giovanni traduttore
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Transcript of giovanni traduttore
Il prologo al Vangelo di Giovanni come modello metafisico della traduzione
- Livello figurale: il discorso metafisico sull’atto del tradurre come contatto con l’alterità assoluta
- Livello di storia della traduzione: comparare diverese versioni dello stesso passo ci aiuta a comprendere la storia della sua ricezione
-Livello testuale: che tipo di testo è – è un testo di sapienza religiosa e metafisica configurato come testo poetico
- Livello storico-letterario e simbolico: Giovanni traduttore diventa un topos della cultura: vedo Lutero / vedi Goethe che rappresenta Faust nell’atto di tradurre Giovanni
- Livello storico-culturale: la buona novella, eu-angelium viene scritta in una lingua a larghissima diffusione Eventi accaduti in aramaico raccontati in greco
Giov 1, 1. En archè en ò lògos, kai ò logos èn pròs tòn theòn, kai theòs en ò lògos
Nel principio era la parola, e la parola era di fronte a dio, e dio era la parola.
Interlineare: In principio era la Parola, e la Parola era verso Dio,
e Dio era la Parola Vulgata: In Principium erat Verbum et Verbum erat apud Deum,
et Deus erat Verbum Lutero: IM ANFANG WAR DAS WORT / VND DAS WORT WAR
BEY GOTT / VND GOTT WAR DAS WORT. Società biblica italiana: In principio era la Parola e la Parola era
presso Dio, anzi la Parola era Dio Società biblica di Ginevra: Nel principio era la Parola, la Parola
era con Dio, e la Parola era Dio
Giovanni nel prologo al Vangelo riprende consapevolmente l’incipit di Gen 1,1 modificandone però il significato. Non si tratta più di un inizio temporale, l’inizio dei tempi, la creazione come origine , ber- e – shit, usa la parola greca “Archè” - principio, in senso spaziale e non temporale. Nel principio, ovvero dentro al principio era la parola. La accezione spaziale e non temporale rende l’atto di creazione qualcosa di assoluto. Essa era dentro al principio e di fronte, presso a qualcosa di non altrimenti dicibile, dio.
Arché: Parola cara ai Presocratici, che proprio nella ricerca del principio avevo indicato lo scopo della propria, fondamentale, domanda filosofica.
In posizione enfatica troviamo nel primo verso proprio “en archè”, e non “ò logos”. Dal punto di vista linguistico il “Thema” è proprio “nel principio”, il “Rhema” è “la parola
Pros + accusativo può significare appunto, presso, davanti, al cospetto di, conformemente a. “Indica moto a luogo, avvicinamento […] ma anche stato in luogo che presuppone un moto a luogo precedente. Traslato [si trova nelle espressioni] “parlare a qualcuno, annunciare, rispondere, parlare con qualcuno. [Spesso viene usato] per esprimere relazioni, rapporti” - questo apprendiamo dal Dizionario Greco-Italiano. La Vulgata Clementina traduce “apud”. Anche apud possiede una gamma di significati che vanno ben oltre il “presso” della edizione corrente: “vicino a, dinanzi a, in presenza di”. E figurato “essere in se stessi”, “nel giudizio di”, dunque nella rappresentazione di.
Cfr. R. Romizi, Vocabolario Zanichelli greco antico – italiano, etimologico e ragionato, a cura di Monica Negri, Bologna 2001, p. 1038.
Che ci sia un problema con la traduzione “presso”, ma già “apud”, viene rilevato anche dal commento alla Bibbia Concordata (a cura della Società Biblica di Ravenna, 3 voll, III edizione, Milano 2000, p.234): “Sull’autorità di Tolomeo si dovrebbe tradurre che la Parola era ‘uno con Dio’ poiché la semplice preposizione presso non rende il significato del termine greco (Ireneo, Contro le eresie, 1, 8, 5). Il nostro problema qui, tuttavia, non è teologico, ma di analisi di un linguaggio considerato innanzitutto da un punto di vista poetico. Tradurre “uno con dio” significa certamente sottolineare il rapporto stretto tra logos e divinità, ma anche chiudere la polisemicità, il paradosso identità-differenza che si innesca potente in questo primo verso e gli conferisce no status estetico oltre che teologico. È sempre un problema di punto vista: se si vuole mettere il testo (sacro) al riparo dalle eresie sulla natura del divino, certamente si fa bene a tradurre “uno con”.
Il vangelo dice di una conformità, ma non di una identità. La parola non può essere identica a dio.
Può stargli di fronte, esserne segno. Dio e Parola sono alla pari, l’uno di fronte all’altro in uno spazio assoluto. Non c’è emanatismo, né idea di progressione e discendenza dell’una dall’altro. Non per questo logos e Dio sono identici, né il logos è pensato come secondo dio accanto al primo. Del paradosso tra identità e differenza vive la tensione non solo teologica, ma anche estetica del primo versetto. Dal punto di vista strutturale, speculare o a chiasmo, a seconda delle versioni.
E la PAROLA era di fronte a DIO e DIO era la PAROLA
O altrimenti, nella struttura versificata E la PAROLA era di fronte a DIOE DIO era la PAROLA
Anche traducendo il movimento intenzionale della parola “verso Dio”, così come proposto dalla versione interlineare Greco-Latino- Italiano, ancora si può osservare una caratteristica del rapporto tra testo tradotto e originale. Anche la traduzione vive nella sua intenzionalità rispetto al testo tradotto.
Questa era nel principio di fronte a dioInterlineare: Quest[a] era in principio verso
DioVulgata: Hoc erat in principiu apud DeumLutero: DAS SELBIGE WAR IM ANFANG BEY
GOTTSocietà biblica italiana: Essa in principio era
presso DioSocietà biblica di Ginevra: Essa era nel
principio con Dio
Tutte le cose vennero create attraverso di lei, e senza di lei non sarebbe stato creato nulla di ciò che è creato.
Interlineare: Tutte le cose per mezzo di lui furono fatte, e senza di lui non e f fatta neppure una sola
Vulgata: Omnia per ipsum facta sunt, et sine opso factum est nihil, quod factum est
Lutero: Alle ding sind durch dasselbige gemacht / vnd on dasselbige ist nichts gemacht / was gemacht ist.
Società biblica italiana: Per essa furono fatte tutte le cose e fatta separatamente da essa nessuna esistette
Società biblica di Ginevra: Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta.
Dià autoù, di’autou. Qui si affaccerebbe l’idea del verbo come “mezzo” (nella preposizione “dià=attraverso, per mezzo”). Ma aspettiamo il versetto successivo.
In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini. Interlineare: In l[e]i vita era, e la vita era la luce
degli uominiVulgata: in ipso vita erat, et vita erat lux
hominumLutero: Jn jm war das Leben / vnd das Leben
war das Liecht der Menschen /Società biblica italiana: In essa era la vita, e la
vita era la luce degli uomini.Società biblica di Ginevra: In lei era la vita, e
la vita era la luce degli uomini.
Evidente qui il processo di approssimazione e movimento. La parola non è mezzo, o meglio: non è solo mezzo. Essa porta dentro di sé e di per sé la vita. E’ “segno vivente”. La vita è a sua volta “luce agli uomini”. È vita come forma, potremmo assumere un senso intenzionale, non benjaminiano qui, ma scolastico. Intenzionale, cioè, come pertinente all’immagine che dell’oggetto conosciuto si forma nel soggetto conoscente. Ascoltiamo Dante: “Queste cose visibili … vengono dentro all’occhio – non dico le cose ma le forme loro – per lo mezzo diafano, non realmente ma intenzionalmente, sì quasi come in vetro trasparente”. Dante Alighieri, Convivio, III – IX -7.
Giov, 1, 5: Kai tò phòs en te skotia phàinei, kai e skòtia autò ou katèlaben
E la luce splendette nella tenebra, e la tenebra non la ha compresa.
Interlineare: e la luce in la tenebra splende, e la tenebra lei non ha accolto
Vulgata: et lux in tenebris lucet, et tenebrae eam non comprendeherunt
Lutero: vnd das Liecht scheinet in der Finsternis / vnd die Finsternis habens nicht begriffen./
Società biblica italiana: E la luce risplende nella tenebra e la tenebra non l’ha compresa.
Società biblica di Ginevra: La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno sopraffatta.
La luce porta l’intenzione, la forma di dio, come il logos. Si tratta di percepirla e comprenderla come forma. katèlaben, da katalambàno: letteralmente, così recita anche l’interlineare, “accogliere”, ma in questo caso, più propriamente “comprendere, afferrare, impadronirsi di, ma anche capire”. Si fa sempre più evidente il problema della comprensione. Così anche la vulgata (“comprehenderunt”). Anche Lutero usa il verbo “begreifen”: capire, carpire, comprendere. La Nuovissima Versione traduce “compresero”. Mentre la società di Ginevra fornisce una traduzione che risente di una interpretazione teologica e cosmogonica: si tratta di una lotta primordiale tra luce e tenebra.
Si tratta di un verbo insieme astratto e concreto. Ha un significato ‘figurato’ ma ha anche ben presente nell’uso un elemento di fisicità. Quella stessa fisicità che presto emerge nel testo di Giovanni nel farsi carne della parola nella sequenza successiva.
Il Messia infatti si approssima in una serie di passaggi progressivi e costruzioni a chiasmo in cui il discorso procede, ma rimanda anche all’origine, a quell’”archè” in cui il “logos” abita.
I passaggi successivi attraversano la figura umana del Battista. Egli viene per testimoniare. È segno, “sta per” la Luce. L’umanità crede “per mezzo di lui”. Giovanni Battista (che è ovviamente altra persona rispetto a Giovanni Evangelista!) si inserisce nella serie dei segni “presso”, “di fronte”, “a fronte”, che “stanno per” Dio. Egli è però anche a sua volta interprete “angelo” (ànghelos), messaggero e testimone. Egli non è il Messia, ma viene per testimoniare. L’evangelista ripete il concetto due volte. Perché? Proprio per farci capire che lui non è, ma sta per la luce. La luce si può immaginare come traduzione della vita. La vita “sta”, abita, dimora nel Logos, nella Parola. Il Logos sta, dimora nel Principio, oltre che stare di fronte a Dio. E siamo tornati al punto di partenza.
Giovanni testimonia per la luce e per una nuova traduzione della luce. Sarà una luce vera che illuminerà ogni uomo. Non si tratta di una luce generica , universale luce donata agli uomini come nel Genesi (fiat lux). Cristo si presenta in questo prologo come segno non interpretato, non compreso, non riconosciuto. Viene ripetuta in questo caso la situazione iniziale, delle tenebre che non riconoscono la luce. Ora saranno gli uomini a non riconoscere Cristo, il logos fatto carne.
Da Giov, 1, 10: kai ò kòsmos auton ouk egno e il mondo non lo riconobbe Interlineare: e il mondo lui non conobbe Vulgata: Et sui eum non receperunt Lutero: / vnd die Welt kandte es nicht. Società biblica italiana: ma il mondo non la conobbe. Società biblica di Ginevra: ma il mondo non l'ha conosciuto Da Giov, 1, 11: kai oi idioi auton ou parelabon Interlineare: e i suoi lui non accolsero Vulgata: et mundus eum non cognovit Lutero: Vnd die seinen namen jn nicht auff. Società biblica italiana: e i suoi non l’accolsero Società biblica di Ginevra: e i suoi non l'hanno ricevuto
Nel prologo giovanneo il divino viene dunque posto come qualcosa di totalmente altro. I segni verbali, il logos, e i segni viventi: i profeti o Cristo stesso, possiamo interpretarli come traduzioni dell’originale, che è impronunciabile direttamente. Il rapporto tra logos, segni, profeti, Cristo e il Divino è di traduzione progressiva. I segni, persino la luce nella sua evidenza, sono sempre esposti a pericolo dell’incomprensione. Ma l’incomprensione è consustanziale a ogni processo di traduzione che riconosca che una traduzione completa, che segua il principio di identità e non contraddizione, non è possibile.
Questo è il rischio, ma anche la forza di ogni movimento del linguaggio nella traduzione, qui raffigurato in modo archetipico nella traduzione del divino in parola.
Giovanni è consapevole del passaggio ulteriore
della testimonianza, del logos, dall’aramaico al greco. Egli testimonia, vestendo esplicitamente i panni del traduttore, di questo passaggio culturale ed epocale – dal mondo ebraico al mondo greco-latino-mediterraneo.
Occorrono, nello spazio di pochi versetti, ben tre frasi il cui centro è proprio la traduzione, ovvero l’interpretazione interlinguistica. Nel testo greco continua a vivere la memoria aramaica. Il passaggio viene mostrato, sottolineato come attività sacra in sé. IL Vangelo greco sta “di fronte”, a fronte dei fatti agiti e detti in aramaico.
Rabbi, (che significa, tradotto, maestro)Interlineare: Rabbì, che si dice tradotto
maestroVulgata: Rabbi (quod dicitur interpretàtum)Lutero: Rabbi (das ist verdolmetscht, Meister)Società biblica italiana: “Rabbi”, che tradotto
significa MaestroSocietà biblica di Ginevra: Rabbì (che,
tradotto, vuol dire Maestro)
Giov, 1, 41: Messìas, o estì metermeneuòmenon o Christòs Messia, che è tradotto con Cristo Interlineare: Messia, che è tradotto Cristo Vulgata: Messiam (quod est interpretatum Christus) Lutero: Wir haben den Messias funden (welches ist verdolmetscht: der Gesalbte). Società biblica italiana: Messia che tradotto significa il Cristo Società biblica di Ginevra: Messia" (che, tradotto, vuol dire Cristo) Giov, 1, 42 Kùphas, o ermenèuethai Pètros Cefa, che si traduce Pietro. Interlineare: Cefa, che si traduce Pietro. Vulgata: Cephas (quod interpretàtur Petrus). Lutero: Kephas heißen (das wird verdolmetscht: ein Fels). Società biblica italiana: Cefa, che vuol dire pietra Società biblica di Ginevra: Cefa" (che si traduce "Pietro").
La traduzione è dunque una attività da esegeti. Nella stessa parola greca ermeneuo c’è il significato di tradurre e di interpretare. La traduzione non è mai neutra, presuppone un punto di vista.
Nella teoria e storia della traduzione è costante l’intreccio tra traduzione e problemi dell’identità linguistica, religiosa, culturale di un gruppo se non di una intera civiltà. Da Giovanni discende il “tarlo” della Parola, del logos divino. Come tradurlo (il divino)? Come interpretarlo (il logos)?
E’ questo anche il problema di Martin Lutero, che riteneva il Vangelo di Giovanni il più nobile e alto dei Vangeli. Pensiamo a anche a quanto feconde siano state le riflessioni sulla traduzione tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento.
Pensiamo a Johann Wolfgang Goethe, che fa tradurre al suo Faust proprio l’incipit del Vangelo di Giovanni attraverso una progressione di possibili significati della parola Logos.
Intendere la traduzione come progressione interpretativa significa porre l’alterità, la inesauribilità dell’originale come valore, e on come disvalore. Significa accettare l’alterità come fondamento di una relazione che per questo non è mai statica, ma viva perché in movimento, dinamica e perfettibile all’infinito.
L’indagine del modello giovanneo ci consente di vedere in modo evidente la radice teologica di gran parte del pensiero filosofico sul tradurre.