Giovanni Cerino Badone, L’esercito imperiale asburgico 1859-1866. Valutazione di un esercito...

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Giovanni Cerino-Badone, L’esercito imperiale asburgico 1859-1866. Valutazione di un esercito dall’esperienza del campo di battaglia", in G. NEMETH e A. PAPO (a cura di), Unità italiana e mondo adriatico-danubiano, Trieste 2012, pp. 253-286. 1

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Giovanni Cerino-Badone, L’esercito imperiale asburgico 1859-1866. Valutazione di un esercito dall’esperienza del campo di battaglia", in G. NEMETH e A. PAPO (a cura di), Unità italiana e mondo adriatico-danubiano, Trieste 2012, pp. 253-286.

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L’esercito imperiale asburgico 1859-1866 Valutazione di un esercito dall’esperienza del campo di battaglia

Giovanni Cerino-Badone

Introduzione. Per una nuova Storia Militare del Risorgimento italiano

Le celebrazioni del Centocinquantesimo anniversario dell’unificazione italiana stanno volgendo al termine ed un elemento appare subito chiaro: la Storia Militare del Risorgimento italiano è rimasta ferma a Piero Pieri. Due settori in particolare mi sembrano piuttosto scoperti, la storia operativa delle campagne e la storia delle istituzioni militari che hanno combattuto per e contro l’unificazione, in particolare quelle dell’esercito sardo e dell’esercito austriaco. L’unica notevole ed importante eccezione, con un nuovo approccio epistemologico alle vicende militari del risorgimento, è stato il lavoro di Costantino Cipolla, curatore di una monumentale quadrilogia dedicata a Solferino e San Martino1. Per il resto poco o nulla è stato scritto e, per quanto sembri incredibile, attualmente non si riesce a farsi un’idea concreta di cosa sia stata una battaglia del Risorgimento, come gli eserciti siano scesi in campo, quali le tattiche e le dottrine di impiego.

Questo articolo affronta le vicende operative dell’esercito austriaco nel periodo 1859-1866, soffermandosi in particolare sulla Guerra Austro-Prussiana del 1866, in Italia conosciuta come Terza Guerra di Indipendenza2. Dobbiamo però dire che lo studio delle campagne militari avvenute sul territorio italiano nel XIX secolo rimangono un punto oscuro anche per la storiografia europea. Nel 1866 l’esercito austriaco fu protagonista di una campagna militare dai due volti: il 24 giugno la Süd-Armee dell’arciduca Carlo trionfava contro l’esercito italiano a Custoza, mentre il 3 luglio la Nord-Armee del Feldzeugmeister Ludwig von Benedek veniva distrutta dall’esercito prussiano a Königgrätz. Tre settimane più tardi, con le colonne prussiane attestate sulle rive del Danubio, l’imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo richiedeva la pace, scioglieva la Confederazione Germanica e concedeva l’annessione alla Prussia di tutta la Germania settentrionale. Le operazioni italiane della guerra del 1866 da allora sono sempre rimaste schiacciate dalla storiografia di lingua tedesca in quanto maggiore importanza è stata data alla campagna in Boemia. Da parte italiana solo dopo lunghe polemiche giunse la redazione di una Relazione Ufficiale del 1875, viziata dalle interferenze di numerosi generali presenti ai combattimenti di Custoza3. Solo nel 1903 il generale Alberto Pollio darà alle stampe il volume Custoza 1866, da allora considerata la vera relazione ufficiale della prima fase della guerra4. Dopo questo lavoro, ristampato nel 1935, dobbiamo attendere gli studi di Piero Pieri 5 e quelli più recenti di Geoffrey Wawro6 per avere un nuovo lavoro sulla campagna del 1866 in Italia. Solo con quest’ultimo testo abbiamo finalmente un approccio più diretto al terreno ed alla realtà operativa della guerra, altrimenti del tutto assente altrove ed ancora mancante nella storiografia militare italiana. Tuttavia Wawro, mettendo in luce ragioni sociali ed economiche prima di allora poco note che influenzarono le scelte

1 I titoli dei quattro volumi dedicati alla battaglia di Solferino sono i seguenti: Il crinale dei crinali. La battaglia di Solferino e San Martino; Sul crinale. La battaglia di Solferino e San Martino vissuta dagli italiani; Il crinale della vittoria. La battaglia di Solferino e San Martino vista dal versante francese; L'altro crinale. La battaglia di Solferino e San Martino letta dal versante austriaco , a cura di C. CIPOLLA Milano 2009.2 Sul periodo 1859-1866 rimangono validi G.E. ROTHENBERG, The Army of Francis Joseph, West Lafayette 1976 (prima ed. italiana del 2004 con il titolo L’esercito di Francesco Giuseppe, Gorizia 2004); D.E. SHOWALTER, Railroads and Rifles: Soldiers, Technology and the Unification of Germany, Hamden 1975; W. WAGNER, Von Austerlitz bis Königgrätz: österreichische Kampf und Taktik im Spiegel des Reglements, 1805-1864, Osnäbrük 1978.3 La Campagna del 1866 in Italia (d’ora in avanti RELAZIONE UFFICIALE ITALIANA), 2 voll., Roma 1875. Il testo fu preparato dal maggiore Carlo Corsi il quale completò il suo lavoro dieci anni dopo i fatti non tanto per la mole di documenti da consultare, quanto per le continue intromissioni dei generali Cialdini, Della Rocca e La Marmora.4 A. POLLIO, Custoza (1866), Torino 1908. Fuori dai confini italiani lo scontro di Custoza divenne a fine ottocento l’exemplum per antonomasia delle esercitazioni didattiche sul come affrontare scelte tattiche e di comando. E.S., Studi pratici sull’arte della guerra desunti dalle migliori opere dello Stato Maggiore dell’Esercito Germanico e applicati all’ultima battaglia di Custoza, Milano 1877; C. MÀTHES DI BILABRUK, Studi tattici sulla Battaglia di Custoza nel 1866, Torino 1892; J. VON VERDY DU VERNOIS, A Tactical Study, based on the Battle of Custozza, 24th of June 1866, London 1894.5 P. PIERI, Storia Militare del Risorgimento, Torino 1962. L’ultimo testo italiano sull’argomento è il volume, a carattere divulgativo, di M. GIOANNINI, G. MASSOBRIO, Custoza 1866. La via italiana alla sconfitta, Milano 2003.6 G. WAWRO, The Austro-Prussian War. Austria's war with Prussia and Italy in 1866, Cambridge 1996.

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militari di Vienna, raggiunge un giudizio decisamente negativo nei confronti delle riforme adottate dall’esercito austriaco dopo il 18597.

Questo articolo intende studiare i cambiamenti tattici introdotti nell’esercito austriaco con l’Exercitium del 1862, le ragioni per le quali questi fallirono invece clamorosamente a Königgrätz mentre riuscirono ad avere la meglio sugli italiani a Custoza e a mettere in seria difficoltà i volontari di Garibaldi durante la campagna nel Trentino.

Dottrine di impiego, tattiche

Sin dal XVIII secolo l’esercito austriaco aveva sviluppato un eccellente senso tattico per quel che riguarda la scelta di posizioni naturalmente “forti”. Questa attitudine avvenne nel corso della Guerra di Successione Austriaca (1740-1748) e della Guerra dei Sette Anni (1756-1762) durante le quali gli austriaci quali avevano subito severe sconfitte per opera delle forze prussiane di Federico II, comandante tatticamente molto aggressivo. Rovesci come Mollwitz (1742), Hohenfriedeberg (1745), Leuthen (1757), Torgau (1760) e Burkersdorf (1762) e vittorie come Kolin (1757) e Kunersdorf (1759) avevano dimostrato quanto fosse redditizio un atteggiamento strettamente difensivo. I generali di Maria Teresa sceglievano un luogo tatticamente forte, quasi sempre una cresta collinare, e lì attendevano il nemico. La potenza di fuoco della loro eccellente artiglieria ed un uso sapiente delle riserve erano solitamente in grado di garantire la vittoria. La Stellungtaktik (guerra di posizione) austriaca prevedeva lo sfruttamento di qualsiasi appiglio tattico che il terreno fosse in grado di offrire, quale un’altura, un fiume, un bosco sui quali trincerare i propri uomini in attesa del nemico. Federico II esaminò queste difese e notò come “l’esercito austriaco si disponeva su tre linee, circondate ed appoggiate dalla sua immensa artiglieria. La prima linea è formata alla base delle colline, su un terreno poco elevato ma con abbastanza pendenza da formare uno spalto naturale sul lato dove il nemico può arrivare. Questo è un intelligente metodo: è il frutto dell’esperienza che dimostra come il fuoco radente sia migliore di quello ficcante. Inoltre, i soldati sulla cresta dello spalto hanno tutti i vantaggi che una posizione dominante può offrire, senza alcun svantaggio”8. Si cercava di dare al fronte una forma concava, ad anfiteatro, dove ogni saliente o altura era trasformata in una batteria fortificata in modo da incrociare al meglio il tiro nella Kill Zone9. La concentrazione di cannoni era impressionante, e il fronte nemico era “fornito di artiglieria come una cittadella. Il risultato era quello di dare l’assalto ad una fortezza”10.

Gli scontri tra eserciti nel XIX secolo furono principalmente battaglie di fanteria. Solo la fanteria può conquistare e mantenere posizioni. Questo concetto è al giorno d’oggi più che mai valido, come hanno dimostrato le operazioni della NATO in Kosovo, e come continuano quotidianamente a dimostrare i combattimenti in Iraq ed in Afghanistan dove essere presente sul territorio “with boots on the ground”, per dirla nel gergo anglosassone, consente di fronteggiare efficacemente il nemico, impedirgli di sfruttare risorse, infrastrutture, appigli tattici. A San martino entrambi i contendenti misurarono i loro successi in base alle porzioni di campo di battaglia occupato. Sul come ottenere questa superiorità tattica i due eserciti avevano sviluppato due differenti dottrine. A partire dagli anni Cinquanta del XIX secolo i tattici europei si trovarono davanti alla necessità di confrontarsi con l’aumentata potenza di fuoco della fanteria, armata con fucili a percussione (maggiore cadenza di tiro) e a canna rigata (maggiore portata e precisione). Il primo importante cambiamento fu l’incremento, presso tutti gli eserciti europei compresi quello sardo che quello imperiale, delle aliquote di fanteria leggera – Bersaglieri o Jägers - destinata ad operare in ordine sparso davanti ai reparti in linea.

La situazione austriaca era più complessa, in quanto tra il 1820 ed il 1849 la dottrina di impiego delle armate imperiale era stata modificata in almeno due occasioni. Agli inizi del XIX secolo, nel corso delle Guerre Napoleoniche, le tattiche francesi degli attacchi in colonna erano sembrate essere uno degli elementi dei successi francesi. L’arciduca Carlo d’Asburgo concluse che il combattimento in linea, secondo di dettami delle tattiche settecentesche, “permettevano il miglior uso dei moschetti, ma solo la colonna poteva muoversi in tutte le direzioni, ed effettuare un attacco con forza, energia e con un buon effetto morale”11. Si trattava in

7 Sotto questo aspetto cfr. anche G. WAWRO, An “Army of Pigs”: The Technical, Social, and Political Bases of Austrian Shock Tactics, 1859-1866, in “The Journal of Military History, Vol. 59, No. 3, pp. 414-415.8 FRÉDÉRICK II, Réflexions sur la tactique et sur quelques parties de la guerre, ou, Réflexions sur quelques changements dans la façon de faire la guerre, in Œuvres de Frédérick le Grand, Vol. XXVIII, Berlin 1856, pp. 155-1569 La Kill Zone (zona di uccisione) è un’area del campo di battaglia ben definita e relativamente limitata, di cui l’esempio più noto e meglio comprensibile è fornito dalla “terra di nessuno” della guerra di trincea. La profondità della Kill Zone è determinata dalla portata effettiva dell’arma impiegata.10 FRÉDÉRICK II, Réflexions sur la tactique cit., p. 158.11 ERZHERZOG KARL, Militärische Werke, Vol. I, Vienna 1862, pp. 83-86.

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realtà di una lettura molto superficiale delle tattiche francesi del periodo, ma si decise comunque di privilegiare la manovra rispetto alla potenza di fuoco, ritenendo che attacchi alla baionetta ben coordinati avrebbero avuto ragione di qualsiasi avversario, insistendo sul fatto che la fanteria, comunque, “dovrebbe avanzare ogni volta in formazioni compatte senza aprirsi in ordine sparso o fermarsi per sparare. Marciare velocemente sul nemico e piombare su di lui, dal momento che il combattimento a fuoco e il combattere in ordine sparso costa uomini e non decide nulla”12. Neppure l’abilità tattica di Wellington nell’impiego della potenza di fuoco dei reparti schierati in linea in Spagna e a Waterloo cambiò la convinzione dei comandi austriaci che Bonaparte aveva avuto ragione del nemico con la mobilità delle proprie truppe. Nel 1837 il generale Joseph Radetzky ricordava ai propri ufficiali come l’offensiva fosse la chiave della vittoria e che “la moderna fanteria può oggi credere nel freddo acciaio”13. Durante le guerre del 1848-49 la velocità di manovra messa in atto dagli austriaci nei tre combattimenti principali – Santa Lucia, Custoza e Novara – aveva avuto ragione dell’avversario. Il prestigio dell’esercito austriaco al termine della I Guerra di Indipendenza fu tale che le”giubbe bianche” dell’imperatore divennero sinonimo in tutta Europa di disciplina e temerarietà. L’esperienza della guerra in Italia fu tuttavia analizzata nel dettaglio e riguardo all’impiego della fanteria di linea il feldmaresciallo Radetzky e il generale Heinrich Hess ragionarono su quanto la potenza di fuoco dei sardi avesse spesso messo in crisi i propri reparti. Fu riscontrato come le colonne d’assalto di battaglione non permettessero lo sviluppo della propria potenza di fuoco. Nel 1849 fu composto un nuovo manuale tattico che rimase in uso sino al 1861. Il regolamento si opponeva decisamente a massicci assalti alla baionetta in favore della maggiore potenza di fuoco espressa dai reparti schierati in linea. Per consentire rapidi movimenti ciascun battaglione di fanteria, forte 1.300 soldati, fu diviso in tre uguali “divisioni” di 400 uomini distanziate tra di loro 20 metri con distaccamenti di fanteria leggera a protezione dei fianchi e delle retrovie. I fanti austriaci avevano come armamento base l’Infanteriegewehr M 185414. Questo fucile, a percussione e a canna rigata calibro 13,9 mm, aveva una munizione più piccola rispetto ai coevi fucili francesi ed inglesi, con una gittata decisamente superiore. Il M 1854/II disponeva di un traguardo di mira in grado di inquadrare un bersaglio a 675 metri e le possibilità di colpire un bersaglio a 300 metri erano del 71%, contro un modesto 21% dei fucili con munizione Minié.

Tali tattiche di combattimento, se erano l’ideale per l’impiego dei nuovi armamenti a canna rigata e per poter disporre sul campo di battaglia della massima potenza di fuoco, non lo erano affatto per l’esercito imperiale e si rivelarono troppo complicate per i coscritti austriaci, reclutati per lo più tra contadini di etnia slava. L’addestramento era scarso, le simulazioni di scenari tattici credibili non erano contemplate così come esercitazioni a fuoco per migliorare la velocità del tiro15. Nonostante l’introduzione di ben nove edizioni in altrettante lingue, tra le quali il Ceco, il Serbo-Croato, l’Ungherese, il Rumeno e l’Italiano, in combattimento veniva impiegata una sola lingua, il Tedesco. Nella confusione e nel panico della battaglia spesso i soldati non riuscivano a capire i loro ufficiali che urlavano ordini in una lingua a loro incomprensibile, non riuscendo a decifrare ordini basilari come uno semplice Halt16. Lo stesso maggior generale Möring, privato nel corso della battaglia di Custoza dell’ufficiale incaricato di funzionare da interprete, venne a trovarsi in una analoga situazione: “prima di Montrara mi imbattei in alcuni ussari. Da dove venite? Di quale brigata siete? Nessuna risposta! L’ufficiale di ordinanza, che conosceva molto bene l’ungherese, era stato chiamato a Verona presso il comando di corpo e non aveva ancora fatto ritorno. Maledii il nostro stupido sistema, che obbliga tutti gli ufficiali, ma non i soldati, a imparare il tedesco, lingua del reggimento”17. Il risultato fu che le divisioni di battaglione austriache, anziché manovrare efficacemente contro le colonne franco-piemontesi, prenderle d’infilata e ributtarle indietro con attacchi alla baionetta ben coordinati, rimanevano ferme al loro posto in attesa di essere macinate da attacchi frontali in massa.

Solo quando veniva creata sul campo di battaglia una certa uniformità etnica e linguistica la tenuta dei reparti migliorava sensibilmente, come era avvenuto a San Martino il 24 giugno 1859 contro l’armata sarda.

12 H. DELBRÜCK, E. DANIELS, Geschichte der Kriegskunst im Rahmen der politischen Geschichte, vol. IV, Berlin 1907, pp. 468-469.13 O. REGELE, Feldmarschall Radetzky, Vienna-Monaco 1957, p. 413.14 E. GABRIEL, Die Hand- und Faustfeurwaffen der habsburgischen Heere, Wien 1990, pp. 87-92, 296-297.15 Wawro insiste molto nel ribadire che la mancata esperienza in poligono fece mancare ai soldati imperiali la necessaria capacità di impiego alla lunga distanza dei fucili Lorenz. WAWRO, An “Army of Pigs”, pp. 415-416. Non si deve tuttavia dimenticare che le dottrine di impiego per la fanteria europea della seconda metà del XIX secolo prevedevano l’inizio del fuoco a distanze ravvicinate, sempre al di sotto dei 300 metri. P. GRIFFITH, Battle Tactics of American Civil War, Ramsbury 1987, pp. 145-150; E.J. HESS, The Rifle Musket in Civil War Combat. Reality and Myth, Lawrence 2008, pp. 1-8. 85-119.16 D.N., Über die Truppensprachen unserer Armee, in “Österreichische militärische Zeitschrift”, 1862, Vol. II, pp. 365-368. L’argomento è ripreso in WAWRO, An “Army of Pigs” cit., pp. 414-415.17 L. RICALDONE, Diario di un caro nemico. Guerra, politica e amori di un generale austriaco nel Veneto e nel Friuli degli anni 1860, Gorizia 1992, p. 99.

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Facevano parte dell’VIII° Corpo d’Armata di Benedek 29 battaglioni, quelli dei quali 16 erano di lingua tedesca, 6 erano boemi, 6 ungheresi e uno slavo confinario. Una certa omogeneità di lingua all’interno delle singole brigate fu comunque ricercata e delle cinque che componevano l’VIII° corpo d’armata, tre erano composte da sole truppe tedesche (Watervliet, Philippović, Lippert) che, non a caso, sostennero con successo il peso maggiore dei combattimenti. La brigata distaccata dal VI° Corpo d’Armata, con il compito di mantenere i collegamenti con le truppe impegnate a Madonna di Campagna, era formata dai quarti battaglioni di reggimenti ciascuno di nazionalità diversa e la preoccupazione sulla tenuta di queste truppe fece sì che venissero dispiegate in uno dei settori meno “caldi” del fronte. Alla fine l’unica tattica che Benedek riuscì a mettere in atto fu quella di creare un cordone, dotato di una certa profondità e aggrappato ad appigli ben scelti, a presidio del bordo meridionale dell’altipiano. Ogni volta che un settore era minacciato o veniva perforato da un’azione avversaria, una colonna di rincalzo veniva prontamente gettata a chiudere la falla. La totale mancanza di coordinazione dell’azione sarda permise ai comandi austriaci di mantenere sotto controllo la situazione sino a sera inoltrata.

Dopo il 1859 si decise di cambiare rotta. Le vie da percorrere erano o una migliore istruzione base della truppa ed un maggiore addestramento, oppure puntare su tattiche di combattimento semplificate ed ispirate a quelle, particolarmente aggressive e basate su manovre in colonne di battaglione, adottate dall’esercito francese18. Si scelse la seconda ipotesi. Per prima cosa fu modificata la struttura operativa delle forze armate. Le divisioni furono abolite in quanto giudicate troppo ingombranti e sostituite da brigate su quattro battaglioni rinforzati. Da quattro a sei brigate di fanteria, una brigata di cavalleria leggera, un reggimento di artiglieria campale e alcune truppe ausiliarie costituivano un corpo d’armata. Nel 1860 l’imperatore Francesco Giuseppe ed in suo ministro della guerra, August Degenfeld-Schonburg, abbandonarono le tre divisioni di battaglione volute da Radetzky per un battaglione impostato su due sole divisioni. La forma fisica della truppa fu interessata da una serie di intense esercitazioni in piazza d’armi, corse ad ostacoli, campestri sino a corsi di nuoto per i battaglioni di Jäger. Invece di mantenere ampi spazi tra una divisione e l’altra (il precedente regolamento aveva imposto uno spazio minimo di almeno 50 metri), Degenfeld scelse di ridurre le distanze a 10 metri. Durante le manovre di attacco la colonna di battaglione, formata dalle due divisioni poste una di seguito all’altra, sarebbe apparsa con un fronte di 180 uomini profondo sei ranghi. Durante le parate e le riviste ufficiali lo spettacolo era impressionante, ma in battaglia tali formazioni risultavano bersagli troppo visibili e vulnerabili. I cambiamenti tattici vennero ufficializzati con il nuovo Exercitium del 1861 il quale, a sua volta, produsse l’Exercir-Reglement del 1862 ed il Regolamento di Manovra del 1863 in base ai quali l’esercito imperiale abbandonò la tradizione Stellungskrieg per una nuova Stosstaktik (tattica d’attacco). Solo i battaglioni di Jäger avrebbero usato i loro fucili19. La fanteria di linea avrebbe invece formato delle colonne di battaglione, il più possibile compatte, allo scopo di formare la massa critica necessaria per lo sfondamento del fronte avversario che, nel frattempo, il tiro dell’artiglieria e della fanteria leggera doveva aver sufficientemente indebolito20. Si trattava di un espediente semplice, funzionale ed economico per azzerare i problemi linguistici ed addestrativi che erano emersi in passato. I soli fucili rigati Lorenz Jägerstutzen M 1862 non potevano garantire la necessaria potenza di fuoco per danneggiare seriamente il fronte avversario. I materiali d’artiglieria vennero tutti aggiornati in base all’esperienza del 1859, e nel 1866 le batterie campali si basavano sugli agili pezzi rigati da 4 ed 8 libbre M 1863, il cui caricamento era ancora ad avancarica21. Ogni volta che se ne presentava la necessità le batterie venivano ammassate davanti alle colonne d’attacco in modo da preparare la loro avanzata. Si trattava in questo caso di un utilizzo quasi spregiudicato dell’artiglieria specie se confrontato con il prudente impiego delle bocche da fuoco fatto durante la fase finale delle Guerre Napoleoniche e dalle armate della restaurazione. D’ora in

18 Queste erano state a loro volta aggiornate nel 1861: Instruction du 13 février 1861 sur l’exercice et les manoeuvres de l’Infanterie, 2 voll., Paris 1861. Gli studi austriaci su tale argomento confluirono nel testo di A. MOLLINARY, Studien über die Operationen und Tactique er Franzosen im Feldzuge 1859 in Italien, Wien 1864, destinato a supportare la scelta delle nuove tattiche basate sulle colonne di battaglione.19 Non a caso in ambito imperiale e nelle forze armate della Confederazione Germanica le truppe leggere iniziarono ad essere considerate a tutti gli effetti truppa di élite. A. ROTH, Leichte Infanterie oder Jäger als Elite-Infanterie, München 1866.20 Exercir-Reglement für die kaiserlich-königlichen Fuß-Truppen, Wien 1862; Regolamento di manovra per la fanteria austriaca (Vienna 1863), Torino 1864, pp. 42-4321 A. DOLLECKZEK, Geschichte der österrichischen Artillerie von den frühesten Zeiten bis zur Gegenwart, Wien 1887, p. 551. La scelta di rinnovare completamente il parco d’artiglieria spiega in parte anche le ragioni del mancato abbandono delle armi individuali ad avancarica per quelle a retrocarica. Sui materiali dell’artiglieria austriaca cfr. il recente M.C. ORTNER, Die österreichisch-ungarische Artillerie von 1867 bis 1918. Technik, Organisation und Kampfverfahren, Wien 2007.

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avanti l’esercito austriaco avrebbe formato una o due grandi batterie – solitamente di 100 pezzi ciascuna, sino ai 300 di Königgrätz – con le quali dominare il campo di battaglia22.

L’eccellente artiglieria non poteva tuttavia sopperire a tutte le mancanze delle dottrine di impiego adottate dopo il 1859. Anche se a molti risultava evidente che le colonne d’attacco fossero effettivamente troppo vulnerabili alla potenza di fuoco avversaria, specie se il nemico futuro poteva essere rappresentato dalla fanteria prussiana armata con fucile a retrocarica Dreyse (Zündnadelgewehr M/41), si riteneva che la massa dei battaglioni sarebbe stata comunque sufficiente ad assorbire le perdite e raggiungere e sfondare la linea avversaria. La guerra contro la Danimarca del 1864, combattuta a fianco della Prussia, dimostrò quanto la potenza di fuoco, espressa in termini di celerità di tiro, fosse l’elemento chiave dei combattimenti di fanteria23. L’armata danese era stata organizzata sul modello di quella austriaca: un’alta percentuale di ufficiali e sottufficiali era composta da militari di origine tedesca addestrati presso gli eserciti della Confederazione Germanica, mentre la fanteria veniva reclutata principalmente tra la popolazione contadina. Come nell’esercito austriaco, anche i danesi ritenevano l’assalto alla baionetta il metodo più semplice ed economico per gestire reparti formati da reclute giovani ed inesperte24. Il 3 luglio 1864, nei pressi del villaggio di Lundby, la quinta compagnia del 1° Reggimento di fanteria danese, 160 uomini comandati dal capitano P.C. Hammerich, assaltò in colonna i 124 fanti della prima compagnia del 3. Niederschlesisches Infanterieregiment Nr. 50 del capitano von Schlutterbach25. I prussiani si schierarono in linea dietro ad un rialzo di terra e rimasero in attesa dell’avversario che si stava preparando per l’assalto 600 metri a sud dalla loro posizione. Quando il nemico giunse a 250 metri aprirono il fuoco; altre due salve furono tirate a 200 e 150 metri di distanza. I danesi si fermarono, i superstiti risposero al fuoco ferendo 3 prussiani e quindi si ritirarono. Avevano subito perdite gravi: 32 uomini erano morti, 44 feriti, 20 altri si erano dati prigionieri e due erano dispersi, oltre i tre quarti della forza d’attacco iniziale26. I rapporti dell’azione giunsero anche in Austria, dove vennero pubblicati e commentati anche sulla principale rivista di studi militari, l’Österreichische militärische Zeitschrift27. Nonostante ciò i comandi supremi dell’esercito, primo fra tutti il Feldzeugmeister Benedek, continuavano ad insistere sulla validità degli assalti frontali in masse di battaglioni per sconfiggere l’avversario, e la fanteria prussiana nello specifico. Le spiegazioni di questa scelta tattica erano basate sul fatto che, “dato l’eccellente fucile prussiano, i prussiani non si aspetteranno mai un attacco frontale”. Ignorando totalmente gli avvenimenti di Lundby, Benedek istruì i suoi comandanti di corpo ad aggredire le unità prussiane non appena avvistate, ad “avvicinarsi con risolutezza sino a 300 metri e quindi caricare il nemico e sopraffarlo”28. L’addetto militare francese a Vienna aveva però i suoi dubbi: “gli alti comandi austriaci assicurano che l’Austria abbatterà i prussiani con la baionetta. Secondo me sembra di più una questione relativa al fatto se gli austriaci riusciranno o meno a raggiungere le linee prussiane”29.

Contro il Regio Esercito Italiano

22 Il consumo medio di munizione per ogni cannone austriaco presente sul campo di battaglia di Königgrätz fu di 118 colpi, rispetto ai 50 della controparte prussiana. Bisogna però sottolineare il fatto che l’artiglieria austriaca doveva garantire alla propria fanteria quella potenza di fuoco necessaria per affrontare l’avversario che l’armamento individuale non riusciva a sviluppare. Aus dem norddeutshen Bunde, in “Österreichische militärische Zeitschrift”, 1865, Vol. III, pp. 385-386; J. BRUGÈRE, La Tactique de l’Artillerie pendant la Guerre de 1866, Paris 1877. In alcuni settori del campo di battaglia, come ad esempio quello di Chlum, alcune batterie spararono non meno di 217 colpi per ogni singolo pezzo, uno dei bombardamenti più intesi che i campi di battaglia europei avessero visto prima di allora e che molti giovani ufficiali prussiani del 1866 rincontrarono nuovamente sui fronti della Prima Guerra Mondiale. Paul von Hindenburg, futuro capo di stato maggiore tedesco (1916-1919) e presidente della repubblica di Weimar, il 3 luglio del 1866 era un giovane comandate di plotone che a Königgrätz venne a trovarsi sotto quel fuoco tambureggiante perdendo in una manciata di minuti il suo sergente e metà della propria truppa. P. VON HINDENBURG, Aus meinem Leben, Leipzig 1934, p. 27.23 La potenza di fuoco, espressa in termini di celerità di tiro, era l’elemento fondamentale per le tattiche difensive della fanteria europea del XIX secolo. Questo principio era già stato compreso perfettamente in E. TALLICHET, Des progrès modernes dans l’armement de l’infanterie, Genève 1866, pp. 61-63.24 F. DE BAS, L'armée danoise en 1864, le Dannevirke et Dybböl, étude historique, Arnhem 1868, pp. 39-75.25 VON BOGUSLAWSKI, geschichte des 3. Niederschlesisches Infanterie-Regiments Nr. 50 von seiner Errichtung 1860 bis 1886 , Berlin 1887, pp. 55-65.26 I particolari del combattimento di Lundby sono presentati pressoché nello stesso modo in entrambe le Relazioni Ufficiali prussiana ed austriaca: Der Deutsch-Dänische Krieg 1864, Vol. II, Berlin 1887, pp. 706-708; F. VON FISCHER, Der Krieg in Schleswig und Jütland im Jahre 1864, Wien 1870, p. 356.27 Die Schiessübungen der königlich preussischen Infanterie, in “Österreichische militärische Zeitschrift”, 1865, Vol. III, pp. 19-29.28 WAWRO, The Austro-Prussian War cit., p. 3529 WAWRO, The Austro-Prussian War cit., p. 35.

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Il regno di Sardegna, restaurato durante il Congresso di Vienna come uno stato cuscinetto tra Francia e Lombardo-Veneto, aveva sviluppato già nel XVIII secolo una propria dottrina di impiego basata sul concetto dell’Army in being e che fu prontamente riciclata nel 1815. Pensata per resistere ad una invasione francese, la grande strategia sabauda sino a tutto 1832 prevedeva il ritiro del grosso dell’armata sarda all’interno del campo trincerato di Genova dove avrebbe atteso il soccorso della marina inglese e l’intervento dell’Austria. Tra il 1832 ed il 1847 nuove piazzeforti alpine, come Bard e Vinadio, furono completate consentendo al Regno di Sardegna di imbastire una linea avanzata di difesa a cavallo dello spartiacque alpino. Il regolamento tattico del 1838 enfatizzava non tanto le operazioni offensive quanto quelle difensive ribadendo la necessità di mantenere schierata in linea l’unità tattica di base, il battaglione, affinché sviluppasse una potenza di fuoco sufficiente ad arrestare ogni progressione avversaria. Le compagnie di Bersaglieri, fondate nel 1836 come truppa da montagna, avrebbero garantito uno schermo avanzato di fanteria leggera30. La guerra del 1848-1849, combattuta contro quello che era di fatto un ex-alleato, vide i reparti sardi messi in grave difficoltà: nella prima fase del conflitto la mancanza di credibili tattiche di attacco non riuscirono a garantire vittorie decisive (Santa Lucia), mentre nella seconda fase della guerra le rapide manovra messe in atto dagli austriaci e la loro capacità di ammassare colonne d’attacco in un solo settore del fronte frantumarono la linea sarda a Custoza e a Novara.

Il regolamento del 185331 proponeva colonne di battaglione o di compagnia, a loro volta supportate dall’aumentata aliquota dei reparti di Bersaglieri. Il risultato era un compromesso tattico piuttosto confuso. I battaglioni, disposti alternativamente in colonne di 600 soldati disposti su sei file, sarebbero dovuti avanzare contro il nemico, effettuare a distanza ravvicinata una scarica di fucileria, e quindi caricare alla baionetta. Al pari dei francesi, con i quali i sardi avevano combattuto in Crimea, la fanteria leggera fu aumentata numericamente e l’addestramento incrementato. Se nel 1848 esistevano due battaglioni di Bersaglieri, nel 1859 ne furono messi in campo ben 10, formati tra il 1849 ed il 1852. Negli anni Cinquanta del XIX secolo i Bersaglieri iniziarono ad operare con un nuovo livello di efficienza basato in piccole aggressive squadre di 4 uomini (le quadriglie) la cui velocità, formazione tattica e fuoco erano comunicati tramite tromba. Il coordinamento in combattimento tra fanteria leggera e fanteria di linea rimase comunque il problema principale dell’esercito sardo. Nel 1855 fu distribuito un Memoriale per la Fanteria e la Cavalleria destinato a suggerire quali i movimenti tattici per una forza composta da un reggimento di fanteria e un battaglione di Bersaglieri. L’idea rimaneva quella di far avanzare reparti di fanteria leggera, “ammorbidire” le difese avversarie con tiro di precisione, sfondare il fronte avversario con un attacco frontale alla baionetta. La distanza tra la fanteria di linea e quella leggera poteva variare, a seconda della natura del terreno, dai 350 ai 1.050 metri32. Il regolamento del 1853, con le successive aggiunte e miglioramenti ricalcava in sostanza il coevo regolamento francese, con tutti i difetti insiti in quest’ultimo. Muovere interi battaglioni in colonna per un assalto all’arma bianca era una chiara sottostima della potenza di fuoco che il campo di battaglia del XIX secolo era in grado di sviluppare. Senza contare l’effetto delle armi a canna rigata, il cui reale impatto fu in realtà meno determinante di quanto si possa oggi ritenere, reparti equipaggiati con fucili a percussione (che di fatto triplicarono la cadenza di tiro rispetto ai fucili a pietra focaia) a canna liscia sarebbero stati in grado di infliggere perdite notevoli nei confronti di qualunque attaccante. Questa fu una delle ragioni delle gravi perdite subite dall’esercito sardo a San Martino nel 1859.

Il nuovo esercito italiano adottò completamente le dottrine di impiego e le tattiche di combattimento dell’esercito del regno di Sardegna. Paradossalmente non tutti gli italiani furono chiamati a combattere sulle rive del Mincio. Nel giugno del 1866 su 400 battaglioni di fanteria 120 rimasero a sud di Roma per le operazioni di controguerriglia nel Mezzogiorno. Inoltre ben 35 degli 80 reggimenti di linea erano stati reclutati nel Mezzogiorno. Temendo diserzioni di massa, la maggior parte di questi reggimenti furono ritenuti non idonei al combattimento e tenuti lontani dal fronte, con il risultato di privare l’esercito di circa metà delle forze e costringere l’alto comando a grattare il fondo del barile tra le classi di leva del nord, dove furono richiamate reclute già scartate e di secondo e terzo rango. Quando nel giungo del 1866 fu decisa la leva di 105.000 coscritti per un’armata di riserva, furono prontamente esentati dalla chiamata i distretti del sud, della Sicilia e della Sardegna33. La scarsa alfabetizzazione della truppa, la pessima qualità delle reclute, 30 Nel Regio Brevetto del 18 giugno 1836 lo stesso Carlo Alberto sottolineava “di quanta utilità sarebbe in occasione di guerra un corpo di bene addestrati ed esperti bersaglieri, singolarmente in un paese montuoso, impedito, ed opportuno alla guerra minuta, quali sono appunto nella massima parte i nostri Stati [...]”. Nello stesso documento si ritrova che “gli uomini oriundi delle provincie alpestri e coloro che esercitano la professione di cacciatore o guardaboschi o simile saranno da preferirsi”. P. FEA, Storia dei Bersaglieri, Firenze 1879, pp. 261-262.31 Regolamento per l’Esercizio e le Evoluzioni della Fanteria di Linea, 3 voll., Torino 1853.32 O. GAUDENZIO, Memoriale per la Fanteria e la Cavalleria, Torino 1855, p. 17.33 WAWRO, The Austro-Prussian War cit., pp. 83-84.

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e il pessimismo degli alti comandi non rendevano fattibili altre tattiche di combattimento se non una statica difesa di appigli tattici ben scelti, oppure assalti in colonne di battaglione come si era visto fare nella campagna del 185934. Sebbene fosse impegnato in duri combattimenti di controguerriglia sin dal 1860 ed avesse adottato nuovi sistemi d’arma quali fucili ed artiglierie rigate35, quello italiano non era poteva certo definirsi un esercito pronto ad una guerra ad alta intensità come quella del 1866. Il servizio di intelligence della Süd-Armee dell’arciduca Alberto era in grado di muoversi più o meno liberamente in tutti i campi italiani. L’esercito italiano mancava di traini, cavalli, pane e foraggio e vino ed “il caos regna su tutto il fronte da Cremona a Bologna. Le truppe italiane non hanno alcun riparo dove dormire e sono affamate”36. Non sorprende dunque il fatto che un po’ ovunque la truppa protestasse contro i propri comandanti. Tra maggio e giugno furono numerosi i casi di diserzione, al punto che i fuggiaschi che avevano superato la frontiera con l’Austria erano di una tale quantità che il comando di Verona valutò ad un certo punto la possibilità di un loro arruolamento. Il 20 maggio Vittorio Emanuele II sentì la necessità di visitare le truppe attestate a Cremona per intimare ai soldati di non prestare orecchio ai disfattisti e ai traditori. La truppa rumoreggiò ed iniziò ad urlare al re che “basta che non veniamo traditi noi!”. I rapporti destinati al comando dell’arciduca concludevano che “le truppe italiane sono esauste e stanche”37.

07:30, 24 giugno 1866, Monte Cricol e Oliosi, settore occidentale del campo di battaglia di Custoza,

Il combattimento tra la Divisione Cerale (la 1a del Regio Esercito Italiano) e la Infanterie-Reserve-Division per il controllo delle alture del Monte Cricol e del villaggio di Oliosi è un ottimo esempio per comprendere le qualità delle dottrine di impiego, delle tattiche e dell’addestramento italiano ed austriaco del 1866.

34 Lo stesso La Marmora ammetteva che di 200.000 effettivi “solo la metà può essere considerata composta da soldati”. WAWRO, The Austro-Prussian War cit., p. 84.35 La fanteria era equipaggiata con il fucile rigato Mod. 1860, calibro mm 17,5. L’artiglieria era equipaggiata con i nuovi pezzi 8 B. R. (8 libbre, Bronzo, Rigato) M. 1863, su affusto Cavalli. La gittata era compresa tra i 2.500 ed i 4.000 metri. Si trattava di un buon cannone anche se non poteva competere in mobilità con la controparte austriaca. Il principale difetto, oltre alla pesantezza degli affusti, era l’assenza di munizione a Shrapnel. C. MONTÙ, Storia dell’Artiglieria Italiana, Parte II, Vol. III, Roma 1937, pp. 958-960.36 WAWRO, The Austro-Prussian War cit., p. 8437 WAWRO, The Austro-Prussian War cit., p. 84

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Nella prime piovose ore del 24 giugno la direzione del traffico militare italiano dalle teste di ponte sul Mincio verso est/nordest non riusciva ad instradare tutti i reparti verso la loro corretta direzione. La 1a Divisione, quella del generale Cerale, doveva risalire verso Castelnuovo dopo aver raggiunto l’incrocio di Oliosi, mentre la 4a del generale Sirtori doveva farsi strada verso Palozzolo dopo aver raggiunto le alture di Santa Lucia. Tuttavia la scarsa conoscenza del terreno, l’assenza di pattuglie esploranti e l’inesistente servizio cartografico fecero sì che già alle prime luci dell’alba l’avanguardia della 4a Divisione avesse perso la sua direzione originaria, spostandosi su Oliosi. Mentre Sirtori si trovava di fatto privo di qualsiasi forza esplorante, Cerale aveva ora davanti a sé una vera e propria brigata di formazione composta appunto dall’avanguardia della 4a Divisione agli ordini del maggior generale Villahermosa38 e da quella del maggior generale Villarey39. Si trattava complessivamente di 2.500 uomini organizzati su due battaglioni di linea, un battaglione rinforzato di bersaglieri, 4 pezzi d’artiglieria. Doveva essere una giornata di marcia quando all’altezza di Oliosi, mentre i reparti stavano riposandosi in attesa di capire quale strada seguire, proiettili di fucileria e di artiglieria incominciarono ad arrivare da praticamente tre lati: nord, est ed ovest. Davanti ad Oliosi, e proprio a sbarramento della strada per Castelnuovo che la 1a Divisione avrebbe dovuto percorrere, le pattuglie italiane si scontrarono con i reparti di testa della Brigata Benko dell’Infanterie-Reserve-Division del Maggior Generale Rupprecht. Si trattava del Feld-Jäger-Bataillon Nr. 3740, tre battaglioni del Grenzer Infanterie Regiment Deutsch Banater Nr. 12 ed una batteria da 8 libbre. La Brigata Benko si era schierata sulla cresta collinare del Monte Cricol, una lunga cresta morenica alta mediamente m 333 sulla campagna. Il fuoco d’infilata che tormentava i reparti italiani era una cortesia delle batterie della Brigata Baur del V Corpo che si stava disponendo sulle alture a est di Oliosi, sopra il corso del fiume Tione. La sorpresa per gli italiani fu completa. Dopo una notte sotto la pioggia e tre ore di marcia si trovavano ora in un complesso territorio collinare del tutto sconosciuto ed ostile mentre il nemico, che si supponeva essere lontano ed in ritirata, era ora davanti a loro schierato in forze e determinato a combattere. Villahermosa prese immediatamente delle decisioni. Nonostante la confusione nelle retrovie e l’ingarbugliata situazione tattica decise di impedire che il nemico si installasse sulla cresta del Cricol in modo definitivo. Gli austriaci stavano avanzando in colonne di battaglione, per cui non potevano presidiare completamente tutti i rilievi. Era meglio tentare di sloggiare il nemico ora, qualunque il costo dell’operazione, che osservare senza far nulla il ripetersi di una situazione operativa simile a quella di sette anni prima a San Martino. Inviò il 3° battaglione del 20° Reggimento a presidiare Oliosi con due cannoni e proteggere così il suo fianco destro, mentre il 5° Bersaglieri venne disposto in formazione di attacco e lanciato all’assalto del Monte Cricol. Le compagnie di bersaglieri sfruttarono bene gli appigli tattici che si presentavano loro e guadagnarono il controllo della cresta, giungendo a ridosso della Fuss-Batterie Nr. 9/V, ferendo il comandante. Tuttavia le forze a disposizione della Brigata Benko era di una tale entità che questo primo assalto italiano era destinato al fallimento. Il Feld-Jäger-Bataillon Nr. 37 ed il GIR Deutsch Banater Nr. 12 contrattaccarono riprendendo nuovamente il controllo della cresta, la quale fu temporaneamente abbandonata con un movimento in avanti verso Oliosi a causa del fuoco amico proveniente dall’artiglieria della Brigata Weimar 41. Nonostante il fallimento dell’azione, Villahermosa aveva guadagnato abbastanza tempo per permettere alla brigata di testa della 1a Divisione, la Pisa del generale Villarey, di raggiungere la piana di Oliosi. Con 9 battaglioni di fanteria di linea (29°, 30° Reggimento e il 4° btg/20°) e uno di bersaglieri (il 18°), Villarey godeva della necessaria superiorità numerica per fermare l’avanzata della Brigata Benko e ritentare nuovamente l’assalto al Monte Cricol. Quest’ultimo domina di circa 25 metri la sottostante piana di Oliosi. Gli uomini di Villarey, utilizzando la strada Castelnuovo-Valeggio come loro asse di avanzata, furono in grado di utilizzare efficacemente le case del villaggio di Mongabia come schermo. Inoltre le pendici del Cricol sono molto ripide. Le truppe italiane dovevano percorrere circa 500 metri dalla loro base di partenza sino alle pendici

38 L’avanguardia era composta dal 3° e dal 4° battaglione del 20° Reggimento Brigata Brescia, il 5° Battaglione Bersaglieri, una sezione d’artiglieria di due pezzi da 8BR, un plotone di genieri e il 3° squadrone del Reggimento Cavalleggeri di Lucca. BILABRUCK, Studi tattici cit., p. 42. RELAZIONE UFFICIALE ITALIANA, Vol. I, p. 167.39 Villarey aveva a sua immediata disposizione una compagnia del 18° Battaglione Bersaglieri, i quattro battaglione del 29° Reggimento Brigata Pisa, il 3° squadrone delle Guide e due pezzi d’artiglieria da 8 B. R. RELAZIONE UFFICIALE ITALIANA , Vol. I, p. 165; POLLIO, Custoza cit., p. 180.40 Il 29 maggio, nei battaglioni cacciatori da campo, ad esclusione dei numeri 23 e 28, venne ordinato di comporre 5 battaglioni di formazione mediante accorpamento delle seconde compagnie deposito. Le seconde compagnie di deposito dei battaglioni da campo N° 3, 15, 9, 10, 11 e 21 formarono il Feld-Jäger-Bataillon Nr. 37. A. WREDE, Geschichte der k.u.k. Wehrmacht. Die Regimenter, Corps, Branchen und Anstalten von 1618 bis Ende des XIX Jahrhunderts. Hrsg. von der Direktion des k.u.k. Kriegsarchivs , Vol. I Wien 1898, p. 635.41 POLLIO, Custoza cit., pp. 179-180. Il 5° Bersaglieri, impegnato in questo settore per il resto della giornata, soffrì negli scontri sul Cricol la perdita di 132 uomini, il 25% del totale. RELAZIONE UFFICIALE ITALIANA, Vol. I, p. 371.

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della collina. Negli ultimi 150 metri, la Kill Zone della fanteria austriaca, il versante meridionale del Cricol era così ripido da defilare la massa degli attaccanti. “L’assalto avvenne con una certa confusione al punto che venne definito non già per colonne quanto a frotte: non potei, in coscienza, asserire quale formazione avessero quei battaglioni, nè entrare in dettagli tàttici; le truppe erano animatissime, gli ufficiali lo erano ancor di più: si vide il nemico di faccia, si caricò... e ci trovammo padroni del Ciglione”42. Le colonne di battaglione italiane riuscirono a prendere il controllo della cresta respingendo la Brigata Benko dalle sue posizioni catturando due pezzi d’artiglieria con tre cassoni di munizioni. Fu in questo frangente che il generale Villarey venne ucciso in combattimento. Le colonne di battaglione, trasformatesi in agglomerati di uomini più o meno disordinati, non potevano occupare l’intera cresta del Cricol, ma vennero a concentrarsi in alcuni settori precisi, quali edifici rurali, o sulle quote più elevate del profilo del profilo collinare senza un piano preciso di difesa. Tre battaglioni del 30° Reggimento si attestarono a Zenati; al centro della cresta intorno alla Quota 12343 si ammassarono non meno di quattro battaglioni di fanteria (1 btg. 20°, 18° Bersaglieri, 2 battaglioni e mezzo del 29°), mentre tra Fenilon e la periferia sud di Mongabia vennero ad attestarsi altri tre battaglioni (5° Bersaglieri, 1 btg. 29°, 1 btg. 43°). Numericamente non si trattava di una forza disprezzabile, almeno 5.300 uomini, ma la loro disposizione tattica era tale che queste non potevano che difendersi malamente, non riuscivano a sviluppare efficacemente la propria potenza fuoco e le Kill Zones erano ridotte a poche decine di metri. Le masse di battaglione potevano essere utili per azioni di attacco, ma risultavano troppo massicce per sfruttare al meglio le difese, lanciare attacchi sui fianchi delle formazioni avversarie in movimento e colpirle con un’azione combinata con fuoco di fucileria e assalto alla baionetta. Ferma sulle proprie posizioni la Brigata Pisa, per giunta in crisi di comando dopo la morte del generale Villarey, attendeva i rinforzi della Brigata Forlì destinati a rilevarli. Mentre elementi del GIR Deutsch Banater Nr. 12 stavano ancora combattendo tra le case di Mongabia la Brigata Forlì, per esattezza il 2° Battaglione del 43°, iniziò a superare la cresta del Cricol alla sinistra del centro abitato 44. A questo punto avvenne la famosa carica del 6° squadrone dell’Ulanen-Regiment No. 12 Sizilien del capitano barone Anton von Bechtolsheim. I cavalleggeri austriaci, pur subendo gravissime perdite45, misero di fatto in rotta l’intera divisione colpendo duramente la testa della colonna italiana proprio mentre lo stato maggiore di Cerale, ancora convinto di avere a che fare con un distaccamento avversario e non con l’intero esercito austriaco, stava decidendo come disporre la Brigata Forlì. Il panico si diffuse rapidamente tra i battaglioni disposti in assetto di marcia e in breve la grande unità italiana cessò praticamente di esistere 46. A contribuire alla distruzione della 1a Divisione fu anche l’inizio dell’assalto della Brigata Piret, del V° Corpo 47, contro Oliosi praticamente alle spalle dell’asse di avanzata italiano, e il tiro concentrico di tutte le artiglierie disponibili dell’Infanterie-Reserve-Division. La potenza di fuoco austriaca colpì duramente i centri di difesa italiani, mentre la Brigata Weimar dava l’assalto alle ali del fronte avversario. Le colonne di battaglione austriache, ben supportate dal fuoco della propria artiglieria alla quale si aggiunse anche quella della Brigata Piret, poterono manovrare con una certa efficacia nel settore di Mongabia, che non era mai stata occupata da Villarey prima e da Cerale poi. In questo settore, sfruttando il varco tra il caposaldo di Fenilon e quello di Quota 123 e coperte da un inteso fuoco d’artiglieria48, quattro colonne di attacco del colonnello Weimar49 si aprirono la strada verso sud schiantando l’ala destra della Brigata Pisa. In questo momento apparvero tutte le lacune tattiche italiane. Da un punto di vista strettamente numerico la situazione non era disperata, anzi gli

42 Testimonianza del capitano Felice Sismondo, in POLLIO, Custoza cit., p. 187.43 Quota 123 è oggi riconoscibile per la presenza del monumento eretto a ricordo del generale Villarey.44 C. CORSI, Delle vicende del primo corpo d'armata durante il primo periodo della campagna del 1866, Milano 1867, pp. 74-7645 Su 101 uomini a disposizione del capitano Bechtolsheim 2 ufficiali ed 84 ulani furono persi in combattimento. Österreichs Kämpfe im Jahre 1866 (d’ora in avanti RELAZIONE UFFICIALE AUSTRIACA), Vol. II, Wien 1868, p. 75.46 Il piano stradale tra il quadrivio di Oliosi e Mongabia è in leggera ma continua salita sino al crinale del Monte Cricol. Solo la testa del 2°/43° Reggimento riuscì a vedere chi e come stava lanciando un attacco, mentre il resto della divisione, già colpita dal fuoco delle artiglierie e di fatto aggirata sulla destra, poteva scorgere solo esplosioni di granate, morti, uomini in fuga e drappelli di ulani lanciati alla carica. Fondamentale per la ricostruzione degli eventi risulta essere il Geschichte des k.u.k. Uhlanen-Regimentes Freiherr von Gagner Nr. 12 1854-1900, Stuhlweissenburg 1900.47 L’azione di questa grande unità austriaca sul fianco destro della 1a Divisione segnò il tracollo definitivo del fronte italiano attestato sul Monte Cricol. La forza della Brigata Piret ascendeva a non meno di 7.000 effettivi che in quel momento venivano ad operare praticamente nelle retrovie italiane. RELAZIONE UFFICIALE AUSTRIACA, Vol. II, pp. 76-79.48 L’artiglieria austriaca fu per l’esercito italiano a Custoza un vero flagello. I commentatori stranieri colsero immediatamente questo aspetto peculiare della battaglia: “è nostro scopo dimostrare come in ogni occasione in cui vi fu una sufficiente preparazione di artiglieria, specie alle brevi distanze, l’attacco della fanteria ebbe successo”. E.H. WICKHAM, The Influence of Firearms upon Tactics, London 1876, p. 100.49 In questo settore erano rappresentate dal 1°, 3° btg. IR 36 Degenfeld; 4° btg. IR 76 Paumgarten; 36 JB. RELAZIONE UFFICIALE AUSTRIACA, Vol. II, pp. 75-76; BILABRUK Studi tattici cit., 48-49; DU VERNOIS, A Tactical Study cit., p. 60.

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austriaci attaccavano in inferiorità numerica. La colonna d’attacco di sinistra contava circa 2.800 uomini, contro i quali erano schierati almeno 4.000 avversari, dei quali ben 1.500 erano attestati tra i centri di Fenilon e Mongabia. Il problema era che le colonne di battaglione italiane, sottoposte ad un fuoco di artiglieria tambureggiante, non si muovevano dai loro appigli tattici, non manovrano neppure quel poco necessario per saturare con il proprio fuoco gli spazi tra un reparto e l’altro mentre le proprie batterie divisionali risultavano del tutto surclassate da quelle avversarie. I battaglioni della Brigata Pisa furono separati l’uno dall’altro e costretti a retrocedere il più velocemente possibile prima di essere completamente circondati. Il varco che la Brigata Weimar aveva prodotto permise altre irruzioni di cavalleria che portarono al tracollo dei resti della Brigata Forlì. Le colonne d’attacco delle Brigate Weimar e Benko avevano garantito all’arciduca Alberto la conquista del Monte Cricol, di Oliosi, dell’incrocio stradale per Villafranca, ed infine la vittoria sul campo di Custoza. Ma le dottrine di impiego austriache si erano rivelate troppo esigenti in termini di vite umane. Gli statici battaglioni italiani erano comunque riusciti ad infliggere gravi perdite alle colonne d’attacco austriache. Solo nel settore Cricol-Oliosi la Brigata Benko lamentò 967 uomini fuori combattimento (13,7%), mentre la Brigata Weimar ne perse altri 952 (16%)50.

Contro i Garibaldini

Un discorso a parte merita il Corpo Volontari Italiani comandato da Giuseppe Garibaldi che nel 1866 combatté sul fronte del Trentino. Si trattava in pratica della riedizione, questa volta autorizzata dalle autorità regie, della campagna garibaldina del 1860 nel meridione italiano. Il 6 maggio 1866, in previsione della guerra con l’impero austriaco, con decreto del re Vittorio Emanuele II, fu istituito il Corpo Volontari Italiani affidato a Garibaldi e le commissioni militari, costituite da ufficiali del Regio Esercito Italiano e dell’Esercito Meridionale, preposte all’arruolamento dei quadri dei primi cinque reggimenti di fanteria. Il 20 maggio iniziarono, molto lentamente, i reclutamenti della truppa. Furono creati sette centri di addestramento per i volontari, a Como, Varese, Bergamo, Gallarate, Molfetta, Terlizzi e a Bari. Le leve apparvero subito poco adatte al teatro operativo trentino “essendo questa gioventù per ben quattro quinti proveniente dalla città, quindi difficile l’ottenerne da essa rapide, lunghe e faticose marcie, attraverso quegli altissimi e scoscesi monti, privi d’ogni risorsa”51.

I quadri ufficiali, formati in gran parte nella guerra del 1859 e nella campagna meridionale del 1860, e i sottufficiali, seppur costituiti da gente di valore, dimostravano nel complesso una imbarazzante impreparazione militare e organizzativa. Alcuni comandi erano stati affidati perfino a deputati del parlamento che mai avevano visto le armi o a ex guardie nazionali mobili adibite alla lotta al brigantaggio. Numericamente si trattava di una forza imponente, in quanto il 22 giugno la forza complessiva del Corpo dei Volontari Italiani contava esattamente 38.041 uomini, 873 cavalli, 24 cannoni e due cannoniere a vapore (Solferino e San Martino)52.

La maggior parte dell’armamento individuale della fanteria del Corpo Volontari Italiani era costituito da vecchi fucili ad avancarica a canna liscia (francesi M1822T, M1840 e M1842 in calibro 18 mm; piemontesi M1842 e M1844 in calibro 17,5 mm). In generale la situazione dei garibaldini era pessima 53. L’estrema eterogeneità delle truppe volontarie, la mancanza di un addestramento comune e delle necessaria disciplina

50 Nella Brigata Benko si contarono 130 morti e 596 feriti, mentre nella Weimar 104 caduti e 268 feriti. La forza delle due unità era rispettivamente di 7.043 e 5.815 uomini. RELAZIONE UFFICIALE AUSTRIACA, Vol. II, Tavola riassuntiva n. 27. I dati riportati confermano quanto le tattiche austriache sottovalutassero la potenza di fuoco del campo di battaglia ottocentesco. La Brigata Pisa, la più impegnata per la conquista e la difesa del Monte Cricol, lamentò 454 uomini persi in azione (45 caduti, 211 feriti, 143 prigionieri) su un totale di 3.988 soldati presenti (11%). Il reparto italiano più provato nello scontro fu il 5° Battaglione Bersaglieri, con 132 perdite accertate (20 caduti, 42 feriti), il 25% dell’effettivo (526 uomini). RELAZIONE UFFICIALE ITALIANA, Vol. I, p. 371.51 G. MAIRANI, Sulle balze del Tirolo. Storia aneddotica illustrata del II° Battaglione Bersaglieri Volontari nel Tirolo durante la campagna dell'anno 1866, Lugano 1915, p. 10.52 Cfr. le valutazioni numeriche e gli ordini di battaglia in V. PACOR VON KARSTENFELS UND HEGYLJA, Das Gefecht von Bezzecca am 21. Juli 1866, in “Österreichische militärische Zeitschrift”, 1908, Vol. I, pp. 193-194.53 “Il primo reggimento era il solo il quale, per la intelligente iniziativa del suo capo che di privata sua autorità fece contratti con fornitori civili, fosse vestito. Il secondo era mal vestito, e come già dissi, i due battaglioni di ultima formazione quasi nudi. Il terzo reggimento aveva soltanto 1.000 camicie e un numero uguale di fucili, il giorno che Garibaldi ne ispezionò il deposito. Il quarto era vestito un poco meglio, ma armato coi fucili della Guardia nazionale; infatti la Guardia nazionale di Brescia diede 1500 fucili ai volontari, 1.700 ne diede quella di Bergamo, ed io stesso vidi cittadini bresciani armare dei volontari coi propri fucili!…Il quinto trovatasi in una situazione più infelice ancora, e più di un terzo dei suoi uomini erano mezzi nudi e senza fucili, quando Garibaldi andò a ispezionarlo. Quanto ai reggimenti formatisi nelle provincie meridionali, può dirsi senza tema d’ingannarsi che essi erano equipaggiati nel medesimo modo; e come dicevami a questo proposito uno dei membri della commissione: “solo in cotesta circostanza il governo non aveva fatto ingiustizia per nessun dei reggimenti, tutti erano stati trattati con una rigorosa imparzialità!”. V. ESTIVAL, Garibaldi e il governo italiano nel 1866, Milano 1866, pp. 80-81.

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sia al tiro che nei confronti dei graduati rendevano impensabile la codificazione e l’impiego di tattiche di combattimento complesse ed articolate54. La dottrina di impiego garibaldina era pertanto piuttosto semplice e, in sostanza, ricalcava in qualche modo la Stosstaktik austriaca. Si trattava di “ammorbidire” il fronte avversario con il fuoco dell’artiglieria o il tiro di precisione di reparti di tiratori scelti e sfondarlo tramite un massiccio attacco alla baionetta. “[...] A taluni ufficiali, se non mancava punto l’ardire di condurre le compagnie ad un assalto, era deficiente l’esperienza nella tattica della guerra di montagna. Educato a combattere alla baionetta, dall’assalto del Casino Barberini a Roma a quello del colle di San Fermo e da questo alla battaglia del Volturno, fui sempre convinto che la forza del volontario sta nello slancio con cui eseguisce le cariche all’arma bianca; e si era principalmente con queste ch’io avrei agognato e sarei stato certo di vincere. Ma dove le cariche non erano possibili, risultati molto splendidi e rapidi non si potevano sperare, essendo noi muniti d’armi cotanto inferiori a quelle del nemico”55. Non di meno non c’era stato neppure il tempo, o la necessità, di addestrare gli uomini al combattimento all’arma bianca: “come tutti sanno, la leggenda dice che i garibaldini sono famosi per la baionetta. Or bene, il sesto reggimento che era il mio, e che fu quello che si trovò più degli altri nelle péste, non ebbe mai in tutta la campagna, e neppure nella guarnigione di Bari e d’Acquaviva, quello che si chiama scuola di baionetta. Solamente un giorno, in San Felice, c’insegnarono per un’oretta scarsa i primi rudimenti di cotesta scuola importantissima. Però allora si credeva che l’entusiasmo avrebbe abbondantemente supplito alla mancanza d’istruzione”56. L’entusiasmo non bastava e la mancanza di un addestramento fu da molti volontari in camicia rossa pagata con la vita57.

Una simile tattica poteva funzionare molto bene contro un esercito minato internamente come quello borbonico del 1860, ma se impiegata contro reparti solidi formati da soldati motivati risultava un vero e proprio suicidio. Solo in questo modo si spiegano le paurose perdite subite da Garibaldi durante la campagna trentina del 1866 ed il continuo abbassamento del morale dei soldati sino al tracollo di Bezzecca 58: “i volontari credevano forse di rinnovare nel 1866 la marcia trionfale dell’Italia meridionale; perché non pensavano alla differenza dei luoghi, che, non permettendo le cariche alla baionetta, rendevano oltremodo difficile il vincere rapidamente, facendo uso di armi cotanto inferiore a quelle del nemico. Il disinganno ha

54 Occorre dire che il Corpo Volontari Italiani entrò in campagna non solo senza addestramento per le manovre di combattimento in formazione chiusa o aperta, ma anche senza che fosse insegnato agli uomini l’uso dell’armamento individuale: “ci fu fatto un discorso adatto alla circostanza, ci furono date istruzioni rigorosissime. [...] Se qualcuno si avvicinasse senza rispondere alla parola d’ordine, facessimo fuoco addirittura. L’oratore (era, se ben ricordo, un capitano) concluse ordinando che caricassimo le armi. Ma, incredibile a dirsi! In tutto il tempo dacchè eravamo arrolati, a nessuno era venuto in mente di darci nemmanco la prima lezione per cotesta indispensabile manovra. Bisognava fare di necessità virtù: pigliammo dunque senza fiatare le cartucce, e io che avevo veduto caricare qualche volta un fucile, imbroccai bravamente l amia cartuccia per il suo verso. Gli altri invece, tirando ad indovinare, cacciavano nella canna del fucile prima la palla e poi la polvere. E dire che di lì a un paio d’ore ci potevano trovare a dover far fuoco davvero!”. ANONIMO, Memorie alla casalinga di un Garibaldin . Guerra nel Tirolo 1866, Livorno s.d., pp. 75-76. L’autore di questo interessante documento apparteneva al 6° Reggimento.55 G. CADOLINI, Il Quarto Reggimento dei Volontari ed il Corpo d'Operazione in Valcamonica, Firenze 1867, p. 95. Giovanni Cadolini (1830-1917) era il comandante del 4° Reggimento.56 Memorie alla casalinga cit., p. 106.57 A Bezzecca il combattimento casa per casa nel villaggio fu contraddistinto anche da duelli di singoli soldati i quali, posti alla periferia della battaglia vera e propria, fecero uso dell’arma bianca. L’autore di Memorie alla casalinga di un Garibaldino fu testimone di uno di questi scontri: “mi rizzai sul gomito per assistere a quel singolare duello. Il garibaldino era un pezzo di giovanotto tanto fatto, in sui trent’anni, senza berretto in capo, e la camicia rossa lacerata in più punti. Il tirolese pure era grosso e nerboruto, con una faccia turchesca e un paio di baffi di capecchio-insegato. Però, dovendo anche egli incrociare la baionetta, mi accorsi che la sapea maneggiare a dovere, e otteneva sull’avversario la superiorità d’un sangue freddo ammirabile. Non c’era verso: uno dei due bisognava che rimanesse sul terreno sicchè i movimenti dell’arme erano diretti piuttosto a ferire ed uccidere che a difendersi, molto più che il fucile non è maneggevole come una sciabola da schermitori. Durava da qualche minuto la lotta, senza che una si mescesse al rumore secco delle baionette quando a un tratto il tirolese, misurata una finta al viso dell’avversario, abbassò velocemente l’arme e poi la ritrasse insanguinata: avea ferito il garibaldino in una coscia. Questi allora, reso cieco dal dolore, fece un gran passo in avanti appuntando la baionetta al petto del feritore, ma il feritore scostandosela violentemente con una mano potè con l’altra spingere la carabina nel braccio sinistro del più debole avversario, e passarglielo da parte a parte come un crivello”. Memorie alla casalinga cit., pp. 199-200.58 Wilhelm Rüstow, già capo di stato maggiore di Garibaldi nella campagna del 1860, argutamente annotava quanto segue: “il popolo che preso in massa non sa né leggere né scrivere, sa molto meno prendere in mano un compasso e fare con quelle delle considerazioni geografiche. Quando udiva parlare di Garibaldi ricorreva col pensiero alle gloriose cento leghe di marcia che corrono da Marsala al Garigliano. Che differenza fra allora ed adesso! E come poteva una tal cosa comprenderla il popolo italiano se udiva di quotidiane battaglia nel Tirolo meridionale ed all’evenienza ogni piccolo combattimento gli era imbandito, una, due, dieci volte cambiando la salsa? Per il poco che sotto tale rapporto si fece nel 1860, nel 1866 si fece troppo”. W. RÜSTOW, La Guerra del 1866 in Germania ed in Italia, Milano 1866, pp. 321-322.

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prodotto un funestissimo effetto sull’animo delle nostre milizie; talchè ben presto fu facile scorgere in essere il principio d’una specie di scontento che doveva poi trasformarsi in una serie di rimproveri ai loro capi”59.

Nonostante l’esaltazione che tale campagna ancora trova nella storiografia militare italiana 60, una analisi più accurata dei fatti racconta una storia ben diversa. Le truppe austriache del maggior generale Franz Kuhn von Kuhnenfeld, in tutto 17.000 effettivi dispiegati lungo il saliente trentino dallo Stelvio sino alla Valsugana61, in un mese permisero a Garibaldi e ai suoi volontari di progredire di appena 20 km dalla linea di confine sino a Bezzecca, limite della sua avanzata verso Trento, pagando a carissimo prezzo ogni scatto in avanti. Il rapporto delle perdite subite ed inflitte fu sempre a vantaggio austriaco: a Monte Suello, il 3 luglio, le perdite furono di 6:1, a Vezzo il giorno dopo di 4:1. Infine il 21 luglio a Bezzecca avvenne la battaglia di arresto decisiva. Spacciata in seguito come l’unica vittoria campale italiana nella guerra del 1866, il Corpo Volontari subì in realtà un rovescio tattico impressionante al termine del quale i volontari garibaldini lamentarono la perdita di 1.450 uomini (9,6%) contro appena 207 perdite (1,6%) austriache, con una proporzione di 14:162. Non stupisce affatto che dopo una batosta simile, pur rimanendo padrone del campo di battaglia, Garibaldi abbandonò ogni progetto di rapida avanzata verso Trento e fu ben lieto, il 9 agosto, di firmare il famoso “Obbedisco” che gli imponeva la ritirata dal saliente trentino 63. Date tali premesse anche la 15a Divisione Medici (9.530 effettivi e 18 pezzi d’artiglieria)64, inviata in Valsugana per tentare l’occupazione di Trento da est, optò per una avanzata quanto meno prudente, data l’efficienza in combattimento dimostrata sino ad allora dalle forze austriache65.

Contro i Prussiani

Circondata da potenziali nemici, la Prussia sin dal XVIII secolo sperava di concludere i conflitti armati che la vedevano protagonista il più velocemente possibile. Anche nel 1866 il capo di stato maggiore prussiano, Helmuth von Moltke, per la guerra contro l’Austria pianificò una Blitzkrieg in piena regola, allo scopo di colpire la Confederazione Germanica e le forze austriache prima che la mobilitazione dei reparti fosse stata completata. Una volta giunti a contatto delle forze nemiche queste dovevano essere circondate e tramite una decisiva Kesselschlacht definitivamente annientate. La chiave del successo risiedeva nelle tattiche di combattimento dei reggimenti di fanteria prussiani. Mentre gli eserciti europei, suggestionati delle teorie della strategia di Jomini, ritenevano che il successo fosse solo nel numero degli effettivi, nella massa d’attacco, nelle formazioni tattiche chiuse e nelle posizioni scelte per la difesa, Moltke vide un nuovo approccio per ottenere il successo sul campo di battaglia. Riteneva che un’armata ben schierata sul campo ma colpita da una serie di attacchi concentrici di fronte e sui fianchi “avesse sì il vantaggio strategico delle linee interne ma si trovasse comunque sconfitta a livello tattico”66. La formula del successo si basava su tre elementi:

- l’elevata alfabetizzazione del soldato prussiano. L’alto comando era strettamente controllato da Moltke, il quale silurava e metteva a riposo i generali meno capaci. Ma gli ufficiali dal grado di capitano in giù erano tutti molto giovani, istruiti ed affiancati da numerosi “volontari”, ossia studenti universitari ai quali era permesso servire con un grado di ufficiale per un anno di servizio rispetto ai tre previsti se si offrivano 59 CADOLINI, Il Quarto Reggimento cit., p. 9260 In particolare cfr. U. ZANIBONI FERINO, Bezzecca 1866. La campagna garibaldina dall’Adda al Garda, Trento 1966. A parte alcuni passaggi della Relazione Ufficiale Austriaca la storia operativa della campagna trentina del 1866 rimane sostanzialmente ancora da scrivere. RELAZIONE UFFICIALE AUSTRIACA, Vol. V, pp. 1-71.61 RELAZIONE UFFICIALE AUSTRIACA, Vol. V, Tav. I-V. Sulle dottrine di combattimento del generale austriaco Franz Kuhn von Kuhnenfeld (1817-1896) si veda F. VON KUHN, Der Gebirgskrieg, Wien 1870; P. BERTINAIA, La Guerra di Montagna; filosofia e principi, in “Actes du XVIIe Colloque CIHM. La Guerra e la Montagna. Krieg und Gebirge. Mountains and Warfare”, Vol. I, Berne 1993, pp. 19-40.62 Si noti inoltre che le forze attaccanti erano in inferiorità numerica rispetto a quelle in difesa, 4.000 austriaci contro circa 10.000 garibaldini. Nelle fasi finali della battaglia Kuhn e Montluisant, oltre alla linea del fronte presso la quale stavano giungendo truppe nemiche fresche, dovevano gestire anche una massa di oltre 1.000 prigionieri. Ritenendo di aver conseguito il loro obiettivo strategico, l’arresto dell’avanzata delle forze di Garibaldi, decisero di ritirarsi. KARSTENFELS UND HEGYLJA, Das Gefecht von Bezzecca cit., p. 204.63 In merito alla decisione di Garibaldi di sgomberare il Trentino cfr. BERTINAIA, La Guerra di Montagna cit..64 RELAZIONE UFFICIALE ITALIANA, Vol. I, p. 411.65 Le quali si preparavano ad attaccare la Divisione Medici. RELAZIONE UFFICIALE AUSTRIACA, Vol. V, pp. 67-71. Contrariamente a quanto riportato da tutta la bibliografia in lingua italiana sin qui citata, Kuhn non solo non si accingeva ad abbandonare Trento ma aveva richiamato in Trentino un numero sufficiente di uomini per affrontare la Divisione di Medici. L’11 agosto le forze austriache disponibili in teatro erano oramai 18.882 uomini e 60 pezzi d’artiglieria, praticamente il doppio delle forze italiane contrapposte. Tali preparativi furono descritti anche da RÜSTOW, La Guerra del 1866 cit., pp. 338-340.66 WAWRO, The Austro-Prussian War cit., p. 21.

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volontariamente in caso di mobilitazione. I sottufficiali erano tutti professionisti, orgogliosi del loro grado ed estratti principalmente dalle classi medio -borghesi, ai quali spettava una buona pensione una volta terminato il servizio attivo. Al contrario delle forze austriache avversarie, e di quelle italiane alleate, i coscritti prussiani erano fisicamente ben allenati, addestrati e disciplinati. Anche i soldati semplici sapevano leggere e risolvere operazioni matematiche, grazie ai programmi di alfabetizzazione delle scuole elementari adottate nel regno di Prussia all’inizio del secolo67. I piani di battaglia potevano essere così presentati impiegando modellini in scala, disegni, mappe ed affrontare esercizi tattici di vario genere ed in svariati contesti. I tre anni di servizio militare erano così intensi e ben organizzati che ai riservisti bastavano solo due o tre raduni all’anno per mantenere in esercizio le proprie nozioni belliche e pressoché nessuno alla Landwehr. I coscritti prussiani si esercitavano intensamente, più che negli altri eserciti europei, al tiro e al fuoco prolungato con la propria arma di ordinanza, sperimentava le tattiche di combattimento entro scenari verosimili68. L’educazione militare della recluta continuava anche nelle camerate. I Dienstliche Vorträge o “letture di servizio” risuonavano per i corridoi e le stanze delle caserme dopo le giornate passate in piazza d’armi o nei campi di manovra. I sottufficiali non mancavano di ricordare che “il soldato deve difendere la patria contro nemici esterni e mantenere l’ordine interno”69. Un simile indottrinamento si faceva presto largo tra la giovane truppa, instillando una feroce disciplina che servì non poco a mantenere coesa l’armata prussiana durante i duri combattimenti nelle guerre del 1864, 1866 e 1870-1871;

- la potenza di fuoco del fucile a retrocarica: Nel 1866 l’esercito Prussiano era l’unica forza armata al mondo ad impiegare il fucile a retrocarica Zündnadelgewehr M/41, comunemente noto con il nome di Dreyse. Adottata già nel 1849, tale arma non suscitava particolari entusiasmi. La chiusura dell’otturatore permetteva la fuga dei gas di combustione della polvere, riducendo così la gettata utile. La cadenza di tiro era sicuramente maggiore rispetto alle altre armi ad avancarica, ma alcuni analisti ritenevano che in mano di truppa poco addestrata le scorte di munizioni sarebbero state esaurite in combattimenti avanzati prima ancora che la battaglia vera e propria cominciasse70. Un soldato austriaco o italiano nel 1866 portava nella sua giberna circa sessanta colpi, utili per un’ora di fuoco prolungato. La stessa quantità di colpi erano per il Dreyse la munizione sparata in poco più di quindici minuti di combattimento. Mentre i fucili ordinari obbligavano il soldato a caricare in piedi, il fucile a retrocarica permetteva di ricaricare e fare fuoco sia da posizione inginocchiata e anche prona. Il concetto chiave era piuttosto semplice: interessava maggiormente la cadenza piuttosto che l’accuratezza del fuoco. Inoltre l’addestramento era stato concepito appositamente per incoraggiare le reclute a comprendere sino in fondo le potenzialità della propria arma. Mentre i soldati austriaci sparavano non più di venti colpi all’anno, le reclute prussiane potevano spararne almeno un centinaio. I primi si esercitavano in poligono contro bersagli fissi, i secondi in campo aperto, seguiti dai propri sottufficiali;

- impiego tattico di piccole formazioni di fanteria. Le tattiche francesi del 1859 avevano fatto scuola di Europa. Unità di fanteria leggera in ordine sparso avrebbero colpito il fronte nemico, lo avrebbero fiaccato, avrebbero aperto una falla che le colonne di battaglione dei reggimenti di linea avrebbero sfruttato per lo sfondamento decisivo. I prussiani, grazie alla potenza di fuoco del fucile Dreyse, ruppero la coesione del battaglione come unità tattica di base e formarono una serie di colonne di compagnia o di plotone a seconda delle necessità tattiche, in grado di sfruttare ogni singola opportunità di avanzata e di disporsi in ordine sparso quando e se necessario. Mentre gli eserciti austriaci, italiani, francesi e russi raramente esercitavano la propria fanteria in formazioni più piccole di un mezzo battaglione, il comando prussiano comprese che tali masse di uomini avrebbero ostacolato l’uso del fucile a retrocarica; la potenza di fuoco, e non la baionetta, era la chiave della vittoria. I comandanti di battaglione furono incoraggiati a scindere i propri reparti in mezzi battaglioni, compagnie, plotoni e persino sezioni. Così suddivisa la fanteria prussiana

67 I dati del 1895 indicano che nell’esercito austriaco il 22% delle reclute non era in grado di leggere e scrivere, mentre il Germania tale quota scendeva allo 0,2%. ROTHENBERG, L’esercito di Francesco Giuseppe cit., p. 218.68 Sulle esercitazioni effettuate in tale periodo cfr. Moltke’s Tactical Problems from 1858 to 1882, a cura di K. VON DONAT, LONDON 1894.69 G. WAWRO, The Franco-prussian War. The German Conquest of France in 1870-1871, Cambridge 2003, p. 43.70 Nonostante la pretesa segretezza dello Zündnadelgewehr M/41, questo lo si trova già descritto nei manuali dell’epoca e il suo utilizzo venne riportato anche in rapporti a stampa ben prima dello scoppio della Guerra Danese del 1864. J. SCHMOELZL, Ergänzungs-Waffenlehre oder die Feuerwaffen der Neuzeit, München 1851, pp. 24-28. La presenza di queste armi di nuova generazione non sfuggì anche alle missioni militari statunitensi. MILITARY COMMISSION TO EUROPE, Report of Major Alfred Mordecai of the Ordnance Department, Washington 1861 pp. 159-160; G.B. MCCLELLAN, The Armies of Europe, Philadelphia 1861, pp. 76-77.

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era in grado di incunearsi a forza entro le maglie di un fronte avversario, aggirare postazioni fortemente presidiate e distruggerle con il fuoco incrociato71.

Questi tre elementi formavano l’intelaiatura portante della dottrina operativa prussiana, l’Auftragstaktik (tattica di missione). Il comandante indicava gli obiettivi di missione ai subordinati, che potevano eseguire gli ordini nella maniera secondo loro migliore72. Dopo le prove in Danimarca nel 1864, due anni dopo l’Auftragstaktik di Moltke si confrontò, direttamente sul campo di battaglia, con la Stosstaktik austriaca.

15:00, 3 luglio 1866, settore centrale del campo di battaglia di Königgrätz, alture di Chlum

Le prime battaglie sul fronte del nord avevano fatto comprendere a Benedek la potenza distruttiva delle nuove tattiche di fuoco prussiane. La disposizione tattica della Nord-Armee a Königgrätz il 3 luglio 1866 ricorda molto quella dell’VIII° Corpo a San Martino nel 1859. Era un ritorno alla tipica Stellungstaktik austriaca, ma in questa occasione non si poteva radicalmente cambiare tattica nel pieno di una campagna che era entrata nella sua fase culminante. Inizialmente gli attacchi frontali da ovest della Ia Armata prussiana furono contenuti con una certa facilità. Ma l’arrivo della IIa Armata prussiana da nord aveva completamente stravolto il fronte di battaglia della Nord-Armee austriaca. Nelle prime ore del pomeriggio l’altura del villaggio di Chlum73 era caduta in possesso della 1a Divisione della Guardia prussiana74 ed ora, per ristabilire la situazione e salvare le proprie forze dall’annientamento il comandante austriaco, il Feldzeugmeister Benedek, doveva rioccupare al più presto tale posizione. Ma la situazione stava sfuggendo di mano all’eroe di San Martino. Non riusciva più a coordinare qualsivoglia azione di comando, continuava a galoppare da un punto all’altro del fronte, come aveva fatto nel 1859. Ora non si trattava più di controllare tre o quattro chilometri di fronte, ma almeno una quindicina di chilometri e la scala dei combattimenti era a dir poco colossale. I primi assalti austriaci a Chlum, sempre condotti in colonne di battaglione, ebbero esito disastroso. L’IR 52 Herzherzog Franz Carl riuscì a raggiungere le prime case del paese ma venne duramente colpito dalla potenza di fuoco avversaria e rigettato indietro75. La Brigata Prohaska76, appartenente al III° Corpo, fu immediatamente lanciata alla conquista delle colline ad ovest del villaggio e, guidata dal colonnello von Catty, avanzò verso il crinale schierata in colonne di attacco. La fanteria austriaca incontrò il solito sbarramento formato dal rapido fuoco dei fucili a retrocarica, fu colpita di fronte sul fianco dalla truppa avversaria attestata alla base del colle a Rosberitz: “quando le masse austriache furono al di sotto dei 100 passi [circa 100 metri], [i prussiani] tirarono due salve generali ed aprirono un fuoco continuo con straordinario effetto. Il nemico si fermò per un momento e cadde indietro al riparo della massicciata stradale, soffrendo perdite enormi a causa del fuoco prussiano durante la ritirata”77. Benedek a questo punto si rese conto che doveva riprendere il controllo del villaggio di Rosberitz. Sino a quando non si trovava in possesso di questo centro non avrebbe mai potuto effettuare alcuna controffensiva per riconquistare Chlum. Rosberitz era presidiato da truppe di varie unità prussiane che formavano un Kampfgruppe costituito sul momento per la difesa dell’abitato78. Alle 15:30 dense masse di fanteria austriaca vennero concentrate per l’assalto, fatto questo che non sfuggì all’artiglieria prussiana che venne a prendere posizione sulla collina retrostante:

71 Tutti questi concetti furono inseriti nel volume di G. V. KESSEL, Die Ausbildung des Preussischen Infanterie-bataillons im praktischen Dienst, Berlin 1863.72 R.M. CITINO, The German Way of War. From the Thirty Years' War to the Third Reich, Lawrence 2005, pp. 142-173.73 La collina di Chlum è alta 290 m e domina di 50 m la piana sulla quale sorge il villaggio di Rosbertiz. Il fianco del rilievo è caratterizzato da un pendio molto dolce e totalmente aperto, ideale per organizzare sulla sua sommità una posizione difensiva, cosa che gli austriaci prima e i prussiani poi fecero.74 Tale divisione, comandata dal tenente generale Hiller von Gärtringen, era composta dalle seguenti unità: 1a Brigata, 1. Garde Regiment, 3. Garde Regiment; 2a Brigata, 2. Garde Regiment, Garde-Füsilier-Regiment, Garde-Jäger-Bataillon, Garde-Husaren-Regiment, 4 batterie. Q. BARRY, The Road to Königgrätz. Helmuth von Moltke and the Austro-Prussian War 1866, Solihull 2009, p. 484.75 L’IR 52 apparteneva alla Brigata Benedek del III Corpo: Feld-Jäger-Bataillon Nr. 1, IR 52 Herzherzog Franz Carl, IR 78 Sokcevics. BARRY, The Road to Königgrätz cit., p. 489. Le perdite del reggimento furono 40 morti e 959 feriti (33,5%). Geschichte de k. und k. 52. Linien-Infanterie-Regiments, Erzherzog Franz Carl, Wien 1871, pp. 595-597.76 La Brigata Prohaska (III° Corpo d’Armata) era composta dai seguenti reparti: Grenz-Inf. Regiment Nr. 13, 4° Btg/IR 55 Gondrecourt, 4° Btg./IR 56 Gorizutti, Jäger Bataillon Nr. 33, Jäger Bataillon Nr. 34. BARRY, The Road to Königgrätz cit., p. 489.77 Der Feldzug von 1866 in Deutschland (d’ora in avanti RELAZIONE UFFICIALE PRUSSIANA), Vol. II, Berlin 1867, p. 377. Si noti che l’attacco fu sostenuto e respinto praticamente da due sole compagnie, la 1a e la 4a del 2. Garde Regiment. Le perdite complessive dell’unità austriaca furono tutto sommato contenute a soli 248 uomini. RELAZIONE UFFICIALE PRUSSIANA, Vol. II, Appendice E, p. 3.78 Nel villaggio erano presenti la 4a e la 9a compagnia del 1° btg e il 2° btg del 1. Garde Regiment; la 9a, 10a, 11a e 12a compagnia del 2. Garde Regiment; la 2° compagnia del 3. Garde Regiment; il 3° btg. del Garde-Füsilier-Regiment. RELAZIONE UFFICIALE PRUSSIANA, Vol. II, pp. 379-380.

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“serrate le une alle altre le dense colonne della fanteria austriaca offrono un bersaglio che non poteva essere mancato, e i cannoni rigati produssero perdite enormi”79. I battaglioni austriaci “[...] mentre avanzavano per attaccare Rosberitz fermarono la loro corsa al primo colpo tirato dalla collina di Chlum; essi erano colmi di paura, e sembravano paralizzati in quel luogo da una forza magica”80. Oltre cento pezzi austriaci iniziarono il proprio fuoco di controbatteria, ma il primo assalto austriaco contro Rosberitz era stato per il momento respinto. Altre due Brigate, quelle di Jonak81 e Rosenzweig82, avanzarono con una massa di quattro colonne d’attacco lungo i lati sud ed ovest del villaggio. Nonostante le solite gravi perdite subite83, le forze austriache riuscirono ad occupare il villaggio grazie anche al vantaggio numerico che esse godevano sui difensori. Il VI° Corpo d’Armata fu incaricato allora di dare l’assalto alla collina di Chlum, presidiata dall’esausta 1a Divisione della Guardia prussiana84. Ma le quattro brigate che formavano la grande unità austriaca non attaccarono insieme o in modo coordinato il nemico, bensì una dopo l’altra. Non stavano affrontando truppa italiana o garibaldina ma una divisione della Guardia prussiana, quanto di meglio Moltke era riuscito a produrre con la sua riforma militare. Seguendo come asse di penetrazione una strada campestre affossata nel terreno, definita in seguito “la strada della morte”, i reparti austriaci iniziarono a risalire il pendio, solo per finire in un’imboscata tesa loro da quattro compagnie di fanteria e due batterie d’artiglieria. Il fianco del colle, dolce e privo di significativi ostacoli, permise ai difensori di Chlum di sviluppare tutta la potenza di fuoco che i fucili Dreyse garantivano loro, costringendo gli attaccanti a rintanarsi nel fondo della “strada della morte” dove vennero decimati. Riuscirono ad avvicinarsi a meno di cento metri dalle prime case di Chlum, dopo di che al primo contrattacco gli austriaci andarono in rotta. In sessanta minuti dal primo attacco a Rosberitz il VI° Corpo austriaco aveva perso in combattimento 4.805 uomini85. I soldati, abbattuti a terra dalla densità del fuoco incrociato dei prussiani, non riuscivano neppure ad alzarsi per caricare le proprie armi. Chi non era stato ucciso non poté far altro che arrendersi.

Conclusioni

La Guerra Austro-prussiana del 1866 fu un disastro per la fanteria austriaca. Ogni battaglia seguiva praticamente sempre lo stesso copione: una densa colonna di fanteria austriaca assaliva senza il necessario fuoco di copertura la linea del fronte prussiano, subendo a causa della rapidità di tiro dei difensori gravi perdite. Nel corso dei primi scontri del 1866 i prussiani uccisero, ferirono o catturarono cinque soldati austriaci per ogni perdita subita: 5.000 perdite austriache a Trautenau, 5.500 a Vyskov, 6.000 a Skalice ed infine 44.000 a Königgrätz. Sebbene solo un proiettile ogni 250 sparati dalla fanteria prussiana colpì qualcosa o qualcuno, tale risultato fu più che sufficiente affinché l’uso del fucile a retrocarica schiantasse il morale del nemico. Gli stessi prussiani riconobbero che “si doveva parlare in tali circostanze di un massacro, non di battaglie”86. Dopo Königgrätz l’armata austriaca aveva a sua disposizione ancora 200.000 uomini pronti al combattimento, ma erano tanto demoralizzati dal fuoco incessante della fanteria prussiana che i loro ufficiali superiori suggerirono di intavolare al più presto trattative per un armistizio, cosa che l’imperatore fu alla fine costretto a fare87. Ma condannare totalmente l’esercito austriaco del 1859-1866 e consideralo un fallimento totale alla luce dei fatti di Königgrätz ha senso solamente se l’impero asburgico avesse dovuto confrontarsi militarmente solo ed unicamente con la Prussia. L’Austria del dopo Napoleone I doveva combattere prima di tutto le rivolte interne, quindi confrontarsi anche con gli eserciti italiano, francese, turco e russo, solo per citare i principali potenziali avversari. L’abbandono delle tattiche del 1859 a favore della

79 RELAZIONE UFFICIALE PRUSSIANA, Vol. II, p. 319.80 BARRY, The Road to Königgrätz cit., p. 361.81 La Brigata Jonak (VI° Corpo d’Armata) era composta dai seguenti reparti: Feld-Jäger-Bataillon Nr. 6., IR 20 Prinz von Preussen, IR 60 Wasa. BARRY, The Road to Königgrätz cit., p. 490.82 La Brigata Rosenzweig (VI° Corpo d’Armata) era composta dai seguenti reparti: Feld-Jäger-Bataillon Nr. 17., IR 4 Hoch-und-Deutschmeister, IR 55 Gondrecout. BARRY, The Road to Königgrätz cit., p. 490.83 Le perdite per la Brigata Jonak e Rosenzweig furono rispettivamente di 1.767 (25%) e 1.448 uomini (20,7%). RELAZIONE UFFICIALE PRUSSIANA, Vol. II, Appendice E, p. 3.84 Tale divisione lamentò alla fine della battaglia la perdita di 38 ufficiali e 1.022 uomini (8,8%). RELAZIONE UFFICIALE PRUSSIANA, Vol. II, Appendice C, p. 9.85 RELAZIONE UFFICIALE PRUSSIANA, Vol. II, Appendice E, p. 3.86 “Für uns gibt es kein Kämpfen mehr, unter den bestehenden Verhältnissen müssen wir es ein “Schlachten” nennen”. C. MORAWETZ, Rückblicke auf unsere Taktik auf dem nördlichen Kriegs-schauplatze 1866 – nebs einigen Andeutungen zu Änderungen unserer taktischen Grundformen, in “Österreichische militärische Zeitschrift”, 1867, Vol. III, pp. 321-323, nota a fondo di pagina.87 Per una valutazione dell’impatto psicologico delle tattiche prussiane cfr. L. AUSPITZ, Zur Taktik des Hinterladers, in “Österreichische militärische Zeitschrift”, 1867, Vol. IV, pp. 191-193.

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Stosstaktik del 1861 fu una scelta razionale per un esercito che, alla prova dei fatti, si dimostrò poco coeso, poliglotta e formato da una massa di contadini per nulla alfabetizzati. Il rimedio a tali mancanze sembrava essere proprio quello di raggruppare questa rozza fanteria e gettarla il più velocemente possibile contro il fronte nemico. Custoza e la campagna trentina dimostrano che a livello operativo questa scelta aveva perfettamente senso. Ed avrebbe avuto senso anche contro qualsiasi altra armata europea, ad eccezione di una, quella prussiana. La Süd-Armee dell’arciduca Alberto ottenne un’importante vittoria sul fronte italiano. La cessione del Veneto al tavolo della pace non deve trarre in inganno; Custoza fu militarmente decisiva, e dopo il 24 giugno la minaccia strategica italiana venne praticamente eliminata. Lo stesso discorso vale per Bezzecca e tutta la campagna alpina del 1866.

Completamente differente il discorso a nord. Vienna era scesa in campo con un tipico esercito della metà dell’Ottocento, Berlino aveva invece allestito una forza armata pronta per le guerre del XX secolo.

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