ricostruzione dei contenuti di cui avrebbe dovuto occuparsi l’ambizioso secondo volume 86. E, sulla base di quanto si è mostrato nel capitolo espressamente dedicato alla Logik, la solidità e la sicurezza che Scheler vi mette in mostra si giusti-ficano proprio sulla base del rimando all’autorità di Cohen, un rimando che si fa esplicito laddove egli cita espressamente il fondatore della Scuola di Marburgo, sempre a proposito di questioni fondamentali, sempre per dichiarare il suo totale accordo.

In conclusione la trama delle influenze costitutive della produzione giovanile di Scheler si può riassumere nel modo seguente: per il suo de-butto filosofico egli scelse come palcoscenico il neokantismo assiologico di Windelband, del quale tuttavia i Beiträge già offrono una problematizza-zione tale da incrinarne l’apparente solidità; con l’opera sul metodo cercò quindi di dare consistenza alla filosofia noologica di Eucken, prendendo dall’indirizzo psicologistico e soprattutto dal neokantismo marburghese quella strumentazione concettuale che al maestro mancava; fu però nella Logik che egli abbracciò senza riserve e senza tentativi di correzioni sin-cretistiche una posizione filosofica con la quale andava confrontandosi da anni. Il più solido tentativo scheleriano di «andare con Kant oltre Kant» si svolse quindi sotto l’egida di Hermann Cohen. E proprio il fatto che la logica della scoperta scientifica presa a modello da Scheler nel frammento del 1904-1906 sia così peculiarmente e inequivocabilemente coheniana nei contenuti e nel metodo concorre forse a spiegare perché della logica scheleriana restò soltanto un frammento, sebbene dall’impostazione tanto sicura: accanto alle ragioni pratiche che motivarono la decisione di ritira-re il testo dalla pubblicazione, si può ipotizzare che Scheler abbia infine compreso come il margine di azione speculativa a disposizione della sua

86 Si veda Willer 1975, pp. 280-285, dove il curatore della riedizione in ristampa anastatica del frammento della Logik tenta, sulla base di quanto Scheler preannuncia nelle pagine rimasteci, una ricostruzione dei contenuti del secondo volume che avrebbe dovuto comporre l’opera: tra essi, una dottrina del giudizio; il confronto con alcune teorie dell’evidenza; una teoria delle proposizioni esistenziali; una teoria degli assiomi della logica; un capitolo sull’errore; una dottrina delle categorie; una trattazione di spazio e tempo; una dottrina dei concetti; una dottrina del sillogismo; una parte dedicata al concetto di scopo.

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logica trascendentale sarebbe stato estremamente limitato dall’imponente proposta coheniana.

A questo punto si può finalmente disporre di tutti gli elementi necessari per circoscrivere il problema generale che mosse la riflessione filosofica di Scheler negli anni di Jena. A tal fine va anzitutto riscontrata una costante attenzione, da parte del giovane filosofo, per questioni di ordine fondazio-nale: l’individuazione delle condizioni che rendono possibile conoscenza e morale, e i rapporti che intercorrono tra esse, il problema del metodo in filosofia, l’elaborazione trascendentale della logica come scienza gene-rale dell’oggettività sono i principali argomenti ai quali Scheler lavorò in questo periodo, e tutte e tre le questioni sono riconducibili al problema complessivo della fondazione delle diverse forme oggettive dell’esperienza, nel senso kantiano della giustificazione e legittimazione della loro pretesa di determinare a priori, ossia in modo universalmente valido, i diversi am-biti oggettuali. È quindi all’interno di questo orizzonte problematico che Scheler inserisce la sua riflessione giovanile, un orizzonte che egli tuttavia non accoglie passivamente, ma del quale viene via via individuando le principali difficoltà. Tali difficoltà Scheler le ravvisa nel rapporto tra piano trascendentale delle condizioni di possibilità – siano queste grandi unità assiologiche sulla scorta di Windelband o funzioni legali di produzione dell’oggettività come per il marburghese Cohen – e piano effettivo delle realizzazioni storiche da esse rese possibili, più precisamente in relazione a due questioni-chiave: la diversità qualitativa delle oggettivazioni dell’espe-rienza e la loro storicità. In questo senso si potrebbe dire che le domande conduttrici della filosofia giovanile scheleriana siano state le seguenti: in primo luogo, come si giustifica in assenza di un criterio immediatamente ontologico la diversità dei modi di oggettivazione dell’esperienza? In se-condo luogo, come è possibile conciliare la pretesa trascendentale di indi-viduare le condizioni dell’‘esperienza possibile’ con il divenire incessante dell’esperienza reale?

Le risposte che il giovane Scheler tentò di dare a queste domande mi sembra vadano cercate nel tema della psicologia trascendentale e in quello di una riforma in senso contenutistico e storicizzante dell’a priori, motivi che comportano una profonda revisione del piano trascendentale delle con-dizioni di possibilità, per far sì che esso riesca a fronteggiare la molteplicità qualitativa e diveniente dell’esperienza. Recuperare la psicologia in senso dinamico-funzionale, in modo da ‘elevare’ le facoltà dal piano psichico a quello trascendentale e da poter quindi porre ‘intelletto’ e ‘sentimento’ come «soggettivazioni» (per usare un termine natorpiano) nella vita immediata della coscienza di due forme oggettive d’esperienza qualitativamente diverse come conoscenza e morale, è la strada tentata da Scheler nei Beiträge per giustificare la molteplicità qualitativa attestata dall’esperienza. Quanto

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invece alla storicità delle forme oggettivate dell’esperienza, nello scritto sul metodo si è visto Scheler auspicare, più che articolare sistematicamente, un nuovo apriorismo, nel quale si tratta di rinunciare alla pretesa che l’a priori possa «valere per ogni ‘esperienza possibile’», per accontentarsi in-vece «della validità per una cultura storicamente determinata» 87, in modo tale che si dovrà ammettere una serie di contenuti culturali a priori, tanti quanti sono stati, sono e saranno gli ambiti dell’esperienza che necessita-no di giustificazione. Tanto il progetto di una psicologia trascendentale, quanto quello della riforma dell’apriorismo resteranno tuttavia in uno stato preparatorio che non troverà ulteriori sviluppi significativi negli anni che seguirono il biennio 1899-1900. Si resterebbe quindi sostanzialmente delusi, se nel percorso filosofico seguito da Scheler negli anni di Jena si cercassero vere e proprie risposte alle due domande alle quali tale percorso è stato qui ricondotto; piuttosto sono proprio queste due domande, il fatto stesso che nei Beiträge e nello scritto sul metodo non abbiano trovato risposte adeguate, insieme al tentativo ambizioso ma alla fine abortito della Logik, a restituire il significato complessivo della riflessione filosofica del giovane Scheler: una riflessione che si inserì problematicamente e criticamente all’interno del paradigma trascendentale inaugurato da Kant, e poi svolto dalle diverse figure del neokantismo, e che dunque va compresa in rela-zione a questo paradigma, ai suoi ‘rompicapi’ e alle sue ‘anomalie’. Il che è quello che si è cercato di fare qui, evitando di cedere alla tentazione di interpretare questa parte della filosofia scheleriana come semplice preludio interlocutorio della successiva produzione fenomenologica di Scheler, la comprensione della quale potrebbe soltanto beneficiare di un approccio, esattamente inverso a quello finora dominante la letteratura secondaria, che veda nel ‘dopo’ tracce del ‘prima’.

87 Methode, GW I, p. 253.

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V

IL PRIMA NEL DOPO: DUE PROPOSTE INTERPRETATIVE

Il modo più efficace di concludere la presente indagine sulla filosofia del giovane Scheler mi sembra essere quello di provare a saggiarne l’imposta-zione metodologica e la tesi storico-filosofica in relazione agli sviluppi presi dalla riflessione del filosofo negli anni della maturità. In altre parole, dopo aver mostrato che il neokantismo scheleriano – lungi dall’essere nulla più che una generica etichetta da apporre a opere giovanili ancora informi –, si situa invece in una ben definita costellazione concettuale, della quale ac-coglie l’orizzonte problematico, utilizza gli strumenti e accetta le principali opzioni di fondo; si tratta ora di far vedere come tale neokantismo abbia lasciato in dote a Scheler elementi che rientrano come fattori costitutivi in alcune delle principali teorie sostenute dal filosofo nelle cosiddette fasi «fenomenologica» e «metafisico-panenteistica» del suo pensiero. Per cogliere questo permanente indebitamento concettuale nei confronti della tradizione kantiana si esamineranno due luoghi centrali del pensiero di Scheler: la riforma cui egli sottopone il concetto di a priori, ossia la piattaforma teorica sulla quale edifica l’etica materiale dei valori e critica il formalismo etico, e il rapporto tra metafisica e antropologia per come viene presentato in alcuni testi risalenti agli ultimi anni di vita del filosofo.

Prima di procedere, bisogna però spendere qualche parola sul contesto storico-filosofico in cui si inserisce una tale operazione ermeneutica, con riferimento in particolare alla figura di Scheler e in generale al rapporto tra i due indirizzi filosofici del neokantismo e della fenomenologia. Anzitutto si deve precisare che questa ricerca non intende affatto rendere Scheler più neokantiano di quanto effettivamente egli sia stato; l’obiettivo primario dell’indagine è semplicemente quello di dare una precisa fisionomia al suo neokantismo giovanile, come si è cercato di fare nei capitoli precedenti.

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1 In direzione opposta, volta a sottolineare la continuità problematica e le profonde interconnessioni tra i due indirizzi, si muovono i seguenti studi, tra quelli che più mi sono serviti per la presente indagine: Brelage 1965; Kern 1965; Gigliotti 1989; Besoli et al. 2001. 2 Stein 19993, p. 228. 3 Cohen 19142 (1902), p. 56. Si veda anche Natorp 1918 (b), p. 45, dove l’autore sostiene che Husserl non sempre riesce a sottrarsi all’accusa, «(che sotto altri aspetti respinge a ragione), per cui egli farebbe ritorno alla scolastica».

Una volta raggiunto tale obiettivo, le considerazioni che seguono non si propongono, dunque, l’intento di sostenere che Scheler, senza saperlo, sarebbe rimasto per così dire un neokantiano travestito da fenomenolo-go. L’intenzione è piuttosto quella di inserire la vicenda intellettuale di Scheler in un più ampio quadro insieme storico e filosofico, centrato su un’immagine del rapporto tra neokantismo e fenomenologia diversa da quella che per lungo tempo si è imposta e tale da giustificare – o quanto meno da non far apparire peregrino – il tentativo di rintracciare strutture e motivi neokantiani nei presupposti della fenomenologia scheleriana della vita emotiva e nel nesso sistematico che nella sua tarda riflessione il filosofo instaura tra metafisica e antropologia.

1. NEOKANTISMO E FENOMENOLOGIA

L’immagine ‘tradizionale’ dei rapporti tra neokantismo e fenomenologia presenta le due posizioni filosofiche come contrapposte e in alternativa, fino al limite della incommensurabilità 1. Una tale immagine ha potuto sedimentarsi sulla base di ciò che i protagonisti dei due orientamenti, ma anzitutto i fenomenologi di Monaco e di Gottinga, ebbero a dichiarare in proposito. Tra le testimonianze che rendono più efficacemente il modo in cui i fenomenologi intesero il loro rapporto con la tradizione criticistica c’è il seguente passo di Edith Stein, dove l’assistente di Husserl scrive:

Le Ricerche logiche avevano suscitato scalpore soprattutto perché appari-vano come un distacco radicale dall’idealismo critico di impronta kantiana e neo-kantiana. Vi si rintracciò una ‘nuova Scolastica’, poiché lo sguardo si distoglieva dal soggetto per rivolgersi alle cose: la conoscenza apparve di nuovo un accogliere che riceve la sua legge dalle cose stesse, non – come nel criticismo – un determinare che costringeva le cose ad accettare la sua legge. Tutti i giovani fenomenologi erano realisti convinti. 2

Fu Hermann Cohen a definire (sprezzantemente, a differenza di Stein) la fenomenologia una «nuova Scolastica», scrivendo che «essa è […] nel migliore dei casi ontologia, intesa come prima parte della metafisica» 3.

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4 Münch 2000, p. 521. 5 La valutazione del primo volume di Ideen come tradimento idealistico delle istanze contrapposte avanzate nelle Ricerche logiche si fissa fin da subito nella ricezione dell’opera husserliana da parte dei fenomenologi monacensi e gottinghesi: a questo proposito cfr. Avé-Lallemant 1975 (a); per contro, sulla filosofia fino alle Ricerche logiche rispetto al pen-siero husserliano seguente, si veda Husserl 1999. Un’analoga avversione per la prospettiva trascendentalistica si registra recentemente p. es. in Dieter Münch, il quale spiega la ‘svolta’ sulla base di «fattori esterni alla filosofia» e relativi alla biografia di Husserl, sostenendo che essa sarebbe «inaccettabile dal punto di vista della sua precedente concezione della filosofia», col proposito, questo sì filosofico, di «demitologizzare lo Husserl trascendentale per potersi collegare di nuovo all’opera precedente» (Münch 2000, p. 504). Sul versante opposto si veda p. es. Franzini 2002, p. XIII nota 2 («è il concetto stesso di svolta che non si adatta al metodo ‘stratificato’ del lavoro di Husserl»); si veda anche English 2006, p. 336, dove, pur mostrando in tutta la sua complessità l’itinerario che condusse Husserl alla trascendentalizzazione della fenomenologia, si sostiene che «la fenomenologia sia e non possa che essere trascendentale». In Costa 2002, p. 435, il primo volume di Idee è definito al tempo stesso «un punto di arrivo, un momento di svolta e l’inizio di un nuovo percorso di pensiero». In Lavigne 2005, p. 720, si ricostruisce il divenire del pensiero husserliano dalle Ricerche fino al primo volume delle Idee, con l’obiettivo di dirimere l’annosa questione interpretativa che vede i sostenitori della ‘svolta’ opposti a quelli della ‘continuità’, mettendo in luce le diverse opzioni filosofiche implicite nelle due letture e giungendo alla conclusione seguente, che mi pare condivisibile: «[…] si può dire allora che nel 1901 Husserl sia già idealista […] ma che la fenomenologia che egli pratica non lo sia necessariamente. Husserl aderisce, all’epoca delle Ricerche logiche, a un idealismo tendenziale, frutto di convinzione personale, ma per lui il legame tra questa interpretazione personale e i risultati scientifici del metodo fenomenologico non è ancora stabilito». 6 P. es. cfr. Husserl 19132 (1901), vol. XIX/1, p. 221 (trad. it., vol. I, p. 489), dove riguardo alla distinzione tra contenuti astratti e contenuti concreti, Husserl sostiene espressamente che la distinzione ha «un valore ontologico», supera cioè l’ambito dei fenomeni di coscienza, visto che «sono possibili anche oggetti che si trovano di fatto al di là di una manifestazione accessibile a qualsiasi coscienza umana in generale. In breve questa distinzione […] entra nel quadro di un’ontologia formale a priori». Si veda, insieme a questi paragrafi che chiudono la Seconda ricerca, soprattutto l’intera Terza ricerca. Infine si veda il passo della Quinta ricerca in cui Husserl, confrontandosi con Natorp, scrive di non riuscire «affatto a scoprire questo io primitivo come necessario centro di riferimento. Tutto ciò che io posso notare, e quindi percepire, non è altro che l’io empirico», Husserl 19132 (1901), vol. XIX/1, p. 374 (trad. it., vol. II, p. 151).

Cambiato di segno da negativo in positivo, il modo in cui Cohen valutò le Ricerche husserliane è quindi lo stesso in cui le accolsero quei fenomenologi che vi videro «una sfida nei confronti del neokantismo» 4 e che in seguito, nel 1913, si sentirono traditi da Ideen I e dalla «svolta trascendentale» 5 che Husserl vi avrebbe compiuto, rendendo pubblico un orientamento già preso a partire dal 1906.

Nonostante gli sforzi di Husserl per ricomprendere le fasi di sviluppo del suo pensiero in senso unitario, se non internamente teleologico, in alcuni passi le Ricerche logiche presentano in effetti posizioni quanto meno eccentriche rispetto al trascendentalismo esplicitamente perseguito dal 1913 in poi 6.

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La particolarità delle Ricerche rispetto all’impronta trascendentale in seguito conferita da Husserl alla sua riflessione trova conferma anche nella rice-zione dell’opera all’interno del dibattito filosofico attuale: facendo ricorso a schematismi forse abusati, ma funzionali, da un lato ci sono oggi filosofi ‘analitici’ molto interessati alle Ricerche husserliane (soprattutto quelle su espressione e significato, sulle teorie relative alla formazione del concetto, sulla mereologia come settore dell’ontologia formale), che essi intendono in chiave senz’altro realistica; dall’altro lato, nella ricezione ‘continentale’ dell’opera, più che dei temi in essa trattati ci si occupa della sua compati-bilità con la riflessione husserliana posteriore di impianto trascendentale, alla quale vengono indubbiamente riservate le attenzioni maggiori e più filosoficamente ‘vive’. Su un versante, quindi, ci sono coloro che nelle Ri-cerche vedono un’opera di impostazione realistica e che nel primo volume di Idee ravvisano una svolta trascendentale del tutto biasimevole, sull’altro coloro che nelle Ricerche vedono già i prodromi del seguente idealismo fenomenologico trascendentale e che quindi non ammettono alcuna svolta, quanto piuttosto una evoluzione implicita in ciò che precede.

A seconda del lato in cui ci si schiera, dovrebbe naturalmente cambiare il modo in cui intendere il rapporto tra neokantismo e fenomenologia. Sul primo versante, intesa la fenomenologia sotto il segno del realismo onto-logico, il rapporto non può che essere di contrapposizione; sul secondo versante, invece, se si vuole seguire l’invito di Husserl a considerare se-condo una linea di continuità le fasi di sviluppo della fenomenologia – da un’impostazione statico-descrittiva a una genetico-costitutiva in senso trascendentale –, allora neokantismo e fenomenologia andrebbero consi-derate come figure di uno stesso paradigma, quello appunto della filosofia trascendentale inaugurata da Kant. Da questo secondo punto di vista, la ricezione delle Ricerche logiche alla luce di un ‘realismo convinto’ sarebbe il ‘fraintendimento’ cui poter ricondurre gran parte delle vicissitudini che formano la storia del cosiddetto ‘movimento’ fenomenologico – che, come è noto, è storia fatta di tradimenti e traditori, «di secessioni e di diaspore» 7. Tale fraintendimento, va ribadito, certamente trova ben più di un sostegno nell’opera husserliana 8, come mostra il fatto che i fenomenologi realisti

7 Besoli - Guidetti 2000, p. 11. 8 Cfr. Ingarden 1975, in part. il primo capitolo. A fondamento dell’interpretazione delle Ricerche logiche nel senso di un realismo ontologico, Ingarden indica quel passo del capitolo dei Prolegomeni intitolato L’idea della logica pura – Husserl 19132 (1900), p. 230 s. (trad. it., p. 235 s.) – che si è visto essere al centro della critica di Scheler nella Logik I (cfr. supra, cap. III, § 2.4.3.): Ingarden racconta (Ingarden 1975, p. 8) che nel 1927, quando disse a Husserl che per le sue ricerche aveva letto tra l’altro il capitolo dei Prolegomeni in questione, questi esclamò: «Oh, ma perché l’avete letto, lì mi sono sbagliato a tal punto!». Sul fatto che alcune formulazioni di Husserl abbiano suscitato

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ebbero ottimi argomenti per sostenere che nel 1913 fosse stato piuttosto Husserl a fraintendere se stesso e quanto da lui sostenuto nelle Ricerche, così come oggi, tra coloro che si occupano di ontologia formale, c’è chi può ben vedere nell’opera husserliana del 1900-1901 «il più importante contributo all’ontologia realistica (aristotelica) in epoca moderna» 9.

Personalmente ritengo che l’opera con cui si inaugura il progetto fe-nomenologico sia di natura tale da prestarsi, più di quanto accade normal-mente, a operazioni ermeneutiche di segno contrapposto, anzitutto per la struttura e la storia stessa del testo: si può ricordare in proposito come alcuni di coloro che salutarono nello Husserl dei Prolegomeni il campione dell’anti-psicologismo di impronta realistica avessero iniziato a insospettirsi già nel leggere le sei ricerche del secondo volume, per poi vedere in Ideen I la conferma dei loro cattivi presagi 10. Tuttavia, fatta salva la legittimità di prendere dall’opera di un autore quello che più serve ai propri scopi (co-me si fa oggi soprattutto in area ‘analitica’ con Husserl e in generale con la storia della filosofia tutta), ritengo che, intesi nel loro complesso, i due volumi delle Ricerche non possano essere letti all’interno dell’opposizione in senso prekantiano tra idealismo e realismo. Non credo, insomma, che nel motto della fenomenologia alle cose stesse si possa ravvisare una svolta realistica verso l’oggetto 11 rispetto all’idealismo trascendentale allora im-perante, per poi contrapporle la successiva evoluzione di Husserl come una ‘contro-svolta’ idealistica verso il soggetto, perché, su questa base, la stessa fenomenologia ‘descrittiva’ delle Ricerche risulterebbe difficilmente comprensibile. Nelle intenzioni del suo fondatore la fenomenologia si pone infatti al di là della contrapposizione tra soggetto e oggetto, e individua il proprio ambito tematico nella correlazione intenzionale che definisce la struttura del vissuto di coscienza: proprio per questo non mi pare si colga nel segno deprecando o salutando nelle Ricerche la riproposizione di un realismo ontologico. Non è il caso in questa sede di addentrarsi

l’impressione che egli nelle Ricerche logiche avesse voluto «sfuggire allo psicologismo logico solo tramite un platonismo logico», ma che d’altra parte già la Quinta e la Sesta ricerca abbiano poi incrinato a fondo tale impressione, introducendo il tema della costituzione (cfr. Ströker 1987, p. 51). 9 Smith - Mulligan 1982, p. 37. 10 Si veda quanto detto infra a proposito di H. Conrad-Martius. 11 Cfr. Gadamer 1963, p. 117. A questo proposito si veda quanto scrive Brelage 1965, p. 114: «Anche la fenomenologia di Husserl risale ai principi, alle origini. Ma per lui ha carattere di principio la cosa data intuitivamente nel modo della autodatità per ogni conoscenza soltanto pensante. In questo senso, e non come programma di una filosofia realistica, va intesa l’esigenza di tornare ‘alle cose stesse!’», sicché la teoria husserliana della conoscenza «non è un puro intuizionismo» e «il suo ideale della conoscenza non è la pura intuizione senza pensiero […], bensì l’intuizione come riempimento delle intenzioni di pensiero».

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nella intricatissima selva degli studi dedicati alla ricostruzione delle fasi conosciute dalla filosofia husserliana e nemmeno si vuole affermare che le innovazioni teoriche (la riduzione anzitutto) successive alla stesura delle sei ricerche fossero già contenute nell’opera precedente; semplicemente, già la fenomenologia descrittiva ivi dispiegata e l’assunzione fondamentale che vi sta alla base – in forza della quale, come è stato scritto, «la decisione su che cosa sia in ultima analisi un oggetto di una specie qualsiasi, e in che senso esso sia, può essere presa solo tramite l’analisi delle sue maniere di datità o manifestazione nella coscienza» 12 – mi sembrano escludere una interpretazione della posizione husserliana in senso realistico. Le riflessioni successive alla pubblicazione delle Ricerche e il primo libro di Idee in cui esse trovano sistematizzazione non mi paiono allora ‘rovesciare’, bensì chiarire, approfondire, dinamicizzare (e inevitabilmente modificare e complicare) l’impostazione dell’opera con cui si inaugura il progetto fenomenologico: tali riflessioni, approfondendo il problema della fondazione e giustificazio-ne della conoscenza, non fanno che tornare «sul metodo e sui temi delle Ricerche logiche stesse, ribadendo la necessità di portare al centro della riflessione la questione fondativa della tradizione scientifica della filosofia occidentale, cioè il problema del trascendentale» 13.

In questo quadro, ben diverso da quello che si prospettava ai «giovani fenomenologi» di cui parla Stein nel passo citato in precedenza, i rappor-ti tra neokantismo e fenomenologia assumono un’altra forma: non più paradigmi incommensurabili, ma figure, per quanto ben distinte, di uno stesso paradigma, quello inaugurato dal progetto kantiano di una critica della ragione, dall’interrogazione sulle condizioni soggettive che rendono possibile le diverse forme in cui l’esperienza si presenta oggettivata. Il che non significa allora voler cancellare la contrapposizione di neokantismo e fenomenologia; significa piuttosto sostenere che il senso autentico della loro contrapposizione può essere colto solo all’interno del paradigma iniziato da Kant, del quale i due indirizzi portano a espressione tensioni contrapposte e implicite già nella filosofia kantiana che vi sta alla base.

L’elemento in forza del quale neokantismo e fenomenologia possono essere indicati come espressioni di uno stesso paradigma filosofico sta in ciò che accomuna il modo in cui i due indirizzi intendono i loro ambiti di indagine e il lavoro da compiere su di essi. Vincolare il lavoro filosofico ai Fakta culturali, come fa il neocriticista, che li scompone regressivamente risalendo alle loro condizioni di possibilità, oppure ai vissuti di coscien-za, da portare a datità evidente nell’intuizione, come fa il fenomenologo,

12 Bernet - Kern - Marbach 1989, p. 262. 13 Franzini 2002, p. XVII.

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sicuramente significa avere concezioni della filosofia e assunzioni di ba-se estremamente distanti; tuttavia i due ambiti sono accomunati, su un versante, da ciò che Husserl chiama la «meravigliosa correlazione» 14 tra fenomeno e oggetto – ossia l’intenzionalità –, in base alla quale «tutti gli oggetti e i riferimenti all’oggetto sono per noi ciò che sono solo in virtù degli atti dell’intenzionare […] nei quali essi ci sono resi presenti […] appunto come unità intenzionate» 15, e, sul versante neokantiano, da ciò che si pone come l’inscindibile correlazione tra i diversi fatti culturali e il piano unitario delle loro condizioni trascendentali di possibilità. Tanto il fatto culturale quanto il vissuto intenzionale vengono infatti intesi dal neokantiano e dal fenomenologo non come dati conclusi e definiti in una oggettualità trascendente o sulla sua base, bensì come unità complesse, correlativamente strutturate, frutto di successive stratificazioni di ope-razioni costitutive di ciò che nell’immanenza ‘appare’ come oggettualità trascendente. Il correlativismo – intenzionale l’uno, trascendentale l’altro – è allora la posizione fondamentale che permette di ricondurre neokantismo e fenomenologia all’interno del paradigma kantiano: la svolta copernicana insegna che la riflessione non deve tematizzare direttamente l’oggetto, ma il modo in cui esso si dà nella nostra conoscenza, all’interno di un quadro imprescindibilmente correlativistico. Una posizione audacemente sviluppata dal neokantismo marburghese – nel quale la correlazione tra conoscenza e oggetto di conoscenza diventa il primum rispetto ai correlati stessi, sicché soggetto e oggetto si pongono come gli esiti dei processi complementa-ri e inversi di soggettivazione e oggettivazione – e che informa in modo essenziale i termini in cui la questione viene posta nella fenomenologia, nella misura in cui si pone il compito di comprendere «come il mondo oggettivo si costituisca nella coscienza con il suo indice di oggettività e trascendenza» 16, pur con l’istanza di garantire la diversità e l’irriducibilità dei momenti della correlazione. Facendo riferimento alla metodologia e ai contenuti offerti dalla filosofia kantiana, nonché (se non soprattutto) ai problemi che essa lascia insoluti, è allora possibile cogliere tanto la parentela che lega neokantismo e fenomenologia, quanto gli elementi di innovazione che i due indirizzi introducono e in forza dei quali essi si specificano e si contrappongono.

Una significativa convergenza si registra nelle critiche mosse alla filosofia di Kant e a certe sue interpretazioni. Lo si vede particolarmente nell’accusa di sensismo in relazione alla teoria kantiana dell’affezione – in base alla quale si chiama «sensibilità la recettività del nostro animo nel ricevere le

14 Husserl 1907, p. 12 (trad. it., p. 51). 15 Husserl 19132 (1901), vol. XIX/1, p. 48 (trad. it., vol. I, p. 308). 16 Brelage 1965, p. 116.

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rappresentazioni, in quanto ne venga in qualche modo colpito [afficirt]» 17 –, nonché nella denuncia dell’equivoco soggettivistico e psicologistico che si annida in interpretazioni sostanziali delle forme a priori, come quella offerta da Lange. In relazione al primo punto, come si è già visto, Cohen scrive nella Logik der reinen Erkenntnis della «debolezza per il cui tramite Kant è unito al suo secolo inglese», in base alla quale egli condividerebbe alcune premesse «dell’empirismo sensistico e scientifico» 18, mentre Husserl sostiene da parte sua che il «traviamento naturalistico-sensistico dell’intera psicologia moderna fondata sull’esperienza interna […] ha arrestato la filosofia trascendentale kantiana, la filosofia della rivoluzione copernicana, dal corso della sua piena effettuazione» 19. Quanto all’interpretazione in senso psico-fisiologico dell’a priori, se Husserl nei Prolegomeni inserisce Lange nelle file degli psicologisti, Cohen molti anni prima aveva già chiarito come la posizione dell’autore della Storia del materialismo segnasse una ricaduta nel dogmatismo («se questi principi pretendono di valere a priori all’interno dell’esperienza presupposta, non possono essere ricavati da un mondo delle cose!» 20). Più in generale su entrambe le sponde si ha ben chiaro che il grande problema lasciato aperto da Kant sta, con le parole di Natorp, in quel «dualismo dei fattori conoscitivi» (intuizione della sensibi-lità ricettiva e concetto dell’intelletto spontaneo) che nella versione datane da Kant «è semplicemente impossibile, se si deve prendere seriamente il pensiero centrale del metodo trascendentale» 21.

Tenendo presente questa convergenza di neokantismo e fenomenolo-gia nell’individuazione dei nuclei problematici all’interno della riflessione kantiana, si può allora cogliere il senso generalissimo della loro contrap-posizione, o meglio, della contrapposizione fra le strade intraprese dai due indirizzi per superare le difficoltà kantiane e liberare la riflessione da ogni possibile recrudescenza di modalità dogmatiche di pensiero. Richiamando quanto Husserl scrive a Natorp in una celebre lettera già citata 22, si può dire che il neocriticismo marburghese procede «dall’alto» del fatto della scienza e ricompone il dualismo kantiano di estetica e logica col ricondurre la prima nell’ambito della seconda, mentre la fenomenologia, in direzio-ne opposta, sceglie di partire «dal basso» del vissuto di coscienza, nella convinzione che il dualismo kantiano dei fattori conoscitivi possa essere superato riportando la logica alle sue origini intuitive. Rispetto a Kant, il

17 Kant 17872 (1781), KGS III, p. 75 (trad. it., p. 125). 18 Cohen 19142 (1902), p. 27. 19 Husserl 1929, p. 262 (trad. it., p. 314). 20 Cohen 19102 (1877), p. 35 (trad. it., p. 40). 21 Natorp 1912 (b), p. 201. 22 Husserl a Natorp, 18 marzo 1909, in Husserl 1994, p. 110 s.

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quale afferma che l’intelletto non può intuire nulla, né i sensi nulla pensare, il tentativo marburghese è in un certo senso quello di far intuire l’intellet-to 23, mentre la sfida accettata dalla fenomenologia è cercare di mostrare come i sensi possano pensare. Entrambe le filosofie, dunque, distruggono «l’equilibrio stabilito da Kant tra intuizione e pensiero» 24, connettendo in senso operativo i centri nevralgici del paradigma kantiano: intuizioni e concetti, sensibilità e intelletto in entrambe le prospettive vanno intesi come titoli generali sotto cui confluiscono i diversi momenti in cui si articola la costituzione dell’oggettività, sicché la ricomposizione di estetica e logica trascendentali si pone come naturale conseguenza di questa operazione che priva i «tronchi dell’umana conoscenza» delle sue radici sostanziali, sciogliendole in processi costitutivi.

Si potrebbe pensare, tuttavia, che questa riconduzione di neokantismo e fenomenologia all’interno del paradigma kantiano riesca felicemente con la fenomenologia husserliana, mentre lo stesso invece non accada e non possa accadere con la fenomenologia à la Scheler, nel quale si è sempre ravvisato uno dei principali critici da parte realistica della ‘svolta’ che mo-nacensi e gottinghesi deprecarono in Ideen I; Edith Stein racconta infatti che «Scheler naturalmente era aspramente contrario alla svolta idealistica e si esprimeva quasi con tono di superiorità» 25 nei confronti di Husserl. Quanto ai rapporti via via più conflittuali tra i due, Spiegelberg scrive che «la tensione era destinata a salire nel momento in cui Scheler, il quale aveva lasciato l’atmosfera neokantiana di Jena, realizzò che Husserl, sempre più attratto dal trascendentalismo kantiano, stava andando nella direzione opposta» 26.

23 Non certo nel senso in cui Kant parla dell’intuizione intellettuale, atto che, come è noto, non è compatibile con il criticismo. In proposito si veda quanto Ferrari 2003, p. 67, scrive in riferimento a Cohen e alla sua logica dell’origine, che notoriamente «co-mincia con il pensiero»: «[…] ciò non comporta affatto […] che Cohen si affidi ad una taumaturgica ‘creazione’ della realtà o a una sorta di attualismo fichtiano-gentiliano», poiché l’elevazione dell’intuizione spazio-temporale a categoria dell’intelletto va pur sempre pensata come finalizzata alla fondazione del pensiero scientifico, in un quadro che è sempre trascendentale e quindi mai immediatamente ontologico. 24 Holzhey 2001, p. 9. 25 Stein 19993, p. 236. Edith Stein ha contribuito non poco a far sì che l’immagine di Scheler come filosofo delle essenze radicalmente avverso all’idealismo trascendentale si depositasse e cristallizzasse nella ricezione del pensiero del filosofo; a questo proposito si veda Stein 1932, p. 11, dove l’autrice scrive che non solo Scheler ha respinto l’ideali-smo trascendentale, «ma non ha nemmeno mostrato alcuna comprensione per l’intera problematica della costituzione». Che le cose non stiano affatto così, che la valutazione della Stein abbia mancato il bersaglio – e che proprio a partire dalla considerazione delle opere giovanili sia possibile vederlo – è la tesi di questo studio. Sulla inadeguatezza della valutazione steiniana di Scheler si veda Sepp 1998, p. 725 s. 26 Spiegelberg 1960, vol. I, p. 231.

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G. Mancuso
Il giovane Scheler
SEGUE
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3.3. Il prima nel dopo

Per l’ultimo Scheler la metafisica si configura quindi come meta-antropo-logia, il cui nucleo propulsivo sta nella nozione di Mensch come geistiges Lebewesen. Nel quadro concettuale dispiegato in questa fase tarda della riflessione scheleriana cercherò ora di mostrare – a conclusione della pre-sente indagine – la linea di continuità con i principali nodi teorici posti da Scheler nella sua opera giovanile. Accettando il paradigma trascendentale, si è visto come il giovane Scheler ne individui tuttavia il punto debole nello iato che separa il piano trascendentale dell’esperienza possibile da quello dell’esperienza reale. Se alla domanda trascendentale – che cosa rende possibile l’oggettività conoscitiva, etica ed estetica? – Kant risponde con una critica della ragione, tale risposta secondo Scheler è inadeguata: a causa della concezione unilateralmente razionalistica, statica e finita dell’a priori, la soluzione kantiana non riesce infatti a far fronte alla molteplicità qualitativa e al divenire storico delle forme oggettivate di esperienza. Si tratta quindi di correggere Kant sotto questo aspetto, anzitutto rifiutando ciò che egli dà per scontato, ossia il concetto di «ragione». Un tentativo in questo senso è stato compiuto dalla Scuola di Marburgo: alla domanda che chiede che cosa rende possibile l’oggettività, i marburghesi rispon-dono infatti non con una critica della ragione, ma con una critica della ragione oggettivata nella scienza. In questo modo ci si congeda dal mito delle facoltà dell’anima, dal sostanzialismo si passa al funzionalismo, come richiede il ‘mutato modo di pensare’ introdotto da Kant, e, per questa via, l’indagine trascendentale viene vincolata a un fatto storico effettivamente realizzatosi, il fatto della scienza matematica della natura. Il prezzo da pagare, d’altro lato, è la perdita della capacità di spiegare la differenza qualitativa dei fatti culturali, delle diverse forme di oggettività, tutte ap-piattite sul modello sicuro dell’oggettività scientifica, un’oggettività per di più estirpata dal suo divenire storico e colta in una sua limitata espressione

ANTROPOLOGIA E METAFISICA

G. Mancuso
Il giovane Scheler
SEGUE
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(il newtonianesimo), almeno dal Cohen preso di mira da Scheler nel suo scritto di abilitazione.

Nella sua opera giovanile Scheler tenta quindi a sua volta di andare con Kant oltre Kant. Nei Beiträge kantianamente si chiede: «Che cosa rende possibili i diversi modi dell’oggettività (oggettività conoscitiva e oggettività etico-assiologica)»? La risposta la può dare una critica assiologica della coscienza che, partendo dal fatto etico e da quello conoscitivo, risalga alle loro diverse condizioni di possibilità in una «coscienza normale» che va mostrata già attiva nella «sintesi vivente» della coscienza empi-rica. La psicologia trascendentale è il cuore di questa critica assiologica della coscienza, perché a essa spetta il compito di discriminare nella vita immediata di coscienza ciò che è fatto psicologico ed è riducibile alla coscienza empirica da ciò che è organo assiologico e rimanda invece al Normalbewußtsein. In seguito, rispetto alla domanda posta nei Beiträge limitatamente a conoscenza e moralità, nello scritto sul metodo Scheler amplia la domanda di partenza dell’indagine filosofica, chiedendosi: che cosa rende possibile la Arbeitswelt intesa come l’insieme delle connessioni generalmente riconosciute tra le opere della cultura umana? La rispo-sta va data, per Scheler, elaborando una metafisica critica intesa come filosofia dello spirito. Lo spirito è tuttavia un concetto problematico, un’incognita del tutto indeterminata, e per questo la metafisica può essere soltanto critica e non dogmatica. Questa metafisica richiede anzitutto una critica noologica non più della coscienza, ma di una nozione più ampia e complessa, quella di geistige Lebensform o Persönlichkeit: il metodo noologico, in quanto metodo trascendentale-regressivo, dovrà partire dal fatto complesso della Arbeitswelt e risalire alle condizioni a priori che la hanno resa possibile realizzandosi concretamente in una forma spirituale di vita; ma il metodo noologico non è solo trascendentale-regressivo, bensì, al contempo, anche trascendentale-psicologico; esso è quindi attrezzato per passare dalla critica noologica della geistige Lebensform alla metafisica critica come filosofia dello spirito e per cogliere nella forma spirituale di vita quelle determinazioni che possono essere attribuite all’incognita del puro spirito. Se il punto debole della filosofia trascendentale è lo iato tra esperienza possibile ed esperienza reale, il giovane Scheler assegna alla psicologia trascendentale il compito di colmare questo iato. Essa infatti è la disciplina che consente di cogliere il piano trascendentale delle condizioni di possibilità a partire da unità processuali reali, viventi e storicamente determinate come pretendono di essere la lebendige Synthese dei Beiträge e la geistige Lebensform dello scritto sul metodo. Solo in tal modo il piano trascendentale delle condizioni di possibilità potrà essere colto non in un soggetto disincarnato, a-temporale e poco differenziato al suo interno come la kantiana Vernunft, ma in un polo soggettivo unitario e complesso

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al contempo, che i Beiträge configurano come «coscienza normale» e lo scritto sul metodo come «spirito».

Se si raffronta il quadro concettuale giovanile appena riassunto con la riflessione antropologico-metafisica svolta da Scheler negli ultimi anni di vita, le analogie balzano subito agli occhi: anzitutto la nozione di Mensch vista in Die Stellung si pone in stretta linea di continuità con le nozioni giovanili di lebendige Synthese e ancor più di geistige Lebensform; in se-condo luogo, e di conseguenza, il ruolo e la posizione che l’ultimo Scheler assegna all’antropologia filosofica sono lo stesso ruolo e la stessa posizione che il primo Scheler assegna a quella che ho voluto definire psicologia trascendentale. Per quanto riguarda il primo punto, nella nozione tarda di Mensch mi sembrano infatti confluire quelle più parziali e astratte, nonché soltanto abbozzate, di sintesi vivente e di forma spirituale di vita, mentre, in relazione al secondo punto, l’antropologia filosofica presenta una forte analogia ‘topologica’ con la psicologia trascendentale tentata nelle opere giovanili. In Philosophische Weltanschauung, infatti, Scheler colloca l’an-tropologia filosofica in quanto meta-antropologia nel cuore della metafisica e la concepisce come la disciplina che fa da trampolino dalla metafisica dei problemi-limite delle scienze alla metafisica dell’assoluto: esattamente la stessa posizione occupata dalla psicologia trascendentale nelle opere giovanili, come è evidente soprattutto nello scritto di abilitazione sul me-todo, laddove la psicologia trascendentale è la disciplina che prelude alla metafisica critica, poiché consente di individuare nella geistige Lebensform come correlato della Arbeitswelt ciò che può essere attribuito all’incognita del Geist.

L’ultimo Scheler, si potrebbe dire, compie l’opera iniziata in gioventù per colmare la distanza tra piano dell’esperienza possibile e piano del-l’esperienza reale: traduce quindi la critica kantiana della ragione in una critica meta-antropologica dell’uomo, non più di qualcosa che resta co-munque solo accennato e quindi molto vago come la lebendige Synthese o la geistige Lebensform delle opere giovanili, ma dell’uomo anzitutto come essere vivente. L’antropologia filosofica si sostituisce quindi alla psicologia trascendentale giovanile, non presupponendo più come dato di partenza e ambito d’indagine un Bewußtsein, ma arrivando al Bewußt-sein e al Selbstbewußtsein che l’uomo ha di sé in quanto portatore vitale del Geist anzitutto a partire da un’analisi antropologico-biologica di quel particolare essere vivente che è appunto l’uomo. Da antropologia, questa disciplina filosofica si fa metantropologia, nel momento in cui considera l’uomo nel suo essere inoggettivabile centro di molteplici atti e condizione di possibilità dell’esperienza oggettiva. La considerazione meta-antropo-logica dell’uomo diventa quindi metafisica dell’assoluto, poiché consente di attribuire per analogia al fondamento ultimo di ogni cosa, all’«essere

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originario» [dem Urseienden] 96, quegli attributi di spirito e impulso che si compenetrano in modo peculiare nel microcosmo-uomo come forma spirituale di vita. Il riferimento all’opera giovanile e al confronto con Kant e con il neokantismo consente in tal modo di comprendere come l’aspetto forse più discusso della antropologia filosofica scheleriana, ossia il nesso costitutivo che la lega alla metafisica, vada inteso anche, se non anzitutto, alla luce del problema della giustificazione e fondazione dei diversi modi dell’oggettività, nel quadro di una metafisica della quale si è fin troppo trascurato di sottolineare la connotazione «critica» 97.

96 Ivi, p. 59 (trad. it., p. 134). 97 Cfr. Cusinato 1999, pp. 120-122, e soprattutto, sul nesso tra meta-antropologia scheleriana e teoria della conoscenza, in una prospettiva che tiene conto della produzione giovanile, Raulet 2002.