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GIOTTO. Pesa sull'arte di Giotto un pregiudizio naturalistico che mai completamente ha saputo eliminare la critica. Dei due aned- doti famosi, significativi anche se falsi, l'uno, che faceva assurgere l'abilità tecni- ca di Giotto ad un virtuosismo quasi tra- scendentale, non è mai riuscito a vincere l'altro, che mostrava l'artista in erba di- scepolo diretto della natura: e neppure le pecorelle di Giovacchino, cosÌ poco colte sul fatto del vero, da assumere, più di un toson d'oro, gracile e raffinato aspetto araldico, poterono .smontare la fonte pa- storale e terrestre d'una pittura che fu perfin lodata d'eccitare i polpastrelli delle dita più che la corteccia cerebrale. Anche · quando critici meno positivisti si volsero ad un'indagine sullo spazio, fu sempre uno spazio naturalisticamente inteso che servì di canone, donde poteva arrivarsi a vedere in Giotto un precursore dello ste- reoscopio. "Perfino nel collegamento a di- stanza con Masaccio il nesso ininten'otto appariva la natura. E dove più assidua- mente s'è travagliata la critica, nelle at- tribuzioni, o che fossero rivolte a ripopo- lare le grandi zone lacunose che precedono o intramezzano i nuclei delle opere più sicure, o che si disponessero in elaborate costellazioni intorno a quei nuclei fissi, l'indagine esterna finiva per esaurire in nessi frigidamente formalistici la comples- sa interiore unità dell'arte giottesca. Que- sta unità risulta tale, in opere pur distan- ziate nel tempo, che l'aggiunta di un di- pinto giottesco a quelli autentici di Giotto, l) L'opinione contraria si deve al Romdahl (in Jahr- buch der Konig. Kunstsam., 1911, p. 13), il quale inter- pretando la scultoreitd delle scene della vita di Maria come un venuto a Giotto dalla visione della plastica fran- ce.se, nprendeva la vaga notizia vasariana sul viaggio di ad Avignone, ed esemplificava l'influsso della pla- stica francese in due altorilievi del secolo XIII l'uno dei quali proveniente da Saint Germer; suggestion'e che non 1. non può considerarsi solo un'ipotesi in- telligente e circoscritta, come per altri artisti anche sommi, ma gravita necessa- riamente su tutta l'immagine di Giotto che, attraverso le opere 'fondamentali, sia- mo autorizzati a delineare e a tener ferma. Con Giotto, meno che in qualsiasi al- tro caso, è permesso tentare un'indagine filologica che si limiti a visioni parziali, riconduca al tutto ogni esclusione o inclusione di opere. La pervicace detrazione del ciclo di S. Francesco ad Assisi dipende in fondo da questa mancanza di visione unitaria di un'opera unitaria, dalla confusione su- perficiale fra la permanenza di una per- sonalità nelle sue opere e una astratta postulata identità di repertorio lessicale. Ma come si ha un punto di partenza sicuro nella Cappella dell'Arena, di qui occorre partirsi per fondare la prima co- noscenza di Giotto. Fra le Storie della vita della Madonna, che certamente furono dipinte per pri- me, l) e quelle dei due ordini inferiori è stato sempre notato un distacco: 2) questo divario potrebbe dirsi qualitativo, imputabile ad una presenza più accen- tuata di aiuti. Dall'ordine superiore agli altri appare un chiaro trapasso stilistico, solo che si esamini attentamente due qual- siasi dei riquadri delle serie diverse. N ella Storia delle Preci per la fiorita ha basi stilistiche più fondate di quelle storiche. 2) Anche il Rintelen (Giotto und die Giotto-Apokry- phen, Basel, 1923, p. 17) nota il distacco ma nega, contro il Romdhal, che possa inferirsene un forte distacco di tempo, o, tanto meno, un'inversione nell'ordine naturale (dall'alto al basso), secondo cui gli affreschi dell'Arena dovettero essere eseguiti. 5

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GIOTTO.

Pesa sull'arte di Giotto un pregiudizio naturalistico che mai completamente ha saputo eliminare la critica. Dei due aned­doti famosi, significativi anche se falsi, l'uno, che faceva assurgere l'abilità tecni­ca di Giotto ad un virtuosismo quasi tra­scendentale, non è mai riuscito a vincere l'altro, che mostrava l'artista in erba di­scepolo diretto della natura: e neppure le pecorelle di Giovacchino, cosÌ poco colte sul fatto del vero, da assumere, più di un toson d'oro, gracile e raffinato aspetto araldico, poterono .smontare la fonte pa­storale e terrestre d'una pittura che fu perfin lodata d'eccitare i polpastrelli delle dita più che la corteccia cerebrale. Anche · quando critici meno positivisti si volsero ad un'indagine sullo spazio, fu sempre uno spazio naturalisticamente inteso che servì di canone, donde poteva arrivarsi a vedere in Giotto un precursore dello ste­reoscopio. "Perfino nel collegamento a di­stanza con Masaccio il nesso ininten'otto appariva la natura. E dove più assidua­mente s'è travagliata la critica, nelle at­tribuzioni, o che fossero rivolte a ripopo­lare le grandi zone lacunose che precedono o intramezzano i nuclei delle opere più sicure, o che si disponessero in elaborate costellazioni intorno a quei nuclei fissi, l'indagine esterna finiva per esaurire in nessi frigidamente formalistici la comples­sa interiore unità dell'arte giottesca. Que­sta unità risulta tale, in opere pur distan­ziate nel tempo, che l'aggiunta di un di­pinto giottesco a quelli autentici di Giotto,

l) L'opinione contraria si deve al Romdahl (in Jahr­buch der Konig. Kunstsam., 1911, p. 13), il quale inter­pretando la scultoreitd delle scene della vita di Maria come un do~o venuto a Giotto dalla visione della plastica fran­ce.se, nprendeva la vaga notizia vasariana sul viaggio di G~otto ad Avignone, ed esemplificava l'influsso della pla­stica francese in due altorilievi del secolo XIII l'uno dei quali proveniente da Saint Germer; suggestion'e che non

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non può considerarsi solo un'ipotesi in­telligente e circoscritta, come per altri artisti anche sommi, ma gravita necessa­riamente su tutta l'immagine di Giotto che, attraverso le opere 'fondamentali, sia­mo autorizzati a delineare e a tener ferma.

Con Giotto, meno che in qualsiasi al­tro caso, è permesso tentare un'indagine filologica che si limiti a visioni parziali, nè riconduca al tutto ogni esclusione o inclusione di opere.

La pervicace detrazione del ciclo di S. Francesco ad Assisi dipende in fondo da questa mancanza di visione unitaria di un'opera unitaria, dalla confusione su­perficiale fra la permanenza di una per­sonalità nelle sue opere e una astratta postulata identità di repertorio lessicale.

Ma come si ha un punto di partenza sicuro nella Cappella dell'Arena, di qui occorre partirsi per fondare la prima co­noscenza di Giotto.

• • • Fra le Storie della vita della Madonna,

che certamente furono dipinte per pri­me, l) e quelle dei due ordini inferiori è stato sempre notato un distacco: 2) nè questo divario potrebbe dirsi qualitativo, imputabile ad una presenza più accen­tuata di aiuti. Dall'ordine superiore agli altri appare un chiaro trapasso stilistico, solo che si esamini attentamente due qual­siasi dei riquadri delle serie diverse.

N ella Storia delle Preci per la fiorita

ha basi stilistiche più fondate di quelle storiche. 2) Anche il Rintelen (Giotto und die Giotto-Apokry­

phen, Basel, 1923, p. 17) nota il distacco ma nega, contro il Romdhal, che possa inferirsene un forte distacco di tempo, o, tanto meno, un'inversione nell'ordine naturale (dall'alto al basso), secondo cui gli affreschi dell'Arena dovettero essere eseguiti.

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delle Verghe, il tempio, issato come una scenografia solida contro il fondale azzur­ro, è spostato su un fianco non certo per dare l'illusione di uno spazio che continua oltre le riquadrature deU'affresco: si trat­ta di una eccentricità illusoria, perchè la sezione della parete di sinistra divide il rettangolo della composizione in due parti uguali, e gli oranti formano press' a poco un cerchio intorno a questa bisettrice, co­sicchè niente resta fuori del dipinto, e il dipinto non risulta pensato come un par­ticolare di una composizione più grande. Inoltre si istituisce una equivalenza fra la parte architettonica e la parte vuota dello spazio, equivalenza accentuata dalla cavità absidale del tempio, che ridotto quasi ad una enorme edicola, partecipa della stessa qualità spaziale del fondo az­zurro, in cui lungi da sentirsi atmosfera, si gradua solo, rispetto al tempio, un ar­retramento del piano di fondo.

. N elle figure si intensificano i contrasti luminosi, ma tale accentuazione è soprat­tutto cromatica, per un contrapporsi net­to di zone chiare e zone scure, come nel marcato pallore delle facce e nella com­patta densità delle chiome. D'altronde le ombre si addensano alla nascita delle pie­ghe, si approfondiscono in sottosquadri, che certo possono richiamare effetti ana­loghi prodotti da quegli improvvisi e sot­tili squarci che Giovanni Pisano sembrava aprire con un nervoso fendente, piuttosto che con la lenta nebbia, nei panneggi delle sue figure; ma per la stessa assenza o bre­vità di raccordo chiaroscurale le ombre nei solchi crescono a raso, commettendosi alle parti illuminate. CosÌ i contorni delle figu­re sono torniti con studiata levigatezza, ma per l'improvviso e sfuggente avvolgi­mento di un chiaroscuro denso e margi­nale, la convessità dei volumi viene nel momento stesso suggerita e depressa.

Si riconosce allora che Giotto, per da­re compattezza scultorea alle figure, si serve del colore preso, non già nella sua

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forza espansiva di pigmento, come nei momenti aurei dell'arte bizantina, ma po­sto a dare unità cromatica ai volumi, e a rapprenderli solidificandoli in getti d'una durevole sostanza. Nella vasta apertura spaziale, nel distaccG fra i diversi solidi, in questa visione che non sembra postu­lare unicamente il punto di vista da cui ritrae il pittore, si evocano ad evidenza effetti di statuaria più ancora che effetti plastici, suggeriti solo nello stondarsi un po' depresso delle teste, nel raso colmarsi delle pieghe: per un momento si può sup­porre di poter girare attorno a quelle figu­re, che d'ogni lato comporrebbero diversa­mente, come diversamente compongono, cangiando il punto di vista, le cariatidi e i telamoni di un pulpito di Giovanni Pisano. E le masse spaziali, precisate nei netti con­torni delle figure e delle architetture, non offrono adito ad alcuna dispersione atmo­sferica, non creano lontananza, ma si con­nettono costruttivamente, saldando in un tutto unico l'intera composizione. Un tale resultato svela premesse culturali di scul­tura e d'architettura, quali solo in Italia (e non in Francia, checchè si sia vaneggia­to), in quell'inizio del Trecento potevano aversi, nell'opera di un Arnolfo e di un Giovanni Pisano; per la pittura, nel solo Cavallini si vedeva qualcosa di simile a quella luce « increata» che nel momento stesso dà plastica emergenza ai volumi e li rapprende: ma invano si cercherebbe di individuare residui vivi di una tradi­zione bizantina o cristiana-orientale su cui pure si era innestata, svolgendosene, la pittura toscana del Dugento. Più l'analisi si esercita su un affresco di tanta appa­rente semplicità, o su qualsiasi altro della serie della vita di Maria, più ne appare sorprendente la interna coerenza, la per­fetta tenuta di tutte le parti. Un nuovo linguaggio pittorico è stato creato: e si manifesta senza lacune, fuso e pacificato. Ma in quella calma bisogna riconoscere catarsi non atonia di sentimento: vi è

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una chiarezza conoscitiva, una fermezza d'intenti, una sicurezza di realizzazione nel particolare anche minimo, che dal mondo formale proiettano una luce pari nel mondo morale dell'artista. Un senti­mento che dà vita a forme di tanta coeren­za e illibatezza, raggiungendo una sintesi senza residui, si è depurato di ogni sen­sualità e d'ogni passione: l'arte non è pie­gata a servire fini diretti di edonismo o di edificazione nè volta ad accogliere for­me ibride di esperienza, anche se un'espe­rienza umana sempre nuova e presente è presupposto indispensabile di quel senti­mento che, come la pianta dalla terra, se ne eleva perchè intimamente vi affonda le l·adici.

Ora, in questo suo tendere dalla terra al cielo, il sentimento di Giotto si svolge secondo un'interna gravitazione che lo contiene, lo giustifica, lo autorizza secon­do una suprema legge morale; e rivela una fede che è conoscenza immediata, assoluta, di cui il mondo fa parte inte­grale, come per Dante. E la conoscenza del Credo: un confluire di tutto il passato e di tutto il futuro, non meno certo e irremovibile, per il credente, del passato. Una fede che diviene costruzione logica, . in cui non c'è necessariamente anelito di mistica identificazione nella divinità, ma chiarezza dialettica, incessante controllo interiore, aderenza alla vita, sentita in ogni momento sul piano morale. Si iden­tificano coscienza etica e conoscenza, e il sentimento si afferma, nel momento stes­so che si esterna nell'opera d'arte, atto di eticità e di fede: poichè la fede stessa cadrebbe nella conoscenza logica, senza il sentimento che avvalla la rivelazione, e, aderendovi, attinge l'assoluto. Il senti­mento di Giotto, elevandosi, s'inarca, per così dire, secondo una traiettoria astrale, che non ne gradua per altro, in modo sempre costante, l'intensità o la tensione: ma il momento drammatico della confla­grazione passionale è superato fin dal prin-

ClplO: rappresenta, per riprender l'imma­gine, l'iniziale impulso di lancio che nel­l'opera d'arte si attiva e si espande non come materia ma come energia. Perciò la calma con la quale si rivela nell'opera giottesca non è atonia, ma catarsi, e il racconto raffrena la concitazione dramma­tica, sfugge l'effusione lirica, s 'eleva, con epica concretezza, alla contemplazione. Se allora si può parlare della religiosità di Giotto è come identità della sfera morale del sentimento con quella della fede: non ricerca, quindi, o esposizione di pietismi esterni ma connaturata scaturigine inter­na. Così, nella Storia delle Preci non è certo nella evocazione de~a preghiera, nel­la presenza, quasi indistinguibile dalle al­tre, di S. Giuseppe, nel riferimento al Vangelo: eguale religiosità è nella figura dell'Ira o nella Disperazione. Poichè il sentimento a cui si allude non può essere quello che sorge in chi riguarda con oc­chio di profano, volto a raccogliere solo lo spunto narrativo, ma è il sentimento che ha determinato lo stile e in quello si è compiutamente risolto.

N on sembri arbitrario avere accennato alla religiosità di Giotto sulla sola base delle opere d'arte, senza documentazioni biografiche, poichè, se è logico riferirsi storicamente alla dottrina cattolica me­dioevale, come inquadramento culturale comune, a cui nell'Italia del Trecento nes­suno avrebbe potuto sottrarsi, anche se non vi aderisse o lo combattesse; non bi­sogna confondere la biografia di Giotto con la genesi interna di creazioni figura­tive, nelle quali il sentimento, dall'altezza imperturbata della contemplazione, atte­sta la conclusa armonia di un mondo mo­rale, quale può solo generarsi nell'assoluta conoscenza della fede.

• • • In un affresco degli ordini inferiori,

nella Deposizione, si può vedere come lo stile di Giotto, dopo le Storie di Maria,

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senza arrestarsi, proseguisse una conse­guente evoluzione interna. -Se nella Storia deUe Preci era indicata in modo quasi di­retto la bisettrice che creava come le val­ve di un dittico, nella Deposizione s'indi­vidua il centro nella testa di S. Giovanni, posta all'incrocio della diagonale della co­sta del Calvario e della diagonale segnata dalle braccia gettate indietro in uno sta­tuario gesto di dolore. Tutte le altre figure si organizzano ai lati del S. Giovanni, si schierano su linee parallele con visihili e ricercate corrispondenze ritmiche. Vi è qui un principio compositivo che sostituisce all'aggruppamento concentrico delle Preci, una disposizione frontàle. N elle Preci, co­me in un gruppostatuario, si continuava a sentire_la possibilità di altri punti di vista, oltre quello adottato: nella Depo­sizione questo punto resta il solo: l'affre­sco ha un'unica fronte. Le direttrici pro­spettiche indicate espressamente nella di­sposizione a raggiera delle Preci, restano solo accennate nelle aureole in scorcio, al­trimenti si ridistendono, come rotando, dalla -profondità sulla superficie: infatti le diagonali che si incrociano dietro la testa del S. Giovanni giacciono su un piano, non generano profondità, in quanto non rappresentano la concorrenza di orto­gonali nella piramide ottica. CosÌ si perde anche ogni netta contrapposizione di mas­se chiare e scUre. N ella Maria curva sotto il S. Giovanni il profilo del dorso, rigoro­samente circoscritto, ricorda quello degli oranti delle Preci, ma qui, per il fatto di contrapporsi non ad una zona di colore unito, ma al mantello drappeggiato di Giovanni, il contrasto si attenua e anche la convessità del corpo si rattrae, tende a schiacciarsi. Ancora più chiaro è il pro­cedimento nelle due donne viste di tergo: in quella mediana il contorno si geome­trizza, forma una spezzata evitando là li­nea curva, che avrebbe accentuato la con­vessità dei volumi: mentre nella donna seduta al linrite estremo di sinistra, dove

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il contorno si arrotonda, tutta la massa si deprime e si deforma, come schiaccian­dosi contro un cristallo: non oltrepassa il piano della parete. Tale stesura lungo il piano della parete si accentua nel gruppo della Madonna e della Maria a mani alza­te: fanno una conversione di fronte: e an­che Giuseppe di Arimatea e Nicodemo si dispongono d'ala. Così tutte le figure ven­gono come attratte verso il piano della parete. L'abbreviato chiaroscuro margina­le deprime maggiormente le superfici con­vesse; le pieghe delle vesti si raffittiscono, e perdendo profondità e assimilandosi per­ciò ad un tracciato lineare, acquistano nel momento stesso generico valore cromati­co: ciò che serve sottilmente a rinsaldare il colore, non con l'accesa intensità del timbro, ma come complicandone la strut­tura armonica. CosÌ il colore può smor­zarsi nei toni e diminuire i contrasti, sen­za illanguidirsi, e conservando intatta e compatta la modulazione plastica. Ora, dall'esame della Storia delle Preci, è chia­ro come possa esse~e avvenuto il trapasso: come qui il condensamento volumetrico delle singole figure venga esteso a tutta la composizione. Ciò che doveva condurre ad una accentuazione del plasticismo, e ad una progressiva eliminazione di effetti

. di statuaria. Le masse spaziali, che si è sentito connettersi costruttivamente alle figure, dovevano suscitare un addensa­mento . ancor più omogeneo, e, per il ne­cessario differenziarsi dei volumi, più de­cisamente plastico: ed ecco infatti raffit­tirsi le figure, innalzarsi la linea dell'oriz­zonte a costituire riverbero immediato e il fondo azzurro stendersi come spessore piuttosto che come suggerimento d'infi­nito: quel fondo, che nelle Preci misurava un arretramento di piani, e qui viene ab­bassato direttamente sulla costa del Cal­vario. Si avverte lo studio di non lasciare vuoti d'aria, d'accorciare le distanze in profondità, di ottenere un'evidenza im­mediata, di pri~o acchito, di togliere

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TAV. I.

Fig. I. GIOTTO: Preci per la fiorita delle verghe. Padova, Cappella dell'Arcna.

Fig. 2. GIOTTO: La Deposizione. Padova, Cappella dell'Arena,

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Fig. 3. GIOTTO: Donnzione dci manlello. As~isi, S. Francesco. Fig. 4. GIOTTU: Visione dei Scg-gi. Assisi, S. Francesco.

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8 Fig. 6. SClIola rOmana del sec. X III. E saù c Isacco. Assisi, S. F rancesco. Fig. 7. SC llola romana del sec. X U r. Deposizione. Assisi, S. Francesco. ~ --, ~l

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TAV. IV.

Fil( . 5. SCUOJ.A ROMANA DEI. SEC. XIII: Profeta. Homa, S. Mariu ,iaggiorc.

Fig. 8. GIOTTO: Angelo (dalla Navicella). Boville Enrico, S. Pietro.

Fig. 9. GIOTTO : Madonna col Dambino. Assisi, S . . Francesco.

Fig. lO. GIOTTO: Madonna col Bambino. Padova, Cappella dell'Arena .

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qualsiasi progressione o dispersività di lettura: una nuova spazialità contratta, compressa, riassume i vuoti aperti nelle Storie della Madonna. S'afferma l'ininter­rotto plasticismo che segnerà ormai la co­stante direzione giottesca. Ma un simile integrale svolgimento plastico dalle Sto­rie della Madonna si genera secondo una conseguente interna linea di sviluppo: l'unità di visione s'interiorizza, e quindi

. si estrinseca con inflessibile coerenza. Non presuppone un nuovo atteggiamento spiri­tuale, ma un progressivo approfondimen­to, una sempre crescente lucidità: se non postula quindi diversità di sentire, con­sente per altro una maggiore tensione, non sfugge la rappresentazione diretta d'un contrasto drammatico, perchè nell' equi­librio formale, nell' estrema imparziale chiarezza, la tragedia rimane contemplata.

Studiando ora il ciclo di S. Francesco ad Assisi 3) è facile riconoscervi un antece­dente quasi immediato della Cappella del­l'Arena. TI lato sostanziale di quella parte della critica che ancora continua a ne­garlo a Giotto 4) non si può riconoscere nella incertezza della tradizione storica, ma nell'esame della spazialità che sembrò dover presumere una progressione dall' Are­na piuttosto che un'antecedenza, progres­sione che per altro, in hase ad altri ca­ratteri formali, doveva poi eliminare il no­me di Giotto. Ma è significativo che, in

. 3) L'attribuzione a Giotto degli affreschi della Vita d, S. Frarn:esco nella Chiesa superiore di Assisi non era certo pacifica neppure prima del Rintelen e oltre il Wi­ckhoff il Dvollik lo Schlosser, e anche l'Aubert in parti­colar modo l'aveva contraddetta (Cimabue Frage, Leipzig, 1907), tuttavia la critica che anche di recente la ne­ga (WEIGELT, CARRÀ, OFFNER), si fonda del tutto sulle. analisi acute e sottili del Rintelen (op •• ci,.), alle qualI veramente non è stato contrapposto nulla di con­creto.

. 4) L'argomento basato sul goticismo architettonico, gl~ manovrato dallo Aubert e dal Kallab fu ripreso dal R10telen e .dal Weigelt (Giouo, Leipzig, 1925): incapace di superarne Il pedantesco materialismo il Supino (Gio'Io, Fi­ren~, 1920) pensò bene, per conservare gli affreschi a Giot­to, dI SI?O~ta~e la data al periodo posteriore a Padova, cero cand<? di gIustificare tale assurdità con l'esagerazione dei re­ltar e. ~elle ~dipinture subite dagli affreschi assisiati: ma oplmone m proposito degli studiosi dal Cavalcaselle

sede di analisi, moltissime di quelle osser­vazioni risultino esatte, e che solo ne sia errata la valutazione complessiva. Poichè la spazialità veniva esaminata sulla falsa­riga di un'approssimazione allo spazio­natura; lo spazio era quello ambiente, che circondava le figure, o che le figure, ma­gari, creavano intorno a sè, nell'azione, come generando un campo magnetico. 5) E ciò portava ad un'analisi separata e an­titetica di figure, paesaggio, edifici, che presupponeva quindi già dimostrato quel che doveva dimostrarsi; ossia la mancan­za di unità, riferita non tanto all'unità dello ,stile dell'Arena, quanto ad una resa spaziale naturalistica. Ma nè lo spazio è funzione delle figure, nè le figure sono funzione dello spazio: la spazialità non si esprime meno nelle figure che nel pae­saggio, e deve essere intesa conglohante e vuoti e pieni, e figure e paesaggio, e terra e cielo. In questo senso l'analisi oh­hiettiva d'una qualunque delle Storie di Assisi dimostra solo che la spazialità non vi si svolge a seguito di quell'indirizzo decisamente plastico che accertano le Sto­rie degli ordini inferiori dell'Arena, ma precede la formulazione spaziale delle Sto­rie della Madonna. In queste appare già meno accentuato che ad Assisi, il gusto di proiettare, contro o fuori di un fondo inerte, un pulpito, un'abside, un'iconosta­si isolata, che divengono veri e propri

al Cecchi (Giouo, Milano, 1937, p. 36 e sg.) è stata assai più benevola, anzi il Toesca (S'oria dell'Ar'e i,aliana, To­rino, 1927, p. 1043, n. 53) riconosceva la fondamentale pru­denza che aveva guidato i restauri nelle parti essenziali degli affreschi.

&) Era questo il concetto fondamentale del Rintelen, la cui analisi della spazialità giottesca è rimasta per altro la più notevole, felice soprattutto in alcuni rilievi parti­colari ma che non giunge mai ad investire completamente il problema figurativo dell'arte giottesca. L'incertezza delle basi dalle quali moveva è rilevante soprattutto se si con­fronta il testo della prima edizionè (Miinchen, 1912) con quello della seconda (Basel, 1923). Il Ceccbi nel Gio,1o (Milano, 1937) si ricollega espressamente con le interpre­tazioni date dal Rintelen nella prima edizione, poi note­volmente modificate nella seconda (cfr. ad es. 1& ediz., p. 72: « Die Darstellung der Aktion nun fiihrt Giotto zur Raumgestaltung » che nella 2& ediz. diviene « Die KIarheit der Aktion ist der Nerv von Giottos Raumgestaltung »).

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edifici, come in altro senso sono architet­ture certi reliquiari. Questi pezzi di sce­no grafia solida nella loro dichiarata pu­rezza, nella integrità meticolosa dei pro­fili, in quel deciso superamento del dato narrativo, per cui dovrehhero solo raffi­gurare un pergamo, una Sclwla cantorum, mentre assurgono a dignità di indipenden­te edificio, come e più di una Chiesa o di un Battistero (del Battistero che ad esem­pio troneggia in fondo alla Strage degli Innocenti, all'Arena), s'elevano ad erme­tica apparizione come un oggetto rivelato nell'oscurità dal colpo di sonda di un rag­gio luminoso. E come l'oscurità completa, mancando di qualsiasi qualificazione non è l'infinito, cosÌ i fondi azzurri delle Storie di Assisi non rappresentano l'infinito, non lo suggeriscono, lo neutralizzano. E nep­pure hanno senso di mera superficie, ma come in natura la profondità di una di­stesa acquea resta indeterminata alla su­perficie, conservano un valore di massa, anche- dove semhrano indicare soltanto una superficie, e graduando invece un ar­retramento di piani dànno precisione di limiti scultorei anche ai cieli. Il Rintelen aveva ragione quando sentiva che ad As­sisi, fra paesaggio e figure non c'era quella misteriosa continuità che lega le composi­zioni degli ordini inferiori di Padova, ma errava quando voleva vederci una fran­tumazione, a posteriori, dell'unità giotte­sca. La sintesi ad Assisi non è meno rigo­rosa e priva di residui che a Padova, solo non è plastica. Si osservi una delle più histrattate storie di Assisi, la Donazione del Mantello: può semhrare, in un primo momento, che sia risolta tutta sul piano. Due diagonali si incontrano al ccntro, ove la testa di S. F:J:ancesco fa come da chiave di volta di una crociera: quattro vele ven­gono a formarsi, due di paesaggio, una di

8) Per l'esame della spazialità di Arnolfo mi ricollego interamente a quanto ha scritto G. C. Argan, nel breve ma densissimo studio sulla Architettura italiana del Due­cento e del Trecento (Firenze, 1937, pp. 39-43). Recente­mente (MARIANI, GIOTTO, Roma, 1937 e FIOCCO in Ri-

lO

figure, l'altra di cielo. Ma vi è assoluta equivalenza fla i quattro scomparti: la massa triangolare del cielo equilibra per­fettamente le concrezioni tliangolari dei colli, e non è sentita come fondale o come vuoto atmosferico, ma come massa rigi­damente immessa e connessa, addotta a gravitare nella composizione. Che è quan­to si è visto, solo con una maggiore gra­dualità di passaggi, nelle Storie della Ma­donna. Appunto i grevi nessi architetto­nici delle costruzioni giottesche di Assisi, sempre torreggianti e imminenti, tendono ad annullare ogni suggerimento d'infinito, a contenere qualsiasi penetrazione o di­spersione atmosferica, condensando il vuo- . to, come per attrazione, sui solidi, ottenen­done, nei precisi profilamenti, la cubatura esatta. CosÌ può istituirsi una corrispon­denza volumetrica fra concavo e convesso, che permette di usare il concavo in fun­zione di convesso e viceversa (si controlli nella Visione dei Seggi il trono centrale e la conca dell'ahside) di modo che anche la cavità-amhiente si schiuda a poca di­stanza dalle figure e venga a corrispon­dere ai volumi che contiene con il rap­porto che lega una nicchia alla statua. Tale perfetta equivalenza, raggiunto equi­librio di masse, nella sua statica imma­nente, è statuaria e architettonica, non plastica. Il nome di Arnolfo non nasce allora casualmente. Basti vedere, a mini­ma riprova, come Arnolfo entro la loha­tura del primo cihorio di S. Paolo, accen­tuando i contorni con le gre"i fasce mar­ginali, dia già risalto, intenzionalmente scultoreo, alla superficie cromatica, men­tre nel ciborio di S. Cecilia trafori i lohi, con un· valore solo transitoriamente cro­matico, perchè in realtà riesce a porre un' equivalenza fra massa aggettante e vuoto atmosferico rientrante. 6) Per una

vi3ta d'Arte 1937 (n. 3-4) p. 221 e seg.), si è insistito in particolari confronti fra le statue di Arnolfo e le fi· gure grottesche; ma ristretto a questo campo morfolo· gico il ràpporto Giotto Arnolfo svanisce piuttosto che concretarsi.

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simile concordanza con Arnolfo la spazia­lità giottesca, contraria a qualsiasi svi­luppo di linearismo gotico, è anche con­trapposta a Giovanni Pisano, che, adot­tando pluralità di punti di vista, accelera o rallenta la profondità con improvvisi scorci e scarti imprevedibili, sfrutta il mezzo atmosferico con la velocità di pre­sa di un'istantanea, e non che definirlo o cubarlo, se ne permea. I contorni delle sue statue sembrano smangiati dalla lumi­nosità aerea, che ora assorbono ora riman­dano, per improvvise incrinature, frazio­nandola, distinguendola in riflessi folti, ir­raggiati, come sorti da un prisma. Mai si determina quella condensazione che con­tiene, assiepa le gravi e monolitiche figure di Arnolfo e di Giotto. Se il plasticismo di Giovanni potè in seguito accelerare il passaggio dalle Storie della Madonna a quelle degli ordini inferiori, la spazialità di Giovanni resta sempre più complessa e di­scontinua di quella di Giotto, e non po­trebbe trovare con"incente parallelo ai suoi inizi. Mentre, dal primo fondamentale accostamento con Arnolfo, Giotto era na­turale che desumesse un'esperienza archi­tettonica diretta, nel momento stesso che ne intuiva la più profonda essenza, e che nel suo linguaggio architettonico ritenesse fedelmente termini arnolfiani, in quell'in­confondibile miscela di latino cosmatesco e di neologismi gotici. Un graduale sposta­mento potè determinarsi solo quando, ac­centuandosi la ricerca dell'unità di for­mulazione plastica, il passaggio dal con­cavo al convesso, dal vuoto al pieno dovè venire modulato, sempre evitando di ri­correre ad artifiziosi collegamenti lineari ma anche alle contrapposizioni troppo net­te e perentorie. Allora i nessi arnolfiani, i pinnacoli, le secche volute ricorrenti sui timpani ad ingranare direttamente col vuoto (nell'equivalenza e reversibilità di ogni motivo di greca), da un lato risulta­vano pletorici nella concisione voluta, dal-

') Cfr. op. cit., p. 40.

l'altro contrastavano, con gli innegabili residui lineari gotici, all'intento di indi­viduare, senza ridurre a sfoglie di super­fici, i piani fra i quali avveniva la modu­lazione plastica, già prossima a risolversi nella frontalità assoluta. L'architettura a cui tornò a guardare Giotto, fu quella che dalla qualificazione cromatica delle super­fici aveva tratto vigore e concatenazione estrema di masse; cosÌ comparvero a Pa­dova, negli sfondi delle storie dell'Arena, costruzioni semplici, disadorne, di sapore romanico; dai piani netti come le facce d'un prisma: ormai spoglie di quelle in­nervature gotiche, ancora scoperte in Ar­nolfo, e che presumevano una spazialità indeterminata cui la compatta, geometri­ca solidità dei nuovi volumi giotteschi contraddiceva. E ciò, ad occhi di critici ingenuamente progressisti, potè parere un regresso rispetto alle costruzioni gotiche, militanti nelle storie di Assisi, cosÌ da pretendere di trarne argomento insormon­tabile per mantenere le Storie di S. Fran­cesco a Giotto, e la datazione di queste alla fine del Dugento .. 7) .

Ma una tale negazione non può giu­stificarsi neppure sulla base di una certa discontinuità, imputabile alla collabora­zione di allievi, del Maestro di S. Cecilia, e forse di alcuni riminesi. Poichè questa collaborazione, riconosciuta da tempo, an­che se talora troppo puntualizzata, non infirma l'unità globale del ciclo, si loca­lizza in particolari, può apparire perfino, come nelle ultime tre storie, una tradu­zione approssimativa, ma afferma sempre, e nel momento stesso che si distacca e si distingue, la interna e individua coerenza dell'artista su cui gli aiuti tentano o cre­dono di modellarsi.

Alla formazione di questo artista, che si è visto operare in uno spazio misurato da Arnolfo, non sovviene alcun nome di pittore, eccettuato quello del Cavallini. Non se ne desume un'esperienza personale _

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e diretta della pittura hizantina, non un attacco sicuro con il suo immediato e con­terraneo predecessore, Cimahue. Le figure e i paesaggi · di Assisi recano i violenti ri­flessi di una luce che accentua il rilievo col contrasto · deciso delle ombre, sorvo­lando su ogni gradualità di chiaroscuro: ed è una luce che non si sovrappone a lumeggiatura ma ' si impone, incorporan­dosi, alla zona cromatica, scandisce i pia­ni in funzione dh'etta di una spazialità che si manifesta nella precisione delle de­terminazioni volumetriche. In Cimahue non si trovano che JumeggiatuTe croma­tiche, ancora nel senso della tarda pit­tura hizantina. Il solo effettivo preceden­te si trova nel Cavallini: e col Cavallini tanto se ne spiega lo svolgimento dalla pittura hizantina, quanto, su quella rin­novata hase, la ripresa, in modo tutto originale e conclusivo, di Giotto.

Con le sue figure, come intuì Argan, di qua dal piano della parete, 8) il Ca­vallini tornava a sciogliere per il primo le ahhreviature plastiche che la tradizione hizantina aveva tramandato. Il colore si investiva di compiti struttivi, avvampa-va, imbruniva. .

La pittura hizantina dell' epoca dei Pa­leologhi, dalla cui conoscenza più o meno diretta dovè muoversi il Cavallini, appe­santiva il chiaroscuro e cercava un riferi­mento lineare al piano, che la sensibilità hizantina dello spazio neutralizzava an­cora, nella fondamentale formulazione cro­matica che non esige superficie geometri­camente individuata, ma indefinita distan­za e indefinito spessore. Ora il Cavallini si volse a restituire alle figure senso di ri­lievo scultoreo, e, staccando le sue figure da un fondo indeciso, le fa sporgere verso chi guarda: tendenzialmente stanno per partecipare dello spazio in cui si muove chi guarda, ma si arrestano come su una soglia indeterminata, in una specie di in-

tercapedine spaziale, che non ha ancora omogeneità con le figure. Questo chiaro residuo della spazialitàhizantina nel Ca­vallini, è quello che sarà risolto da Giotto. Se si pensa un momento agli effetti di « schiacciato» del plasticismo giottesco, si percepisce di assistere alla fase finale: co­me Giotto rimettesse in fuoco, per cosÌ dire, i volumi cavalliniani collocandoli proprio oltre il piano della parete, da cui quelli emergevano, e desumendo come es­senziale il volume che il Cavallini colori­sta neutr.a1izzava ancora con i lamhenti, soffici effetti del suo chiaroscuro. Infatti il Cavallini finisce per affidarsi più alla struttività delle concrezioni di colore rea­lizzate dalla luce, che alla potenza tetto­nica delle omhre, nelle quali il fermento cromatico hizantino resta sempre latente. N egli affreschi di S. Francesco, e ancora più nelle Storie della Madonna dell'Arena, il chiaroscuro, sempre maggiormente con­densato e rattratto ai margini, finisce per diventare equipollente, nella impermeahi­le densità, alle zone di massima applica­zione luminosa. Donde si può vedere, in tutti i suoi gradi, il processo di solidifì­cazione operato da Giotto. Ma è proprio questo chiaro processo, per cui via via, dalla prima sintesi cavalliniana . della pit­tura paleologa, si assiste alla separazione definitiva, e senza ritorno, dal mondo figurativo hizantino; è questo graduale processo che più delle date, impedisce di invertire il rapporto fra il Cavallini e Giotto. Lo stile di Pietro Cavallini non postula altro precedente immediato e in­dispensahile della pittura hizantina: si ri­cordi che proprio quei contrasti di luce e chiaroscuro, nei quali il Cavallini coa­gulava la diffusa luminosità hizantina, so­no hensi rivolti intenzionalmente ad un fine plastico, ma non perdono, anzi raf­forzano il significato cromatico, che rite­nevano dalla formulazione tradizionale.

8) E come ripeteva ancora lo Zimmermann (Giotto, Leipzig, l,,899) e cerca di nuovo di prospettare il Gamba (in Riv. d'Arte 1937, n. 3.4, p. 278). .

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Fig. ) I. GIOTTO: Madonna di Ogni ssanti. Firenze, U ffizi. Fig. ) 2. GIOTTO : La Giustizia. Pndova , Cappella dell'Arena.

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TAV. VI.

Fig:. 13. GIOTTO: R esurrezione di Dru. iana. Firenze, Santa Croce.

Fig. 14. GIOTTO : Convito di Erode. Firenze, Santa_Croce.

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E il colore bizantino che si esalta dram­maticamente nel contrasto fra la luce che isola il puro timbro del cplore, quasi in una violenta percussione, e il-iumoso chia­roscuro che non attinge mai una netta

. fermezza plastica. Perciò, dalle premesse bizantine (non romaniche) il Cavallini se­gue una conseguente storia interna che non esige, al suo evolversi, altre fonda­mentali condizioni. Qualunque fosse il cli­ma artistico determinatosi a Roma dalla presenza di Cimabue, la posizione dei due artisti, come . quella di Duccio, è ai rami divergenti di un delta formato dalla stes­sa grande fiumana bizantina. Ma se ve­ramente il Cavallini non procede da Giot­to, come voleva il Vas ari, 9) manca quello che doveva essere il riscontro necessario, anche se non da tutti avvertito, alla di­battuta ascrizione a Giotto dei tondi di S. Maria Maggiore, delle Storie di Isacco, di Giuseppe e del Nuovo Testamento nella Basilica superiore di Assisi. l0) Questa at­tribuzione, se viene genialmente a colma­re la lacuna del primo periodo giottesco, periodo logicamente supposto, ma che non si sa neppure quanto debba portarsi in­dietro nel Dugento; sarebbe per altro più convincente se potesse fondarsi su precise analogie formali con opere sicure di Giot­to, e, pur restando un'ipotesi stilistica,

9) A questa reintegrazione dell' attività giovanilc di Giotto, già supposta, per le storie di Assisi dal Thode, hanno dato lustro, risonanza e peso critico il Toesca e il Longhl: nel suddividersi dellc distinzioni o dei tentativi per introdurre il Cavallini o risuscitare Gaddo Gaddi (F .MATHER, The [saac Master, London, 1932), si è ag­giunto il contributo del Coletti (in Critica d'Arte, 1937, n.O IX, p. 124 e sg.) che· rifiutando le Storie di Isacco, fissa il nome di Giotto solo per le Storie di Giuseppe, per l'Ascen­sione, la Pentecoste, la Pietcì, le Pie donne al Sepolcro. Il Coletti vede infatti nelle Storie d' [sacco, ·se non proprio il « tono» un colorito «di pacata consonanza di tinte arni­che .... con una sola nota stravagantc» (p. 124), mentre negli altri affreschi « il sistema cromatico è ancora fon­dato sulla dialettica dei colori di tradizione medievale bizantina»: ma da ciò si potrebbe, se mai concludere, che solo lc Storie d' [sacco sono di Giotto, poichè in tali ten­tativi, più divinatori che critici, dovrebbero per lo meno esse~e le. doti plastiche di Giotto a servire di guida: le qual~ doti. sono assai più spiccate nelle Storie d' Isacco che negb altri affreschi raggruppati dal Coletti.

Nella dibattuta questione non porta nessun contri. buto nuovo In Locholf in Riv. d'Arte 1937 (n. 3-4) pp.

~.

non fosse indispensabile · giustificarla con un'ipotesi storica. Perchè l'alunnato di Giotto presso Cimabue non · risulta da nessun documento, e non mi sembra da considerarsi evento cosÌ inevitabile,come forse poteva apparire quando il disdegna~ . to Dugento si conosceva essenzialinente in quel nome, sopravvissuto quasi soltan-, to in grazia della terzina d~tesca. I ri­ferimenti alla spazialità di Arnolfo o ·alle illuminazioni del Cavallini, cosÌ çhiari nel­le Storie di · S. Francesco e.in quelle del primo ordine dell'Arena, non potrebbero completarsi con un solo riscontr.o sicuro con l'opera, non più ipotetica ormai~ di Cimabue. Nè il passaggic:> dai tondi .() dàlle Storie di Isacco a quelle inferiori diS. 'Fran­cesco può graduarsi in modo cosÌ piàno ed evidente come qualchè fugace assonanza fisionomica farebbe credere. Resta nei ton~ di un colorismo acido e freddo, e nelle Stotie d'lsacco una fondamentale intona,: zione di cocciopesto che non hanno pa­rentele nè fra loro nè con le ' Storie di S. Francesco. Mentre la collazione romana fra Cimabue e il Cavallini è dimostrata da altre opere che nessuno, pur con la:buona volontà corrente, è riuscito ad avvicinare a Giotto: primo fra tutti il ciclo . di Ve­scovio. Criticamente, per attribuire le Sto- . rie d' Isacco a Giotto, occorre supporne

250 269: in un articolo pubblicato ~el medesimo nu, mero il Salmi cerca di trarre dalla Storia di Santa Maria Maggiore un argomento cronologico per togliere i tondi C le storie d'bacco a Giotto. Cfr. 1. c. p. 210 214.

l0) Sulla poca attendibilità della data 1298 per la Na­vicella sono già statc fatte tutte le considerazioni possibili: ma resta da concludere che, per quanto incerta, è sempre più ammissibile, almeno per questi frammenti della · Na­vicella, di quella del 1320. L. Venturi (in L'Arte, ]918, p. 229 e sg.) se riconosceva giustamente l'incertez.za. della tradizione storica legata a quella data 1298, si mostrava poi troppo tenero verso la Compilatio chronologica, fino a volerne ricavare la prova che Giotto prima, del 1320 non era stato a Roma. Ma le argomentazioni del Riiltelen non possono controbattersi in quanto si J;iferiscono alla poca attendibilità cronologica della Compilatio, evidentemente interpolata in epoca successiva alla data 1305 a cui è riferita la notizia giottesca. Tale notizia, se non ha alcun . valore per la successione cronologica non è però di~­strato che non ne abbia alcuno anche per quanto rf, guarda l'attività di Giotto, che poteva essere conosciuta esattamente anche dall' interpoIatore del testo di RiI,co-h~d~ . . .

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una prima fase cimabuesca; . ma poichè di questa non resta traccia nelle sue opere sicure, e neppure in quella che è stata la più discussa, negli affreschi di S. Fran­cesco, dovremmo concludere che l'espe­rienza cimabuesca si sarebbe cancellata completamente e di colpo dalla coscienza artistica di Giotto, ciò che contrasta, non solo con la generale esperienza, che di si­mili fatti spirituali si può avere, ma so­prattutto, nel caso specifico, con l'estrema coerenza di svolgimento interno che di­mostra, da Assisi al Campanile di S. Ma­ria del Fiore, l'opera di Giotto.

Resta innegabile che il collegamento dei tondi S. Maria Maggiore e delle Storie superiori, d'Isacco e del Nuovo Testamen­to, col Giotto giovanile e ignoto reca il segno inconfondihile della più raffinata filologia, per altro non so vedere l'indero­gabilitàdi questa fase decisamente cima­buesca di Giotto: nè, d'altronde, per Ma­saccio se ne postula una nell'orbita di Lorenzo Monaco. Un . genio come Giotto può anche nascere di colpo, e già quale appare ad Assisi con le Storie · di S. Fran­cesco. Nel riconoscere queste a Giotto, una volta accertata la convenienza con le pri­me storie dell' Arena e la necessaria e ri­spettiva precedenza, occorre non tralascia­re il ricordo di quelle tre scene della Vita di S. Francesco, riprodotte, dietro l'esem­plare d'Assisi, in calce alla tavola con le Stigmate già a S. Francesco a Pisa ed ora al Louvre. Il mediocre artista infatti, per autenticare la sua tavola, sapeva bene che non bastava scriverci il nome di Giot­to, e ci copiò allora, tre delle storie di Assisi. Nessuna più chiara dimostrazione, nessun più inconfutabile documento di questo; che per far credere un'opera di Giotto si sentisse la necessità di autenti­carla con la riproduzione di opere che evidentemente da tutti erano risapute di Giotto. Questa tavola mise infatti in serio imbarazzo il Rintelen, che dovè abbassar­si ad arzigogolare un 'insipida gherminella

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per convincere come mai, in un' opera ch'egli credeva quasi di Giotto stesso, si trovassero le riproduzioni di dipinti che toglieva a Giotto e assegnava ad un suo tardo seguace provinciale. Mentre il di­lemma sorge spontaneo: o il So Francesco del Louvre è di Giotto, e allora è inam­missibile che Giotto vi ricopiasse scene dipinte da un che sarebbe stato suo imi­tatore suburbano; o non è di Giotto, e allora è palmare che quelle storie sono state messe là ad avvallo del nome, poco credibile, che recano scritto.

In questo primo ambito temporale, studiando il passaggio dagli affreschi di Assisi alle prime storie dell' Arena, vale tener presente anche i due frammenti con gli Angeli che si dicono del mosaico della N avicella, più che altre opere, o illeggi­bili ormai sotto le sovrapposizioni, come il Bonifacio VI I I, o del tutto inconcilia­bili come il Polittico Stefaneschi.

Se tralasciamo le riserve, mai definitive, che si possono premettere circa l'effettiva, storica appartenenza a Giotto della N avi­cella, o sull'effettiva provenienza dei due Angeli del Museo Petriano e di Boville Ernica dalla Navicella stessa, un rilievo immediato soccorre: la solida, squadrata costruzione plastica delle due figure, la netta individuazione dei piani nei volti, la decisione nell'imposto, che oltrepassa quanto ancora, nelle fisonomie, nella scel­ta cromatica squisita, può far pensare a] Cavallini. Sebbene si debba andar cauti nei rilievi tecnici, troppo essendo difficile che Giotto abbia personalmente eseguito il mosaico, resta il fatto che nel passaggio dalla parte in luce .a quella in ombra del volto non sono usati semitoni intermedi, ma la parte in ombra s'incastra diretta­mente su quella in luce con uno scambio dentellato di tessere~ quasi a saldatura autogena; con una tecnica, cioè, che sa­rebbe erroneo considerare rozza, ma che perfino in un periodo aureo del mosaico, nel secolo XI, è stata talora usata per

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ottenere, egualmente, un modellato meno meccanico e uniforme: cosÌ nel volto della Madonna della Crocifissione a Dafni. Nel volto dei due Angeli il passaggio hrusco dalla guancia al soggolo scuro, che la deli­mita, ottiene la definizione netta del piano illuminato e l'imposto plastico rohusto che proprio si notano in alcuni volti di Assisi o delle storie dell'Arena. In questo senso la convenienza con Giotto è perfetta, nè mi semhra che l'opera potrehhe trovare collocazione cronologica più soddisfacen­te. 11) TI Cavallini, o il mosaicista che lo tradusse, a S. Maria in Trastevere, risolse, in casi simili, il passaggio dall'omhra alla luce con una tecnica che richiama invece il chiaroscuro sfumato degli affreschi di S. Cecilia.

In questo primo e solenne gruppo di opere, che si son viste di per sè disporsi in antecedenti e susseguenti, specchio non di un fittizio schema cronologico, ma re­gistrazione di un armonico sviluppo spi­rituale, la fantasia di Giotto certamente facit saltus, e fin nel corso stesso di un'ope­ra, come dal primo ai restanti ordini del­l'Arena, ma rende sempre un'immagine cristallina della persistenza e del progres­sivo arricchimento di uno stesso nucleo interiore e generatore.

Nelle Storie di S. Francesco, dove c'era da ricreare un'iconografia, e dove più facile si presentava il pericolo di cadere nell'aned­d06ca, nessun parallelo, se non estrinseco, è possibile con questa o quella delle reda­zioni della Leggenda di S. Francesco da cui, per la narrazione, il ciclo si è fatto dipendere. 1~) Intenti apologetici, o smi­nuzzamenti hiografici, sospetti eretici o polemici, cadono fuori di un'opera, e do-

11) Cfr. P. n. MARINANGELI, in Mise. Frane., XIII, 1911, p. 97, e Giollo nella Basilica di Assisi, Assisi, 1937, p'. 34 e sg. : l'A. ritiene che la fonte narrativa fu per G;IOttO la (~Leggenda di S. Bonaventura ", ossia la reda­ZIone uffiCIale francescana, contrariamente a quanto ave­~an~ creduto studiosi precedenti che ricercavano altre lonll.

12) La fonte originale di tutte le divagazioni fran-

vrehhero anche essere eliminati dal com­mento di un'opera, che della figura di S. Francesco non vuole dare una presen­tazione storica, un'evocazione mistica, o, celebrarne, a seguito di una forte tenden­za francescana, la previsione apocalittica. Quanto è stato scritto in cerca di una correlazione più intima fra S. Francesco e Giotto, sul sentimento della natura, sul nuovo patetico della mistica francescana, resta un contorno erudito, artificiosamen­te deduttivo, che del resto a volta a volta si è saggiato anche su Giunta e su Cima­hue, sul Maestro di S. Francesco e sul Berlinghieri, senza voler tener conto dei dati pittoriCi troppo diversi in ognuno per potervi rintracciare, se non arhitra­riamente, l'azione di un fermento, o me­glio di un clima comune. 13) Alla profonda e poetica umanità di S. Francesco, che, in una identificazione ancora più ' lirica che mistica, sentiva la fratellanza con tutte le cose come la responsahilità universale di tutte le colpe umane, Giotto si avvicinò con penetrante chiarezza, senza turhamen­ti mistici o apocalittici, e nel Santo essen­zialmente vide l'uomo .. Questo senso della dignità umana, sempre altissimo in Giot­to, si può controllare perfino nella noncu­ranza a seguire un'aneddotica e un'icono­grafia francescana già allora stahilita, a scendere ad un determinato particolare: S. Francesco, non è il Santo emaciato e ascetico di Bonaventura Berlinghieri o di Cimahue. Giotto supera cosÌ definitiva­mente ogni legame con un determinato S. Francesco o della storia o delle leg­gende o dell'apologetica: gli episodi della hiografia gli suggeriscono solo la trama iconografica; la continuità ideale, da epi-

cescane è da vedersi nel Thode (Franz von Assisi, Ber­Iin, 1885, 2" ediz., 1904) variamente riecheggiato dalla gran parte della critica giottesca fino al Cecchi (op. cit., p. 56 e sg.) e in genere dai medievalisti.

13) t questo l'avviso anche della critica più recente, non però del Rintelen che giustamente pose la Madonna di Ognissanti dopo l'Arena e prima della Cappella Pemzzi (op. cit. , cdiz. 1923, p. 106 e sg.).

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sodio a episodio, è un fatto iterativo in­terno, che riproduce ogni volta in termini variati della fantasia, un'identica direzio­ne del sentimento, volto, nella contempla­zione non già all'estasi, ma ad un'estrema chiarificazione di valori. Donde nessuna andatura rapsodica, nessun improvviso entusiasmo, neppure nei Miracoli, nelle Stigmate, . o nel Crocifisso di S. Damiano, ma la ricerca uguale e inflessibile d'una concretezza umana e non naturalistica, divenuta concretezza figurativa, nel mo­mento che si attua da una coscienza morale per cui la santità, come massima dignità dell'uomo, non appare necessario frutto di allucinazioni o di digiuni, ma è la stessa umanità, nella redenzione sociale cristia­na dell~uomo, santo in quanto uomo, non uomo come santo.

• • • Nella grande Madonna in trono degli

Uffizi, già ad Ognissanti, si suole vedere un' opera anteriore a Padova: 14) ciò che, una volta concordi nel riconoscervi Giot­to, non sarebbe un gran male, se la da­tazione troppo anticipata non risultasse incongrua rispetto a quelli che sono gli stabili riferimenti .per l'arte di Giotto, gli affreschi dell'Arena e quelli di S. Croce. La Madonna di Ognissanti non si ricol­lega alle Storie della Madonna di Padova: tanto meno ad Assisi. :E utile a questo proposito esaminare il tondo con la Ma­donna, che non sarà forse tutto di mano di Giotto·, ma ne riflette molto da vicino il mom,ento stilistico, della Chiesa supe­riore di Assisi, e il tondo, pure con la Madonna e il Bambino, nella volta della Cappella dell'Arena. Ad Assisi la Madon­na posa leggermente di trequarti, ma il

l.t) Circa la datazione degli affreschi Bardi si sono cercati vari arzigogoli documentari per vedere di attri­buirli circa al 1318: ma il solo argomento valido per sta­bilire un termine post quem della datazione è il fatto che vi sia rappresentato S. Luigi di Tolosa canonizzato nel 1317. Ciò che non deve affatto far ritenere che l'anno (Iella esecu-

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Bambino, raffigurato di profilo, è conte­nuto nel piano della parete, come il profilo

. di una medaglia, e finisce per riportare in piena frontalità tutto il gruppo; cosicchè non è raggiunto quel maggiore aggetto della Madonna che proprio stava all'ori­gine dell'imposto in tralice. Nella Madon­na di Padova la frontalità torna assoluta e il chiaroscuro, assai denso, cerca di por­tare avanti l'immagine che resta tuttavia di scarso rilievo plastico e come un po' af­fumicata. Nella Madonna di Ognissanti il problema dell'imposto frontale e del ri­lievo plastico è ormai risolto in ben altro modo. La Madonna siede di fronte, ma il busto si dispone un po' di sbieco e la faccia risolutamente di trequarti: a ce­mentare l'unità plastica, la tunica forma decise pieghe diagonali che segnano, per cosÌ dire, la direttrice del movimento, e, pur senza gravi accentuazioni chiaroscu­rali, acquistano grande intensità plastica, a contrasto come sono del manto nero che cade quasi a piombo. E la testa, in­clinandosi sulla spalla asseconda il mov;­mento avvolgente delle pieghe del manto, che, col lembo di sinistra, si dispone in una curva concentrica alle pieghe del bu­sto. CosÌ la continuità plastica è cemen­tata e il contorno della figura può ridursi a sinistra quasi ad una rigida verticale senza che sia intaccato o diminuito il ri­lievo. E se già nella Madonna di Assisi lo sguardo si rivolgeva in fuori, come a compensare lo spostamento della spalla verso il fondo, nella Madonna di Ognis­santi il taglio dell'occhio perde di rigi­dezza, e le palpebre s'inflettono e s'allun­gano assecondando plasticamente l'incur­varsi delle tempie; perfino la sporgenza del naso è attenuata, e il volto ne risulta leggermente camuso, per mantenere più

zione della Cappella coincida o press'a poco con quello della canonizzazione del Santo. Tutte le altre pietose con­siderazioni, dal Guasti al Supino, sul culto professato dai , « due rami della nobile famiglia» per il Santo vescovo di Tolosa sono assolutamente ~eneriche rispetto alla data­zione degli affreschi. (Cfr. SUPINO, op. cit., p. 211 e sg.),

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T.w. VII.

Fig. 15. GIOTTO: Esequie di S. Francesco. Firenze, S. Croce.

Fig. 16. GIOTTO: Assunzione di S. Giovanni Evangelista. Firenze, SanI a Croce.

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TAV. VIII.

Fig. 17. GIOTTO: Apparizione di S. Franc~seo in Arles. Firenzt' . Santa Crocc.

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intatta e chiusa la maschera ovoidale. Ma tali elementi, una volta rilevati non pos­sono aiutare a riferire la Madonna di Ognissanti al periodo che sta fra Assisi e Padova, quando si deve riconoscere che il medesimo probleD1a plastico presente e irresoluto nella concezione dell'artista tan­to ad Assisi che a Padova, solo nella Ma­donna di Ognissanti appare centrato e ri­solto. Nè la spazialità delle Storie della Madonna si accorda con la spazialità della Madonna di Ognissanti, in cui la conti­nuità plastica degli ordini inferiori del­l'Arena, fa ora un altro decisivo passo: non solo registrato in quella volontà di sopprimere fin l'aggetto troppo deciso del naso, senza indietreggiare perciò neppure da un effetto edonisticamente spiacevole, ma altrettanto chiaro nella disposizione degli Angeli. Solo quattro delle quattor­dici figure ai lati del trono risultano di profilo, e sono i quattro Angeli più vicini a chi guarda, e che, come già le donne viste di schiena nella Deposizione di Pa­dova, risultando prossime, tangenti quasi al piano del quadro, si schiacciano per non esorbitarne. Le altre figure appaiono leggermente di trequarti, quel tanto per­chè la linea di contorno possa con un an­damento curvo e meno frastagliato sug­gerire la plastica convessità dei volti, e anche quel tanto che basti per dilatare illusoriamente, con la disposizione radiale, lo spazio intorno al trono senza creare i vuoti che Giotto evitava come interruzio­ni nella continuità plastica. Inoltre si os­servi che le aureole sono tornate frontali, come poi a S. Croce. Cosi, mentre i dischi delle aureole abbassano altrettanti piani che si richiamano alla superficie del qua­dro e che accuratamente indicano la suc­cessione delle figure, la disposizione radiale ? non prospettica costringe lo spazio ad marcarsi per successivi strati concentrici . , con ~ quali i piani passanti per le aureole funzIOnano come da corda di un arco. E nel momento stesso che la composi zio-

a

ne si rinserra e si concentra elasticamen~ te, senza dispersioni spaziali, si conclude l'equilibrio delle forze di una dinamica in­terna, che toglie ogni possibile inerzia agli aggruppamenti posti ai lati del trono: gli aggruppamenti congestionati e statici del­la Incoronazione Baroncelli.

Una tale raffinata spazialità stabilisce evidentemente una progressione persino dagli ordini inferiori dell'Arena: attesta ancora maggior distacco dalla visione na­turalistica di uno spazio separato, auto­nomo, avvolgente, rispetto agli oggetti o alle persone che contiene: Giotto perce­pisce, e sempre più distinto, un continuum, nel quale dal paesaggio alle .architetture alle persone non esistono soluzioni ma so­lo pause, cesure ritmiche.

Se per altro rispetto all'Arena si vuole ancora una riprova, si esamini la figura della Giustizia a Padova, che per l'ap­punto siede di fronte e in un trono eguale, . se anche un po' più semplice, a quello della Madonna d'Ognissanti. Tra i tanti capolavori di quei monocromi rimane la figura più inerte, nè la ricchezza dei par­titti di pieghe serve a darle quel risalto plastico che ha, con tanta 'maggiore sem­plicità e unità di massa, la Madonna degli Uffizi: in questa, al raccordo del manto col gradino del trono l'artista ha tagliato netto, contentandosi di far salire, con un suggerimento di spirale, il lembo del man­to da sinistra a destra, ossia in direzione diversa dalle pieghe del torso. Non sembra fosse possibile, e nemmeno a Masaccio riuscì ad andare oltre, conferire maggiore granitica compattezza ad una figura, la cui imponenza non veniva cercata con l'accentuazione di effetti di statuaria, ma anzi con una plastica raffinata che tende sempre a schiacciare e ad uniformare il rilievo, fino a portare la sporgenza del ginocchio e del seno quasi ad uno stesso livello, pur senza appiattire i volumi. N el­la Giustizia invece, anche con l'artificio della doppia cintura che segna graficamen-

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te l'arretrarsi progressivo del rilievo dalle ginocchia al busto, la continuità plastica è cercata ma non raggiunta. E allora, poi­chè tali rilievi rientrano naturalmente nel­la fase dello stile giottesco che da Padova conduce a S. Croce, non ci sarebbe ragione, in mancanza di un irrefragabile documen­to, di non teneme conto nella datazione.

* * * Negli affreschi della Cappella Peruzzi,

per quanto adulterati dalle ridipinture, .che li hanno resi torbidi e bambagiosi" si riconosce il proseguimento e l'approfondi­mento della complessa struttura spaziale della Madonna di Ognissanti. Se per al­tro la fase finale e conclusiva di Giotto deve vedersi negli affreschi Bardi e nel Campanile, gli affreschi Peruzzi attestano, mantenendo altissimo il livello, il col1ega­mento con le esperienze figurative che avevano culminato negli ordini inferiori di Padova e nella Madonna di Ognissanti. N el modulo maggiore degli affreschi, in una più lata stesura delle composizioni, il ritmo plastico diviene meno serrato, ma non si frange, snodandosi con raffina­ta gradualità di passaggi, e sorretto da , . . un UlvenzlOne sempre nuova e sorpren-dente, nei nessi, nei giunti, nelle articola­zioni. Nella Danza di Salome il padiglio­ne aperto, specie di dilatato ed esile ci­borio amolfiano, non crea nessun vuoto effettivo, non dissolve con l'immissione di una massa atmosferica isolante la conti­nuità plastica: ciò che è ottenutù, non solo istituendo in parallelo alla colonna il raddoppio lineare all'infinito della ri­gata stoffa orientale, che è stesa, tirata senza drappeggi; ma proprio col rincrocio di tutte le orizzontali della tavola, dei gradini, che incessantemente ricollegano una parte all'altra, riportando la profon-

1&) Sulle ridipinture degli affreschi Bardi, innegabili e per altro non cosÌ totali da eludere ogni 'giudizio sull'opera, cfr. J. Gy·WILDE, Giotto-Studien in Wiener Jahrbuch,

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dità in altezza, l'altezza in lunghezza, in una continua equazione delle tre dimen­sioni al piano della parete. N ella Resur­rezione di Drusiana Giotto non esita a disporre i piani delle mura a spezzata con1e gli elementi di un paravento, otte­nendo cosÌ di riavvicinare il piano di fon­do a quello della parete. I numerosi spi­goli avanzano, posti in evidenza, attirati dalla luce, quasi più delle figure, e le premono le assiepano. E donde trae mo­vimento drammatico, una tale composi­zione, apparentemente statica, se non da questa specie di trascendentale gioco di specchi, che si inclinano, si rimandano, si moltiplicano? I suggerimenti prospettici si elidono l'un l'altro: resta la poderosa organatura plastica.

Nell'Assunzione di S. Giovanni Evan­gelista la regolarità ritmica di scansione, data dalla impalcatura architettonica, è il più diretto anticipo sugli affreschi Bar­di: la ricerca, non solo di continuità pla­stica, ma di assoluta omogeneità spaziale. Qui, come nell'altro affresco con la Na­scita, le rigide partizioni architettoniche stabiliscono diaframmi, momentanee chiu­se, che senza costituire frattura, allargano, per cosÌ dire, i tempi, raffrenano qualsiasi concitazione narrativa.

* * * L'Assunzione dell'Evangelista introdu­

ce agli affreschi di S. Francesco deUa Cap­pella Bardi: 15) nel più solenne di questi, con le Esequie di S. Francesco, l'ordinan­za è divenuta ancora più simmetrica e bilanciata. Il fondale divide in battute eguali la stesura completa delle figure: l'effetto di superfici convesse, ribassate, che si notò chiaramente nelle donne della Deposizione dell'Arena, si estende siste­maticamente a tutte le figure: le quali

N. S., VII (1930), p. 45 e sg. e U. PROCACCI in Rivista d'Arte 3719 (n. 3-4) p . 377-389.

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sono impostate in modo da affiorare,per cosÌ dire, nei punti di maggiore emergen­za come ad uno stesso livello, a raso del piano della parete. Il pittore non ha più bisogno di sforzare leggermente le figure per porle tutte frontali, come nella Depo­sizione dell'Arena, in modo che offrano maggiore e più compatta massa, ma rie­sce ad ottenere queste unità locali di mas­sa anche nelle persone viste di profilo, riassorhendo le emergenze. Si veda come si serve degli ampi maniconi per far rien­trare, ritirare, quasi insensibilmente, gli arti entro il grande cono schiacciato della figura; e si noti il saio che ricade sui piedi dei frati visti di tergo, e colma l'incavo alla piegatura del ginocchio. Dovunque i vuoti improvvisi, le pur inevitahili frat­ture fra tante masse verticali avrehhero finito per interrompere la continuità della composizione, interviene la sensibilità del­l'artista con finissimi accorgimenti, affin­chè il fondo non si distacchi troppo dal piano della parete, nè si creino disconti­nuità, evasioni spaziali. CosÌ le due pareti ai lati, che pure impostano una prospet­tiva (con rigida convergenza al centro), vengono perforate da due porte, perchè il diedro che formavano con la parete della Cappella, lasciato con le facce lisce, avrebhe accentuato troppo la profondità dell'incasso nel muro, che pure suggeri­Scono: infatti la funzione di quelle due porte non è di far sentire spazio anche al di là del chiostro, ma di distendere orizzontalmente, in parallelo al piano del­l'affresco, l'intradosso dell'arco, e nel vano della porta sostituire alla parete squincia quel fondo neutro che cade a piombo e frontale come una tenda: la lista hianca dello stipite interno forma scalino dal pia­n? dell'affresco al piano di fondo e impe­dIsce una fuga prospettica troppo celere, la formazione di una profondità accentua­ta; oltre che quella striscia scura, della stessa larghezza del vessillo viene a neu-

. tralizzarne la decisione d'im~osto prospet-

tico, come facendolo rotare sul piano. Chi volesse ancora vedere, in questa hilanciata costruzione spaziale un preludio alla pro­spettiva del Rinascimento, fraintendereh­he in pieno tale assunto stilistico di Giotto, il quale ha accentuato l'imposto prospet­tico, estendendolo non solo all'inquadra­mento architettonico ma a tutti i volumi raffigurati, solo per potere ottenel"e uno spazio omogeneo che presentasse una pro­fondità costante, e, una volta datane l'indicazione, è poi tornàto a ridurre al minimo la profondità che aveva ottenuta, con quella trovata delle due porte late­rali, che tagliano la veloce fuga delle pa­reti, risolvendola in una stratifÌcazione di piani paralleli, a similitudine dei gradini di una scala.

N elI' Apparizione in Arles la scansione regolare della parete semhra addirittura dividerla in tante valve, come un polit­tico. Quelle sottilissime lesene hanno pri­ma di tutto l'ufficio di individuare con rigore geometrico il piano del muro: piut­tosto che pilastri semhrano esili cerniere e restano perciò relative al solo piano su cui giacciono. Contro queste cerniere le ampie schiene dei frati si succedono a stretto contatto, realizzando un'ondula­zione plastica della più grande uniformità, accentuata perfino da quei cappucci tirati su, che evitano il frazionarsi delle tonsu­re, ossia un appiglio descrittivo a cui dif­ficilmente un pittore, meno essenziale di Giotto, avrehhe rinunziato. Ma qùella uni­forme schidionata di frati riceve un ritmo diverso dalle sottili lesene, e la ripetizio­ne, per la nuova accentuazione, perde di colpo l'uniformità. Avviene come per le parole che compongono un verso: l'accen­to ritmico, pur mantenendo inalterato l'ac­cento tonico di ogni parola, crea una uni­tà nuova.

Tuttavia i) continuum plastico sarehhe stato interrotto in alto, senza le figure dei conventuali: questi fanno, per cosÌ dire, peduccio, ripetendo approssimativamente

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uno schema d'archi intrecciati: e si noti che Giotto ha posto i frati in nero in se­condo piano e su un fondo chiaro, ciò che potrebbe parere contrario alla sua inten­zione di non rompere la modulazione pla­stica, e invece la conferma, perchè quei triangoli scuri avanzano verso chi guarda, colmano esattamente gli interstizi fra gli osservanti, aiutando ad avvicinare il pia­no di fondo a quello della parete; cosic­chè mentre individuano ad una ad una: pur cosÌ anonime, le figure degli osser­vanti, come con un controfondo, servono poi a collegarle l'una con l'altra, allo stes­so modo che in una stoffa operata il luci­do vien fatto risaltare sull'opaco. Altret­tanto significativo è l'imposto della figura di S. Francesco, contenuta nel piano che individua l'arcata di fondo: dietro a que­sta si inserisce ancora un terzo piano ver­ticale, che elimina la vibrazione indefinita di un fondo color cielo. Donatello quando vorrà in modo non pittorico, ma esatta­mente plastico, indicare una successione di piani, nel Convito di Erode, non ricor­rerà ad un impianto diverso.

N ella Rinuncia agli averi sarebbe erro­neo interpretare i movimenti prospettici divergenti come un tentativo «inesperto ancora» di aprire uno spazio più vasto, poichè le linee diagonali, che si vedono tracciate sopra le figure, non hanno signi­ficato diverso di quell'apparente discor­danza di ritmo che si poteva rilevare nel­l'Apparizione in Arles e che invece si è riconosciuto costituire quel che l'accento ritmico è rispetto all'accento tonico delle parole di un verso.

N ella Rinuncia lo spigolo cade su S. Francesco e serve ad individuarlo, al­l'occhio, assai più dell'aureola; d'altronde .i due cortei, cosÌ compatti e nello stesso tempo articolati plas ticamente contro il fondo, si dispongono di qu~ e di là sotto gli spioventi della cornice marca piano del palazzo come sotto le ali di un frontone: ed ecco annullato l'effetto prospettico e

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ricondotta frontalmente la successione pla­stica. Si potrà riconoscervi allora, attuato con maggior vigore, il principio delle dire­zioni prospettiche contrastanti che sugge­riva il fantasioso gioco di specchi della Resurrezione di Drusiana.

Due particolari sembrerebbero per al­tro contraddire a questo definitivo re sul­tato stilisti co degli affreschi della Cappel­la Bardi, la fusione di un'assoluta omo­geneità spaziale e della continuità plasti­ca: i particola,l'Ì accennati sono le aureole frontali e le ombre portate.

Sulle aureole frontali, si è già fatto cenno per la Madonna di Ogniesanti, nella quale tuttavia costituivano più un riferi­mento costante al piano del dipinto che una efficace indicazione di piani prospet­tici. Ma la ragione per cui tanto ad Ognis­santi che a S. Croce Giotto ritorna alle au­reole frontali, dopo avere usato aureole in scorcio alla Cappella dell'Arena, è intima­mente connessa con l'accentuarsi dell'indi­rizzo plastico. Le aureole in scorcio erano legate ad una spazialità, già in nuce più naturalistica, da cui Giotto recede via via che si precisa in lui la necessità di determi­nare plasticamente, in modo sempre più netto, i piani paralleli al piano del dipinto. Le aureole in scorcio creavano direzioni prospettiche spesso contrastanti alle riso­luzioni plastiche frontali che Giotto cer­cava: perciò potè abbandonarle e tornare ai nimbi di fronte che anzi aiutavano a scalare i piani orizzontali, come dischi prospettici indicatori.

N eppure nella Cappella Bardi ritornò alle aureole in scorcio, mentre potè ser­virsi di un altro più diretto imprestito dalla natura, ma sempre a fini non natu­ralistici. Questo imprestito furono le om­bre portate. Molto tempo era passato da quando ne era stato fatto effimero dono alla pittura antica, e i bizantini le ave­vano abbandonate: un altro secolo do­veva passare prima che Masaccio le de­sumesse di nuovo. Potrebbe essere questa

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una dimostrazione schiacciante del natu­ralismo di Giotto? In realtà le ombre por­tate non potrebbero nè aumentare nè di­minuire il naturalismo di Giotto, non com­prendendosi come dovrebbero costituire un imprestito dal mondo fisico più im­portante delle stesse figurazioni vegetali e animali. Acquista per altro un partico­lare significato che Giotto non le usasse nè ad Assisi, dove le masse appaiono più scultoree, le figure più divise dallo spazio ambiente, più decisi gli sbatti menti di lu­ce: nè a Padova, dove potevano parere correlative alle aureole in prospettiva; nè a Firenze stessa, negli altri affreschi Pe­ruZZJ.

Proprio nella Cappella Bardi, dove il suo stile acquista la più rigorosa e siste­matica continuità plastica, dove la lumi­nosità è invadente e finisce per attrarre su uno stesso piano tutte le superfici, ap­paiono le omhre che dovrehbero segnare netti distacchi e distruggere ogni conti-­tinuità creando delle zone di pausa, dei divisori cromatici. Ma non succede nulla di tutto ciò. N elle Esequie le ombre por­tate hanno un ufficio chiarissimo: intanto di colmare il vuoto sotto la lettiga, indi­cando allo stesso tempo e lucidamente il succedersi dei piani. Inoltre, la netta obli­qua segnata dall'ombra, poichè non pro­duce convergenza in un punto, invece che

16) Un generico influsso senese non fu negato dal Toe­sea (La PiuurafiorentiTl4 del Trecento, Firenze, 1929, p. 40) ma vi si è opposto il Cecchi (op. cit., pp. 108-109) il quale afferma con troppa decisione, visto l' assolu to silenzio do-

stabilire una prospettiva definita e fare arretrare il piano di fondo, agisce come da tirante al fondo stesso, che avanza, è attratto verso la parete: proprio perchè razionalmente l'ombra segue il cammino inverso. 16) Con ciò diminuisce ancora il vo­luto spessore minimo fra il piano di fondo e la parete, e il rilievo delle figure perde del tutto l'aggetto: niente di meno scul­toreo, niente di più plastico. CosÌ le om­bre portate, inserite nell' aff.resco non come documentazione naturalistica, rien­trano nella formula spaziale giottesca, nè possono rilevarsi, se non per arbitraria analogia, con significato diverso: tanto che nell'unità bloccata dello stile di Giot­to passarono inavvertite e nessuno dei contemporanei riuscì a desumerle e a ser­virsene per abbellire, con tale peregrina trovata, le sue pitture. Poi, quando ri­compaiono in Masaccio, sono tutt'altra cosa. Chè perfino nella rigida astratta li­nearità con cui sono segnate dichiarano la loro essenza; non riproducendo forme precise, ma segnando direzioni, collega­menti, come i raggi luminosi del Cristo delle Stigmate, i qufÙÌ non ottengono al­cun effetto prospettico, ma restano simili a fili tesi che sostengono, spazialmente, il Cristo, come la corda di un aquilone: at­tirandolo, quindi, verso chi guarda.

(Continua) CESARE BRANDI.

cumentario, che (( la Cappella Bardi fu dipinta circa il 1317-18 ». Circa lo stile di Ambrogio Lorenzetti può ve­dersi il mio saggio in Critica d'Arte, 1935, p. 61 e sg.

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